Auroville o l'utopia del progetto

Francesca Farruggia

Aurovil le o dell’utopia del progetto

In copertina: Gordon Matta Clark, OFFICE BAROQUE, 1975 - 1977 Colour photographe, cibachrome 101,5 x 75,6 cm

Francesca Farruggia

Auroville o dell’utopia del progetto

Tesi di Laurea Magistrale in Progettazione Urbana Relatore Prof. Giovanni Caudo

A.A. 2018-2019

Alle nuove generazioni, che non smettano di sperare in un futuro migliore.

Indice del volume

Premessa

1.

1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7

2.

2.1 2.2 2.3 2.4

3.

3.1 3.2 3.3

4.

4.1 4.2 4.3

13

Auroville , un’utopia che diventa realtà

Un sogno da realizzare La forma della città La Governance Un’economia in comune Un-ending education for a youth that never age Una comunità tra pòlis e civitas Una lezione sull’utopia e il progetto

20 26 36 38 39 42 44

L’utopia e la funzione del pensiero utopico

L’utopia oltre il genere letterario Genesi e sviluppo della tensione utopica Utopia e Ideologia nella dialettica della realtà sociale Cosa si cela dietro l’utopia

52 55 59 61

Il progetto come utopia

La pratica progettuale Il ruolo dell’utopia nel progetto architettonico L’utopia come infra

66 70 73

Dispositivi utopici

La Cabinedda, oltre la funzione FRAC NORD Pas-de-Calais, quando il limite diventa una risorsa Like a Rolling Stone, una proposta radicale contro l’individualismo

78 81 85

Conclusioni

90

Bibliografia

94

Apparati

APP.1 Le voci di Auroville APP.2 Abitare ad Auroville

98 123

«È molto di più e molto più importante ciò che gli esseri umani hanno in comune, di quello che ognuno tiene per sé e lo distingue dagli altri.»

Hermann Hesse

Premessa

Il tema del laboratorio di progettazione che ho sostenuto all’Università di Stuttgart con l’architetto Anupama Kundoo, era la progettazione di un complesso residenziale nella Line of Goodwill, ad Auroville. Tutto è cominciato allora…

Auroville è una città che è stata fondata nel 1968 nel sud dell’India con l’intenzione di concretizzare un’utopia: far nascere quella che loro chiamano l’unità umana. Oggi ci sono più di 3.000 persone che inseguono questo sogno, e che tentano di realizzarlo sperimentando forme abitative alternative a quelle a cui siamo abituati. Alla sua fondazione c’era infatti un masterplan che traduceva in termini spaziali la società ideale che doveva prendere vita, all’architettura era pertanto stato affidato un ruolo chiave sin dal principio.

Nel dover fare un progetto per questo luogo è pertanto venuto spontaneo chiedermi quale fosse il ruolo della disciplina, e quale la sua influenza, all’interno di una società che reclama il cambiamento, e che tenta di generarlo a partire dall’abitare. Sono allora partita alla scoperta di quel luogo per trovare le risposte, affascinata da un’utopia che chiamava in causa l’architettura come suo principale strumento di realizzazione. Nei mesi trascorsi ad Auroville, osservando da vicino quell’utopia è poi emersa la necessità di esplorare il rapporto che sussiste tra l’utopia e il progetto, per poter comprendere se e in che misura si può

esercitare una tensione fertile tra questi due elementi, il che mi ha portato a domandarmi: si può dare un progetto architettonico senza che in questo si eserciti e lavori una tensione utopica?

Nel tentare di trovare una risposta a questa domanda, quello che ho scoperto è che l’uso corrente della parola utopia è per lo più improprio, tanto da impoverirne, se non proprio annullarne le sue potenzialità. La tesi che cercherò di argomentare nelle pagine seguenti vuole affermare la necessità di esercitare il pensiero utopico nella pratica progettuale così da stabilire quella tensione, che dimostrerò essere essenziale ai fini non solo della disciplina, ma anche del nostro abitare. Scriveva Vittorio Gregotti in un editoriale di Casabella del ’84 che «negli ultimi anni gli “utopisti architettonici” sono divenuti una merce rara e piuttosto fuori moda». Il tono non era né augurale né tanto meno funesto ma aperto ad una riflessione sul senso dell’utopia in architettura che si conclude con una citazione di Karl Mannheim che recita: «la scomparsa dell’utopia porta ad una condizione statica in cui l’uomo non è [niente di] più che una cosa. Un paradosso inimmaginabile: l’individuo, che ha conseguito il massimo livello di conoscenza e di controllo della realtà, rimane infine senza ideali e diviene pura natura impulsiva. Così dopo un lungo e tortuoso ma eroico sviluppo, giunto al punto più alto di consa13

pevolezza, quando la storia cessa di essere un cieco destino e sempre più diviene una nostra creazione, l’uomo verrebbe a perdere ogni volontà di dare un senso alla storia e, pertanto, ogni capacità di intenderla».

Auroville è un’utopia in tensione: è tanto reale quanto irrealizzata. Nasce da un ideale, forte a tal punto che molte persone lo perseguono da più di cinquant’anni. La promessa è costruire una società nuova, basata sui valori dell’uguaglianza, del rispetto della diversità, del diritto alla casa e ai beni di prima necessità, del lavoro come espressione dell’essere, dell’educazione come crescita individuale senza fine e del rispetto dell’ambiente. Dalla sua fondazione ad oggi conta una popolazione di 3.000 abitanti, e nonostante le difficoltà che questa scelta implica, anno dopo anno, sempre più persone decidono di prendere parte a questa utopia.

“Utopia” è un termine coniato da Thomas More nel suo famoso testo dal titolo omonimo del 1516.

More compone questa parola adducendole un duplice significato in quanto utopia deriva sia da uo-topos, dove la particella greca ou- ha accezione negativa, che da eu-topos, poiché uo- viene pronunciata in inglese con lo stesso suono della particella eu- che ha valenza positiva e significa bello, buono, indicando così allo stesso tempo un nessun-posto e un buon-posto. La duplice 14

accezione di questa parola determina quindi un ideale etico-politico che non ha luogo nella realtà, ma la cui figurazione può avere una funzione stimolatrice nei riguardi dell’azione, nel suo porsi come un orizzonte possibile, per contrasto e critica di un’istituzione vigente. Sono insoddisfazione e speranza che spingono l’uomo ad oltrepassare i limiti imposti dalla realtà e a formulare un’utopia come ricerca di una soluzione.

L’utopia in prima istanza muove infatti dall’insoddisfazione dell’esistente. Auroville può essere letta come risposta alla crisi ideologica dell’occidente, e, non a caso, nasce durante il culmine di una rivoluzione sociale, quella del ’68, in cui tutti i valori tradizionali sono stati messi in discussione, ed ognuno è alla ricerca della propria Utopia dove rifugiarsi.

Dove c’è distruzione c’è creazione, ed è stata forse questa enorme carica distruttiva, che ha investito il XX secolo, a permettere la nascita di questo luogo, uno dei tanti in quel periodo, che ha dato vita ad una comunità che accoglieva tutti coloro che volevano realizzare il sogno di costruire una società nuova.

L’utopia ha tentato di spogliarsi della sua particella oue di dare luogo a quell’eu-, cercando di farsi realtà, e proprio in questo processo è possibile comprendere il suo agire e la sua funzione. L’esperienza di Auroville, mostrandoci il limite dell’utopia di non conoscere ciò che sarà, perché l’ultima parola spetta sempre alla storia, ed allo stesso tempo il suo potenziale di anticipare

ciò che dovrebbe essere, perché costruita su un desiderio che presto o tardi trova soddisfazione, ci insegna che il suo scopo fondamentale è quello di stabilire una tensione in grado di orientare l’agire di “oggi” per dare forma a un “domani” sempre più prossimo alle nostre speranze. Non è tanto il topos dell’utopia a doversi realizzare, Thomas More ha appositamente assegnato quella duplice valenza eu/ou affinché rimanesse su un piano ipotetico. La negazione ou-, per cui oggi intendiamo l’utopia qualcosa di irrealizzabile, serve piuttosto ad indagare ciò che ha possibilità di avverarsi, mettendo in discussione l’ordine del presente. More non sperava che Utopia diventasse reale, questa serviva solo da contesto per dare luogo a quell’eu- di cui voleva denunciare l’assenza, così da catalizzare l’azione verso un cambiamento che l’avrebbe colmata.

Il pensiero utopico agisce non a caso parallelamente alla storia, tante delle speranze e aspirazioni hanno poi trovato concretezza nella realtà. L’utopia è allora quel luogo in cui collocare i nostri desideri e le nostre speranze che deve stimolarci affinché un giorno si avverino. Vista in quest’ottica l’utopia è il presupposto di qualsiasi progetto poichè progettare altro non è che un insieme di azioni volte a mettere in atto la soddisfazione di un desiderio. Potremmo quindi sintetizzare che, se l’utopia è il luogo dei nostri desideri, l’immagine di come dovrebbe essere la realtà, allora quell’immagine è proprio il progetto, che genera una serie di azioni

tese verso ciò che dovrebbe essere l’esistente. L’uso del condizionale è necessario a far comprendere come il progetto sia quell’immagine ideale che nella realtà si tende ad approssimare, pertanto ogni progetto è sempre un ciò che dovrebbe essere la realtà (come vedremo più avanti), ma perché questa generi una tensione propriamente utopica la realtà del progetto deve essere quell’eu-topos di cui si ha bisogno perché al momento è ou-topos.

Le questioni che hanno portato al tramonto dell’utopia e ad un suo quasi totale abbandono riguardano principalmente l’idea dell’eu-topos, ovvero del concetto di bene di cui l’utopia si fa manifesto. Chi può stabilire cosa sia bene e cosa no? E come potrebbe giustificarlo? Poiché non è possibile dimostrare razionalmente se un ideale sia giusto o meno, sembrerebbe non ci sia altro modo che ricorrere alla violenza per far valere la propria ragione, come sostiene Popper che ritiene infatti che l’utopia generi violenza. Ma se invece l’utopia venisse intensa come negazione di ciò che dell’esistente è causa di sofferenza? Allora quel bene sarebbe definito attraverso un processo per eliminazione di quello che bene certo non è. Tale azione potrebbe quindi essere descritta paradossalmente proprio dallo stesso Popper con la frase: «agisci per l’eliminazione dei mali concreti piuttosto che per realizzare dei beni astratti», che Lui usa invece come critica all’agire dell’utopia. Questo bene, d’altra parte, diventa 15

ideologico o utopico a seconda di chi lo sostiene, il che riduce tutto a una lotta tra chi vuole mantenere lo stato delle cose (ideologia) e chi vuole stravolgerlo (utopia), una lotta che mette in moto la storia, e senza la quale ci ritroveremmo in uno stato di immobilità.

Il secolo breve ha visto un acceso dibattito sull’utopia, soprattutto a causa degli eventi drammatici avvenuti proprio in suo nome, e filosofi come Bloch, Mannheim, Marcuse, Popper ed altri hanno preso parte ad una discussione tutt’oggi ancora in atto che vede uno schieramento tra chi considera l’utopia pericolosa perché, in nome di un ideale, porta alla violenza, e chi invece la considera essenziale ad un’evoluzione positiva della storia. Oggi sono sempre di più le tesi che invocano ad una riscoperta dell’utopia. Secondo l’opinione di alcuni, il pensiero utopico ci accorre in aiuto nei momenti drammatici per superarli, come sta accadendo oggi che siamo di fronte ad un collasso ecologico per cui dobbiamo mettere in discussione il nostro stare al mondo e trovare delle alternative. Auroville, nel suo essere un laboratorio sociale nato da un’utopia è un modello dal quale possiamo apprendere gli effetti dell’utopia ed il suo uso. Henri Lefebvre scriveva nel suo libro Diritto alla città che “l’utopia va considerata sperimentalmente, studiandone sul terreno implicazioni e conseguenze”2, e questo è ciò che in fondo, consapevolmente o meno, sta accadendo ad Auroville.

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Osservare quel luogo ci aiuta inoltre a capire come quella tensione verso ciò che dovrebbe essere propria dell’utopia si traduce nel progetto, Auroville è un progetto di società, e ogni azione che la costituisce tende verso quella visione utopica per cui ha preso vita. Quando è stata fondata si pensava che in pochi anni avrebbe raggiunto i 50.000 abitanti, ne sono passati 51 di anni e la popolazione supera appena i 3.000.

Questo richiama alla mente che la realtà può essere solo un’approssimazione a qualsiasi utopia, per cui ciò che è reale è sempre la tensione utopica e mai l’utopia stessa. La stessa cosa vale per il progetto architettonico che, come dice Rem Koolas in Delirius New York, «[…] non può prevedere le crepe che si apriranno in futuro; esso descrive uno stato ideale a cui ci si può soltanto approssimare»3. Il progetto è quindi per sua natura una tensione verso ciò che dovrebbe essere, al di là se la tensione sia utopica o meno. L’oggetto architettonico che prende forma nel mondo reale è infatti un riflesso dell’immagine costruita tramite il progetto, ma l’abitare che tale oggetto accoglierà non è dato conoscerlo, è solo prevedibile, e solo la storia potrà raccontarlo.

L’architettura necessita di quell’immaginazione utopica che, essendo decentrata rispetto la realtà, se ne distanzia criticamente, divenendo un elemento costitutivo della realtà sociale e del suo rinnovamento a partire dalla realtà sociale stessa. «Nessun gesto progettuale nel campo della creatività può sottrarsi ad

essere insieme utopico», diceva Gregotti sempre in quel editoriale di Casabella del ’844 di cui si accennava prima, se così non fosse il progetto piuttosto che porsi come elemento di discontinuità con la realtà ne diventa sua logica conseguenza, e la forma diventa, sempre citando Gregotti, «automatica risposta a ciò che già esiste»5 invece di essere quel nuovo che arricchisce il nostro universo dell’abitare. E’ il rischio dell’insostenibile immanenza del presente, di una realtà che sembra impossibile da cambiare.

Tafuri a proposito, in Progetto e Utopia, apre una interessante riflessione sulla capacità di autonomia dell’architettura 6, considerando ideologica ed asservita alle logiche del capitalismo quell’architettura che pretende di risolverne le contraddizioni. Nel titolo, sostiene Purini, « […] la congiunzione “e”, sembra legare il progetto e l’utopia in una relazione obbligata; come se, progredendo dal primo al secondo termine, si determinasse una equivalenza assoluta. Prevedere un’azione architettonica futura comporterebbe quindi un’accelerazione del progetto verso tematiche estreme. Ma spingersi in paesaggi progettuali lontani e impervi non risponde a un desiderio di evasione da una realtà sempre più inafferrabile né alla semplice volontà di sperimentare soluzioni architettoniche ardite e innovative[…]. Come insegna l’esperienza di Le Corbusier ad Algeri […], il progetto è sempre

utopico, e in ciò va riconosciuta non tanto una qualità positiva quanto una tonalità tragica, che lo attraversa plasmandone la struttura.» 7 Lasciando fuori la questione politica, la questione che avanza Tafuri affronta un tema che credo l’architettura debba porsi in quanto pratica artistica che ha il suo significato nell’essere per, e che pertanto le comporta un’innegabile responsabilità nei confronti dell’uomo e della società. L’architettura dando forma all’abitare è già un abitare, come ci dice Heidegger 8, per cui non deve essere soggetta a logiche che non siano strettamente le logiche della disciplina. Come sostiene Gregotti: «se la scienza ha il compito di indagare le cose come sono, l’arte deve invece pensare alle cose come potrebbero o dovrebbero essere» 9. Il pensare dell’arte è pertanto un pensare utopico nel dare luogo ad un eu-topos, e così dev’essere per l’architettura, perché se il progetto perdesse la sua tensione utopica, non parteciperebbe più del rinnovamento della realtà della disciplina e di quella sociale di cui è responsabile.

Se vogliamo invece che torni ad essere quella «visone di un ambiente ricostruito che serva meglio di quello attuale, la natura e gli scopi dell’essere umano che vi abita, e non sia solo più adatto alla sua natura attuale, ma più adattabile ai sui possibili sviluppi»10 è necessario recuperare il rapporto tra utopia e progetto per complessificare la tensione 17

verso ciò che dovrebbe essere attraverso l’assunzione di una volontà utopica basata sul confronto con l’esistente.

Soltanto prendendo le mosse dalle condizioni oggettivo-materiali è possibile radicare l’utopia nel terreno storico-sociale, così da inserirsi nella dialettica della storia, attribuendo “oggi” una prospettiva all’azione che costituisce un “domani” sempre migliore. Questa è quella che Bloch definisce l’utopia concreta e ciò che per me dovrebbe essere il progetto d’architettura.

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Note 1 Gregotti V., Topos, Casabella 502, Mondadori, Milano 1984 2 Lefebvre H., Diritto alla città, prefazione di Anna Casaglia, Ombre Corte, Verona 2014, pg.105 3 Koolas R., Delirius New York, Electa, Milano 2001, pg.9 4 Gregotti V., Topos, Casabella 502, Mondadori, Milano 1984 5 Ibidem 6 Per approfondimenti vedi il testo di Aureli P.V., Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo, Quodilibet, Macerata 2016, pp. 75-93.

7 Tafuri M., Progetto e Utopia, Tafuri M., Architettura e sviluppo capitalistico, introd. Purini F., Laterza, Lecce 2007, p. IX 8 Heidegger M., in Barison M., in Taddio L., Costruire Abitare Pensare., Mimesis Edizioni, Milano 2011 9 Gregotti V., L’architettura del realismo crititco, Laterza, Roma-Bari 2004, pg.8 10 Mumford L., Storia dell’utopia, introduzione Crispi F., trad. it. di D’Agostino, Donzelli, Roma, 2008, p. 19. Questa è la descrizione che Mumford fa di quella che lui chiama utopia della ricostruzione, che diversamente dall’utopia della fuga ha la capacità di incidere e trasformare la realtà.

CAP. 1 Auroville, un’utopia che diventa realtà

1.1 Un sogno da realizzare

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«Greatings from Auroville to all man of goodwill. Are invited to Auroville all those who thirst for progress and aspire to a higher life1.» Fu in risposta a queste parole, pronunciate il 28 Febbraio del 1968 da una donna francese davanti a una folla di 5.000 persone provenienti da oltre 125 nazionalità diverse e diffuse dalla radio, che in tanti si recarono in India per dare vita al progetto de “la città del futuro”: Auroville, e quella donna era Mirra Alfassa, conosciuta come Mère, la compagna spirituale del filosofo mistico indiano Sri Aurobindo.

Sri Aurobindo, nasce a Calcutta il 15 Agosto del 1872, ma già all’età di 9 anni viene mandato in Inghilterra per essere sottratto all’influenza della cultura indiana e poter crescere secondo la cultura occidentale. Durante il suo soggiorno in Inghilterra, diventa un profondo conoscitore della cultura classica e all’età di vent’anni circa entra a far parte di una società segreta, “Lotus and Dagger”, che ha come intento la liberazione dell’India dall’occupazione inglese.

Nel 1893 torna in India, dove finalmente può scoprire la propria cultura, e parallelamente lottare per l’indipendenza del paese. In questo periodo scrive poemi e commedie, ricopre cariche accademiche e

Sri Aurobindo

Mirra Alfassa

fonda anche un quotidiano, finché non si dedica completamente alla rivoluzione indiana. Nel 1907 viene denunciato per diffamazione e arrestato, ma continua il suo ruolo di leader indiscusso del movimento rivoluzionario. Lavora soprattutto come giornalista e poi nel 1908 fa il suo primo incontro con lo yoga, che lo cambia in maniera profonda. Nello stesso anno viene imprigionato e messo in una cella di isolamento, dove approfondisce i suoi studi yogici. Viene rilasciato nel maggio del 1909 e, poiché non abbandona la lotta per l’indipendenza, un anno dopo è costretto a scappare per evitare di essere arrestato di nuovo. Si rifugia pertanto nella colonia francese di Pondicherry, dove rimarrà fino alla sua morte il 5 dicembre del 1950.

Al riparo dalle truppe inglesi, Aurobindo si dedica alla scrittura e all’approfondimento dello yoga. Tra il 1914 e il 1920 scrive sulla rivista di filosofia Arya, fondata dal francese Paul Richard, in cui pubblica le sue principali opere e spiegala sua visione del mondo.

Il suo pensiero raccoglie e sintetizza la cultura occidentale con quella orientale e chiama a sé un gruppo di discepoli dando vita ad un ashram, una piccola comunità spirituale, nel cuore di Pondicherry.

Insieme a Paul Richard, Aurobindo incontra anche sua moglie Mirra Alfassa, che diventerà per lui Mère (dal francese: Madre), la sua compagna spirituale con la quale perseguire la missione di condurre l’umanità a compiere il passo verso quella che chiamano l’unità umana2.

Mirra Alfassa nasce a Parigi da padre turco e madre egiziana nel Febbraio del 1878. Riceve un’educazione scientifica, ed è attratta dal mondo dell’arte. Nel 1897, a 19 anni, sposa il pittore impressionista Henri Morisset e fino a quel momento non mostra nessun interesse per la sfera spirituale, si dichiara “atea fino al midollo”, seppur racconta che fin da bambina ha avuto esperienze soprannaturali. Le sue avventure con il misticismo iniziano quando nel 1904 incontra il maestro dell’occulto Max Theon, con cui fonda successivamente la sua prima associazione: “Idea”. Pochi anni dopo divorzia dal marito per sposare il filosofo Paul Richard con il quale, nel 1914, si reca a Pondicherry, dove il 29 Marzo ha il suo primo contatto con Sri Aurobindo.

Quando incontra Sri Aurobindo trova in lui il maestro spirituale che aveva incontrato nei suoi sogni e decide di separarsi dal marito per essere al fianco del suo nuovo maestro. Nel 1926, Aurobindo si ritira dalla vita pubblica per dedicarsi interamente ai suoi studi yogici e lascia la gestione dell’ ashram a Mirra Alfassa che diventa così il suo tramite con i discepoli e con il mondo esterno. Nell’ashram veniva messo in pratica quello che loro chiamarono il laboratorio evolutivo, dove si sperimentava una vita quotidiana funzionale alla propria crescita interiore, un esperimento comunitario che serviva ad accelerare il processo evolutivo.

Nel 1964, in occasione di un incontro internazionale 21

della Sri Aurobindo Society3, fu deciso di ampliare l’esperimento con la costruzione di una città universale: Auroville.

Mirra Alfassa scrive allora Il Sogno (che Bloch definirebbe «ad occhi aperti»4) nero su bianco perchè un giorni diventi realtà. Ed è quello che accade quel 28 Febbraio 1968, con la partecipazione di 5.000 persone presenti all’evento che hanno portato in dono la terra del proprio paese per depositarla in un’urna di marmo a forma di loto, simbolo dell’unione per quella che dovrà essere la città dove si svilupperà l’unità umana. Oltre il sogno, una carta dichiara in pochi punti la costituzione della città, ed in fede a questa, uomini e donne da tutto il mondo hanno raggiunto il distretto di Viluppuram, nel Tamil Nadu, per dare inizio ad una comunità intenzionale.

