FOTOgraphia 247 dicembre 2018

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ANNO XXV - NUMERO 247 - DICEMBRE 2018

Trasversalità volontaria SOLTANTO LIBRI Trasversalità consapevole SOPRATTUTTO LEONARDO DA VINCI

MAURIZIO GALIMBERTI IL CENACOLO DI LEONARDO


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prima di cominciare

A COMPLETAMENTO. Per non interferire con la passerella in forma di portfolio dell’affascinante e avvincente progetto di Maurizio Galimberti sul Cenacolo leonardesco, su questo numero, da pagina ventisei, abbiamo evitato di richiamare i dati tecnici dell’ottima monografia. Qui, rimediamo in riparazione giornalistica... forse. Allo stesso tempo e momento, richiamiamo anche un’altra edizione recente dello stesso Maurizio Galimberti, di profilo ben diverso, sia chiaro, ma altrettanto di stretta attualità temporale, realizzata in forma di opera: tiratura numerata e firmata.

Essere davvero colti significa capire la Natura e la Vita. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 49 Per quanto, in una confusione di idee, Leonardo da Vinci (1452-1519) sia indicato e avvalorato da molti come l’inventore della camera obscura [ Società dello spettacolo], non è assolutamente vero. mFranti; su questo numero, a pagina 8 Con la Fotografia si ottengono benefici e giovamenti di spessore superiore che non con altri beni materiali, siano abiti griffati, scarpe firmate, automobili appariscenti, orologi costosi... e altro ancora. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 17 La fotografia è una ferita aperta sulla Storia, altrimenti non è niente: è solo il lato consolatorio e la forca della fabbricazione di esistenze banalizzate! La fotografia deve frugare nelle ferite, dev’essere un pericolo, non una consolazione... il bello sta nell’imperfezione dell’immaginale che inventa il vero, il giusto... e s’intreccia al bene comune. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 48

Copertina Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci; a cura di Federico Mininni; Skira, 2018; 76 pagine 30x38cm, cartonato; 35,00 euro.

Dalla consistente e appassionante monografia Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci, in autorevole edizione Skira, interpretazione d’autore di un dettaglio del celebre affresco. In una edizione giornalistica a doppia trasversalità (previsione dell’imminente cinquecentenario dalla scomparsa del geniale personaggio, 1519-2019, e cadenza in compagnia di libri), questa combinazione le assolve entrambe: Leonardo e libri. Per l’appunto

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un foglio Souvenir celebrativo del Secondo Millennio (1000-1999), emesso da Saint Vincent e Grenadine, il 7 dicembre 1999, con rievocazione della Gioconda (Monna Lisa / Mona Lisa), attraverso un particolare da un fotomosaico di Robert Silvers, del 1997 [FOTOgraphia, marzo 1999]

7 Editoriale Odore, Fragranza, Profumo di libri, in antitesi (?) a una stagione attuale che ci indirizza altrimenti e altrove Maurizio Galimberti - Betty Page. Ready-made (ventitré ready-made su stampe attuali di fotografie di Betty Page realizzate da Paula Klaw, negli anni Cinquanta del Novecento); Graphia, 2018; duecento copie numerate e firmate; 32 pagine, 15x21cm; 25,00 euro.

8 Oscura Camera Non è assolutamente vero che Leonardo da Vinci sia l’ideatore della camera obscura, in interpretazione spettacolarizzata. La camera obscura si deve al matematico arabo Alhazen (965-1038)


DICEMBRE 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

13 Nei pressi di Leonardo

Anno XXV - numero 247 - 6,50 euro

Certamente in modo forzato, allineamento con il titolo di un film statunitense del 2003: Mona Lisa Smile Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

16 Cinque pezzi facili Eccellenti edizioni Taschen Verlag sull’opera omnia di Leonardo da Vinci: cinque titoli di grande valore

21 Con la forza del ritratto In monografia illustrata, ritratti di Bob Dylan realizzati da Jerry Schatzberg a metà degli anni Sessanta del Novecento. Alle origini del mito che ha influenzato generazioni trasversali al nostro (controverso) tempo di Angelo Galantini

26 Cenacolo immediato Ottima monografia Skira, Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci aggiunge un proprio autorevole tassello a quell’insieme di testimonianze librarie che sottolineano e certificano la statura espressiva e interpretativa dell’autore... Maurizio Galimberti di Maurizio Rebuzzini

32 Celebrazione d’autore

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Maurizio Galimberti Federico Mininni Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

La biografia Steve McCurry. Una vita per immagini è stilata sulla cadenza di quarant’anni del più noto e riconosciuto fotogiornalista contemporaneo

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

38 Il libro che non c’è

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it).

... e non ci sarà mai è quello che avrebbe dovuto/potuto raccogliere immagini “tecniche” a corredo realizzate con concentrazione mirata: sull’oggetto e il linguaggio di Antonio Bordoni

44 Libri di libri Due fantastiche raccolte, una delle quali distribuita in tre volumi, indispensabili più che utili a coloro i quali si occupano di fotografia con piglio e decisione

48 Franco Ferraina

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi su un passatore di confine della fotografia di Pino Bertelli

Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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di Alessandro Mariconti

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editoriale O

ggigiorno, pare (parrebbe) grottesco riferirsi a libri in forma cartacea (paradosso?). In effetti, soprattutto per quanto riguarda la narrativa, sono in continua e costante crescita sia le tecnologie di lettura virtuale su monitor, sia la diffusione di titoli disponibili in questa veste. Allo stesso momento, conti alla mano, il libro cartaceo resistente e residuo (ma non interpretiamo questa attribuzione a nulla di tragico in tempi brevi, né, tantomeno, in attualità temporale) sta spostando i propri indirizzi e riferimenti. È stato rilevato che da qualche anno le librerie individuali e autonome, perfino le prestigiose e storiche, stanno cedendo inequivocabilmente terreno a potenti e influenti catene, che si offrono e presentano come autentici supermercati... alla maniera di quelli alimentari. Per non parlare -ma parliamone- delle esuberanti proposte commerciali dalla Rete, spesso a prezzi di vendita/acquisto scontati rispetto i listini ufficiali. Date queste circostanze, la trasformazione in atto procede lungo due binari paralleli, che convergono verso un’unica meta comune: alterazione di condizioni ed equilibri precedenti; mutamento sostanziale di approcci e atteggiamenti individuali. Ora, e qui, riflettiamo in occasione di una edizione particolare della rivista, per quanto non necessariamente “speciale”-sia detto-, che dà peso e valore al libro, soprattutto a quello fotografico, ma non soltanto a questo, come contenitore e veicolo di idee e sollecitazioni: una volta ancora, una di più, speriamo non per l’ultima volta, avvicinamento a s-punti privilegiati di riflessione, che dalla fotografia di origine, e in origine, approdano alla Vita individuale, nel proprio insieme e complesso e sostanza. Ne riflettiamo, va specificato, anche alla luce di nostre inclinazioni personali, alimentate perfino da temperamenti fisici e sostanziali che si sono manifestati attorno a noi. Riflessione originaria, in convincimento che il Tempo va avanti, con o senza di noi: per quanto non accusiamo nulla e nessuno, soprattutto non puntiamo il dito contro alcuna tecnologia (neppure verso quelle che, spesso, stravolgono socialità precedenti, a noi note e da noi apprezzate), soffriamo la continua perdita di suggestioni e impressioni attraverso le quali e con le quali abbiamo formato la nostra stessa Esistenza. Eccoci qui: la sottrazione di librerie a misura d’Uomo ci sta privando di quei rapporti personali e individuali con persone competenti e vicine alla materia (condivisa) del proprio commercio; l’eventuale acquisto in Rete, che personalmente non frequentiamo (ma!), esclude il rapporto fisico con l’oggetto-libro e la sua personalità; la lettura in monitor modifica l’approccio individuale con la pagina stampata su carta. Quindi, insieme, queste tre condizioni, più altre altrettanto contemporanee/futuribili, ci priva degli odori, ovvero della fragranza della carta stampata, ovvero del profumo di Esistenza. Comunque, tra i nostri consistenti scaffali, persiste e continua l’Odore/Fragranza/Profumo di libri, pubblicati in stagioni a seguire e successive le une alle altre. Certamente, sì. Senza alcuna ombra di dubbio. Maurizio Rebuzzini

Dalla magistrale monografia A Book of Books, di Abelardo Morell (Bulfinch Press, 2002), che nulla ha da spartire con i libri di libri (fotografici), dei quali riferiamo da pagina 44 su questo stesso numero, a chiusura di un cammino in compagnia di libri, per l’apppunto, una visualizzazione che trasmette Odore/Fragranza/Profumo dell’edizione cartacea... qualsiasi questa sia. In protocollo: Dictionary, del 1994.

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Anche questo di Maurizio Rebuzzini (mFranti)

Legittimamente, molte Storie della Fotografia compilate in Italia, siano ammirevoli per i propri contenuti, oppure non siano degne di attenzione, poco conta, evitano il racconto della preistoria, spesso presente in altre narrazioni straniere (soprattutto). Purtroppo, però, quando gli albori e le origini pre-1839 vengono avvicinati, in genere, l’insieme compatto di queste “preistorie” è soltanto rimasticazione da altri libri, con adattamenti di copertura (della fonte). Così che, alla fin fine, può accadere -ed, effettivamente, accade- che imperfezioni ed errori iniziali non si esauriscano in se stessi, ma vengano, invece, perpetuati e tramandati, fino a diventare addirittura endemici nel pensiero comune, quantomeno in quello fotografico di nostro interesse e nostra frequentazione. Per mille e mille motivi, pochi dei quali razionali e utilitaristici, in tempi recenti, ci siamo impegnati in una ricerca di e su alcune di queste stesse considerazioni, che ha attinto a fonti originarie e accreditate, che nel proprio insieme smentiscono clamorosamente alcune nozioni generalmente riferite “a pappagallo”. Serve a niente e a nessuno -forse-, ma abbiamo rintracciato testi antichi ai quali si è soliti fare riferimento automaticamente, senza riflettere al proposito e per solo sentito dire. Abbiamo agito su quattro citazioni riportate in molte Storie, e lasciate lì in sospeso.

UNO, DUE, TRE, QUATTRO Eccoci qui, in successione. Uno. [In solenne richiamo al cinquecentenario dalla scomparsa, che sta per essere clamorosamente celebrato ed evocato, il prossimo maggio, come in combinazione con le nostre odierne anticipazioni librarie e fotografiche; rispettivamente, da pagina 16 e da pagina 26, su questo stesso numero] Per quanto, in una confusione di idee e buona volontà, Leonardo da Vinci (1452-1519) sia indicato e avvalorato da molti come l’inventore della camera obscura, non è assolutamente vero. Infatti, le descrizioni dello strumento vanno inequivocabilmente indietro di

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secoli: almeno, al 1027 di Alhazen (Abū ‘Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham; 965-1038), uno dei più importanti e geniali scienziati del mondo islamico, e -in genere- del principio del Secondo millennio, considerato l’iniziatore dell’ottica moderna. Per non parlare, poi, della conoscenza dell’azione della luce e formazione delle immagini: nel IV secolo aC, Aristotele (384-322 aC) osserva che i raggi del Sole che passano per una piccola apertura producono un’immagine circolare; un secolo prima (V secolo aC), anche il filosofo cinese Mo Ti o Mo-Ti (470-390 o 391 aC; conosciuto anche come Mot Tzu, Mozi e Micius, fondatore del moismo, rivale del confucianesimo)

aveva annotato lo stesso fenomeno [vi torniamo più avanti]. Comunque, Leonardo da Vinci dedica alla camera obscura qualche centinaia di schemi [e qui proponiamo una tavola; pagina accanto], riferiti però alla dimostrazione di un certo numero di fenomeni ottici di base, quali l’inversione e la non interferenza delle immagini, oppure la loro proprietà di essere «tutte in tutto e tutto in ogni parte». Ancora e nello specifico, poiché la camera obscura simula le funzioni di base del processo visivo, per Leonardo, il suo confronto con l’occhio fisiologico assume un significato fondamentale, consistente in una serie di affermazioni basate su studi empirici. Soprattutto, per Leonardo, l’a-

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

L

OSCURA CAMERA

Tra gli specialisti e addetti, l’arabo Alhazen (adattamento latino dall’originario Abū ‘Al ī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham, spesso semplificato in Iben al-Haithum oppure nel solo al-Hasan; 965-1038 [qui in una emissione filatelica del Qatar, del 20 febbraio 1971]) è considerato «uno dei personaggi più importanti e influenti della storia della scienza»; addirittura, è conteggiato come «il primo vero scienziato al mondo». Nel campo ottico, che ci è prossimo, oltre che alla base della nostra educazione scolastica, i suoi studi sulle lenti permisero progressi approdati alla produzione dei primi occhiali da vista e di strumenti di visione (dall’estremamente piccolo all’estremamente grande, dal microscopio al telescopio). Rimaniamo in ottica, che fu parte della sua indagine

scientifica, per certificare il contributo fondamentale del suo trattato in sette volumi Kitāb al-Manāẓir (diciamo, Libro dell’ottica), tradotto in latino intorno al 1270 con il titolo De aspectibus, poi pubblicato a Basilea, nel 1572. Da qui, da scienza geometrica, l’ottica diventa scienza fisica. Attenzione, il trattato intende l’Ottica non come discussione filosofica sulla natura della luce, ma analisi, matematica e sperimentale, delle sue proprietà, specialmente quelle legate alla visione. Quindi, a conseguenza diretta, Alhazen realizzò quella che si deve considerare la prima camera obscura della quale si ha notizia certa: una stanza buia nella quale la luce entrava da uno spiraglio grande quanto una punta di spillo, proiettando sulla parete l’immagine capovolta di ciò che si trovava all’esterno. Punto.


