Pensare l'Europa

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A cura di Marco Assennato

FFF—Quaderni #1



QUADERNI DELLA FONDAZIONE

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Collana diretta da Roberto Masiero



A cura di Marco Assennato Quaderni #1



Indice

p. 5 Introduzione L’urgenza dell’Europa politica Marco Assennato

Materiali

Discussione

p. 21 La competenza dei tecnici: note su finanza, democrazia e indignazione Marco Assennato

p. 85 Europa, democrazia, diritti Francesco Bilotta

p. 29 Neoliberismo e destatalizzazione Marcello Barison p. 39 Europa, economia, filosofia Giovanni Leghissa p. 45 Homo oeconomicus europeo: il mito originario, la costruzione dei miti, l’orizzonte Maria Grazia Turri p. 57 Popoli, Stati e Nazioni: perché l’europa ha smesso di funzionare? Leonardo Ebner p. 66 Il thauma dell’Altro. Europa e interculturalità Marcello Ghilardi p. 76 Europa: bene comune o divenire collettivo? Anna Longo

p. 91 Sovranità, rappresentanza, democrazia Damiano Cantone p. 96 Sovranità, Europa, Cittadinanza: una prospettiva situata Teresa Lapis p. 102 Europa bene comune? Alessandro Tessari p. 106 Pensare l’Europa Roberto Masiero Documenti p. 121 Una esplosiva crisi di sistema Étienne Balibar p. 123 La rottura della cittadinanza. Una risposta a Balibar Sandro Mezzadra



L’urgenza dell’Europa Politica di Marco Assennato

Il est remarquable que l’homme d’Europe n’est pas défini par la race, ni par la langue, ni par les coutumes, mais par les désirs et par l’amplitude de la volonté… Paul Valery

Pensare il potere Pensare il potere, dunque. Meglio: pensare la rete di poteri, in parte esterni alla sfera statuale, finalizzati al governo delle popolazioni. Come è evidente siamo qui in pieno paradigma biopolitico. L’ipotesi foucaultiana3 comporta il tentativo di una costruzione realistica dell’oggetto storico, la ricerca di un orizzonte concreto capace di pensare il potere e la sovranità – come ambito specifico del potere politico o

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Pensare il potere. Pensare la politica. Pensare la democrazia. Pensare l’Europa. È questa la serie corretta per leggere il filo della congiuntura attuale. Oserei dire: è questa l’urgenza per la filosofia del presente. Del resto, fatto noto, l’Europa è invenzione dei filosofi. Qualcuno direbbe, con Valery1, “l’Europa o l’Esprit”: e non è forse seguendo le cangianti figure dello Spirito in una inesausta fenomenologia, che per un paio di secoli si è esercitata la disciplina filosofica, nel tentativo di far coincidere il reale e il razionale? E, seppure segnata dalla crisi perenne tra queste due dimensioni: non è forse la storia europea incarnazione del conflitto perpetuo tra immanenza e trascendenza, forza produttiva e forza di legge? E non è forse in siffatta tensione che si sono costituiti, via via, i dispositivi politici della nostra koinè? I saggi e i contributi qui raccolti, che pure partono da punti di vista differenti e seguono articolazioni dissonanti o polifoniche, sono attraversati tutti dalla serie suddetta. Non stupisca la traiettoria del libro. Esso nasce da una discussione tenutasi nell’alveo del festival Comodamente, a Vittorio Veneto, nel settembre del 2012 e costituisce l’ossatura del primo nucleo di lavoro del Laboratorio Politico coordinato da Roberto Masiero2. Esercizio teorico, esercizio filosofico, esercizio dialogico – dunque sbilanciato, aperto. Nessuna tradizione viene in soccorso, nel tempo della crisi: non resta dunque che posizionarsi, come invitava a fare Gilles Deleuze nel suo

Abecedario, sulla soglia della propria ignoranza, o sul limite estremo del proprio sapere, per sporgersi in avanti. Innanzitutto va sottolineata la dimensione seminariale del lavoro. Ovvero il carattere dialogico del lavoro teorico: per quanto ci si sforzi di parlare ciascuno la propria lingua non si può far altro che tradurre le lingue altrui, se vogliamo produrre delle conoscenze. Forse può spiegarsi così la felice dissonanza dei materiali che l’editore Mimesis ha voluto raccogliere in fascicolo. Il lettore non vi troverà una tesi univoca, un’unica tendenza politica o l’autocontemplarsi d’una scuola filosofica. Piuttosto l’intrecciarsi di linee, convergenti su alcuni aspetti e spezzate su altri, a partire da una domanda: è l’Europa un bene comune? E come si poteva provare a rispondere alla domanda se non attraverso la serie potere-politicademocrazia? Non è forse questa la serie che contiene le aporie fondamentali da riconoscere, prima che da sciogliere in un improbabile Aufhebung, per pensare l’Europa? Dall’analisi di tale serie, allora, emergono progressivamente alcuni punti di accordo, grumi concettuali presenti nella più parte dei materiali raccolti, a partire dai quali val forse la pena, in guisa introduttiva, di provare a determinare un qualche possibile sviluppo del ragionamento.


potere di decisione – contro la loro pretesa autonomia o trascendenza. Si tratta, allora, di individuare le relazioni di potere che attraversano la vita, dunque che si esercitano su e che definiscono un complesso sistema molecolare di produzione di singolarità biologiche e sociali. E di conseguenza bisogna cercare la razionalità specifica che opera all’interno di queste relazioni, e ancora: le tecniche di differenziazione, gli obiettivi, le modalità e gli strumenti in cui esse si danno, le forme di istituzionalizzazione che ne derivano – siano esse giuridiche, sociali, culturali. Da qui, due conseguenze maggiori. Se rifiutiamo l’ipostasi metafisica del potere e della sovranità, se affermiamo che quando si parla di potere non si tratta di una cosa o di un luogo specifico, esterno o trascendente la storia (che è qui storia nostra, storia di oggi, collocata geograficamente e temporalmente, urgente), se affermiamo di voler analizzare le relazioni di potere che producono oggetti storici, allora pensare il potere significherà necessariamente pensare un’azione che si esercita sull’azione di altri, ovvero pensare una relazione. L’analisi del potere, così facendo, si dimostra indissociabile da una storia della soggettività4, si apre alla vista di singolarità agenti e non eliminabili, essenzialmente libere. Genealogia del potere e storia delle libertà vivono un intreccio profondo, si richiamano l’un l’altra: come intendere altrimenti l’idea secondo la quale il potere è produttivo e non soltanto repressivo? Parafrasando Foucault potremmo dire che in fondo non è il potere in sé ma il soggetto che costituisce il tema generale della ricerca. Pensare il potere significa spezzare l’uno in due. Due sono del resto i termini impiegati da Foucault: biopolitica e biopoteri. Per dire che bisogna senz’altro analizzare i diagrammi che i rapporti di potere costruiscono per produrre identità soggettive, ma allo stesso tempo vanno individuati i modi e le traiettorie attraverso i quali la soggettività determina, di volta in volta, in tempi e luoghi specifici, il proprio rapporto a sé, le sue forme di vita, la sua autonomia5. Altrimenti non ci resterebbe che cantare la messa triste della captazione normativa, il pantano

dell’amministrazione dell’esistente, un orizzonte weberiano chiuso, statico, immodificabile. E pensare, dovrebbe esser chiaro, non coincide con il cantar messa, chiede aperture, invenzione di concetti, trasformazione continua. Secondo questa impostazione, inoltre, l’analisi non potrà che essere dinamica, sperimentale, non potrà che costituirsi per blocchi teorici utili soltanto come punti di ripartenza. Oggi le relazioni di potere si danno nella forma della crisi. Meglio sarebbe dire che oggi la forma perennemente critica delle relazioni di potere, del resto caratteristica ancora tutta moderna, viene in piena luce. Il problema di pensare questa forma allora consisterà nella possibilità di vedere ambedue i lati della relazione: il potere e la potenza, la captazione e la libertà, la norma e la soggettività. E vedere questo intreccio criticamente significa individuarne sì la radice logico-razionale, ma anche la contraddizione, la disimmetria, i punti di rottura a partire dai quali le relazioni si riconfigurano continuamente. Pensare la politica Pensare la politica, allora. L’immersione nel paradigma relazionale di Foucault reagisce sulla definizione stessa di politica. Essa non può che indicare uno spazio evenemenziale, l’arena nella quale fanno irruzione singolarità non necessarie6 che spezzano la linearità del tempo, rotture storiche. Politica è pensare la rottura dei diagrammi. Nulla di scontato, in ciò. La Scienza Politica e la Dottrina dello Stato ci hanno abituati, al contrario, all’analisi degli universali: uno schema d’acciaio definito il quale la politica è, semplicemente, gestione avveduta degli interessi specifici di un corpo sociale. Una tecnica amministrativa che, attraverso il calcolo degli equilibri economicamente profittevoli e socialmente tollerabili, propone strategie di gestione dell’esistente, da validare attraverso l’espressione del consenso. Eppure, come ha notato Jacques Ranciére7, una serie di fatti mette in dubbio questa descrizione: guerre, squilibri sociali crescenti, crisi economiche devastanti sembrano negare l’effettiva capacità di gestione tecnocratica dei fenomeni politici. Da cosa dipende questa incapacità? Si potrebbe dire che è


razionalità calcolatrice – diventa dominio, costrizione, paura, ricatto. Nessuna armonia resta in scena. L’autonomia del politico, in altri termini, può determinarsi solo come cattiva utopia, un’ideologia, una contraddizione in termini. Ed è per uscire da questa contraddizione che si rende necessario cambiare l’impostazione del problema e pensare la politica come rottura dei dispositivi di controllo, come forma non consensuale dell’agire collettivo nella quale il disaccordo10 produce l’ingresso in scena delle soggettività. Pensare la democrazia Date queste premesse: pensare la democrazia. Cosa significa pensare la democrazia negli attuali rapporti di potere e all’interno di una concezione agonistica del politico? Possiamo procedere altrimenti? Vale ancora la felice traiettoria storica che ha condotto l’occidente dalle varie forme di tirannia alla democrazia? Funzionano ancora le differenti forme di rappresentanza democratica? Il suffragio universale e le forme della cittadinanza sono ancora inclusivi? La letteratura su ciascuno di questi nodi è, ovviamente, sterminata. Eppure difficilmente ci si può sottrarre a una risposta negativa o scettica. È come se il sofisma ideologico che riduceva implacabilmente il krátos del dêmos al potere assembleare e quest’ultimo alla macchina della rappresentanza come potere costituito e legislatore unico11, si sia infine infranto sulla soglia del nostro presente: «La democrazia – ha scritto di recente Carlo Galli – è travolta dalle trasformazioni del mondo»12. Gli apparati burocratici hanno reagito scatenando un’offensiva contro la democrazia stessa, ovvero contro i corpi sociali che non riescono a ricondurre ad unità: potere tecnocratico e potere democratico, capitalismo finanziario e democrazia stanno ormai l’uno in faccia all’altro, senza lacrime per le rose. Per questa via una nuova forma ipertecnologica di tirannia sembra farsi strada. I meccanismi della rappresentanza sono interamente assorbiti e polverizzati nella macchina della governance, il riferimento classico al cittadinolavoratore – sul quale si reggeva lo schema novecentesco dell’interventismo

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solo questione di tempo: le inefficienze del sistema sono destinate ad esser riassorbite dal perfezionamento delle tecniche governamentali. Tutto il divenire verrà, per approssimazione, appiattito nell’interminabile svolgersi di problemi successivi, per i quali vanno semplicemente individuate tecniche operative, soluzioni pragmatiche all’interno di un quadro fisso. La politica, in tal senso, si articola in teoria dell’amministrazione, si riduce a governance che, intervenendo sul milieu sociale, prova ad assorbirne tutte le evoluzioni, sovradeterminarne ogni movimento: un politico “autonomo” dal sociale, perché in grado di produrne e progettarne le evoluzioni. Eppure questa neutralizzazione di ogni riserva attiva dei corpi sociali, questo tentativo di amministrare il multiverso degli individui e degli interessi in un unico diagramma di potere, questa macchina perfetta è destinata, costretta in qualche misura, a fallire. Ciò dipende dalla natura specifica della politica. Tecnica, certo, ma che non può esaurirsi nel suo eterno svolgimento, non può chiudersi in atti procedurali, è obbligata a far sempre ritorno su di sé, a riattivare un rapporto originario con le sfere di vita sulle quali si esercita. Come ha scritto Jean Baudrillard, nella forma più efficace, la scienza politica si configura secondo il paradigma statistico-probabilistico, prova ad istituire simulazioni operative su tutta l’estensione delle pratiche sociali, attraverso test e sondaggi tenta di prevederne gli sviluppi e le trasformazioni e si rivela infine come «contemplazione statistica del mondo»8. Ma qui si svela una contraddizione insuperabile, dacché questo tentativo di raggiungere «la manipolazione perfetta della rappresentanza sociale» si esercita a partire da una idea di politica indipendente e autonoma da questa stessa dimensione: e così facendo «furtivamente e senza far rumore qualsiasi sostanza sociale se ne è andata da questa macchina nel momento stesso della sua riproduzione perfetta»9. Le due parti dell’uno diviso del potere si producono come parti aporetiche: seguono traiettorie contrastanti e non superabili. La politica tecnocratica per recuperare le sfere di vita – scappate via dalla sua


keynesiano con il suo pendant di sindacati, partiti e parlamenti – è scomparso del tutto. Come ha affermato il presidente della BCE, Mario Draghi all’indomani delle elezioni politiche italiane del 2013, le scelte decisive vengono ormai compiute da una sorta di «pilota automatico»13, che rende sostanzialmente indifferente l’esito delle consultazioni popolari. Di conseguenza, sia sul piano dell’identificazione culturale, che su quello dell’architettura istituzionale si produce una profondissima crisi della cittadinanza. Cittadino è chi resta preso nelle maglie del debito e conseguentemente diventa il potenziale soggetto di un apparato anonimo essenzialmente repressivo e autoritario. L’orizzonte liberale è out of joint, la razionalità classica non coincide più con il tempo storico. Eppure se da una parte bisogna riconoscere che viviamo in un orizzonte post-liberale, non possiamo che ribadire allo stesso tempo la debolezza di ogni pretesa riduzione del politico ad amministrazione14. Si tratta, al contrario di pensare queste trasformazioni per superarle. Come per un contraccolpo paradossale della storia, tornare oggi alla definizione classica dell’autonomia del politico può servirci soltanto per rovesciarla definitivamente. Per autonomia del politico, Mario Tronti intendeva «non l’autonomia di una parte del potere rispetto alle altre parti; ma l’autonomia di tutto il potere rispetto al resto che potere non è; diciamo al resto della società»15. Ora però questa definizione è contraddittoria con il nostro primo punto di metodo, con la definizione relazionale di potere che abbiamo prima proposto. Il resto della società abbiamo imparato a leggerlo anch’esso come un potere, è sulle azioni di questo resto che si esercitano le azioni della tecnocrazia. E neppure è possibile una topografia monodimensionale del potere politico: tutte le relazioni sociali sono attraversate da diagrammi di cattura, da relazioni di dominio da spezzare e rovesciare. La mistificazione del meccanismo della rappresentanza democratica allora va rovesciata. La democrazia ridefinita. Non è forse qui – sulle strutture e sulle forme politiche di una rappresentanza ormai vuota di senso – che hanno insistito le critiche di tutti i movimenti di questi

anni, dalla Spagna all’Italia, dal Maghreb al cuore della vecchia Europa? Non si tratta, in quelle esperienze certo ancora embrionali, fondamentalmente del tentativo di riattivare il vecchio sogno della democrazia contro l’asfittica cattura della tecnocrazia europea? Ridefinire la democrazia oggi significa sospendere il piano istituzionale per tematizzarlo solo in un secondo tempo. Democrazia oggi non è una forma di governo, ma una potenza sociale che attraversa tutte le forme di governance presenti. La politica è sinonimo di questa potenza democratica, è l’azione che si oppone alla cristallizzazione amministrativa. Conflitto, prima di consenso, è la chiave di volta per inquadrare il tema. Definire una politica democratica in senso agonistico, questo è il compito. Ma ciò è possibile a patto di non limitarne l’estensione, lo spessore ontologico, al semplice disaccordo tra parti equivalenti, alla semplice differenza di usi e costumi, valori, opinioni e interessi. No: di questo disaccordo va rilevata la struttura materiale, poiché esso affonda le sue radici nella composizione nuova del lavoro vivo, nelle figure della produzione della ricchezza, negli arcipelaghi della cooperazione sociale. Su questo corpo vivo si esercita un potere di cattura e valorizzazione – come potrebbe essere altrimenti nell’epoca del capitalismo globalizzato? – che assume la forma della finanziarizzazione dell’economia e del debito. E come possiamo non registrare l’acutissima contraddizione che contrappone forze produttive sempre più cooperative e rapporti di produzione sempre più individualistici? È dal conflitto tra queste due dimensioni, democrazia e capitalismo finanziario, che nascono le forme giuridiche e i dispositivi di comando. E se di conflitto si tratta, esso non può che restare aperto: il nostro presente è tutt’altro che un destino. La sicumera dei filosofi liberali non ha davvero posto in questa storia. Pensare l’Europa Pensare l’Europa, infine. Non è sul vecchio continente che si scaricano tutte le aporie e le contraddizioni descritte sin qui? E non è questo lo spazio politico che più soffre della crisi di tutto intero il vocabolario classico della politica? L’Europa si configura


progressiva17, l’Europa non doveva essere messa in condizione di multilateralizzare la governance globale. Questo è il senso di fondo degli interventi militari che hanno caratterizzato i primi anni del 2000, alcuni svolti sotto l’egida dell’ONU, altri invece interamente guidati da forze USA: delle vere e proprie guerre civili, finalizzate alla conquista di quote di dominio all’interno delle gerarchie del sistema mondiale. A fronte del blocco della discussione costituzionale europea, gli interventi militari interpretavano un’intenzione costituente. La Machtpolitik globale, rischiava infatti di complicarsi qualora l’Europa si fosse costituita come spazio politico in qualche misura in grado di pesare negli equilibri imperiali. Europa doveva diventare il nome vuoto di un confine ampio, chiuso a est e a sud, un’enorme portaerei rivolta su zone di interesse strategico. Non a caso quegli stessi anni sono attraversati da una intensa discussione politico-filosofica che insiste su tre punti, ovviamente intrecciati tra loro: i rapporti Europa-Usa, l’allargamento a Est dell’Unione e la guerra. Secondo Robert Kagan18 è la storia, fuori da ogni idealismo, che ha imposto agli Usa il ruolo di forza che esporta democrazia. L’Europa ha rinunciato al compito quando, dopo la guerra fredda, non ha visto sorgere il nuovo nemico della civilizzazione: l’Islam in espansione che reagiva contro l’Occidente capitalistico producendo un poderoso scontro di civiltà. L’11 settembre 2001 è la gran cerimonia di questo schema, secondo il quale nuove linee di faglia geopolitica si ridisegnavano tra identità culturali rigide. L’attacco alle Twin Towers, allora, produsse l’interpretazione plastica dello scontro tra democrazia e terrorismo. In reazione all’immobilismo europeo, gli Stati Uniti, secondo Kagan, furono costretti ad agire. E agire qui significa interpretare una politica di militarizzazione dello spazio globale, in continuità con la lezione del colonialismo europeo: al fine di realizzare il regno della democrazia e del diritto si deve impiegare il mezzo della politica di potenza militare sul mondo. Gli Usa agirono unilateralmente, insomma, perché non potevano fare altrimenti. All’origine di questa necessità, Kagan vede l’inversione

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ancora una volta come problema, una domanda aperta che aspetta ancora il lavoro paziente della risposta. Questa necessità ci pone dinanzi a delle sfide culturali e teoriche gigantesche, alle quali questo volumetto non pretende in alcun modo – come potrebbe? – di fornire soluzioni definitive. Intende, però, muovere almeno qualche passo in quella direzione. Non è certo il primo tentativo, né arriva da buon ultimo. Nel decennio che intercorse tra la costruzione dell’unione monetaria e la discussione sulla convenzione europea, quando ormai l’assetto finanziario dell’Unione aveva preso fisionomia attraverso la ratifica di vari e ben noti trattati, si pose il problema della forma politica del vecchio continente. Si arrivò, in quegli anni, fino a proporre una carta costituzionale unica – bocciata, come sappiamo, da due referendum popolari in Francia e Olanda. Lungo quel decennio la culla delle forme politiche classiche si trovò di fronte all’ennesima, necessaria, trasformazione istituzionale. E fallì il compito. Ne è risultata un’area geopolitica riconducibile ad una moneta: la zona euro. E una enorme struttura burocratica formata alla scuola neoliberista e convinta di potere amministrare progressivamente tutto il continente a partire dalle politiche finanziarie. Ma questo tentativo di contaminare la società nel suo insieme a partire dall’intervento esclusivo della sfera economica, come autonomo decisore politico, lungi dal risolvere le contraddizioni, configura i contorni di una crisi organica. L’Europa della troika, per dirla in una battuta, non riesce a produrre, di per sé, l’Europa politica: essa si avvita in una forma inefficiente di cesarismo burocratico16. In quello stesso decennio, va notato, gli Stati Uniti si prodigarono nel distribuire bombe intelligenti sui margini d’Europa – dall’ex-Jugoslavia, ai bordi del Mediterraneo – riducendone il territorio al teatro di una serie di guerre umanitarie. Lo spazio geopolitico di un possibile polo democratico interno alle dinamiche globali veniva così immediatamente dissolto, segnato dalla nascita con il fuoco dei cacciabombardieri atlantici. Nell’ambito delle relazioni imperiali, e in un contesto nel quale l’egemonia americana scivolava in una crisi


di ruoli tra Usa e vecchio continente: l’America continua la missione dell’Europa imperialista che lungo cinque secoli ha esteso il suo dominio su tutto il mondo perché credeva nella sua missione di civiltà. La guerra diviene la matrice generale di tutte le relazioni politiche, poiché lo stato di eccezione permanente prodotto dalle guerre del nuovo secolo è portatore di diritto, fondatore di un nuovo ordine mondiale. Per certi versi si potrebbe parlare di un contraccolpo colonialistico o imperialistico sullo spazio globale, del tentativo cioè di riaffermare la forza politica del sovrano atlantico su tutta la rete dei poteri imperiali. Ora, con il senno di poi, possiamo registrare che il backlash imperialistico sull’Impero ha evidentemente fallito sul piano generale. Eppure quella strategia ha ottenuto due risultati: ha impedito fin qui la formazione dell’Unione politica europea e ha consentito di tenere sotto influenza le politiche economiche e monetarie. A rovesciare lo schema di Kagan è Peter Sloterdijk19, il quale criticando il dualismo ingenuo e ideologico tra occidente democratico e resto del mondo terrorista, si schiera a difesa di un terzo soggetto da costruire attorno a una rinnovata identità europea. A partire da un celebre discorso di Paul Valery20, il filosofo tedesco interpreta l’Europa come spirito, erede della Roma imperiale, del cristianesimo e della Grecia dei filosofi. L’Europa è l’idea dell’Impero universale che si estende al globo intero e allo stesso tempo lo crea, ne produce l’unità. Questa è la storia dello jus publicum europaeum: un sogno interrotto dalla tragedia nazista e perciò raccolto dagli americani. Ma appunto, lo schema di Kagan è qui invertito: sono gli Usa che devono accettare la loro condizione di appendice dell’Europa sovrana, poiché in fondo non ne rappresentano che il frutto tardivo. Sloterdijk propone allora di reinventare un sovranismo europeo a partire da una posizione terza, tra America e mondo: non più in continuità, ma contro il mito dell’Occidente e dei suoi valori. Per farlo è necessario recuperare l’idea mitomotrice della grande politica europea cioè quella della traslazione imperiale: la democrazia deve estendersi permanentemente

per vivere, ma ciò non comporta alcuna militarizzazione, al contrario un paziente lavoro di traduzione di tutti i valori in uno spazio co-immune. La costruzione del rapporto tra Europa, America e mondo è realizzabile attraverso l’estensione progressiva di sfere umanizzate21 che definiscono i riagganci permanenti tra dimensioni individuali e le Schäume collettive. Un secondo nucleo di riflessione vedeva nello spazio europeo la possibilità di pensare un’identità politica cosmopolita. L’interprete più noto di questa prospettiva è stato Jürgen Habermas22. Dopo avere neutralizzato la teoria critica francofortese attraverso la nota riduzione del conflitto nella sua teoria dell’agire comunicativo, politicamente intrecciata alle teorie della giustizia di Rawls e a quelle della comunità di Walzer, Habermas definisce l’Europa nei termini di spazio pubblico cosmopolita. È facile leggere, in queste posizioni il riflesso dell’impatto dirompente che le dinamiche globali hanno avuto sulle forme politiche classiche. La metafora più diffusa è ovviamente quella della rete, concepibile evidentemente come comunicazione tra luoghi, culture, identità. Ma tra le maglie della rete possono altresì fissarsi polarità tra valori, grumi identitari antagonistici. Resta l’osservazione di Carl Schmitt: «La libertà puramente soggettiva della posizione dei valori conduce a un eterno conflitto dei valori e delle visioni del mondo, una guerra di tutti contro tutti, un perpetuo bellum omnium contra omnes al cui confronto […] l’atroce stato di natura della filosofia politica di Thomas Hobbes è un autentico idillio»23. I “valori”, a differenza delle “verità”, non consentono dialettiche o mediazioni, ma assorbono, omologano tutto nel sistema: non si dà alternativa alla loro tirannia. L’astrazione di Habermas a questo punto non regge più. Nel conflitto dei valori vivono potenze storiche, rapporti materiali dai quali non è possibile prescindere. Un ulteriore blocco di analisi è composto dalle posizioni federaliste derivate dal Negative Denken. Si tratta di un dispositivo scettico e decostruttivo rispetto alla consistenza effettiva delle forme liberali classiche, aperto sui rapporti


delle categorie politiche fondate sul sovrano nazionale, sullo Stato, lasciare spazio ad un arcipelago di poteri amministrativi in relazione tra loro. Dunque aprirsi ad una idea del potere politico come essenzialmente relazionale, concordia discors da armonizzare e mai semplicemente da risolvere. L’Europa: nome dell’abitare la differenza e la contraddizione. Uno spazio composto da lingue diverse in grado di calcolare il loro incontro-scontro, di «città autonome che vivono in perenne navigazione le une versus-contra le altre»27. Una comunità di coloro che amano solo allontanarsi dal proprio centro, partire, valicare i confini. Il tentativo di pensare questa «Europa virtuale» viene raccolto da Étienne Balibar28 che ne propone una lettura a partire dal problema delle frontiere e del dispositivo di cittadinanza. Va ascritto a merito di Balibar di avere cercato una definizione della forma politica europea al di fuori, se non addirittura contro, tutte le categorizzazioni classiche della Machtpolitik. La grande politica europea non sarà più figlia dello schema sovranista dello Stato-Nazione. Al contrario, essa può costruirsi a partire da un’anti-strategia basata su figure intermedie, dialogiche, transferenziali. In bilico su confini e frontiere che valgono solo in quanto sanno lasciarsi attraversare. L’Europa come mediatore evanescente dunque, capace di raccogliere le diverse linee culturali e politiche che attraversano il mondo e di destrutturare così ogni forza militare, coloniale, identitaria. Ed è sulla scorta della riflessione di Balibar che Sandro Mezzadra e Alessandro Dal Lago hanno potuto cercare una prima identificazione delle linee di soggettivazione che attraversavano il campo politico del vecchio continente29, trovandone il profilo nella figura del migrante. Le migrazioni internazionali costituiscono una critica pratica all’Europa imperiale: «L’Europa politica – scrivono i due autori – che oggi è necessaria è un’Europa capace di includere all’interno della propria costituzione il movimento della continua apertura e della continua critica dei suoi confini»30. Implementando lo spessore ontologico di questa riflessione poi, Toni Negri, ha cercato di pensare