Cerimonia di inaugurazione Auroville 1968

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A cinquant’anni dalla sua nascita, questa comunità, composta da più di 3.000 abitanti provenienti da oltre 50 nazionalità diverse, vive tra il sogno di una società ideale e la realtà di un mondo ancora incapace ad accoglierla. La descrive così uno dei suoi cittadini, Akash Kapoor, nel libro intitolato Auroville, dream and reality, in cui sostiene che «Auroville is not a utopia. […] The community is, as we Auroviallians like to say, a living laboratory: a not quite-yet defined experiment, an incipient society searching for new models of economy, politics, aesthetics, culture»5. Per definizione l’utopia non è realtà, ma Auroville è reale, così come lo sono i suoi abitanti. Non un’utopia quindi, ma un’utopia che si fa realtà.

Il Sogno «Dovrebbe esserci in qualche angolo della Terra un luogo di cui nessuna nazione abbia il diritto di dire: “ E’ mio ”. Un luogo dove ogni uomo di buona volontà, con una sincera aspirazione, possa liberamente vivere come cittadino del mondo obbedendo ad una sola autorità, quella della Verità Suprema. Un luogo di pace, di concordia, di armonia, dove gli istinti combattivi dell’uomo siano utilizzati esclusivamente per vincere la causa delle sue miserie e della sua sofferenza, per superare la debolezza e l’ignoranza, per trionfare sui propri limiti e sulle proprie incapacità. Un luogo dove i bisogni dello spirito e la ricerca del progresso prevalgano sul soddisfacimento dei desideri e delle passioni, sulla ricerca del piacere e del godimento materiale. In questo luogo i bambini potrebbero crescere e svilupparsi integralmente senza perdere il contatto con la loro anima; l’istruzione sarebbe data non per superare esami od ottenere diplomi e sistemazioni, ma per arricchire le facoltà esistenti e farne nascere di nuove. In questo luogo i titoli e le posizioni sarebbero sostituiti da occasioni per servire ed organizzare; si provvederebbe in ugual misura ai bisogni di ognuno e la superiorità intellettuale, morale e spirituale si tradurrebbe nell’organizzazione, non in maggior piacere e potere, ma in maggiori doveri e responsabilità. La bellezza in tutte le forme artistiche (pittura, scultura, musica e letteratura) sarebbe a tutti ugualmente accessibile, essendo la facoltà di partecipare alle gioie che essa dà limitata unicamente dalla capacità di ciascuno e non dalla posizione sociale o finanziaria. Ciò perché in questo luogo ideale il denaro non sarebbe più il padrone sovrano; il valore personale avrebbe un’importanza infinitamente superiore a quello della ricchezza e della posizione sociale. Il lavoro non sarebbe un mezzo per guadagnarsi la vita, ma il mezzo per esprimere e sviluppare le proprie capacità e possibilità, servendo contemporaneamente l’insieme del gruppo che, da parte sua, provvederebbe alle necessità della esistenza e al campo d’azione di ognuno. In sintesi, sarebbe un luogo in cui le relazioni fra gli esseri umani, che di solito sono quasi esclusivamente basate sulla concorrenza e la competizione, sarebbero sostituite da sentimenti di emulazione, di collaborazione e di reale fraternità. La terra non è certamente pronta a realizzare un tale ideale, perché l’umanità non possiede ancora le conoscenze necessarie per capire ed accettare ciò, ne’ l’indispensabile forza cosciente per eseguirlo. Ecco perché lo chiamo un sogno. Eppure, questo sogno è sulla strada per diventare una realtà. E’ esattamente quello che stiamo facendo su piccola scala, in proporzione ai nostri modesti mezzi.

Il risultato è certamente ben lungi dall’essere perfetto, è progressivo: a poco a poco ci avviciniamo al nostro scopo che speriamo di essere in grado, un giorno, di offrire al mondo come un mezzo pratico ed efficace di uscir fuori dal presente caos per rinascere in una nuova vita più vera e più armoniosa.»6

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Auroville Charter • Auroville non appartiene a nessuno in particolare.

Auroville appartiene all’umanità tutta. Per vivere ad Auroville bisogna essere disposti a seguire la Suprema Verità.

• Auroville sarà il luogo di un’ evoluzione senza fine, di un costante progresso e di una giovinezza che non invecchia.

• Auroville vuole essere il ponte tra passato e futuro.

Approfittando di tutte le scoperte esteriori ed interiori, Auroville vuole lanciarsi con coraggio verso la futura realizzazione.

• Auroville sarà il luogo di ricerca materiale e spirituale per dare vita ad una vera unità umana.

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Park of Unity 1968

Pullman di Auroville 1968

Cerimonia di inaugurazione Auroville 1968

Cerimonia di inaugurazione Auroville 1968

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1.2 La forma della città ideale Auroville vuole essere la città del futuro, un modello esemplare di sviluppo per una società ideale. Il suo masterplan è una vera e propria utopia urbana che riflette in termini spaziali l’utopia su cui si fonda questa nuova comunità. L’idea di unità cerca la sua migliore espressione formale attraverso la ricerca dell’architetto francese Roger Anger, incaricato da Mirra Alfassa a disegnare «new forms for a new force»7. Mère aveva consegnato ad Anger il concept di quella che doveva essere la struttura della città: una sorta di fiore a quattro petali, ognuno dei quali rappresenta una specifica funzione urbana. Dopo tre anni di ricerca formale, Anger giunge al disegno definitivo soprannominato “the Galaxy” per la struttura a vortice che ricorda quella di una galassia. L’impianto si genera infatti a partire dal suo centro attraverso “linee di forza” che si muovono secondo un movimento a spirale. Queste linee suddividono la città nelle sue principali aree funzionali: l’area residenziale, quella internazionale, l’industriale e la culturale, che sono però integrate l’una con l’altra, creando così un tessuto complesso ed unico nel suo genere. La città è pensata per ospitare una comunità di 50.000 abitanti su un territorio di 5 Km2, una densità piuttosto alta, soprattutto se si pensa che neppure un quarto della superficie è destinata al residenziale. L’idea è quella di contrastare un’espansione 26

di tipo sprawl risparmiando al massimo il consumo di suolo, con una grande infrastrutture urbana, la Line of Goodwill, dove concentrare le abitazioni organizzate secondo un sistema di spazi pubblici, semipubblici, privati, sviluppati in altezza, come se la città si estendesse in verticale oltre che in orizzontale. La LoG è infatti pensata per ospitare al suo interno sistemi di trasporto, percorsi pedonali, giardini pensili, esercizi commerciali, working space, laboratori, e servizi, dove il limite tra spazio domestico e spazio urbano viene mediato dagli spazi collettivi nell’ottica di un abitare in-comune che privilegia spazialmente il pubblico rispetto al privato, caratterizzato da due tipologie di cellule abitative rispettivamente di 30 e 75 mt2.

Nel cuore della città sorge il Park of Unity, un’area, che piuttosto che convogliare tutte le energie urbane ed essere un nucleo attivo e caotico, impone il silenzio e la riflessione con i suoi giardini ed il suo Matrimandir, un gigantesco globo rivestito in oro che sembra essere atterrato dal cielo sulla terra. Questo edificio rappresenta l’anima di Auroville, è un tempio per la cura spirituale, un luogo dove poter stare in silenzio e meditare in una grande sala costantemente illuminata da un raggio di sole che colpisce una grande sfera di cristallo.

La mobilità è prevalentemente pedonale e ciclabile, le strade carrabili sono bandite e l’accesso alle automobili è limitato alla crown road, il principale per-

corso circolare a metà tra il centro e il confine urbano, che mette in comunicazione tutte le quattro zone. La crown road è immaginata come una centralità lineare destinata ad ospitare le diverse funzioni della vita sociale, tra cui le mense sociali, come il Solar Kitchen, dove poter condividere i pasti con i propri concittadini.

Infine, la Green Belt, una cinta muraria di fitta vegetazione, chiude la città, come a proteggerla dall’esterno, e dall’interno, limitando l’espansione urbana.

Auroville vuole essere quindi essere una città compatta, ordinata per zone, ad alta densità abitativa, che sia autosufficiente e sostenibile a livello ambientale, dove la proprietà privata è abolita, e le abitazioni sono pensate in termini di spazi collettivi, dove si condivide tutto o quasi, una sorta di “comunità urbana” come antidoto all’alienazione della città moderna, che già negli anni ’60 aveva trovato diversi oppositori.

Mère, e così anche Anger, sono convinti che me-

Schizzo di studio del Modello Nebula di Roger Anger

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Schizzo originale del concept della cittĂ

Modello Rettangolare

Modello Esagonale

Modello E

Modello Nebula

Schizzo di studio della macrostruttura

Modello Galaxy

Modello Galaxy

Modello Galaxy definitivo

diante l’urbanistica sia possibile far germogliare quella società ideale che realizzerà l’unità umana. È l’utopia di voler organizzare l’ordine sociale tramite quello spaziale, che sin dai tempi di Platone vuole ordinare attraverso lo spazio il disordine della società. La forma in questo caso assume il carattere simbolico, rappresentativo della spiritualità che si manifesta attraverso la materia. L’impianto circolare è un archetipo che risale ai tempi delle prime forme urbane della civiltà umana, che nasce dalla proiezione della volta celeste sul piano terreno, come a simboleggiare la discesa del divino tra i mortali. Lo spirito di Auroville vuole quindi modellare la materia attraverso cui si manifesta: la città.

L’impianto quadrato del primo masterplan presentato da Roger fu infatti bocciato e ne seguirono altri che videro man a mano la struttura radiale essere soggetta ad un movimento a spirale che ne potesse rompere la rigidità per armonizzare le parti e farle convogliare le une nelle altre.

Oltre la dimensione simbolica si può leggere una sintesi delle utopie urbane che hanno dominato l’inizio del XX secolo. Da un lato la città giardino che tenta di ritrovare il giusto equilibrio tra uomo e natura; dall’altra la Cité industrielle che organizza razionalmente la società urbana secondo le sue funzioni: abitare, lavorare, circolare, coltivare il corpo e lo spirito.

Garden City di Ezebener Howard

Citè industrielle di Tony Garnier 29

Oggi la città sta lentamente cercando di prendere quella forma diventata ormai simbolo dell’utopia di Auroville. Osservandola dall’alto, tramite i satelliti di Google Maps, è possibile riconoscere il suo centro, il Matrimandir con i suoi giardini, circondato da macchie di vegetazione punteggiate da piccoli gruppi di edifici, ed una maglia stradale irregolare di cui si può riconoscere un tratto di quella che dovrebbe essere la Crown Road. Più che una città, Auroville oggi sembra un grande parco tutto da esplorare. Le sue strade sono per la maggior parte sterrate (anche a causa della legislazione della regione del Tamil che decreta che una strada asfaltata è proprietà demaniale), gli edifici si nascondono tra la vegetazione, e gli spazi pubblici possono essere ricondotti a quelle strutture che offrono alla comunità spazi d’incontro, come la Solar Kitchen, che serve 6 giorni su 7 gratuitamente il pranzo agli abitanti di Auroville, lo Unity Pavillion in cui avvengono le riunioni cittadine, lo Youth Center dove si incontrano bambini e ragazzi, e tutti i giovedì sera si fa la pizza nel forno a legna da loro costruito, il Cinema Paradiso dove si proiettano film vecchi e nuovi di tutto il mondo, e poi il centro sportivo Certitude, la Town Hall e tanti altri luoghi dove aurovilliani e non possono stare insieme.

Anche le stesse abitazioni private diventano spazi di relazione. Divisi in quelle che loro definiscono comunità, ma che noi potremmo chiamare condomini, inizialmente sperimentavano, e in alcuni casi ancora spe30

rimentano ancora, stili di vita comunitaria. Una delle prime è stata Aspiration, un progetto di una coppia di architetti italiani, Piero e Gloria Cicionesi che tra il 1970 e il 1972, realizzarono quella che doveva essere una sistemazione temporanea per i New Commers(coloro che decidono di diventare cittadini di Auroville).

Le abitazioni riprendono le caratteristiche delle tipiche costruzioni rurali dell’India del Sud, rivisitate secondo la visione dei due architetti di Firenze che organizzano le abitazioni in una composizione che ricorda il villaggio agricolo, con spazi collettivi, come la cucina, dove gli abitanti condividono i momenti della loro quotidianità. Come Aspiration tante altre comunità ricercano questa sintesi tra la vita privata e la vita pubblica.

Dai raggruppamenti di case unifamiliari ai veri e propri palazzi di 4/5 piani, che recentemente segnano il passo verso un carattere più propriamente urbano. Il tentativo è sempre quello di sperimentare una vita in comune con l’obiettivo di rendere reale quel senso di unità per cui la città è nata.

Oggi la popolazione è ancora troppo esigua per dare corpo ad una vera e propria città. Ma l’effetto urbano è lontano dall’essere raggiunto, soprattutto perché i pochi abitanti si sono sparsi su tutto il territorio previsto dal masterplan. I villaggi indiani che occupano quelle terre da ben prima che Auroville nascesse, sono cresciuti in questi cinquant’anni e si sono espansi ad una velocità superiore a quella della “città

Foto aerea di Auroville con la Galaxy sovrapposta

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del futuro”, e si assiste allo scollamento tra lo spazio in cui si realizza l’utopia e la realtà di una popolazione in crescita, che però vede un futuro diverso da quello della popolazione dei villaggi. In questo scollamento emerge il fallimento non solo dell’utopia di Auroville, ma di ogni utopia urbana che pretende di fissare in una forma l’imprevedibilità della storia. La città, come riflesso materiale della civiltà umana, è il frutto delle singole azioni che si susseguono e si stratificano nello spazio-tempo di cui si fa teatro. È un organismo in continuo mutamento che non può mai assumere una forma fissa e definitiva, perché altrimenti la società sa-

rebbe cristallizzata in un’immobilità incongrua alla sua natura. Al centro di uno dei dibattiti più accesi c’è la realizzazione del masterplan di Roger Anger, che vede la comunità polarizzata su fronti diversi e anche opposti. Negli ultimi anni sono stati numerosi i tentativi di trovare un punto d’incontro per delineare i successivi passi da compiere. L’ultimo è avvenuto lo scorso Gennaio 2019, al quale ho assistito personalmente, un workshop intitolato Auroville, a way forward organizzato da uno dei diversi team che lavorano alla pianificazione urbana. Un charrette durato sei giorni che ha visto la collaborazione di un gruppo di urbanisti e

Aspiration Community 1969

Interno di un’abitazione di Aspiration

architetti esterni con i quali si è tentato di affrontare i problemi e i sogni della città, e individuare le azioni da intraprendere. Un dibattito che ha suscitato un altro dibattito con le fazioni più ortodosse, nella costante e mai risolta questione della pianificazione urbana di Auroville.

Oggi, territorio e abitanti proseguono la loro storia ed evoluzione, e il disegno che fu pensato all’origine è diventato un simbolo a conferma che la città concreta non sembra mai coincidere con la città ideale.

La costruzione del Matrimandir

Matrimandir e il Park of Unity

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Workshop “Auroville a way forward” 2019

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Courage Community

Solar Kitchen

Cinema Paradiso

Torre idrica di Helmut Schmid

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1.3 La Governance Nella visione utopica di Mère la morfologia della città è ben dettagliata ma non lo sono altrettanto gli altri aspetti che strutturano la società ed il suo funzionamento.

Al governo di Auroville oggi ci sono i suoi stessi cittadini, Mirra Alfassa credeva infatti che nessuno meglio degli abitanti di Auroville avrebbe potuto trovare la forma di governo più idonea per autogestirsi.

Dopo la sua morte nel 1973, la Sri Aurobindo Society, che ha dato vita al progetto ed è a gestione dell’Ashram di Aurobindo a Pondicherry, voleva prendere il controllo della città di Auroville. La cittadinanza in conformità allo statuto che recita «Auroville belongs to nobody in particulr», si oppose e dopo una lunga lotta ottiene, nel 1988, l’Auroville Foundation Act, l’atto legislativo del governo indiano che riconosce la città come ente a sé stante. Mediante questo atto Auroville dialoga direttamente con il governo di Delhi e non subisce l’intromissione di nessun altro ente locale o provinciale. Gode pertanto di una semi-indipendenza ed il suo governo è costituito da tre distinte autorità: il Governing Board, l’International Adivisory Council e la Residents Assembly.

Il Governing Board (GB) è responsabile dello sviluppo della città in coerenza con gli ideali proclamati.

Il suo compito è promuovere gli obiettivi di Auroville, 36

rivedere e approvare politiche e programmi di base, assicurare la corretta gestione di tutte le proprietà, preparare il piano generale e coordinare la raccolta fondi. La maggior parte di queste funzioni viene eseguita in consultazione con la Residents Assembly.

Il gruppo del GB è composto da sette membri nominati dal governo centrale tra persone che hanno: reso prezioso servizio ad Auroville; si sono dedicati agli ideali della dottrina di Aurobindo; hanno contribuito in modo significativo alle attività che sono state portate avanti o che si prevede siano promosse ad Auroville, comprese le attività relative all’ambiente, al rimboschimento, all’artigianato, all’industria, all’agricoltura, alle discipline umanistiche, alle scienze e allo yoga integrale; e di due rappresentanti dello stesso governo centrale.

I membri, che non vivono ad Auroville, restano in carica per un periodo di 4 anni e il consiglio di amministrazione si riunisce almeno due volte all’anno8.

L’Advisory Cuoncil ha la funzione di fare da consulente per il Governing Board, con l’obiettivo di far rispettare ed incoraggiare gli ideali per i quali Auroville è stata fondata, mediante la promozione di attività e istituzioni che li perseguano. È composto da 5 membri nominati dai delegati dell’UNESCO appartenenti al Governo indiano9.

La Residents Assembly è costituita dai cittadini di Auroville sopra i 18 anni registrati nella lista dei re-

sidenti ufficiali. Il suo compito è quello di monitorare le attività svolte ad Auroville; decide le condizioni per ottenere la cittadinanza, ed è responsabile della pianificazione urbana della città in collaborazione con il Governing Board, e gli altri enti a servizio della gestione della comunità10. In aggiunta a queste tre autorità governative il governo indiano ha istituito la Secretary, un ente amministrativo che controlla e supporta l’operato della Residents Assembly. La RA, dato il gran numero dei suoi componenti (quasi l’intera cittadinanza), nomina due organi direttivi: il Working Comitee, che collabora con il GB; e l’Auroville Council, che si occupa delle questioni interne.

Oltre a questi organi di governo, i cittadini sono liberi di creare gruppi di iniziativa personale e avanzare, in caso di approvazione, le proprie proposte rese note alla cittadinanza mediante la newsletter “News and Notes”.

Auroville è una società non-gerarchica organizzata dal basso, i cittadini agiscono come amministratori del bene comune piuttosto che come autorità che hanno potere decisionale. Tale sistema di governo comporta un processo piuttosto lungo e complesso che rallenta l’attuazione dei programmi per lo sviluppo della città, ma la sua organizzazione assicura un sistema dal basso, che rispetta la volontà dei cittadini.

Cartello per le votazioni della Resident Assembly

Workshop “Auroville a way forward”, 2019

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1.4 Un’economia in comune La prima clausola della carta costituzionale dice: «Auroville belongs to nobody in particular. Auroville belongs to humanity as a whole»11, pertanto tutto ciò che c’è ad Auroville appartiene ad Auroville. L’ideologia di fondo posta alla base del sistema economico assomiglia a quella marxista, poichè prevede la negazione della proprietà privata e la condivisione dei beni di profitto. Nessuno ad Auroville possiede la casa in cui vive o che costruisce, nè tantomeno attività commerciali, servizi, o unità di produzione. I suoi cittadini non lavorano per guadagnare un salario quanto piuttosto per esprimere le proprie capacità, l’individuo quindi non si identifica tramite la sua occupazione e così le classi sociali sono abolite. Ognuno contribuisce alla crescita ed al mantenimento della propria comunità e viene ripagato mediante la Maintenance, una sorta di reddito di cittadinanza, ricavata dalla Unity Fund, che comprende tutte le entrate della città: donazioni e introiti delle attività produttive e commerciali. Spesso chi ha la possibilità di mantenersi da solo, tramite un reddito proprio non chiede la maintenance, ma in quanto Aurovilliano beneficia comunque di beni di prima necessità come l’alloggio, i servizi sanitari, di istruzione e qualsiasi altra attività no-profit promossa dalla città.

Le unità produttive che esportano i loro prodot38

ti al di fuori di Auroville ridistribuiscono la ricchezza prodotta donando il 33% del loro ricavato alla Unity Fund e investono la metà del rimanente nella stessa attività. In teoria il denaro ad Auroville è abolito ma con la presenza del turismo e di un gran numero di impiegati che non sono aurovilliani la circolazione della moneta è inevitabile. Per ovviare a tale problema è stato istituito negli anni ’80 il Financial Service, che, come una banca, gestisce il denaro dei cittadini e dei visitatori. Tramite l’Aurocard, una sorta di carta prepagata, possono effettuare pagamenti all’interno della città. Per chi viene da fuori l’Aurocard, non è obbligatoria ma senza di questa non è possibile usufruire di determinati servizi.

Molti stranieri, poiché la maintenance non è sufficiente a spese extra oltre quelle necessarie al sostentamento, decidono di tornare periodicamente in patria per guadagnare quel denaro extra che gli permette di non avere restrizioni. Questo sistema vale soprattutto per chi viene da paesi occidentali, dove generalmente il valore della moneta ha un potere di acquisto molto più alto della rupia indiana.

Se è vero che Auroville appartiene all’umanità intera è però anche vero che per viverci bisogna comunque partire da una base economica, soprattutto perché al momento c’è una carenza di abitazioni per cui o si alloggia nei villaggi di confine, pagagando quindi un affitto, oppure si investe nella costruzione di una casa

la cui proprietà va alla fondazione Auroville.

La gestione del denaro sembra comunque essere trasparente: tutti i dati vengono pubblicati regolarmente su “News and Notes” e sul sito ufficiale della città.

Il sistema economico rimane però tra le maggiori sfide della città poiché non ha ancora raggiunto l’autosufficienza e dipende in gran parte dal governo di Delhi, dalle donazioni private e dal lavoro di molti volontari.

1.5 Un-ending education for a youth that never age L’educazione e la ricerca sono le caratteristiche che distinguono Auroville da ogni altra esperienza comunitaria e che le hanno permesso di suscitare tanto interesse nell’ambito internazionale. Il suo obiettivo è infatti quello di essere un luogo di crescita per l’uomo, una sorta di scuola che ci prepara al passo evolutivo che secondo Sri Aurobindo l’uomo è destinato a compiere. Secondo la sua filosofia, lo stadio successivo dell’evoluzione è la consapevolezza di appartenere ad un “tutto” che oggi vediamo manifestarsi tramite la pluralità della materia. Per raggiungere questa consapevolezza è necessario poter praticare quella che Aurobindo ha chiamato lo yoga integrale, un esercizio quotidiano che sintetizza la ricerca spirituale con quella materiale.

Tutto ad Auroville è pensato in funzione di

questo lavoro, a partire dall’istruzione che non ha lo scopo di dispensare certificati di accesso a determinati campi di lavoro, ma bensì ad aiutare gli allievi a saper esprimere se stessi nella loro totalità. Dopo la scuola è attraverso il lavoro, visto come espressione del proprio essere, che il processo continua, per questo l’educazione è definita un-ending, senza fine, perché non c’è limite alla conoscenza del sè. E così facendo the youth never age, perché la vecchiaia arriva solo per chi crede di non poter più imparare12.