Anche questo tista della Porta (1535-1615) avrebbe riportato una descrizione della camera obscura nel suo Magiae Naturalis, del 1558, nel quale viene espressa una concezione magico-spiritualistica del mondo simile a quella di Paracelso/ Paracelsus (Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim; 1493-1541). In particolare, molti (tutti) affermano che avrebbe descritto il princìpio della camera obscura con foro stenopeico come ausilio al disegno. No! Non è proprio così. In realtà, nel Libro IV, Capitolo II, con Quomodo in tenebris ea conspicias, quæ foris à Sole illustrantur, & cum suis coloribus (tradotto in Inche modo si possa uedere le cose con il proprio colore, benche il Sole gli percuota sopra, nelle edizioni in volgare, dal 1560, che in sommario/indice iniziale semplificano in A ueder le cose nel proprio calore benche sieno percosse dal sole), Giovanni Battista della Porta descrive una stanza oscupertura della camera obscura è analoga all’apertura della pupilla. In aggiunta, per Leonardo, gli esperimenti di astronomia con la camera obscura sono di poco interesse (mentre sono fondamentali per altri scienziati, come stiamo anche per vedere); invece, si indirizza verso quelli che individuano analogie tra la visione dell’occhio fisiologico e il funzionamento dello strumento. La camera obscura gli serve per dimostrare una lunga e differenziata serie di caratteristiche della visione. La prima è che la pupilla, come il foro stenopeico, capovolge e inverte da destra a sinistra le immagini del campo visivo (ed è poi il cervello che le raddrizza). Le prime considerazioni al proposito risalgono al 1483-1485, e il princìpio dell’inversione viene successivamente descritto in altri fogli, fino al 1487 circa. In numerosi schemi, compaiono sia l’occhio sia la camera obscura, per evidenziarne le affinità di funzionamento [per approfondimenti individuali è disponibile un ottimo studio, pubblicato come catalogo della sala di ottica del Museo Leonardiano di Vinci, città natale in provincia di Firenze, nel Castello dei Conti Guidi: L’ottica di Leonardo tra Alhazen e Keplero, di Linda Luperini; Skira, 2008]. Due. In molte storie si afferma che il (ventitreenne) filosofo, alchimista e commediografo italiano Giovanni Bat-

rata, con foro stenopeico verso l’esterno per l’osservazione agevolata di paesaggi assolati (producendo una proiezione simile a quelle fotografate in interno da Abelardo Morell [FOTO graphia, luglio 2006]). Abbiamo rintracciato due edizioni esemplari alla Biblioteca Pubblica Bavarese e recuperato una anastatica dal latino 1650, curata dallo statunitense Kessinger Publishing’s Rare Reprints, nel 2010, dalle quali, in armonia di stesura, riproduciamo le pagine in questione [a pagina 11]. Tre. In assoluto, ogni storia che si avventuri in questo propone come prima visualizzazione di una camera obscura con foro stenopeico quella che il fisico, matematico, cartografo, filosofo e costruttore di strumenti tecnici olandese Rainer Gemma Frisius (1508-1555) pubblicò nel 1545 nel suo De radio astronomico & geometrico liber, relativa alla contemplazione dell’eclissi di Sole dell’anno preceden-

Leonardo da Vinci: schema di raggi di luce che penetrano all’interno dell’occhio fisiologico (in alto, a destra) e della camera obscura (immediatamente sotto, ancora a destra).

Athanasius Kircher: visualizzazione di una camera obscura portatile, in Ars Magna Lucis et Umbrae, del 1646 [dettaglio inferiore della pagina intera].

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Anche questo

te. Sì, ma non si va mai oltre questa semplice e sola illustrazione (anche nella nostra storia 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del 2009). Presso la biblioteca dell’Università Complutense, di Madrid, abbiamo rintracciato due edizioni del testo: l’originaria del 1545 e una successiva, del 1558. Nella prima, l’illustrazione è effettivamente quella ampiamente usata e abusata [qui sopra]; nell’altra, è stata cambiata, sostituita da un’altra visualizzazione [qui sopra, a destra]. Per quanto serva... ecco qui. E, poi, va ricordata anche (e ancora) l’anastatica dell’edizione 1557, pubblicata ancora e anche dalla statunitense Kessinger Publishing’s Rare Reprints, nel 2010, come per Giovanni Battista della Porta, appena richiamato. Quattro. Un’altra menzione ripetuta “a pappagallo” è quella che riguarda il gesuita, filosofo e storico tedesco

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Athanasius Kircher (1602-1680), che nel suo trattato Ars Magna Lucis et Umbrae, del 1646, visualizza una grande camera obscura portatile [a pagina 9]. Ancora, è stata utile una biblioteca universitaria, nello specifico quella di Losanna, in Svizzera. Tra l’altro, a seguire, lo stesso libro riporta numerose applicazioni astronomiche del foro stenopeico (che così diventa foro gnomonico) e un intenso capitolo su strumenti che compongono la preistoria delle lanterne magiche: altri discorsi.

QUALCHE SEGRETO In complemento doveroso: romanzo avvincente, soprattutto per coloro i quali (noi, tra questi) possono comprendere e decifrare la sostanza delle considerazioni, I segreti della camera oscura, di David Knowles, soffre delle inevitabili approssimazioni e superficialità italiane. Infatti, il titolo originario è The Secrets of Camera Obscura: e

Rainer Gemma Frisius: camera obscura con foro stenopeico per la contemplazione dell’eclissi di Sole dell’anno precedente ( De radio astronomico & geometrico liber, del 1545; e altra illustrazione nelle edizioni successive).

(pagina accanto) I segreti della camera oscura, di David Knowles; Fazi Editore, 1997. L’ottica di Leonardo tra Alhazen e Keplero, di Linda Luperini; Catalogo della sala di ottica del Museo Leonardiano di Vinci; Skira, 2008.

tra “camera oscura” e “camera obscura” la differenza è più profonda di quanto possa palesare l’omissione/ trascrizione di una consonante in meno (la “b” di “obscura”). Con franchezza: con camera oscura si intende il locale nel quale si stampano, si sono stampati, i negativi bianconero (e anche quelli a colori), ovvero si comprende il locale-laboratorio adibito allo sviluppo e stampa di materiali chimici fotosensibili; invece, e mille e mille miglia disgiunte, con camera obscura si interpretano le configurazioni originarie e native di formazione delle immagini, per lo più dotate di foro stenopeico, e successivamente corredate di autentico obiettivo. David Knowles racconta -per l’appunto- di una camera obscura, all’interno della quale un foro stenopeico disposto strategicamente proietta immagini dell’esterno, creando visioni mirabili, che sono alla base del suo


Anche questo

resoconto in forma romanzata, con annessi e connessi che invitiamo a scoprire, ciascuno per sé, ciascuno nell’intimità della propria lettura. A proposito di queste installazioni, occorre ricordare che ve ne sono molte, nel mondo, proprio organizzate per offrire “visioni mirabili”; citiamo: la Cámara Oscura, a L’Avana, Cuba; l’articolata e variegata Edinburgh’s Camera Obscura and World of Illusions, in Scozia; quelle a San Francisco e Santa Monica, negli Stati Uniti; la Torre Tavira, a Cadice, in Spagna... e tante e tante altre. Ancora, in sintonia, richiamiamo l’installazione Lichtkammer, con foro stenopeico, nella centrale RoncalliPlatz, a Colonia, in Germania, accanto al Duomo, per coincidenza nei giorni della Photokina 2014, visualizzata nella nostra relazione del novembre 2014, con lancio dalla copertina. Quindi, ultima menzione per la fan-

Giovanni Battista della Porta: da Magiae Naturalis, del 1558, descrizione di una stanza oscurata, con foro stenopeico verso l’esterno per l’osservazione agevolata di paesaggi assolati ( Quomodo in tenebris ea conspicias, quæ foris à Sole illustrantur, & cum suis coloribus [in alto], tradotto in Inche modo si possa uedere le cose con il proprio colore, benche il Sole gli percuota sopra / A ueder le cose nel proprio calore benche sieno percosse dal sole, nelle edizioni in volgare, dal 1560 [al centro, quattro facciate di testo]).

tastica installazione artistica Camera Compound, formata da centonove fori stenopeici (da approfondire). Torniamo in argomento. Con il pretesto di una vicenda romanzata, con protagonisti che si alternano sul palcoscenico del racconto, I segreti della camera oscura (che avrebbe dovuto titolare I segreti della camera obscura) indaga e rivela anche notazioni storiche, a partire dalle fantastiche personalità dei cinesi Mo Ti / Mo-Ti e Chuang Chuo, che, cinque secoli prima della nascita di Gesù, alla quale riferiamo i Tempi del Mondo, visualizzarono che la luce che passa attraverso un piccolo foro (che oggi definiamo stenopeico) forma un’immagine. La vicenda si svolge ai margini di una camera obscura gigante, nella quale si proietta il mondo esterno nell’istante preciso dell’osservazione (dall’interno). Spettacolo senza tempo, non è descrivibile: lo si deve provare, così come

lo visualizzano i fotografi stenopeici attivi ancora ai nostri giorni (grazie a loro!). Infatti, la camera obscura ritrae effettivamente il mondo in una luce molto più affascinante di quella che l’occhio fisiologico riesce a percepire. Al posto della pellicola fotosensibile (o del sensore ad acquisizione digitale di immagini) c’è la persona che osserva, ci siamo noi! L’esperienza di guardare lo schermo della camera obscura, sul quale si raccoglie la proiezione dell’immagine, evoca sensazioni di solennità e timore reverenziale. Questa commozione non è alla portata di tutti, lo sottolineiamo subito a gran voce, ma appartiene soltanto a coloro i quali sanno apprezzare le sottigliezze. E sono questi animi eletti che sanno rendere raggiungibili le loro proprie emozioni, concedendo alle persone amate un posto nella memoria, dove il ricordo sia sereno e non faccia male. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

NEI PRESSI DI LEONARDO

A

Anche qui, in collegamento ideale e complementare, agiamo in consecuzione di richiami a Leonardo da Vinci, in anticipo giornalistico su quanto verrà celebrato nel Duemiladiciannove per il cinquecentenario dalla scomparsa: Leonardo di ser Piero da Vinci, mancato il 2 maggio 1519, a sessantasette anni (era nato il 15 aprile 1452), nel Maniero di Clos Lucé, nella parte più elevata di Amboise, in Francia, nel dipartimento dell’Indre e Loira. Senza violare, né disattendere -almeno lo speriamo-, il mandato fotografico, anche in questo spazio riservato alla presenza della fotografia al cinema, in sceneggiature piuttosto che scenografie, riprendiamo il personaggio: quantomeno, evocato da un richiamo esplicito nel titolo di un film che poi scorre altrimenti... con partecipazione fotografica (marginale, ma da conteggiare). Mona Lisa Smile, di Mike Newell, su sceneggiatura di Lawrence Konner e Mark Rosenthal, è un film della fine del 2003 (in Italia, dal diciannove dicembre), che, ovviamente, riprende l’icona del sorriso della Gioconda, di Leonardo, internazionalmente nota e identificata come Monna Lisa, da cui la trascrizione statunitense Mona Lisa in titolo. Ovviamente, l’appello (verso il pubblico) non è tanto sul valore attribuito all’opera, che stiamo anche per considerare, ma sull’enigmatico sorriso del soggetto: da cui, Smile. In deviazione d’obbligo, prima di approdare alla combinazione fotografica individuata, alla quale inevitabilmente approderemo, non possiamo non sottolineare quanto questo ritratto sia il più celebre della Storia, non soltanto dell’arte. In combinazione, questo è anche uno dei dipinti, in assoluto, più noti al mondo, che raggiunge anche coloro i quali, per proprio solito, si disinteressano all’arte (magari, per rispondere a urgenze proprie individuali più pressanti e incombenti). Appunto il sibillino sorriso della Gioconda / Monna Lisa / Mona Lisa, inequivocabilmente avvolto in un alone di mistero, ha influenzato molte considerazioni critiche, ha ispirato opere letterarie e, perfino, ha mobilitato studi psicoanalitici dai mille indirizzi.

Comunque, e formalmente, la Gioconda è un dipinto a olio su tavola di legno di pioppo di tredici millimetri di spessore realizzato da Leonardo da Vinci tra il 1503 e 1504; di dimensioni 77x53cm circa, è conservato ed esposto al Musée du Louvre, di Parigi, dove è meta obbligata di migliaia di visitatori ogni giorno (che, così facendo, attirati in forma spettacolare, danno le spalle alle Nozze di Cana, di Paolo Veronese, olio su tela 660x990cm [!] del 15621563, una delle opere immense della Storia dell’Arte: trafugato dai commissari francesi dell’esercito napoleonico, l’11 settembre 1797 [il primo Undici settembre? A seguire, golpe in Cile, nel 1973, e attentato alle Twin Towers / World Trade Center, di New York, nel 2001], come bottino di guerra, esposto al Louvre dall’8 novembre 1798 [chi intende approfondire, consideri la sua ri-produzione digitale al naturale di Adam Lowe / Factum Arte, dall’11 settembre 2007, duecentodieci anni dopo la sottrazione, nel luogo originario, al Refettorio palladiano, Monastero benedettino di San Giorgio, isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia]).

IL FILM... FINALMENTE A questo punto, contravvenendo a qualsivoglia regola di giornalismo, oppure consuetudine di giornalismo -che fa lo stesso-, prevarichiamo il soggetto

Dal film Mona Lisa Smile, di Mike Newell, del 2003, sequenza nella quale la sciropposa studentessa Betty Warren, perfida nemica della professoressa liberal di Storia dell’Arte al collegio femminile di Wellesley (Katherine Ann Watson, interpretata da Julia Roberts), convoca una amica con macchina fotografica per documentare la felicità della sua vita di moglie.

In alcuni paesi, il gradevole film Mona Lisa Smile, di Mike Newell, del 2003 (sottotraccia, qualcosina di più di una semplice commedia), è stato promosso con il richiamo visivo alle tante interpreti. In altri, si è puntato sulla facile combinazione con il sorriso della protagonista Julia Roberts, peraltro estranea alla “Mona Lisa” evocata nel titolo; l’Italia è stata tra questi secondi/ultimi.