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di forza reali e capace di decisione politica e normatività. Al centro di queste analisi sta il tentativo di salvare le contraddizioni, riconoscerle come necessarie e strutturali senza pretendere di risolverle in sintesi definitive (seppure ormai solo “comunicative” come per Habermas). In questa linea interpretativa, l’Europa deve costituire un polo interno all’Impero globale che controbilanci la potenza atlantica proponendo una forma politica nuova: una tecnica di mediazione che partecipa al movimento anonimo di dissoluzione di tutti i valori, che si adegua alle potenze dell’epoca ma per gestirle, amministrarle, e ricondurre ogni volta la decisione alla sua insopprimibile origine. Solo così si può tenere in forma l’epoca: incarnando un potere che frena l’estendersi al mondo dell’anomia del mercato, poiché effettivamente in grado di amministrare la rete dei poteri in modo pluralistico e distribuire solidarietà sociale. Un potere dunque che non riduce ad unum ma armonizza le differenze. In questa prospettiva, Carlo Galli invoca per l’Europa politica il superamento degli «aspetti più aggressivi della propria religione cristiana […] della propria cultura […] oltre che della logica della sovranità»24. E allo stesso modo Massimo Cacciari25 interpreta lo spazio politico europeo come freno interno all’Impero, in grado di far tramontare il mito dell’Occidente: ovvero l’unicità del sovrano, trascendete e legibus solutus sulla quale tutta la teoria moderna dello Stato si è costituita. Ciò significa che l’Europa deve stare, consistere, nella sua aporia: non può essere soltanto spazio gerarchicamente ordinato, e neppure lasciarsi andare in idiote ed inospitali individualità nazionali. L’Europa è un viaggio, una forma di mobilitazione: la si può percorrere a patto di abbandonare ogni sogno di annessione ma aprendosi ad Est, e ricentrandosi sul mediterraneo non più concepito come frontiera di terre aliene26 ma come ponte. L’epoca nuova sarà, secondo Cacciari, o quella dell’Impero – spazio unico segnato da guerre civili – o quella degli Imperi – grandi spazi pluralistici. Ma per dare corpo al sogno multipolare l’Europa deve fare dono al mondo del suo esaurirsi, ovvero deve fare dono al mondo della fine


l’Europa nella sua costituzione materiale, come spazio specifico nel quale le moltitudini della cooperazione produttiva potessero tradurre in potere costituente la pluralità delle loro espressioni conflittuali: L’Europa politica può effettuarsi storicamente, scrive Negri, «solo se il progetto dell’Unione e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni dell’Impero tutto intero».31 L’Europa o “les désirs” Ora la crisi economica iniziata nel 2008 fa tremare i fragili equilibri di questa discussione. Tutte le aporie si enfatizzano: non è più tempo di indugiare in timidezze o slogan, per così dire, astratti. I nodi vengono infine al pettine, bisogna scendere dunque dal cielo delle intenzioni al mondo concreto della politica. Il problema dell’Europa politica si pone ormai nel quadro aspro della crisi di sistema32. Le politiche di austerità imposte dalla governance di Bruxelles, il Fiscal compact e il Meccanismo Europeo di Stabilità hanno consolidato la posizione della BCE al centro di un conglomerato di poteri tecnocratici che sviliscono ogni politica nazionale e strozzano i meccanismi democratici classici. L’Europa si avvita in una spirale recessiva: sia economica, che politica, che culturale. Risorgono nuovi regionalismi, pulsioni nazionaliste, xenofobia e violenza33. Come ha notato Sandro Mezzadra, la sindrome europea si configura ormai secondo lo spartito della rottura della cittadinanza34 sempre più identificata con il carattere punitivo delle politiche di austerità. L’Europa politica è il teatro di un default della democrazia35 che rischia di estendersi su tutto il pianeta. La ridefinizione della linea potere-politicademocrazia, in questo senso assume i caratteri di un’urgenza non più rinviabile. Ma qui si tratta davvero di ricostruire un’analisi che abbia un minimo di presa sul reale, per poter pensare, su basi nuove, forme di intervento politico non più rinviabili. A questo punto dobbiamo però riconoscere che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «ostacolo epistemologico»36. La discussione

mainstream è presa in trappola da una forma di accecamento, che impedisce di vedere il concreto della contesa. Tutti dicono: “la democrazia è in crisi”. Ma riconducono la crisi ad una supposta impotenza del politico sull’economicofinanziario. Eppure il neoliberismo è una delle forme storiche del capitalismo, ovvero di un rapporto economico-politico, una forma di vita in società. L’idea di una economia globale che schiaccia politiche nazionali è del tutto falsa, poiché la rottura dell’istituzionalità europea, ovvero il blocco del progetto di integrazione politica attraverso il diritto, sono illeggibili in termini di protagonismo nazionale. L’Europa tedesca è un’illusione, e produce solo crisi – ma dentro questa crisi produce una costituzione materiale. La società si è ormai differenziata funzionalmente su scala globale, erodendo l’importanza dei livelli nazionali e rompendo il dispositivo di sovranità. I corpi sociali sono attraversati da due processi paralleli e intrecciati: una serie di flussi globali deterritorializzanti e al contempo la progressiva privatizzazione delle sfere di vita. La globalizzazione agisce insomma su due dimensioni: una macroscopica, tendenzialmente unitaria e mondiale, che produce la rottura dei limiti spazio temporali; e al contempo una microfisica della frammentazione e della parcellizzazione dei corpi sociali, che opera attraverso la riduzione mercantile di tutti gli ambiti di esistenza degli individui. A fronte di questo quadro tutte le nostre categorie politiche vengono spiazzate. Ecco l’ostacolo epistemologico: l’idea del potere che abbiamo è statocentrica, l’idea della politica che abbiamo è nazionale, l’idea di democrazia che abbiamo è comunitaria e agisce all’interno di confini stabili. Di conseguenza una cultura politica siffatta risulta scarsamente dotata di strumenti concettuali efficaci per affrontare il passaggio d’epoca. Il potere di decidere è ormai disseminato tra le maglie della rete globale del capitale transnazionale. Eppure, la cultura europea ha un riflesso conservatore francamente inspiegabile ogni volta che si dice che dobbiamo urgentemente attrezzarci a pensare il politico all’interno di un ordine «postwestfaliano»37. Gli stati esistono


armate (dalla fortezza europa alle città blindate), sono tutti indicatori paradossali del declino dello Stato come spazio della politica39. Sono diagrammi che producono l’immagine di un potere statale sovrano in realtà messo ormai di fronte al suo disfacimento, macchine immaginarie che rispondono all’angoscia dovuta all’impotenza del sovrano. Questo immaginario si incarna in una paradossale materialità: tanto più reale quanto meno efficace.Che il neoliberismo sia contro il vecchio schema sovranista mi pare un’evidenza oramai conclamata. Eppure quando Michel Foucault ne ha analizzato la nascita, nella lezione del 14 febbraio 1979 del suo Corso al Collège de France, ha inserito una osservazione fondamentale: il neoliberismo è in fondo una utopia, ha una spinta libertaria che si può realizzare solo a patto di acconsentire alle peggiori derive autoritarie. Foucault definisce questo paradosso «natura contrappuntistica della politica sociale rispetto ai processi economici». Infatti i neoliberisti pretendono che «tanto più l’intervento governamentale deve essere discreto al livello di processi economici, quanto più, al contrario, occorre che sia massiccio quando si tratta di quell’insieme di dati tecnici, scientifici, giuridici, demografici, insomma diciamo in generale sociali che devono diventare sempre più l’oggetto specifico dell’intervento governamentale»40. Per estendere il regime concorrenziale a tutte le sfere sociali, per ridurre la società intera alla logica di impresa, lungi dal lasciar libere le forze autonome dei corpi produttivi, si tratta di enfatizzarne il controllo, di reprimerne i movimenti, di ingabbiarne i desideri. Più che liberale la società neoliberista è una società giudiziaria. Lo Stato ha questa funzione: «società d’impresa e società giudiziaria, società modellata sull’impresa e società inquadrata da una molteplicità di istituzioni giudiziarie, queste sono le due facce dello stesso fenomeno»41. Ora questo aspetto del biopotere che domina il continente europeo, determina, insieme e parallelamente alle funzioni di polizia prima richiamate, un éthos difensivo, una cultura del ripiegamento e della chiusura

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ancora! Dicono i nostalgici. Bene, esistono. Ma sono ancora detentori unici della decisione sovrana? Non sarebbe forse più utile rimpiazzare questa difesa d’ufficio del vecchio Leviatano con una analisi della funzione reale dello Stato Nazionale, dei suoi governi e delle sue istituzioni all’interno dei flussi di potere globale? E non è attraverso questa analisi che possiamo ridefinire il problema della democrazia? Affermare l’urgenza di pensare la politica e la democrazia al di là del dispositivo classico di sovranità non significa in alcun modo negare l’evidenza. Non solo gli Stati Nazionali esistono, ma hanno anche un ruolo: quello di funzionari periferici di una sovranità deterritorializzata, esecutori di decisioni che vengono prese altrove. Ben che vada sono amministratori della captazione del plusvalore sociale. La distinzione tra sfera pubblica e sfera privata non tiene più: il pubblico è funzione interna del meccanismo di captazione privatistico e incarna il comando amministrativo e fiscale sulle popolazioni. In questo spiazzamento, per di più, alcune funzioni della vecchia sovranità si sono addirittura potenziate: ad esempio il monopolio della violenza, sia esterna che interna, al fine di mantenere l’ordine (questa volta sì sovrano e globale), l’esercizio della funzione di polizia, e in generale tutte le manifestazioni repressiva della forza di legge. Un ordine postwestfaliano non comporta meccanicamente la scomparsa degli Stati. Al contrario come ha scritto Wendy Brown «il prefisso post indica un processo che è temporalmente successivo, ma non supera il termine che accompagna»38. L’espressione intende piuttosto approssimarsi alla definizione di una forma del potere politico agente, che si è prodotta dopo che le convenzioni dell’equilibrio internazionale tra stati sovrani hanno cessato di essere pertinenti. Ma l’enfasi sulle politiche di sicurezza, l’incremento esponenziale delle funzioni di polizia e di repressione, l’isterico interventismo militare che accompagna ogni buona stagione di governo (sia esso di centro, di destra o di sinistra), il proliferare di muri, barriere, frontiere


in sé stessi, un senso comune sempre più nazionalista, identitario e militarizzato. Come ha notato Wendy Brown, tutti questi fenomeni «incoraggiano l’avvento di una società sempre più chiusa e sorvegliata, al posto della società aperta che pretendono di difendere»42. Le difficoltà sopravvengono una volta infranto il tabù stato-centrico. Pensare l’Europa significa affrontare queste difficoltà. Lo spazio politico del vecchio continente va ricostruito all’interno di una concezione policentrica della globalizzazione, ovvero di una visione in grado di riconoscere e analizzare la molteplicità di sottosistemi della società mondiale, le diverse sfere di autonomia e libertà che attraversano i diagrammi del potere. Rompere il tabù dello Stato significa provare a ripensare la potenza democratica fuori dallo schema della piramide di fonti normative dominata dal sovrano unico che rappresenta il popolo43. Significa cercare il varco attraverso il quale le sfere sociali autonome che compongono il corpo d’Europa possono produrre un processo costituente eterarchico e policontestuale, ovvero un processo che emerge dalla costituzionalizzazione di una molteplicità di sottosistemi. Non è questo l’unico esercizio di realismo possibile? «le comunità transnazionali – ha scritto Teubner – ossia i frammenti autonomi di società ormai globalizzati, come l’economia, la scienza, la tecnologia, i mass-media, la medicina, l’istruzione, i trasporti, stanno sviluppando una enorme “fame di diritto”, un’esorbitante richiesta di norme giuridiche. Poiché le istituzioni nazionali o internazionali non riescono a far fronte a tale richiesta, essa viene soddisfatta attraverso un autonomo ricorso al diritto […] alla creazione da parte di regimi giuridici privati a carattere globale di un diritto sostanziale ad essi proprio»44. Ciò che chiamiamo governance non è altro che il tentativo di amministrare, secondo gli interessi del grande capitale transnazionale (o siamo forse usciti dal capitalismo?), questa produzione di diritto diffuso attraverso la costellazione di Corti sovranazionali e delle cosiddette istituzioni del rispetto e dell’attuazione.

Ora realismo vorrebbe che, anziché indugiare nel rimpianto del territorio perduto dal Leviatano nazionale, ci si ponesse il problema di come far irrompere la potenza democratica in questo universo policentrico e multilevel. Immaginare allora una «costituzionalizzazione senza Stato»45, ma a partire dall’irruzione sulla scena della lotta per i diritti. Si tratta di immaginare un processo di costituzionalizzazione comune, attraverso l’ingresso in scena delle moltitudini produttive. Una Costituzione per l’Europa non può che nascere dalle lotte sociali per un nuovo Welfare all’altezza della nuova composizione del lavoro vivo e non può che sostanziarsi nella riappropriazione di diritto dei beni e delle merci, prodotti come “usi” dei cittadini, funzioni comuni per la società. Una costituzione democratica per l’Europa non potrà che sancire il diritto di “accesso” non solo al godimento di tali beni-merci ma anche alla loro gestione condivisa. Recuperiamo qui il lavoro di ricategorizzazione del politico e della democrazia come forme agonistiche. L’Europa ospita già adesso un insieme di pratiche di resistenza e di lotta: basta pensare alle mareas spagnole, al movimento di protesta contro l’austerity in Grecia, alle manifestazioni contro le oligarchie finanziarie in Germania, per il diritto alla sanità in Romania o contro la corruzione in Russia e Bulgaria – per non parlare delle primavere arabe o delle rivolte in Turchia46. Per cogliere l’importanza di questi movimenti dobbiamo uscire dalla logica binaria della società civile e dello stato politico. Dobbiamo riconoscervi l’emergere di una profondissima innovazione nella composizione sociale, leggerne i tratti produttivi e innovativi al fine di produrre – a partire da lì – una profonda innovazione delle forme politiche. Come ha scritto Sandro Mezzadra «l’Europa ha senso solo se diventa uno spazio in cui i conflitti prodotti dalla nuova composizione del lavoro possono articolarsi in un progetto politico capace di essere allo stesso tempo radicale ed effettivo»47. Ora, se i movimenti europei non riescono ad attivare alcun feedback con le funzioni di governance, bisogna


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forse riconoscere che il blocco sta tutto dalla parte delle istituzioni tecnocratiche. Pensare l’Europa significa allora pensare forme di costituzionalizzazione a partire dalle prassi sociali che nel loro operare formano ordinamenti della vita concreta. Significa tradurre in diritto l’intensificazione e il coordinamento delle lotte per la cittadinanza, per il nuovo Welfare, per il reddito, per i diritti civili, sulla base di una disincantata visione della composizione multiculturale e meticcia della popolazione, dei nuovi modelli familiari, della nuova composizione tecnica della forza lavoro sempre più cognitiva e immateriale. E se questo impatta contro l’immobilismo delle élites tecnocratiche, dobbiamo porci il problema di come spezzare le linee di potere di queste élites, di come rompere la chiusura del diagramma della governance. Pensare l’Europa è pensare contro questa chiusura. Riaprire le linee di soggettivazione, liberare flussi vitali, organizzare gli incontri tra singolarità produttive e da lì produrre diritto, fare politica. Paul Valery, nel 1924, ha descritto le molteplici radici d’Europa, è vero. Romana, cristiana, greca. Imperiale, etica, filosofica. L’Europa o lo Spirito, diceva. Ma quando ha dovuto provare a definire cosa fossero i cittadini d’Europa, non ha esitato a rispondere: non sono una razza, una lingua, dei costumi morali o culturali. Sono desiderio, volontà ampia. Io penso che l’Europa sarà questo o non sarà più: il desiderio delle moltitudini che la abitano.


1 – VALERY P., Note (ou L’Européen), in HERSANT Y., DURANDBOGAERT F. (Dir.), Europes : De l’Antiquité au XXe siècle. Anthologie critique et commentée, éditions Robert Laffront, Paris 2000, pp.414-425.

luttes, programmes, Points, Paris, 2012, RIAHI N., Michel Foucault. Subjectivité, Pouvoir, Éthique, L’Harmattan, Paris, 2011.

2 – A questo primo nucleo si sono poi aggiunti i documenti di Balibar, Mezzadra e l’intervista a Severino.

7 – Cf. RANCIÉRE J., Aux bords du politique, Gallimard, Paris, 1998.

3 – Il paradigma biopolitico conosce una amplissima diffusione almeno da un trentennio a questa parte ovvero da quando Michel Foucault ne ha definito i contorni nei suoi corsi al Collège de France tra 1976 e 1979. Cf. FOUCAULT M., «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France, 1976, Seuil, Paris, 1997 e Id., Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France, 1977-78, Seuil, Paris, 2004 e Id., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-79, Seuil, Paris, 2004. 4 – Cf. REVEL J., Pouvoir, dans Id., Dictionnaire Foucault, Ellipses, Paris, 2008, pp. 107-109. Sul tema del potere in Foucault e sulla definizione relazionale dello stesso come azione che si esercita sull’azione di altri si vedano almeno: Précisions sur le pouvoir. Réponses à certaines critiques e Le sujet et le pouvoir, in FOUCAULT M., Dits et écrits. II. 1976-1988, Gallimard, Paris, pp. 625-635 e 1041-1062. 5 – Su questi temi nell’opera di Michel Foucault si rimanda qui a REVEL J., Foucault. Une pensée du discontinu, Mille et une nuits, Paris 2010, in particolare ai capitoli VII e VIII, pp. 221304. Cf. anche POTTEBONNEVILLE M., Michel Foucault. L’inquiétude de l’histoire, Puf, Paris, 2004, pp. 145-238, ARTIÈRES P., POTTE-BONNEVILLE M., D’après Foucault. Gestes,

6 – REVEL J., Dictionnaire Foucault, cit., p. 57.

8 – BAUDRILLARD J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 78. 9 – Ibidem. Analoghe considerazioni sono svolte da Massimo Cacciari rispetto al dispositivo di sovranità classico, liberale, trascendente, fin dalle sue origini hobbesiane, Cf. CACCIARI M., Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp.119-125: «Il Nomos del moderno Stato – scrive Cacciari – appare nella sua assenza di radice, antinomico» (p.124) e ciò vale anche nella sua accezione tecnocratica: «Solo se la dimensione dei valori non avesse alcuna essenziale affinità col Politico, potrebbe immaginarsi un perfetto processo di secolarizzazione della Grande Macchina. Ma poiché, invece, il Politico non sarà mai semplice allocazione di risorse, ma sempre anche lotta per assicurarsi uno stabile seguito di fedeli, e dunque avrà in sé sempre una componente miticoideologica, lo Stato mai si deciderà, come stabile terraferma, dal mare (o dal deserto) delle inverificabili idee e dei non calcolabili valori» (p. 123). 10 – Cf. RANCIÉRE J., La Mésentente. Politique et philosophie, Galilée, Paris, 1995. Oltre al già citato Foucault e a Ranciére, altre traiettorie possibili per pensare la politica come rottura dei dispositivi di comando si trovano in BADIOU A., L’Être et l’événement, Seuil, Paris, 1988 e

in ŽIŽEK S., Subversions du sujet. Psychanalyse, philosphie, politique, PUR, Rennes, 1999 e in HARDT M., NEGRI T., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, e Id., Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004 e Id., Comune: oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010. 11 – Esemplare per questo approccio riduzionista è SARTORI G., Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1969. 12 – GALLI C., Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, 2011, p. 4. Per una prima analisi sulla crisi della democrazia nella globalizzazione Cf. CROUCH C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003 e RANCIÉRE J., La haine de la democratie, La fabrique, Paris, 2005. Sul rischio di populismo Cf., ROSANVALLON P., La contre-démocratie : la politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006. 13 – Cf. ANSA, 8 marzo 2013, Draghi: voto in Italia non spaventa i mercati: ai giornalisti che gli chiedevano preoccupati quali conseguenze potesse avere sull’economia l’instabilità politica italiana dopo le consultazioni elettorali, il presidente della BCE rispondeva con toni rassicuranti che l’impatto del voto andava “ridimensionato” perché sull’economia e sulle politiche di bilancio si sarebbe ormai proceduto con il “pilota automatico”. Sull’impatto delle politiche di bilancio sull’economia reale e sulle condizioni di vita delle persone, ovvero sull’importanza politica di queste scelte, pare, in questa sede, inutile insistere oltre. 14 – Cf. CACCIARI M., Geofilosofia dell’Europa, Cit., p. 125: «Lungo questo

processo – scrive Cacciari – naufraga l’idea liberale della conversione dello Stato in un insieme di rapporti giuridici formali, in Amministrazione (il Betrieb weberiano) poiché è fallita l’ideautopia della possibile neutralizzazione del Politico rispetto alle dimensioni amministrative e, soprattutto economiche. […] È sul punto di tramontare quella forma del kathécon rappresentata dallo Stato, ma, al suo posto, non appaiono che espressioni di romanticismo politico, nostalgie liberali e di neutralizzazione e depoliticizzazione» (pp. 125-126). 15 – TRONTI M., Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977, p. 9. 16 – Cf. KEUCHEYAN R., DURAND C., Un césarisme bureaucratique, in DURAND C., En finir avec l’Europe, La fabrique, Paris, 2013, pp. 89-114. Riprendendo le categorie gramsciane di cesarismo e crisi organica i due autori leggono la fase attuale in questi termini: «Una crisi organica è chiaramente in atto in Europa oggi. Lungi dall’esser limitata alla sfera economica, questa tende a generalizzarsi e a contaminare l’insieme delle sfere sociali. Il blocco storico incompiuto o deficitario costruito negli ultimi decenni su scala europea è in corso di disgregazione. […] L’emergere di un cesarismo burocratico è la sola strategia della quale dispongano le élites del continente per mantenere il proprio dominio» (p. 99). 17 – Cf., WALLERSTEIN I., Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano 2004. Più recentemente si veda anche HABER S., Une crise globale qui attend encore sa résolution. Une entretien avec Immanuel Wallerstein, in «Actuel Marx», 53, 2013, pp. 12-27.


18 – Cf. KAGAN R., Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003. 19 – SLOTERDIJK P., Si l’Europe s’éveille. Réflexions sur le programme d’une puissance mondiale à la fin de l’ère de son absence politique, Mille et une nuit, Paris 2003. 20 – VALERY P., Note (ou L’Européen), in HERSANT Y., DURANDBOGAERT F. (Dir.), Europes : De l’Antiquité au XXe siècle. Anthologie critique et commentée, éditions Robert Laffront, Paris 2000, pp.414-425.

22 – Si rimanda qui a HABERMAS J., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni, democrazia, Feltrinelli, Milano, 2002. Con particolare riferimento alla questione europea, si veda HABERMAS J., La Constitution de l’Europe, Gallimard, Paris, 2012. In sintonia con le posizioni di Habermas, anche rispetto al ruolo della Germania BECK U., Non à l’Europe allemande. Vers un printemps européene?, Autrements, Paris, 2013. 23 – SCHMITT C., La tirannia dei valori, Adelphi, Milano 2008, p. 50. 24 – GALLI C., L’Europa come spazio politico, in Friese H., Negri A., Wagner P., Europa politica. Ragioni di una necessità, Manifestolibri, Roma 2002, p. 49. 25 – CACCIARI M., Geofilosofia dell’Europa,

26 – «L’Europa – scrive Cacciari – ha proceduto in questo breve periodo secondo un metodo completamente opposto. La sua dimensione mediterranea sembra essere divenuta un mero limes, qualcosa da cui difendersi o da usare come difesa. La sua dimensione orientale viene trattata come area del suo ‘allargamento’, come se l’Europa già fosse anche senza Varsavia e Budapest, Praga, Zagabria e Belgrado (e Mosca?). L’asse mitteleuropeo, franco-carolingio, non basta né potrà mai bastare a bilanciare la dimensione atlantica – almeno dopo la nuova Azio, la caduta del muro» (Ivi, p.9). 27 – CACCIARI M., L’Arcipelago, cit., p. 21. 28 – BALIBAR É., L’Europa, l’America, la Guerra, Manifestolibri, Roma 2003 e id., Nous citoyens de l’Europe ? Les frontières, l’État, le peuple, La découverte, Paris, 2001. 29 – DAL LAGO A., MEZZADRA S., I confini impensati dell’Europa, in Europa politica. Ragioni di una necessità, cit. 30 – Ivi, p. 152. 31 – NEGRI A., Strategie politiche per l’Europa: Europa necessaria, ma possibile?, in Europa politica. Ragioni di una necessità, cit., p. 277. Si veda anche NEGRI A., L’Europa e L’Impero, Manifestolibri, Roma, 2005, nel quale lo spazio Europeo è pensato come continente della democrazia assoluta dentro e contro il diagramma di cattura imperiale della ricchezza sociale prodotta dalle moltitudini del General Intellect.

32 – Di crisi di sistema parla Balibar che ha lanciato una nuova fase del dibattito sull’Europa con un intervento pubblicato in inglese, francese e italiano sui quotidiani Liberation e il manifesto e sul sito www.opendemocracy.net. Cf., BALIBAR É., Europa. Una esplosiva crisi di sistema, il manifesto, 4 maggio 2013. 33 – A titolo esemplare sul caso greco si veda DALAKOGLOU D., Néolibéralisme et néonazisme : de la violence à Athènes en temps de crise, in En finir avec l’Europe, cit., pp. 115-132. 34 – MEZZADRA S., Sindrome Europea. La rottura della cittadinanza, una risposta a Balibar, il manifesto, 17 maggio 2013. 35 – Cf. MAJONE G., A blessing in disguise? what the euro crisis tells us about the democratic deficit and the future of post-national Europe, in transnationaldemocracy. com; sulla paralisi democratica va visto anche SCHARPF F. N., Governing Europe. Effective and democratic?, Oxford University Press, Oxford 1999 e Id., Legitimate Diversity: the New Challenge of European Integration, in «Les Cahiers européens de Sciences Po», 1, Paris 2002. 36 – L’espressione è di Gunther Teubner. Cf. TEUBNER G., Ordinamenti frammentati e costituzioni sociali, in «Rivista giuridica degli studenti dell’Università di Macerata», O, 2010, p. 45-57. 37 – Oltre ai già citati Negri e Hardt, si rimanda qui alle osservazioni di Saskia Sassen e Wendy Brown, Cf. SASSEN S., Territorio, autorità, diritti, Bruno Mondadori, Milano 2008; BROWN W., La politica fuori dalla storia, Laterza Roma 2012

e Id., Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Les Prairies Ordinaires, Paris, 2009. 38 – BROWN W., Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, cit., p. 16. 39 – Ibidem. 40 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-79, Seuil, Paris, 2004, p. 147. 41 – Ivi, p. 155. 42 – BROWN W., Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, cit., p. 56. 43 – TEUBNER G., I molteplici corpi del re: l’auto-decostruzione della gerarchia del diritto, in Id., Diritto policontestuale: Prospettive giuridiche della pluralizzazione dei mondi sociali, La città del Sole, Napoli 1999, pp. 71-112. 44 – TEUBNER G., Ordinamenti frammentati e costituzioni sociali, cit., p. 50. 45 – JOERGES C., SAND I-J., TEUBNER G., Transnational Governance and Constitutionalism, Hart, Oxford 2004. Sul processo di costituzionalizzazione si veda anche RODOTÀ S., Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma 2013. 46 – Cf. ŽIZEK S., Trouble in Paradise, «London Review of Books», 18 July 2013 (Trad. It., Un mondo di proteste, su «Internazionale», 1008, 20, 12-18 luglio 2013, pp. 34-38). 47 – MEZZADRA S., Sindrome Europea. La rottura della cittadinanza, una risposta a Balibar, il manifesto, 17 maggio 2013.

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21 – Si rimanda a questo proposito alla trilogia di Sphäeren interamente disponibile in traduzione francese: SLOTERDIJK P., Bulles. Sphères I, Pluriel, Paris 2010 ; Id., Globes. Sphères II, Pluriel, Paris, 2010 e Id., Écumes. Sphères III, Pluriel, Paris 2013.

Adelphi, Milano 1994 e Id., L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1996. Di Cacciari si veda anche Digressioni su Impero e tre Rome, nel volume collettaneo citato in nota 22.