L’utopia dell’istruzione libera da certificati si è però scontrata con la realtà di una comunità che non vuole isolarsi dal resto del mondo. Il sistema scolastico si è dovuto adeguare all’esigenza di studenti che vogliono perseguire i propri studi all’estero, sia per conoscere il mondo al di fuori di questa piccola ed eccezionale realtà, sia per poter proseguire gli studi poiché l’università è attualmente assente. I ragazzi possono allora scegliere di prendere il cosìddetto “pezzo di carta” per poter avere un riconoscimento internazionale, oppure possono frequentare le università che hanno stabilito una partnership con la città.

Questo è l’aspetto dell’educazione individuale, mentre per quanto riguarda la collettività, o potremmo dire, nella filosofia di Auroville, l’umanità, ciò si applica attraverso la ricerca continua di nuovi sistemi, modelli, strutture, in qualsiasi campo, economico, architettonico, agricolo, delle energie rinnovabili etc.

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La città è un immenso laboratorio che sperimenta un modello di società alternativo. E’ proprio questo aspetto laboratoriale che richiama moltissime persone da tutto il mondo, studenti soprattutto, che prendono parte ai tantissimi progetti in atto nella città.

E poi ci sono i workshop, tanti e di ogni tipo, per aurovilliani e non. Sono soprattutto frequentati dai visitatori, fatta eccezione per quelli che mirano ad attivare un’azione collettiva, come ad esempio gli interventi di sviluppo urbano, o di sensibilizzazione

Tamarai Learning Center

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della comunità rispetto ad alcuni temi.

Nonostante l’esiguo numero di abitanti gli spazi per la cultura non mancano: c’è il cinema, l’auditorium, la sala per musica e danze e una biblioteca. Nel masterplan è prevista la cultural zone che comprende edifici ed infrastrutture per l’istruzione, la ricerca e le attività artistiche; e poi l’international zone che prevede di ospitare i padiglioni nazionali provenienti da tutto il mondo, come ambasciatori di una cultura da conservare e tramandare ai prossimi.

Tamarai Learning Center, festa Pongal

Studenti dell’Università di Stuttgart alla Wall House di Anupama Kundoo

Studenti dell’Università di Stuttgart alla Town Hall

Workshop “Auroville a way forward”, 2019

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1.6 Una comunità tra polis e civitas La definizione che più si addice per Auroville è forse quella di comunità intenzionale, anche se la parola comunità non è molto apprezzata da alcuni dei suoi abitanti. Essere cittadino è però una scelta, anche per chi ad Auroville ci nasce. Per chi viene dall’esterno questa decisione implica un periodo di prova di circa due anni. Perché vivere ad Auroville non sempre soddisfa le aspettative di chi da fuori vi ha visto l’eu-topia, la città ideale nella quale realizzare i propri sogni.

Scegliere di essere parte di questa realtà è infatti una decisione radicale. Chiunque fa questa scelta ha la sua propria motivazione. C’è chi è un seguace della filosofia di Aurobindo ed ha voluto mettere in pratica la sua dottrina, come Sauro che è arrivato qua nel ’78, a vent’anni, ed oggi è tra i responsabili dello sviluppo urbano della città. Molti invece, quasi la maggioranza delle persone che ho incontrato, si sono imbattuti in questa storia per caso e hanno deciso di trasferire lì la propria vita. Omar, ad esempio, è un architetto egiziano, che si è ritrovato la prima volta ad Auroville durante un dottorato di ricerca all’MIT. Stava sviluppando tecnologie sostenibili per l’architettura all’ Earth Institute, un centro di ricerca che elabora metodi costruttivi a basso impatto ambientale e anni dopo è tornato poiché ha visto qui la possibilità di fare della sua professione, non un motivo di guadagno, certa42

mente, ma di crescita per sè e per gli altri. Grazia invece, che all’età di 61 anni, ormai in pensione, viveva felice nell’hinterland milanese, quando è venuta per caso a conoscenza di questo luogo, spinta dalla curiosità di conoscerlo è partita e non è più tornata indietro perché, dice, di aver finalmente trovato il suo posto.

Chloe, una ragazza francese di 26 anni, dopo un anno di volontariato ad Auroville quando ha fatto rientro in Francia non si sentiva più a casa sua, ed quindi tornata e sta richedendo la cittadinanza. E così tante altre persone che ho intervistato, tra cittadini, aspiranti tali, visitatori, autoctoni, volontari, tutti sembrano stabilire un legame profondo con questo luogo.

Anche coloro che ritengono che Auroville abbia fallito il suo obiettivo, come Mitali, una ragazza di Mumbai di 24 anni (doveva fermarsi soltanto un mese e vi è poi rimasta per più di un anno), apprezzano però lo stile di vita che lì si conduce, chi per un motivo chi per un altro. Eppure Auroville non offre la possibilità né di guadagnare o fare carriera, né di comprare e possedere una proprietà o un’attività. Quello che offre è soltanto l’opportunità di agire.

Agire è, secondo Hannah Arendt, quella condizione fondamentale per l’uomo che gli permette di riconoscersi nella sua unicità ma al tempo stesso uguale agli altri13. Per agire c’è però bisogno di una dimensione comune, di un infra che metta insieme le persone, e le separi allo stesso tempo14. «Vivere in-

sieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; […].»15 Auroville è allora il tavolo intorno al quale i suoi cittadini si siedono e ne condividono l’utopia. Ed è per questo motivo che i suoi abitanti sembrano aver ritrovato quel senso di comunità di cui l’uomo contemporaneo soffre la mancanza. Nonostante molti di loro non appartengano a quel luogo e siano privi di un ethos che li accumuni, ricevono da Auroville quella sensazione di città-dimora che li lega profondamente al territorio. Possiamo allora dire che questa città assume le sembianze della polis greca, per la qualità delle relazioni sociali e la partecipazione alla vita pubblica, dell’agire appunto di quel modello. Ma allo stesso tempo è anche una civitas perché nasce dal prodotto dei suoi cittadini, i cives, che sotto una stessa legge, l’utopia dell’unità umana, hanno dato vita a questa realtà. L’assenza dell’ethos sostituita dall’agire, concilia il carattere di universalità tipica della civitas con l’appartenenza al luogo che contraddistingue la polis, e la comunità che ne deriva non si basa su un elemento identitario a cui tutti si riferiscono ma dall’ “uguale diversità” che caratterizza ognuno dei suoi cittadini.

Omar

Grazia

Chloe

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1.7 Una lezione per l’utopia e il progetto Quando ho conosciuto Auroville durante il laboratorio di composizione architettonica tenuto da Anupama Kundoo all’Università di Stuttgart, a richiamare la mia attenzione fu inizialmente il ruolo affidato all’architettura, considerata come quell’elemento a partire dal quale generare un cambiamento sociale. Nel tentativo di comprendere come e in che modo questo si stesse verificando sono partita per vedere da vicino questa utopia. Quella di Auroville, si è rivelata, piuttosto che una risposta alla mia curiosità iniziale, una inaspettata lezione sull’utopia e il progetto da cui ho sviluppato la tesi che nei successivi capitoli tento di argomentare.

Il paradigma di Auroville è pertanto necessario a comprendere l’importanza di esercitare il pensiero utopico nella pratica progettuale, inteso come quella condizione per la quale il possibile proposto dal progetto è ciò che dovrebbe essere l’esistente in nome di una visione del futuro che realizza quell’ eu-topos che è attualmente ou-topos.

Non è quindi un caso, quello di Auroville, da prendere come esemplare da riproporre, ma è invece un fenomeno da osservare poiché mostra lo stretto rapporto che intercorre tra utopia e progetto e la loro inscindibilità ai fini di un agire che abbia un senso al di là della semplice utilità strumentale. Lo scopo per cui questa città viene fondata nel 1968, quell’utopia di realizzare l’unità umana, che agli occhi dei più può sembrare una chimera inutile 44

da inseguire, è invece l’elemento fondamentale grazie al quale è nata e continua ad esistere questa realtà, il motivo per cui si è generato il progetto di una società nuova, che è in fondo ciò che costituisce Auroville. Senza quell’utopia non ci sarebbe nessuna Auroville e di conseguenza nessun progetto, il che ci fa intendere come non si possa dare un progetto senza che in esso eserciti almeno una piccola traccia di utopia.

Nello specifico è stato istruttivo osservare il caso del masterplan di Roger Anger, quell’utopia urbana nata in concomitanza con la fondazione della città, la cui attuazione è al centro del dibattito cittadino. La sua mancata realizzazione, che racconta inoltre quello scollamento inevitabile tra lo spazio irreale dell’utopia e quello reale di un territorio che è in continuo mutamento, mette in evidenza l’impossibilità di dare luogo all’utopia, di spogliarla della sua particella ou- e darle forma nella realtà, e mostra come questa serva piuttosto a creare quella tensione, che è per l’appunto utopica, in grado di trasformare l’esistente, approssimandolo a quel che dovrebbe essere la realtà espresso dall’utopia. Del masterplan, ai cittadini, preme infatti realizzare l’idea che si cela dietro la forma, quell’eidos che di fatto può assumere diverse morphè17. I cittadini agiscono e discutono attorno a quell’idea e si confrontano allo stesso tempo con un presente in continuo mutamento, e così facendo realizzano dell’utopia la sua tensione, ovvero l’unica cosa che dell’utopia si può realizzare attraverso il progetto.

Note 1 Messaggio radiofonico di Mirra Alfassa durante l’inaugurazione di Auroville il 28 Febbraio 1968. Vedi Kapur A., Auroville, dream and reality. An antolog y. Guargaon 2018, p.14 2 Il concetto di unità umana, compare tra il 1915-16 nelle pagine delle rivista Arya, in un saggio dal titolo L’ideale dell’unità umana. Secondo la visione di Aurobindo, l’umanità è destinata a raggiungere, seppur lentamente, la propria unità politica, economica, spirituale e sociale. Un’unità non semplicemente esteriore, ma soprattutto interiore che deriva dalla realizzazione della nostra verità di esseri universali, del nostro Sé individuale e collettivo. Aurobindo crede che l’umanità è abituata a sopravvivere alle peggiori catastrofi, da lui stesso provocate, o da quelle naturali, perché la sua esistenza ha un significato: giungere allo stadio evolutivo in cui l’azione è unificata e organizzata, un nuovo ordine che sostituirà il vecchio insoddisfacente e instaurerà una pace e un benessere permanenti.

3 La Sri Aurobindo Society è la società fondata da Mirra Alfassa per gestire gli ashram dedicati ad Aurobindo in tutto il mondo. La società nel 1966 riceverà il supporto del governo indiano e dell’UNESCO per dare vita a un esperimento spirituale e internazionale: Auroville.

4 Bloch E., Il principio speranza, introduzione Remo Bodei, Garzanti, Milano 1994 5 Kapur A., Auroville, dream and reality. An antolog y. Guargaon 2018, p.13. Akash Kapur è un giornalista e scrittore indo-americano, nato e cresciuto ad Auroville. Ha scritto per l’Atlantic, The Economist, Granta, The Hindu, The New Yorker Times e la rivista Outlook.

6 Alfassa M., https://www.auroville.org/contents/556 7 Majumbar, A., Auroville, a city for the future. HarperCollinns Publishers India, Noida Uttar Pradesh, 2017, p.204 8 Informazioni tratte da sito ufficiale di Auroville: https://www. auroville.org/contents/1262 9 Informazioni tratte da sito ufficiale di Auroville: https://www. auroville.org/contents/1212 10 Informazioni tratte da sito ufficiale di Auroville: https://www. auroville.org/contents/1752 11 Clarence-Smith, S. A., Auroville: a practical experiment in utopian society. Bachelors thesis, University of California, Berkeley, 2015 12 Mirra Alfassa, The Auroville Charter (Pondicherry: Sri Aurobindo Ashram Press, 1968).

13 Majumbar, A., ivi, p.113 14 Arendt H., Vita activa, la condizione umana., Bompiani, Firenze

2017, pg. 194 15 Ivi, pg. 81 16 Hannah Arendt in Vita Activa, Bompiani, Milano 2019, mette il luce come l’azione sia una condizione essenziale per l’uomo. L’agire deve però essere supportato da quello che lei definisce il discorso. Azione e discorso riescono ad eguagliare e al tempo stesso a differire l’uomo tra gli uomini, poichè rivelano l’unicità di chi parla e agisce, ma se compresi e condivisi creano quello spazio di relazione dove gli indivdui si riconoscono senza negare la loro singolarità.

17 Nella filosofia greca il concetto di forma si distingue tra la forma come idea, immagine astratta, che è appunto l’èidos; e la forma sensibile che è la morphè, che discende dall’eidos, fatta di materia informata e presente in re.

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Unity in Diversity

“Unity in Diversity” è uno slogan che si sente spesso pronunciare ad Auroville, è la convinzione che si può essere uniti nonostante le diversità, e che piuttosto la diversità è una risorsa.

L’architettura presente ad Auroville è la sua esemplificazione, ogni edificio è diverso dall’altro, nel linguaggio formale, nella tecnica construttiva, nei materiali usati.

Una serie di scatti che ho potuto raccogliere durante il mio soggiorno cercano di raccontare questa varietà, simbolo della ricchezza di un luogo dove la sperimentazione la fa da padrone.

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KALPANA, Ovoid Atelier

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CREATIVITY, Anupama Kundoo

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LUMINOSITY, D. Nightingale e G. Bala

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CAP. 2 L’utopia e la funzione del pensiero utopico

2.1 L’utopia oltre il genere letterario L’utopia viene riconosciuta in primis come genere letterario, ma essa in questo non si esaurisce, bensì il suo campo d’azione è talmente vasto per cui non è possibile inquadrare il concetto in un’unica ed univoca definizione.

Il significato e l’uso della parola utopia è, inoltre, ambiguo e polisemico, per colpa anche di colui che, nel lontano 1516, ha coniato questa parola. Il termine nasce infatti con Thomas More per indicare il luogo da lui immaginato e descritto nel trattato De optimo Reipublicae statu sive de nova insula Utopia. Il prefisso u- indica una duplice radice di origine greca: ou-topos (nessun-posto) e eu-topos (buon-posto), attribuendo alla parola un doppio significato, causa di un dibattito filologico ancora oggi in atto1. Questa forma letteraria comprende tutti quei racconti fantastici di luoghi ideali o mondi in cui tutti sono ugualmente felici e liberi dal male e dalla miseria, espressione di due tendenze insite nell’uomo: la curiosità dell’avvenire ed il bisogno di sperare2. Nel caso di More però questo strumento letterario aveva uno scopo ben preciso. Egli infatti non era un sognatore, bensì un uomo che conosceva in modo approfondito le dinamiche della vita politica ed economica degli stati, e che aveva dedicato a queste attività la parte più importante della sua esistenza3. Il suo celebre testo non fu allora un semplice gioco di 52

fantasia, quanto piuttosto una aspra critica dell’assetto socio-politico a lui contemporaneo, pronunciata mediante il racconto di un modello di governo ideale.

Diversi secoli prima di More, anche Platone scrisse un testo che oggi viene riconosciuto come utopico: La Repubblica, opera dalla quale si evince il pensiero politico dell’autore. L’utopia pertanto, seppure pronunciata in forma letteraria, e per questo banalamente definita tale, si associa generalmente alla teoria politica. Lo storico Vittorio Ivo Comparato4 definisce infatti l’utopia come: «una formulazione di un modello politico valutativo che utilizza lo strumento del modello descrittivo, esplicitato nella forma di racconto diretto o indiretto di una realtà veduta»5. Ma, a monte di questo suo aspetto politico, e della sua espressione mediante la forma letteraria, il pensiero utopico si estende su un campo molto più vasto6 e, nel secolo XX, una larga speculazione su questo concetto, che ha affrontato l’argomento anche alla luce dei nuovi codici della psicoanalisi, della psicologia, della storia e della sociologia, ha prodotto un’ontologia dell’utopia che la inquadra nell’ampio settore del pensiero razionale, come forma dell’intelletto il cui ruolo ha un’importanza cruciale nell’evoluzione dell’uomo. È necessario innanzitutto incominciare col precisare il significato del termine coniato da More.

Questo indica sì una realtà “ottima” (eu-topos) che non ha luogo (ou-topos), ma il non avere luogo non ne

L’isola di Utopia. Xilografia dalla prima edizione dell’opera omonima, Lovanio 1516.

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impedisce la realizzazione in un futuro più o meno lontano. Allo stesso modo, in un tempo molto antecedente a More, Platone, inconsapevole che ciò che stava scrivendo sarebbe poi stato definito un’utopia, descrivendo quella che era la polis ideale ne La Repubblica, non nega la possibilità di una sua realizzazione, ma ammette però l’estrema difficoltà perché questo avvenga. Da queste due opere molto lontane tra loro ma molto vicine nel contenuto, emergono allora le principali caratterestiche dell’utopia: la razionalità e la progettualità. L’aspetto progettuale è riconoscibile da due fattori presenti in entrambi i testi: il racconto dello stato ideale, che fa di questo nella pratica il suo progetto, e l’essere in nessun luogo, che quindi necessita di progettualità per realizzarsi. Gli stati immaginati da Platone e da More non sono infatti fantasticherie impossibili da compiersi, sono piuttosto alternative possibili ad un ordine esistente che è evidentemente manchevole e deludente. Pertanto, contrariamente all’uso diffuso della parola utopia per indicare ciò che non è suscettibile di realizzazione pratica, l’utopia è il progetto per il nuovo, per l’altro, esprime ciò che è in potenza di conquistare il topos, ed è per questo che è quanto di più lontano dall’essere una fantasia che non ha niente a che vedere con la realtà.

Una terza caratterista che ingloba le due precedentemente espresse è quella antropologica. Ragione e progetto sono infatti due facoltà proprie dell’uomo, 54

che gli hanno permesso di distinguersi dalla bestia. Il pensiero utopico è quindi una forma di pensiero innata nell’uomo, è lo strumento dell’intelletto che ha fatto sì che l’umanità si evolvesse grazie alla sua capacità di andare oltre al dato sensibile, di esplorare l’orizzonte di possibilità che l’esistente ci offre, e di prevedere quindi quel che non-ancora-è, ma che potrà essere, attraverso il progetto7.

L’utopia è allora in senso generale l’espressione della speranza dell’uomo nel soddisfare «quei desideri che il presente non è in grado di esaudire»8. Prende forma nella sfera dell’immaginazione e in questa dimensione può seguire due distinte strade: l’una volta a condurla nel mondo sovrasensibile, dove non vede il suo realizzarsi e di conseguenza lascia quei desideri insoddisfatti, definita utopia astratta; l’altra la porta a formulare la forma archetipa del progetto, mezzo che trascende la realtà e permette all’utopia di approdare nell’esistente e di trasformarlo, l’utopia concreta9.

In ogni modo, da un’osservazione della sua fenomenologia, che sia astratta o concreta, l’utopia nasce da un malessere nei confronti dell’esistente. I mondi utopici della storia della letteratura non sono altro che l’espressione del desiderio di un ordine altro da quello da cui si cerca di evadere con l’immaginazione. Vi si legge allora una critica indiretta alla società e le sue sovrastrutture, ed una richiesta di cambiamento che soddisfi quei bisogni attualmente disattesi. Luis Mu-

mford ritiene infatti che la storia dell’utopia è l’altra metà della storia dell’uomo ed analizzarla serve non a proporre un’utopia migliore di quelle precedenti quanto piuttosto a «valutare le basi sulle quali altri possono costruire»10. L’utopia è allora manifestazione di una volontà, che si esteriorizza in una realtà fittizia ed esercita quell’idea di “giusto” edificandola a modello esemplare per dare fede alla speranza umana di vedere risolta la sofferenza. Nel corso della storia ha influenzato il pensiero occidentale riuscendo ad agire sulla realtà esistente, che è quindi non solo causa ma anche fine di ogni utopia.

2.2 Genesi e sviluppo della tensione utopica La riflessione sul concetto di utopia e la sua funzione è un fenomeno che nasce, nella storia della filosofia, posteriormente alle teorie di Marx ed alla nascita delle scienze sociali. Marx ed Engels sono infatti tra i primi ad affrontare questo tema quando hanno decretato il passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico, dando origine ad un dibattito che ha posto al centro della riflessione il concetto di utopia. Saranno infatti soprattutto i discendenti della filosofia marxista a sentire l’esigenza di dare una definizione dell’utopia.

Primo tra tutti Ernst Bloch, che dell’utopia fa il suo

principale oggetto di ricerca filosofica. Oltre a lui, altri autori come Mannheim, Buber e Marcuse, per citare i più famosi, si sono occupati di utopia, partecipando all’inquadramento del fenomeno grazie al quale oggi è possibile riscoprirne una sua valenza positiva dopo la messa al bando avvenuta conseguentemente agli orrori che il compimento del socialismo nell’Unione Sovietica ha prodotto.

La tesi sviluppata da Bloch nelle sue due opere principali: Geist der Utopie (Lo spirito dell’utopia, 1918) e Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza, 1954-59), aiutano a comprendere in che modo il progetto come utopia stabilisce una relazione con l’esistente perché sia in grado di superarlo. La sua teoria della docta spes è una vera e propria fenomenologia della speranza che chiarisce come questo sentimento sia alla base di quella tensione capace di incidere sull’esistente e trasformarlo. Una teoria che vediamo trovare conferma nella storia di Auroville, dove è stata la fede nella speranza ad aver dato vita alla città.

L’assunto iniziale da cui Bloch sviluppa la sua tesi è la limitazione della conoscenza dell’essere se esplorata soltanto nel suo presente in quanto l’essere, essendo in divenire, si costituisce rispetto anche ad un suo futuro. Pertanto il filosofo di Ludwigshafen sviluppa quella che si chiama «Ontologie des Noch-Nicht-Sein» (ontologia del non-ancora-essere) di cui la speranza è l’«atto orientativo di specie cognitiva11».

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Tra coloro che si sono occupati di una teoria del progetto in architettura, molti credono che il progetto si costruisce a partire da un’analisi critica del presente affinché quel nuovo proiettato nel futuro abbia degli esiti prevedibili12. L’analisi critica del presente deve pertanto essere fatta rispetto ad una sua evoluzione, cercando di scorgere ciò che è intento ad emergere, quelle volontà latenti che sono destinate ad avverarsi se si è in grado di esercitare la speranza. Secondo Bloch la speranza ha una funzione anticipante in quanto è alimentata dal desiderio. Il desiderio ci indica un’assenza percepita nel presente che, nel manifestarsi, permette la possibilità, in un futuro più o meno lontano, di materializzare l’oggetto desiderato, e così facendo, pertanto, anticipa ciò che non-ancora-è. Qualsiasi atto di volontà è infatti preceduto da un desiderare, «[…] e tanto più forte sarà il volere quanto più vivacemente la rappresentazione della mèta, comune al desiderare, sarà stata configurata fino a prendere la forma di un’immagine di desiderio. I desideri non fanno nulla, ma dipingono e conservano con particolare fedeltà ciò che dovrebbe esser fatto»13. L’Auroville ideale disegnata nel masterplan di Roger Anger, ad esempio, esprime, tra i tanti desideri, quello di superare l’antitesi tra città e campagna. La speranza di vedere questo desiderio realizzato è stata tale da trasformare un deserto in quella florida foresta che oggi ospita la comunità “quasi urbana” di Auroville. “Quasi” perché la dimensione della città ancora 56

non si vede e pertanto quel desiderio rimane tutt’oggi insoddisfatto, ma la speranza rimane la stessa e quel masterplan, seppure oggetto di un dibattito accesso, ricorda alla comunità ciò che dovrebbe essere fatto.