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Cinema

ispiratore di queste note. Ufficialmente, dovremmo occuparci della presenza della fotografia all’interno della scenografia del film statunitense Mona Lisa Smile, con protagonista Julia Roberts, star hollywoodiana di richiamo certo. Ufficiosamente, ma concretamente, ci muoviamo di traverso, finalizzando il film ad altre considerazioni che ci appartengono. Comunque, la matrice fotografica c’è... e giustifica queste note redazionali, ospitate nello spazio che riserviamo sempre alla presenza cinematografica della fotografia. La trama, dalla quale traiamo ispirazioni altre, è presto riassunta, e altrettanto presto risolta. Negli Stati Uniti del 1953, in piena guerra fredda e maccartismo di caccia alle streghe (comunisti), con l’integrazione razziale ancora da venire (tutto il movimento politico sarebbe sorto all’alba degli anni Sessanta, con Martin Luther King e Malcom X), la trentenne nubile Katherine Ann Watson (per l’appunto, interpretata da Julia Roberts, anche fotografa Anna Cameron, in Closer, di Mike Nichols, del 2004 [FOTOgraphia, ottobre 2006]) approda in California, nel prestigioso collegio femminile di Wellesley, come docente di Storia dell’Arte. In realtà, l’istituto non è orientato ad alcuna effettiva crescita culturale, ma si propone di preparare le studentesse al proprio ruolo stereotipato nella società statunitense del tempo: mogli perfette e madri devote alla famiglia. Dissidente da questo punto di vista, femminista ante litteram, la professo-

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Ancora fotografia nella scenografia del film Mona Lisa Smile, in completa trasversalità: Speed Graphic 4x5 pollici di derivazione fotogiornalistica per la cerimonia di matrimonio della studentessa Betty Warren [della presenza di Speed Graphic nel cinema, soprattutto statunitense, abbiamo approfondito in molte occasioni precedenti].

ressa sposta l’equilibrio delle proprie lezioni verso una chiave diversa: non più una Storia dell’Arte asettica, vuota e autoreferenziale, ma partecipazione che offra visioni e sollecitazioni rinnovate, proprio a partire dall’arte. In questa sua azione, la brillante professoressa Katherine Ann Watson è osteggiata dalla studentessa Betty Warren (interpretata dall’attrice Kirsten Dunst), che l’attacca sistematicamente sul giornale della scuola con articoli diffamatori, soprattutto della personalità, ma anche sull’insegnamento; in epoca di maccartismo, le si rimprovera un’attività sovversiva indirizzata a minare i ruoli per i quali le donne sono nate (... sarebbero nate, in interpretazione sociale aberrante): casa e famiglia, niente di più, né di diverso. In questo senso, ecco qui la nostra considerazione sovrastante. Al giorno d’oggi, abbiamo come l’impressione che si debba considerare il cinema, nel proprio insieme e complesso, oltre il proprio compito originario e statutario di svago. Certo, è soprattutto questo: è spettacolo (e redditività di impresa). Altrettanto certo, se qualche spettatore intende andare oltre, alcune sceneggiature attuali offrono e propongono anche ulteriori s-punti di riflessione. Sia chiaro che ciascuno ha il diritto/dovere di agire come meglio crede, ma sia altrettanto palese che il cinema è oggi una forma popolare di divulgazione di idee e opinioni e considerazioni: a disposizione di milioni di utenti, di milioni di spettatori. Quindi, al pari

di tanto altro cinema, che nel caso statunitense non viene meno al mandato originario di spettacolo, anche Mona Lisa Smile si presenta come spaccato sociale per osservare e valutare una società che, all’alba degli anni Cinquanta, non aveva affatto intuito la trasformazione che fermentava sottotraccia, per esplodere poi con tutto quanto ha definito e caratterizzato il decennio successivo, che nel caso degli Stati Uniti ha compreso anche la tragica ferita della sanguinosa e rovinosa guerra in Vietnam. Per quanto l’intenzione scolastica del collegio femminile di Wellesley viene dipinta nella propria proiezione a un passato accomodante (e sconcertante), le metamorfosi erano già lì in agguato, pronte a farsi valere, pronte ad esplodere: e lo stesso possiamo riferirlo alla sceneggiatura del noto e apprezzato L’attimo fuggente, di Peter Weir, del 1989, con il docente di letteratura John Keating (straordinariamente caratterizzato dall’attore Robin Williams). Tutte le fragili certezze di quei tempi furono presto spazzate via da nuove ondate. E il copione di Mona Lisa Smile è proprio sull’orlo del baratro, che si sta aprendo: anni Cinquanta, un’epoca nella quale ciò che è stato sceneggiato ha fatto parte di un più generale clima di speranze e allegria. All’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra portò con sé uno stile di vita e una narrativa positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Infine, approdando (finalmente!) alla presenza della fotografia nella scenografia di Mona Lisa Smile, sottolineiamo la sequenza nella quale la studentessa Betty Warren, perfida nemica della professoressa liberal di Storia dell’Arte, convoca una amica con macchina fotografica (biottica 6x6cm Rolleiflex) per documentare la felicità della sua vita di moglie: con il marito e accanto gli elettrodomestici-simbolo. Come al solito, come sempre, e come spesso annotiamo e sottolineiamo, il resto è mancia. ❖



Titoli

di Angelo Galantini

CINQUE PEZZI FACILI

Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, di Frank Zöllner e Johannes Nathan; Taschen Verlag, 2016; 708 pagine 24,5x37,2cm; cartonato con sovraccoperta; 50,00 euro.

Per tutti i titoli, distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it.

FOTOGRAFICO

Leonardo da Vinci. Disegni, di Frank Zöllner e Johannes Nathan; Taschen Verlag, 2014 ( Bibliotheca Universalis); 768 pagine 14x19,5cm; cartonato; 15,00 euro.

PAOLO TOSI, FIRENZE

Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti, di Frank Zöllner; Taschen Verlag, 2017 ( Bibliotheca Universalis); 488 pagine 14x19,5cm; cartonato; 15,00 euro [edizione “compatta” del titolo precedente].

Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, di Frank Zöllner e Johannes Nathan; Taschen Verlag, 2016 ( XL / Extra Large ); 696 pagine 29x44cm; cartonato con sovraccoperta; 150,00 euro.

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Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti, di Frank Zöllner (autore che incontreremo tutte e cinque le volte); disponibile anche in inglese, francese, tedesco e spagnolo; Taschen Verlag, 2018; 272 pagine 24x32,7cm, cartonato con sovraccoperta; 30,00 euro. Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti, di Frank Zöllner (ancora); disponibile anche in inglese, francese, tedesco e

(in basso, da sinistra) Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti, di Frank Zöllner; Taschen Verlag, 2018; 272 pagine 24x32,7cm, cartonato con sovraccoperta; 30,00 euro.

STUDIO

S

Sul passo di questo numero della rivista, che dà Tempo e Spazio a Leonardo da Vinci, in caparra sulle inevitabili imminenti celebrazioni (solenni!) del cinquecentenario dalla scomparsa (1519-2019), e che cadenza soltanto intonazioni in profilo di libro, è giocoforza una ulteriore combinazione di intenzioni: con presentazione di cinque monografie sostanziose, peraltro mono editore (Taschen Verlag, di Colonia), che -a nostro giudizio- rifiniscono la conoscenza del personaggio... a un prezzo di vendita/acquisto opportunamente agevole, senza compromettere la qualità formale delle rispettive pubblicazioni. Siamo qui, con libri e Leonardo da Vinci, oltre e in aggiunta a un certo specifico fotografico (confusione sulla sua presunta aderenza alla camera obscura, da pagina 8) e alla presentazione della solenne monografia d’autore nella quale il ferrato Maurizio Galimberti ha riunito e ordinato il suo avvincente e appassionante progetto sul Cenacolo (da pagina 26). Cinque titoli, dunque: quattro dei quali -ad eccezione di uno, pubblicato in dimensioni XL / Extra Large-, a costo confortevole. Da cui, presentazione in sequenza personale, così come i singoli volumi sono allineati e suddivisi nella nostra policroma libreria. Niente di diverso, né altrimenti gerarchico, né differentemente graduatorio.

spagnolo; Taschen Verlag, 2017 (Collana Bibliotheca Universalis); 488 pagine 14x19,5cm; cartonato; 15,00 euro [per tanti versi, tutti legittimi, edizione “compatta” del titolo precedente]. Leonardo da Vinci. Disegni, di Frank Zöllner (ancora, ancora) e Johannes Nathan; disponibile anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese; Taschen Verlag, 2014 (Collana


Titoli ge); 696 pagine 29x44cm; cartonato con sovraccoperta; 150,00 euro [di fatto, l’edizione originaria, dalla quale sono poi derivati gli altri titoli].

PERCHÉ MAI? Già... perché incoraggiare libri su Leonardo da Vinci, sostenendone la validità, in un ambito statutariamente indirizzato e rivolto alla fotografia, per quanto questa significhi qualcosa di proprio e diverso per ciascuno di noi? A nostro modo di intendere, i motivi sono almeno tre, e a questi ci limitiamo. Uno: ognuno dovrebbe aver capito che, personalmente, interpretiamo la

WINDSOR CASTLE, ROYAL LIBRARY

Bibliotheca Universalis); 768 pagine 14x19,5cm; cartonato; 15,00 euro. Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, di Frank Zöllner (ancora, ancora, ancora) e Johannes Nathan; disponibile anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo e olandese; Taschen Verlag, 2016; 708 pagine 24,5x37,2cm; cartonato con sovraccoperta; 50,00 euro. Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, di Frank Zöllner (ancora, ancora, ancora, ancora) e Johannes Nathan; disponibile anche in inglese, francese, tedesco e spagnolo; Taschen Verlag, 2016 (Collana XL / Extra Lar-

Studio di un giglio ( lilium candidum); 1480-1485 circa.

(centro pagina) Annunciazione; 1473-1475 circa (Galleria degli Uffizi, Firenze).

materia con uno scarto di concetti che volge lo sguardo a trecentosessanta gradi tutt’intorno; e lo facciamo in base al doppio princìpio coabitante, che ci esorta a osservare, piuttosto di giudicare e pensare, invece di credere. Due: come anticipato, qui e oggi, combiniamo assieme due trasversalità caratteristiche di questa edizione, con Leonardo da Vinci in celebrazione e compagnia di libri. Tre: alla resa dei conti, Fotografia non deve intendere considerazioni limitate e circoscritte a capitolati in chiusura di pensiero, ma offrire e sollecitare s-punti di riflessione, addirittura privilegiati. Ovvero, con la Fotografia, così come con altre frequentazioni del pensiero, si ottengono benefici e gio-

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FRANCESCO DEL VECCHIO FOTOGRAFIA DI

UFFIZI / DEGLI

GALLERIE DELLE

GABINETTO FOTOGRAFICO BIBLIOTECA NACIONAL, MADRID

NATIONAL GALLERY, LONDRA

I QUALIFICATI CURATORI

Le intense cinque monografie su Leonardo da Vinci pubblicate da Taschen Verlag, oggi presentate e commentate, sono firmate da Frank Zöllner (tutte) e Johannes Nathan (tre su cinque). Qui certifichiamo le rispettive qualifiche professionali. Frank Zöllner ha dedicato la propria tesi di dottorato (1987) ai motivi presenti nella storia dell’arte e dell’architettura di epoca medievale e rinascimentale che hanno avuto origine nell’antichità. Inoltre, ha redatto un trattato post-dottorale sul movimento e l’espressione nell’arte di Leonardo da Vinci, pubblicato nel 2010. Ha compilato numerose opere dedicate all’arte e alle teorie rinascimentali, oltre che del Ventesimo secolo. Dal 1996, è docente di arte medievale e moderna alla Universität Leipzig (Università di Lipsia). Oltre i titoli su Leonardo da Vinci, per Taschen Verlag, ha curato anche la monografia Michelangelo. Complete Works, in dimensioni XL / Extra Large (in inglese, francese, tedesco e spagnolo; 736 pagine 24,5x37,2cm; 50,00 euro). Johannes Nathan ha studiato storia dell’arte alla New York University e al Courtauld Institute of Art, di Londra, dove ha conseguito un dottorato, nel 1995, con una dissertazione sui metodi di lavoro di Leonardo da Vinci. Ha insegnato alla New York University e alle università di Berna, Lipsia e Colonia. Ha compilato numerose pubblicazioni dedicate all’arte e lavora come art dealer e storico dell’arte, a Berlino.

vamenti di spessore superiore e solidità maggiore che non con altri beni materiali, siano abiti griffati, scarpe firmate, automobili appariscenti, orologi costosi... e altro ancora. In ogni caso, postilla aggiuntiva, confermando quanto scandito da pagina 8, su questo stesso numero, sia chiaro e definitivo che non ci avviciniamo alla personalità di Leonardo da Vinci in virtù di sue pre-visioni primitive della fotografia, in configurazione di camera obscura, dalla cui preistoria fotografica è stato sempre estraneo, ma consideriamo proprio la conoscenza della sua opera e del suo pensiero come nutriente arricchimento personale... magari per stare meglio anche con la fotografia. Perché no? In questo senso, nel proprio insieme, ma anche in se stessi, ciascuno per sé, i cinque titoli segnalati, da sfoltire individualmente alla luce delle sovrapposizioni (in forma editoriale autonoma, ma con contenuti identici), stabiliscono considerazioni definitive e autorevoli sulla vita e l’opera di Leonardo da Vinci. In particolare, questi approfondimenti approdano alla concretezza pratica di una delle più grandi menti di tutti i tempi, la cui importanza e influenza è a dir poco inestimabile. In dipendenza dell’indirizzo, specificato nei rispettivi titoli, ciascuna monografia compone i tratti della più completa, minuziosa e particolareggiata analisi, che dall’opera arriva al personaggio, e viceversa, per poi approdare a ciascuno di noi. Quindi, la rigorosa personalità editoriale di Taschen Verlag assicura e garantisce l’aspetto formale, composto da riproduzioni accurate e ingrandimenti a tutta pagina (e oltre), che consentono di saziarsi di dettagli significativi e qualificativi delle opere di Leonardo da Vinci (per esempio, in Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, in ogni sua edizione, l’Annunciazione e il Cenacolo sono riprodotti su appaganti doppie pagine). Da cui, oltre l’apparato illustrativo, i testi di accompagnamento e a commento sono organizzati in capitoli consequenziali che semplificano la comprensione delle analisi riportate. A seguire, dopo le parole a commento, ogni titolo si conclude con cataloghi ragionati delle opere, comprensivi dei relativi stati di conservazione. In questo ambito, i qualificati curatori, dei quali riferiamo a parte, includono anche


Titoli Adorazione dei Magi; 1481-1482 (Galleria degli Uffizi, Firenze).

(pagina accanto) Vergine delle Rocce; 1495-1499 circa e 1506-1508 (National Gallery, Londra).

(centro pagina, in basso) Studio meccanico; 1493-1497 [dettaglio].