Materiali

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p. 21 ≥ Marco Assennato p. 29 ≥ Marcello Barison p. 39 ≥ Giovanni Leghissa p. 45 ≥ Maria Grazia Turri p. 57 ≥ Leonardo Ebner p. 66 ≥ Marcello Ghilardi p. 76 ≥ Anna Longo



La competenza dei tecnici: note su finanza, democrazia e indignazione. di Marco Assennato

E poi la Francia e il continente americano. S’è a lungo discusso sulla derivazione o sull’originalità della rivoluzione americana rispetto a quella francese. Certo è che tra fine settecento e lungo il XIX secolo tra Europa e America la democrazia prese forma a partire da due rivoluzioni che mai hanno separato uguaglianza sostanziale e uguaglianza formale, giungendo nella versione transoceanica a definire come diritto la felicità del popolo. Il debutto del secolo breve fece tremare quel sogno. Di recente Pierre Rosanvallon4 ha ricordato la «grande crisi di uguaglianza» che ha colpito l’occidente a inizio novecento sfociando nel terremoto del 1929. Ma da quella crisi, ricorda Rosanvallon, sono nati sistemi politici tendenzialmente egualitari sulla base dei concetti di somiglianza, indipendenza e cittadinanza, cui corrispondevano le idee di eguaglianza come equivalenza tra simili, eguaglianza come autonomia dei soggetti ed eguaglianza come partecipazione alla vita associata. Un mondo di simili, una società di individui autonomi e una comunità di cittadini, che hanno trovato nei diritti dell’uomo, nel libero mercato e nel suffragio universale le loro forme politiche adeguate. Il neoliberismo ha spezzato questo quadro. Il rapporto tra forma economica e forma politica non tiene più. E non a caso il capitale finanziario mangia il corpo d’Europa inseguendo famelicamente la mappa precisa della storia della democrazia. Dalla Grecia, all’Italia e all’Europa intera. I simboli contano. 1. Il capitale finanziario Certo è una storia vecchia questa del capitale finanziario che mangia il corpo produttivo e tende a superarne

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0. Libero mercato e democrazia Demokratía nasce in Grecia come dispositivo che consente al dèmos di costruire un caleidoscopio di forme di vita pubblica che ruotano attorno ai concetti di libertà, uguaglianza, trasparenza. Fu a lungo un fantasma per i poteri pubblici, quest’ipotesi di kràtos del démos. Tutta la teoria politica, infatti, si è basata sulla necessità di definire e così limitare, il potere del démos, di farlo coesistere con gli altri poteri. La Grecia, perciò, è stata culla delle costituzioni – dispositivi di legge che tentavano, appunto, questo rigoroso esercizio della forma. Per approssimarci a una lettura biopolitica, si potrebbe dire che la democrazia esprimeva l’articolazione della potenza del démos: trama di «rapporti pericolosi che sembravano intercorrere tra democrazia, logos, libertà e verità»1. Rapporti pericolosi, dice Foucault, poiché «la libertà nell’uso del lògos diviene sempre di più libertà nella scelta del bìos»2. La costituzione è un dispositivo che consente di limitare il libero parlare di ciascuno all’interno di un lògos comune, di una possibile unità della pòlis. Democrazia e Costituzione, in tal senso, stanno nella relazione di una potenza e di un potere che ne deriva. Questo dispositivo passò poi dalla Grecia all’Italia: lingua di terra dalla quale s’impose al mondo il sogno della res publica romana, UrbsOrbis: la città che si fa mondo estendendo a tutto il globo l’idea di concordia3. Sogno imperiale, progressivo, terribile. Ucciso e stravolto mille volte e mille volte ripreso, fino a tornare all’interno delle mura urbane, articolate nell’arcipelago dei Comuni tra XII e XIV secolo: ancora una messa in forma di quell’idea di potere del popolo. Italia, terra di cives che insieme formano civitas.


le forme di sovranità politica. Rudolf Hilferding lo scriveva già nel 19095, analizzando lo sviluppo delle società per azioni e della banca mista, di credito industriale. Il capitale è essenzialmente una forma asimmetrica di rapporto sociale, in grado di sussumere e dare realtà alle nuove potenze della finanza, della tecnica e della scienza. Su questi binari ha già prodotto una prodigiosa secolarizzazione del mondo, ucciso dei, cancellato olimpi, figuriamoci se trema di fronte ad un qualche parlamento. Al massimo, come spiegava appunto Hilferding descrivendo il conflitto tra alleanza liberale industriale e finanza, può provvisoriamente utilizzare le forme politiche, gli istituti della rappresentanza, per accompagnare ogni sua mutazione. E come in tutte le mutazioni, una volta che la pelle nuova è fresca, la vecchia vien buttata via. Secondo Hilferding, il capitale finanziario è «la più alta e più astratta forma fenomenica» di capitalismo. Forma nella quale «lo schema mistico che vela in genere i rapporti capitalistici raggiunge il massimo della impenetrabilità». Schema mistico. Invisibile. Opaco. Il marxista austriaco prevedeva su questa base – e fu del resto a lungo il conflitto imperialista del novecento – lo «scontro violento tra inconciliabili interessi» degli speculatori capitalisti che «dominano gli stati nazione», alla fine del quale la «dittatura dei magnati del capitale» si sarebbe rovesciata nella dittatura proletaria. Fu, in fondo, la scommessa di Lenin. Ma il processo descritto da Hilferding aveva ben altra problematicità. Disfattosi dell’inutile sistema democratico degli stati nazione, il Capitale ha continuato la sua corsa. La sovranità popolare è stata sostituita da un sistema di potere che, come ha giustamente scritto Cacciari, «mette in rete, su scala planetaria, pubblico e privato, tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica»6. Questo potere non ammette sovrano sopra di sé, è una forma anonima di governance post-democratica. Le antiche sovranità statali si riducono, in questo quadro, a funzioni del sistema, della rete imperiale. Ciò significa che ormai, i governi

nazionali possono, al più, amministrare in sede locale «le conseguenze del groviglio di decisioni, compromessi, conflitti di cui quell’insieme è formato»7. Una lunga storia ci ha portato a quest’aporia. Le questioni che solleva sono enormi. Quando la produzione del diritto si sposta sul meccanismo anonimo della tecnica, della scienza e della finanza, la democrazia non serve più. Ogni autonomia del politico è cancellata: il sovrano, nel senso dell’autonomo decisore sulle scelte fondamentali, origine delle norme e presupposto delle costituzioni, non è ammesso. Piuttosto, contro l’anomia della tecnica, non resta che la politica dell’autonomia dei corpi produttivi. Politica che tuttavia va interamente ricostruita. Foucault aveva già descritto questa tendenza nel suo corso del 1978-79. La sua analisi della governamentalità neoliberista ha messo in luce il sorgere di una nuova razionalità fondata sull’inversione del rapporto tra politico ed economico, centrata sull’assunto per il quale «l’economia è una disciplina che comincia a manifestare non soltanto l’inutilità, ma l’impossibilità di un punto di vista sovrano»8. La produzione di norme slitta allora sull’intera rete tecnoeconomica, all’interno della quale il politico viene ridotto a funzione interna e relativa, mediatore di interessi regionali: «un sovrano che non sarà più sovrano di diritto o in funzione di un diritto, ma (…) un sovrano suscettibile di amministrare»9. La sovranità politica statuale, Westfaliana si definiva come produttrice di leggi e regole, mentre quella biopolitica, postwestfaliana si definisce in primo luogo come rete complessa e anonima che produce norme e dispositivi di cattura sulla vita e la ricchezza sociale prodotta. In secondo luogo essa si concretizza in processi di produzione normativa che sono esterni alla sfera del diritto e dello Stato – ridotto a gestore marginale, amminstrativo, della crisi – e rispondenti al paradigma economico. In terzo luogo le sovranità nazionali vengono largamente surclassate da una forma di interdipendenza globale che funziona per accordi parziali tra Stati, agenzie finanziarie, multinazionali globali, lobbies


e altri attori della macchina mondiale10. Se le recenti scelte politiche in Italia e in Grecia, d’affidarsi direttamente a funzionari di quel sistema tecnocratico, hanno un pregio è d’aver levato la maschera alla realtà. Nessun infingimento nasconde più la meccanica descritta da Cacciari, o, già dieci anni fa, dal Toni Negri di Impero: «il nuovo paradigma è, a un tempo, sistemico e gerarchico, una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono l’intero spazio mondiale (…) una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente (…) che rompe definitivamente con ogni precedente forma di dialettica e sviluppa una integrazione degli attori che pare lineare e spontanea»11.

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2. Il secondo libro di Das Kapital La trasparenza, la visibilità della decisione sovrana è la precondizione per la partecipazione del popolo, libero, alla vita pubblica. Da qui partirono i Greci. Questa partecipazione è esplicita e concorde, definisce lo spazio comune della città, o del mondo, secondo la tradizione italiana. E la libertà del popolo è consustanziale alla sua eguaglianza. Così pensarono i francesi e gli americani. Lo «schema mistico» del capitale finanziario non ha alcun bisogno di questa trasparenza, né d’alcuna visibilità, tantomeno di controllo e partecipazione. In una società ridotta a mercato concorrenziale contano piuttosto l’invisibilità, l’opacità, l’impossibilità di accedere alla scelta fondamentale. La mano invisibile del mercato deve restare nascosta per operare12. Perché è un dispositivo di cattura del valore dal bìos produttore, che si presenta come produzione di denaro a mezzo di denaro. Ma di che denaro parliamo? Di quale pecunia si è chiesto ancora Cacciari13: «Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del “pecus”, del capo di bestiame, dell’animale domestico, che il “pastore” custodisce gelosamente? Questa “pecunia” è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano

nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. “La comune bagascia del genere umano” rende uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit. Ma il denaro si distingue radicalmente dall’antica pecunia non solo perché desostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo “evapora”. La mistica di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre». La ricchezza finanziaria, il denaro, sembra ormai un equivalente generale privo di alcun riferimento reale. Non c’è cosa dentro al denaro che governa il mondo. Solo circolazione. Se il primo libro del Capitale ha fissato l’arcano della merce, è il secondo libro, quello sulla circolazione che dovremmo rileggere per capire la crisi in corso, e la mistica della finanza-denaro. Ed è questa derealizzazione che mangia la democrazia. Resta una grande domanda, sistematicamente elusa, dalla quale però si dovrebbe in qualche modo cominciare: “chi produce la ricchezza? O ancora: che cosa è la ricchezza?”. Questa mi pare la questione dell’epoca: se trasformazione c’è stata nel modo di produzione, essa investe necessariamente anche il livello della ricchezza. Sul livello della definizione della ricchezza e dei soggetti produttivi si determina, infatti, un passaggio generale di paradigma (o epistemico, direbbe Foucault che non a caso attorno a quella domanda articolava pagine e pagine del suo Le parole e le cose14) centrale per la definizione del politico. In fondo l’economia politica classica ha corrisposto a una forma sovrana, a soggetti sociali, a forme culturali e orizzonti cognitivi equivalenti alle strutture del capitalismo industriale. Quella scienza triste violentava il corpo della società, vampirizzava il lavoro vivo, ma costruiva insieme una misura di valore e un’organizzazione efficace delle forze produttive. Funzionava insomma come regolatore interno della sovranità politica in grado a un tempo di assicurarne una limitazione e garantirne l’autonomia. Possiamo dire che il keynesismo e il piano


del capitale hanno rappresentato le ultime forme di questo divergente accordo tra economia e democrazia. Forme in qualche modo corrispondenti alla dimensione soggettiva della produzione: all’operaio-massa, industriale. Proprio poiché il lavoro dell’operaio-massa era misurabile, se ne poteva pensare l’integrazione in forma di partecipazione ai meccanismi della rappresentanza. Oggi invece assistiamo ad una integrazione definitiva del politico nella rete tecnoeconomica che implica una aporia tra democrazia e capitalismo: un conflitto non sanabile. 3. La crisi attuale e il debito La crisi attuale è tutta rivolta contro l’unione politica dell’Europa proprio in quanto teatro su cui sono andate in scena le modellizzazioni fondamentali di demokratìa. Contrastare la crisi significa collocarsi dunque decisamente sul terreno europeo come spazio minimo a partire dal quale ripensare strutture politiche democratiche e dispositivi di liberazione dei diritti sociali. La crisi non è eccezionale. È la regola – cosa che ci ha spiegato Marx una volta e per tutte definendo il capitale un rapporto sociale che produce caduta tendenziale del saggio di profitto15. Tendenziale: ovvero sempre di nuovo in crisi di profitto, da superare attraverso l’innovazione del dispositivo economicopolitico. La crisi di oggi è il portato di una enorme macchina di scommessa sul debito che definisce ricchezza una massa virtuale infinitamente più grande della ricchezza reale, prodotta dalla cooperazione sociale. I paesi sotto attacco della speculazione finanziaria fungono allora da camera di compensazione di debiti che non si possono pagare. Tuttavia, qui bisogna rifuggire da una possibile semplificazione: non si tratta di affermare lo scarto tra una presupposta economia reale e una virtuale. Piuttosto si tratta di provare a definire, appunto, un dispositivo politico di cattura e dominio, per vederne le conseguenze antropologiche e sociali. Nel quadro della governamentalità neoliberista, come ha sottolineato Foucault, «la superficie di contatto tra l’individuo e il potere che si esercita

su di lui, il principio di regolazione del potere sull’individuo non è altro che questa griglia costituita dall’idea di homo œconomicus»16. Maurizio Lazzarato ha più di recente spiegato come il neoliberismo tende a fare del debito il fondamento delle relazioni sociali: «ciò che i media chiamano speculazione costituisce una macchina di cattura del plus-valore nelle condizioni dell’accumulazione capitalistica attuale per le quali è impossibile distinguere rendita e profitto. (…) Il debito è la finanza dal punto di vista dei debitori (…) l’interesse è la finanza dal punto di vista dei creditori»17. Ora la relazione creditoredebitore si fa portatrice di uno specifico rapporto di potere, che implica precise modalità di produzione e controllo delle soggettività politiche, del tutto incompatibili con la forma democratica. Riferendosi a Nietzsche, Lazzarato ci ricorda come il debito produca una morale specifica – differente dall’etica del lavoro del capitalismo industriale. Una morale della promessa e della colpa: «il concetto di Schuld (colpa) rinvia al concetto tutto materiale di Schulden (debiti). La morale del debito induce una moralizzazione del disoccupato, dell’assistito, del fruitore dello Stato-provvidenza (…) Il debitore è libero, ma le sue azioni, i suoi comportamenti, devono svolgersi nel quadro definito dal debito che egli ha contratto. (…) Voi siete liberi nella misura in cui assumete il modo di vita (consumi, lavoro, spese sociali, tasse, etc.) compatibile con il rimborso dovuto»18. Leggere il debito come archetipo delle relazioni sociali, continua Lazzarato, significa leggere la società e il problema del politico a partire da una asimmetria (fondamentale per le società che si basano sulla concorrenza) anziché da una equivalenza (che sarebbe presupposto della logica mercantile dello scambio). Inoltre, riflettere sul debito significa «rendere l’economia immediatamente soggettiva, poiché il debito è un rapporto economico che, per realizzarsi, implica una modellizzazione e un controllo della soggettività, in modo tale che il lavoro sia indissociabile da un lavoro su di sé»19. Guardare al capitalismo finanziario dal punto di vista del debito, allora, significa


quali dobbiamo provare a risalire verso una possibile definizione del politico. Seguendo Foucault possiamo individuare la riduzione del politico a funzione del piano tecnico-economico, nel passaggio da una società disciplinare a una società del controllo. Ciò significa che i meccanismi di comando sono ormai compiutamente immanenti al sociale, interiorizzati dai soggetti indebitati. Il sociale si regola dall’interno. La funzione biopolitica investe direttamente la vita, ne amministra la produzione e la riproduzione. Se ci fermassimo qui, però, saremmo di fronte ad un’unica possibilità: accomodarci nelle fredde stanze della teoria dell’amministrazione, paghi della gestione di funzioni interne a un dispositivo complessivo immodificabile. Eppure, come hanno notato Negri e Hardt, il paradigma biopolitico tiene implicito un paradosso: «il paradosso di una forma di potere che, mentre unifica e ingloba ogni elemento del sociale, nello stesso momento svela un nuovo contesto, un nuovo ambiente costituito dalla massima pluralità»22. L’amministrazione della produzione da parte del Capitale, in altre parole, è in contraddizione con la composizione materiale delle forze produttive. Il Capitale, come rapporto sociale è divenuto, in buona misura, improduttivo. Esso non può per questo fermarsi, ha bisogno di trarre profitto dalla vita. Il Capitale improduttivo può ancora mangiare il corpo comune della ricchezza sociale, i diritti delle persone, il loro sapere, le risorse dell’ambiente e del territorio per far profitti. La finanziarizzazione, in altri termini, non è una deviazione parassitaria di quote del plusvalore prodotto, ma la nuova forma dell’accumulazione e dello sfruttamento all’interno dei processi di produzione cognitiva e sociale. Qui sta il punto: il neoliberismo – al contrario dell’economia politica classica per la quale il rapporto capitalistico era necessario, giacché garantiva e organizzava la cooperazione nel passaggio dalla produzione artigianale all’industria – è oggi in crisi data l’incapacità di concepire schemi esecutivi in grado di stimolare, organizzare e

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mettere in chiaro lo spessore biopolitico della mistica pecunia descritta da Massimo Cacciari. La moneta del capitale finanziario non deriva dallo scambio e non costituisce più il segno o la rappresentazione del lavoro ma, come ha scritto Lazzarato, «esprime una asimmetria di forze, un potere di prescrivere e imporre dei modi di sfruttamento, di dominazione e assoggettamento futuri. La moneta è innanzi tutto moneta-debito, creata ex nihilo, che non ha alcun equivalente materiale se non in un potere di creazione/ distruzione dei rapporti sociali e dei modi di soggettivazione»20. L’analisi svolta sin qui definisce in modo cristallino i tratti di un nuovo processo di accumulazione originaria del capitale, adeguato alla trasformazione postindustriale del lavoro e alla forma postdemocratica della governance neoliberista. In una lezione tenuta a Oxford il 12 maggio 201221, Toni Negri ha così riassunto i tratti di questa nuova accumulazione attraverso la governance della crisi: «con essa le élites capitaliste vogliono, da un lato, distruggere il Welfare State della classe operaia industriale, che considerano ormai come un corpo estraneo, il residuo di un soviet in casa propria; dall’altro, il capitale vuole organizzare lo sfruttamento intero della società, assoggettare al suo dominio la vita dei soggetti ed in quanto “biopotere” vuole dominare ogni movimento biopolitico. Così, attraverso crisi fiscali successive si demoliscono i rapporti di forza fra le classi sociali che ancora caratterizzavano le società fordiste, e si attacca il relativo progresso economico e le strutture costituzionali che all’interno di ciascuno stato-nazione europeo avevano, nel secondo dopoguerra, garantito la pace sociale e un certo riformismo politico». Come avevamo detto in premessa, la crisi attuale è leggibile solo usando le lenti del paradigma biopolitico, declinato da Michel Foucault nel suo corso al College de France del 1978-79. La prospettiva biopolitica, infatti, ci permette – ed è l’esercizio svolto a proposito del debito come forma della relazione dominante – di passare dal piano astratto della teoria al concreto delle relazioni materiali, dalle


incrementare la produzione di ricchezza in epoca biopolitica. La logica del capitale, tuttavia, fa sì che esso abbia bisogno di espandersi: divenuto improduttivo, inizia la lunga marcia di espropriazione del comune, ma, così facendo, blocca la potenza del suo motore interno. Il lavoro biopolitico è intrinsecamente comune e cooperativo, compiutamente esterno alla logica della scarsità della merce e ciò acutizza la contraddizione tra natura sociale della produzione ed essenza privata dell’accumulazione capitalistica e la spinge ben oltre ogni possibile ricomposizione. Come hanno scritto Negri e Hardt: «quando il capitale accumula il comune per privatizzarlo esso blocca la sua produttività. […] Il capitale, per così dire, tiene il lupo per le orecchie: se ce la fa, prima o poi sarà morso; se lo lascia andare il lupo se lo mangia»23. La scuola neoliberista, quella che ha allevato i tecnici della governance europea, ha teorizzato un sistema di privatizzazione e finanziarizzazione dei corpi sociali che almeno dalla fine degli anni settanta governa l’occidente e ne ha prodotto la crisi. La loro supposta competenza è la realtà che abbiamo sotto gli occhi: una crisi che non si può risolvere perché o fa saltare il piano finanziario – con un violentissimo colpo di coda in termini di costi sociali – o declina in regime autoritario contro popolazioni che da trent’anni sentono cantare la solfa dei tagli alla spesa sociale, della sottrazione di diritti, della precarizzazione delle condizioni di vita. Questi tecnici a forza di necessità contabili, banalmente, interpretano un canovaccio che non è realizzabile: perché mangia la democrazia, deprime la possibilità di allocare equamente la ricchezza sociale, e produce indignazione. L’individuazione di questo paradosso, del resto, è la posta in gioco nelle analisi foucaultiane del neoliberismo: punto di partenza per una nuova politica fondata sui concetti di singolarità, immanenza e pluralità, definita cioè a partire dalle lotte multiple e dai conflitti settoriali che si dispiegano sul piano globale24. In altre parole: il piano tecnico-economico può funzionare come dispositivo di cattura ma non è in grado

di comprendere il suo proprio motore interno. Questo motore interno non è altro che la nuova natura sociale del lavoro cognitivo e, se a qualcosa serve ancora esser marxisti, non è forse per questo discendere ogni volta dall’astratta forma politica alla sua dinamica materiale? 4. Indignazione Ora il punto è quale forma politica può nascere da questo passaggio. E va affrontato con realismo, contro ogni moralismo, ogni nostalgia e disprezzo reazionari. Non è possibile restaurare forme vuote o proteggersi in vecchie pelli. Ma cosa significa tutto ciò? Per rispondere, riprendiamo un altro passaggio della lezione di Negri a Oxford: «Bisogna innanzitutto aver sempre presente che il capitale non è un Moloch, bensì un “rapporto di forza” fra chi comanda e chi resiste, fra chi sfrutta e chi produce. La moltitudine non è semplicemente sfruttata, essa propone a livello sociale la sua autonomia e la sua resistenza. È qui, su questa relazione, che si determina la crisi, cioè l’indebolimento e/o la rottura del rapporto capitalista. La crisi attuale si è data infatti in seguito alla necessità capitalista di impedire che la pressione sul reddito rompesse i rapporti di dominio, di mantenere l’ordine, prima moltiplicando senza alcuna misura le quantità di denaro da spendere al solo scopo di tener buoni i proletari della conoscenza, poi (non appena la situazione è divenuta dura e la concorrenza insopportabile) chiedendo loro di restituire quello che avevano giustamente guadagnato, meglio di “pagare il debito” – sotto la minaccia della miseria e del disonore». In sintesi: se ci fermiamo all’analisi del sistema di dominio, con le sue crisi cicliche e le sue ricomposizioni, ci resta tra le dita un mondo privo di soggettività, e una teoria del politico incapace di riconoscere la funzione del bios produttivo. Al contrario andrebbe riconosciuto che ogni potere ha il suo limite nella potenza del corpo sociale cui dà forma. Alla produzione, sempre più socializzata, comunicativa, interattiva, relazionale e affettiva si oppone il capitale come puro rapporto di dominio25.


i canali di rappresentanza si rivelassero bloccati, quando finisse l’illusione di potervi supplire attraverso l’azione di altri organi dello stato […], nascano o meno nuovi “tribuni”, abbia volto o no il sistema sovranazionale di potere oggi dominante, esploderà il no delle masse subordinate. E non vi sarà referendum, allora, che potrà arrestarne la potenza». La qualità performativa del dispositivo biopolitico si fonda sulla resistenza di soggettività agenti, sul potere costituente del bìos. Ma allora dobbiamo chiederci: non è di questo che parlano le rivolte che scuotono le grandi metropoli dell’Occidente? Cos’è se non l’annuncio d’una lunga fase costituente, la luce dei roghi che fanno tremare le notti di New York, Parigi, Londra, Atene, Madrid? Indignati si chiamano. Innanzitutto l’indignazione è una forma comune di odio: è l’odio che proviamo verso colui che fa del male a qualcuno che immaginiamo sia simile a noi30. Se è un potere a-democratico ad imporre un regime oppressivo e che svilisce la potenza collettiva, la meccanica dell’indignazione difficilmente potrà essere risolta dall’incompetente competenza dei tecnici. Quando l’indignazione appare, sulla scena metropolitana, essi si trovano di fronte a un bivio: cogliere il pericolo e riconoscere che è la socializzazione della produzione, il bios comune l’elemento attivo nei processi istituzionali, giuridici ed economici attuali; o negare l’evidenza e optare per una strategia neoautoritaria. Ed è contro questo riconoscimento, contro l’apertura di faglie democratiche nella rete impermeabile della governance globale, che agisce oggi il capitale finanziario. A questo, e solo a questo, servono i tecnici. Una presa ostinata sulla vita delle persone stringe la crisi europea. E di fronte all’ostinazione del potere non può che definirsi l’ordine del giorno di una nuova costituzione politica comune. Il corpo vivo delle giovani generazioni europee è corpo in lotta contro l’immiserimento, la precarietà, la povertà, corpo produttivo di ricchezza comune che rende possibile pensare ad una nuova costituzione per l’Europa.

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Benissimo: a nessuno sfugge questa forza di captazione del rapporto sociale, eppure bisogna fare ancora un passo in avanti. Collocarsi dal punto di vista della produzione biopolitica significa infatti porsi il problema di come franchir la ligne di questa forza di captazione. Seguendo il ragionamento introdotto da Foucault, Deleuze ha rilevato come «secondo lui, i centri di potere non esistono senza punti di resistenza in qualche misura precedenti; e il potere non prende per obiettivo la vita, senza rivelare, senza suscitare una vita che resiste al potere»26. In altri termini: è a partire dai punti di resistenza, dalle forme di soggettivazione delle singolarità che è possibile rovesciare i diagrammi. In fondo l’analisi del dispositivo biopolitico che Foucault fa derivare direttamente dalla teoria economica neoliberista, non è altro che la descrizione dell’utopia del potere che sempre si esercita su una libertà soggettiva che lo sopravanza e determina27. Una volta riconosciuta la compiuta sussunzione del politico nell’economico non ci si può fermare. Si deve procedere, seguendo Negri e Hardt, contestando tutte le teorie prive di una seria ontologia della produzione, ovvero non in grado di «identificare la nuova figura del corpo collettivo biopolitico (…) moltitudine di corpi singolari e determinati in relazione tra di loro. (…) Il contesto della nostra analisi deve dunque essere quello delle manifestazioni della vita stessa, il processo costitutivo del mondo e della storia. L’analisi non deve muoversi attraverso forme ideali ma nel complesso dell’esperienza»28. Uscire dall’astrazione per individuare la forza materialmente confliggente della democrazia, come esperienza che punta al di là del piano di dominio, come potenza produttiva che eccede il potere di captazione. Se non si tengono entrambi i lati del paradigma biopolitico, oltreché la certezza di una mistificazione teorica ci resta il sospetto di complicità nel collasso del sistema. Ancora con Cacciari29 si deve convenire quando afferma: «moltitudine o popolo che sia, il suo potere nella storia è tutt’altro che un mito. Magari come potere negativo esso è realissimo. Alla fine, quando tutti


1 – FOUCAULT M., Discorso e verità nella grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 51. 2 – Ivi. p. 56. 3 – Su questa declinazione del tema dell’Impero si rimanda a CACCIARI M., La città, Pazzini Editore, Villa Verrucchio, 2009, pp.7-19, e più in generale a CACCIARI M., Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994 e L’arcipelago, Adelphi, Milano 1996. 4 – ROSANVALLON P., La societé des égaux, Seuil, Paris, 2011. 5 – HILFERDING R., Il Capitale finanziario, [1909], ed. it. a cura di G. Pietranera, Feltrinelli, Milano, 1961. 6 – CACCIARI M., Democrazia, riflessioni sull’uso, L’espresso, 15 novembre 2011. 7 – Ibidem. 8 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Gallimard, Seuil, Paris 2004, p. 286. 9 – Ivi., p.287. Si vedano anche le pp. 84-85, 106-107, 120-121, 146-147, 168-170, 246-249. 10 – Sul complesso di questi temi si rimanda qui a NEGRI T., La sovranità fra governo, eccezione e governance. Riflessioni sul potere costituente e il costituzionalismo sociale, in NEGRI T., Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 97-216. 11 – NEGRI T., HARDT M., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001. In particolare alle pp. 30-37. 12 – Sull’invisibilità e l’opacità come attributi fondamentali dell’azione economica si rimanda qui

al commento di Foucault al celebre passo di Adam Smith, in FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique, Cit., pp. 282290. Secondo Foucault «la mano invisibile ha essenzialmente per funzione la disqualificazione del sovrano politico» (Ivi., p. 287). Sugli stessi passaggi si veda anche BUCK-MORSS S., Voir le capital. Théorie critique et culture visuelle, Les Prairies ordinaires, Paris 2011, pp. 171-219. 13 – CACCIARI M., La logica del denaro e l’esistenza di Dio, La Repubblica, 6 maggio 2009. 14 – FOUCAULT M., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1998, in particolare si rimanda qui alle pp. 183-234. 15 – MARX K., Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro III, Terza sezione, Editori Riuniti, Roma 1994, pp. 259-322. Sul rapporto tra caduta tendenziale del saggio di profitto, crisi e innovazione capitalistica si veda inoltre SCHUMPETER J., Teoria dello sviluppo economico, Etas, Milano, 2002. 16 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique, Cit., p. 258. 17 – LAZZARATO M., La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, Paris 2011, p. 21 e p. 23. 18 – Ivi. p. 28. 19 – Ivi. p. 30. 20 – Ivi. p. 31. 21 – NEGRI T., Riflessioni amichevoli sulla crisi attuale. Testo pedagogico, ora in http://uninomade. org/riflessioni-amichevolinella-crisi-attuale/ . 22 – NEGRI T., HARDT M., Impero, Cit., p. 40.