I desideri manifestano la volontà umana di non accontentarsi mai del destino offertogli dall’esistente, e che pertanto cerca continuamente di contrastarlo proiettandosi in un futuro che lo vede cambiato, e che riesce effettivamente a cambiare se coglie quegli elementi necessari per poter superare il presente.

Il desiderio ha però bisogno della speranza perché possa avverarsi, perché la speranza è la fede nel ve-

Ernst Bloch

dere il desiderio appagato, e pertanto esorta all’azione perché si avveri. Allora comprendiamo che il pensare utopicamente nasce proprio dalla speranza ed il suo compito è quello di indagare la possibilità di superare la realtà così come si presenta, generando l’utopia come mediazione tra i dati oggettivi dell’esistenza e le possibilità di liberazione futura del destino latente della vita umana14. Tale mediazione è assunta proprio dal progetto, che definisce in modo concreto le azioni da mettere in atto per compiere quel cambiamento desiderato. Nello specifico, se pensiamo al progetto architettonico, questo si genera a partire da un contesto, non solo ambientale, ma anche sociale e politico, e cerca di scorgere le possibilità necessarie a soddisfare i desideri legati all’abitare tramite la costruzione dell’opera.

Senza la speranza che tali desideri possano avverarsi in un futuro più o meno lontano non ci sarebbe nessuna utopia, e quindi nessun progetto che si ponga in rottura con la realtà, perché verrebbe a mancare la motivazione per agire e dare inizio ad una serie di trasformazioni di cui possiamo solo prevedere le conseguenze. L’esercizio della speranza comporta pertanto una fede in un futuro migliore, ed infatti l’utopia ha quel carattere messianico che altrimenti la relegherebbe in un ambito del tutto razionale per cui avrebbe conferma la teoria di Popper avanzata in Utopia e violenza e testimoniata dagli episodi del totalitarismo del

Novecento. La speranza, è importante tenere a mente, non promette comunque successo, seppure è innegabile il suo valore positivo nell’esercitarla15, bisogna quindi imparare ad allenarla, come sostiene Bloch, per colmare quel vuoto percepito, ma evitando di cedere a sterili rimpianti di un paradiso perduto. La speranza deve quindi guardare solo al futuro e agire nel presente affinché lo tramuti in una tensione costante verso la meta utopica prefigurata.16 Essa completa il quadro ontologico di una realtà che è per sua natura sempre in divenire perché nutrendosi dei desideri degli uomini anticipa quanto di latente c’è ed è quindi destinato a venire alla luce. Se consideriamo l’uomo come un prodotto dell’evoluzione materiale, come tale, può quindi incidere sullo sviluppo della sua dimensione fisio-biologica attraverso l’azione, che, se orientata dall’utopia, rende lo sviluppo consapevole ed accondiscendente i desideri latenti non ancora svelati. Allora saper esercitare correttamente la speranza significa in pratica dare vita a delle utopie concrete, ovvero radicare nel terreno storico-sociale, prendendo le mosse dalle condizioni oggettive e materiali date, quei desideri che sperano di diventare realtà. Se ciò accade, vediamo allora mettersi in moto la dialettica della storia, avviata da un’azione che agisce nel presente nella prospettiva di quel futuro auspicato. È infatti solo la speranza in grado di spingere l’uomo ad agire nella realtà esterna per trasformarla, e così facendo trasforma anche se stesso in uno 57

sviluppo progressivo delle proprie capacità17.

Questo è quello che sta accadendo ad Auroville: il desiderio di realizzare l’unità umana e la speranza di soddisfarlo hanno motivato quell’azione che ha dato la nascita a questa realtà, sempre in tensione verso ciò

Superstudio, Monumento continuo, 1969

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che dovrebbe essere quel futuro desiderato, e come tale sempre un passo più vicino a realizzarlo. Una conferma alla tesi di Bloch che ci dovrebbe quindi esortare a riscoprire l’utopia, non come ideale da realizzare, ma piuttosto come modo di pensare per approssimarcisi.

2.3 Utopia e Ideologia nella dialettica della realtà sociale Nel tentativo di definire una concezione sociologica del pensiero, di comprendere pertanto come questo influenza l’azione collettiva, Karl Mannheim individua le due forme che tra loro si pongono in un rapporto dialettico: l’ideologia e l’utopia, analizzate soprattutto nell’ambito dell’azione politica con l’obiettivo di liberarla da ogni condizionamento sociale.

Egli riprende l’assunto marxiano per cui il pensiero non è autonomo rispetto all’azione politica. Il contesto storico-sociale e l’appartenenza ad un gruppo sono i due fattori che distinguono pensiero ideologico da pensiero utopico. In un’accezione generale, Mannheim usa la parola ideologia come sinonimo di pensiero condizionato dalla posizione sociale, ma il medesimo termine è usato in maniera più limitata per indicare «il pensiero socialmente condizionato da quei gruppi che, trovandosi in una posizione di dominio economico-politico, non avvertono alcuna esigenza di trascenderla e sono incapaci di cogliere nella realtà esistente quegli elementi che possono condurre a una sua trasformazione. L’utopia viceversa è propria di quei gruppi che, trovandosi in una posizione di subalterna, vedono solo quegli aspetti negativi della realtà in atto che reclamano un suo superamento.»18.

Secondo Mannheim, ideologia e utopia sono entrambi

idee irreali, nel senso che trascendono la realtà, ma a distinguere l’una dall’altra è la capacità di queste idee di attuarsi nel presente. L’ideologia infatti non riesce mai a realizzare i progetti in essa impliciti, ovvero l’individuo non ha la possibilità di applicare in pieno una condotta che rispetti l’idea. Mentre le utopie orientano il comportamento individuale verso elementi assenti nella realtà con il risultato di apportare modifiche all’ordine esistente coerente alla condotta adottata19.

Ideologia e utopia si distinguono non a priori ma solo nel tempo storico in cui hanno luogo, poiché ciò che in un tempo è utopia, nel momento successivo può diventare ideologia20.

Analogamente a quanto sostenuto da Bloch, Mannheim ritiene che l’utopia, così come l’ideologia nella forma opposta, instaura con la realtà un rapporto dialettico, ma non ne esalta il carattere anticipatorio, poiché considera l’agire di una mentalità utopica comunque condizionato socialmente e pertanto inquinante la ricerca della realtà. L’utopia viene però, secondo Lui, concepita a partire dal carattere dinamico dell’esistente, che non viene assunto come tale ma piuttosto come storicamente e socialmente determinato e in costante mutazione. Afferma pertanto che: «Ogni epoca produce (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per così dire, le tendenze, non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano i 59

bisogni di ciascuna età. Codesti elementi intellettuali costituiscono allora il materiale esplosivo per fare saltare l’ordinamento esistente. La realtà presente dà origine alle utopie che, a loro volta, ne rompono i confini per lasciarla quindi libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo.»21 Se allora l’utopia si sviluppa con il divenire della realtà concreta sarà sempre il gruppo dominante, che è in pieno accordo con l’ordine esistente, a stabilire ciò che è utopico, mentre è il gruppo in ascesa e in contrasto con la situazione di fatto a stabilire quanto deve essere considerato ideologico22.

L’utopia, inoltre, può nascere da desideri e aspirazioni del singolo individuo, ma non è in grado di

Karl Mannheim

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rovesciare l’ordine esistente se questo non coglie le tendenze già presenti nella società. Solo quando un’utopia avvicina concretamente i problemi veri e importanti per un determinato gruppo sociale, può intaccare il presente, poiché è il gruppo e non il singolo che è capace di tale azione23. Mannheim solleva pertanto la correlazione che si instaura tra utopia e società, stabilendo le idee utopiche come oggetto dell’indagine sociologica. Similmente a ciò che afferma Mumford24, si può tracciare una storia della società mediante l’analisi delle mutazioni dell’utopia. L’elemento utopico diventa allora il principio organizzatore da cui discende il tempo storico25. Si riconferma, anche secondo questa analisi, la capacità dell’utopia di trasformare la realtà storica, individuando l’evento storico come una liberazione dall’ordine esistente per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine. Contrariamente a quanto fa l’ideologia che “conserva”, mantiene statica la realtà storica interrompendone il processo.

Ideologia e utopia sono pertanto due fenomeni complementari, e insieme formano il paradigma di quella che potremmo denominare immaginazione sociale o culturale, e pertanto, in un’ultima analisi, costitutiva della realtà sociale26, la cui sovrastruttura è determinata dall’azione politica, campo da gioco dove questi due antagonisti lottano per rovesciare l’una (utopia), e legittimare l’altra (ideologia), l’ordine esistente.

2.4 Cosa si cela dietro l’utopia A conclusione di questo capitolo, vista l’importanza del linguaggio in quanto forma del pensiero, possiamo riportare l’uso della parola “utopia” al suo originario significato, così da poterne riscoprire le sue potenzialità.

Con utopia siamo abituati ad aggettivare tutto ciò che sarebbe ideale da realizzare ma che non ha possibilità di concretizzarsi. Anche in architettura, l’uso comune di questo vocabolo è usato per indicare o quei progetti che sono privi di una dimensione progettuale effettiva, solitamente caratterizzati nella forma da elementi fantastici e surreali, oppure le esperienze, soprattutto nel campo dell’urbanistica, che tra XIX e XX secolo hanno voluto tradurre in spazio quella ricerca su una risoluzione del sistema sociale e urbano sconvolto dall’avvento del capitalismo e dall’industrializzazione.

Sembra pertanto che l’aggettivo utopico distingua un tipo di architettura da un’altra, eppure nell’analizzare il concetto di utopia, e con essa la forma del pensiero utopico, possiamo iniziare a comprendere come tale distinzione sia appunto fuorviante.

Il pensiero utopico è lo strumento dell’intelletto che si attiva per volontà di realizzare un desiderio, che in questo senso si definisce ideale, e che in quanto tale ha la capacità di stimolare l’uomo all’azione. Non definisce un modello da mettere in atto, quanto piuttosto

una tensione costante che rinnova continuamente le sue espressioni per mantenere fede a quei desideri/ ideali per cui è stato attivato.

Se l’uso della parola utopia ha spesso una valenza negativa, e la funzione del pensiero utopico è sottovalutata, è perché ci si è troppo spesso soffermati sull’analisi delle utopie letterarie. La storia ci ha poi mostrato come l’utopia del socialismo si sia tradotta nella realtà dei sinistri governi totalitari che hanno negativamente segnato la storia del Novecento. Ma tornando alle utopie letterarie, queste, nella quasi totalità dei casi, descrivono una società tutt’altro che ideale.

Tanta è l’intenzione a voler mostrare una comunità perfettamente funzionante, uniforme ed ordinata, che i suoi componenti sembrano non essere provvisti del libero arbitrio. A chi vive l’utopia non è infatti consentito sperare di lottare per un’altra utopia migliore27. La felicità assume un’unica forma prestabilita e le altre non sono ammesse. La legislazione si riduce a poche disposizioni generali poiché ci si affida alla completa obbedienza e moralità dei suoi abitanti28. L’individualismo viene sacrificato così come lo è la sfera privata e la libera azione. Tutto è omologato al sistema e non ci sono voci fuori dal coro. La comunità ideale appare allora come un luogo piatto, monotono, dove, oltre alla noia che tale sistema può provocare, si ha il rischio di vivere un regime totalitario. L’esito prospettato dalla realizzazione dell’utopia è il progetto della più perfetta 61

società repressiva29. Piuttosto che pensiero progressista, l’utopismo sembra un «futurisme reactionnaire»30.

La città utopica inoltre è solitamente isolata, lontana da tutto e da tutti, a difesa di un mondo che minaccia la perfezione della sua struttura sociale. Non ci sono classi ma caste che accettano il ruolo loro assegnato. Non c’è ribellione degli oppressi o mutamenti del sistema, la società è immobile, cristallizzata in un luogo senza tempo e senza storia. Lo stato ideale si rivela così astorico, privo del conflitto e della con-

Plan Voisin, Le Corbusier, 1952

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traddizione che segna lo scorrere degli eventi di una normale civiltà. È uno «stagno tranquillo», come dice Dahrendorf31, chiuso e ripiegato su se stesso. L’esercizio utopico, così impiegato, costituisce la distruzione del potere critico della speranza e il dissolvimento del futuro32. E di fatti, sempre Dahrendorf, sostiene che l’utopia non ha futuro ma solo un passato nebuloso33, poiché una volta raggiunto lo stato ideale non c’è più motivo di andare avanti e la storia si arresta. Pertanto il ruolo della storia nelle utopie assume una valenza

negativa: non solo di questa se ne annulla il divenire, ma le si nega anche il passato. La volontà di rompere la linea del tempo si esprime nell’esigenza di fare tabula rasa di ciò che è stato, così da riscrivere da capo un sistema sociale tutto nuovo34, idea irrealizzabile e contraddittoria che rinnega quello stesso passato che ha prodotto l’ideale utopico.

Anche osservando le utopie architettoniche, tra cui quelle appartenenti all’antologia dell’utopia letteraria, possiamo riscontrare questo rifiuto della storia.

Queste sono pregne di un formalismo che imprigiona l’abitare attraverso uno spazio che non accetta trasformazioni. Ciò appare evidente soprattutto nell’analizzare le forme delle città ideali dove la maniacale organizzazione spaziale, che ordina perfettamente la società inscritta al suo interno, definisce forme e confini immutabili, e con loro l’abitare dei suoi abitanti.

L’annullamento della storia sembra necessaria affinché si possa realizzare lo spazio perfetto per l’abitante ideale. La città utopica nasce sempre su un terreno vergine, «sarebbe dunque meglio costruire nel vuoto, avendo prima distrutto ogni realtà preesistente e ripartendo da zero, piuttosto che cercare di migliorare ciò che c’è con correzioni o aggiunte.»35 Il Plan Voisin di Le Corbusier si erige infatti sulle macerie del centro storico di Parigi con la giustificazione che è impossibile soddisfare le esigenze della società moderna negli spazi della città antica.

Ma quello che bisogna considerare di queste utopie, che sembrano non promettere nulla di buono nel momento in cui si considera una loro realizzazione, non è tanto il modello in sé proposto, come l’isola di Utopia di More o il plan Voisin di Le Corbusier, quanto il bisogno di rovesciare l’esistente e di dare voce ai quei desideri che possono finalmente prendere forma in un luogo, anche se astratto. Il topos immaginario è solo un pretesto per dare luogo ai desideri, e mai More avrebbe voluto realizzare Utopia, né tanto meno Le Corbusier distruggere il centro di Parigi. Pertanto il vero scopo del pensiero utopico non è formulare il prototipo perfetto, la cui realizzazione soddisferebbe una volta per tutte i sogni di felicità dell’uomo. Se così fosse avrebbe ragione Popper a considerare l’utopia pericolosa perché generatrice di violenza, poiché essendo il sommo bene un concetto relativo al quale non c’è scienza che tenga che ne possa legittimare la verità, colui che pretende di aver trovato la risposta, è solo con la violenza che può imporla agli altri36. Bloch ci tiene infatti a precisare che l’utopia è anticipatrice di ciò che sarà, ma perché questa sia rivelatrice deve conservare una parte di oscurità e indeterminatezza, altrimenti la coscienza anticipante che l’ha prodotta rischia di snaturarsi e degenerare in una forma autoritaria37. Per questo la volontà utopica non si realizza tanto nella determinazione positiva di ciò che desidera, quanto nella negazione di ciò che non vuole. Tale 63

negazione significa, in ultima analisi, mettere in discussione l’esistente, ossia esercitare una capacità critica che smaschera ciò che appare ovvio, obbligandoci a ripensarlo. La funzione più preziosa del pensiero utopico non è quindi la rivelazione di un eu-topos specifico, quanto piuttosto il riconoscere che ne siamo privati, che è quindi ou-topos. L’utopia più che condurci in un luogo altro allora, ci ricolloca diversamente nel qui ed ora. L’invocazione di Popper all’uso della razionalità, e pertanto di un approccio “a spizzico” per eliminare i “mali concreti” in opposizione ad un atteggiamento olistico che, legittimato dal fine ultimo di realizzare un “bene astratto”, riduce i momenti o fini parziali a semplici mezzi privi di significato e valore propri, si è rivelata disastrosa ed ha favorito una progettualità discontinua e frammentaria per cui il richiamo ad un approccio olistico ed utopico torna ad essere necessario38, soprattutto per contrastare quegli specialismi che hanno disgregato l’integrità della figura dell’architetto.

L’utopia diventa allora non solo l’attitudine ad osservare i problemi nella loro totalità, in cui si riflette una totalità di senso dell’agire, ma, in quanto mossa dalla speranza, tale agire volge sempre per un bene che si costruisce in divenire.

Se torniamo a guardare le utopie della storia con uno sguardo diverso, attento a cogliere cosa si cela dietro la visione, piuttosto che ad indagare le conseguenze di una loro realizzazione, ci accorgeremo al64

lora di come quei desideri hanno poi trovato il loro posto nel mondo, confermando la tesi di Bloch per cui la speranza è anticipatrice di ciò che è destinato in un futuro, più o meno lontano, a materializzarsi.

I desideri espressi dalle utopie, anche se ancora non appartengono alla realtà, sono però altrettanto reali e attendono solo il crearsi di un topos che li accolga.

Lo stesso avviene per i desideri legati all’abitare, dove l’architetto, se attento a saperli cogliere nel confronto con l’esistente, può, tramite il progetto caricato della tensione utopica, costruire uno spazio che li accolga, e che possa così diventare luogo39.

Note 1 Adriani M., L’utopia nel mondo moderno, a cura di Pavetto R., Vallecchi, Firenze 1969, p.29 2 Baldini M., Il pensiero utopico, Città Nuova Editrice, Roma 1974 p. 9 3 Moneti M., Città e utopia, Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVII (2011), Firenze University Press 2012, p. 7 4 Vittorio Ivo Comparato è docente ordinario di Storia moderna all’Università di Perugia. I suoi principali temi di ricerca riguardano: la cultura filosofica e politica italiana tra ‘600 e ‘700; il pensiero politico dell’assolutismo in Francia; la storia dell’amministrazione tra ‘400 e ‘600; il libertinismo politico e filosofico; i modelli politici nell’età moderna; repubblicanesimo e ideale “civile” nella cultura politica italiana tra metà ‘500 e metà ‘700.

5 Comparato V. I., Utopia, Il Mulino, Bologna 2005, p. 9-10 6 Cfr Bloch E., Il principio speranza, introduzione Remo Bodei, Garzanti, Milano 1994, p. 20 7 Quarta C., Livelli del pensiero utopico: antropologia, storia, letteratura, MORUS - Utopia e Rinascimento, n. 6,2009 8 Bloch E., ivi, p. 51 9 Bloch elabora la distinzione tra utopia astratta e utopia concreta, per approfondimenti sul tema vedi Bloch E., Il principio speranza, introduzione Remo Bodei, Garzanti, Milano 1994 10 Bloch E., ivi p. 22 11 Bloch E., ivi, p.16 12 Cfr. Gregotti V., L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma-Bari 2004, p.32 13 Bloch E., ivi, p. 58 14 Cfr Nesti A., Utopia e società, per una sociologia dell’utopia., Ianua Editrice, Roma 1979 15 Cfr, Bloch E., ivi, p. XVIII 16 Cfr, Bloch E., ivi, p. XIX 17 Cfr. Nesti A., ivi, p.27 18 Mannaheim K., Ideologia e Utopia, introduzione di Izzo A., Il Mulino, Bologna 1957, p. XV 19 Cfr ivi, pp. 191-193 20 Ibidem 21 Ivi, p.196 22 Ivi, p.200 23 Ivi, p.203

24 Vedi paragrafo p 2.1 25 Cfr Mannaheim K., pp. 205-206 26 Cfr Ricour P., Conferenze su ideologia e utopia, trad. it. di Grampa G. e Ferrari C. Jaca Book, Milano 1994, pp. 7-10 27 Baldini M., Il pensiero utopico, Città Nuova Editrice, Roma 1974 p. 33 28 Comparato V. I., Utopia, Il Mulino, Bologna 2005, p. 56 29 Baldini M., Il pensiero utopico, Città Nuova Editrice, Roma 1974 p. 33 30 Dubois G.C., De la première «Utopie» a la «première utopie française» : bibliographie et reflecxions sur la creation utopique du seizième siècle, in «Rèpertoire analytique de littèrature française», I 213, 1970, p. 13 31 Ivi, p.24 32 Ivi, p. 36 33 Dahrendorf R., Uscire dall’utopia, Il Mulino, Bologna 1971, p.

198 34 Popper K., Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, p. 583 35 Moneti M., Città e utopia, Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVII (2011), pp.7-20 36 Cfr Popper K., Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 601-615 37 Cfr Bloch E., ivi, p.13 38 Cfr Emery N., L’architettura difficile. La filosofia del costruire, Marinotti, Milano 2007, pp. 155-161 39 vedi nota 17 a pg.45

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CAP. 3 Il progetto come utopia

3.1 La pratica progettuale L’attività progettuale nasce fondamentalmente dal desiderio di vedere realizzarsi un’idea. «Non credo – afferma Gregotti – si possa parlare di progetto senza parlare di desiderio.»1 Si fa un progetto allora ogni qual volta si intende concretizzare ciò che si desidera: un viaggio, una relazione sentimentale, l’acquisizione di una disciplina, la costruzione di un oggetto o di un ambiente, etc. Qualsiasi impresa umana necessita di un progetto, la progettualità è una caratteristica propria dell’uomo per cui, la capacità di proiettarsi in un futuro che vede cambiato per mezzo della realizzazione di quel desiderio, quella stessa capacità propria dell’utopia, lo spinge ad impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. Norman Brown nel suo libro sul significato psicoanalitico della storia sostiene che «Il processo storico poggia sul desiderio dell’uomo di divenire altro da ciò che è. La storia è fatta al di là della nostra volontà non dall’astuzia della Ragione ma dall’astuzia del desiderio»2.

L’architettura è la disciplina che dà forma al nostro abitare. L’abitare è ciò che ci distingue dagli altri esseri: l’uomo è in quanto abita3, e il progetto architettonico è allora il tentativo di realizzare i desideri legati al modo in cui vogliamo stare al mondo: il desiderio di essere protetti da una natura avversa, il desiderio di essere comodi e a nostro agio, il desiderio di relazionarci 66

con l’altro, il desiderio di spostarci, il desiderio di godere della bellezza, il desiderio di esprimere il nostro essere in quanto uomini. Il desiderio, qualunque esso sia, nel suo formarsi denuncia un’assenza percepita nel presente, a cui la ragione tenta di porre rimedio proiettando su un piano ideale il luogo della sua soddisfazione, ovvero producendo un’utopia.