WINDSOR CASTLE, ROYAL LIBRARY

Studi anatomici dei muscoli delle braccia; 1509-1510 circa.

scoperte recenti che attribuiscono a Leonardo da Vinci opere fino a ieri non conteggiate, e ne registrano anche le rispettive controversie espresse da alcuni storici: a misura e valore di un approfondimento scientifico a dir poco superlativo. Insomma, per la prima volta, è stato classificato l’insieme dell’opera omnia del grande personaggio. Allo stesso modo e tempo, si segnala anche un dettagliato catalogo dei disegni, nei titoli che li considerano, che -ovviamente- non approdano alle migliaia che ce ne sono, che richiederebbero un approccio enciclopedico (che, in un immediato futuro, potrebbe concretizzarsi... speriamo), ma che ne comprendono seicentotrentatré, organizzati e presentati in scomposizione/ordine per categoria di attribuzione: dall’architettura alla tecnica, dall’anatomia in senso stretto alla figura umana, dalle proporzioni alla cartografia [senza camera obscura in quanto tale, ribadiamo e confermiamo]). Tra i codici leonardeschi noti, una sostanziosa quantità dei disegni proposti nelle edizioni Taschen Verlag proviene dalla collezione del Castello di Windsor, che per la prima volta ha concesso l’autorizzazione a un editore a riprodurre una entità così elevata di disegni. A margine e integrazione, segnaliamo che l’insieme delle tavole del definito Codice Leicester -altro sostanzioso fondo- ha avviato le celebrazioni del cinquecentenario di Leonardo da Vinci, agli Uffizi, di Firenze (dallo scorso ventinove ottobre al prossimo venti gennaio); è un prestito del proprietario, Bill Gates, che lo ha acquistato da Armand Hammer, nel 1994. A cura di Paolo Galluzzi, Il Codice Leicester di Leonardo da Vinci. L’Acqua Microscopio della Natura è un incontro emozionante. Lo stesso vale per quanto sistematicamente presentato alla Biblioteca Ambrosiana, di Milano, che custodisce le tavole del Codice Atlantico. A questo proposito, ricordiamo che dal Duemilanove, per sei anni successivi, tutto questo straordinario materiale è stato allestito nel programma Maestro Leonardo Fiorentino in Milano, scomposto tra due sedi coincidenti: alla stessa Biblioteca Ambrosiana e in Santa Maria delle Grazie (dove, peraltro, si trova l’affresco del Cenacolo) [FOTOgraphia, settembre 2009]. Insomma... Leonardo! ❖

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Con la qualità di questi suoi ritratti di Bob Dylan, realizzati a metà degli anni Sessanta del Novecento, Jerry Schatzberg scandisce i tempi del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta; non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione

CON LA FORZA DEL RITRATTO di Angelo Galantini

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olente o nolente, ma più volente che nolente, la musica (e poesia) dello statunitense Bob Dylan, al secolo Robert Allen Zimmerman, ha influito sull’esistenza di una generazione trasversale, che dagli anni Sessanta del Novecento si è incamminata verso la Vita, sia propria individuale, sia sociale. Se dovessimo riflettere con adeguata concentrazione, per quanto sia mai possibile farlo, potremmo addirittura considerare che questa stessa generazione trasversale, composta da anagrafi che si aggiungono e sovrappongono le une alle altre, a volte con date marginalmente coincidenti, ha anteposto l’approccio collettivo a qualsivoglia

tornaconto personale: ma, forse, questa è un’utopia alla quale vogliamo credere, per dare un qualsivoglia senso al percorso individuale che ha caratterizzato la nostra stessa esistenza, per quanto ci riguarda sfociata in una personalità a concreta e solida base fotografica. Altro discorso, non oggi, non qui. Con modalità utopiche di solidarietà sociale (ahi, quanti sogni! quante speranze!), questa generazione trasversale si è alimentata di tanti e tanti pensieri altrui, nella convinzione -che, personalmente, non ci ha mai abbandonati- che il bene sia raggiungibile soltanto attraverso un intelligente scambio di idee: dall’accoglienza dei concetti altrui alla comprensione del diverso da sé, in qualsiasi modo e misura questa presunta “diversità” arrivi ad esprimersi.

Larry Schatzberg: Bob Dylan per copertina del Saturday Evening Post (1966).

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(centro pagina) Larry Schatzberg: copertina dell’album Blonde on Blonde (1966).

Larry Schatzberg: Bob Dylan scherza (1965).

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Dunque... la poesia di Bob Dylan, accanto a altri inviti verso intelligenza, umanità, tolleranza, altruismo: senza alcuna soluzione di continuità, Giacomo Leopardi, Walt Whitman, Francesco Guccini, Charles Baudelaire, Enzo Jannacci, Costantino Kavafis, Giorgio Gaber (con Sandro Luporini), Bertrand Russell, Collodi (Carlo Lorenzini), Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Antonio Machado, Edgar Allan Poe, Antoine de Saint-Exupéry, Francesco De Gregori, Ray Bradbury, George Orwell, Edgar Lee Master, Capo Giuseppe, William Shakespeare... Nello specifico odierno, l’occasione di riprendere il pensiero su e con Bob Dylan è suggerita dall’edizione di una monografia di suoi ritratti della metà degli anni Sessanta del Novecento, pubblicata da Skira, editore italiano più che benemerito nell’ambito della comunicazione visuale, all’interno della quale la Fotografia, comunque ciascuno di noi la intenda, manifesta un proprio passo autorevole, oltre che autonomo. Subito il merito di questa edizione: Dylan / Schatzberg è autentica celebrazione della persona più che del personaggio. E qui, la distinzione esige precisazione. A differenza di quanto troppo sta caratterizzando i nostri tempi odierni, sempre più infangati e insudiciati dalla spettacolarizzazione dell’esistenza pubblica (in connessione e correlazione con quanto Guy Debord, altro pensiero di vita, rilevò nel 1967, con il suo fol-

gorante Società dello spettacolo, per l’appunto), i ritratti dell’autorevole Jerry Schatzberg evitano la trappola del populismo, per rilevare, invece, il valore della persona eretta a personaggio, non limitata alla presunta e forzata meraviglia demagogica, stile palinsesto televisivo di questi terribili giorni (ahinoi!). Del resto, per i poeti -gli unici a saper veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante-, la trasmigrazione da persona a personaggio risulta naturale, a differenza di coloro i quali, dagli schermi tv, soprattutto, debbono necessariamente richiamarsi a stereotipi e maschere in costume. A questo proposito, lo stesso Jerry Schatzberg è stato esplicito, almeno per quanto intendiamo individuare: «Come soggetto fotografico, Bob Dylan è stato il migliore tra quanti ho incontrato. Bastava puntargli addosso l’obiettivo e le cose semplicemente accadevano. Abbiamo avuto un buon rapporto e lui era disposto a provare qualsiasi cosa». L’attuale preziosa e autorevole monografia Dylan / Schatzberg riunisce, raccoglie e presenta una sostanziosa quantità di ritratti realizzati quando già la carriera del celebrato autore si era manifestata come tale. Ed ora, a distanza di cinquant’anni abbondanti, registriamo anche il Premio Nobel per la Letteratura 2016 («Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione musicale americana»), quando indirizzò


l’amica Patti Smith alla cerimonia di consegna [il suo Camera Solo, in FOTOgraphia, del settembre 2014]. A proposito di questo gesto/atto, tante le interpretazioni, sicuramente tutte preconcette, come lo è -del restoanche la nostra: dalla superbia, invocata da molti, alla riservatezza, rilevata da altri (noi, tra questi); comunque, argomento intrigante, che, però, non ha diritto di alcuna nostra ospitalità, quantomeno ora. In ogni caso, come da selezione qui in accompagnamento, ritratti in sala di posa, in studio di registrazione, per strada e durante i concerti. L’incontro tra Jerry Schatzberg, fotografo già affermato nel professionismo di illustrazione redazionale, e Bob Dylan, cantautore in avvio di cammino, avvenne nel 1965, quando già si poteva registrare un suo sostanzioso successo pubblico. Si racconta che il giovane Bob Dylan, allora ventiquattrenne, invitò il fotografo nello studio dove stava registrando un album innovativo (allora, si diceva Long playing), il nono della sua produzione: Highway 61 Revisited, pubblicato il trenta agosto di quell’anno, oggi storicizzato come componente fondamentale della cosiddetta “trilogia elettrica”, avviata da Bringing It All Back Home, del precedente marzo, e proseguita con Blonde on Blonde, di metà maggio (stagione prolifica!). Ancora, e allo stesso momento, Highway 61 Revisited è considerata una delle raccolte musicali più rilevanti

della musica contemporanea, collocata al quarto posto della particolare classifica dei cinquecento migliori album di tutti i tempi, stilata dall’autorevole rivista Rolling Stone (in valutazione più che personale: dopo Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, dei Beatles, del 1967 [FOTOgraphia, giugno 2007], Pet Sounds, degli sdolcinati californiani Beach Boys, del 1966, e Revolver, ancora dei Beatles, dello stesso 1966; e prima di Rubber Soul, immancabilmente dei Beatles, del 1965. Ancora in retrovisione, le nove tracce di Highway 61 Revisited, cinque sulla facciata A e quattro su quella B, esordiscono con la leggendaria Like a Rolling Stone, elevata al primo posto nella classifica dei cinquecento più grandi successi musicali di tutti i tempi, sempre dalla rivista Rolling Stone, qui in sovrapposizione di identificazione... appunto, Rolling Stone. Dunque, i ritratti allora realizzati dall’attento e capace Jerry Schatzberg visualizzano, documentandolo, Bob Dylan in momenti cruciali della propria storia musicale: una volta ancora, una di più, e mai una di troppo, da persona a personaggio, da persona a modello di pensiero (quantomeno, ma non soltanto). Ovviamente, non ci allunghiamo sui riconoscimenti di merito attribuiti e convenuti a Bob Dylan, che ognuno può rintracciare per proprio conto, per quanto invitiamo a farlo senza incappare in alcuna interpretazione spet-

(centro pagina, al centro) Jerry Schatzberg: Bob Dylan al concerto di Mineola (1965).

(centro pagina, in basso) Jerry Schatzberg: Bob Dylan scherza (1965).

Jerry Schatzberg: Bob Dylan durante la registrazione di Highway 61 Revisited (1965).

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Jerry Schatzberg: Bob Dylan scherza (1965).

Dylan / Schatzberg (Ritratti di Bob Dylan realizzati negli anni Sessanta da Jerry Schatzberg); Skira, 2018; 262 pagine 28,5x32,5cm, cartonato con sovraccoperta; 55,00 euro.

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tacolarizzata e retorica. Dato il nostro punto di vista che, per proprio statuto, privilegia la Fotografia, in quanto tale, magari a scapito del soggetto (ma la questione non è proprio così drastica), sottolineiamo come e quanto i ritratti di Jerry Schatzberg, qui riuniti in una monografia comprensiva di accattivanti memorabilia visivi, rappresentino l’elemento distintivo del passo a doppia intenzione Dylan / Schatzberg, in preziosa edizione libraria. Come tutti i fotografi, che pronunciano la propria espressività da centottant’anni (da quel fatidico 1839, nel quale tutto è cominciato), con i suoi intensi ritratti di Bob Dylan, anche il bravo Jerry Schatzberg rivela di essere un bugiardo cronico (in volontario ed evidente scarto di significato). Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto, omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche il bravo fotografo mente per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto. Dove sta la sua bugia ? Paradossalmente, nella evidente sincerità di intenti ed esecuzione: in questo caso, offre una propria lettura e interpretazione affinché ciascuno di noi, alla presenza dei suoi intensi ritratti, possa esprimere pensieri suoi autonomi, partire per viaggi individuali. Ancora, dove sta, allora, la sua bugia? Nel rac-

contare con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Mettiamola così: con la qualità di questi suoi ritratti di Bob Dylan (e non ci riferiamo a quella formale che dall’accurata inquadratura passa attraverso una confortevole composizione, per presentarsi, infine, in stampe bianconero e colore ottimamente eseguite), Jerry Schatzberg scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta; non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. La fotografia è magica e magia giusto per questo, ma non soltanto per questo... per quanto (!). Non necessariamente racconta dei propri soggetti, spesso invitati a richiamare altre intimità che non la propria apparenza a tutti manifesta. Ma rivela sempre qualcosa dell’autore, che coinvolge tutti nella sua visione. Magia della Fotografia. ❖



di Maurizio Rebuzzini

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iamo sinceri, siamo onesti, così come siamo sempre capaci di essere: qualsiasi sia e in qualsimodo si esprima, un autore deve essere coraggioso per affrontare il Cenacolo leonardesco... altrimenti, non sarebbe un autore. Nella sua attuale azione, l’abile Maurizio Galimberti è doppiamente coraggioso: anzitutto, per l’avvicinamento al Genio riconosciuto e incontestabile; quindi, per la sua azione in forma (a tutti visibile) di fotografia a sviluppo immediato, che sottolinea un proprio clamoroso precedente. Dopo aver rilevato tanto e tale coraggio creativo, e prima di proseguire lungo il tragitto lineare dell’attuale Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci, è necessario deviare sull’antefatto appena menzionato, evitando altresì di incontrare la modesta riflessione analoga, realizzata da Andy Warhol, nel Millenovecentottantasei (riveliamo di conoscerla; e sottolineiamo di non riservarle alcuna considerazione). Torniamo indietro nel tempo, agli anni Ottanta e Novanta del Novecento, durante i quali la dottoressa Pinin Brambilla Barcilon diresse il restauro dell’affresco, riportato al proprio (presunto) splendore originario dopo ventidue lunghe stagioni di interventi minuziosi. A un certo momento -a seguito della partecipazione di Polaroid Corporation alla sistematica documentazione della Trasfigurazione di Raffaello, presso la Pinacoteca vaticana, dove il dipinto a tempera grassa su tavola, di 410x279cm, è custodito e conservato-, la stessa azienda statunitense fu invitata a do-

CENACOLO Ottima monografia, Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci aggiunge un proprio autorevole tassello a quell’insieme di testimonianze librarie che sottolineano e certificano la statura espressiva e interpretativa dell’autore... Maurizio Galimberti, per l’appunto. Francamente: la sua fotografia è arte nella misura in cui invita in un mondo incantato e illusorio,