23 – NEGRI T., HARDT M., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 289. 24 – Cfr. DE LAGASNERIE G., La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la politique, Fayard, Paris, 2012, pp. 95, 107, 117. Lagasnerie, pur riconoscendo questi elementi si dedica con il suo libretto a piegare Foucault al neoliberismo occultandone del tutto la spinta conflittuale. Su questo mi permetto di rinviare alla mia recensione critica del testo, ASSENNATO M., Foucault per tutti: lezioni di critica al neoliberismo in www.uninomade.org/ foucault-per-tutti/. 25 – In questi termini Marx esprimeva la sussunzione reale della società al capitale, il passaggio alla scienza e alla tecnica come motori interni della relazione sociale in MARX K., Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, Etas, Milano 2002, pp. 57-58, 61-63, 76 e anche in MARX K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, Vol. II, La nuova Italia, Firenze 1997, nel cosiddetto Frammento sulle macchine, pp. 389-411. 26 – DELEUZE G., Foucault, Minuit, Paris, 2004, p. 101. 27 – «Il mio ruolo – scrive Foucault – è quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta», FOUCAULT M., Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 4.

28 – NEGRI T., HARDT M., Impero, Cit., p. 45. 29 – CACCIARI M., Democrazia, Cit., Ibidem. 30 – Secondo Alexandre Matheron alla base del dispositivo dell’indignazione sta la meccanica di imitazione degli affetti descritta da Spinoza in Ethica, III, prop. XXVII, corollario I. Vedi MATHERON A., Qu’est-ce que l’indignation, in «Multitudes», 46, automne 2011.


Neoliberismo e destatalizzazione di Marcello Barison

Come nei precedenti cicli di espansione, quando spezzò il contenitore dello statonazione nell’ultimo trentennio del XX secolo e iniziò a creare un unico mercato globale, il capitalismo ha cominciato a distruggere non semplicemente l’istituzione del mercato nazionale, ma anche l’architettura di leggi, convenzioni e organizzazioni, edificate nel corso di oltre due secoli, che l’avevano sorretto e umanizzato. PREM SHANKAR JHA, The Twilight of the Nation State

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Prendendo le mosse da alcune considerazioni di Michel Foucault dedicate al sapere economico, ci proponiamo qui di impostare una possibile cornice teorica ove situare i rapporti tra potere politico e neoliberismo così come essi si presentano nella loro odierna articolazione. Internamente a tale paradigma si procederà parimenti ad una problematizzazione del concetto di sovranità nazionale, proponendo di interpretarne la dissoluzione nei termini di una progressiva destatalizzazione sulle cui singolari conseguenze – sia filosofiche che giuridiche – sarà infine necessario soffermarsi con la debita attenzione. Premetto che il riferimento a Foucault ha carattere anzitutto metodologico. Ritengo infatti che nella sua attività di ricerca della seconda metà degli anni ’70 – nella fattispecie da Il faut défendre la société (1976) a Naissance de la biopolitique (1978-’79) – egli, attraverso intuizioni fondamentali talora soltanto embrionalmente sviluppate, abbia posto le basi per elaborare un’adeguata strategia d’accesso alla questione dell’economia contemporanea, al di là, quindi, tanto della riflessione liberale che di molte pur penetranti interpretazioni di ascendenza marxista. Ma dove situare l’inizio del ‘contemporaneo’

in termini economici? Una data, per quanto simbolica, pare attagliarsi a tale esigenza: quella del 6 agosto 1979, quando Paul Volcker venne nominato Presidente della Federal Reserve inaugurando le politiche di stampo monetarista che, ancor’oggi assiduamente praticate, paiono altresì rappresentare l’inoppugnabile costante dell’economia mondiale degli ultimi trent’anni. Si osserverà tuttavia che l’ultima lezione del citato corso sulla Nascita della biopolitica è datata 4 aprile 1979. Stando alla scansione proposta, lo sviluppo dell’economia contemporanea appare quindi immediatamente successivo alle analisi compiute di Foucault: com’è possibile, allora, ricorrere all’uno per comprendere l’altra? Cercherò di mostrare che nel discorso foucaultiano, paradigmatico per le forme del liberalismo pre-reganiano, sono presenti numerosi spunti di cui servirsi per spingersi fino ai nostri giorni. In questo senso le sue ricerche, lungi dal poter essere dossograficamente ripetute, risultano al massimo grado incisive qualora, reagendo coi nuovi materiali a disposizione, si sottopongano alle modificazioni che ogni comprensione del presente richiede agli strumenti che ha ereditato. È comunque tutt’altro che casuale che il pensatore francese, impegnato nel tentativo di penetrare, sondandone gli antecedenti genealogici, i ‘dispositivi’ dell’attualità, abbia lambito alcuni principi fondativi dell’economia contemporanea. Stupisce invece che, contrariamente ai numerosi studi sul potere psichiatrico, sui sistemi di reclusione o sul concetto di biopolitica, salvo qualche esempio, di orientamento comunque prevalentemente ricostruttivo1, manchi del tutto un’estensione critica alle più recenti ‘evoluzioni’ del capitalismo finanziario delle tesi di Foucault sull’economia2.


Entriamo allora nel vivo della sua argomentazione. Nelle prime battute del corso del 1978-’79, egli presenta il seguente ragionamento. Nel medioevo il sovrano, facendo leva sul monopolio dell’amministrazione della giustizia e sull’apparato militare, era riuscito ad assoggettare ogni altra autorità feudale sotto il proprio dominio; il potere giudiziario, valeva dunque come una sorta di «multiplicateur du pouvoir royal»3. A partire dal XVI secolo, ma soprattutto dall’inizio del XVII, assistiamo a un mutamento essenziale: le istituzioni giudiziarie hanno la funzione non tanto di moltiplicare, bensì di limitare il potere del re. Nel bilanciamento dei poteri esse si oppongono all’«extension indéfinie d’une raison d’État prenant corps dans un État de police»4. Invero, ci si spinge addirittura oltre: poiché le leggi costituiscono l’ossatura dello Stato, esse lo precedono, ne sono la ‘condizione di possibilità’ ed istituiscono pertanto la stessa autorità del monarca, il quale deve agire internamente ad esse e non ha dunque alcun diritto di intaccarle. Ecco allora che la ragion di Stato si fonda su di un diritto esterno, che la precede e la limita. E lo stesso vale per l’esercizio del governo, legittimato da un potere altro ed esteriore, detenuto dall’autorità giudiziaria. Qualora infatti il sovrano violi il limite imposto dalle leggi, può essere dichiarato illegittimo, col conseguente venir meno del vincolo d’obbedienza previsto per ciascun suddito. All’altezza del XVIII secolo, Foucault ravvisa però una cesura di assoluta importanza dovuta all’esigenza di «[…] predisporre un principio di limitazione dell’arte di governo non più estrinseco, com’era invece il diritto nel XVII secolo, [ma] intrinseco»5. Ma di che cosa si tratta – «qu’est-ce que peut être une limitation interne de la rationalité gouvernementale?»6. Non si avverte più la necessità di contenere l’azione del sovrano, va invece circoscritta l’attività del potere esecutivo, anzi: è il governo stesso a doversi ‘autolimitare’, in base a una funzione razionale che gli consenta di pervenire ai massimi risultati – in termini di incremento della prosperità – riducendo al minimo il proprio operato. Ebbene, tale funzione razionale – o «instrument intellectuel»7,

come lo chiama Foucault – è l’economia politica8. Essa è dunque la cifra di uno Stato che ha in se stesso il principio della propria sovranità, la quale non deriva invero da alcun fondamento o legittimazione esterni; si tratta infatti, fin dal dispotismo settecentesco, di «[…] un gouvernement économique, mais qui n’est enserré, qui n’est dessiné dans ses frontières par rien d’autre qu’une économie qu’il a lui-même définie et qu’il contrôle lui-même totalement»9. Ne deduciamo quindi che, almeno in un primo momento, l’economia politica, principio di costituzione dello Stato, è posta da quello stesso Stato di cui è appunto fondamento primo. È questo il circolo vizioso del potere, inteso essenzialmente come autolegittimazione del governo. Giustificato da Foucault10, mi concedo ora un salto fin nel cuore del XX secolo. Germania, 1948: mentre tutta Europa – con le eccezioni, comunque soltanto parziali, del Belgio e dell’Italia11 – è governata da politiche economiche di stampo keynesiano, Ludwig Erhard, allora responsabile dell’amministrazione economica del settore anglo-americano e futuro cancelliere, pronuncia un discorso dove compare la seguente affermazione: «Wenn auch nicht im Ziele vollig einig, so ist doch die Richtung klar, die wir einzuschlagen haben – die Befreiung von der staatlichen Befehlswirtschaft […]»12. Viene cioè auspicata una «[…] liberazione dell’economia tenuta sotto il controllo dello Stato […]» – il ritorno a quel laissez-faire di cui troppo precocemente Keynes, nel famoso articolo del ’26, aveva decretato la fine13. Ma che cosa significa tutto ciò, in cui – con Foucault – va riconosciuto l’esito più importante della lunga parabola del liberalismo prima del 1979? Si faccia mente locale alla Germania di quegli anni. In piena ricostruzione, occupata dagli alleati e annientata politicamente dopo la drammatica capitolazione del regime, la nazione tedesca non dispone di alcun fondamento legittimo sul quale poter costituire il nuovo Stato ‘democratico’. Non è possibile richiamarsi ad alcuna istituzione precedente poiché il Nazismo ha reciso ogni continuità storica col passato, e «non è nemmeno possibile rivendicare una legittimità giuridica dal momento che non c’è apparato,


(1) (2) (3)

Lo Stato moderno (XVII secolo) si fonda su un diritto esterno, che legittima e nel contempo limita l’esercizio della sovranità. Lo Stato liberale (XVIII secolo) si fonda su di una propria funzione interna: l’economia politica che esso stesso ha istituito e mediante la quale autolimita la propria azione di governo. Lo Stato ‘post-keynesiano’ (1945-1979) è un prodotto della libera economia di mercato. In quanto «creatrice di diritto pubblico», è la stessa libertà economica ad istituire la sovranità dello Stato.

Sono opportune alcune osservazioni. Indicando con ε la variabile economia, e dovendo riconoscere la modalità in cui essa è presente in ciascuna delle tre tesi appena enunciate, dunque il suo rispettivo grado di incidenza in (1), (2) e (3), lo indicherei come segue: (1): ε0 Nella prima tesi l’economia non compare. Lo Stato moderno (XVII secolo) si fonda su un diritto esterno e a questo livello la variabile economica non gioca alcun ruolo. (2): ε1 Nella seconda tesi l’economia è una funzione interna dello Stato liberale (XVIII secolo), ne legittima il potere ma rimane comunque un’‘istanza teorica’, uno «strumento intellettuale» prodotto dallo Stato. (3): ε2 Nella terza tesi è l’economia a istituire lo Stato ‘post-keynesiano’ (1945-1979), che le riesce quindi totalmente subordinato. Le tre tesi manifestano dunque una palese progressione per la quale l’economia acquisisce sempre più importanza rispetto allo Stato. Se infatti inizialmente essa non compare nemmeno (ε0), entra poi in scena nella veste di una funzione intrinseca allo Stato e a lui subordinata (ε1), proponendosi infine come ciò che addirittura lo ‘produce’ (ε2). Parallelamente, assistiamo altresì ad alcune significative variazioni nella potenza espressa dallo Stato, σ: (1): σ1 L’istanza dello Stato moderno (XVII secolo) è subordinata a un diritto esterno. (2): σ2 Lo Stato liberale (XVIII secolo) è essenzialmente autarchico: deriva da se stesso, istituendolo al suo interno, il principio della propria legittimità. (3): σ1 Lo Stato ‘post-keynesiano’ (1945-1979) è un prodotto del proprio modello economico e riesce pertanto subordinato ad esso. Osservando (2) e (3) in relazione al comportamento tanto di ε quanto di σ, ne evinciamo la seguente considerazione: si tratta di istanze ‘inversamente proporzionali’. Man mano che ci si approssima al contemporaneo

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né consenso, né volontà collettiva che possa manifestarsi in una situazione in cui la Germania, da un lato, è divisa, e dall’altro, occupata»14. Quale sarà, allora, il criterio costitutivo chiamato a dare legittimità al nuovo Stato, criterio che Foucault – con sottigliezza e capacità di penetrazione difficilmente pareggiabili – scorge in filigrana nella citata esternazione di Erhard? Lo Stato tedesco dovrà fondarsi sui principi del proprio modello economico: sarà l’istituzione stessa della nuova libertà economica a legittimare la formazione della nascente entità politica sovrana. Avvalendomi delle inequivocabili parole dell’autore: «[…] dans l’Allemagne contemporaine, l’économie, le développement économique, la croissance économique produit de la souveraineté, produit de la souveraineté politique par l’institution et le jeu institutionnel qui fait précisément fonctionner cette économie. L’économie produit de la légitimité pour l’Ètat qui en est le garant. Autrement dit, […] l’économie est créatrice de droit public»15. L’importanza di questa tesi è davvero difficilmente ponderabile. Essa identifica a mio avviso quello che è forse possibile indicare come un vero e proprio principium individuationis dello Stato liberale dal 1945 al 1979. Ma poi? Che cosa cambia dopo quella data, e in che modo le analisi svolte da Foucault si rivelano utili per comprendere le trasformazioni che la seguono? Prima di volgere ad una discussione delle mie ipotesi in merito, è opportuno riassumere in tre punti – tre tesi sul fondamento della sovranità – quanto si è guadagnato dalla lettura di Foucault:


una tendenza appare chiara: al crescere dell’influenza dell’economia corrisponde una diminuzione del peso politico dello Stato. Ecco allora che tentare di pensare il contemporaneo alla luce del quadro ricavato da Foucault non significherà affatto riprendere qualcuna delle sue tre tesi per ‘riciclarla’ ed applicarla ‘così com’è’ all’odierno dispositivo finanziario. Niente di tutto questo. Pensare l’attualità alla luce dell’itinerario tracciato in Nascita della biopolitica significherà invece proseguire autonomamente tale percorso al fine di formulare una propria tesi relativa allo stadio successivo, quello dominato dall’economia monetarista: (4) Lo Stato neoliberista (19792011). Espressa con le variabili impiegate finora, la mia ipotesi è la seguente: (4): ε3, σ0 Prima di illustrarne appieno il significato ed abbozzarne un tentativo di articolazione, sono però necessarie alcune considerazioni. In un suo recente lavoro, André Orléan compendia con discreta precisione quella che è forse la più lampante – quanto impensata – contraddizione dell’attuale ordinamento economico: quella tra Stato e capitale finanziario. Mi richiamerò pertanto direttamente alle sue parole: «La liquidità di mercato, in quanto permette al capitale di essere investito velocemente là dove si presentano delle opportunità di profitto, è percepita come eminentemente positiva, e deve essere assolutamente perseguita. Al contrario, porre ostacoli alla libertà dei movimenti di capitale è considerato come una fonte di rigidità che diminuisca la prosperità generale. Per questa ragione, l’approccio teorico che stiamo descrivendo spinge verso la soppressione di tutte le barriere erette in seguito alla grande crisi degli anni Trenta, soppressione che dovrebbe condurre all’avvento di un mercato del capitale unificato su scala mondiale per tutti i prodotti finanziari (azioni, obbligazioni, derivati, valute), tutte le durate (corto, medio e lungo termine) e tutti gli attori (imprese, famiglie, Stati). Questo è lo scopo ultimo perseguito con costanza da trent’anni da tutte le classi dirigenti, di sinistra come di destra: la creazione di una liquidità

finanziaria su scala mondiale»16. Bene, rispetto alla creazione di tale «liquidità» appartenente al movimento economico in quanto tale – liquidità che, spinozianamente, è lo stato fisico della nuova ‘sostanza’ (l’aggregato fluido dei «prodotti», delle «durate», e degli «attori») – i confini dello Stato e la resistenza della sua sovranità si tramutano immediatamente in dighe che rallentano o impediscono il flusso. Come nota Shankar Jha riprendendo lo studio di Lash e Urry17 (che rimane forse il più esaustivo in materia), «l’assalto allo stato-nazione è cominciato nel campo dell’economia […] Creando un mercato e un sistema produttivo che trascende il mercato nazionale, la globalizzazione sta erodendo le fondamenta economiche dello stato-nazione»18. Fin qui, niente di così nuovo – si tratta a dire il vero di processi tutt’altro che sotterranei. Anzi dovrebbero spingerci a riconsiderare le tradizionali categorie del nostro pensiero politico – di cui lo Stato continua implicitamente ad essere l’elemento cardine. Eppure, proprio in quanto si tratta di trasformazioni in larga parte evidenti, forse proprio per questo ci sfugge il loro coefficiente autenticamente rivoluzionario, che in quell’evidenza si nasconde. Mi rimetto ancora una volta al soccorso di Foucault, che, motivando il suo rifiuto per ogni teoria dello Stato che lo presupponga come dato, argomenta: «[…] l’État n’a pas d’essence. L’État ce n’est pas un universel, l’État ce n’est pas en lui-même une source autonome de pouvoir. L’État, ce n’est rien d’autre que l’effet, le profil, la découpe mobile d’une perpétuelle étatisation, ou de perpétuelles étatisations, de transactions incessantes […] il n’a pas d’intérieur. L’État, ce n’est rien d’autre que l’effet mobile d’un régime de gouvernementalités multiples»19. Affrontando queste osservazioni, salta subito agli occhi come anche nelle precedenti riflessioni, che muovevano da Nascita della biopolitica, non si sia mai incappati in una ‘descrizione’ dello Stato, ma sempre nella messa in evidenza del suo formarsi, del processo del suo costituirsi senza il quale di esso non rimarrebbe nulla. Già, perché lo Stato – così come la politica, l’economia o ogni altra ‘istituzione incorporea’ dell’esserci storico20 – non è di


(4): ε3, σ0 Lo Stato neoliberista (1979-2011) viene progressivamente annientato dal movimento reale dell’economia. Questa, che – servendosene – già aveva subordinato a sé lo Stato ‘post-keynesiano’ (1945-1979) concependolo come un prodotto della propria ‘prestazione’, ora non ha più alcun bisogno dello Stato. Per affermarsi integralmente, anzi, esige di poter sopprimere i vincoli imposti dall’esistenza

della sovranità statale e delle sue leggi. La formula ε3, σ0 si riduce quindi ad un’affermazione semplicissima: economia senza Stato. Si è dunque così tratteggiato il contesto in cui si intende operare nell’ambito della ricerca che qui si propone: pensare l’economia – e l’implesso di ciò che essa politicamente articola – in un regime a ‘sovranità zero’: pensare la liquidità dell’ambiente economico nell’epoca del neoliberismo. Ciò a cui si è pervenuti, tuttavia, può essere soltanto un punto di partenza consistente nell’inquadramento generale del problema e in una esplicitazione della sua provenienza, della complessa stratificazione di forme storiche su cui poggia e che gli permette parimenti di ‘consistere’, di cristallizzarsi in un’emersione, foss’anche temporanea, ma comunque abbastanza duratura da risultare considerevole rispetto al tempo biologico dell’esperienza che la percepisce. Concluderò pertanto questa breve presentazione comparando l’ipotesi che è stata formulata ((4)) con le tre tesi in cui è stato compendiato il pensiero foucaultiano dello Stato. A partire da tale raffronto verranno quindi evidenziati gli effettivi snodi problematici che la ricerca si propone di affrontare. In via preliminare, vorrei abbozzare una breve riflessione. Si è posto l’accento sul fatto che la sovranità statale, soverchiata dalla contraddizione con il carattere sovranazionale dell’economia finanziarizzata, si ritrova gradualmente estromessa dall’esercizio del governo. Ma come avviene concretamente questa estromissione? Le modalità sono molteplici e complesse. In questa sede, mi limiterei ad indicarne una, particolarmente rilevante poiché intrinsecamente politica, che riguarda la cessione – giuridicamente regolamentata – di una parte della propria sovranità nazionale ad un qualsivoglia soggetto politico o organizzazione internazionale come l’Unione Europea o il Fondo Monetario. Consideriamo ad esempio proprio quest’ultimo: il suo ruolo economico nella gestione e nel condizionamento dei mercati è evidente e

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per sé qualcosa che esiste; ciononostante può diventare ‘qualcosa’ non appena risulti indispensabile al prodursi di una pratica. Essa soltanto lo fa essere, secondo una peculiare modalità di presenza che sarebbe forse possibile assimilare alla commistione, commistione di un evento reale con l’intangibile istanza che esso esige per potersi concretamente affermare. Ma allora che cosa riusciamo definitivamente a comprendere attraverso Foucault? Appunto che lo Stato non esiste: che, in quanto tale, non esisteva prima e non esiste ora. Ciò che invece è senz’altro esistito, e a cui alludono le tesi precedentemente ordinate ((1), (2) e (3)), non è tanto lo Stato, bensì tre diversi processi di statalizzazione che, a rigore, hanno avuto come ‘esito’ la formazione di tre entità distinte, certamente confrontabili ma che potremmo anche nominare ricorrendo a termini diversi. Se prima del 1979, dunque, le pratiche effettivamente in atto si traducevano nel configurarsi dello ‘Stato’, oggi processi inversi, o anche semplicemente diversi, potrebbero concretarsi in un suo ‘smantellamento’, il che coincide esattamente con la tesi che qui s’intende sostenere e che viene ‘raccolta’ sotto il concetto di destatalizzazione. Come illustrano le richiamate osservazioni di Orléan e Shankar Jha, il modello economico vigente esige la progressiva destatalizzazione del potere politico: il conseguimento dello stato di assoluta liquidità atto ad ottimizzare la prestazione del capitale finanziario – l’attuale forma dell’‘economico’ – prevede quindi la dissoluzione di qualsivoglia sovranità nazionale. In continuità con le linee di tendenza già riscontrate in (1), (2) e (3), la formula precedentemente individuata21 significherà allora:


non necessita pertanto di venir argomentato. Ciò che conta è il fatto che il suo potere si situi al di fuori dei meccanismi di rappresentanza. Se è vero infatti che i membri del Fondo sono comunque eletti dai singoli governi dei paesi membri, ciò non toglie che il governo di una nazione non è necessariamente composto a sua volta da eletti, e che, altrettanto, la mancanza di un’elezione diretta costituisce un serissimo problema quanto alla legittimazione politica dell’attività svolta dal Fondo. Come che sia – impossibile in questa sede cavillare ulteriormente sui dettagli della questione –, ci troviamo innanzi ad una circostanza di straordinaria rilevanza: un organismo internazionale dotato di enorme potere, agisce senza alcun controllo politico diretto da parte delle popolazioni su cui è legittimato ad intervenire. Detto altrimenti: una quota consistente di sovranità, ceduta ad un organismo internazionale che esercita un potere economico, viene sottratta all’intervento politico dello Stato. Il potere di quest’ultimo ne riesce quindi prepotentemente limitato: esiste un diritto esterno allo Stato che, esercitato da un soggetto altro, ne circoscrive il potere. Nel caso del Fondo Monetario, tale diritto concerne appunto l’economia, sulla quale ciascun singolo Stato non può più dirsi interamente sovrano. Ma si ritorni per un istante alla prima delle tesi foucaultiane che avevamo individuato. Essa recitava così: (1) Lo Stato moderno (XVII secolo) si fonda su un diritto esterno, che legittima e nel contempo limita l’esercizio della sovranità. Riguardo allo Stato neoliberista – ma vale in misura minore anche per quello ‘post-keynesiano’ – abbiamo appena detto che esiste un diritto esterno allo Stato che, esercitato da un organismo sovranazionale come il FMI, limita il potere dello Stato. L’analogia tra le due affermazioni è evidente: entrambe, per l’appunto, fanno riferimento ad un diritto esterno che limita il potere dello Stato. Vi è però altresì una differenza sostanziale: mentre nel caso dello Stato moderno (XVII secolo) il potere esterno era concepito come fondativo, addirittura antecedente rispetto allo Stato, assistiamo in questo caso a qualcosa di diverso ma forse non meno rilevante: il diritto ‘esterno’, il diritto esercitato dal Fondo Monetario in

quanto organismo sovranazionale, è prodotto da una specifica esigenza dell’economia: quella di sottrarre al potere politico statale la possibilità di esercitare sul libero mercato la propria attività di governo. Riformulando la citata tesi foucaultiana per la quale «l’economia è creatrice di diritto pubblico», diremo che, alla luce del caso appena analizzato, è possibile sostenere quanto segue: l’economia è creatrice di diritto internazionale, laddove proprio tale ‘creazione’ è un modo eminente della destatalizzazione. Tra i compiti che la presente ricerca si prefigge andrebbe quindi senz’altro annoverato il seguente: studiare il processo di destatalizzazione in rapporto alla creazione di diritto internazionale innescata dal potere economico per ridurre il potere di controllo dello Stato: come avviene concretamente tutto ciò? Quali sono i soggetti economici in grado di promuovere simili operazioni? Qual è il loro status giuridico? E se si trattasse di privati – che tipo di questioni politiche porrebbe il verificarsi di una tale situazione? È possibile riscontrare una traccia di tutto ciò nei documenti prodotti, ad esempio, da un’organizzazione come il Fondo Monetario Internazionale e dai suoi rapporti diplomatici con stati e istituzioni? Bisognerebbe poi spingersi ancor oltre. Vi sono infatti soggetti privati (holding, banche di investimento, multinazionali) la cui azione, fortemente destatalizzante, è dedita alla creazione di quello che è stato chiamato diritto privato internazionale, appellativo sulla cui legittimità vi sono però ad oggi molteplici resistenze teoriche. Al di là della discussione sulla fondatezza o meno di questa definizione – che andrebbe comunque se non altro presa in esame –, il problema che essa pone appare a mio avviso intransitabile: l’economia è creatrice di una forma peculiare di diritto, il diritto privato internazionale, che si afferma di pari passo alla destatalizzazione ed ha infatti come fine primo quello di rendere impotente l’azione di governo e l’azione legislativa dello Stato. Tale diritto interagisce con il diritto internazionale pubblico e lo condiziona pesantemente. Si esprime inoltre in tutta una serie di ambiti collaterali rispetto alla sfera formale del diritto, che andrebbero parimenti sondati (ci riferiamo, ad esempio,


alle interazioni economiche su scala internazionale tra diversi soggetti privati ed al piano di relazioni materiali che esse implicano).

bensì:

Si riconsideri ora anche la seguente affermazione – che corrisponde lato sensu alla seconda (2) delle tesi precedentemente elencate –: «L’économie politique, je crois que c’est fondamentalement ce qui a permis d’assurer l’autolimitation de la raison gouvernementale»22. Se però, quanto all’epoca del neoliberismo, l’orizzonte che si profila (4) è quello dell’assoluta assenza di governo statale, che ruolo assume l’economia politica quando non vi è più alcuna sovranità nazionale da ‘limitare’? E una volta estinto lo Stato – quanto tutt’oggi sta avvenendo –, è ancora lecito parlare di economia politica? Non si dovrà piuttosto invertire l’espressione, per parlare quindi della politica economica degli organismi internazionali e dei soggetti sovranazionali che esercitano il potere effettivo senza più alcun freno da parte delle autorità statali? In che cosa si sta trasformando l’economia politica per sopravvivere alla soppressione finanziaria dello Stato? Assume forse le vesti di un’economia giuridica che disciplina i rapporti tra gli organismi internazionali preposti alla regolamentazione del mercato e i soggetti che detengono le più alte concentrazioni di capitale? E che ruolo avrà l’apparato militare nell’epoca del superamento economico dello Stato – in che cosa esso è destinato a trasformarsi? Una sola cosa è certa: l’economia, che era nata per limitare il potere dello Stato (2), ora avverte il potere dello Stato come un proprio limite. È accaduta un’inversione essenziale, che ha come suo culmine la destituzione economica dello Stato per la liberazione definitiva del mercato. La quarta delle tesi presentate, quella relativa al Neoliberismo contemporaneo, è quindi l’esatto rovesciamento della terza tesi foucaultiana. Non più, quindi:

Ancora qualche ulteriore osservazione problematica, prima di terminare la presente riflessione. La prima concerne la sintesi costituzionale incarnata dallo Stato. Che tra alcuni dei principi sanciti costituzionalmente e lo sviluppo del mercato esista un insanabile contrasto è un fatto a tutti evidente. È lecito infatti postulare – ma è cosa che andrebbe più a fondo dimostrata – che il potere economico lavori alla soppressione dello Stato anche al fine di affrancare il mercato dai vincoli che la Costituzione prevede. Ma vi è un problema forse ancor più significativo poiché concerne la situazione attuale: la contraddizione che viene a crearsi quando, durante la progressiva dissoluzione dello Stato, esso conserva ancora alcune delle sue prerogative principali, come le spese per il mantenimento del Sistema Sanitario Nazionale, la Previdenza sociale o la promozione di opere pubbliche. La circostanza per cui nelle moderne nazioni occidentali tutti questi costi risultano ormai pressoché insostenibili, ha forse a che fare con il fatto che per poter essere gestiti essi prevedrebbero da parte dello Stato un controllo integrale delle proprie risorse. Sennonché proprio questo risulta impossibile a causa dell’obbligata cessione di sovranità che l’economia ha imposto allo Stato, il quale è dunque costretto a sopravvivere tramite l’attuazione di perpetue misure straordinarie. Ma le ripercussioni in politica interna sono enormi: politiche di ferrea austerità, aumento delle imposte sul reddito, contrazione dei consumi, definitiva abolizione di ciò che restava dello Stato sociale. Propongo di interpretare questi fattori di instabilità come conseguenze della cessione di sovranità da parte dello Stato imposta dal potere economico, cessione per la quale lo Stato non è più in grado di programmare complessivamente il proprio funzionamento economico. Il collasso sociale della società civile che si verifica in questi casi, andrebbe quindi compreso come un effetto interno del processo di destatalizzazione a cui il potere sovrano è sottoposto – qualcosa

È la stessa libertà economica ad istituire la sovranità dello Stato,

È la stessa libertà economica a destituire la sovranità dello Stato.