L’architettura è costantemente chiamata a colmare le assenze che un abitare sempre in divenire reclama, a cui deve rispondere costruendo quel nuovo come possibilità di risoluzione di quelle mancanze.

Per nuovo si intende soprattutto un nuovo ordine dell’esistente, che «[…] non è semplicemente ciò che si pone come pura presenza di cose: [ma] è il frutto di un’azione complessa con la quale la semplice materialità del mondo si trasforma in valore visibile, in realtà operante»4 per mezzo del progetto.

La disciplina architettonica, che non può essere ricondotta né a pura tecnica né tanto meno a pura arte, differenzia la sua produzione nell’intrattenere «vv[…] insoliti legami di confine tra le procedure deduttive (dal tema, dai principi agli effetti) o induttive (le condizioni di realtà, i bisogni, le norme) e quelle sintetico-figurali proprie delle discipline infografiche e artistiche»5. In quanto pratica artistica che lavora quindi con le condizioni empiriche come materiale ineliminabile del proprio agire, necessita che il progetto sia concepito nella forma di dialogo critico con l’esistente.

Franco Purini, Due Recinti, 1974

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Tale dialogo si costituisce a partire dal riconoscimento del contesto, quello geografico, storico e sociale, in cui si inserisce l’opera, da cui è necessario ricavare sia i principi insediativi che quegli aspetti strutturali necessari ad afferrare le prospettive di trasformazione che la condizione specifica e quella globale propongono6. La conoscenza del contesto deve essere quindi sottoposta ad un giudizio critico in modo da potersi distanziare da questo e rielaborare un suo ordine nuovo. Possiamo paragonare tale attività ad uno scavo archeologico per cui, scavando nel terreno, si trovano

Giorgio Ortona, Le palazzine di Roma, 2015

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una serie di frammenti di cui si fa poi una selezione volta a conservare quelle parti che servono alla ricostruzione dell’oggetto originario. Allo stesso modo accade nell’atto della progettazione che, però, a differenza del reperto archeologico, i frammenti che ha selezionato, non andranno a comporre qualcosa che già esiste ma daranno vita ad un nuovo oggetto. Il progetto deve quindi compiere una doppia operazione di reciproca influenza: ossia selezionare quei frammenti immaginando come e cosa erano e contemporaneamente immaginare, a partire da quei frammenti ritrovati,

come si comporrà il nuovo oggetto. Il progetto come atto conoscitivo sembra quindi muoversi tra scoperta e selezione di quelle condizioni oggettive e materiali che sono la struttura di partenza da cui avviare una riorganizzazione delle parti che mette in discussione l’ordine del presente attraverso un nuovo ordine più consono ai bisogni attuali e «[…] più adattabile ai suoi possibili sviluppi»7.

Lo scopo principale di creare un nuovo ordine è di «proporre verità altre a partire da una adesione o da una critica alle condizioni della realtà presente»8, perché se la scienza ha il compito di indagare le cose come sono, l’arte deve invece pensare alle cose come potrebbero o dovrebbero essere, ossia deve operare dell’esistente un’interpretazione che ci aiuti a comprenderne lo stato delle cose e conseguentemente le loro possibili evoluzioni. L’architettura dovrebbe quindi affrontare criticamente la realtà con una proposta di ordine altro che pretenda di modificarla9, perché come le verità scientifiche cambiano le nostre prospettive modificando la realtà, allo stesso modo le verità artistiche tramite l’opera influenzano l’esistente, e nel caso del manufatto architettonico lo trasformano.

Il significato dell’architettura che la distingue e le rende autonomia rispetto ad ogni altra pratica artistica risiede nel suo essere per abitare. Questo aspetto di funzionalità non implica che il progettare sia strumentale

all’abitare, per cui il suo significato rimanda all’abitare come un oggetto esterno di cui diventa simbolo, perché il progetto è già di per sé un abitare, ed è all’abitare essenziale10 prima ancora che strumentale. Allora il progetto nell’essere già un abitare deve rinnovarne il significato e costituirsi come realtà autonoma che afferma la sua essenzialità a prescindere dal suo attuarsi. Rinnovare il significato significa quindi anche rinnovare il linguaggio con cui dare forma all’abitare. Pertanto il ruolo conoscitivo del progetto esplora anche e soprattutto il campo della pratica architettonica, per codificare nuovi linguaggi che estendono il lessico espressivo. Il nuovo ordine si costituisce allora a partire dalla conoscenza sia della realtà empirica che del sapere della disciplina, e guidata dall’utopia, che è quella proiezione di uno stato ideale dove i desideri trovano soddisfazione, diventa una possibile, se non necessaria, alternativa alla realtà del contesto.

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3.2 Il ruolo dell’utopia nel progetto architettonico Il progetto all’origine deve essere sempre un’utopia, che, successivamente, nel confrontarsi con la realtà del presente incontra un punto di divergenza per cui o rimane utopia astratta oppure diventa utopia concreta e si fa progetto. Ma se anche l’utopia dovesse rimanere astratta e non farsi mai progetto manterrebbe ugualmente un’azione stimolatrice nei riguardi dell’azione.

Come detto in precedenza da Norman Brown, il bisogno dell’uomo è di «divenire altro da ciò che è», ovvero di cercare continuamente di evolversi superando le contingenze del presente. Come dice Anatole France: «Senza gli utopisti del passato gli uomini vivrebbero ancora nelle caverne, miserabili e nudi. Sono stati gli utopisti che hanno tracciato il piano della prima città […]. Da sogni coraggiosi sono nati benefici reali. Le utopie sono l’origine della ricerca di un futuro migliore».

Questa esigenza ha la sua sublime espressione nell’arte che è nemica di ogni soluzione definitiva, quindi sia nemica dell’ideologia, che conferma continuamente il presente legittimandolo, che dell’utopia nella forma in cui si presenta, ovvero come punto d’arrivo insuperabile e che quindi una volta raggiunto diventa definitivo anch’esso. Però l’immaginazione che ha creato quel punto d’arrivo è decentrata dalla realtà nello stesso modo in cui lo è l’immaginazione 70

artistica, ovvero in maniera critica. Tale immaginazione allora, distanziandosi criticamente dal presente, diventa costitutiva della realtà sociale e del suo rinnovamento, ed allo stesso tempo è da questa (la realtà sociale) influenzata. Questo nello specifico è ciò che accade nella disciplina architettonica dove il suo essere per abitare è strettamente legato alla dialettica della realtà sociale, alle sue utopie ed alle sue ideologie. «In qualche modo l’utopia è uno dei materiali dell’opera di architettura, un ingrediente che forse ha proprio nella parola “progetto” un elemento comune che viene continuamente proposto ed insieme limitato dallo scontro con la condizione del fare, e con la condizione di ogni presente»11.

Un progetto che rimane utopia astratta ha ugualmente valore per la ricerca artistica. Le utopie architettoniche come le città ideali del rinascimento, ad esempio, hanno avuto un ruolo essenziale nella storia del disegno urbano dei secoli successivi12, il che conferma che anche quando l’utopia rimane immagine ideale e slegata da qualsiasi contesto reale e storico, è in verità segretamente connessa a questo, e vi esercita un’influenza riscontrabile soprattutto nel mondo delle arti.

La visione di quel nuovo, migliore e più giusto, aiuta ad attivare una risoluzione delle contraddizioni del presente che può avvenire per mezzo dello strumento del progetto. L’annuncio della “fine dell’utopia”

Aldo Rossi. Cimitero di San Cataldo, Modena, 1971

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dichiarato da Marcuse si fonda proprio sull’idea che in quanto possibilità di realizzarsi l’utopia non è più ou-topia, per cui lottare per una società libera e giusta è possibile e non bisogna rinunciarvi. «La scomparsa dell’utopia – dice Mannheim – porta ad una condizione statica in cui l’uomo non è più che una cosa […] », poiché l’utopia, nella visione del filosofo tedesco, in quanto opposta all’ideologia smaschera quella falsa coscienza che permette di osservare la realtà, e con essa la storia, in maniera critica. Allora senza utopia «[…] l’uomo verrebbe a perdere ogni volontà di dare un senso alla storia, e pertanto, ogni capacità di intenderla», perché nell’osservarla criticamente (la storia) le assegna automaticamente un fine, quell’eu che l’uomo spera un giorno di realizzare. L’utopia è pertanto ciò che orienta il nostro agire caricandolo di un significato, e poiché in quanto uomini abbiamo bisogno di rinnovare continuamente tale significato dobbiamo continuamente rinnovare le nostre utopie perché queste non si raggiungano mai, ma continuino a far camminare: «Lei è all’orizzonte. [...] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare»13.

L’utopia in architettura è allora necessaria a rinnovare continuamente i suoi significati, a far proseguire quel cammino affinché le forme dell’abitare siano 72

sempre adeguate alle nuove esigenze dell’individuo e della comunità.

La realtà dell’opera, seppur discenda dal progetto, una volta compiuta, vive di vita propria, si distacca dalla realtà del progetto e come nuova realtà segna lo spostamento dall’esistente creando un sistema nuovo di conoscenze14. Sistema che emerge dal rapporto dialettico tra la realtà del progetto e quella del contesto, ed in quanto nuovo non è conoscibile dal progetto ma soltanto prevedibile. Nel suo farsi realtà quindi il progetto come utopia diventa tensione verso ciò che dovrebbe essere la realtà. Ogni agire nella complessità dell’esistente se orientato dalla tensione utopica, nel plasmare il progetto plasma automaticamente la realtà materiale verso ciò che dovrebbe essere il modo di stare al mondo dell’uomo, un modo sempre migliore e più giusto di quello attuale.

Se nell’agire del progetto non ci fosse quella tensione utopica, l’architettura giungerebbe ad una condizione di stasi, dove non sarebbe più in grado di essere quella pratica artistica autonoma, perché ridotta ad essere solamente strumentale ad un abitare nel quale l’uomo non sarebbe più in grado di riconoscersi.

3.3 L’utopia come infra Il nostro abitare prende forma in quella sfera artificiale che è il risultato, come sostiene Hannah Arendt, delle opere prodotte dall’homo faber, che serve a dare stabilità e solidità alla nostra esistenza sempre mutevole ed instabile15. La sfera artificiale non è semplicemente utile e funzionale allo stare al mondo, ma è dello stare al mondo sua trascendenza: il riflesso della soggettività umana nell’oggettività delle cose che crea.

L’aspetto utilitaristico degli oggetti che creiamo è certamente ineliminabile, e soprattutto necessario, ma l’essere mezzo per un fine di ogni cosa non è il suo fine ultimo perché «l’utilità posta come significato genera l’assenza di significato»16. Il processo con cui si fabbricano le cose è quello della reificazione: ovvero la concezione di un’immagine mentale che si fa concreta, la sua possibilità di trasformarsi da èidos in morphè17, tale che «neppure concepiamo la possibilità di fare un letto senza avere una certa immagine, un’ “idea” di un letto al nostro occhio interiore, né possiamo immaginare un letto senza far ricorso a qualche esperienza visiva di una cosa reale»18. Questa immagine è quindi ciò che permane al di là dell’oggetto e che gli permette una sua moltiplicazione che, diversamente dalla ripetizione, da uno stesso èidos produce diverse morphè. L’immagine o èidos è il fine in sé dell’oggetto, il cui significato risiede nel suo essere per l’uomo, che

lo rende, prima ancora che mezzo, riflesso della sua umanità. Ma l’homo faber giudica e fa ogni cosa solo nei termini di “fine-mezzo”, una visione utilitaristica che è incapace di intendere il significato degli oggetti, e che degrada tutte le cose, non solo gli oggetti di fabbricazione ma anche la terra in generale, e addirittura l’uomo stesso, in mezzi, provocando quel senso di alienazione nell’individuo che non si riconosce più in un mondo da lui stesso creato. Per uscire da tale aporia, l’unico modo è staccarsi dal mondo oggettivo delle cose d’uso e ritornare alla soggettività dell’uso stesso19, dove l’uomo, non quello che usa e strumentalizza, ma quello che pensa, parla e produce, è la misura di tutte le cose20.

Fra le cose che costituiscono quel mondo artificiale, c’è anche l’opera d’arte, che a differenza di ogni altro oggetto non ha nessuna utilità pratica. È il prodotto di un homo faber che pensa. Il pensare non ha un fine se non l’essere fine a se stesso, si differenzia per questo dal conoscere che ha uno scopo definito, un oggetto da indagare21. Il pensiero di fatto non produce risultati, è esule dalla dinamica fine-mezzo, ed è infatti “inutile” come lo sono le opere d’arte. Tale condizione di inutilità gli permette di essere permanente, e l’arte come suo riflesso sensibile, come sua morphè, lo è allo stesso modo, o almeno ha la possibilità di esserlo nella precarietà di questo mondo. L’arte è infatti portavoce del desiderio più grande dell’uomo: l’immor73

talità, l’ultima utopia che si possa mai concepire, ed è per questo motivo, tra le opere, la più necessaria. È prodotta anch’essa da un processo di reificazione in cui le immagini mentali sono però i sentimenti che il pensiero trasforma in oggetti concreti22. In quanto uomini soggetti alla pluralità del mondo e della nostra specie, abbiamo il bisogno di distinguerci in questa pluralità ma al tempo stesso di identificarcisi. Pertanto la funzione dell’opera d’arte è, per chi la osserva, l’identificarsi in quel sentimento che proviamo nella nostra intima singolarità, e che, nel vederla in un oggetto a noi esterno e riconosciuto da altri singoli come noi, ci fa riconoscere in quella pluralità che lo stesso ci appartiene; mentre, da parte di chi la fa (l’homo faber che

Paolo Zermani, La Cappella nel Bosco, Parma, 2012

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la pensa), è la sua parola, il discorso23 che lo distingue dagli altri, in quanto pronunciato da lui soltanto e per questo unico, ma che al tempo stesso agli altri lo eguaglia perché compreso e riconosciuto. L’opera pertanto parla, espone il suo discorso, e nel farlo agisce nella realtà costituendosi come un infra, uno spazio relazionale dove parole e azioni sono intorno a qualche realtà oggettiva del mondo24. In questo infra dell’arte, che è sempre utopico o distopico, perché lo è il pensiero che lo costituisce reificando quei sentimenti che principalmente fanno capo alle speranze (utopie) o alle angosce (distopie) dell’uomo, sopravvive quel mondo artificiale che altrimenti nella sua sola strumentalità perderebbe di senso. E con esso sopravvive l’uomo

poiché trova lo spazio per l’azione e il discorso. L’azione è il carattere distintivo dell’uomo; è il modo in cui si inserisce nel mondo umano e lo trasforma per mezzo di una creazione, rivelando così la sua unicità. Agire significa infatti prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa (dal latino agere), dando vita ad un nuovo processo, “producendo”, secondo la Arendt, la storia25. Nella vita e nella pratica progettuale si ha bisogno, per agire, di un significato che va al di là di quello prettamente strumentale.

Il motivo per cui Auroville ancora oggi sopravvive è proprio perché ha costituito questo infra, certamente diverso da quello di tipo artistico, ma analogo per la funzione che svolge. La parola di Mère e Sri Aurobindo, in quanto utopica, ha agito, dando la nascita ad uno spazio di relazioni intorno a cui parlano e agiscono coloro che quella parola l’hanno ascoltata, ed in essa si sono riconosciuti. L’utopia agisce perché coglie quelle tendenze presenti nella società, quei desideri latenti che la rendono capace di rovesciare l’ordine esistente, ed è infatti per questo che quel “sogno” si è posto come inter-est tra le persone, che le ha unite mettendole in relazione26. L’agire di chi abita questo luogo ha creato, e continua a creare, una nuova realtà proprio grazie a quell’infra, l’utopia, che lo motiva orientandolo in direzione di quel “sogno”. Oggi infatti non ci sarebbe nessuna Auroville se non ci fosse stata quell’utopia intorno alla quale agire. L’utopia è

allora necessaria per un’azione che possa dare vita a quel nuovo necessario al cammino della storia, perché se la storia è il prodotto dell’intreccio delle singole azioni che avvengono intorno a un discorso, affinché proceda in avanti, quel discorso dev’essere utopico.

Il progetto d’architettura è come un discorso che tramite la costruzione dell’opera agisce nella realtà del contesto in modo da modificarla. Tramite l’utopia motiva l’azione e la legittima presentandosi come quella possibile alternativa necessaria alla mutazione dell’esistente. Perché se l’architettura è costitutiva di quel mondo artificiale in cui l’uomo abita, allora anch’essa deve creare quell’infra affinché l’uomo riconosca, di quel mondo, il suo valore esistenziale. Valore che richiede di essere rinnovato dei suoi significati, così per rinnovarne le parole e le azioni, soprattutto in una realtà, come quella urbana, che è l’infra della società. In un esistente così radicato e rigido nella sua struttura, solo l’utopia del progetto può rigenerare la città in segno di un’idea di futuro che solo desidera di vedere un giorno quell’eu-topos non essere più ou-topos.

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Note 1 Gregotti V., Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966, p.

11 2 Brown N., La vita contro la morte, Adelphi, Milano 1964 3 « Esso [l’abitare] fa parte della nostra natura in quanto specie: meglio ancora, esso è la natura della nostra specie. Abitare è come venire al mondo, e venire al mondo è già un abitare» da Vitta M., Dell’abitare. Corpi spazi oggetti immagini. Einaudi, Torino 2008, p.3 4 Purini F., Comporre l’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000 5 Capozzi R., Visconti F., Il progetto di architettura come nesso tra teoria e prassi, Univrsity Press, Firenze 2017 6 Gregotti V., L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 69 7 Mumford L., Storia dell’utopia, introduzione Crispi F., trad. it. di D’Agostino, Donzelli, Roma, 2008, p. 19., Citazione presa dalla descrizione dell’utopia della ricostruzione che per esteso è: «l’utopia della ricostruzione è la visone di un ambiente ricostruito che serva meglio di quello attuale, la natura e gli scopi dell’essere umano che vi abita, e non sia solo più adatto alla sua natura attuale, ma più adattabile ai sui possibili sviluppi». L utopia della ricostruzione è analoga all’utopia concreta di Bloch.

8 Gregotti V., Il possibile necessario, Bompiani, Milano 2014, p. 11 9 Ivi, p. 16 10 Il progetto precede il costruire dell’architettura e si può pertanto considerarlo un “costruire”. Il costruire, secondo Heidegger, è già di per sé un abitare il che significa che il costruire è essenziale all’abitare oltre che strumentale. Per approfondimenti Heidegger M., Costruire, Abitare, Pensare., a cura di Barison M., in Taddio L., Costruire Abitare Pensare., Mimesis Edizioni, Milano 2011.

11 Ivi, p. 86 12 Gregotti V., Il possibile necessario, Bompiani, Milano 2014, p. 80 13 Citazione di Eduardo Galeano 14 Gregotti V., L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 74 15 Arendt H., Vita Activa, Bompiani, Milano 2019, p. 155 16 Ivi, p. 172 17 Nella filosofia greca il concetto di forma si distingue tra la forma come idea, immagine astratta, che è appunto l’èidos; e la forma sensibile che è la morphè, che discende dall’eidos, fatta di materia informata e presente in re.

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18 Ivi, p. 160 19 Ivi, p. 172 20 Ivi, p. 176 21 Ivi, p. 188 22 Ivi, p. 186 23 Hannah Arendt sostiene che gli uomini sono tra loro uguali e unici al tempo stesso: ovvero che «la pluralità umana è la paradossale pluralità di essere unici». Ciò che rivela questa unicità dell’uomo è il discorso e l’azione. Mediante queste facoltà l’uomo si distingue dagli altri esseri e tra gli uomini. Il discorso e l’azione servono quindi a distinguere la nostra unicità e a comprendere che siamo tutti ugualmente unici. Il discorso rivela quindi l’identità di chi lo compie e l’azione, intesa come prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento (dal latino agere), dà vita a questa identità, la fa entrare nel mondo. «Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre le loro identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del corpo e nel suono della voce». Per approfondimenti vedi Arendt H., Vita Activa, Bompiani, Milano 2019, pp. 193-264 24 Arendt H., ivi, p.201 25 Arendt H., ivi, pp.195-202 26 Ivi, p. 201

CAP. 4 Dispositivi utopici

4.1 La Cabinedda, oltre la funzione La Cabinedda è una pensilina per la fermata dell’autobus a Dorgali, in Sardegna progettata dal giovane architetto Davide Fancello e presentata all’Arcipelago Italia, la mostra del Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia del 2018. Fancello mette in tensione la funzione con il desiderio di radicare nel progetto una domanda altra, e disegna uno spazio metafisico con una cornice profonda 2 metri che ricava un’alcova nello spazio immateriale del panorama al di là della strada. È un’architettura che nega la sua utili-

Davide Fancello, Incorniciando il Paesaggio. Progetto per una fermata del Bus. Dorgali 2016

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tà nell’essenzialità della struttura, che sembra nascere per inquadrare il paesaggio piuttosto che per svolgere il compito di una pensilina che ci ripara nell’attesa dell’autobus. Un’ambiente quasi ridondante che ci fa dimenticare quale sia la sua funzione originaria. È un gesto progettuale che dichiara l’utopia dell’architettura di immaginare uno spazio in-comune anche lì dove sembra non poter sussistere. Il dispositivo progettuale è l’esito della tensione tra la realtà funzionale e il desiderio utopico che apre l’oggetto realizzato ad altri significati e rimandi. La pensilina diventa così, da semplice oggetto architettonico che ripara l’attesa dei suoi

passanti dalle intemperie di ogni stagione, una soglia dove l’uomo incontra il paesaggio, instaurando con esso una relazione che lo ricongiunge a quel territorio. Una soglia che è al tempo stesso un luogo dello “stare” temporaneo dove, con quattro sedie in legno e metallo, decorate dagli artigiani locali, pareti interne di legno, eccetto quella di fondo in vetro per farci osservare il paesaggio, siamo avvolti in un calore domestico in quel frammento di tempo che va a comporre la nostra quotidianità, un momento che condividiamo con chi, come noi, è in attesa di proseguire il suo viaggio. Una semplice pensilina si trasforma in un elogio al territorio ed alla socialità, un elogio che, soltanto con la tensione utopica che pervade il progetto, si può conseguire.

Dettaglio delle sedute

La parete in vetro per osservare il panorama del paese di Dorgali

L’invito alla contemplazione del paesaggio

L’alcova della cabina occupata dai passanti

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La Cabinedda innevata

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4.2 FRAC NORD Pas-de-Calais, quando il limite diventa una risorsa A Dunkerque, la terza città portuale della Francia situata a 10 km dal confine con il Belgio, nel 1988 viene dismesso, a causa di un collasso finanziario, il grande cantiere navale. Del vecchio complesso industriale rimane soltanto l’imponente AP2, il capannone dove venivano assemblate le navi al riparo dalle intemperie.