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cumentare “al naturale”, ovverosia in rapporto uno-a-uno, anche l’affresco leonardesco, in Santa Maria delle Grazie, a Milano. Oltre gli originali fotografici polaroid 50x60cm (20x24 pollici) e di dimensioni anche superiori, per le quali fu edificata una camera obscura apposita, l’operazione vaticana con la Trasfigurazione è testimoniata in una preziosa monografia (Primo piano di un capolavoro: La Trasfigurazione di Raffaello ; Monumenti Musei e Gallerie Pontificie, Città del Vaticano, 1979); mentre, e al contrario, sappiamo per certo che la filiale italiana ha sperperato le stampe del Cenacolo, addirittura gettandole come se fossero stata spazzatura. Gli unici ricordi tangibili di quell’esperienza si trovano in rassegne stampa (tra le quali, spicca un ottimo reportage di National Geographic Magazine, del novembre 1983, con lancio dalla copertina) e in qualche backstage operativo. A integrazione, rilevanza fotografica a parte, non si sottovaluti il racconto romanzato della stessa dottoressa Pinin Brambilla Barcilon, pubblicato da Electa, nel 2015: La mia vita con Leonardo. A distanza di tempo, e in attualità di date, l’autorevole Maurizio Galimberti ha agito alla propria maniera sul Cenacolo, rivisitandone la grandezza e sottolineandone lo splendore: per mille motivi, tutti leciti, molti intuibili, oggi, non c’è pericolo che i suoi originali fotografici vadano dispersi, come è accaduto per quelli appena raccontati. Inoltre, la messa in pagina di questa avvincente monografia consente un’ulteriore garanzia perpetua. Da cui, ecco qui il valore dei libri, il senso delle relative testimonianze che durano nel tempo, in forma e dimensione a tutti accessibili. (continua a pagina 30)

IMMEDIATO seppure corporeo, nel quale le incombenze dell’esistenza non hanno alcun diritto di ospitalità. Immagine dopo immagine, in un incontro/confronto solenne, ognuno di noi è convocato in uno spazio-tempo concentrato nel proprio individuale rapporto e confronto con la Vita. Dall’edizione Skira, qui e ora, riprendiamo l’introduzione Possiamo rubare un momento all’aria

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(continua da pagina 27) Terzo coraggio di Maurizio Galimberti / autore, nel nostro conteggio odierno: quello di affidarsi all’impaginazione (di pregio), per stabilire un percorso del proprio lavoro che non sia soltanto ordine formale, come pure è anche, ma che interpreti e decodifichi il suo passo fotografico con una cadenza armoniosa e capace di coinvolgere ciascuno nella tranquillità e serenità dei propri pensieri. In questo senso e in relazione a tali considerazioni, la personalità dello stesso Maurizio Galimberti è a dir poco esemplare, soprattutto se letta alla luce della sua risoluta volontà di trasferire in monografia l’insieme dei suoi progetti autoriali, che così ri-vivono (è il caso) in una dimensione fruibile a ognuno, indipendentemente dall’accessibilità fisica dei suoi elaborati. Tanto che l’insieme delle sue raccolte -sempre accurate, sempre avvincenti- compone addirittura un proprio capitolo espressivo, complementare e integrativo della sequenza dei relativi originali fotografici. In definitiva, anche in questo sta la sua autentica dimensione (e grandezza d’autore): dall’aver compreso che tutto deve scaturire da ciò che è accaduto in precedenza, e tutto deve -a propria volta- condurre a qualcos’altro. Del resto, il mondo e le sue manifestazioni sono come ognuno li interpreta. Intendiamo dire che, se crediamo a tanti equilibri naturali e sociali, allora si vive e ci si comporta di conseguenza. Infatti, ognuno percepisce attorno a sé soprattutto (soltanto?) nei limiti circoscritti di idee e immagini preconcette. Nessuno vive in un vuoto: per quanto ci riguarda, nell’abitare in Fotografia e con la Fotografia, nell’avvicinamento a Maurizio Galimberti, incontriamo poesie in forma di immagine, vera o ipotizzata che sia. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo e -speriamo- non certo per l’ultima volta, l’attuale apparato autoriale di

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Il Cenacolo di Leonardo da Vinci svela e rivela una condizione esistenziale che appartiene soprattutto al mondo dell’arte, ovvero a quel mondo entro il quale si esprimono autori consapevoli che «Ci sono cose che un Uomo può fare, e cose che un Uomo non può fare» e anche, e ancora, «Tu sai che è impossibile farlo, ma fintanto che è qualcosa che puoi fare, devi farlo» (probabilmente, Confucio). La fotografia di Maurizio Galimberti è arte nel momento e nella misura in cui invita in un mondo incantato e illusorio, seppure corporeo, nel quale le incombenze dell’esistenza non hanno alcun diritto di ospitalità. Immagine dopo immagine, in un incontro/confronto solenne (con Leonardo da Vinci, nientemeno!), ognuno di noi è convocato in uno spazio-tempo estraneo al quotidiano, ma concentrato nel proprio individuale rapporto e confronto con la Vita, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Nell’accostarci all’arte di Maurizio Galimberti, scandita sul significato della fotografia pronta in una manciata di secondi e in copia unica e assoluta (forma per il contenuto, forma del contenuto), siamo tutti sollecitati a osservare, piuttosto che giudicare, a pensare, invece di credere. Del resto, e a conclusione di molto, per quanto non di tutto, anche se ognuno di noi ha convinzioni sue personali sull’arte e sulla fotografia, in coincidenza o divergenza di considerazione, e ha altrettante opinioni proprie su ciò che è degno di memoria, tutti abbiamo capito e sappiamo che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari, con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro (magari, ancora con una fotografia). E così, ciascuno per sé, ciascuno per quanto può e vuole, lo fa. In aggiunta di pensiero, Maurizio Galimberti, in spirito artistico, lo fa anche per nostro conto. ❖



CELEBRAZIONE D’AUTORE F

Steve McCurry. Una vita per immagini; a cura di Bonnie McCurry; Mondadori Electa, 2018; 392 pagine 25x33cm, cartonato; 49,00 euro.

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di Angelo Galantini

otografo dai mille meriti attribuiti (soprattutto dalla Società dello spettacolo), Steve McCurry (Magnum Photos) vanta anche un primato mai raggiunto da altri autori (forse). Noto e apprezzato nel proprio ambito professionale, è sicuramente il personaggio della fotografia più conosciuto e ammirato dal grande pubblico, dal pubblico generico, esteso ben oltre i confini degli addetti: quantomeno, questo vale per l’Italia, dove e per quanto è addirittura idolatrato, come certificano molte circostanze testimoniali (per esempio, ci riferiamo alle lunghe file di attesa per accedere alle sue mostre personali, sempre allestite in luoghi pubblici di prestigio e valore espositivo). Però, alla resa dei conti, quello italiano non può essere capitolo a se stante, estraneo a un clima complessivo e planetario: altrimenti, siamo sinceri, non si motiverebbe l’attuale corposa biografia illustrata Steve McCurry. Una vita per immagini, in edizione italiana Mondadori Electa dall’originaria Steve McCurry: A Life in Pictures / 40 Years of Photography a distribuzione internazionale (e, poi, anche edizioni in francese e tedesco). E non si tratta di una casualità momentanea, né passeggera. Infatti, questa opinione, in forma di convincimento, è altresì confermata, fino a essere ribadita, da una precedente monografia in forma altrettanto biografica Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie, pubblicata in Italia, nel 2013, in binomio editoriale Electa-Phaidon [FOTOgraphia, febbraio 2014]. Insomma, per quanto possano farlo, in un mondo nel quale i libri non sono certamente priorità esistenziale per molti (ma per noi, sì), due autocelebrazioni bibliografiche certificano una sostanziosa attenzione... con prevista (e legittima) redditività di impresa... editoriale e personale. Tanto più, in completamento di prologo, che una avvincente presentazione dell’odierno Steve McCurry. Una vita per immagini è stata sontuosamente allestita nell’ambito dell’intenso programma/evento Bookcity Milano, lo scorso diciotto novembre: con Michele Smargiassi, moderatore, e la presenza annunciata e anticipata dei due soggetti della vicenda, Steve McCurry e la sorella Bonnie McCurry, presidente degli Studios, e autrice che ha firmato il volume. Da cui, ancora due annotazioni preventive: la stessa Bonnie McCurry dedica il libro al fratello (per l’appunto, «A Steve McCurry, mio fratello, la persona più talentuosa che abbia mai conosciuto», dal comunicato stampa di presentazione); e, nell’ambito di Bookcity Milano, la presentazione in tarda mattinata,

STEVE MCCURRY ©

Lettera di Newsweek, 1988; carta d’imbarco, Afghanistan; cartolina con veicolo sovietico di trasporto truppe sequestrato, Afghanistan, settembre 1984; copertina di Christian Science Monitor, 1979; provini a contatto, Afghanistan, 1980; articolo di Owen Edwards su American Photographer ( Afghanistan); cartolina, Afghanistan; Kabul, Afghanistan, 2002; articolo di giornale, Afghanistan, 1979; articolo del New York Times, 1979; provini a contatto, Afghanistan, 1980; targa automobilistica, Afghanistan; tessera stampa, Afghanistan; articolo su AFGHANews, Afghanistan, 1995.


In libreria dall’inizio dello scorso ottobre, l’imponente monografia Steve McCurry. Una vita per immagini è stilata sulla cadenza di quarant’anni di fotogiornalismo del più noto e riconosciuto autore contemporaneo, apprezzato e ammirato anche dal grande pubblico, che lo ha elevato di qualità. Qui svincolate dalla propria attualità in cronaca (circa), ma riunite con altra intenzione che non quella giornalistica originaria, queste tante fotografie -seicento, duecento delle quali inedite- stabiliscono ulteriori passi della Storia. Sia di quella della sola Fotografia, sia di quella senza sostantivi aggiunti in specifica (e limitazione?)

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(pagina accanto) Pakistan, 1983.

di pensiero al nostro novembre 2002, in commento al ritorno, circa vent’anni dopo, sullo stesso volto). Infatti, a nostro giudizio, c’è differenza tra le immagini considerate in proprio contesto originario e le selezioni antologiche successive, tracciate con passo storico. Così come c’è profonda differenza tra le stesse immagini in quanto tali e la loro proposizione libraria: che, personalmente, amiamo, arrivando spesso a preferirla. Qual è il valore del libro, e nello specifico di questa avvincente monografia Steve McCurry. Una vita per immagini, ricca di seicento fotografie, duecento delle quali inedite, e completa di documenti e memorabilia dei viaggi avventurosi affrontati dall’autore? Quello, fondamentale, di consentire a ciascuno di noi di avvicinare l’argomento, in questo caso fotografico, con passo individuale e mente concentrata. Al pari di ogni Fotografia, anche queste di Steve McCurry, accompagnate dal suo tragitto esistenziale, possono rivelare qualcosa dei relativi soggetti; ancora di più riferiscono del suo autore (che, personalmente, conteggiamo clamorosamente estraneo a quel pensiero meridiano che eleviamo di valore e rango, ma... a ciascuno, il proprio). Però, il loro merito è quello di consentire a ciascuno di noi di trovare qualcosa in se stessi: sempre che si sia disponibili ad accettare che, quando conosciamo gli altri, di fatto conosciamo noi stessi. Siamo sempre pronti a tanto?

STEVE MCCURRY © (2)

Scozia, 2016.

all’interno dell’accreditato Teatro Grassi, di via Rovello (già Piccolo Teatro), si è allungata su un appuntamento di fine pomeriggio, durante il quale Steve McCurry ha firmato le copie del libro per il pubblico intervenuto. Per certi versi, ribadiamo: Società dello spettacolo (da e con Guy Debord, in compagnia di Pino Bertelli). A parte le competenti note biografiche, tutte elevate a celebrazione del fotogiornalista -e ci mancherebbe altro-, l’edizione dell’attuale Steve McCurry. Una vita per immagini, in libreria dall’inizio dello scorso ottobre, impone una rilevazione necessaria, oltre che dovuta. Eccoci qui, con nostro solito passo: da una parte, vivono e si manifestano le fotografie di Steve McCurry, realizzate secondo princìpi stabiliti dalla e con la committenza giornalistica di riferimento; dall’altra, le stesse fotografie riunite in forma antologica, dunque svincolate dalla propria attualità in cronaca (circa), stabiliscono ulteriori passi della Storia. Sia di quella della Fotografia, sia di quella senza sostantivi aggiunti in specifica (e limitazione?). Quindi, nel qui caratteristico, è più doveroso riferirsi giusto all’edizione libraria, tangibile e cadenzata, che alle immagini, peraltro ampiamente note e riconosciute: senza dubbio, a partire dalla iconica profuga afghana, del 1984, sulla quale non serve più soffermarsi, quantomeno per rimanere volontariamente e consapevolmente estranei alla sua stucchevole spettacolarizzazione (con eventuale rimando

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STEVE MCCURRY © (2)

Taccuino sui monsoni, India, 1983; schema del libro sui monsoni, India, 1982; tesserino di accredito per i fotografi, India, 1984; India, 1983; banconota da cinque rupie, 1978; telegramma a Steve McCurry relativo ai monsoni; permesso di soggiorno rilasciato dal Ministero dell’interno indiano, 1979.

(in alto, a destra) Australia, 1983.

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In ogni caso, e oltre le nostre digressioni, o concentrazioni (fate voi), sono pertinenti le note stampa di presentazione, che espongono la monografia così come è stata intesa in ogni momento della sua realizzazione: dall’ipotesi alla stesura, alla messa in pagina, alla produzione. Ciò che realmente conta, nella vita di tutti i giorni e nei relativi rapporti professionali, è sempre l’aderenza con i propri mandati primigeni: ovvero, ciò che conta (forse) è l’affermazione perseguita e ottenibile soltanto attraverso la soddisfazione palese del pubblico verso il quale ci si rivolge. Il resto conta niente, non soltanto poco. [E altrettanto nulla valgono quelle nostre convinzioni personali che ci indirizzano altrimenti. Da e con Hanif Kureishi, in Nell’intimità (Bompiani, 1998): «Se vivere è un’arte, è un’arte strana, che dovrebbe comprendere tutto, e in particolare un forte piacere. La sua forma evoluta dovrebbe comprendere un numero di qualità fuse insieme: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, nonché saggezza, gusto, conoscenza, comprensione, oltre all’accettazione del fatto che l’angoscia e il suo conflitto fanno parte della vita. Il benessere economico non sarebbe da considerarsi essenziale: dovrebbe esserlo invece l’intelligenza per raggiungerlo, se necessario. Le persone di cui penso che vivano con talento sono quelle che hanno vite libere, che formulano grandi schemi e li vedono realizzati. E loro sono anche la migliore compagnia»].