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(3)

(4)


di analogo a quanto sta succedendo in Grecia. Scrive André Orléan: «la sopravvivenza del sistema finanziario è stata garantita soltanto dall’intervento massiccio delle autorità pubbliche, intervento reso possibile perché queste autorità hanno dei fini propri che non sono, appunto, di ordine finanziario»23. E qual è allora l’«ordine» di questi fini? Essi non sono che il tentativo di realizzare un’azione, una pratica politica che possa giustificare – e in un certo senso produrre – l’esistenza dello Stato di cui abbisogna per potersi verificare. È grossomodo lo stesso di quanto accadeva durante il New Deal, quando ai disoccupati venivano fatte scavare delle buche per poi subito riempirle, in modo tale che risultassero realmente occupati pur svolgendo un lavoro illusorio, contribuendo al mantenimento della produzione ma con un’attività del tutto improduttiva. Eppure tale similitudine ha un pregio: è forse calzante per smascherare tutta la falsa coscienza dello Stato in dissoluzione e degli assurdi stratagemmi che i suoi difensori improvvisano poiché non accettano di vederlo morire. Se ragionare sulle politiche del neoliberismo può avere un senso, questo sta forse nel divenire consapevoli che non c’è molto da salvare, in quell’arida officina di conservazione. Non c’è nulla di più deleterio che rimpiangere il vecchio stato-nazione proprio ora che la sua parabola volge al termine. Né, per trasformarsi in strategia, la critica implora un ‘surrogato’ dello Stato. Meglio il mare senza sponde delle transazioni liquide, coi suoi vortici e le sue isole deserte. Le nuove forme nasceranno dalle metastasi del capitale.


2 – Che per Foucault il rapporto con l’economia sia di fondamentale importanza, lo si evince invece senza riserve dal seguente passo (il quale meriterebbe certo una discussione a se stante, che ci è però impossibile svolgere in questa sede): «Le problème qui fait l’enjeu des recherches dont je parle peut, je crois, se décomposer de

la manière suivante. Premièrement: le pouvoir est-il toujours dans une position seconde par rapport à l’économie? Est-il toujours finalisé et comme fonctionnalisé par l’économie? Le pouvoir a-t-il essentiellement pour raison d’être et pour fin de servir l’économie? Est-il destiné à la faire marcher, à solidifier, à maintenir, à reconduire des rapports qui sont caractéristiques de cette économie et essentiels à son fonctionnement? Deuxième question: le pouvoir est-il modelé sur la marchandise? Le pouvoir est-il quelque chose qui se possède, qui s’acquiert, qui se cède par contrat ou par force, qui s’aliène ou se récupère, qui circule, qui irrigue telle région, qui évite telle autre? Ou bien, faut-il, au contraire, pour l’analyser, essayer de mettre en œvre des instruments différents, même si les rapports de pouvoir sont profondément intriqués dans et avec les relations économiques, même si effectivement les rapports de pouvoir constituent toujours une sorte de faisceau ou de boucle avec les relations économiques?» (FOUCAULT M., Il faut défendre la société, Paris 1997, tr. it. Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Milano 1998, pp. 21-22). 3 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Paris 2004, p. 9, tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano 2005, p. 19. 4– Ibid., tr. it. ibid. 5 – «Cette transformation, elle consiste en quoi? Eh bien, d’un mot, elle consiste dans la mise en place d’un principe de limitation de l’art de gouverner qui lui ne soit plus extrinsèque comme

l’était le droit au XVIIe siècle, [mais] qui va lui être intrinsèque» (ivi, p. 12, tr. it. ivi, p. 22). 6 – Ibid., tr. it. ibid. 7 – Ivi, p. 15, tr. it. ivi, p. 24. 8 – Cfr. ivi, p. 15, tr. it. ivi, p. 25: «Eh bien, cet instrument intellectuel, le type de calcul, la forme de rationalité qui permet ainsi à la raison gouvernementale de s’autolimiter, encore une fois ce n’est pas le droit. Qu’est-ce que ça va être à partir du milieu du XVIIIe siècle? Eh bien, évidemment, l’économie politique». 9 – Ivi, pp. 16-17, tr. it. ivi, p. 26. 10 – «Je vais donc faire un saut de deux siècles, car je n’ai pas la prétention de vous faire bien sûr l’histoire globale, générale et continue du libéralisme du XVIIIe au XXe siècle» (ivi, p. 80, tr. it. ivi, p. 76). 11 – Riprendiamo un’acuta precisazione di Foucault, cfr. ivi, p. 83, tr. it. ivi, p. 79. 12 – ERHARD L., Gedanken aus fünf Jahrzehnten. Reden und Schriften, Dusseldorf 1988, p. 110, citato in FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, cit., p. 82, tr. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 78. 13 – Cfr. KEYNES J. M., The End of Laissez-Faire, in The Collected Writings of John Maynard Keynes (29 voll.), London 1971 sgg., IX. Essays in Persuasion, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di G. Berta, Torino 2005 4, pp. 107-133. 14 – «Il n’est pas possible de revendiquer une légitimité juridique dans la mesure où il n’y a pas d’appareil, il n’y a pas

de consensus, il n’y a pas de volonté collective qui puisse se manifester dans une situation où l’Allemagne, d’une part, est partagée et, d’autre part, occupée» (FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 19781979, cit., p. 84, tr. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 80). 15 – Ivi, pp. 85-86, tr. it. ivi, p. 81. 16 – ORLÉAN A., De l’euphorie à la panique. Penser la crise financiére, Paris 2009, tr. it. Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, a cura di A. Fumagalli e S. Lucarelli, Verona 2010, pp. 58-59. Il concetto di liquidità ‘finanziaria’ – e per ciò stesso virtuale e disumanizzata – espresso da Orléan, mi pare più pregnante di quello, più noto, tematizzato in BAUMAN Z., Liquid Modernity, Cambridge 2000, tr. it. di S. Minucci, Modernità liquida, RomaBari 2002, che risente a mio avviso di un’impostazione ancora essenzialmente umanistica. 17 – LASH S., URRY J., The End of Organised Capitalism, Cambridge 1987. 18 – SHANKAR JHA P., The Twilight of the Nation State. Globalisation, Chaos and War, London 2006, tr. it. di A. Grechi e A. Spilla, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, Vicenza 2007, 6, pp. 194-195. 19 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, cit., p. 79, tr. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 75. 20 – Cfr. ivi, p. 22, tr. it. ivi, p. 31.

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1 – Si vedano a riguardo i comunque recenti BONNAFOUS-BOUCHER M., Le liberalisme dans la pensee de Michel Foucault: un liberalisme sans liberté, Paris 2001; GRENIER J.-Y., ORLÉAN A., Michel Foucault, l’économie politique et le libéralisme, in «Annales. Histoire, Sciences sociales», 5, septembre-octobre 2007, pp. 1155-1182; VIGO DE LIMA I., Foucault’s Archaeology of Political Economy, Basingstoke (Hampshire) 2010 e ZANINI A., L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, Verona 2010. Tutt’altro discorso andrebbe invece fatto per il tentativo compiuto in AGAMBEN G., Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino 2009 (I ed. Venezia 2007), dove il rapporto tra oikonomia e governamentalità è sviluppato in un itinerario del tutto autonomo – dunque né ricostruttivo né storiografico – che pur facendo proprie le analisi svolte in Sécurité, territoire, population (cfr. ivi, pp. 125-128), le supera in direzione di ciò che in esse è rimasto impensato. Scrive infatti Agamben relativamente alla propria ricerca (ivi, p. 9): «Essa si situa pertanto nel solco delle ricerche di Michel Foucault sulla genealogia della governamentalità, ma cerca, insieme, di comprendere le ragioni interne per cui queste non sono giunte a compimento».


21 – Una breve considerazione – a mo’ di mero spunto critico – sul termine ε3. L’esponente che accompagna la variabile ε può essere così interpretato: mentre in presenza dello Stato liberale classico – quello di cui ci parla Marx, per intenderci – le dimensioni dell’economia sono ancora essenzialmente due (la produzione e lo scambio) – da qui l’espressione ε2, che indica una sorta di modello economico orizzontale –, nell’epoca della dissoluzione dello Stato l’economia sviluppa invece una terza dimensione, relativa alla finanza. Di qui l’epressione ε3, ad indicare appunto questa ‘verticalizzazione’ dell’economico che, astraendosi tanto dalla produzione quanto dallo scambio (che vengono comunque mantenuti), si muove ora anche all’interno di una dimensione altra, che rivela manifesti aspetti di virtualità. In breve: l’economia diviene volumetrica (il che non esclude che possa in futuro sviluppare anche ulteriori dimensioni: εn≥∞?). Evidentemente, però, la finanza era già presente ben prima del ’79 (basti pensare alle indagini – primonovecentesche – di HILFERDING R., Das Finanzkapital. Eine Studie über die jüngste Entwicklung des Kapitalismus, Wien 1910, tr. it. di V. Sermonti e S. Vertone, Il capitale finanziario, Milano-Udine 2011). Come sfuggire allora ad una tale osservazione? Ci si spiegherà specificando che le analisi presentate, così come quelle di Foucault, indicano delle tendenze, non descrivono dei ‘fatti’. Quando, ad esempio, si afferma che lo Stato liberale del XVIII secolo si fonda sull’economia politica come sua funzione interna, s’intende forse dire che esso non è più legittimato da alcun diritto che ne limita il potere? Se così fosse, potremmo portare come ‘prove’ tutta

una serie di eventi ed analisi strettamente storiografiche che apparentemente sovvertono la tesi avanzata in Nascita della biopolitica. Tuttavia, non si tratta di ricorrere ad una visione positivistica della storia – che pretende di basarsi sull’accertamento di ‘fatti’ in quanto tali indiscutibili – per destituire ogni tentativo di reperire degli implessi dominanti nell’articolazione politica del potere e del suo sviluppo. La domanda da porsi non è tanto che cosa fattualmente ‘esiste’ – o è ‘esistito’ – e che cosa no, bensì: qual è, in un dato periodo, la funzione dominante di cui il potere si serve (o si è servito) per governare processi reali – e porre se stesso come reale? In questi termini, si dirà allora che mentre nel regime ε2, σ1 l’asse del potere fa leva sul rapporto tra economia orizzontale (produzione, scambio) e Stato (dove quest’ultimo, nonostante sia subordinato alla prima, rimane comunque fondamentale per gli interessi del potere), nell’epoca del neoliberismo contemporaneo appare preminente la summenzionata formula ε3, σ0, che prevede l’imporsi di un’economia tridimensionale (produzione, scambio, finanza) essenzialmente destatalizzante – il che, a sua volta, non significa che, materialmente, non vi siano più nazioni, ma che ciò che di queste è veramente significativo non consiste tanto nel fatto che esse, per una sorta di ‘automatismo burocratico ereditario’, continuino a svolgere i compiti classicamente attribuiti allo Stato, ma nel processo di disgregazione a cui sono soggette. Detto più espressamente, σ0 non indica un annientamento ‘fattuale’ dello Stato, ma il fatto che oggi lo Stato è una funzione del potere economico in quanto soggetto a destatalizzazione.

Ciò che, dello Stato, dà luogo a processi reali, proviene dalla sua dissoluzione, non dall’‘insistenza’ con cui – in modo del tutto fittizio – continua ad esercitare le sue prerogative ereditarie. 22 – FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, cit., p. 15, tr. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), cit., p. 25. 23 – ORLÉAN A., Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, cit., p. 94.


Europa, economia, filosofia di Giovanni Leghissa

equilibrio dovuto al fatto che gli stati erano talmente potenti da temersi l’un l’altro, fino al punto da decidere di non farsi la guerra. Si trattò certo di una tregua parziale, visto che più tardi i massacri non mancarono di insanguinare il suolo europeo (si pensi al valore in qualche modo inaugurale delle guerre napoleoniche). Ciò che introduce una svolta − pur senza alterare in modo essenziale la struttura “westafalica” di fondo − è la Grande Guerra. Con la prima guerra mondiale, infatti, pur senza alterare la centralità dello stato-nazione quale attore principale della scena politica globale, si crea un colossale laboratorio politico all’interno del quale è nata quella declinazione peculiare del politico che è ancora la nostra, la cosiddetta “biopolitica”. Si tratta di un termine oggi abusato, utilizzato nei più svariati contesti. Qui ci si atterrà all’accezione originaria, che viene da Foucault, non per amor della filologia, ma perché ritenuta la migliore e la più produttiva al fine di impostare la questione del politico. L’importanza della prima guerra mondiale deriva dal fatto che lì, per la prima volta, si tocca con mano l’importanza essenziale delle masse in quanto portatrici di vita (vita che, in quel caso specifico, veniva sfruttata per condurre la guerra). Le masse immettono sulla scena politica bisogni vitali sui quali innestare direttamente il discorso politico. Lo stato-nazione postwestfalico si farà carico di quella vita, la renderà produttiva, la investirà di saperi specifici, la innalzerà al centro dei propri interessi, mutando però, progressivamente, il senso della propria funzione. Foucault, quando conia il termine nella seconda metà degli anni Settanta, nell’ambito di alcuni corsi tenuti al Collège de France1, ripercorre la genealogia di

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Questo intervento vuole essere una riflessione sul rapporto tra economia e politica con particolare riferimento all’Europa, che non solo è la nostra patria, ma è anche uno dei laboratori più interessanti in vista di una possibile articolazione innovativa del rapporto tra economia, filosofia e politica. Innanzitutto l’idea di Europa è filosofica, nasce in primis nella mente dei filosofi: prima di essere percepita come “patria comune” da qualcuno (che comunque per lungo tempo si è sentito membro di una comunità locale) l’Europa viene vissuta come terreno culturale comune, luogo di un’eredità di cui riappropriarsi. Un’eredità che per lungo tempo vive all’interno della comunità dei dotti, di quella che un tempo era detta la “Repubblica delle lettere”; si pensi agli umanisti, agli illuministi, alla lunga tradizione europea pre e post westfalica. Se nomino qui la pace di Westfalia, è perché essa costituisce un momento particolarmente significativo della nostra storia pregressa, a partire dal quale si è reso possibile pensare all’Europa come a un luogo in cui articolare un linguaggio politico condiviso, anche dopo la sparizione del latino quale lingua da usare per comunicare nella Repubblica delle lettere. La pace di Westfalia crea infatti un equilibrio che in parte è ancora il nostro, a dispetto della cosiddetta globalizzazione. Evocando la globalizzazione, si sente spesso parlare di “età postwestfalica”, ma sostenere che siamo usciti del tutto dalla fase westfalica è discutibile, per il semplice fatto che esistono ancora gli stati-nazione. Questi ultimi sono i soli global player rilevanti, di cui è tutt’ora necessario tener conto. Con la pace di Westfalia si raggiunse un


quella che secondo lui è la biopolitica, identificando appunto nello stato moderno le sue origini prime. Oggetto del nostro interesse primario deve essere qui, però, la forma recente di biopolitica. La biopolitica novecentesca è il tentativo da parte delle strutture di potere (che possono essere la scuola, la parrocchia, le ASL, qualunque piccola realtà legata al territorio così come lo Stato nei suoi organismi più pervasivi, quali l’agenzia delle entrate o le carceri) di farsi carico di ogni aspetto del vitale. La biopolitica si rapporta alla sfera del vivente-uomo, dell’homo sapiens, il quale ogni volta che interagisce con i suoi simili nello spazio pubblico mette in scena tutta la sua “vitalità”, ovvero agisce in quanto portatore di bisogni, di desideri, aspettative, di sogni ecc. Tutto questo è biopoliticamente rilevante, poiché le forme del pensiero politico contemporaneo sono interessate a farsi carico di ogni aspetto del vitale. La rivoluzione biopolitica non è un’opzione teorica ma un fatto, frutto di un processo lento ma inesorabile in quanto, secondo Foucault, essa è coalescente con la storia stessa dello stato. Ogni qualvolta interagiamo nello spazio pubblico abbiamo a che fare con realtà istituzionali che, nel loro stesso essere presenti sul territorio, hanno di mira gli individui in quanto esseri viventi. La biopolitica non è buona o cattiva in sé, ma è semplicemente il modo in cui le strutture di potere, nella loro microfisica – per riprendere un altro termine foucaultiano – agiscono intervenendo direttamente sulle vite degli individui in quanto portatori di bisogni vitali. A questo punto, alcune delle categorie classiche della politica entrano in crisi, rivelandosi di difficile utilizzo − si pensi alla tradizionale distinzione tra dimensione privata e dimensione pubblica, che non può valere nella realtà della biopolitica. Ora l’intervento del potere tocca il cittadino in prima persona, fa presa sulla sua corporeità, sulla sua sfera privata, andando a distruggere quel baluardo eretto dalla tradizione liberale proprio per difendere i diritti degli individui. Tutto questo riguarda in primis la questione del rapporto tra economia e politica

perché – e non è un caso che Foucault tocchi questi temi in un corso sul neoliberalismo – la biopolitica funziona meglio se elimina tutta quella pretesa particolarità del politico che, nella tradizione liberale classica, ottocentesca, serviva a preservare una sfera in cui gli individui, in quanto portatori di diritti, potevano autoaffermarsi liberamente. In quella sfera i cittadini si potevano ricavare una dimensione di libertà che permettesse loro di dire, tra le altre cose, “mi costruisco la mia felicità” (un concetto molto sentito in particolare dalla tradizione americana e sottolineato anche dalla Costituzione degli Stati Uniti). Il problema è che, per dare la possibilità a ciascuno di essere felice, la sfera politica va creata artificialmente. Questa visione liberale viene messa fortemente in crisi dagli interventi biopolitici in cui siamo quotidianamente immersi e coi quali ci confrontiamo: esiste una miriade di istituzioni che si prendono cura di noi nei vari contesti in cui operiamo e che potranno farlo ancora meglio quanto più queste istituzioni riusciranno ad agire con efficienza e senza troppe mediazioni. Nella tradizione liberale, la mediazione è infatti lo scopo principale della politica: il tempo passato (e perso) riuniti in assemblea a deliberare è la principale garanzia del fatto che stiamo godendo della nostra libertà. Tuttavia, questa serie di complicate mediazioni produce inefficienza. Il regime biopolitico, al contrario, tende alla massima efficienza ragionando in termini oggettivi: la felicità degli individui, infatti, deve essere misurabile. In altre parole, le istituzioni che intervengono biopoliticamente sono tenute a render conto del proprio operato. Basti pensare al termine inglese, di difficile traduzione, “accountability”: tutte le istituzioni pubbliche e private, tutte le organizzazioni devono rendere conto del proprio operato, sottoponendosi a meccanismi di audit che ne controllano la correttezza2. Qui ciò che conta sono i numeri, e non la percezione soggettiva degli individui: l’istituzione deve rispondere di fronte a se stessa, questo è il senso profondo della biopolitica e al tempo stesso il suo pericolo, come fa notare


economico, una logica che però non appartiene all’economia classica ma a quella della Scuola di Chicago degli anni Cinquanta. Prima di questo ristretto circolo all’interno dell’Università di Chicago, c’erano già dei luoghi istituzionali, come la Rand Corporation (tuttora esistente), in cui si applicava la teoria dei giochi ai contesti della Guerra fredda, vale a dire nell’ambito delle strategie americane di contenimento della potenza sovietica4. Il contesto dei think tanks, fatto di persone che condividono le giornate discutendo attorno a un tavolo, è il contesto ideale per creare l’humus adatto alla proliferazione di certe idee. Va ricordato che proprio nella Rand corporation lavorava anche quell’Arrow, futuro premio Nobel, che nel 1951 formulò quel teorema – noto come teorema di impossibilità5 − che mise in luce i limiti dei sistemi democratici rappresentativi se considerati alla luce delle scelte razionali compiute dai singoli individui, individui che quel modello teorico considera come attori razionali “puri”. Tale purezza starà al centro del sapere economico che pretenderà in qualche modo di trattare, in base ai propri modelli, ogni aspetto della vita associata. Decisivo qui è il fatto che il sapere economico, nell’ambito della Scuola di Chicago, si ponga come una scienza naturale, dotata quindi di quella capacità di previsione che alle scienze storico-culturali non può competere. Questo era esattamente l’argomento di Friedman: è possibile anche assumere il falso purché ciò che si afferma permetta di descrivere in modo corretto il comportamento effettivo degli umani. L’importante è che la teoria sostenuta funzioni, anche se si basa su presupposti non verificabili. Le idee neoliberali, però, non sono frutto della mente di un gruppo di economisti versati in matematica, hanno un background filosofico molto preciso: sono idee che coinvolgono un’antropologia, una metafisica, una certa idea di uomo e di felicità e che vengono tradotte in un secondo tempo in termini matematici (se l’economia è una scienza naturale, è necessario trovare una formula matematica, arrivare a dei teoremi

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Foucault. L’idea classica liberale e prima ancora illuministica di libertà perde significato in un contesto in cui ciò che conta è l’efficienza. Foucault è stato uno dei primi a impostare il discorso in questi termini, e tutti coloro che poi a lui si sono ispirati e ne hanno utilizzato l’apparato concettuale sono stati in grado di leggere in modo corretto alcuni fenomeni della nostra contemporaneità. Quando Foucault affronta il tema del neoliberalismo, lo fa focalizzando l’attenzione a una trasformazione profonda sia del politico, come si è visto, sia dell’economico. È questa trasformazione che permette a una certa idea di economia di saldarsi con quell’idea di politico che si afferma nel Novecento, e che il filosofo ci invita a chiamare, appunto, “biopolitica”. In quel contesto, Foucault esorta ad usare il termine neoliberalismo in un’accezione molto particolare e tuttora valida. Il termine “neoliberalismo” non indica la continuazione del liberalismo con altri mezzi, così come i regimi economici neoliberali non sono la semplice prosecuzione del capitalismo, ma indica una trasformazione profonda di quella che era la logica tradizionale, la logica “del profitto” (di memoria marxiana). La logica economica assume una connotazione molto peculiare quando l’economico non mira più semplicemente ai profitti ma si pone come obiettivo prioritario l’efficienza; questa si misura, sì, anche in termini di profitto, ma quest’ultimo altro non è che il risultato della monetizzazione dell’efficienza raggiunta. Si ha così a disposizione uno strumento molto efficace per il governo delle vite: il neoliberalismo non è l’estensione del mercato a tutte le sfere del vitale, ma del modo di ragionare economico a tutte le sfere istituzionali e organizzative in cui operano i soggetti. Su questo concetto sono nati però molti fraintendimenti. È diventato luogo comune sostenere la tesi, anche a livello di discorso accademico, secondo cui il termine “neoliberalismo” significa la dismissione dello Stato. La svolta consiste invece nel fatto che anche lo Stato si trasforma in impresa3. Lungi dallo scomparire, quindi, si rivela molto più presente; semplicemente si comporta secondo una logica di tipo


dimostrabili matematicamente). Questo discorso travalica, però, la cornice accademica ed esce dal contesto di quello che poteva essere un think tank finanziato dal governo americano o un istituto di ricerca universitario, per diventare pratica comune di governi e di aziende, proprio per il fatto che chi studia all’università assorbe queste teorie sui manuali di economia politica e si fa poi, a sua volta, portatore di quel tipo di discorso, che oggi non incontra ostacoli di alcun tipo. E questo nonostante fior di premi Nobel abbiano dimostrato, peraltro con gli stessi strumenti matematici, come alcuni assunti del discorso neoliberale della scuola di Chicago siano discutibili. Non sono degli outsider gli studiosi che all’interno della stessa scienza economica hanno riproposto altre tradizioni di pensiero, modi diversi di concepire l’economia. Tuttavia i loro discorsi sono rimasti marginali, ben lontani dal costituire il mainstream. Il discorso neoliberale, una volta affermatosi quale base indiscutibile di tutte le politiche economiche globali, porta alla sparizione della distinzione tra politico ed economico che costituiva il nocciolo della tradizione liberale classica. Era questa tradizione, come già sottolineato, a offrire la possibilità di ricavare quell’intercapedine tra il soggetto portatore di desideri e i luoghi del potere che su di lui intervengono proprio in quanto portatore di tali desideri (diritti, aspirazioni, sogni ecc.). Tale intercapedine è sempre meno gestibile perché la scienza economica pretende di essere in grado di fornire gli strumenti di governo ottimali per amministrare al meglio la vita del soggetto. Come questi esprima le proprie preferenze è irrilevante: si tratta comunque di grandezze matematiche, o in qualche modo matematizzabili, che diventano automaticamente entità rilevanti in termini. Da qui deriva la difficoltà di ricostruire la scena liberale classica in cui il politico è il luogo di decisioni economicamente non rilevanti, o almeno non nell’immediato. È la possibilità di costruire artificialmente una distinzione fra il contesto politico e quello economico che ha sempre permesso alla politica di creare quella

cornice alla realtà economica di cui la stessa realtà economica ha sempre avuto bisogno − almeno in un contesto capitalista classico, “pre-neoliberale” per così dire6. Il capitalista in quella concezione cercava unicamente il profitto: tutto ciò che esulava dalla sfera della produzione, dello scambio e dell’accumulo di profitti non riguardava lui ma la collettività, e quindi la politica. Ci sono ancora, ovviamente, istituzioni giuridiche del capitalismo che si occupano di tutto ciò che non è immediatamente percepito come economico, ma tutto questo perde oggi ogni significato e ogni efficacia dal momento che l’economico è immediatamente politico: lo stesso agire politico è infatti guidato dalle categorie dell’economico, adotta lo stesso modello di razionalità basato su di un individuo portatore di interessi che guidano e orientano la massimizzazione dell’utile individuale. Tutto questo ha delle conseguenze immediate per l’Europa e per i suoi cittadini. Innanzitutto l’Europa ha una responsabilità enorme per quel che riguarda la diffusione del progetto biopolitico neoliberale, poiché essa stessa nasce proprio come progetto politico che fa uso dell’economia per governare. Questa scelta deriva dalla consapevolezza che, per cercare di trovare un accordo tra cittadini di paesi diversi che discutono valori europei comuni, si finisce per farsi la guerra. La storia è costellata di guerre scatenate proprio nel nome di valori europei comuni (chi è portatore dei “corretti” valori comuni?), da nazioni che si sentivano la legittima incarnazione di questi valori7. Valori come quelli dell’Umanesimo e dell’Illuminismo che è difficile mettere davvero in discussione, valori che sostengono la libertà dell’individuo, la sua autonomia morale, la laicità dello stato. Istituendo in modo radicale la propria autonomia, il politico moderno sancisce la fine della teologia politica, salvo poi dover ricorrere a mitologie che compensino la mancanza così creata8. Il dio “degli europei” porta, all’inizio, ancora tracce teologiche, è vicino alla tradizione cristiana, ma non è totalmente assimilabile a una teologia


mettendosi d’accordo su riforme che negli anni porteranno all’euro e alla sua crisi attuale. L’idea che sta alla base dell’Unione europea e della moneta unica è un’idea intrisa di economia: si tratta, meglio, di una certa idea politica che usa una certa idea di economia per governare in un determinato modo, saltando alcune mediazioni democratiche classiche. Non si tratta tanto e soltanto di fare gli interessi delle grandi multinazionali, ma anche di essere coerenti con una certa idea di efficienza istituzionale: tutto questo è profondamente neoliberale, in linea con la tradizione neoliberale americana che in Europa si sta declinando secondo modalità sue proprie. Non è casuale che Foucault, quando tiene il suo corso sul neoliberalismo al Collège de France, parli più che della scuola americana degli ordoliberali tedeschi, una scuola di economisti attiva negli anni Trenta, esiliata da Hitler e tornata alla ribalta dopo il ’45, ispiratrice non solo della politica economica della Germania federale ma anche di quella europea. Quest’idea di governare le vite con l’economia è profondamente radicata nella storia dell’Unione europea, quella Unione europea in cui oggi ci si sta dibattendo per portare avanti un progetto di Europa federale. Non si può a tale proposito dimenticare la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia che costituisce un problema per la vita quotidiana di tutti noi. Essa grosso modo inizia negli Stati Uniti di Clinton, quando il presidente eliminò il Glass Steagall Act (un atto emanato nel 1934, a seguito della crisi del ’29, che stabiliva che le grandi banche potessero o assumere il ruolo di banche d’affari e quindi dedicarsi ai grandi investimenti, oppure occuparsi esclusivamente del private banking, la gestione dei risparmi dei cittadini). Da allora le banche sono libere di dedicarsi a entrambe le attività – cosa fino a quel momento strutturalmente e legalmente impossibile − con un conseguente problema in termini di espansione del volume d’affari dell’attività finanziaria. Anche in Europa tutti i grandi architetti dell’attuale Unione, ovvero del processo di unificazione culminato con l’introduzione