La città vuole preservare quell’edificio come l’ultima testimonianza del celebre passato di quell’area che è stata tra i principali motori economici della zona. La gigantesca struttura soprannominata “la Cattedrale”, divenuta simbolo dell’estinta gloria della vecchia industria navale, si erge solitaria ed abbandonata per diversi anni sullo sfondo piatto e monotono del Mare

del Nord fin quando, nel 2011, non viene scelta come sede del FRAC (Fonds Regional d’Art Contemporain), che la trasforma in una “cattedrale” dell’arte. Il valore simbolico di questo edificio riveste un ruolo chiave nel progetto di riconversione della struttura. Il progetto scelto è quello che lascia intatto il corpo di fabbrica del capannone e con lui la sua storia. Gli architetti Lacaton e Vassal gli affiancano semplicemente una sua copia, come a riproporre, con quella sua materialità effimera, lo spazio interno dell’AP2, che così nella sua vuota integrità può mantenere in vita la memoria del luogo che era stato una volta. Il progetto “trasforma” l’esistente mantenendolo intatto così com’è, e replicandole a fianco una quasi copia dell’esistente costruita ex novo: un paradosso. Un gesto antitetico ostentato dalla duplicazione del capannone

L’hangar dell’AP2 quando era operativo

Il nuovo edificio realizzato da Lacaton e Vassal

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L’interno dell’AP2 usato come spazio espositivo per il Museo FRAC

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industriale, reinterpretato in chiave contemporanea e destinato a rinnovare l’identità di quell’area, senza però negare quella precedente, come una semplice addizione il cui risultato è una nuova realtà che riscrive la storia di quel luogo. Il dispositivo progettuale che si gioca tra conservazione vs nuovo poste una a fianco dell’altra, restituisce la tensione utopica del progetto che si esplica nell’infrangere ogni regola convenzionale della ristrutturazione architettonica. Se non è quindi possibile giungere ad una sintesi tra passato e presente, allora perché non trasformare questa impotenza in un elemento di forza? L’esistente da ostacolo

diventa così una risorsa per il progetto e, quello che sembra un limite, è invece una soglia che ci apre ad infinite alternative. Il nuovo edificio che ospita il museo acquista valore infatti proprio nel moltiplicare, con la dovuta distanza critica, L’AP2 che, a sua volta, viene da questo valorizzato in una reciproca dialettica che mantiene distinti ed allo stesso tempo uniti i due corpi di fabbrica. Quando l’esistente si impone come limite, la tensione utopica mette in campo un progetto che punta a infrangere e ad invertire la prospettiva, un dispositivo utopico a partire dal quale si può costituire una nuova realtà.

Lacaton e Vassal, FRAC NORD Pas-de-Calais, Dunkerque, 2015

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L’ultimo piano del nuovo edificio del FRAC

Gli spazi del nuovo edificio del FRAC

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Il punto di giunzione tra il nuovo edificio e l’AP2

4.3 Like a Rolling Stone, una proposta radicale contro l’individualismo Like a Rolling Stone è un progetto frutto di una ricerca effettuata sullo spazio domestico dallo studio Dogma di Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara, presentata al padiglione britannico della Biennale di Venezia del 2016. Alla Biennale è stata messa in mostra quella che è la cellula minima abitativa per una residenza temporanea da inserire in uno spazio comune e totalmente permeabile, fatto di ambienti più o meno condivisi dove è la forma che suggerisce il labile confine tra individuale e collettivo. È il modello della pensione reinterpretata in chiave contemporanea, immaginata per un abitare in comune, che assicura uno spazio di privacy e di libertà individuale arricchito dalla qualità

di quello collettivo. Una vera e propria utopia architettonica che sintetizza la ricerca sulle forme dell’abitare tramite l’ideazione di un nuovo modello abitativo, la cui fattibilità concreta viene espressa nel progetto per un edificio che prende luogo a Londra. Questo progetto riassume la tesi dell’utopia in architettura come quella analisi critica dell’esistente volta a proporre un’alternativa possibile, che si fa necessaria nel voler compiere quel passo in avanti verso ciò che dovrebbe essere la realtà. La proposta di Dogma è frutto di un’analisi dello stato dell’abitare che si sta facendo sempre più nomade e temporaneo e che ha bisogno, per contrastare il senso di sradicamento, di soluzioni spaziali che favoriscono la condivisione e il senso di comunità. Nell’ottica di una società sempre più individualista è necessario promuovere spazi per la socialità,

Dogma, progetto per una boarding houses a Londra, 2016, planimetria piano tipo

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Vista laterale della boarding house

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assicurando al tempo stesso la libertà individuale. La cellula di Dogma fornisce infatti il necessario per una vita completamente individuale: un letto, un bagno e anche una cucina, solitamente considerato uno spazio collettivo, ridotti però spazialmente ai minimi termini per dare maggiore importanza allo spazio in comune.

Contrarre lo spazio individuale ma immergerlo in uno spazio generico ma collettivo è la concretizzazione della tensione utopica tra un abitare individuale e tutto privato e quello di un abitare comunitario. Un innesto dell’individuale nel collettivo invece che una gradualità di soglie tra privato, semi-privato, semi-pubblico e pubblico. Una scelta radicale senza compromessi.

Se pertanto si crede che l’architettura debba agire come quella pratica artistica autonoma che deve dare una forma all’abitare che migliori costantemente il nostro stare al mondo, i nostri progetti, come quello di Dogma, dovrebbero sempre essere una risposta radicale alle criticità della realtà, anche soltanto come spunto di riflessione sulla condizione attuale.

La cellula abitativa esposta alla Biennale di Venezia, Padiglione Britannico, 2016

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Viste degli interni della boarding house

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Vista frontale della boarding house

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Conclusioni

La tesi partiva da una domanda: si può dare un progetto senza che in questo si eserciti e lavori una tensione utopica? Nell’esplorare il rapporto tra utopia e progetto architettonico è emerso che tale relazione è inscindibile. L’architettura è quella pratica artistica che ha il suo significato nell’essere per abitare, questo implica che, in quanto forma d’arte, deve trascendere la realtà per offrire quella visione che permetta di comprendere meglio il presente, così da poterlo superare.

Deve pertanto operare un esame critico della realtà perché, se la sua essenza risiede nell’abitare, questa, essendo la forma in cui l’uomo sta al mondo, necessita di risolvere le contraddizioni a cui il presente la sottopone. Allora il progetto ha il compito di proporre quel possibile più giusto, e che come tale può proporsi come necessario volto a risolvere tali contraddizioni, e per farlo deve appellarsi a quella forma di pensiero, come quello utopico, che riesce a mettere in discussione l’esistente cercando di scoprirne quelle crepe da cui partire per ricostituire un ordine che non è più sostenibile. Il progetto non può allora sottrarsi dall’essere in sé utopico, inteso come quella tensione verso ciò che dovrebbe essere idealmente l’esistente, perché se non si ponesse come obiettivo un abitare ideale non potrebbe dare senso all’agire dell’opera e fornirle così quel significato che va oltre la sua semplice strumentalità. Sappiamo infatti che il progetto, in quanto è già un abitare, non può limitarsi ai suoi 90

aspetti funzionali, ovvero non è possibile considerare un’architettura semplicemente strumentale all’abitare, perché l’uomo ha bisogno di riconoscere in essa tutta la sua soggettività. Come abitare, il progetto deve allora avere un significato in sé che assume la forma di quell’abitare ideale in cui si dispiega l’utopia dello stare al mondo dell’uomo. Il progetto deve essere il disegno di quell’eu-topos che è ou-topos nel presente perché il suo obiettivo deve essere il benessere dell’uomo. Per questo motivo, l’architettura deve avere quella traccia di utopia che proprio tramite il progetto viene trasformata in una tensione verso ciò che dovrebbe essere l’esistente, perché l’architettura costruisce quel mondo artificiale, non certo determinante ma comunque costitutivo, della realtà sociale. Il suo essere per abitare può infatti essere tradotto in essere-per-gli-altri1, e deve quindi assumere quell’atteggiamento affine al pensare utopico che osserva i problemi nella loro totalità, per vedere, e quindi ricercare, una totalità di senso delle cose. Se si nega tale totalità di senso all’abitare, se l’architettura si riduce ad un prodotto estetico e funzionale al nostro stare al mondo, non saremmo più in grado di riconoscere in essa la nostra umanità, perché sarebbe solo quel mezzo per un fine che non coincide con il suo significato in sé, un’ architettura quindi non più autonoma perché privata della sua essenza, e neppure per-gli-altri perché, benché funzionale, provoca un senso di alienazione nell’individuo.

Come giustamente ci ricorda Nicola Emery: «Le discipline e le pratiche territoriali – e ogni progetto architettonico di qualunque scala possiede sempre essenzialmente un significato territoriale – non possono eludere ora più che mai il confronto con la questione ambientale.»2 Considerare la questione ambientale per un’architettura non vuol dire però soltanto limitarsi ad essere ecosostenibile nel senso in cui viene comunemente interpretato, ovvero non è una questione che riguarda limitatamente l’aspetto tecnologico, ma piuttosto investe l’intera sfera dell’abitare. Heidegger sostiene che per costruire bisogna saper abitare3, il che significa, oggigiorno, che bisogna imparare a curare e a preservare l’ambiente, per preservare e curare soprattutto noi stessi e la nostra sopravvivenza su questa terra. Sempre Emery sostiene che imparare ad abitare vuol dire costruire responsabilmente nei confronti dell’ambiente e della società, due aspetti complementari quando si parla di “sviluppo sostenibile”. Ricorda infatti che già Ippocrate sosteneva che l’ambiente influisce fortemente sullo stato di salute di chi lo abita, e pertanto è a partire dallo spazio che si determina il benessere dell’uomo e in generale della società4.

Allora il mio appello a riportare una tensione utopica nel progetto è soprattutto per contrastare un collasso ecologico e sociale che lo stile di vita capitalistico ha provocato. Solo l’utopia può di fatti contrastare un’ideologia dominante che per sua natura non

ha nessuna intenzione di rovesciare un esistente che gli è congeniale.

Sembrerebbe che oggi si sia persa la speranza che un mondo migliore sia possibile, e con lei, lo stimolo necessario per agire e cambiare un sistema che si sta rivelando letale per la nostra stessa specie. Siamo così assuefatti dall’immanenza della realtà che, come dice Mark Fisher, «è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo»5, ed infatti l’utopia si è ridotta ad una futile fantasticheria, buona soltanto a consolare le nostre fughe immaginarie, piuttosto che essere quella capacità di esplorare l’orizzonte delle possibili alternative. Alternative che possono diventare reali con la volontà condivisa di cambiare in nome di quel futuro migliore in cui dobbiamo sperare. Per fare ciò dobbiamo però credere che un mondo migliore sia possibile, ovvero avere fede lì dove la ragione si arresta perché incapace di trovare spiegazioni razionali all’irrazionalità della vita umana, così come fanno ad Auroville che, credendo in un sogno, gli hanno dato vita creando una città in cui si agisce rispetto a quel sogno, e rendendolo così reale seppure non realizzato. Una lezione sull’utopia, quella di Auroville, che non solo ci stimola a ritrovare fede in essa, ma che ci insegna anche che questa va considerata “sperimentalmente”, come sostiene Lefevbre.

Già Thomas More, con quella duplice valenza eu/ou-, voleva farci intuire che l’utopia dovesse rimanere su 91

un piano ipotetico così da esortare un cambiamento piuttosto che offrire una soluzione razionale alle contraddizioni della realtà, ma i totalitarismi del Novecento ci hanno mostrato di non aver imparato la lezione.

Oggi quella lezione dovremmo averla imparata, dovremmo aver compreso che si può solo agire intorno ad un’utopia, realizzando quindi la tensione verso quell’eu-topos che è ancora ou-topos. E pertanto il progetto allo stesso modo è un agire intorno ad un abitare ideale che solo a posteriori, con la costruzione dell’opera, prende forma nella realtà in una tensione verso ciò che dovrebbe essere idealmente. In questo senso il progetto è un’utopia che non ha mai luogo e l’opera una volta costruita mette in atto « […]un nuovo sistema di conoscenze in quanto interpretazioni della cosa costruita, sistema che giudica, utilizza, riutilizza, ricolloca, talvolta distrugge, diviene rovina e infine immagina ricostruzioni.»6 Un nuovo sistema che proprio perché nuovo non si può avere la pretesa di conoscere ma si può soltanto prevedere.

Esercitare il pensiero utopico nella pratica progettuale così da ristabilire quella tensione, non serve allora a trovare una soluzione ai problemi del presente, serve piuttosto a proporre un’ipotesi di realtà altra in nome di un ideale da perseguire, un ideale che se riconosciuto dalla collettività, diventando quindi un infra intorno al quale agire, è in grado di far avanzare il corso della storia e cambiare quel presente che non 92

soddisfa i nostri bisogni. Anche un progetto utopico che si propone come irrealizzabile è necessario, perché indica comunque una direzione di trasformazione. Se crediamo che un mondo più giusto sia ancora possibile, è il progetto intriso di una tensione utopica a farci intravedere l’opportunità di cambiare perché «utopia», scriveva Robert Musil «ha pressappoco lo stesso significato di possibilità»7.

Più che domandarsi allora se si può dare un progetto architettonico senza che in questo vi sia dell’utopia, la domanda che dovremmo porci è piuttosto: si può davvero smettere di sperare in un futuro migliore?

Note 1 Nicola Emery in L’architettura difficile. Filosofia del costruire, Marinotti Edizioni, Milano 2007, usa la definizione essere-per-gli-altri per spiegare il compito e lo scopo pubblico dell’architettura.

2 Emery N., L’architettura difficile. Filosofia del costruire, Marinotti Edizioni, Milano 2007, pg.161 3 Heidegger M., in Barison M., in Taddio L., Costruire Abitare Pensare., Mimesis Edizioni, Milano 2011 4 Cfr. Emery N., ivi pp.162-163 5 Fisher M., Realismo capitalista, Nero, Roma 2018 6 Gregotti V., L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma-Bari 2004, p.74 7 Musil R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962

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APP.1

Le voci di Auroville

Le “Voci di Auroville” è una raccolta delle interviste che ho preso durante la mia permanenza ad Auroville. L’intenzione è quella di far parlare la città attraverso coloro che la abitano, tra chi ha scelto di vivere in quel luogo, chi ci è cresciuto, chi lo frequenta regolarmente e chi, come me, è di passaggio.

Le parole degli intervistati ci raccontano i diversi punti di vista che coesisteono nella città, mostrandoci quella che è la sua più grande ricchezza: la varietà di opinioni.

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Glossario

Aurovillian

Cittadino di Auroville.

AV Kids

Nato ad Auroville o cresciuto nel periodo della pubertà.

Friend of Auroville

Persona attivamente impegnata ad Auroville che non può risiedere a causa di impegni personali altrove, ma che visita e partecipa ai progetti regolarmente; colui che rappresenta Auroville all’esterno per un lungo periodo come membro impegnato di una piattaforma internazionale di Auroville, in collegamento con i governi o le organizzazioni in relazione ai progetti di Auroville; una persona che, nel tempo, ha contribuito in maniera significativa a progetti di Auroville.

New Commer

Colui che richiede la cittadinanza. La premessa per richiedere la cittadinanza è che si abbia già avuto precedentemente un’esperienza ad Auroville. La richiesta prevede un periodo di prova che dura all’incirca un anno e mezzo, durante il quale si è introdotti nella città con il supporto di un Mentor e di un programma di integrazione. Al termine di questo periodo la comunità decide l’ammissione o meno del candidato.

Volunteer

Persona che svolge attività di volontariato ad Auroville e che come tale ha delle agevolazioni su vitto e alloggio.

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Sauro

Aurovillian

Direttore del consolato italiano a Pondicherry e responsabile della pianificazione e sviluppo urbano di Auroville.

Come sei venuto a conoscenza di Auroville e perché hai deciso di prendere parte a questo progetto?

Fin dall’adolescenza pratico lo yoga e seguo la filosofia di Sri Aurobindo, pertanto sono a conoscenza di Auroville sin dalla sua fondazione.

La prima volta sono venuto qui a 20 anni, nel ’78, e inizialmente vivevo all’ashram. Solo dopo mi sono trasferito ad Auroville.

Ho fatto questa scelta per poter mettere in pratica gli ideali in cui credo. Una cosa che avrei potuto fare ovunque volendo, ma per me ha senso farla qua.

Cosa significa unità umana?

Il concetto di unità umana è stato concepito da Sri Aurobindo. È uno stato, che si può definire mentale, una capacità che non ancora abbiamo sviluppato e che consiste nel riconoscere in noi e negli altri quello che Aurobindo definisce l’Essere Psichico, la massima evoluzione della coscienza umana. Essere in grado di leggere e sviluppare questo stato di coscienza comporta il riconoscimento dell’unità nella pluralità dell’umanità, che seppure si esprime in diverse forme, appartengono tutte ugualmente alla stessa anima che accomuna tutti gli esseri umani.

Come si manifesta l’unità umana, e possiamo considerare Auroville come sua manifestazione?

Non sono sicuro di come si possa materialmente manifestare. Posso però dire che Auroville più che una sua manifestazione è un luogo in cui è possibile lavorare perché si manifesti. È possibile già riscontrare un cambiamento in questo senso ad Auroville?

L’obiettivo è molto ambizioso e sarei tentato di dire che ad oggi non è possibile riscontrare nessun cambiamento o passo in avanti, ma se dovessi confrontare quello che succede qui con quello che succede nel mondo ho l’impressione che delle differenze ci sono, ed in questo

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senso vedo un cambiamento. Non saprei quantificarlo, ma percepisco una tensione interiore collettiva verso un obiettivo che fa si che qui si respiri un’aria diversa.

Molte persone ritengono che l’unità umana sia un lavoro soprattutto interiore, qual è la tua esperienza a riguardo?

L’unità umana avviene se ognuno di noi ha sviluppato una profonda consapevolezza del Sè, per questo è un lavoro interiore ed individuale. Io faccio questo lavoro quitidianamente facendo parte della comunità e dando il mio contributo.

Come può lo spazio supportare il salto evolutivo verso questo stato di coscienza?

Credo che lo spazio offra la possibilità, come fa Auroville, di esercitare le pratiche necessarie a sviluppare questa crescita. Pertanto non lo spazio inteso come forma, ma piuttosto come dispositivo che agevola determinate dinamiche sociali, perché sono quelle che fanno si che si sviluppi l’unità umana.

Che funzione ha il Matrimandir come luogo simbolo dell’unità umana?

Il Matrimandir è il punto di riferimento della città, il suo simbolo, anche quando ancora non esisteva. È uno spazio che permette un’esperienza unica, ed è il simbolo della città.

Per i cittadini è un luogo significativo che rappresenta la coesione. Lo è sopratutto per la sua costruzione, un processo lungo e faticoso che ha visto la partecipazione di tutta la città.

Erigere il Matrimandir è stato il paradigma dell’esperimento Auroville, dove è il processo che conta piuttosto che l’obiettivo in sè per sè, ovvero quello che ha comportato per la componente sociale ed umana coinvolta.

Cosa significa per te comunità? È una parola che non mi piace usare per Auroville proprio perché viene usata molto in riferimento a questa città. Spesso si considera Auroville una forma di comunitarismo quando invece ritengo che non lo siamo affatto.

Per comunità si intende solitamente un gruppo di persone che condividono aspirazioni, ideali e valori comuni senza la necessità di condividere uno stesso luogo, in questo senso possiamo dire che Auroville è una comunità.

Che relazione c’è quindi tra comunità a unità umana?

Non ci vedo nessuna relazione, comunità in molti casi determina esclusività, per cui si pone in antitesi al concetto di unità umana.

Una comunità che abbia sviluppato la propria interiorità al livello collettivo è allora una comunità che mostra un esperienza di unità umana, altrimenti ogni altro tipo di comunità è un atomo sociale che si pone in maniera diversa rispetto agli altri.

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Cosa condividono gli abitanti di Auroville come comunità?

Quello che noi abitanti di Auroville condividiamo è l’aspirazione a realizzare il sogno della Madre, creare quindi una società dove l’educazione deve far crescere le persone e non dargli solo dei certificati, il lavoro deve essere espressione delle proprie qualità e non assicurare soldi e posizioni sociali, l’amministrazione significa responsabilità e non potere ecc. Ognuno di noi crede in questi valori, a prescindere dal motivo per cui si sceglie di vivere ad Auroville che varia da persona a persona, ed ognuno interpreta il sogno e lo mette in pratica come meglio crede.

Perché è necessario un periodo da New Commer per diventare Aurovilliani?

Il periodo da New Commer è un periodo di prova che serve soprattutto a chi decide di voler vivere ad Auroville, per vedere se questo è il luogo adatto. Scegliere di vivere qui è una scelta importante e necessita del tempo per essere presa.

Perché credi che la madre abbia voluto la città come luogo per mettere in atto questo processo evolutivo che porta all’unita umana?

Premesso che Auroville non è l’unico canale per raggiungere l’unità umana, il motivo per cui ha voluto la città sta nel fatto che c’è bisogno della scala urbana per rendere questo esperimento sociale valido. Inoltre, quello che evoca la città in termini di civis e come relazioni tra le persone, è uno degli esempi più significativi. Se guardiamo alle esperienze spirituali del passato, tutte hanno rifuggito la città. La città esemplifica il motore della vita sociale ed ordinaria e la spiritualità, intesa come evasione dal mondo terreno, non ha mai trovato spazio nell’ambiente urbano. La città è però il cuore delle relazioni sociali, la sua scala è quella che meglio esprime i rapporti tra le persone. È pertanto la dimensione urbana l’unica dimensione adatta per questo esperimento.

La Galassia di Roger Anger andrebbe rivista oggigiorno?

La Galassia dovrebbe essere studiata ed approfondita per capire la visione che Roger aveva della città e del concetto sociale che c’è dietro il disegno. Purtroppo il lavoro che Roger ha lasciato non è stato ancora reso fruibile per cui la sua Galassia rimane oggetto di libera interpretazione. Credo che la visione di Roger sia valida ancora oggi, necessita però di una sua traduzione in un linguaggio organico.

Se dovesse aumentare il numero di residenti, la comunità ne subirebbe effetti negativi?

No. Se riuscissimo a raggiungere una certa scala la comunità piuttosto ne beneficerebbe.

L’unico rischio è che, se per crescere, rinunciassimo ai valori per cui Auroville è stata fondata, togliendo quindi alcuni vincoli economici, l’intero progetto perderebbe di senso.

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Perché credi che alcune persone siano preoccupate all’idea di avere una città di 50 mila abitanti?

La parola città fa paura perché a questa si associa l’immagine della città postindustriale, che è un tipo di città che disumanizza, dove l’uomo è ridotto ad essere un atomo sociale disaggregato. All’interno di Auroville ci sono persone che si oppongo all’idea di costruire una città, che sono venute qui anche perché Auroville non è ad oggi una città. Riceviamo molte critiche dall’esterno per questo motivo, veniamo considerati un eco-villaggio, quando l’obiettivo è invece quello di creare una città per l’uomo. È un progetto ambizioso questo ed utopico, che porta con se molto scettiscismo, ma il nostro scopo è proprio questo: realizzare l’utopia.

Quali sono le caratteristiche per una città ideale?

Non saprei dire quali sono le caratteristiche che compongono una città ideale. Credo però che sia importante il processo attraverso il quale si costruisce la città, perché sono le persone che fanno la città e viceversa la città fa le persone.