Dunque, è ufficiale che «Steve McCurry sia uno dei fotografi contemporanei che più hanno segnato l’immaginario comune, raccontando con i suoi scatti storie di volti e Uomini di tutte le culture del mondo. In una sorta di romanzo di formazione, l’autrice Bonnie McCurry ripercorre la vita del fratello, partendo dall’infanzia a Philadelphia; narrando l’incidente che ha segnato per sempre la sua vita; gli anni giovanili e le prime esperienze artistiche; il primo grande viaggio in Europa e la volontà irrevocabile di intraprendere la carriera di fotografo. «Il racconto prosegue per circa quarant’anni tra luoghi di guerra (la Cambogia, il Medio Oriente, l’Afghanistan), disastri naturali (i monsoni in India) e luoghi dello spirito (le grandi vette himalayane e i templi, luoghi di fede e spiritualità). A rendere unico il volume, un’esaustiva raccolta di fotografie, divise per tematiche e alcuni portfolio inediti, presentati al lettore con la grafica elegante e originale di Yolanda Cuomo, designer affermata nel mondo dell’editoria e della cultura». Come già annotato, divisa in tredici capitoli armonici e consequenziali (uno dei quali, Portfolio, scandito su cinque passi propri), Steve McCurry. Una vita per immagini è monografia celebrativa. Ma, attenzione e concentrazione, nell’approccio individuale, per coloro i quali frequentano e vivono la Fotografia, è fonte di profonde considerazioni e riflessioni. A ciascuno, le proprie. ❖


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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


N

ROLLEIFLEX 3,5F

essun rimpianto. Forse, più probabilmente, qualche pacata nostalgia per l’attuale lontananza da momenti del passato che non sarà più possibile rivivere: allo stesso tempo, comunque, serenità di un ricordo di situazioni (professionali) appaganti, grazie alle quali si sono vissuti tempi di entusiasmo e concentrazione fotografica scanditi con soddisfazione nel fare e dare, oltre che nel ricevere... svolgendo il proprio mestiere. Ci riferiamo a quando, in condizioni sociali precedenti l’attuale fretta che consuma tutto in un lampo, si è potuto cadenzare e ritmare la riflessione fotografica sugli strumenti di ripresa e/o trattamento e/o gestione con approfondimenti equilibrati e ricercati tra parole e illustrazioni a commento. Esauriti quei fantastici momenti, il libro che non c’è (e non ci sarà, ormai, più) è quello che avrebbe dovuto/potuto raccogliere sia queste parole profonde, personali e aggiuntive delle note tecniche originarie, in forma di caratteristiche protocollate, sia quelle immagini a corredo realizzate con concentrazione mirata: a un tempo, sull’oggetto in quanto tale, rappresentato, più che soltanto raffigurato, nella propria lucentezza, e nell’applicazione di stilemi fotografici profondi. A questo proposito, all’interno di un panorama giornalistico di settore, ovviamente fotografico, ricco di tanti punti di vista autonomi sulla materia, tutti legittimi, ciascuno per se stesso e tutti insieme in comunione di intenti, sottolineiamo come e quanto l’esperienza e il passo della nostra edizione siano sempre stati particolari, per quanto non necessariamente migliori di altri: (continua a pagina 43)

MANFROTTO TRIMINOR DUO

di Antonio Bordoni

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IL LIBRO CHE NON C’È ... e non ci sarà mai è quello che, oltre eventuali parole profonde in merito, avrebbe dovuto/potuto raccogliere quelle immagini “tecniche” a corredo realizzate con concentrazione mirata: a un tempo, sull’oggetto in quanto tale, rappresentato, più che soltanto raffigurato, nella propria lucentezza, e nell’applicazione di stilemi fotografici profondi. Certo, sono soltanto macchine fotografiche. Ma le cose (in questo caso fotografiche ), come i luoghi, hanno un proprio significato, come le parole, e ognuno di noi può leggerle come se fossero (in) un libro. Pensiamo anche a un apparecchio fotografico, a un obiettivo, a un accessorio: sono come frasi, che hanno un proprio significato... sempre che si intenda individuarlo



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(continua da pagina 38) come spesso annotiamo, e qui ripetiamo, a ciascuno le proprie intenzioni e finalità. In particolare, rievocando tempi durante i quali ha avuto senso affrontare e approfondire anche l’aspetto tecnico dell’esercizio fotografico, attraverso la presentazione ragionata di utensili (macchine fotografiche, soprattutto, ma non soltanto), potremmo perfino ipotizzare di aver scritto di linguaggio, tecnica e costume della fotografia applicando idee che, di fatto, hanno abbattuto i confini tra i diversi punti di osservazione. Siamo approdati al lessico fotografico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo), così come, con percorso analogo, abbiamo inquadrato e identificato l’apporto dell’applicazione tecnica affrontando il linguaggio espressivo. Sempre e comunque, con confortevole senso delle proporzioni... speriamo riconosciuto e apprezzato (ma non è richiesto). Allo stesso tempo, e per mille motivi, e lungo un percorso avviato in precedenza (stiamo per rievocare), abbiamo sempre curato con impegno meticoloso le illustrazioni a corredo, sia in forma di evocazione stilizzata (per l’apertura degli articoli e, a volte, per il lancio dalla copertina), sia in dimensione di analisi dei particolari significativi, immancabilmente su fondo bianco-luce. Quindi, oggi possiamo rivelarlo: per quanto le evocazioni in interpretazione abbiano potuto essere apprezzate per applicazioni compositive, di luce, di inquadratura, di taglio e di piani selettivi di messa a fuoco (e sfocatura collegata), pensiamo ancora che la cadenza di questi particolari sia stata sostanza di presentazione giornalistica: bisogna tenere conto che in ogni racconto, scritto piuttosto che in illustrazione, la credibilità deriva dai dettagli, che debbono essere vividi e realistici. Però, non possiamo ignorare, né sottovalutare, quanto e come le illustrazioni tecniche interpretate -diciamola così- della nostra storia editoriale, datate a quando quel passo giornalistico è stato necessario (oggi, non lo è più... a questo punto della vicenda), siano sempre apparse più accattivanti di quelle soltanto raffigurative dei soggetti, magari osservate distrattamente e per obbligo, ma sbagliando. Infatti, quelle visualizzazioni sono state eredi di una lunga storia di fotografia commerciale, da catalogo, nobilitata da un lungo cammino formale, che -dagli

abili ritocchi a mano su copie bianconero e colore dei decenni scorsi- approdò allo “scontorno” in ripresa, o quasi, con competente distribuzione delle luci. Comunque, pensando al libro che non c’è (e non ci sarà, ormai, più), è ovvio che ci si sarebbe dovuti/potuti riferire soprattutto alle già definite evocazioni stilizzate in forma di autentica illustrazione giornalistica. Da qui, sveliamo che quell’attracco fotografico indiscutibilmente fascinoso fu approdo di una storia personale, per quanto non avremmo potuto ipotizzare che il Tempo ne avrebbe stabilito anche un ormeggio definitivo. Così, richiamiamo che, a titolo individuale, dobbiamo storicizzare con l’avvio dalle pagine di Clic, rivista a solida base esclusivamente tecnica, nella seconda metà degli anni Settanta, con esaltazione procedurale per un’edizione speciale/dedicata per la Photokina 1976. In evoluzione, soprattutto capacitiva (e, comunque, dal Trentacinque millimetri al grande e medio formato da banco ottico), si è passati agli anni di Pro, poi Pro Professionisti dell’immagine, dell’Editrice Reflex, precedente la successiva (e attuale) personalità FOTOgraphia. Accettando e accogliendo l’idea del libro che non c’è (e non ci sarà, ormai, più), e in richiamo all’odierna trasversalità sui e con i libri -diagonale a questo numero della rivista-, qui e oggi, esemplifichiamo con qualche illustrazione, ripresa e recuperata dal nostro tragitto redazionale. Per certi versi, qualche anticipazione è stata messa in pagina lo scorso luglio, nell’edizione particolare di Soltanto fotografie, immediatamente successiva a quella, collegata, di Soltanto parole, del precedente giugno. Altre non sono state più riviste dopo la loro pubblicazione originaria, che non specifichiamo, perché tanto lontana nel Tempo... ma non troppo. Forse. Il pensiero, qui in forma di conclusione, è già stato sollecitato, e ora merita una conferma. Semplice: che le cose (in questo caso fotografiche), come i luoghi, hanno un proprio significato, come le parole, e ognuno di noi può leggerle come se fossero (in) un libro. Pensiamo anche a un apparecchio fotografico, a un obiettivo, a un accessorio: sono come frasi, che hanno un proprio significato... sempre che si intenda individuarlo. Grazie per l’attenzione. ❖

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Da non perdere di Antonio Bordoni

LIBRI DI LIBRI

In richiamo consapevole e volontario da Gaetano Volpi, che nel 1756 compilò un ottimo Del furore d’aver libri (riproposto da Sellerio Editore, nel 1988, e dalle edizioni Marcovalerio, nel 2011, con il titolo completo Del furore d'aver libri. Varie avvertenze utili, e necessarie agli amatori de' buoni libri, disposte per via d'alfabeto), l’analogo Del furore di avere libri (fotografici) è uno speech replicato diverse sedi e date. Oltre il suo (probabile) apprezzamento da parte dei convenuti, a noi è servito per fare ordine sugli scaffali della nostra libreria personale, anche finalizzata a uso redazionale per l’edizione di FOTOgraphia. Rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura e istinto (?), sottolineiamo come il vero luogo natio sia quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la nostra prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta ci ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita ci ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare e, in sovramercato,

F

Fantastiche raccolte, indispensabili più che utili a coloro i quali si occupano di fotografia con piglio e decisione (magari, noi tra questi). Senza ordine gerarchico, ma in cima alla particolare genìa di titoli simili/analoghi, Fotografi A-Z, a cura di Hans-Michael Koetzle, e la trilogia The Photobook: A History -scandita nelle cadenze di Volume I, Volume II e Volume III-, a cura di Martin Parr e Gerry Badger (fotografo acclamato, il primo; storico e critico della fotografia, il secondo), compongono casellari di libri e autori che hanno lasciato una impronta indelebile nella Storia della Fotografia. Ognuno (libro e autore) è osservato e presentato non per immagini asettiche ed estrapolate da qualsivoglia contesto concreto, ma attraverso la pubblicazione di consistenti monografie. Fotografi A-Z, a cura di Hans-Michael Koetzle; Taschen Verlag, 2011 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 444 pagine 25x31,7cm, cartonato; fuori catalogo / nella Collana Bibliotheca Universalis: 640 pagine 14x19,5cm, cartonato; 15,00 euro.

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pensare, invece di credere, magari fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Da cui, lo speech Del furore di avere libri (fotografici), che si protrae in tre ore, con accompagnamento di duecentoventitré immagini, per ottantatré titoli ampiamente commentati (e sistematicamente aggiornati, per quanto sempre dipendenti dal nostro proprio punto di vista). La preparazione ci ha indotto a conteggiare la biblioteca che avvolge la redazione di FOTOgraphia: duecentosettantacinque metri lineari, distribuiti in scaffali “a perdita d’occhio”, per una stima plausibile di oltre undicimila titoli di fotografia. Il piacere di stare con la Fotografia, una volta ancora, una di più, mai una di troppo. Una sostanziosa quantità di titoli censiti in Fotografi A-Z, a cura di Hans-Michael Koetzle, e nella trilogia Photobook: A History, a cura di Martin Parr e Gerry Badger, qui e oggi in considerazione sostanziosa, è presente nei nostri locali.

In allineamento alla obliquità che attraversa l’attuale edizione redazionale, come anche forti e caratterizzati da un amore personale e incondizionato per il libro fotografico, apprezziamo questi punti di vista particolari, che danno risalto alla trasformazione e veicolazione della fotografia, così come la intendiamo e consideriamo. In doverosa conferma e ripetizione: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. Riflettiamone nell’ordine di annuncio appena esposto, precisando anche che -come accennato- queste edizioni accrescono in misura consistente una fenomenologia bibliografica di recente nascita e manifestazione, ma già consistentemente ricca di titoli e visioni (recente? dipende dai punti di vista e dal conteggio individuale del Tempo che scorre: comunque, dall’inizio del Duemila).

FOTOGRAFI A-Z A cura dell’autorevole Hans-Michael Koetzle (al quale dobbiamo anche l’efficace 50 icone della fotografia [FOTOgraphia, settembre 2011]), Fotografi A-Z è pubblicato in edizione italiana da Taschen Verlag: dunque è un archivio di facile avvicinamento e decifrazione. L’edizione originaria è del 2011 (444 pagine 25x31,7cm), la sua versione nella Collana Bibliotheca Universalis è del 2015 (640 pagine 14x19,5cm). Al pari dell’alfabetico del prezioso Fotografia del XX secolo, in catalogo con lo stesso Taschen Verlag, nella preziosa Collana Bibliotheca Universalis, anche il casellario Fotografi A-Z vanta il fantastico merito e valore della consultazione semplificata e lineare: appunto, soltanto alfabetica, e non

preordinata per altre chiavi di interpretazione da decifrare a priori. Da Slim Aaron e Berenice Abbott a Willy Otto Zielke e Piet Zwart, si incontrano trecentonovantotto autori della Storia della Fotografia (quattrocentotré, con cinque coppie), presi in considerazione dall’accreditato Hans-Michael Koetzle. Certo, la selezione è personale, oltre che concentrata sulla collezione privata dell’editore Benedikt Taschen. Altri curatori avrebbero potuto compilare un elenco diverso, ma non è questo che conta, così come non è importante puntualizzare quali autori italiani sono compresi nel casellario (per la cronaca, Gian Paolo Barbieri, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Franco Fontana, Caio Garrubba, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Ugo Mulas, Federico Patellani, Franco Pinna, Paolo Roversi, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli e Massimo Vitali: quindici su trecentonovantotto). Ciò che conta è l’opera in sé. Il punto di vista e la relativa straordinaria lezione. Da e con Michele Smargiassi, in Il Venerdì di Repubblica, dell’11 marzo 2011: «Guardatelo bene questo libro di libri [fotografici], perché in futuro non ne vedrete molti altri. [...] Per ogni fotografo che abbia a cuore il proprio lavoro, il libro è ancora un approdo. Ma la cultura del libro come vocazione o apoteosi della fotografia, è finita con il secolo che l’ha portata all’eccellenza; e un’estetica fotografica intera è finita con essa». Già... il mondo cambia, si evolve, e fa le proprie vittime... inevitabili (alcune delle quali, sacrificali). L’evoluzione tecnologica, sociale ed esistenziale è analoga: per quanto concede, qualcosa altro travolge.


