Il Diavoletto - ottavo numero

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il Diavoletto

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In nome della crisi Ci chiamano semplicemente lavoratori precari. Ma ci sono molti modi per definire la nostra condizione e di sicuro siamo passati tutti, almeno una volta, attraverso uno stage, un periodo di prova, un lavoro sottopagato, un lavoro nero, un part-time, un contratto a progetto, un contratto a termine, un lavoro interinale,un lavoro parasubordinato. In questo caso però ci dicono che non è precarietà: è flessibilità. Forse abbiamo anche aperto una partita iva, forse una parte del nostro stipendio ci viene offerto “fuori busta”, forse abbiamo anche firmato un contratto per un ruolo non nostro. Ci siamo detti che non importa, che ciò che conta è essere pagati a fine mese e ripetiamo a noi stessi, come un mantra, che c’è crisi. Il problema è che non sempre un periodo di lavoro flessibile diviene l’anticamera di forme contrattuali più stabili, ma con il passare del tempo dall’introduzione di queste forme lavorative il tasso di conversione di occupazioni precarie verso lavori stabili è sempre più basso e il momento della trasformazione del contratto sempre più posticipato nel tempo. Siamo più di 3 milioni, circa 3 volte quelli che eravamo 5 anni fa .Ovviamente più meridionali, ovviamente più donne. Siamo i nuovi precari, siamo i trentenni/ quarantenni che ritrovano nella famiglia ( non quella che si creano ovviamente) il loro unico ammortizzatore sociale, siamo le donne a cui viene chiesto spesso nei colloqui se vogliamo avere presto dei figli, siamo gli unici laureati europei ad avere meno chance dei nostri coetanei non laureati, e ci siamo dedicati persino una sindrome depressiva ad hoc, la “ sindrome del precario “:stress, ansia, frustrazione, notti in bianco e depressione -dirette conseguenze del vivere costantemente in uno stato di incertezza tra contratti di lavoro in scadenza, dubbi sul rinnovo e spettro della disoccupazione all’orizzonte. Una costellazione di sintomi che non solo ha già un nome, ma anche un’estensione epidemica da far invidia al virus dell’influenza suina. L’allarme è stato lanciato dagli psicologi lombardi secondo cui ben 40 mila loro concittadini soffrirebbero di una nuova sindrome da crisi economica. Si tratta di numeri che riportati su scala nazionale diventerebbero a sei cifre. Difficile infatti pensare che fuori dalla Lombardia,la regione più ricca d’Italia, le cose siano poi tanto diverse… Ma ripetiamo ancora in coro che c’è crisi, perché la crisi,che pare scoppiata all’improvviso nel nostro paese mentre tra un televoto e l’altro ci dicevano che non ci avrebbe colpiti, c’è per tutti: non solo per i lavoratori ma anche per le aziende. E con lo scudo di questa parola anche le aziende non colpite camuffano un risparmio che operano sulla nostra pelle. Gli imprenditori hanno

diritto a chiedere della sana flessibilità ai lavoratori ma ad essa dovrebbe corrispondere un valore economico superiore, per limitare la proliferazione di contratti precari selvaggi e per ripagare della “flessibilità”esagerata richiesta agli atipici. Bisognerebbe estendere i diritti di ferie, infortunio, maternità e malattia a tutti, nel periodo contrattuale,eliminare i cosiddetti contratti a progetto (Co.Co.Pro) in tutti i settori o per tutte le aziende che non siano in grado di dimostrare la reale esistenza di un progetto che il lavoratore inizi e concluda nel tempo stabilito. Bisognerebbe stendere anche ai precari che abbiano lavorato almeno 18 degli ultimi 24 mesi ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e l’assegno di disoccupazione, bisognerebbe creare un sindacato unitario per i precari che possa rappresentare in parallelo ai sindacati confederali i lavoratori “atipici” in sede di contrattazione, facendo sempre presente a chi deve decidere, il principio che il lavoro flessibile dovrebbe compensare in termini salariali il rischio di mancato rinnovo del contratto flessibile (in media ,tra due lavoratori con stesse caratteristiche , occupati nella stessa impresa, ma con contratti di durata differente, uno permanente e uno a termine ,c’è una differenza salariale che oscilla tra il 7 e il 20 per cento a svantaggio dei lavoratori flessibili. ) Siamo la generazione che non ha possibilità di autodeterminarsi,e non solo per gli ovvi scompensi tra stabilità e precariato ma perché la grande lotta è la trasformazione del precariato in una reale flessibilità, retribuita e regolarizzata: una rivoluzione copernicana nei rapporti di lavoro, in quelli sindacali, contrattuali, nelle opportunità di studio, di carriera, di mobilità sociale. Quelle riforme del mercato del lavoro e l’introduzione di forme contrattuali atipiche che promettevano di creare occupazione ,hanno progressivamente ridotto i vincoli per i datori di lavoro ad assumere lavoratori con contratti a termine, senza tuttavia modificare la legislazione relativa all’occupazione dipendente a tempo indeterminato. Abbiamo assistito così a una depressiva forma di svilimento dei diritti del lavoratore , accentuando sempre di più il divario tra lavoratori stabili e una parte numericamente non irrilevante di lavoratori le cui prospettive in termini di stabilità , retribuzione, trattamento pensionistico, accesso al credito e alla formazione,appaiono notevolmente peggiorate. Non solo il lavoro manca ma, quando c’è, rientriamo nel grande limbo di una mobilità sfruttata,obbligatoria e senza diritti. Il precariato è per definizione una condizione transitoria e temporanea ma quando diventa un modus vivendi, una posizione stabile,quando qualche mese di lavoro sono l’unica prospettiva che si contrappone alla disoccupazione, bisogna far fronte a una generazione senza progetti che ringrazia del poco che ottiene,che fugge se ne ha la possibilità ,che non partecipa alla crescita del paese, che semplicemente rimane in prova in maniera stabile. Ci chiamano semplicemente lavoratori precari, ma siamo gli italiani che non costruiranno mai il paese. Gina Sarti

Siamo i nuovi precari, siamo i trentenni/quarantenni che ritrovano nella famiglia ( non quella che si creano ovviamente) il loro unico ammortizzatore sociale,s iamo le donne a cui viene chiesto spesso nei colloqui se vogliamo avere presto dei figli, siamo gli unici laureati europei ad avere meno chance dei nostri coetanei non laureati, e ci siamo dedicati persino una sindrome depressiva ad hoc, la “ sindrome del precario .


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