Cosa rende Auroville diversa dalle altre città?

Quello che la rende diversa è il tentativo di realizzare una società sulla base di valori condivisi ed intangibili.

Perché Auroville è la città di cui la terra ha bisogno?

Perché come abbiamo detto prima, la città contemporanea non è una città per l’uomo, e se consideriamo che più del 50% della popolazione mondiale vive in ambienti urbani c’è forse bisogno di ripensare la città. Inoltre la città è sempre stato il fulcro delle attività umane per cui è importante creare un ambiente urbano che non sia alienante ma che piuttosto contribuisca alla crescita dell’uomo

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Andrea

Friend of Auroville

Archittetto e docente del dipartimento di Architettura e Studi Urbani al Politecnico di Milano.

Come sei venuto a conoscenza di Auroville?

Nei primi anni 2000 lessi alcuni libri di Sat Prem e di Sri Aurobindo, e nello stesso periodo feci anche i miei primi viaggi in India e mi avvicinai a queste realtà non sapendo ancora dell’esistenza di Auroville.

Cinque anni fa stavo organizzando un viaggio nell’India del sud e un mio studente indiano conoscendo le mie inclinazioni, mi suggerì di includere Auroville tra le varie mete, e così nel 2014 visitai questo posto per la prima volta. Fui subito catturato dal luogo ed entrai in contatto con moltissime persone che mi coinvolsero in tutto quello in cui potevo essere coinvolto, vista la mia professione. Già da quel momento inizia immediatamente a pensare a tutti i progetti che si potevano realizzare e tornai difatti ad Auroville diversi mesi dopo per organizzare workshop e attività per l’anno successivo.

Ho subito trovato questo luogo un posto dove poter arricchire e sviluppare le mie conoscenze, il coinvolgimento è stato molto intenso, soprattutto al livello personale. Anno dopo anno infatti spendo sempre più tempo qui ad esplorare e a cercare di comprendere questo luogo.

Cosa ti ha spinto a voler dare il tuo contributo a questo progetto?

Sono attratto dal sogno di fondare una città che non abbia i vincoli imposti dal sistema capitalistico e che si fonda su valori che intendono restituire dignità all’uomo. Frequentare questo luogo mi arricchisce sia interiormente che esteriormente e, se sei una persona sensibile che riesce a capire l’importanza dell’utopia di Auroville, non puoi non prenderne parte.

È una sfida prendere parte a questo progetto? Se sì, perché? È una sfida perché alla mia età non è facile abbandonare tutto quello che ho costruito in Italia. Ho delle responsabilità e non posso semplicemente mollare tutto per venire qua. Per questo faccio avanti e indietro ogni anno e ancora non me la sento di trasferirmi definitivamente. Oltre alla questione cosa lascio in Italia, c’è poi la vita quotidiana qui ad Auroville che comporta tutte le complicazioni legate al luogo: la cultura indiana, il clima, il confrontarsi con tante culture diverse, soprattutto nell’ambito

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lavorativo; per cui la difficoltà sta fondamentalmente nel abituarsi ad un mondo nuovo e completamente diverso dal nostro.

Quel è per te il significato di human unity?

La human unity nasce come concetto filosofico. È un qualcosa di astratto che io interpreto come un processo, un lavoro interiore di riflessione sulle proprie azioni e sui rapporti che si stabiliscono con l’altro. Facendo questo lavoro si raggiunge uno stato di coscienza diverso da quello a cui siamo abituati. E se viene fatto da tutti, se tutti raggiungono questo diverso stato di coscienza, allora la human unity si realizza.

Come si manifesta la human unity?

Si manifesta ovunque e da nessuna parte. È un lavoro di crescita interiore individuale per cui è difficile accertarne la manifestazione. Dipende anche dalla sensibilità di chi osserva gli eventi.

Come stai mettendo in atto questo processo di sviluppo interiore?

Attraverso il mio lavoro: mi sto occupando della pianificazione dell’International Zone usando i metodi della pianificazione partecipata. Sono pertanto a stretto contatto con la cittadinanza, stiamo disegnando insieme una parte di città praticamente. Mette a dura prova. Il livello di scontro è altissimo, sembra di assistere alle riunioni condominiali. Se si impara, in situazioni come queste, a collaborare, a trovare un livello di comunicazione tale da riuscir a comprendere le esigenze di tutti, per me è già un passo avanti verso l’unità umana.

Credi che la comunità di Auroville sia un esempio di unità umana?

La comunità di Auroville è sicuramente un esempio del tentativo di raggiungere questo obiettivo.

Vivere qui è una scelta, un atto di volontà che implica una certa predisposizione alla collaborazione ed anche una condivisione di valori. Nonostante ciò, non mancano le difficoltà del vivere insieme.

Molti temi riscontrano opinioni divergenti, e senza il consenso generale non si prendono decisioni.

C’è pertanto un tavolo di discussione costantemente aperto ad Auroville e credo che questo sia il traguardo più importante che ha raggiunto, perché solo mantenendo quel tavolo aperto possiamo sperare di vedere l’unità umana realizzarsi.

Ci sono luoghi che simbolicamente rappresentano l’unità umana?

Ci sono luoghi, come il Matrimandir che rappresenta l’anima di Auroville, che sono simbolici, e poi ci sono poi luoghi in cui l’unità umana più che rappresentata è esercitata. Parlo di quegli spazi sociali presenti qui ad Auroville sia nella sfera privata, come la cucina in comune delle community, che in quella pubblica, come il Solar Kitchen, che è la mensa di Auroville, o l’Unity Pavillion, dove si organizzano le assemblee cittadine, gli workshop di progettazione partecipata e quant’altro. Questi spazi

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creano occasioni di socialità che danno la possibilità di stabilire legami tra le persone.

In generale qualsiasi spazio, pubblico o privato che sia, disposto per accogliere momenti di socialità, è uno spazio che potenzialmente esercita l’unità umana.

Perché credi che la madre abbia voluto la città come ambiente per mettere in atto l’unità umana?

Perché Auroville è prima di tutto un esperimento sociale, e la città, ponendoti nella condizione di una specifica quotidianeità, è l’unico terreno valido sul quale verificare la messa in pratica dei valori e degli ideali necessari per raggiungere tale scopo.

È ancora possibile realizzare oggigiorno il masterplan di Roger Anger?

Roger Anger avevo previsto che il masterplan fosse revisionato ogni 5 anni, vista la trasformazione in divenire del territorio. Questo lavoro non è però mai stato fatto per cui ci si ritrova oggi con un’immagine della città cristallizzata in un disegno che poco si adatta al dinamismo della società che abita oggi questo luogo. Se giustapponiamo il masterplan sul territorio così come lo rileviamo oggi, ci sono molte incongruenze. Si è aperto pertanto un dibattito in merito alla pianificazione della città che vede principalmente due schieramenti: un fronte a favore della realizzazione della galassia e un altro che ne vuole rivedere gli estremi rispetto alle condizioni attuali. La mia opinione, è che si può sicuramente mantenere il suo aspetto programmatico, e, per quanto riguarda la forma, va modificata affinché sia compatibile con la situazione attuale.

Qual è la difficoltà che impedisce la realizzazione del sogno, quantomeno nella sua conformazione fisica?

La città è un prodotto della società che la abita. Auroville sta sperimentando un modello sociale che rivoluziona i canoni della società contemporanea, sono pertanto gli strumenti stessi, atti a predisporre la trasformazione del territorio, a mancare di una sistematicità che ne impedisce la semplice attuazione. Il processo di costruzione della città rientra quindi nell’esperimento sociale ed è pertanto condizionato nella sua realizzazione dalle dinamiche sociali ed economiche di una società in sviluppo.

Ad Auroville si ricerca un’unità di intenti da parte della cittadinanza senza la quale la città è impossibilitata nel suo compimento.

Qual è il ruolo dell’architetto in questo processo?

L’architetto dovrebbe usare le proprie competenze a servizio della comunità piuttosto che essere una “firma” che non si relaziona con il principale fruitore dello spazio che disegna: l’uomo. Per questo sono un sostenitore della progettazione partecipata, di cui sto facendo esercizio qui ad Auroville.

Quali sono i rischi che la comunità corre se dovesse aumentare la popolazione?

L’aumento della popolazione è una speranza qui ad Auroville piuttosto che un rischio. Credo però 106

che, vista la gestione attuale della città, potrebbero esserci delle criticità dovute ad un sistema che, già con l’attuale numero di residenti, affronta grandi difficoltà di governance. Come planner ritengo comunque che con l’aumentare della popolazione si possa raggiungere una massa critica adeguata a far partire tutta una serie di servizi che può solo che giovare allo sviluppo della città.

La densità abitativa che Auroville si propone di raggiungere è molto alta, come può la città mantenere un livello di sostenibilità sociale adeguato in merito?

Tramite un disegno dello spazio che riesca ad assicurare una scala umana evitando fenomeni di alienazione tipici della città contemporanea.

Qui entra in gioco l’architettura il cui ruolo principale dovrebbe essere proprio quello di rendere lo spazio “umano”.

Quali sono le caratteristiche che renderebbero Auroville un modello di città ideale?

La città ideale è un’utopia. È piuttosto il lavoro costante teso al raggiungimento di tale utopia che fanno di Auroville un modello che può essere preso da esempio.

Auroville è l’unico caso al mondo che da cinquant’anni sperimenta un modello sociale diverso e quello che è interessante non è tanto guardare agli obiettivi raggiunti e non, quanto piuttosto guardare al metodo attraverso il quale intende raggiungere tali obiettivi. Non è un caso che questo progetto sia riconosciuto e sostenuto dall’UNESCO, dal Governo Indiano e da tante altre associazioni internazionali, perché se ne riconosce il valore e l’importanza in questo momento storico.

Perché Auroville è la città di cui la terra ha bisogno?

Per tutto quello che ho detto fin ora!

Quale parola useresti per descrivere Auroville?

PAZZIA

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Elena

AV Kids

Responsabile dell’African Pavillion e menbro del Selection Team.

In quale comunità vivi ad Auroville?

Abito in Courage community, è una delle prime comunità nate qui ad Auroville. Qui ci abitano soltanto aurovilliani e abbiamo una zona destinata solo per ragazzi al di sotto una certa età. Ci sono pochi spazi in comune, un’area gioco per i bambini e uno spazio per gli eventi che periodicamente avvengo nella comunità, come il potlock (una cena dove ognuno porta del cibo cucinato e lo condivide con gli altri) e i meeting che facciamo una volta al mese per l’organizzazione delle attività della comunità. Idealmente si vorrebbe avere una vita “in comune” ma di fatto ciò non avviene. Io personalmente non prendo parte alle attività che vengono organizzate, non sono nemmeno iscritta alla mailing list perché non ho tempo e voglia di farne parte. I rapporti sociali con il vicinato si limitano al quotidiano: busso alle loro porte se ho bisogno di una cipolla, per esempio, o porto il cibo che mi avanza alla mia vicina anziana che so che non ha voglia di cucinare, ma al di fuori di questi momenti non ho nessun altro tipo di relazione con chi mi abita accanto.

Una volta però era diverso, c’era una sola cucina in tutta la comunità per cui si era costretti ad incontrarsi e a stare insieme. Questo succede ancora in qualche comunità, ma sono rimaste in poche ormai. Se non c’è un motivo per stare insieme, come il mangiare, è difficile che questo accada volontariamente. Ognuno adesso ha i propri spazi e si sono ridotte le occasioni di socialità. Credo sia anche cambiato lo spirito, prima c’era più voglia di stare insieme, adesso c’è più individualismo. Siamo diventati forse in troppi per fare quello che facevamo prima, siamo più di 200 residenti adesso, e la vita scorreva più lentamente. Stiamo anche noi subendo i cambiamenti che avvengono fuori da qua, internet ad esempio. Una volta dovevo andare a la Terrace per avere la connessione, ero quindi costretta a uscire e ad incontrare altre persone.

Ora che ho internet a casa non ne ho più bisogno. Quando hai tutto nella tua sfera privata ti perdi le occasioni di socialità e devi fare tu lo sforzo di creartele.

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Qual è la tua occupazione?

Lavoro per all’African Pavillion e faccio parte del Selection Team che decide i candidati del Working Comitee.

Il lavoro che fai ti lascia abbastanza tempo per te stessa?

Si, ho molto tempo da dedicare a me stessa fuori dal lavoro.

Quali sono i posti che frequenti con i tuoi amici?

Non esco molto ma quando lo faccio mi ritrovo spesso a casa di amici, perchè la maggior parte dei locali chiudono molto presto la sera e non ci sono spazi pubblici dove poter stare con gli amici. Abbiamo la foresta come spazio pubblico, ogni tanto ci portiamo gli speakers e organizziamo delle feste.

Con chi esci di solito?

Sono stata via 7 anni per motivi di studio, per cui da quando sono tornata la mia vita è cambiata molto rispetto a prima che partissi. Prima di tutto, sono cresciuta, e poi l’aver vissuto fuori mi ha cambiato il modo di vedere e vivere Auroville. Ora ad esempio frequento soprattutto new-commers e guests. Il mio fidanzato stesso è un new-commer, ed è tramite lui che sono entrata in contatto con chi non è aurovilliano. Adesso ho un ventaglio di persone molto più ampio rispetto a prima quando uscivo solo con gli aurovilliani.

Credo che chi vive e cresce qui sia piuttosto chiuso nei confronti di quelli che vengono da fuori, ed è strano perché l’aurovilliano generalmente è stato lui stesso un guest e poi un new commer prima di diventare aurovilliano non capisco quindi perché si abbia questo atteggiamento.

Che differenza vedi tra gli aurovilliani nati qua e quelli che ci si sono trasferiti?

Chi è nato qua è più chiuso nei confronti di chi viene da fuori perché siamo una realtà molto piccola. Qua c’è gente che va e viene in continuazione per cui chi vive qua ha bisogno di stabilire rapporti duraturi con le persone e non ha interesse per chi si ferma temporaneamente.

C’è poi una differenza tra i pionieri e quelli che sono arrivati dopo. I pionieri hanno visto questo posto nascere e sono restii a dare spazio a nuove idee e cambiamenti per Auroville, non lasciano a noi giovani la possibilità di dare il nostro contributo.

Prendi parte ai molti eventi e workshop presenti in Auroville? Credi che siano un modo per socializzare tra le persone?

Si, sono sicuramente un modo per conoscere ed entrare in contatto con gli altri, ma sono pensati più per i visitatori che per noi aurovilliani. Difficilmente partecipo a questi eventi, sono talmente tanti e così frequenti che non ne ho neanche il tempo.

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Ci sono però eventi significativi come il compleanno di Auroville o eventi relativi alle festività di questa regione a cui partecipa tutta la città a cui mi piace prendere parte. È bello vedere che tutta la città si raccoglie quando ad esempio ci sono decisioni importanti da prendere, o per un funerale.

Auroville ti dà la possibilità di avere una vita sociale qualora to lo si voglia, oppure di fare una molto vita solitaria, insomma sta a te decidere.

Come si relaziona la città con i villaggi limitrofi?

C’è un forte divario tra Auroville e i villaggi intorno, culturale sopratutto. Non parliamo la stessa lingua, per cominciare, e c’è poi una grande differenza al livello economico: i prezzi di Auroville sono estremamente più alti che nei villaggi, e nonostante ci siano molte persone dei villaggi che lavorano ad Auroville, non c’è nessun rapporto al di fuori di quello lavorativo.

Nonostante sia cresciuta qui, non ho mai avuto la necessità di dovermi avvicinare alla cultura tamil. Ora però sento il bisogno di conoscere meglio i miei vicini.

Auroville, se la sai cogliere, ti dà la possibilità di entrare in contatto con la cultura indiana, ma è una scelta personale farlo o meno.

In quali altre città hai vissuto, e che differenza c’è in merito al senso di comunità che sperimenti ad Auroville?

Sono nata ad Addis Abeba e ho vissuto lì fino a 14 anni, poi mi sono trasferita con la mia famiglia adottiva ad Auroville, e all’età di 21 anni sono andata ad Aix-en-Provance per fare l’università, e ci sono rimasta per 7 anni. E ora sono di nuovo qua.

In Etiopia c’è un forte senso di comunità, la società si struttura sulla famiglia e questa ha un peso molto importante nella vita di un individuo. Inoltre l’immigrazione è quasi inesistente per cui non ci sono molti contatti con il mondo esterno, la comunità è piuttosto chiusa in se stessa. Ci si conosce tutti e tutti sanno quello che fai, in questo senso c’è molta pressione da parte della società e non si è liberi nelle proprie scelte. La comunità è una comunità che nasce su legami di sangue, è la famiglia, mentre qui ad Auroville i legami nascono per volontà il che li rende qualitativamente molto più forti.

Le aspettative che si hanno su un individuo qui ad Auroville sono diverse rispetto a fuori, ci si preoccupa che ognuno si realizzi come persona e non come soggetto di una società produttiva.

In Aix-en-Provance erano tutti molto curiosi di conoscere la realtà da cui provenivo, mentre ad Auroville a nessuno interessa più di tanto da dove vieni. Ognuno di noi ha una storia ed una cultura di provenienza, per cui non ci si fa caso, e siamo anche abituati ad incontrare persone che vengono da tutto il mondo.

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Ho sofferto la mancanza di un senso di comunità all’estero. E mi è mancato avere quel mix di culture a cui qui sono abituata. Andavo spesso a Marsiglia per questo: lì potevo incontrare persone che venivano da tutto il mondo, era affascinante.

Perché hai deciso di tornare ad Auroville?

Credo nel sogno di Auroville e voglio impegnarmi perché si realizzi. Vivere qui dà senso alla mia vita, altrimenti avrei potuto abitare da qualunque altra parte.

A quale cultura ti senti di appartenere di più?

A tutte e a nessuna in particolare. Questo mi dà un grande senso di libertà.

Quali sono le difficoltà di vivere ad Auroville?

Non ci sono regole, è un anarchia. Questo rende la vita difficile a volte perché sei tu che devi creare il tuo mondo, le tue relazioni, il senso delle tue giornate. A volte puoi sentirti molto solo.

Quanta mescolanza tra culture c’è qui ad Auroville?

Non molto in realtà, o quantomeno non abbastanza per quanto mi riguarda. Ricordo, quando andavo a scuola, poiché sono arrivata che avevo già quindici anni, non sapevo con chi sedermi a mensa perché non ero ne indiana e ne occidentale, e non parlavo neppure bene l’inglese, sono stati anni difficili. Tra ragazzi specialmente c’è una divisione tra bianchi e indiani, e anche tra gli adulti questo divario persiste. In generale si tende a ricreare i gruppi sulla base della nazionalità di provenienza. È piuttosto evidente quando vai al Solar Kitchen e vedi come si organizzano le tavolate.

Ti è stata insegnata a scuola la filosofia di Sri Aurobindo e Mère?

C’era una classe a proposito ma non l’ho mai frequenta. È stato il mio padre adottivo che me ne parlava e poi sono stata io ad interessi alla materia per cui ho letto diversi dei loro scritti.

Credi nell’unità umana? Cosa significa per te?

L’unità umana per me è la sensazione di sentirmi connessa con qualcuno a dispetto di cosa si possa avere in comune con quella persona. Dipende da come mi pongo nei confronti dell’altro. È una sensazione piacevole che mi dà calore e mi rende felice. Se posso provare questo sentimento significa che è reale ed esiste.

Come si manifesta?

Si manifesta nel momento in cui tutti noi riusciamo a liberarci delle sovrastrutture e riusciamo ad esprimerci pienamente, allora si crea una relazione profonda e sincera che ci mette in connessione.

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Quale luogo rappresenta simbolicamente l’unità umana?

Il progetto per l’African Pavillion per me rappresenta l’unità umana. È stato scelto di unificare tutti gli stati africani sotto un unico padiglione invece di averne tanti quante le nazioni rappresentate.

Questo progetto nella sua realizzazione ci costringere indirettamente a mettere in pratica il senso dell’unità umana perché c’è la necessità di mettere d’accordo un gruppo di persone, ognuna diversa nella sua personalità, per lavorare ad un progetto comune. Sta quindi a noi singoli predisporci in un atteggiamento di apertura al dialogo al fine di permettere la collaborazione, ed è infatti per questo che l’unità umana si raggiunge attraverso un percorso individuale di crescita interiore perché è il singolo che determina il gruppo.

Che importanza ha per te il Matrimandir?

Nessuna in particolare, è un luogo in cui mi piace andare per l’atmosfera che si respira e mi piacciono molto i suoi giardini. È il simbolo della città ma la sua presenza non è per me fondamentale.

Che significa per te comunità?

Significa occuparsi dell’altro e condividere.

Cosa condividi con gli abitanti di Auroville e qual è il tuo contributo?

Con gli abitanti di Auroville condivido l’idea di poter realizzare una società i cui membri siano felici. Perché questo avvenga significa che ognuno di noi deve contribuire al perché accada, sia per se stessi che per la comunità. È come un dono che si fa con gioia.

Credi che Auroville si stia sviluppando secondo la visione della madre?

Non del tutto, il sistema economico dipende molto dal sistema economico mondiale e questo fa sì che ci sia una frontiera invisibile dettata dalla capacità economica di una persona. Non si ha accesso alla cittadinanza se non si possiede un minimo da cui partire.

Cosa rende Auroville diversa dalle altre città?

L’impatto che il singolo può avere sulla città. Ad Auroville chiunque viene ascoltato e chiunque può prendere parte alla vita politica e portare avanti le proprie idee. Fuori questo non è possibile, o quanto meno è molto difficile che si venga ascoltati.

Cosa ne pensi del masterplan di Roger Anger e del dibattito che si sta svolgendo a proposito?

Credo che sia una sorta di test a cui siamo sottoposti per imparare a collaborare insieme. Non mi interessa tanto se verrà realizzata la galassia o meno. Mi interessa piuttosto il processo a

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cui siamo sottoposti perché si costruisca la città.

Se dovesse aumentare il numero di abitanti, la vita di comunità che c’è oggigiorno sarebbe ancora sostenibile?

Sarebbe un bene per Auroville aumentare il numero dei suoi abitanti. Credo però che questo potrebbe essere anche un rischio per la vita di comunità a cui siamo abituati oggi. La sfida però è proprio questa, quindi spero che Auroville cresca.

Cosa vorresti vedere realizzato ad Auroville tra 50 anni?

Vorrei vedere la città che ha saputo mantenere le caratteristiche che oggi la rendono speciale come: il senso di libertà e il rapporto che ha con la natura.

Perché Auroville è la città di cui la terra ha bisogno?

La terra non ha bisogno di Auroville ma del sogno per cui è nata.

Una parola per descrivere Auroville?

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Omar

New Commer

Architetto e insegnate alla Last School di Auroville.

Come sei venuto a conoscenza di Auroville?

Per caso, per motivi di ricerca sono finito all’Earth Institute e per il primo mese in cui sono stato qui non avevo idea di cosa fosse Auroville, l’ho scoperto solo più tardi.

Perché hai deciso di tornare e diventare Aurovilliano?