Da non perdere Così che, questa selezione di fotografie impaginate, non di fotografie asettiche e svincolate dal proprio contesto originario che le ha definite, compone i tratti espressivi di un percorso controllato e governato dagli autori. Altri tempi, altri climi, come rileva ancora Michele Smargiassi nella sua sapiente recensione, appena richiamata: «I fotografi erano consapevoli delle tecniche di stampa, e ne tenevano conto quando scattavano [più probabilmente, quando stampavano]. Non si capisce lo stile fotografico di un’era se non si tiene conto delle tecnologie di riproduzione disponibili al momento. I vaporosi toni high-key degli anni Quaranta erano adattissimi alla finezza del retino zincografico, i neri impastati e untuosi delle foto[grafie] beat degli anni Sessanta erano esaltati dal rotocalco, e non ci sarebbe stata la rivoluzione del colore negli anni Settanta e Ottanta senza i miracoli dell’offset». Insomma, per quanto limitato ad autori del Novecento, Fotografi A-Z ha le stimmate del libro epocale, che fa il punto di una Storia, nello stesso momento nel quale ne celebra una certa conclusione: oggigiorno, tra semplificazioni di stampa, improvvisazioni editoriali, casualità diffuse e incapacità di giudizio, il libro fotografico sta vivendo una strana stagione, divisa tra la capacità di esprimere (da parte degli autori) e la inettitudine e incompetenza di chi dovrebbe intuire ciò che si proietta in avanti, diverso da quanto -seppure esuberante- è

destinato a concludersi in se stesso e nella propria effimera cronaca. Chiusura allineata con quella di Michele Smargiassi (da Alla ricerca della foto perduta, in Il Venerdì di Repubblica, dell’11 marzo 2011): «Questo non è un Pantheon, è una playlist: una scelta come altre possibili, una compilation dove l’ordine alfabetico diventa fonte di curiosi accostamenti e confronti, pagina dopo pagina [...], dove è divertente farsi trascinare piluccando autore dopo autore, libro dopo libro, consapevoli che questa è solo la nomenclatura d’élite di una storia molto più grande, la storia di tutti coloro che quei libri d’autore li sfogliarono e cercarono di imitarli con le loro macchinette, o li ignorarono e continuarono lo stesso a fare fotografie ai picnic con la famiglia e ai tramonti infuocati, a incollarle sugli album di famiglia, quei milioni e milioni di libri in una copia sola che hanno fatto anch’essi la storia della fotografia. E pure loro, tra social network e hard disk, non la faranno più».

THE PHOTOBOOK(S) In una occasione pubblica, relativa all’assegnazione del prestigioso Outstanding Contribution to Photography 2017, coincidente con i Sony World Photography Awards 2017 [FOTO graphia, maggio e giugno 2017], l’apprezzato fotogiornalista inglese Martin Parr (Magnum Photos) ha ricordato come e quanto ogni fotografo debba essere consapevole della propria partecipazione a un linguaggio (un eser-

The Photobook: A History - Volume I; a cura di Martin Parr e Gerry Badger; Phaidon Press, 2004; 800 illustrazioni; 320 pagine 25x29cm, cartonato con sovraccoperta; 75,00 euro. The Photobook: A History - Volume II; a cura di Martin Parr e Gerry Badger; Phaidon Press, 2006; 750 illustrazioni; 320 pagine 25x29cm, cartonato con sovraccoperta; 75,00 euro. The Photobook: A History - Volume III; a cura di Martin Parr e Gerry Badger; Phaidon Press, 2014; 900 illustrazioni; 320 pagine 25x29cm, cartonato con sovraccoperta; 79,95 euro.

cizio, una disciplina...) che ha tracciato indelebili impronte del proprio tragitto. In sostanza, ha sottolineato il diritto/dovere di ciascun autore di conoscere il cammino evolutivo e storico, avvicinabile attraverso tante e belle monografie che sono state pubblicate nel corso di quasi centottanta anni di Storia. E questo, sia chiarito subito, è esattamente anche il nostro pensiero, incessantemente ribadito dalle pagine della rivista, piuttosto che sistematicamente riaffermato in ogni occasione e situazione nelle quali sia necessario farlo: per esempio, ancora in tempi recenti, con gli incontri di Consapevolezza della Fotografia, organizzati e svolti dall’associazione culturale Obiettivo Camera. Tanto che, a domanda specifica, quando ci viene chiesto quali doti e valori debba possedere un autore fotografo (interrogativo trasversale a molti incontri diretti), siamo soliti sottolineare l’importanza della cultura individuale, sia in stretti termini fotografici, sia in proiezione ampia. Tanto è! Quindi, e in conseguenza di considerazioni, oltre la personalità fotografica di Martin Parr a molti nota -speriamo a tutti-, bisogna sottolineare anche la sua attenzione bibliografica e storica... della stessa Fotografia. A fronte di questo, insieme con Gerry Badger, storico e critico della fotografia, Martin Parr ha curato l’edizione di tre casellari straordinari, pubblicati in tempi successivi dall’editore inglese Phaidon Press (in lingua inglese): in ordine temporale, oltre che consequenziale, The Photo-

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Da non perdere book: A History, scanditi nelle cadenze di Volume I (800 illustrazioni, 320 pagine 25x29cm; 2004), Volume II (750 illustrazioni, 320 pagine 25x29cm; 2006) e Volume III (900 illustrazioni, 320 pagine 25x29cm; 2014). Da iscrivere e considerare nella categoria, ormai ben frequentata, di “libri di libri” (di fotografia), il trittico / la trilogia assolve le promesse implicite nel proprio titolo unificatore: mentre la Storia della Fotografia è (forse) un canone ben consolidato, questi schedari si concentrano sui libri fotografici (appunto, photobook), che sono trattati come veicolo significativo e fondante per la visualizzazione del lavoro degli autori che l’hanno scritta, la Storia. Nel primo dei tre tomi, The Photobook: A History - Volume I fornisce una panoramica completa dell’idea e pensiero di libro fotografico, dal proprio avvio, all’alba della fotografia, a metà Ottocento, identificandone anche una radice giapponese, fino al modernismo e alla propaganda che si sono estesi dagli anni Trenta ai Settanta del Novecento. La selezione dei fotografi presi in considerazione dai due curatori Martin Parr e Gerry Badger sfida i canoni consueti e sempre ripetuti, fino a indagare sulle influenze e interrelazioni tra fotografi e movimenti fotografici in tutto il mondo. Il passo redazionale è suddiviso in capitoli tematici, sostanzialmente cronologici. Quindi, ogni sezione è introdotta da un testo mirato (in inglese), che offre informazioni basilari e

sottolinea le influenze politiche e artistiche dominanti nel periodo preso in considerazione; a seguire, le singole presentazioni sono, a propria volta, scandite da approfondimenti specifici. Il Volume I prende in considerazione oltre duecento titoli, attraverso i quali è raccontata una efficace, concreta e tangibile Storia della Fotografia. Ampiamente illustrato, si propone come passerella alla quale è doveroso prestare la massima attenzione. A seguire, il collegato e consequenziale The Photobook: A History - Volume II scandisce i tempi del Novecento, soprattutto del secondo Novecento, andando a sottolineare l’azione artistica, propriamente artistica, di autori che hanno declinato il linguaggio fotografico verso espressioni di grande personalità, con evidenti scarti a lato rispetto quella che possiamo conteggiare come fotografia del/dal vero, qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi, come in assoluto. Da Man Ray, Ed Ruscha e Andy Warhol a Christian Boltanski, Stephen Shore e Sophie Calle, passando per Bernd e Hilla Becher, Andreas Gursky e Lewis Baltz, sono presi in considerazione libri fotografici di grande valore. Attenzione: molti di questi titoli, sostanzialmente innovativi, sono opera di autori anche meno conosciuti; da cui, l’opportunità di individuare e scoprire opere colpevolmente trascurate. Soprattutto, sottolineiamo come e quanto sia rispettato il richiamo proposto -The

Photobook: A History-, in base al quale non si considera tanto la singolarità delle immagini, quanto proprio il libro illustrato, il fotolibro, come veicolo di sostanziosa diffusione delle rispettive e relative progettualità visive. Ancora, sono presentati oltre duecento libri, accuratamente selezionati, accompagnati da commenti (di Gerry Badger), in analisi delle singole visualizzazioni e della loro rispettiva partecipazione al tragitto complessivo. A conclusione del cammino cadenzato, l’approdo The Photobook: A History - Volume III esplora specificamente il libro fotografico contemporaneo, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento. L’analisi copre temi chiave della fotografia moderna, tra i quali spiccano la globalizzazione della cultura fotografica, il fenomeno di auto-pubblicazione e il nuovo approccio “stratificato” di foto-album. Dunque, esplorazione approfondita della relazione simbiotica tra il libro propagandistico contemporaneo rispetto le esperienze (temporalmente) precedenti della protesta, del sesso e della cultura giovanile (degli anni Sessanta e Settanta). Ancora, l’impatto di Internet e dei social media sulla natura del photobook. Le considerazioni sono scandite in nove capitoli tematici, ciascuno con testo introduttivo generale e analisi delle singole presentazioni: anche in questo caso, sono affrontati oltre duecento esempi. Già... libri di libri. ❖


(da FOTOgraphia, ottobre 2014)

Il Galateo overo De’ costumi, di Giovanni Battista Della Casa, è disponibile in formato Pdf, scaricabile da diversi indirizzi web


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte settembre 2018)

FRANCO FERRAINA

C

C’era una volta e una volta non c’era il presagio che con la fotografia si potesse aspirare a qualcosa di diverso da ciò che l’industria dell’immaginario produce e pretende: una cartografia da iloti! La fotografia e il peccato sono un’unica e identica cosa: un lamento o un eccesso proprio a quanti credono e fanno fotografia pensando di essere o artisti di successo o artisti incompresi... il genio è sempre compreso, soltanto gli stupidi non lo sanno! La fotografia è come una puttana in grazia alle Terrazze Martini, ai festival e ai workshop, dove ciarlatani, imbonitori e illusionisti si adoperano a insegnare ciò che nemmeno sanno o, peggio ancora, a educare alla fotografia mercatale schiere di ebeti: una sorta di dilettanti in tutto, che -proprio come i loro celebrati maestri- hanno l’ambizione di fare la fotografia, diventare celebri, apparire in televisione e vincere chissà quale premio internazionale (truccato, anche), invece di andare a giocare alle bocce o fare un giro in bicicletta nelle campagne della propria regione... tutta gente schiacciata dal provincialismo culturale, che sanno tutto su una macchina fotografica e niente della Vita! Ecco perché siamo in difficoltà a stare alle loro tavole, nei loro circoli, nei loro convivi fotografici; i loro discorsi sono più stupidi dell’acqua dei lupini, ed è per questo che stiamo bene solo con illetterati, poeti del margine e inguaribili utopisti: almeno parlano di ciò che sanno e non si riempiono la bocca di stronzate. In fondo, la mia più grande ambizione nelle cose fotografiche è parlare con un ubriaco trovato per strada, che racconta che questo mondo fa schifo e va cambiato alla radice e bisogna affilare i ferri... poi, forse, fare la fotografia. Lascio agli entusiasti il compito di continuare a credere che la filosofia della fotografia corrente non sia altro che

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una confessione in pubblico e la truffaldineria di predestinati a un destino da servi. La fotografia si ascolta, non si legge, e -tantomeno- s’insegna. La fotografia è una ferita aperta

vero. Sabotare lo stile della fotografia imperante non è solo giusto, ma necessario, per attentare all’idea di sistema della fotografia. Dopo la sua distruzione (nei comportamenti, nelle visioni, nelle te-

«Contro tutto questo, voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare. Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» Pier Paolo Pasolini sulla Storia, altrimenti non è niente: è solo il lato consolatorio e la forca della fabbricazione di esistenze banalizzate! La fotografia deve frugare nelle ferite, dev’essere un pericolo, non una consolazione... il bello sta nell’imperfezione dell’immaginale che inventa il vero, il giusto... e s’intreccia al bene comune. Un amico ha affermato: «Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola» (Oliviero Toscani [alla maniera di Ennio Flaiano]). Tutto

ste e nei linguaggi fotografici), si può fare tutto... anche la fotografia della vita autentica.