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cristiana specifica. Si pensi, ad esempio, al dio evocato dagli inglesi dopo la Glorious Revolution o a quello presente nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti: la figura che garantisce il fatto che gli uomini siano tutti uguali e quindi portatori degli stessi diritti di fronte alla legge ha ancora le fattezze del dio biblico. Con questo problema si confrontarono poi anche i rivoluzionari francesi, che istituirono il culto della Ragione prima, e dell’Essere Supremo poi, con Robespierre. Con l’avvento dei grandi regimi totalitari del Novecento, il fascismo italiano, il nazionalsocialismo e lo stalinismo, gli dei nati prima della modernità continuano, grosso modo, a non immischiarsi troppo nelle faccende politiche e vengono sostituiti da figure mitiche create ad hoc in modo tale da essere fruibili dalle grandi masse nate dai processi di razionalizzazione del sociale che caratterizzano la fase acuta della modernità. Sul fatto che l’uomo moderno sia quindi un uomo libero e responsabile non esistono dubbi, nonostante le varie declinazioni di quest’eredità comune moderna, liberale, illuministica dalle quali derivano i conflitti strutturali fra gli europei. In fondo anche il nazionalsocialismo di Hitler si configura come il desiderio di costruire un’Europa unita, l’Europa della Nazioni – ovviamente gerarchicamente ordinate. È un’Europa non inficiata dal materialismo, ma pervasa dallo “spirito europeo”, da quel Geist onnipresente nel Mein Kampf di Adolf Hitler. A tale manifesto programmatico si ispirerà tutta la politica nazionalsocialista, fino alle camere a gas, impregnate di Zyklon B, il gas in virtù del quale, come in un’orrenda alchimia criminale, si sarebbe dovuto purificare l’autentico spirito europeo. Partendo da qui, dal 1945 bisognerà decidere se continuare a disputare su chi sia più autenticamente europeo facendosi la guerra, o se ripartire da qualcosa di non puramente metafisico, ma di molto più pratico – come l’economia. Creare quest’unione, tra l’altro, era sentito anche come un’urgenza di fronte alla pressione dei due grandi blocchi, quello statunitense e quello sovietico. Nasce così l’idea di costruire un’Europa economica,


dell’Euro, sono soggetti che favoriscono pesantemente la finanziarizzazione dell’economia, e non solo nella City di Londra ma anche nell’Europa continentale. Quest’idea di governare la politica, le vite, servendosi di una certa idea di economia, sfruttando la razionalità economica, è qualcosa di profondamente radicato nella storia europea degli ultimi decenni. È però importante riuscire a prendere una certa distanza da questi aspetti, non al fine di demonizzare il neoliberalismo o l’economia finanziaria, ma soprattutto per reintrodurre quel grande progetto politico liberale classico che prevedeva un’autonomia del politico. Autonomia da realizzare ponendo un argine alle biopolitiche, agli interventi delle istituzioni nelle vite degli individui al fine di preservare una sfera di autonomia dell’individuo in cui l’ultima parola sulla propria vita spetti appunto all’individuo nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Tutto questo dovrebbe essere alla base di un discorso politico liberale che intenda ricollegarsi alla grande tradizione illuminista, che appunto considera l’individuo moralmente autonomo, responsabile di fronte a se stesso e alla collettività come presupposto di ogni costruzione del politico. Per portare avanti delle politiche che partano dall’individuo, ovvero da una certa idea di responsabilità individuale “assoluta”, è necessario reinventarsi un’azione collettiva che ponga un argine al neoliberalismo così da reintrodurre quell’intercapedine, quella sfera giuridica, che permette di vivere i diritti come qualcosa che risponde a una razionalità strutturalmente non economica, non argomentabile in termini economici.

1 – Cfr. FOUCAULT M., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (197778), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005; FOUCAULT M., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 197879), Feltrinelli, Milano 2005. 2 – POWER M., The Audit Society: Rituals of Verifications, Oxford University Press, Oxford 1997. 3 – Cfr. BRÖCKLING U., Das unternehmerische Selbst. Soziologie einer Subjektivierungsform, Suhrkamp, Frankfurt/M. 2007. 4 – Sull’importanza della Rand Corporation quale luogo di nascita delle idee economiche oggi dominanti, cfr. AMADAE S. M., Rationalizing Capitalist Democracy. The Cold War Origins of Rational Choice Liberalism, The University of Chicago Press, Chicago 2003. 5 – Cfr. ARROW K. J., Scelte sociali e valori individuali (1951), a cura di G. Vittadini, ETAS, Milano 2003. 6 – Un aspetto, questo, ben chiaro, agli autori della tradizione istituzionalista. Cfr., per esempio, COMMONS J. R., I fondamenti giuridici del capitalismo (1924), Il Mulino, Bologna 1981. 7 – Sul significato filosofico dell’idea di Europa, cfr. DERRIDA J., Oggi l’Europa (1990), a cura di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991. 8 – Su questi problemi restano fondamentali le considerazioni svolte in LEFORT C., Saggi sul politico. XIX-XX secolo (1986), Il Ponte, Bologna 2006, pp. 255-305.


Homo oeconomicus europeo: il mito originario, la costruzione dei miti, l’orizzonte di Maria Grazia Turri

Europa Europa che mi guardi scendere inerme e assorto in un mio esile mito tra le schiere dei bruti, sono un tuo figlio in fuga che non sa nemico se non la propria tristezza Vittorio Sereni, Italiano in Grecia, agosto 1942

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1. Il mito Europa Se si dice Europa i cittadini che la popolano pensano all’Euro o perlopiù unicamente a questa moneta, nonostante non sia adottata da tutti i paesi che compongono il Continente. Che cosa fa sì che l’Euro sia vissuto come un fattore identitario? Ed è vero che, come un certo numero di uomini delle Istituzioni, di opinionisti e molta pubblicistica hanno sostenuto, si tratta di salvare l’Euro per salvare l’Europa? O piuttosto, partendo dal fatto, incontrovertibile e inemendabile, che c’è una moneta adottata dalla maggioranza dei paesi, si tratta di riconoscere che questa e le altre articolazioni che costituiscono la dimensione economica hanno finito per dare senso e significato all’appartenenza all’Europa, facendo sì che esse siano considerate esaustive dell’humus culturale, sociale e finanche politico dei suoi cittadini? Il nome “Europa” proviene dal greco “Ευрώπη” che significa “grandi occhi” e ci vogliono occhi grandi per vedere e guardare lontano, per immaginare la configurazione delle relazioni politiche, culturali ed economiche fra dieci anni, visto l’inestricabile intreccio consolidatosi fra dimensione produttiva, monetaria e finanziaria, istituzioni, demografia e flussi migratori, che si intersecano, coinvolgono e in qualche modo determinano i processi culturali, educativi e sociali che a questi sottendono. Benché non sia chiara la dinamica di come il mito di Europa si sia trasferito

al Continente1, le sue prime tracce scritte risalgono ai tempi di Omero ed Esiodo, intorno all’VIII secolo a.C. Nell’Iliade Zeus evoca, tra i suoi molti amori anche quello con Europa, mentre nella Teogonia Esiodo accenna a un’Europa figlia di Teti – una delle divinità marine – e di Agenore, re di Tiro, città cananea e colonia greca in area mediterraneo-mediorientale. Il dio Zeus, innamoratosi di questa bellissima ragazza, decide di rapirla. Per far sì che nessuno se ne accorga, si trasforma in un toro bianco e insieme entrano nel mare e si dirigono a Creta, e dal loro terzo figlio, Minosse, germinerebbe la civiltà cretese, culla di quella europea. Cosicché il mito, da un lato, mette in scena il fatto che la nostra civiltà, prenderebbe avvio da un moto di passione. Tanto che, per ricordarne l’origine da cui assume il nome, il mosaico della Casa d’Europa a Cos del III secolo d.C. raffigura un piccolo Eros con la fiaccola che accende le passioni, e di conseguenza sarebbe dalla passione che ha origine lo spostamento di civiltà dall’Oriente all’Occidente; d’altro canto, il mito dà vita anche a una visione armoniosa del rapporto tra umano, divino e animale. Nell’epoca contemporanea la leggenda ha subito disparate metamorfosi, che riflettono i cambiamenti politici e culturali del Continente: fra le due guerre assume il significato di denuncia dei fascismi e del loro tentativo di compiere un ratto d’Europa, inteso come conquista ed espropriazione sanguinosa del Continente e dei suoi simboli, sostituendoli con quello del mito di carattere ‘ariano’, che raffigurava ed esaltava un’Europa bianca dalla razza pura. In questa direzione si spiegano per esempio le rappresentazioni di artisti come Max Beckmann, che nel 1933 raffigura Europa riversa su un toro bruno come


le camicie dei nazisti: lei è una giovane donna nuda con i capelli corti, in voga all’epoca, e l’urlo della violenza sul volto, mentre l’animale è raffigurato in tutta l’arroganza e la potenza del nazismo. Dell’idea stessa di Europa unita avevano tentato infatti di appropriarsi i fascisti e ancor più i nazisti nel periodo tra le due guerre e nel corso della seconda guerra mondiale, della qual cosa sono testimonianza il convegno del 1932 della Fondazione Alessandro Volta o i progetti nazisti presentati da Goebbels e von Ribbentrop nel 1942-43. Le grandi trasformazioni sociali e culturali nell’Europa di oggi hanno indotto raffigurazioni del mito in cui la figura femminile non è più vittima e nemmeno acquiescente, ma al contrario assume una posizione centrale e articolata. Compaiono Europe che esibiscono il segno delle stelle disposte in circolo, proprie della bandiera dell’Unione europea, o si stagliano su uno sfondo che rappresenta molte nazioni e bandiere diverse. La pittrice tedesca Ursula Bluhm ha ben espresso questo mutamento del costume e delle mentalità in un quadro del 1987, nel quale Europa campeggia al centro, dove l’acconciatura, il mantello del toro e le immagini sullo sfondo sono una miscellanea che evoca un mondo variegato, poliedrico, sfaccettato, multiforme, multivariato e proteiforme (vedi immagini a p. 55). Attualmente il senso di appartenenza europea si configura più come scommessa che come una realtà data, i cui prodromi sono già presenti al momento della stipula del trattato di Maastrich nel 19922, visto che questo fu accompagnato da una crescente incertezza su che cosa rappresentasse la specificità europea in campo culturale e che cosa volesse dire essere europei. E questo a dispetto del fatto che inizialmente, nella Dichiarazione del 1973 a Copenaghen, si configurasse come responsabilità verso il mondo. Una responsabilità che per certi versi viene confermata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore dal 1° dicembre 2009 e che costituisce parte integrante della Costituzione europea. Nonostante ciò, non ha preso avvio un processo volto a un’identità

dell’appartenenza, accompagnata dall’orgoglio dell’appartenere a un medesimo Continente; fattore che invece caratterizza l’Africa, le cui popolazioni, pur sovente belligeranti al proprio interno, al contrario, vivono. Il che vuol dire riconoscersi negli odori, nei suoni, nei volti, nelle parole e quindi in quella particolare disposizione emotiva che è la familiarità, il “sentirsi a casa”; una sorta di sentimento “quadro” che comprende la storia di un’esperienza e la sua evoluzione, quale essa sia. 2. Dalla nómisma al nómos Indubbiamente l’Europa non è più il centro, l’avanguardia e il meccanismo propulsore della modernità, piuttosto ricorda l’Angelus Novus di Walter Benjamin: un corpo volto al futuro ma uno sguardo indirizzato al passato. Eppure ha ragione Agnes Heller quando sostiene che gli europei sono vecchi ma l’Europa è giovane3. Appare comunque antiquato il vecchio dibattito fra paneuropeisti e antieuropeisti o euroscettici, perché in primo luogo si tratta di fare i conti con la realtà esistente: sono più di tre anni che l’Europa è nel pieno di una tempesta economica i cui esiti non sono agevoli da prevedere, anche se la sua esistenza appare meno compromessa di quanto lo fosse un anno fa. Cosicché l’Europa vive un periodo nel quale per la gran parte dei suoi cittadini esso è un luogo, un campo, un suolo e una dimora di molto dolore e sofferenze, ma queste sono le sole che possono produrre metamorfosi, le quali possono assumere un carattere involuto e conservativo o, sperabilmente, evolutivo e propulsivo. Ma per dirla con Marcel Proust solo il dolore è portatore di riflessioni e sono queste che fanno sì che l’uomo non sia una mens momentanea o un protozoo mentale e l’Europa sta infatti “riflettendo” su di sé. Il brand Europa, insomma, non gode di buona salute ma ha la scusante di essere sorto da poco e quindi richiede ancora un lavoro di comunicazione e marketing per consolidarsi, che può fondarsi sul modello organizzativo che l’ha caratterizzata, basato sull’integrazione e che dal secondo dopoguerra in poi ha consentito di far convergere verso l’alto, come in nessuna altra area del pianeta, il tenore di vita delle popolazioni.


contabile in scrittura contabile, salda debiti e crediti, consente di comprare qualsiasi prodotto o servizio e rappresenta, infine, per molti cittadini europei il modo in cui valutare e comparare le proprie ricchezze. Il processo è stato lungo e articolato, ma necessario e senza di esso l’Euro non sarebbe potuto esistere. L’esperienza dell’Euro non è però il primo tentativo che i paesi europei hanno compiuto per adottare una moneta unica e quelli precedenti ricordano nella loro dinamica e nei loro obiettivi quello attuale. Sul versante francese fu Napoleone III che dopo una prolungata crisi monetaria all’epoca del bimetallismo, indisse a Parigi nel novembre del 1865 una Conferenza monetaria, che diede vita alla Convenzione di Parigi del 23 dicembre del medesimo anno, dove prese corpo l’Unione monetaria latina4, che nonostante le ambizioni si limitò ad affrontare questioni prevalentemente tecnico-monetarie. L’Unione fu rinnovata nel 1885 e nel 1891 e poi riconfermata di anno in anno, ma ebbe di fatto termine con la prima guerra mondiale. Sul versante tedesco – dopo l’unione doganale del 1834, grazie alla quale crebbero fortemente i commerci – la Germania tentò di pervenire a una moneta unica e i passi decisivi si ebbero nel 1857 e nel 1871 con la fondazione del Reich e progressivamente con l’adozione del marco – Reichsmark – nel 1873, tanto che nel 1876 le vecchie valute regionali vennero dichiarate fuori corso. Ma anche in questo caso fu la guerra che ebbe inizio nel 1914 che pose fine alla coniazione della moneta d’oro tedesca. Del resto i processi di unificazione hanno sempre visto la moneta come protagonista, come testimonia anche la storia della lira italiana, la cui progressiva adozione ha accompagnato il processo di unificazione del nostro paese. Di converso, la chiave di lettura che sostiene che quella monetaria è l’unica dimensione attuata in Europa, sottovaluta il legame inestricabile fra economia monetaria e finanziaria, settori produttivi, istituzioni, aspetti demografici, flussi migratori e i processi culturali, educativi e sociali che a questi sottendono e che costituiscono un intreccio che tocca sempre più anche la dimensione ideale

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È solo dal 1° gennaio 2002 che molti paesi europei hanno deciso di sostituire le vecchie monete nazionali con l’Euro, nelle intenzioni segno e simbolo della comune appartenenza a un unico Continente. Molti hanno propagandato il fatto che l’Unione Europea è “solo” moneta dimenticando il lungo processo di integrazione legislativa, seppur incompleto e inadeguato, che l’aveva preceduta e che riguardava la libera circolazione di persone, merci e, in misura di gran lunga minore, capitali finanziari. In questo vengono confortati dal fatto che dentro alla crisi, a partire dal 2009, sono state introdotte misure che hanno finito per configurare una unione monetaria ancora più rafforzata, che ha però come contraltare un deficit di strutture politiche e istituzionali. E questo perché l’accento è stato posto in modo precipuo sulle regole di bilancio, accompagnate dalla proposta di un modello di governance ulteriormente piramidale nei livelli decisionali. Questo non sembra dare spazio alla creazione di nuovi modelli e contestualmente riduce di molto le competenze di quelli esistenti, generando così la sensazione, o meglio creando le basi, dell’annullamento di un’attiva cittadinanza politica che adotta metodi e contenuti su cui deliberare e non si identifica con la sola partecipazione al voto. Perché l’Euro diventasse la moneta unica europea si sono dovute redigere numerose normative. In primis il Trattato di Maastricht, che ha comportato regolamenti ad hoc da parte del Consiglio dell’Unione Europea, della Commissione europea, della Banca centrale europea. In seguito ogni paese ha dovuto promulgare una legge nazionale a ciò finalizzata e, infine, almeno in Italia, è stato necessario adottare specifiche norme che hanno coinvolto la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio dei ministri, i ministeri del Tesoro, del Bilancio e programmazione economica, delle Finanze, dell’Industria, commercio e artigianato, e quello delle Comunicazioni, e, ancora, istituzioni quali la Banca d’Italia, l’Ufficio italiano dei cambi, la Commissione nazionale per le società e la borsa, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, l’Azienda di Stato per gli interventi nel campo agricolo. Da allora l’Euro in Europa e non solo, passando di mano in mano, di scrittura


e culturale della vita sociale; un aspetto già molto presente e il cui esempio paradigmatico è un termine cardine nell’attuale dibattito economico, quello di “debito”, che in tedesco è espresso da Schuld e che in questa lingua corrisponde però anche a “colpa”, quando invece in italiano la radice delle due parole è diversa, in francese esistono dette e faute e in inglese debt e guilt. Il fatto che nella lingua tedesca i due concetti siano intimamente legati dal lessico rende impossibile a certe latitudini separare nettamente l’ambito economico da quello religioso e/o giuridico, dato il processo di unificazione che porta con sé l’inevitabile contaminazione che dal lógos conduce al nómos. Se nelle religioni monoteistiche la relazione colpa-debito viene sanata dal culto, nel capitalismo il peccato non viene redento, ma semmai riprodotto in forma allargata. Coloro che vedono nel debito il cardine della vita economica contemporanea argomentano infatti che l’individuo lavorerebbe per continuare a consumare e vivrebbe in funzione del consumo e pur di consumare contrarrebbe debiti che lo costringono a seguitare a lavorare per proseguire il pagamento di debiti inestinguibili5, che diventerebbero talmente ingenti da far sì che la colpa per i debiti dei padri ricadrebbe sui figli, da qui l’insostenibilità dei sistemi di welfare e di previdenza6. 3. Dal lógos al nómos Il mito originario di Europa sembra racchiudere tre aspetti rilevanti per la storia culturale del Continente, sfociata dall’intreccio fra quella greca e quella giudaico-cristiana: in primo luogo unisce la dimensione umana con quella animale e divina (Europa, il toro, Zeus), proprio come poi metteranno in scena le feste Dionisiache, durante le quali l’essere umano viene raffigurato come una via di mezzo fra un animale e un dio, una sorta di archetipo composto da istinti e passioni da un lato e saggezza ed equilibrio dall’altra; in secondo luogo Europa è al femminile, come se dovesse partorire se stessa; e in terza istanza il veicolo per costruire una nuova civiltà è l’attraversamento del mare, quel mare che è metafora della

dimensione economica in Carl Schmitt, il filosofo che porta alle conseguenze ultime la relazione fra “teologia politica” e “teologia economica” e che àncora la sua teorizzazione a ciò che caratterizza più di ogni altro aspetto l’elaborazione culturale europea, cioè il concettualizzare per categorie dicotomiche e il considerare la razionalità una facoltà contrapposta alle emozioni. Queste caratterizzazioni vengono da lontano e hanno avuto uno sviluppo in crescendo che ha portato a un avvitamento e a un rinforzo delle categorie mentali a esse collegate tanto da far sì che queste ultime sono apparse perlopiù come “oggettive”. L’argomentazione di Schmitt è stata fortemente criticata da Walter Benjamin, tanto che nell’Angelus Novus7 pone in evidenza che la politica non è la vera erede moderna della teologia8, bensì lo è l’economia e, nel frammento del 1921, dal suggestivo titolo Capitalismo come religione9, attribuisce al capitalismo tre caratteri specifico-specifici: la cultualità, di cui le teorie dell’utilitarismo e della felicità di Jeremy Bentham10 rappresenterebbero il cardine, poiché in esse l’economia è normata dal calcolo dei piaceri e delle pene, e il fine della massima felicità per il maggior numero di individui coincide con la massima utilità; dal che, per via transitiva, visto che armonia e felicità in economia coincidono e che felicità e utilità collimano, armonia del mercato e utilità individuale farebbero un tutt’uno. Il secondo carattere del capitalismo indicato da Benjamin è l’illimitatezza temporale del culto, con la conseguente pervasività della risorsa scarsa per gli umani, cioè il tempo cronologico. Il terzo carattere specifico del capitalismo sarebbe la colpa, in quanto elemento costitutivo della natura sociale delle relazioni. Dalla colpa deriverebbe il debito, un nesso particolarmente suggestivo e attuale e che affonda le proprie radici ne Il libro di Tobia11. Benjamin aveva sicuramente presente in questo argomentare il concetto di negatività di Kant – così come lo aveva presente Schmitt quando teorizza l’identità fondata sul nemico –, dato dalla mutua soppressione di credito e debito. Kant ha come riferimento il debito “negativo” e il credito “positivo”, due autentici opposti, e a questo collega


disciplina economica. Schmitt contrappone alle teorie di David Hume – poi sviluppate in modo compiuto da Adam Smith con la tesi della “mano invisibile” –, che si basano su una visione positiva della natura umana, le teorie che si fondano sulla sfiducia nella natura umana e che quindi accreditano il ruolo di uno Stato dominante. Egli evidenzia che, al posto della politica e dello Stato, il liberalismo pone due sfere eterogenee, la morale e l’economia, fatto da cui ne deriverebbe la riduzione delle categorie politiche a nozioni morali o economiche. A suo avviso il liberalismo finirebbe per misconoscere la realtà del politico e per mistificare il fenomeno originario della conflittualità interumana. In Il nómos della terra l’argomentazione centrale poggia sulla considerazione che il liberalismo, in nome del suo individualismo e della sua concezione della politica come prevaricazione e violenza, non è riuscito a elaborare una propria teoria positiva dello Stato, ma unicamente a formulare una critica della politica volta a salvaguardare gli spazi individuali di libertà. Ed è per questo che diventerebbe indispensabile l’intervento dello spirito e del commercio, cioè della morale e dell’economia. Cosicché il fondamento teorico dell’individualismo si muterebbe nel suo opposto, cioè nella critica al liberalismo e al liberismo economico. Schmitt rappresenta, per molti versi, il culmine teoretico della cultura europea che si è basata sostanzialmente su categorie dicotomiche e quindi di per sé normative, le quali hanno dato vita a un paradigma che ha condizionato l’intreccio fra ciò che distingue l’animale uomo dagli altri animali e il suo carattere morale, definendo di conseguenza anche che cosa è il bene e il male. Categorie che si sono formate prevalentemente in modo consustanzialmente duplice, l’una genera necessariamente l’altra e pragmaticamente o è l’una o è l’altra: male-bene, falso-vero, soggetto-oggetto, ingiusto-giusto, freddocaldo, cotto-crudo, essere-non essere, corpo-anima, biologico-culturale, emozione-ragione, inconscio-conscio, uomo-donna, maschio-femmina, attivo-passivo, esteriore-interiore,