Ogni volta che venivo pensavo che non sarebbe stato male vivere qua, finché non me ne sono convinto del tutto. Qua posso fare cose che fuori sarebbero impensabili, come architetto sono libero di sperimentare. Inoltre c’era qualcosa che non mi convince della società in cui viviamo oggi.

Conoscevi la filosofia di Sri Aurobindo e la Madre?

No, ne sono venuto a conoscenza solo una volta che sono diventato aurovilliano, così come lo yoga che ho scoperto vivendo qua.

Cosa ti piace di Auroville?

Qui c’è più tempo, il sistema capitalistico che governa la nostra società non permette di dedicarsi a ciò che non dà profitto. È sempre una corsa continua senza mai fermarsi, e non si ha mai la possibilità di spendere il tempo per se stessi e le proprie passioni.

Ad Auroville non si percepisce questa pressione del sistema capitalistico?

C’è anche qua ovviamente, ma si ha la possibilità di non farsi influenzare. Ci sono unità qui ad Auroville che lavorano con gli stessi esatti meccanismi di produzione e vendita del capitalismo, ma è una loro libera scelta seguirli. Se dipendi dall’economia esterna è inevitabile farsi condizionare, la città stessa di Auroville deve fare i conti con il sistema economico che governa il mondo. Però credo si possa comunque trovare un compromesso e scegliere cosa è più importante, se produrre in quantità o in qualità.

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È una sfida vivere qui ad Auroville?

Può esserlo. Vivere qua è facile e soprattutto piacevole se si ha un minima capacità economica e ci si accontenta di vivere una vita semplice. Per un pensionato europeo ad esempio sarebbe l’ideale. Se invece si è ancora giovani e si vuole portare avanti un lavoro, come il mio che faccio l’architetto ed insegno, ci sono delle difficoltà, soprattutto di tipo burocratico se non sei indiano.

Auroville richiede ai suoi cittadini di essere parte di un esperimento sociale, come pensi di contribuire?

Come architetto realizzo progetti per la città senza ricevere alcun contributo e inoltre insegno disegno alla Last school e organizzo talks per i giovani architetti che vengono qui a fare volontariato o tirocinio. Se non si da il proprio contributo non ha senso far parte di questo progetto, e tale contributo è un dono che non è tanto per la comunità quanto per me stesso.

Questo è il bello di questo luogo, è un anarchia e ognuno mette sul tavolo quello che ha da offrire.

Come descriveresti la comunità di Auroville?

Auroville non è una comunità ma una cittadinanza, o almeno questo è quello che vorrebbe essere. Tuttavia, lo spirito è quello della comunità, si collabora moltissimo insieme e il numero di residenti è tale da poter essere considerata ancora una comunità, ma quando si raggiungeranno i 50 mila abitanti non so se il senso di comunità che viviamo oggi si riuscirà a mantenere.

Cosa significa per te comunità?

Per me comunità significa condividere, come succede qui ad Auroville, dove si condivide ciò che ha e si mette a disposizione della comunità.

Se comunità vuol dire condividere, cos’è che gli abitanti di Auroville condividono?

Condividiamo tutti lo stesso sogno di realizzare una società diversa, ognuno con la propria idea di come si debba costruire, ed infatti ad Auroville il conflitto non manca, ma questa volontà ci tiene insieme e ci fa andare avanti anche se molto lentamente.

Che ruolo dovrebbe assumere l’architetto nello sviluppo della città?

Non credo sia compito dell’architetto occuparsi di pianificazione, è un compito che spetta all’urbanista. Se infatti si guarda il masterplan di Roger Anger, si vede che quella è la mano di un architetto, è molto formale e si legge l’approccio tipico della scala architettonica. Non credo però che possa funzionare alla scala urbana. Infatti se guardiamo alle città progettate dagli architetti nella storia come Chandigarh o Brasilia, nessuna di queste funziona bene come città.

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Come andrebbe pianifica una città affinché sia socialmente sostenibile?

Da architetto non mi sono mai occupato di città, mi ricordo però quello che diceva Jane Jacobs a riguardo, e cioè che bisogna creare gli spazi di interazione, creare quindi un ambiente ricco di eventi che permettano la socialità. Mi immagino allora un tessuto urbano con sezioni stradali diverse, un po’ come le città storiche europee, con una varietà di usi ed una certa densità di popolazione. Questo ad Auroville non sta succedendo e credo che il motivo sia che le persone che sono venute a vivere qua provengano da classi sociali medio-basse, abituate al modello della suburbia. La città è quindi caratterizzata da tante piccole case circondate da verde e gli spazi pubblici come strade e piazze non ci sono.

Dove avvengono allora le interazioni sociali?

Nei luoghi dove si mangia soprattutto, il Solar Kitchen, la Terrace, Town Hall Cafè. Quando vai là sai che incontrerai qualcuno con il quale scambiare due parole e socializzare. Inoltre qua non si cammina ma si va in moto per cui quando ci si incontra ci si limita a sorridersi e anche questa è una forma di socializzazione perché dopo diverse volte che ci si è sorrisi sulla strada la volta che ci si vede da qualche parte si scambiano due parole.

Perché Auroville è la città di cui la terra ha bisogno?

Perché l’integrazione che c’è qui è un caso unico al mondo, ognuno si può sentire a casa propria perché Auroville non appartiene a nessuna nazionalità ma all’umanità intera. Ci deve essere almeno un posto così sulla terra.

Una parola per Auroville?

EXPERIMENT

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Mitali

Volunteer

Aspirante giornalista, volontaria al Tamarai Learning Center

Come sei venuta a conoscenza di Auroville?

Sono venuta a conoscenza di questo posto mentre facevo delle ricerche su Pondicherry, stavo programmando di visitare la città. All’epoca pensavo che Auroville fosse un luogo per chi volesse fare esperienze spirituali. Poi, un giorno, un mio amico mi ha parlato della sua esperienza di volontariato e ho scoperto che c’erano tanti progetti interessanti a cui prendere parte.

Perché hai deciso di venire qua a fare volontariato?

Volevo prendermi una pausa dalla mia vita e ho pensato che un posto come questo sarebbe stato l’ideale. Avevo la possibilità di esplorare altri campi lavorativi e di dedicarmi alla mia passione per la scrittura. Sapevo che ad Auroville organizzano molti eventi culturali e che in generale era un luogo vivo sotto questo aspetto per cui non potevo trovare di meglio.

Cosa fai a Mumbai?

Sono un’aspirante giornalista, e ho sempre voluto scrivere di arte e cultura. Da quando sono qua però ho sviluppato un maggiore interesse per l’ambiente. Auroville mi ha reso più consapevole della necessità di ridurre l’impronta ecologica. A Mumbai non mi sono mai preoccupata di fare la raccolta differenziata perché semplicemente non si fa.

Non avevo mai considerato la questione dell’inquinamento in generale e ora la mia visione è totalmente cambiata.

Da quanto tempo sei qui?

Sono qua dal Maggio 2018, quindi ora sono 9 mesi.

Quante volte hai cambiato casa qua ad Auroville?

Molte volte. Fin ora ne ho cambiate 6.

In quante di queste hai avuto esperienza di vita in comune?

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In quasi tutti i posti in cui ho vissuto. La maggior parte sono una sorta di ostelli per la gioventù con molti spazi comuni, come cucina, bagno e in alcuni casi, come adesso, anche la camera da letto. Praticamente tutte le mia attività giornaliere le condivido con gli altri.

Dove abiti adesso?

Ora vivo in Celebration, una comuntà per volontari a lungo termine e new commers. Ho una stanza condivisa con due ragazze di cui una è la mia collega di lavoro. In comune abbiamo cucina e bagno, che condividiamo con altre 2 persone, per cui in totale siamo in 5.

Hai un tuo spazio privato in Celebration?

No, non ho nessuno spazio privato.

Come ti vivi questa mancanza?

Ho vissuto per tre mesi in una comunità dove ognuno aveva la sua casa privata, io avevo la mia e tutti i miei amici vivevano lontano da me. Ho sofferto un po’ di solitudine durante quel periodo per cui sono felice adesso di essere qui nonostante non abbia uno spazio tutto mio.

Certo, se potessi avere una stanza privata sarebbe meglio, ma mi va bene anche così come sto adesso.

Di cosa ti occupi?

Lavoro per il Tamarai Learning Center, un’unità che offre servizi sociali ai villaggi intorno ad Auroville. Mi occupo del settore delle comunicazioni e insegno inglese ai bambini e ai ragazzi dei villaggi che collaborano con noi.

Durante il giorno ti rimane del tempo libero per te?

Si, in questo Auroville è eccezionale perché ufficialmente le ore lavorative non superano le 6 ore al giorno, mentre in Mumbai le ore lavorative sono minimo 10, per cui qua ho mezza giornata tutta per me.

Con chi esci e dove vai di solito qui ad Auroville?

Esco soprattutto con i miei colleghi, e con le persone con cui ho vissuto fin ora. Ho anche fatto amicizia con diversi ragazzi di Auroville che ho conosciuto frequentando bar e ristoranti gestiti da loro.

Frequentiamo quasi sempre gli stessi posti, come ad esempio il Solar Kitchen, dove vado a pranzo tutti i giorni, e altri ristoranti come il Dosa Corner o la Caffetteria la sera, insomma abbiamo 5 o 6 posti dove andiamo sempre. Purtroppo non ci sono spazi propriamente pubblici ad Auroville ma molti posti come la Terrace, ad esempio, non richiedono la consumazione per cui sei libero di andare là senza dover a tutti i costi consumare. L’unico spazio propriamente pubblico è il matrimandir e i suoi giardini che sono pero accessibili in determinati 118

orari soltanto per aurovilliani e volontari. Alcune volte mi è capitato di andare là per leggere e passare il tempo.

Prendi mai parte a workshop o altri eventi organizzati da Auroville?

Si vado spesso allo Youth Center che organizza diversi eventi, o in generale agli eventi culturali organizzati dalla città. Gli workshop li frequento meno perché fin ora non ho avuto molto interesse a riguardo.

Queste attività ti hanno aiutato a sperimentare un senso di comunità?

Frequentando sia persone esterne ad Auroville che aurovilliani mi sono resa conto che la maggior parte di queste attività, sono frequentate maggiormente da volontari o visitatori piuttosto che dai cittadini stessi. Credo che per loro non sia una novità come può esserlo per chi frequenta Auroville da poco tempo. Quindi tali eventi si condividono più con persone che, come me, sono nuove in città. La vita di comunità che sperimenta un aurovilliano credo sia diversa, ma se ne può avere un idea quando si partecipa ad eventi come quelli organizzati dallo Youth Center.

Hai fatto amicizia solo con i ragazzi aurovilliani o se venuta a contatto anche con gli adulti?

In realtà mi sento di aver stretto rapporti più con gli anziani che con i giovani. I ragazzi che frequento o sono più piccoli di me o sono più grandi perché quasi tutti quelli della mia età sono fuori per fare l’università. Tramite il lavoro o anche soltanto andando in giro per Auroville, ho conosciuto molti pionieri con cui ho più interesse a intrattenermi. Sono loro che mi hanno spiegato il motivo per cui Auroville esiste e la filosofia che c’è dietro.

Credi che i giovani aurovilliani non siano coscienti di cosa Auroville rappresenti?

Non credo che non ne siano consapevoli, credo però che il fatto di essere nati qua e di non averlo scelto cambi molto le cose. I loro genitori hanno scelto questo stile di vita, mentre i figli si sono semplicemente trovati nella situazione di seguirli.

Ti senti integrata qui a Auroville?

Siamo tutti qua più o meno per lo stesso motivo. Mi riesce difficile spiegare ai miei amici di Mumbai cosa sto facendo ad Auroville, mentre alle persone che incontro qua non devo spiegare nulla. Mi sento quindi accolta ed integrata nella comunità ma non sono sicura di quanto voglia esserlo, nel senso non so se volerne fare parte o meno.

Conosci la filosofia di Sri Aurobindo e la Madre?

Sapevo chi fossroe ma non conoscevo la loro filosofia. Quando ho dovuto scrivere degli articoli su di loro ho dovuto fare delle ricerche e così ho scoperto il loro pensiero.

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Credi nell’unità umana?

Si ci credo, ma non ne vedo la sua realizzazione fin ora e non sono sicura che mai si avvererà ad Auroville.

Cosa significa per te l’unità umana?

Per me l’unità umana si avvera quando, incontrando qualcuno, non mi viene da pensare da dove possa venire, che è quello che mi succede quando incontro le persone a Mumbai.

Che significato ha porsi questo genere di domanda?

Significa che c’è una barriera culturale che ci divide. Qui ad Auroville ci sono molti eventi in tema cultura nazionale e quando vai a questi eventi ti rendi conto che, anche se sono aperti a tutti, sono in realtà soprattutto per i connazionali, e addirittura la lingua che si parla è quella appartenente a quella nazione, per cui ti senti automaticamente escluso.

Che ne pensi del progetto previsto per l’international zone?

Credo sia un progetto interessante, hai la possibilità di esplorare differenti culture in un unico luogo, un po’ come una biblioteca in cui hai diverse sezioni ed hai la possibilità di esplorare quella che più ti interessa. Il tutto sta nel come vengono trattati gli eventi che accadranno in questi luoghi, se saranno indirizzati a tutti o soltanto ai propri connazionali come succede spesso agli eventi a cui ho partecipato fin ora.

Credi che la comunità di Auroville sia un esempio di unità umana?

In un certo senso lo è, poiché è una comunità composta da persone che vengono da tutto il mondo.

Da uno sguardo esterno direi quindi che è un esempio di unità umana, ma conoscendo la comunità dall’interno sinceramente non vedo questa unità perché ognuno è ancora molto attaccato alla propria cultura e questo non permette l’unità.

Qual è il tuo contributo per l’unità umana?

C’è un estrema disparità tra i ragazzi che crescono dentro Auroville e coloro che ne sono al di fuori. Gli aurovilliani godono di un benessere economico e di una qualità della vita piuttosto alta rispetto ai ragazzi dei villaggi che, in alcuni casi, vivono in un’estrema povertà. Il mio lavoro è quello di aiutare questi ragazzi e garantirgli il necessario per vivere ed un certo livello di istruzione, in questo senso mi sento quindi di contribuire all’unità umana: riequilibrando per quanto è possibile questa disparità.

C’è ad Auroville uno spazio fisico che simbolicamente rappresenta l’unità umana?

Il Matrimandir è un luogo che rappresenta l’unità umana e, nonostante abbia una serie di

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restrizioni, rimane comunque accessibile a tutti. Per questo lo considero simbolo di unità.

Quali sono le sfide di vivere ad Auroville?

Venendo da Mumbai per me la sfida principale è che è una città piuttosto piccola e circondata da villaggi, il che vuol dire essere a contatto con una cultura a cui non sono abituata, nel senso che nel momento in cui devo uscire da Auroville devo essere cosciente di come sono vestita e del comportamento che devo avere.

Inoltre qua non ci sono trasporti pubblici e non è possibile muoversi a piedi per cui sono costretta a muovermi sempre con la moto e nel momento in cui dovessi avere un qualsiasi problema devo per forza dipendere da qualcuno.

Non è poi un luogo molto sicuro, chiunque può entrare ad Auroville perché ci sono molti accessi e non c’è molto controllo, mi è infatti capitato di essere molestata una volta e non sono l’unica a cui è successo. Apparentemente è un problema frequente.

In generale lo stile di vita che si conduce qua è molto diverso da quello a cui sono abituata e non è sempre facile adattarsi a volte.

Pensi sia ancora possibile realizzare il sogno della Madre?

Alcuni dei punti della carta di Auroville si sono avverati, come il fatto di essere un posto dove non si finisce mai di imparare o il fatto di essere una comunità di persone provenienti da ogni parte del mondo. Ma altre cose sono molto lontane dall’avverarsi, come l’essere una città di 50 mila abitanti ad esempio. Credo comunque che la città non sarebbe pronta ad accogliere così tante persone ed in generale ritengo che il progetto Auroville non sia del tutto riuscito, molte cose dovrebbero essere riviste.

Credi che lo sviluppo della città sta ancora rispettando la visione di Mère?

Credo che le persone che vivono in questo luogo non rispecchino propriamente quello che la madre si aspettava da loro, mi riferisco soprattutto ai figli di Auroville, non li vedo dare il loro contributo alla comunità e in generale al progetto Auroville. Forse non sono coscienti di cosa è Auroville o forse sono semplicemente nati qua e non hanno interesse a sposare la causa.

Cosa rende Auroville diversa da ogni altra città al mondo?

Auroville ha abitanti che vengono da tutto il mondo, cosa che nessuna altra città dell’India ha. È molto piccola per cui tutto è vicino ed accessibile. Viene data molta importanza alla persona e alla sua crescita interiore, nel senso che non è una città improntata sulla produttività.

Secondo te l’aumento della popolazione potrebbe essere un rischio per la sostenibilità sciale della comunità?

Da un lato avere più persone potrebbe essere positivo nel senso che aumenterebbero il nu-

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mero di interazioni sociali, dall’altro potrebbe essere un rischio soprattutto nel momento in cui aumenterebbero il numero delle famiglie. La famiglia è già una piccola comunità di per sé, per cui credo che non avrebbe interesse nell’interagire con gli altri.

Perché credi che in città non si possa avere questo senso di comunità come qui ad Auroville?

Credo sia soprattutto un problema di tempo e, qui ad Auroville, ce n’è molto. La comunità per me è come una famiglia allargata ed è il tempo speso insieme nella quotidianità che la rende tale. Nel momento in cui il numero di abitanti dovrebbe aumentare di molto non so se si manterrebbe lo stesso senso di comunità perché fin ora siamo poche persone e ci conosciamo di vista quasi tutti, è anche questo che fa comunità. A Mumbai non ho tempo e vedo intorno a me sempre gente diversa.

Che Auroville vorresti vedere tra 50 anni?

Mi piace Auroville così com’è in realtà, eccetto per le abitazioni che offre ai volontari. Spero migliorino nel tempo.

Vorresti trasferirti ad Auroville?

No non credo, mi piacerebbe venire spesso, ma non a viverci. Non vedo una prospettiva professionale qua, se volessi avere una famiglia magari si, ma nella vita voglio diventare una giornalista. È Auroville la città di cui la terra ha bisogno?

Per i progetti che fa in tema di sostenibilità ambientale sicuramente, come esperimento sociale non credo ce ne sia bisogno. Auroville riceve moltissimo dall’esterno ma non da niente in cambio. A mio parere, tutto quello che di buono sviluppa, come il cibo organico ad esempio o il sistema di smaltimento rifiuti, è per Auroville soltanto.

Una parola per Auroville?

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EXPERIENCE

APP.2 Abitare ad Auroville

Mitra Youth Hostel

Luminosity

Citadines

Luminosity

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La casa di B B è stato uno dei primi cittadini di Auroville.

Di origini californiane, era venuto in India per girare un documentario su Auroville nel 1974. Giunto in India decise di rimanerci, ed ora sono passati 45 anni.

La sua casa l’ha soprannominata il Trash Mahal perchè è stata costruita interamente con materiali di riciclo: dal legno ricavato dallo tsunami del 2004, al tetrapak riciclato.

Il motivo per cui ha scelto di spendere qui la sua vita è perchè dice che ad Auroville può scegliere di vivere secondo i suoi ideali, cosa che in America non si sentiva libero di fare.

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La casa di Peter Peter stava facendo un viaggio in India e capitò ad Auroville attirato dalla fama che in quegli aveva creato. Era il 1971, si era laureato in architettura da poco e faceva parte dei movimenti di sinistra che in quegli anni si erano diffusi nella Berlino Ovest.

Giunto ad Auroville si sentì a casa. Non abbandonò mai del tutto Berlino, dove continua ad andare costantemente ogni anno, ma la considera la sua “amante”, mentre Auroville è sua “moglie”, la scelta che ha fatto per la vita.

Ha vissuto per molti anni nella casa da lui costruita, ma ora vive a Luminosity, uno degli ultimi edifici per abitazioni costruiti dagli architetti David Nightingale e Ganesh Bala.

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L’International House L’International House è la guest house dove ho vissuto nei tre mesi della mia permanenza ad Auroville.

Ospita principalmente volontari e persone che si fermano per periodi prolungati.

L’abitare all’IH è quasi sempre in comune: quando esci dalla tua stanza ti trovi in un ballatoio così ampio da sembrare una terrazza, con sedute e amache sparse qua e là, dove puoi incontrare i tuoi vicini e poterci passare il tempo insieme; per mangiare hai a disposizione una cucina dove puoi condividere colazioni, pranzi e cene con gli altri residenti; nell’ultimo piano puoi fare yoga, leggere, suonare, disegnare, incontrare gli amici, in una grande sala all’aperto da cui osservare il panorama. È difficile soffrire di solitudine all’IH, ed io, da subito, mi sono sentita a casa.

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Ringraziamenti Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato o mi sono stati vicini in questo lavoro, a cominciare da Anupama Kundoo per avermi fatto conoscere Auroville e la sua assistente Alba Balmaseda DomĂ­nguez che mi ha supportato e stimolato a dare inizio a questa avventura.

Ringrazio il Professore Giovanni Caudo, il cui insegnamento mi ha esortato a pormi le domande che hanno dato vita a questa tesi e senza il quale non avrei potuto fare il lavoro che ho fatto.

Ringrazio Martina Pietrapaoli per il suo sostegno professionale e soprattutto umano.

Ringrazio tutti coloro che ad Auroville mi hanno accolto rendendo il mio soggiorno un’esperienza indimenticabile che porterò sempre nel cuore, in particolare ringrazio Jitesh, Peter, Karticke e Nupur.

Ringrazio infine tutti i miei amici e familiari che mi sono stati vicino, tra cui nello specifico Mattia, Paolo Tommaso e Alice.

Fonti fotografiche http://www.natalieseroussi.com Copertina https://www.sriaurobindoashram.org/sriaurobindo 22 (sinistra) https://www.cnbctv18.com 22 (destra) https://www.auroville.org 24-26-27-34-35 (sotto) Foto scannerizzate da Auroville Architecture, towards a new form for a new consciousness, Prisma, Auroville 2014 29-30 https://www.alamy.it 31 (sinistra) http://imalpensanti.it 31 (destra) Francesca Farruggia 33-36-37-39-42-43-45-48-49-50-51-52-53-100-102-106-110116-119-125-126-127-128-129-130-131 Peter Anderschitz 35 (top) https://it.wikipedia.org 55 http://espresso.repubblica.it 58 https://www.giannipettena.it 60 https://it.wikipedia.org 62 https://www.paolofusero.it 64 https://www.artribune.com 69 https://www.artribune.com 70 https://www.archiparma.it 73 https://studiozermaniassoc.wixsite.com 76

https://www.professionearchitetto.it 80-81-82 https://www.archdaily.com 83-84-85-86 http://www.dogma.name 87-88-89-90-91

È evidente che non esiste progettazione autenticamente creativa senza che un frammento di utopia, proprio in quanto tensione verso un dover essere alternativo, ne illumini la direzione di ricerca, senza che si costituisca una distanza tra l’esistente e la nuova situazione proposta dalla presenza concreta e diretta dell’opera; ma essa è nello stesso tempo costruita sul terreno del presente da cui si distacca rivelandone una mutazione possibile e necessaria.

Vittorio Gregotti, “Il possibile necessario”