CONTRO LA FOTOGRAFIA E IL MESTIERE DI FOTOGRAFO Il fanatismo della fotografia dominante è francamente impietoso, roba da minorati mentali. Tutti vogliono essere un qualsiasi Steve McCurry (cioè ambire alla gloria e al denaro che ne consegue); e pensare che nemmeno gli Steve McCurry sanno (o forse lo sanno

bene) che è una gloria da pezzenti, da pulitori di cessi dell’industria fotografica. È davvero terribile che un fotografo riesca a diventare celebre! Gli tocca passare per le riviste di moda, i ritratti delle star del cinema e della televisione e del giornalismo; peggio ancora, andare in qualche guerra a fotografare bambini uccisi e mutilati dalle bombe intelligenti delle democrazie consumereste. Se non capita, poco male... c’è sempre una donna stuprata dai soldati, un vecchio accecato dalle esplosioni al fosforo e un bel genocidio da fotografare in colori folgoranti, pronto apposta per incassare un premio del World Press Photo (che, com’è per tutti premi, è solo una zuffa fra bottegai): desiderare le agnizioni del potere è la grande maledizione dell’umanità [l’agnizione è un topos, un luogo comune, delle opere narrative e drammatiche: consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda]. Essere contro i rituali della fotografia significa stare dalla parte degli Ultimi, degli Esclusi, degli Oppressi (cioè essere partigiani), e fare della propria vita un’opera d’arte. Il mestiere antico del fotografo c’incuriosisce. Tra la messe di professionisti che lavorano nei matrimoni e altre vicende d’ordinaria fattura, ce ne sono di originali, di capaci, di attenti conoscitori del tessuto sociale nel quale operano e vivono. Alcuni, i mai vinti dal lavoro quotidiano, svolgono anche ricerca, si sporgono oltre il soggetto commissionato, e -in margine all’esistenza affrontata a viso aperto- riescono a scoperchiare sentimenti, passioni e risvegli che cadono nel proprio fare-fotografia. Uno di questi è il calabrese Franco Ferraina. Non capita spesso di vedere, nelle immagini di un fotografo del mestiere, qualcosa che esula il


Sguardi su metodo e il processo fotografico. Se si ha la sfortuna di avere molto letto -e questo non è certo un pregio, ma una sorta di disinganno e incapacità a vivere nel manierismo di facciata e dare tutte le colpe della società alle stelle-, nella fotografia di Franco Ferraina si vede anche altro da ciò che immediatamente appare: qualcosa che ha a che fare col marginale, cioè col vero, e che si spinge fuori dalla letteratura, non solo fotografica... qualcosa che ha a che vedere con l’Umano tradito di tutti i Sud della Terra. Ma il fotografo calabrese non lo grida, lo suggerisce; evita l’indecenza dell’esibizione provinciale (le vecchiette piene di rughe, o i colorismi levigati, o l’immagine folcloristica che incensa la povertà e la rovescia in scemenza). La fotografia ha influenzato la sua vita, e viceversa: il padre fotografo, il figlio fotografo, la cultura grecanica della Calabria gli stanno addosso come una seconda pelle, e -quel che più conta- rifiuta la coscienza come fatalità e, nelle sue fotografie, disperde un’altra storia d’esistenza, quella in cammino verso la salvezza e il dissidio contro il confortevole, il disdicevole e il servizievole. Franco Ferraina non fotografa per la rispettabilità e la popolarità, ma per il raggiungimento di una Vita più autentica. Non scrivo sulla fotografia di Franco Ferraina a partire dalle sue annotazioni biografiche ufficiali, per non farmi assalire da sconforto. Infatti, a me non importa proprio nulla dei ritratti di personaggi, delle pubblicazioni, dei manifesti, dei documentari, dei videoclip musicali e -meno ancora- se Franco Ferraina ha (o non ha) notorietà nazionale o internazionale: tutte considerazioni che, magari, servono a qualcosa [?], ma -anche se sono vere- non aggiungono niente a ciò che ho visto e studiato del suo fare-fotografia. Si tira una fotografia come si tira uno schiaffo, quando occorre... altrimenti è un esercizio intellettuale e basta! La grande fotografia è indissolubilmente legata al pensiero che la suscita e anche la più acclamata, quando non ha niente a che vedere con la Vita, è

un’impostura e una merce soltanto. L’illusione è ignoranza, in fotografia e dappertutto, e solo la fotografia al limite della ragione imposta (politica, religiosa, culturale) figura la presenza di una disperata vitalità (Pier Paolo Pasolini diceva), che aiuta a vivere in un mondo più giusto e più umano.

UN PASSATORE DI CONFINE DELLA FOTOGRAFIA

Il problema e il concetto di fotografia al tempo della civiltà dello spettacolo sono diventati accessori: in primo piano, c’è il modo in cui affrontare le casematte del linguaggio fotografico; in ultima analisi, come sopportare l’acquasantiera della fotografia mercantile (inclusa quella fatta con gli smartphone) e non tirarsi un colpo in bocca! Tanti sono gli stupidi che eseguono e inseguono le promesse della fotografia per afferrare il prestigio con un gancio da macellai ed entrare danzando nelle riviste di moda, nelle gallerie di pregio e nelle agenzie blasonate (anche Magnum Photos, insieme al World Press Photo e tutto il baraccone circense che gira intorno al clamore mediale che suscitano, delinea quel certo conformismo blasé che piace perfino alle paperette nei giardini pubblici). Più vediamo fotografie impiumate di celebrità e sempre più ci convinciamo che la fotografia mercatale e quella insegnata abbiano ucciso la Fotografia. Ciò che rende la fotografia tollerabile è l’idea che si possa uscirne... poter farla finita quando si vuole dai fasti di uno spettacolo dell’inganno. E qualunque imbecille può liberarsene. C’è anche una specie rara di fotografi, quelli che fotografano come vivono: uno di questi è Franco Ferraina. Intrecciare il mestiere di fotografo con la vita non è facile; il suo rizomario iconografico contiene una visione antropologica dell’esistenza, una sorta di religiosità e pietà pagana che rifluisce su volti, atteggiamenti e corpi. Nella costruzione delle situazioni -sia quando lavora nei servizi matrimoniali (che gli forniscono di che vivere), sia quando s’accosta alla

vissutezza popolare della sua Terra-, andando in fondo alla fotoscrittura di Franco Ferraina si coglie appieno la millenaria cultura grecanica di un popolo offeso, violentato, tradito, deriso... anche dalla cultura “colta” e dalla connivenza della politica con la malavita. Nelle immagini, come nei video, Franco Ferraina non mostra la decadenza di una regione tra le più impoverite d’Italia; invece, ne rivela i profumi, i colori, le musiche e financo le utopie di Genti mai del tutto addomesticate ai dogmi della violenza imperante. Nelle sue fotografie -specie in quelle di persone emarginate dalla società e testimoni di una semplicità ancestrale che ha affrontato la fame, il dolore, l’imposizione e ha fatto della propria Vita un esempio/specchio che condanna l’idea collegiale di progresso come male eterno di questa Terra straordinaria- non dimentichiamo che quando in Calabria si parlava il greco antico, nella pianura padana, i pre-lombardi vivevano nelle capanne e bevevano nei fossi (la guerra è stato il diversivo sul quale hanno eretto le proprie fortune successive). È in Calabria che le utopie di Tommaso Campanella, l’apocalisse di Gioacchino da Fiore e le profezie di Cassiodoro (che terminò la vita di letterato, politico e storico romano a Squillace, nei pressi di Catanzaro, dove forse nacque o passò la propria infanzia, fondò il Monastero di Vivario, nel VI secolo, istituì un centro di studi sulla Bibbia e una biblioteca per la conservazione della letteratura classica greca e latina) sono state sversate nell’intera cultura italiana... per quanto, ormai, siano poco riconosciute o, addirittura, ignorate con cura. Ma le parole di Cassiodoro sono più che mai attuali: «Prima di tutto, accogliete i pellegrini, fate l’elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri». È il princìpio del pensiero meridiano (seminato da Friedrich Wilhelm Nietzsche, Rainer Maria Rilke, Fernand Braudel, Albert Camus, Pier Paolo

Pasolini, Ernesto De Martino, Predrag Matvejević, Franco Cassano... e altri, ancora), che restituisce a tutti i Sud della Terra dignità e soggettività di un pensiero che recupera la lentezza, la relazione, l’attenzione, l’approdo nel “mare di mezzo” (Mediterraneo), in filamenti culturali sganciati dal nazionalismo, dal populismo, dal fondamentalismo, dall’economia criminale e dalle mafie conniventi con la politica saprofita dell’Occidente. E intreccia l’incoscienza della Storia con la bellezza della Vita. Per l’appunto, al fondo della poetica fotografica di Franco Ferraina c’è la semplicità, l’accoglienza, la condivisione, l’alterità delle Genti di Calabria. Di là dal lavoro quotidiano (matrimoni e cerimonie, sport, figure artistiche), peraltro eseguito con capacità tecnica di un qualche spessore, a noi interessa riferirci alla sua ricerca fotografica; ovvero richiamare quelle figure del quotidiano che sbordano dal suo archivio: donne, uomini, bambini, emarginati... qui non c’è la superbia estetizzante delle vecchiette rugose, dei pastori analfabeti, dei bambini sporchi e cattivi e degli svantaggiati reclusi nell’indifferenza. La malinconia iconica di Franco Ferraina li colloca tutti in un vissuto comunitario: mostra che non c’è bisogno di comprovare cultura e civiltà. Essere davvero colti significa capire la Natura e la Vita. La fotografia frattale di Franco Ferraina, scippata a margine della quotidianità, è allevata nella compassione, nella pazienza, nel rispetto per i luoghi, le persone, le idee. È una sorta di amicizia, amore, comprensione per la propria “casa”, luogo d’origine, comunità che, nelle Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria, Francesco Bevilacqua ha definito Oikofilia. La fotografia di Franco Ferraina non contempla santi, santoni e santini; racconta piccole storie, tradizioni dimenticate, scambio di culture, schegge di realtà celate e cammini sociali di persone ruvide, che spesso hanno intuizioni e saggezze che un politico nemmeno si sogna e non può avere. Sono

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anche un invito al viaggio, uno sganciamento dal destino millenario che le Genti di Calabria sono costrette a subire da prepotenti, malvagi e indifferenti. Perfino san Francesco (che non c’era tanto con la testa, abbracciava gli alberi, parlava con gli uccelli, baciava i lebbrosi, convinse lupi affamati a non terrorizzare più gli abitanti di Gubbio, pensava che il Papa fosse dalla parte degli Ultimi...) diceva: «La giustizia, organizzatela. MuoveteVi Voi e non aspettate tutto dal Cielo». Le fotografie di Franco Ferraina contengono la rivendicazione di un linguaggio chiaro, asciutto, entropico e, al contempo, il rifiuto di qualsiasi mitologia e mistificazione della realtà. L’importanza della sua fotografia sta appunto nelle sfumature

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estetiche di una dogana trasgredita, quella dei luoghi comuni. Senza gridarlo troppo forte, le sue fotografie rivendicano la possibilità di una società e una politica a misura d’Uomo, una riscoperta dei valori più alti della Terra di Calabria e, quindi, di tutte le morali che combattono l’iniquità nella quale un popolo viene tenuto. Non è vero che in Calabria non c’è Stato! Ce n’è anche troppo, sin dai Borboni! Il fatto è che lo Stato (quale che sia il governo) vuole che il Sud d’Italia resti servile e covo di mafie utili a fini elettorali. Eppure, qui, i briganti hanno rappresentato i primi vagiti partigiani contro le prepotenze dei re. Ci vuole stile per correggere un pensiero senza stile e cancellare i funesti demiurghi di una politica imposta: il fotografo soggettivo

parte da ciò che sente, da ciò che vive, ed è in questo che sta la sua forza; la spontaneità non c’entra, è una cognizione da improvvisatori senza estro, c’entra invece la riappropriazione di una lingua e liberarsi di tutti i disastri dell’ordine costituito. Franco Ferraina è un passatore di confine della fotografia. Nel portolano delle sue immagini non troviamo l’eclatante pittorico, né il concettuale accademico, tantomeno le mascalzonate del reportage sociale che strizza l’occhio al gallerista compiacente dell’infamia venduta come opera d’arte. Il passatore di confine, ricordiamolo, si fonda sulla misura, l’armonia, il limite che sono alla base dell’estetica e dell’etica greca. Le sue immagini non pretendono di essere “visioni assolute” della Verità, né approssimazioni fattuali della realtà: sono tracce del canto smarrito del pensiero meridiano, che, come sappiamo con Albert Camus, è l’espressione dell’utopia libertaria che infrange tutti i totalitarismi... un recupero della bellezza come forma autentica di giustizia e, a lungo andare, affermazione della rivolta nei valori che si porta addosso. La Storia non è mai innocente, la degradazione della Storia (dell’economia, delle religioni, della politica) è merce soltanto, è un’imposizione da rigettare... e tutti gli strumenti sono buoni per riappropriarsi della Giustizia e della Libertà. In questo percorso creativo, le fotografie di Franco Ferraina si chiamano fuori da ogni formalismo; esprimono, invece, la realtà materica e l’interezza di una riflessione storica non proprio usuale. Il suo rapporto etico/estetico con lo strumento fotografico esula dell’esaltazione del mezzo, e riporta la macchina fotografica a utensile artigianale di senso e tempo che non riguarda affatto l’antico, ma riformula il moderno del farefotografia come rapporto originario e profondo tra l’Uomo e l’ambiente circostante: una sorta di politica della Vita che confuta pregiudizi, stereotipi, nichilismi e rimuove i processi di omologazione della globalizzazione del mondo.

Nelle fotografie di Franco Ferraina si manifesta un ripensare e rivivere le scoperte dell’appartenenza, della solidarietà, dei legami sociali... un recupero dell’identità, insomma, che è memoria, autonomia, coesione (non importa quanto consapevole) di una prospettiva di riscatto sociale. In questa scrittura fotografica si dà valore alla periferia, non al centro; anzi, e ancora, si sparge la periferia dappertutto e il centro da nessuna parte! Qui, la fotografia diventa spazio del pensare, luogo di elaborazione delle differenze e dei conflitti che spaccano categorie e specializzazioni. La fotografia diventa il ritorno di Ulisse alla propria Terra: immagine di un’Umanità che si ricompone. Così, l’esodo dei migranti calabresi di fine Ottocento e l’arrivo di nuovi migranti (che fuggono dalla fame e dalle guerre) rappresentano un unico movimento che sbanca confini e frontiere, razzismi e integralismi, leggi occidentali del possesso e della violenza legiferata. Le pluralità culturali arricchiscono, non dividono, come i nuovi fascismi vogliono farci credere. Nessuno Stato può decidere di sopprime legittimamente anche un sola vita! «Una società che autorizza la pena capitale [una guerra, un genocidio e il naufragio di migranti nel Mediterraneo] pensa di tutelarsi più efficacemente, ma -in realtà- sta distruggendo se stessa, perché ha cominciato a colpire il fondamento di ogni società: la solidarietà contro la morte» (Albert Camus). Le vittime innocenti dell’arbitrio politico e quelle dell’arbitrio divino testimoniano la catastrofe della società consumerista, e nessun essere cosciente può essere complice di questa fulgida idiozia. Quando i padroni dell’immaginario saranno appesi per i piedi ai campanili delle chiese -e sarà sempre troppo tardi-, allora e solo allora, potrà nascere una società di Liberi e Uguali. La Bellezza salverà il mondo, diceva Fëdor Dostoevskij. Certo, ma dopo la rivoluzione culturale e sociale che verrà. Sia lode ora (e sempre) a Uomini di chiara fama! ❖


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventotto anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com



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