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l’Aufhebung12, un termine usato per indicare grandezze che si riducono reciprocamente a zero, o che si annullano o sopprimono reciprocamente, e quindi divengono indifferenziate alla loro equazione13, tanto che è una grandezza che l’economia e la fisica considerano un nulla relativo. La teoria delle quantità negative sviluppata da Kant – che germina associando l’equivalenza con l’annullamento – non si discosta dal calcolo dei piacere e delle pene di Bentham, tanto che il filosofo di Königsberg la applica al concetto di qualità negative della psicologia, cioè alla valutazione del piacere e del dispiacere in valore assoluto e al crimine e alla punizione. In Per la pace perpetua14 tale teoria confluisce in una giustificazione metafisica e politica del sistema liberale del libero mercato e in una moderna teoria dell’equilibrio politico, che mostra una forte analogia con la “mano invisibile” di Adam Smith, poiché mette in campo un’astuzia storica che dovrebbe mantenere in equilibrio e perfezionare le distinte tendenze di individui, grandi gruppi e nazioni. Cosicché libertà dei diritti politici e libertà dei diritti sociali si erigono su un unico argomentare analogico, che vede come fondamento “la libertà”, un valore radicato nelle due “grandi narrazioni” su cui si fonda la cultura europea, quella biblica (il serpente di Eva) e quella grecoromana (la cicuta di Socrate), entrambe basate appunto sui concetti di libertà e di libero arbitrio15. Una libertà individuale che assume i caratteri collettivi nella liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, in un caso, e da Troia, nell’altro. Ed è precipuo il fatto che la critica al liberismo economico e ai postulati della teoria economica mainstream non sia venuta, negli anni ’50, solo da coloro che si riconoscevano politicamente in una visione marxiana o socialdemocratica, ma anche da uno studioso come Carl Schmitt, il quale adotta la ricordata metafora del mare16, una non-terra, per descrivere i processi economici. Non è un caso, infatti, che il nemico della Germania fosse stata in primo luogo proprio la Gran Bretagna, la nazione che più di ogni altra ha fatto nascere l’economia dei commerci e del mercantilismo e che è il luogo nel quale ha preso avvio la formalizzazione e la teorizzazione della


normale-anormale, malato-sano, brutto-bello. È la tradizione religiosa giudaico-cristiana che in prima istanza edifica e gerarchizza la propria prassi sulla dicotomia categoriale di impuro-puro, che in filigrana presiede in primo luogo quelle di male-bene. Le categorie duali oggi sembrano assumere prevalentemente l’aspetto di economia-resto del mondo, economia-finanza e soprattutto monetatutto ciò che non è moneta. Alla dualità non si sottrae il binomio razionalità-emozioni. Cosicché la bontà della razionalità ha permeato tutti gli ambiti sociali, e quello economico in particolare, in modo così profondo e radicato che attualmente è difficile ripristinare una configurazione teorica e una riconfigurazione pratica dell’agire umano quale si evince in primo luogo dall’osservazione che di esso facciamo quotidianamente e in seconda istanza dalle ricerche neuroscientifiche, che ne forniscono una trama molto complessa in cui le emozioni svolgono un compito positivo e sostanziale, come la gran parte della cultura orientale ha sempre sostenuto. 4. Il mito del lógos e la negatività del páthos In un mondo rapidamente contaminabile e condizionabile, risulta sempre più evidente che le dualità possono ancor meno che in passato dare conto della complessità che la realtà ci presenta, perché generano riduzionismi e fissano categorie e comportamenti che non tengono conto che anche solo il fattore tempo è portatore in sé di modifiche, un tempo che nella percezione subisce un’accelerazione per effetto delle tecnologie telematiche. Diventa così maggiormente evidente che pensare per flussi e connessioni non è facile e che la tendenza a riflettere per concetti statici e fissi e per letture del reale immobili e precostituite è assai più semplice. La bipartizione netta dei concetti, da un lato, costringe a semplificare e ridurre la realtà esperita e le conoscenze acquisite e/o ipotizzate a due sole classi, poiché si deve a forza “infilare” tutto quello che si percepisce e si valuta unicamente in due contenitori; dall’altro, la biforcazione rende apparentemente più semplice il controllo delle dinamiche sociali, che invece con le loro

articolazioni detronizzano l’essere umano dal suo antropocentrismo, inserendolo a pieno titolo come una delle componenti della natura, dando così spazio a una visione olistica del mondo che consiste nel dare importanza e rilievo all’interdipendenza dei viventi e quindi alle loro relazioni. Ed è di nuovo Carl Schmitt che ha proposto un’idea di identità fondata sul dualismo, sul “nemico”17, cosicché l’altro in quanto limite a me non può che generare relazioni fondate sulla contrapposizione. Una questione che trova le radici nuovamente nelle tesi avanzate da Kant - introdotte grazie alla distinzione da lui proposta fra limite e confine. Quest’ultimo può essere superato, mentre il limite va fondato in base all’esperienza che di esso è possibile avere, cioè tramite l’oltrepassamento dei confini stessi, i quali offrono la regola per la fondazione del sapere e della sua ragione. Il limite quindi non è soltanto qualcosa che ci fa conoscere ciò che sta al di qua di esso, ma è anche ciò che traccia una linea fra due domini che si toccano, ed è indubbiamente un termine che ha un carattere normativo, ma spinge intrinsecamente, di per sé, al suo superamento. La dualità kantiana fra ciò che sta al di qua o al di là è ripresa da Nietzsche e poi da Heidegger, per il quale il senso della vita è costituito dal limite della morte, tesi trasposta da Schmitt al politico, dando vita a una teoria fondata sul fatto che è il nemico che definisce l’amico, la guerra che definisce la pace, lo stato d’eccezione che definisce quello di normalità. Pertanto, in questa logica, se è il nemico che spiega lo “stato d’eccezione”, allora è possibile giustificare qualsiasi esercizio del potere, finanche la morte del nemico stesso, che in questo caso risulterebbe una morte “giusta”. La nozione di identità che si fonda sull’individuo razionalistico di Hobbes – che ritiene il singolo individuo, ovviamente semplificando, come “sporco, brutto e cattivo” e per questo giustifica uno Stato “forte” – si contrappone alla nozione dell’uomo per natura “simpatetico” proposta dalla scuola scozzese con Shaftesbury e Hutcheson, che a sua volta con la sua visione positiva giustificherebbe i concetti di libertà individuale, di libero arbitrio, di individualità e quello successivo, degenerativo, di individualismo; una tradizione, quest’ultima


teorica del positivismo assevera ulteriormente questa posizione, tant’è che la natura metafisica della razionalità ne diviene il cardine. Pertanto, in quest’ottica, l’essere umano assume il valore di persona proprio perché e solo se esercita una piena padronanza sulla propria natura animale connaturata come emotiva e di converso ha una natura animale per poter misurare su di essa il proprio statuto di persona. La concezione metafisica che ha esaltato la razionalità, secondo la quale è stata possibile la conoscenza scientifica come mezzo ideale per affrancare l’essere umano dai molti mali che lo affliggono, ha consentito alle diverse ideologie di tipo totalitario di affermarsi, con il conseguente corollario di un’idea di ragione come continuo progresso, che, liberando dai pregiudizi propri della teologia e della metafisica astratta, avrebbe consentito sempre maggiore e più concreta possibilità di controllo delle forze operanti nel mondo economico e politico-sociale. Questa tesi si è tanto più consolidata quanto più lo sviluppo tecnico scientifico ha assunto caratteri straordinari in termini di velocizzazione, ma ha anche prodotto una società caratterizzata dal mito del controllo. Mito che, da un lato, si scontra quotidianamente con una realtà che è carica di imprevisti, definita dal caso e piena di incertezza; dall’altra, favorisce l’idea che il mondo è un diritto invece che un’opportunità. Per lungo tempo la teoria economica ha utilizzato il concetto di spirito animale, intendendo con questo soprattutto il cieco desiderio di possedere, che coincide con l’immagine di un consumatore, di un attore economico, dominato dalle emozioni, da desideri irrefrenabili, da un istinto senza controllo e quindi facilmente manipolabile. Paradossalmente la teoria economica mainstream, quella che si è diffusa come il “verbo” nelle facoltà di economia di tutto il mondo dalla metà degli anni cinquanta del xx secolo, si fonda invece sull’idea che i soggetti economici abbiano sostanzialmente un comportamento razionale in quanto effettuano un calcolo dei costi e dei benefici nelle scelte possibili. L’economia, con le sue varie articolazioni, insegnata nelle università di tutto il mondo21, si basa perlopiù su dogmi molto forti quali

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che ha condotto alla giustificazione del liberismo economico, oggi visto come “il male dei mali”. Sembra che non abbiamo via di scampo: da qualunque lato la si prenda, la riflessione teorica europea sembra condurre a effetti negativi. E la faccenda si appesantisce se esaminiamo l’altro elemento fondativo, cioè il fatto che tradizionalmente si sia definito che ciò che fa sì che l’animale uomo sia tale non è altro che la razionalità, una peculiarità letta in contrapposizione all’emotività. L’idea che le nostre emozioni siano un elemento negativo per la singola personalità e nelle relazioni sociali ha una storia molto lunga e articolata e la razionalità è stata deputata, per molto tempo, a unico rimedio per l’essere umano dominato da paure, odi, disgusti, rabbie, gioie, in uno schema che a partire dalla mitologia è stato costruito come una scala che andava dal basso verso l’alto, come testimoniano le feste Dionisiache, dove l’uomo era raffigurato come una via di mezzo tra un animale e un dio, un sincretismo di bassi istinti emotivi e un olimpo di comportamenti equilibrati pieni di senso e di ragione. L’idea cardine è stata che le emozioni impediscano di per sé di pensare e soprattutto di pensare in modo “buono”, “saggio” e “utile” per se stessi e per gli altri. In misura ancora più marcata le emozioni sono state viste come una forza che impedisce il comportamento etico o morale. L’attuale rivalutazione del meccanismo emotivo18, che le neuroscienze fanno proprio, riabilita a tutti gli effetti questa componente umana, poiché sono le emozioni che dirigono la cognizione e innestano la riflessione19; e sono sempre le emozioni che generano valutazioni, essendo esse stesse una modalità espressiva delle valutazione, e definiscono molte dinamiche morali20. Dopo Platone e Aristotele, il passaggio da animale a persona sulla base della facoltà razionale viene sancito da Boezio, il quale definisce nel De duabus naturis et una persona Christi lo statuto di persona come naturae rationalis individua substantia. Ed è Cartesio che nel trattato sulle Passioni dell’anima convalida una supremazia assiologica della razionalità sulle emozioni, aspetto che verrà ulteriormente accentuato da Kant e poi da Voltaire, e l’intera storia


la “mano invisibile”, la razionalità degli agenti economici; e tra questi “dogmi” figura anche l’efficienza del mercato, messa però in dubbio per esempio da Émile Durkheim, che non credeva nelle proprietà miracolose attribuitegli invece da Herbert Spencer, e che anzi riteneva che il mercato fungesse unicamente da conferma delle disuguaglianze e non quale mezzo per il riequilibrio. In economia all’evidenza che l’uomo non è nelle condizioni di svolgere un processo razionale “puro”, poiché fortemente condizionato nelle proprie valutazioni e nei propri comportamenti da molti fattori per procedere in modo razionale, ha fatto eco una posizione definita di “razionalità limitata”. L’imitazione fissata dal mancato accesso delle informazioni in modo uniforme, dall’emotività e dalla mancanza di volontà. L’essere umano è visto quindi come un essere limitato nell’esercizio della facoltà della razionalità da queste insufficienze, benché la facoltà della razionalità permanga come il carattere che lo definisce per antonomasia. 5. I miti dell’Europa economica: razionalità e homo oeconomicus solipsisticus È Friedrich von Hayek che ha avuto l’indiscutibile pregio di insinuare il dubbio su uno specifico modello di razionalità22, dopodiché la disciplina economica, invece di mettere seriamente in discussione questo archetipo e pur di mantenere inalterata l’idea dell’homo oeconomicus rationalis, tenta di “aggiustare il tiro” avvalendosi di apporti provenienti dalla matematica e da metodologie e contenuti teorici differenti. Fra questi ne enumero alcuni perché hanno avuto influssi dirimenti nelle pratiche che hanno alimentato, e in alcuni casi ingenerato, la/e crisi finanziaria/e di questi anni: la teoria delle catastrofi di René Thom23; la teoria dei giochi di John von Neumann e Oskar Morgenstern24, e successivamente integrata e modificata da John F. Nash; il modello del processo adattativo di Richard Cyert e John March25; il modello della mente modulare di Herbert A. Simon26, corroborato dagli studi di Christine Jolls, Cass Sunstein e Richard Thaler27 o da quelli di Thomas Schelling28; dai diversi lavori empirici di Daniel Kahneman, Paul Slovik e Amos Tversky29 e dalla teoria dei frattali

sviluppata da Benoit Mandelbrot. Questa teoria è stata applicata al settore finanziario in relazione alle previsioni dell’andamento dei mercati. È una teoria che aveva come finalità la riduzione dei fattori di rischio, ma paradossalmente proprio questa teoria ha amplificato gli effetti negativi dei prodotti finanziari, come afferma il suo stesso ideatore30. Oggi di tutti questi approcci quello preso maggiormente di mira è quello monetarista, incarnato dalla cosiddetta “Scuola di Chicago”, che ha messo in piedi una difesa accanita del suo orientamento basato sulle aspettative razionali, respingendo l’idea che sia necessario un ripensamento radicale delle basi della disciplina. Tanto che un suo adepto, il premio Nobel Robert Lucas ha recentemente affermato che la crisi non è prevedibile in quanto la teoria non comporta questo tipo di eventi e quindi non deve essere messa in discussione. In uno scatto di esasperazione, poco prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet si è lamentato dell’inadeguatezza dei modelli economici e finanziari, sostenendo che «Nel mio ruolo di persona chiamata a prendere decisioni, durante la crisi, ho trovato i modelli esistenti di scarso aiuto. Dirò di più: di fronte alla crisi ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti tradizionali»31. Trichet proseguiva facendo appello a discipline diverse dall’economia, quali la fisica, l’ingegneria, la psicologia e la biologia. L’obiettivo era che gli studiosi afferenti a queste scienze dessero il loro contributo per spiegare i fenomeni economico-finanziari in atto. Era un urlo che richiedeva soccorso, ma era anche un grave atto d’accusa contro la scienza economica e contro i professori di economia e finanza presenti nelle facoltà di tutto il mondo. Trichet non si è appellato né agli storici, né ai filosofi, né ai sociologi, ovvero alla tipologia di studiosi di cui invece c’è un gran bisogno. In economia la nozione della razionalità e dell’individuo solipsistico affonda in modo organico non in Adam Smith, bensì in alcune sue interpretazioni. L’idea di un’armonia generata da una sapienza intelligente è stata accostata all’armonia stabilita nel mercato dalla “mano invisibile” di Adam Smith, che per il filosofo morale scozzese


la rotta della responsabilità sociale. Hegel, nella Filosofia del diritto, parlando della felicità recupera il termina Wohl, con il quale si intende il benessere individuale, e critica il liberalismo proprio per il fatto che assolutizzando l’astratto del mercato, dei traffici e dei commerci, delle leggi dell’economia, sacrifica il benessere dei singoli. Pur riconoscendo il diritto alla felicità, egli sviluppa una critica analitica alla felicità vegetativa, tanto che la sostituisce con il benessere come valore da salvaguardare contro il liberalismo astratto del mercato, come aveva del resto già indicato Emmanuel Joseph Sieyès35, il quale aveva sottolineato la contraddizione tra felicità e produzione capitalistica, e questo perché Hegel non ha più l’illusione, che ancora sussisteva in Rousseau e che si rinviene anche in Fichte, che sia possibile evitare l’infelicità anche di un solo individuo. È il marginalismo, che ha proprio in Bentham uno dei principali iniziatori, che tronca il legame diretto fra teoria economica e felicità, poiché progressivamente le relazioni umane vengono considerate unicamente una modalità strumentale per procurarsi beni che appagano bisogni, all’insegna di quel benessere così centrale per l’Hegel economista. Il bene diventa per antonomasia l’oggetto della relazione e le relazioni in quanto tali perdono valore, cosicché è l’azione del singolo soggetto che diventa il cuore della teoria a discapito della dimensione relazionale. Il marginalismo, disconoscendo la natura economica delle relazioni non strumentali, impedisce all’economia politica di indagare a fondo il tema della felicità e di spiegarne i paradossi. La concezione metafisica della razionalità come mezzo per affrancare l’essere umano dai molti mali che lo affliggono – con il conseguente corollario di un’idea di ragione in continuo progresso, che ha il compito di liberarlo dai pregiudizi propri della teologia e della metafisica astratta, dal “sonno della ragione”, e che consente sempre una maggiore e più concreta possibilità di controllo delle forze operanti nel mondo economico e politico-sociale – spinge Heidegger ad affermare che il dio della razionalità non consente di pregare o offrire sacrifici36. Una razionalità che per Max Weber nel sistema di produzione capitalista,

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coincideva con la Provvidenza. È stato il libro di William Paley Teologia Naturale, pubblicato nel 180232, e la metafora dell’orologiaio in esso contenuta a ispirare l’idea di un disegno sapiente della creazione e delle sue articolazioni. Per Paley la complessa struttura del mondo dei viventi richiede un disegnatore intelligente che ne conosce l’armonia intrinseca. La differenza sostanziale fra l’armonia celeste e quella di mercato è costituita dal fatto che nel primo caso è un artefice che stabilisce cosa c’è o non c’è, cosa è buono o non è buono per la comunità umana nella sua interezza; di converso nel caso del mercato sono le azioni dei singoli individui che danno vita a un’armonia in grado di far fronte anche agli “esclusi”, sopperendo così alle ingiustizie che colpiscono i singoli33. Se nel caso della religione la sapienza conosce le ragioni del perché l’ingiustizia – il male – colpisce il singolo e non deve né giustificarla né portarle rimedio, nel caso del mercato, che è composto dalla sommatoria degli atti dei singoli, a questo viene attribuito anche il compito morale di rimuovere le ingiustizie stesse. Sovente l’armonia celeste è stata accostata all’idea di felicità. La teoria economica moderna nasce proprio sul concetto di felicità individuale34 e sulla sua verosimile misurabilità e quindi sulla sua possibile razionalizzazione. Lo sviluppo della metodologia geometrico-matematica in grado di misurare le qualità individuali messa a punto dalla scuola di Parigi con Nicola Oresme e dalla scuola di Oxford con Tommaso Bradwardine diventa da parte degli economisti del Settecento il cardine delle argomentazioni circa il fatto che la quantità risultante dalla somma algebrica di “piaceri e pene” misurerebbe la felicità del singolo individuo, che andandosi a sommare a tutti gli altri darebbe vita alla felicità sociale. Un apparato teorico che, come abbiamo indicato, è presente ne La pace perpetua di Kant. Con lo sviluppo di una vera e propria disciplina economica si passa dall’idea di una vita armonica al diritto alla felicità, e dalla felicità pubblica si ripiega progressivamente verso quella unicamente individuale e così l’individuo diventa la sintesi dei diritti politici, civili e sociali, letti in chiave individualistica, perdendo


regolato unicamente dai rapporti economici, diventa capacità di calcolare; e dove le relazioni fra quantità, ovviamente sempre maggiori, diventano la cifra della natura qualitativa degli individui. Da qui l’idea che essere un imprenditore monetariamente ricco è il riconoscimento da parte della divinità del corretto comportamento morale ed etico, con una correlazione diretta fra economia e la dimensione del bene e del male individuale. Il sociologo Robert Merton sostiene che la banalizzazione è un’eccellente modalità per inaridire la verità e che alla banalizzazione si attinge sconsideratamente. E così è stato per quanto concerne la distinzione fra individuale e individualismo, facendoli per lo più coincidere. Ma mentre l’individuale inerisce al principio di individuazione, l’individualismo è riconducibile al carattere delle relazioni sociali. L’individualità è lo stile complessivo, è il modo in cui l’individuo attraversa il proprio habitat e lo determina, nella forma di una concordante unità con tutti i suoi modi di comportamento, è la definizione della propria haecceitas37, mentre l’individualismo è il distacco dall’altro. La propaggine terminale dell’idea di individuo come oggetto isolato completamente sganciato dalla società e legittimato nel suo irenico isolamento è stata teorizzata in modo radicale in economia da Carl Menger, per il quale l’individualismo è metodo e contenuto. Successivamente questa tesi è stata portata avanti da Ludwig von Mises e in modo assai puntuale proprio da Friedrich von Hayek, che propone di bandire il termine sociale dal vocabolario e opera la distinzione fra individualismo buono e individualismo cattivo. Quest’ultimo incarnerebbe un falso individualismo, trattandosi dell’individualismo razionalistico della tradizione cartesiana, la cui critica prende le mosse dalla convinzione di Hayek che le istituzioni sociali siano il risultato di una deliberata progettazione o contrattazione umana e non il frutto naturale del comportamento individuale. Ben prima di Hayek già Georg Simmel aveva indicato – per una strada teorica diversa, ma sempre con Kant come sfondo – l’individualismo come il parametro della formazione del valore in sé, delineando anch’egli due forme di individualismo38:

l’individualismo della eguaglianza e l’individualismo della differenza. Il primo risultato dell’integrazione fra libertà ed eguaglianza, mentre il secondo è caratterizzato dal fatto di marcare con forza la forma specifica, unica e incomparabile di ciascun individuo, il quale necessita del rispetto imprescindibile della sua libertà interiore. Tenere insieme i due aspetti non è semplice, non solo teoricamente, ma in primo luogo pragmaticamente. Anche l’intera teoria dei diritti politici e civili si basa pressoché totalmente sul concetto di individuo solipsistico. È la teoria dei diritti sociali che apre lo spazio alle relazioni e alle loro dinamiche, e la relazione porta con sé il ruolo della responsabilità verso di sé e verso gli altri. L’Europa si trova sostanzialmente a un bivio della propria storia: uniformare la direzione del volto a quella del corpo, cambiando così la rotta dell’Angelus Novus. Si tratta, da un lato, di separarsi da alcune idee precostituite, già fortemente incrinate non solo dalla crisi in atto che produce scompiglio finanziario, sofferenza economica e un certo caos politico, ma anche dalla tecnologia e dagli studi neuroscientifici; dall’altra è soprattutto indispensabile rielaborare i nostri modelli intellettuali in modo da vanificare le parole che Sartre scrive nella prefazione ai Dannati della Terra di Franz Fanon: “Che cosa è successo? Eravamo i soggetti della storia e ora ne siamo gli oggetti”39. In questo tornano attuali le parole con le quali termina il Manifesto di Ventotene, il testo del 1941 messo a punto da un gruppo di antifascisti confinati sull’isola omonima. Da questo scritto prende avvio la riflessione sulla formazione del Continente Europa, che sin dalla sua origine vede figure appartenenti a paesi differenti e che si conclude con questa dichiarazione: “Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie fra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò


raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi per raggiungerlo. La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà”40.

1 – L. Passerini (2002), Il mito d’Europa. Radici antiche per nuovi simboli, Giunti, Firenze. 2 – T. Padoa-Schioppa (1992), L’Europa verso l’unione monetaria, Einaudi, Torino. 3 – A. Heller (2011), La philosophie qui dérange, in “Le Monde”, 12 marzo. 4 – Per quanto concerne la Convenzione del 23 dicembre 1865 si veda F. Marconcini, (1929), Vicende dell’oro e dell’argento. Dalle promesse storiche alla liquidazione dell’Unione Monetaria Latina (1803-1925), Milano, pp. 338-341.

6 – In diverse circostanze la legge di modifica delle pensioni varata dal “governo Monti” è stata giustificata sulla base della tesi che il debito pubblico contratto dalle generazioni precedenti ricade sui figli e quindi i padri devono rinunciare ad alcuni privilegi. 7 – W. Benjamin (1955), Schriften (tr. it. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995). 8 – C. Schmitt (1932), Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, Berlin (tr. it. Il concetto

9 – W. Benjamin (1921), Kapitalismus als religion, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt/M., vol. VI, 1991, pp. 100-103 (tr. it. Capitalismo come religione in Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011, pp. 83-89 e in W. Benjamin Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 284-287). 10 – J. Bentham (1789), Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Utet, Torino 1998. 11 – G. A. Anderson (2009), Sin. A History (tr. it. Il peccato. La sua storia nel mondo giudaicocristiano, Liberilibri, Macerata 2012). 12 – Questo aspetto è stato affrontato in modo più analitico in Maria Grazia Turri La distinzione fra moneta e denaro, Carocci, Roma 2009, pp. 57-59. 13 – I. Kant (1763), Versuch den Begriff der negativen Grössen in die Welweisheit einzu führen (tr. it. Tentativo di introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, Laterza, Bari 1953, p.264). 14 – I. Kant (1795), Zum ewigen Frieden (tr. it. Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2003). 15 – A. Heller (2005), La libertà. Grande narrazione dell’identità europera, in “Lettera Internazionale”, 3. 16 – C. Schmitt (1950), Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (tr. it. Il nomos della terra Adelphi Milano 1991); La libertà dei mari è il titolo del terzo capitolo del testo.

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5 – Z. Baumann (2007), Consuming life (tr. it. Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008); S. Latouche (2006), Le pari de la décroissance, (tr. it. La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007); S. Latouche (2007), Petit traité de la décroissance sereine (tr. it. Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008); M. Pallante (2007), La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Editori Riuniti, Roma; M. Pallante (2011), Meno e meglio. Decrescere per progredire, Bruno Mondadori, Milano.

di “politico”, in Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1998, pp. 87-208).


17 – C. Schmitt (1922), Politiche Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität (tr. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1998, pp. 61-74); C. Schmitt (1932), Der Begriff des Politischen, (tr. it. Il concetto di “politico”, in Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1998, pp. 87-208).

generale dei modelli, Einaudi, Torino 1980).

18 – A. R. Damasio (1999), The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciousness (tr. it. Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000); A. R. Damasio (2003), Looking for Spinoza. Joy, Sorrow, and the Feeling Brain (tr. it. Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2003).

26 – H. A. Simon (1957), Models of Man; Social and Rational , Mathematical Essays on Rational Human Behavior in a Social Setting, John Wiley and Sons, Inc., New York.

19 – A. R. Damasio (1994), Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain (tr. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1997). 20 – P. S. Churchland (2011), Braintrust: What Neuroscience Tells Us about Morality (tr. it. Neurobiologia della morale, Cortina, Milano 2012). 21 – O. Blanchard (2006), Macroeconomics, Pearson Prentice Hall, Upepr Saddle River (tr. it. Macroeconomia, il Mulino, Bologna 2009, pp. 214215). 22 – F.A. von Hayek (1942), The Conceit of Knowledge (tr. it. La presunzione del sapere, in Id., Conoscenza, mercato, pianificazione. Saggi di economia e di epistemologia, il Mulino, Bologna 1988). 23 – R. Thom (1972), Stabilité structurelle et morphogénèse. Essai d’une théorie générale des modèles (tr. it. Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria

24 – J. von Neumann e O. Morgenstern (1944), Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton. 25 – R. M. Cyert, J. G. March (1955), A Behavior al Theory of the Firm, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, New York.

27 – R. H. Thaler (1996), Doing Economics without Homo Economicus, in Foundations of Research in Economics: How Should Economists Do Economics?, 227, pp. 230-35; C. Jolls, C.R. Sunstein, R.H. Thaler (1998), Theories and Tropes: A Reply to Posner and Kelman, in “Stanford Law Review”, 50, pp. 15931608; R.H. Thaler (2000), From Homo Economicus to Homo Sapiens, in “Journal of Economics Perspectives” 14, pp. 133-141. 28 – T. C. Schelling (1978). Micromotives and Macrobehavior, Norton, New York. 29 – H. Simon (1957), Models of Man, Wiley, New York; D. Kahneman, Paul Slovik, Amos Tversky (1982), Judgment under Uncertainty:Heuristics and Biases, Cambridge University Press, Cambridge. 30 – B.B. Mandeltrop, R.L. Hudson (2004), The (Mis)Behavior of Markets. A Fractal View of Risk, Ruin, and Reward (tr. it. Il disordine dei mercati.Una visione frattale di rischio, rovina e redditività, Einaudi, Torino 2005).

31 – H. Dawies (2012), La crisi? Roba da epidemiologi, Il sole 24 Ore, 21 agosto. 32 – W. Paley (1802), Natural Theology; or, Evidences of the Existence and Attributes of the Deity, Oxford University Press, Oxford. 33 – Si tratta della tesi del trickle down, secondo la quale l’arricchimento dei già ricchi ha un effetto benefico sull’intera economia, perché la ricchezza dall’alto ‘sgocciola’ sugli strati inferiori e tutti ne traggono beneficio. 34 – L. Bruni (2002), Felicità e scienza economica – Storia, problemi aperti e spunti teorici, in P. Sacco, S. Zamagni (a cura di), Complessità relazionale e comportamento economico, verso un nuovo paradigma di razionalità, il Mulino, Bologna 2002; anche in http://dipeco. economia.unimib.it/pdf/ pubblicazioni/Wp48_02. pdf 35 – E. J. Sieyès (1789) Qu’est-ce que le Tiers-État? (tr. it. Che cosa è il Terzo Stato?, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1992). 36 – M. Heiddeger (1927), Phänomenologie und Theologie, lecture in Tübingen, 8 Juli (tr. it. Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994). 37 – M. G. Turri (2012), Biologicamente sociali, culturalmente individualisti, Mimesis, Milano, p.349. 38 – G. Simmel (1901-02), Die beiden Formen des Individualismus, ex Das freie Wort, (tr. it. Le due forme dell’individualismo, in La legge individuale e altri saggi, a cura di F. Andolfi, Pratiche, Parma 1995, 31-39).

39 – F. Fanon (1961), Les damnés de la terre (tr. it. I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000, p. LVI). 40 – A. Spinelli (1985), Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto in Il progetto europeo, il Mulino, Bologna, pp. 17-37.


Popoli, stati e nazioni. Perché l’Europa ha smesso di funzionare? di Leonardo Ebner

ampiamente dimostrato. Il meccanismo politico-sociale dell’Europa ha perso d’efficacia e pare non essere più in grado di analizzare le dinamiche interne ed esterne e, di conseguenza, di funzionare come un valido strumento di elaborazione di adeguate risposte politiche. Aver perseguito la strada dell’intranazionalismo come principio fondamentale per il processo decisionale dell’Unione, ha fatto in modo che i singoli stati mantenessero il proprio diritto di veto sulle decisioni comunitarie. Ogni decisione – perfino la più centrale, come l’adozione di una Costituzione europea – è infatti sottoposta alla mediazione dei rappresentati dei diversi paesi, con il principale risultato di acuire le differenze e le peculiarità nazionali, rallentando l’integrazione tra i componenti dell’UE. Non sorprende allora che le istituzioni europee risultino prive della necessaria legittimazione per poter operare e affermarsi come organismi indipendenti e sovrani. Questa situazione di stallo avrebbe potuto protrarsi ancora a lungo, in un estenuante gioco di rimandi e contrattazioni al ribasso, se l’economia europea e quella mondiale non fossero entrate in una fase di profonda crisi.1 Si è così imposta la questione dell’equilibrio tra un mercato economico globalizzato e dei soggetti politici impotenti e impreparati, gli stati nazionali. Il problema della sovranità europea di fronte al mercato globale e ad attori economici internazionali può essere affrontato perciò come una questione di rappresentanza e di rappresentazione politica interna all’Europa. Il libero mercato e la classe media diffusa Per analizzare il problema della crisi

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Introduzione Nel corso dei decenni, l’architettura delle istituzioni europee è diventata sempre più raffinata ed estesa e, nel tentativo di colmare i vuoti tra le politiche dei diversi paesi membri, è giunta progressivamente ad assumere una propria indipendenza e identità. Si è così creato un nuovo spazio politico non solo tra gli stati ma anche al di sopra di essi. Se oggi si provasse a immaginare l’Europa come un meccanismo dotato di ingranaggi, leve e contrappesi, si rimarrebbe stupiti, e forse ammirati, per la complessità raggiunta. Questo meccanismo sembra però essersi ingrandito a dismisura, perdendo di vista la ragione della sua stessa esistenza. In questo senso l’Europa e le sue istituzioni appaiono allora come un’enorme macchina in grado di replicare autonomamente i propri movimenti, senza però riuscire a produrre niente di nuovo. Seguendo questa visione meccanicistica dell’Unione europea è lecito quindi chiedersi: perché l’Europa ha smesso di funzionare? E in quale momento il processo di evoluzione ha cominciato a diventare autoreferenziale e conservativo? Senza dubbio, in questi anni gli stati membri del’UE hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, rinviando il momento in cui affrontare le questioni centrali per l’esistenza dell’Unione stessa, con il rischio di far implodere l’intera struttura istituzionale europea. In questa prospettiva, anche l’adozione di una moneta unica è apparsa, fin dal momento della sua introduzione, una mossa tanto azzardata quanto coraggiosa. Avrebbe potuto segnare la via da seguire per l’intera Europa, e invece ha condotto alla creazione di un quadro economico comune privo dei necessari contenuti politici – come la crisi finanziaria iniziata nel 2008 ha


di sovranità che sta rendendo l’Unione europea sempre più inerme di fronte al potere dell’economia di mercato, si dovrà porre la questione come un problema di organizzazione del potere politico in Europa, cercando di comprendere in quale maniera le democrazie europee possano trovare un comune assetto di gestione del potere politico e come questa struttura riesca a legittimare la propria sovranità. Nelle moderne democrazie occidentali lo sviluppo del mercato economico di tipo capitalistico si è infatti sovrapposto al modello della rappresentanza democratica, volto a garantire, in misura diversa a seconda del contesto, le libertà individuali e l’uguaglianza tra i cittadini di un Paese (cfr. Crouch 2004). In questo contesto, si potrebbe affermare allora che il capitalismo sia una precondizione necessaria ma non sufficiente affinché la democrazia possa radicarsi; questo non significa che il capitalismo abbia in sé caratteristiche democratiche, ma piuttosto che esso permetta a una sempre più vasta platea di persone di emanciparsi da antiche forme di potere e di accrescere la propria ricchezza materiale (Galli 2011). Se però il modello delle democrazie liberali si regge sul sogno di uguaglianza che individua nella middle class il tipo ideale di cittadino benestante che ogni sistema di welfare pubblico aspira a diffondere (Krugman 2008, Gallino 2012), va ugualmente ricordato come, all’interno di un quadro globale, il sistema economico abbia creato una rete priva di centri nevralgici, in grado di superare e influenzare le politiche nazionali e comunitarie, secondo una struttura che potrebbe essere variamente descritta come un “impero” (Negri e Hardt 2000) oppure declinata come una nuova forma di “capitalismo ibrido” (Castronovo 2011). Sarà allora necessario cercare di capire per quali ragioni la stessa struttura che ha contribuito in modo essenziale a gettare le basi dell’odierna Unione europea oggi ne stia determinando una grave crisi: pare che proprio le nuove dinamiche economiche stiano privando l’Europa della sua autonomia politica. Infatti, nonostante manchi un unico modello di sviluppo comune ai diversi

contesti sociali e politici, alla base della crescita economica e della costruzione politica. Vi sono alcune fondamentali caratteristiche comuni che hanno permesso alla cosiddetta “società del benessere” di diffondersi nelle democrazie europee. Il modello sociale – o non-modello, secondo i critici come Daniel Cohen (2006) – su cui si è retta la costruzione dell’Unione europea è la compenetrazione tra l’ordinamento democratico dei paesi membri e la loro partecipazione al mercato capitalistico. Questo modello (stato sociale e libero mercato) ha sostenuto la formazione di una classe media diffusa, secondo modalità e declinazioni differenti a seconda della cultura politica e delle tradizioni sociali delle varie aree del continente. Il non-modello europeo In Europa, lo stato sociale si è sviluppato seguendo tre modelli differenti, che rispecchiano a loro volta tre diverse tradizioni politiche: il modello liberale, il modello corporativo e il modello socialdemocratico (Esping-Andersen 1990, pp. 41-43)2. Il modello liberale è fondato sulla valutazione dei bisogni in un contesto di libero mercato del lavoro incoraggiato dall’azione statale. In questi paesi – principalmente anglosassoni – predomina una forte etica del lavoro, per cui l’intervento pubblico mira a sostenere nella maniera il più possibile limitata i lavoratori con difficoltà economiche o i disoccupati. Il compito di redistribuire la ricchezza e sostenere gli svantaggiati è delegato al mercato economico, mentre lo stato limita al minimo il proprio sostegno previdenziale, oppure favorisce lo sviluppo di sistemi previdenziali privati. Nel modello corporativo, invece, il riconoscimento dei diritti sociali non è messo in discussione dall’avanzamento dello spazio occupato dal mercato economico; si tratta di paesi in cui l’eredità statalista e corporativista ha contribuito a formare una struttura sociale postindustriale nella quale i diritti e le libertà sono strettamente legati alla classe sociale


Tre idee di libertà Quello delineato grazie alle analisi di Esping-Andersen è quindi un “nonmodello” sociale europeo, che mescola in sé elementi di corporativismo, liberismo economico e socialdemocrazia, creando così una strana entità politica nella quale, a seconda delle zone geografiche, prevalgono certe caratteristiche del welfare piuttosto che altre (Cohen op. cit., pp. 74-76). La motivazione di questa differenza può essere ricondotta a tre diverse tipologie di libertà che si sono sviluppate in Europa e che avrebbero influenzato lo sviluppo delle istituzioni politiche e sociali (d’Iribarne 2006, pp. 22-53). La libertà nella tradizione anglosassone è infatti legata al concetto di proprietà, per cui essere liberi significa non appartenere giuridicamente a nessuno e disporre a propria volta di mezzi di produzione o essere i titolari della propria forza-lavoro. Per questa ragione, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, che sono sistemi fondati sul pieno impiego, la principale politica sociale consiste nella lotta alla disoccupazione (Cohen op. cit., p. 78). In ambito tedesco, invece, “libertà” significa principalmente avere il diritto a partecipare a una comunità politica, e quindi ottenere il riconoscimento degli altri membri della società, scegliendo di sottostare alle regole comunemente stabilite e valide per chiunque. La terza categoria, infine, è quella della libertà francese, secondo la quale un uomo può definirsi libero soltanto se obbedisce alla “logica dell’onore” che lo spinge a essere fedele alla propria classe d’appartenenza. Il sistema francese sarebbe quindi animato da due elementi contrastanti e mai conciliati: i valori egualitari del cattolicesimo e i valori aristocratici della nobiltà e della superiorità. Questa dicotomia, solo apparentemente artificiosa, tra uguaglianza universale ed elitarismo trova numerose dimostrazioni pratiche nel sistema sociale francese. Come spiega Daniel Cohen con un esempio: “la dicotomia tra le Grandes Écoles e l’Università è una buona illustrazione della scissione francese. L’Università eredita i valori clericali: rifiuta qualsiasi selezione all’ingresso, dalla quale invece

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e al censo. In paesi come Francia, Italia e Germania – nonostante le evidenti differenze che li dividono – il mercato economico non riveste il ruolo centrale che invece il modello liberale è solito attribuirgli. Nel modello corporativo, il welfare poggia principalmente sui lavoratori capifamiglia e tende a escludere le madri non lavoratrici, che sono invece incentivate a ricoprire una posizione fondamentale in famiglia. È pur vero che nelle democrazie europee i tre principali attori dei sistemi di welfare sono da sempre lo stato, il mercato e la famiglia ma, all’interno del modello corporativo, va rilevata la deriva familistica dello stato sociale presente soprattutto nei paesi mediterranei e, in particolare, in Italia (Esping-Andersen 1999). Accade infatti che il mondo del lavoro privilegi con maggiori retribuzioni e misure di previdenza più alte gli uomini e i padri di famiglia, delegando alle famiglie il compito della redistribuzione e il reciproco sostegno tra membri di uno stesso nucleo. In questo modo si dà origine a una struttura sociale nella quale le famiglie tradizionalmente intese sono favorite rispetto a qualsiasi altro genere d’unione e condizione civile. All’interno dei nuclei famigliari, infatti, resta ancora forte la dipendenza delle donne rispetto agli uomini e dei figli nei confronti dei genitori. Il terzo modello – decisamente più raro e, almeno in Europa, attualmente scomparso – è quello socialdemocratico, nel quale l’obiettivo è la garanzia di servizi e la soddisfazione dei bisogni al più alto livello possibile. A differenza dei modelli liberale e corporativo, nei quali l’intervento pubblico assicura solo un minimo sostegno a tutti i cittadini e lascia che sia il mercato – in forme e spazi diversi – a stabilire il destino degli individui, il modello socialdemocratico esclude l’intervento del mercato e pone tutti i lavoratori, di qualsiasi genere e categoria, entro un unico sistema previdenziale. Inoltre, il ruolo della famiglia è fortemente limitato e lo stato si fa carico quasi interamente dell’educazione dei giovani, lasciando agli adulti il compito di partecipare pienamente al processo di produzione di merci e servizi.


le Grandes Écoles ricavano l’origine della loro grandezza. Ciò non significa che essa non la pratichi: il tasso di insuccesso qui è considerevole, ma lo deve raggiungere silenziosamente, ipocritamente” (Ivi, p. 79). La democrazia contro lo Stato L’organizzazione di uno stato sociale europeo potrebbe essere quindi una proposta importante, e sicuramente ambiziosa, per poter dare nuova forza al progetto comunitario che, proprio in questo periodo storico, sta attraversando una fase difficile3. Teorizzare un sistema di welfare comune ai paesi dell’Unione non è soltanto un tentativo utopistico per creare unità laddove ancora non ce n’è, ma è uno strumento che, oltre a intervenire direttamente sulle condizioni di vita dei cittadini europei, condurrebbe indirettamente a un ripensamento delle dinamiche tra potere politico ed economico (cfr. Ferrera 2005 e Adema, Fron, Ladaique 2011). Attualmente, il quadro complessivo è quello di una crisi, non solo economica, in cui i poteri delle parti in causa – stati nazionali, istituzioni comunitarie, enti di controllo, soggetti politici e sociali – faticano a trovare l’accordo per poter costruire un organismo politico forte e coerente. La recente crisi ha inoltre contribuito all’interruzione del processo d’elaborazione di politiche comunitarie e d’integrazione di quelle già esistenti nei diversi paesi. All’origine di questo stallo ci sarebbe infatti una profonda sovrapposizione tra i criteri di governo di tipo economico e quelli di tipo politico e, più precisamente, una radicale trasformazione del potere politico, sempre più sottoposto alla dicotomia tra il concetto di governo e quello di governance (Manent 2006). Il governo e la governance appartengono infatti a due categorie della pratica di gestione del potere radicalmente diverse: mentre il governo ha a che fare con la declinazione politica del potere, la governance riconduce la praxis politica ad azione amministrativa. Inoltre, l’apparente neutralità della governance, intesa come amministrazione non-politica del potere, è piuttosto una tecnica di gestione del governo

velatamente intrisa di forti valori politici. Secondo Pierre Manent questa decostruzione del potere politico è il risultato del mancato processo di controllo e legittimazione da parte della sovranità popolare sulle istituzioni comunitarie. La mancanza di un “popolo europeo” starebbe quindi alla base dello scarso controllo che i cittadini operano sulle istituzioni comunitarie, soggette soltanto alla mediazione tra i rappresentanti politici provenienti dai paesi dell’Unione. Il progetto dell’Europa unita si è allora costruito sul modello di un soggetto politico dedito al perseguimento di un’astratta salvaguardia dei diritti universali, basata sull’equazione fra democrazia, somiglianza tra gli esseri umani – si potrebbe dire fraternité – e riconoscimento del diritto all’uguaglianza. Il sentimento della somiglianza ha generato una democrazia senza popolo, un “kratos senza demos”, rispettosa dei diritti dell’uomo ma distaccata da ogni deliberazione collettiva (Ivi, p. 16). Lo stato sovrano perde la sua ragione d’essere, dal momento che i diritti dei propri cittadini ormai appartengono al comune sentimento democratico e non è più necessario un potere politico a presidiarli. Ormai divenuto un’entità quasi indipendente dal popolo, lo stato si può così limitare a essere strumento di amministrazione dell’esistente. Tale sentimento democratico – una sorta di umanitarismo universale – ha però come grave conseguenza lo svuotamento di senso del ruolo dello stato: perché si dovrebbe infatti mantenere in vita un soggetto politico ormai privo di scopo? Si manifesta così l’opposizione della democrazia nei confronti dello stato; quest’ultimo perde legittimità di fronte alla società, il popolo, e viene quindi ricondotto al suo stesso livello. In questa prospettiva universalizzante, allora, la “condizione sociale” dei cittadini europei è quella di un aggregato sociale che deve soltanto essere amministrato, e non più quella di un insieme di comunità e classi sociali che rivendicano una propria rappresentanza politica. Come scrive P. Manent: “la democrazia come sentimento, e sentimento ora sempre più aggressivo,


della somiglianza umana si volge contro l’ultima Differenza, che è per noi anche la prima poiché questa Differenza – la superiorità dello Stato rispetto alla società – è la condizione dell’uguaglianza e della somiglianza” (Ivi, p. 30).

La civilizzazione contro le nazioni Come ha sostenuto Marcel Gauchet, il problema attuale per l’Europa è il percorso della “civilizzazione senza le nazioni” (la civilisation sans les nations) che è stato intrapreso negli ultimi decenni: lasciando da parte le sinistre accezioni del termine “civilizzazione” in senso etnocentrico, ciò che vuole mettere in rilievo Gauchet è quanto sia difficoltoso creare una nuova coscienza civica al di là dell’appartenenza nazionale (Gauchet 2005, pp. 465-493). La civilizzazione rappresenta un modello occidentale di sviluppo universalmente diffuso, al punto da superare i confini dell’Occidente stesso: si tratta di una modalità di conoscenza del mondo razionale e scientifica, che irradia le componenti della vita sociale, economica e politica. Dall’altro lato, le nazioni sono state, in un passato anche recente, i luoghi che hanno dato spazio alle diverse culture e ne hanno spesso esaltato le differenze, fornendo

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L’Europa contro l’Unione europea Un’altra dicotomia utile a comprendere per quali motivi i meccanismi comunitari hanno smesso di funzionare è quella che scompone l’Europa in due oggetti differenti, non sempre identificabili tra loro: l’Europa, in quanto tale, e l’Unione europea. Come ricorda Jean-Marc Ferry, l’Unione europea è una costruzione politica e deve essere considerata come un oggetto politico con funzione normativa. La legittimità su cui si fonda questo progetto è data dalle “convinzioni riflessive” che consentono ai cittadini europei di riconoscere dei valori comuni tra le diversità, una sorta di metanorma dialettica che dà all’UE la possibilità esercitare una forza coercitiva sui propri componenti (Ferry 2011, pp. 84-86). L’Unione europea non è quindi soltanto l’Europa, intesa qui nell’accezione di un’estensione geografica portatrice passiva di valori e tradizioni culturali. Per poter allora esprimere il rapporto dialettico che lega – o dovrebbe legare – le istituzioni europee ai cittadini dell’Unione, è necessario chiarire il rapporto tra legittimità del potere e sovranità popolare. Riguardo agli equilibri che reggono l’ordinamento istituzionale europeo, ci soffermeremo in particolare sulla proposta formulata da Christopher Bickerton (2010) a partire dalla critica da lui avanzata nei confronti delle cosiddette posizioni neomadisoniane, che rappresentano una voce senza dubbio originale nell’attuale dibattito. Di fronte al problema di come conciliare l’ideale democratico con l’esercizio di un potere ristretto e non tirannico si pone un’alternativa (non esclusiva): potenziare il controllo giuridico oppure coltivare la virtù civile di un popolo. Secondo i neomadisoniani, i diversi gradi di governo europeo – locale e centrale – sono la dimostrazione che vige un meccanismo

di controllo interno al potere politico, volto a evitare l’accentramento nelle mani di pochi e con il fine di favorirne la dispersione. Tuttavia, la critica che viene loro mossa da Bickerton è di ritenere che un potere sia legittimo soltanto quand’è limitato; questo, secondo i critici, limiterebbe la legittimità del potere a una pura azione di controllo negativo. I neomadisoniani sostengono infatti che la legittimità del potere sia un fatto diverso e indipendente dalla sovranità popolare. Su questo punto, Bickerton riprende però un concetto presente proprio nel Federalista di Madison per obiettare che la legittimità del potere politico dipende sempre dalla sovranità di un popolo nel momento in cui esso si autolimita. In questa limitazione, autoimposta dal popolo, risiederebbe la norma in grado di giustificare l’esistenza di una costellazione istituzionale. Il punto che allora andrà sollevato è: come si forma un popolo europeo? È l’unica strada possibile per dare all’Europa, e all’Unione europea, quella stabilità interna e quella chiarezza di prospettive che sembrano svanite di fronte alla predominanza del potere economico sul potere politico?


ai vari particolarismi culturali gli strumenti politici per essere rappresentati, difesi e combattuti. Voler “civilizzare” un’Europa senza nazioni significa quindi tentare un’inutile forzatura: per superare le particolarità culturali – che si riflettono poi in decisioni di carattere economico e politico – e per dare vita a un organismo coeso in cui le strutture politiche (come lo stato sociale) siano comuni ai paesi dell’Unione europea, non si possono ignorare le diversità iniziali e i sentimenti di appartenenza ai gruppi culturali d’origine. Si cercherà quindi di creare una nuova coscienza civica degli europei, al di là della semplice provenienza nazionale. Il futuro dell’Europa si gioca allora sull’equilibrio tra civilizzazione e nazione: al modello “imperiale” della civilizzazione occidentale, che tende a centralizzare il controllo per facilitare la gestione di popoli eterogenei, si contrappone la struttura “nazionale”, costituita da popoli che attuano un processo dialettico di integrazione sia al proprio interno che verso l’esterno. Oltre il multiculturalismo Questa dialettica tra la ricerca di unità e il rispetto della diversità pone dei grossi problemi nella definizione della futura Unione europea e di un’eventuale identità europea (cfr. Delsol, Mattéi 2010). Il bisogno di unire nel rispetto della diversità, insito nel progetto dell’Unione, trova infatti sponda in due diverse ideeguida per il processo di integrazione: da un lato l’“Europa dei diritti” che, come si è visto in precedenza, si appella a un ampio e probabilmente troppo vago sentimento della somiglianza di tipo umanitaristico; dall’altro, si parla invece di un’“Europa dei valori”, che dovrebbe poggiare su alcuni valori comuni, al fine di renderla una comunità fondata sull’identità civica dei propri cittadini e non più, o soltanto, sugli interessi di tipo economico. Per favorire la creazione di una tale comunità di valori, a partire dal 1997 il Consiglio d’Europa – insieme alla Commissione europea, all’Unesco e all’OCSE – ha sviluppato il programma ECD, “Éducation à la citoyenneté démocratique”.

Questo programma educativo vorrebbe porsi come un tentativo di fornire ai cittadini un’educazione europea di natura post-nazionale, in grado cioè di creare un piano di condivisione dell’identità europea uniforme nei vari paesi dell’Unione. Il programma ECD sarebbe quindi un ibrido fra le tre principali direttrici teoriche del dibatto sull’integrazione; riuscirebbe infatti a raccogliere in sé la concezione giuridica della cittadinanza, l’attenzione verso la responsabilità e i doveri dei cittadini e la cura per la diversità, che sono riconducibili rispettivamente alla tradizione del liberalismo politico, del repubblicanesimo e del multiculturalismo (Pélabay 2011, pp. 753-754). Resta il fatto che una simile comunità di valori risulta però poco efficace e limitante, soprattutto perché continuamente sottoposta alla variazione di quelli che, di volta in volta, sono identificati come i “valori comuni”. Tra il bisogno di stabilità e la tutela del pluralismo sembrerebbe allora preferibile distinguere quei valori condivisi che permettono di avanzare nel cammino di integrazione, superando così sia il modello puramente multiculturalista sia il comunitarismo più radicale (Ivi, pp. 762763; sul rapporto tra pluralismo culturale e identità nazionale: per un’interessante analisi del caso francese cfr. Renaut 2004, pp. 165-214). Nell’ambito di questo modello – la cui definizione, anche se ossimorica, potrebbe essere “pluralismo dei valori comuni” – ci si potrà chiedere quali sono i lineamenti istituzionali che possono favorire la formazione di un popolo europeo e, allo stesso tempo, mantenere le diversità. Stato-nazione contro Stato-regione Una simile diversità di valori si riflette non soltanto nelle diverse culture e tradizioni storiche dei paesi europei, ma anche sull’assetto sociale e istituzionale che questi si sono dati al loro interno, e sul modo in cui le istituzioni europee hanno cercato di fornire una sintesi al fine di trovare una forma di governo efficace. In questo senso allora può essere utile gettare uno sguardo alla comparazione tra due grandi realtà federali: l’Unione


soltanto una forma di governance sprovvista di un chiaro indirizzo e, soprattutto, priva di un controllo politico democratico, accessibile ed esplicito. In un’Europa in cui le strutture comunitarie dovranno essere investite della responsabilità di un governo politico dell’Unione – se si vorrà che l’intero progetto abbia un futuro e non si limiti a una difesa conservativa dell’esistente – sarà fondamentale passare attraverso la rottura di alcuni tabù che hanno costretto le istituzioni europee entro limiti piuttosto angusti. Oltre all’imprescindibile obiettivo dell’elezione diretta delle cariche istituzionali europee, un altro passo in avanti per il progresso della democrazia comunitaria all’interno dell’Unione sarà l’abolizione delle regole dell’unanimità e dell’uniformità nei processi decisionali, che tanto spesso hanno ritardato o bloccato l’adozione di importanti trattati europei e il percorso di integrazione politica (Ivi, pp. 327-330). Pare sempre più probabile che sul lungo periodo in Europa si andrà affermando la regola delle decisioni prese a maggioranza. Tuttavia, l’abolizione delle regole di unanimità e di uniformità non è priva di inconvenienti e, da sole, queste due regole non sono nemmeno sufficienti a risolvere gli attuali problemi. Il processo di integrazione è ormai giunto a un livello tale per cui gli stati sono chiamati a decidere se contribuire fino in fondo al progetto dell’Europa unita oppure se rinunciarvi, ad esempio attraverso il meccanismo dell’opting out, per cui certi paesi, come Regno Unito, Danimarca e Irlanda, hanno ottenuto deroghe rispetto ad alcuni trattati comunitari (Quermonne 2008, pp. 211-222). Conclusioni Ciò che si è cercato di mostrare nei paragrafi precedenti è un quadro generale delle condizioni dell’Unione europea e di alcune delle principali dinamiche sottese ai processi di integrazione tra i diversi paesi. Le tre parole riportate fin dal titolo – popoli, stati e nazioni – hanno proprio la funzione di indicare quali sono gli elementi essenziali perché l’Europa possa riuscire nel suo compito: soltanto

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europea e gli Stati Uniti. Vivien A. Schmidt sostiene che l’Europa segua il modello dello Stato-regione, in opposizione a quello dello Stato-nazione, rappresentativo invece dell’assetto politico degli Stati Uniti. Lo Stato-regione si determina come un organismo a sovranità condivisa, le cui frontiere sono variabili ed è caratterizzato da un’identità composita, che determina a sua volta una forma di governo estremamente frammentata. L’altra struttura di stato federale, quella dello Stato-nazione statunitense, ha invece una sovranità indivisibile e delle frontiere fisse, e a questo va poi aggiunta una solida identità collettiva e un governo molto più snello e leggero (Schmidt 2006, p. 277). Alla base di questa distanza tra i due ordinamenti federali, europeo e americano, c’è un diverso equilibrio nei processi di elaborazione politica, dovuto alle differenti strutture in cui si articolano lo stato e la società civile. Paesi come la Svezia e l’Olanda sono infatti caratterizzati da un corporativismo forte, raggiunto grazie a uno stato unitario e a una società civile estremamente coesa; dove invece le strutture sociali sono più frammentarie, come in Francia e nel Regno Unito, si dà un ordinamento decisionale di tipo statalista. Il corporativismo attenuato è il tratto determinante della Germania e dell’Italia, anche se quest’ultima tende a forme di clientelismo, ed è il risultato di strutture sociali molto concentrate ma di equilibri statali frammentari, federali o regionali. Infine, gli Stati Uniti e l’Unione europea rientrano nella categoria del pluralismo: in essi coesistono infatti sia strutture sociali che strutture statali frammentarie (Ivi, p. 282). Come appare evidente da questa classificazione, gli Stati Uniti e l’Unione europea risultano simili nella loro organizzazione sociale e istituzionale, ma ciò che li differenzia è proprio l’esistenza alle spalle dell’Unione europea di stati sovrani caratterizzati in modo estremamente diverso tra loro. Questa alta difformità tra i paesi membri dell’Unione ha consentito alle istituzioni comunitarie di non farsi mai carico del governo politico dell’UE, ma di assumere


la creazione di un popolo post-nazionale potrà infatti condurre gli stati sovrani al compimento del progetto dell’Europa unita. Per concludere, vale ricordare l’avvertimento di M. Gauchet: “l’ingenuità è ormai proibita agli Europei. Non possono più affermare che si rendono conto di ciò che sono e di ciò che fanno. Se qualcosa come la rifondazione del progetto europeo è immaginabile, è da una corretta valutazione dei limiti e delle potenzialità di questa dialettica delle nazioni e della civilizzazione che essa deve partire. I tempi sono maturi per trarre lezione dall’esperienza: questo impero della civilizzazione, senza territorio né potere per incarnarla, non può poggiare che sul concorso attivo delle nazioni che esso trascende. L’Europa avanzerà grazie ai popoli o non avanzerà più. È condannata, altrimenti, all’interminabile marcia sul posto di una decostruzione dei suoi componenti senza costruzione di una cosa comune, sotto la guida di una burocrazia missionaria la cui cecità la contende all’ardore” (op. cit., pp. 492-493).


1 – Per farsi un’idea dell’opinione dei cittadini europei sullo stato dell’economia e la crisi in Europa consigliamo di consultare il rapporto Transatlantic Trends, Key findings 2012, pp. 15-23. 2 – Riguardo a queste tre classiche categorie del welfare proposte da Esping-Andersen, è interessante il rimando alla proposta di Bruno Amable sulle cinque tipologie di società capitalistica nell’epoca della globalizzazione, che si distinguono in modello neoliberale, continentale-europeo, socialdemocratico, mediterraneo e asiatico (cfr. Amable 2005); e, inoltre, sul modello di welfare nell’America latina dopo l’era delle politiche neoliberaliste, cfr. Riesco 2007, pp. 49-59.

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3 – La proposta di uno stato sociale europeo, per far fronte ai pericoli di una globalizzazione neoliberale e delle regressioni nazionalistiche, è stata esposta da P. Bourdieu in un intervento, tenuto ad Atene alla Confederazione generale dei lavoratori greci nell’ottobre del 1996, dal titolo “Le mythe de la «mondialisation» et l’État social européen” (Bourdieu 1998, pp. 34-50).

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Il thauma dell’Altro. Europa e interculturalità di Marcello Ghilardi

Das Schaudern ist der Menschheit bestes Teil. W. Goethe1 1. Viviamo in un’epoca che sembra decisamente avversa alla salvaguardia di ciò che gli antichi Greci definivano thauma, nelle sue valenze molteplici e anche opposte: thauma è meraviglia, stupore, inquietudine, sgomento. Ciò che richiede una paziente disponibilità alla lettura, al vaglio paziente viene in genere espulso dalla scena, viene avversato, ignorato, rimosso. L’eccesso di stimolazioni e di meccanismi che promuovono il mito del godimento, di una jouissance che non sopporta limiti, paradossalmente inibisce la disponibilità a lasciarsi sorprendere da forme di esperienza originali che richiedano elaborazione e attenzione; la tendenza dominante, in altri termini, è avversa alla possibilità di espandere il tempo del pensiero e della riflessione, di uno sguardo che si lasci provocare dall’inedito invece di soffermarsi solo sul già noto. L’insoddisfazione diffusa si coniuga da una parte con la nostalgia di un tempo mitico, sicuro e ordinato, dall’altra con scelte di chiusura identitaria. Anche la temperie positivistica dettata da un sapere biotecnologico che pretende di riassorbire la totalità della vita contribuisce alla rimozione del perturbante, di ciò che eccede le categorie abituali e le possibilità di dominio tecnico2. L’alterità, nelle diverse configurazioni in cui si manifesta – biologiche, sociali, psicologiche, politiche – è temuta e allontanata più che integrata in un lavoro di costruzione processuale della propria identità. L’identità infatti non è mai un

dato, uno stato acquisito, una sostanza fissa e immutabile. Essa viene sempre istituita, inventata. Le tattiche che presumono di recuperarla o salvarla dall’oblio e da “attacchi” esterni non fanno altro che costruirla, smontando, rimontando, assemblando modelli di rappresentazione del sé. Per quanto riguarda le compagini politiche o comunitarie è sempre attuale l’intuizione di Ernest Renan: «L’oblio, e dirò persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione»3. Si inventa e insieme si trascura, si sottolinea e si nasconde, si esaltano o si celano gli aspetti funzionali e quelli antagonisti alla rappresentazione che si vuole favorire, con la quale ci si identifica – anche in modo inconsapevole, non meditato. È sempre più forte la ricerca, forse dettata da un bisogno psicologico di stabilità, di identificazioni «che segnalano la tendenza del soggetto alla chiusura autistica, alla pietrificazione, alla solidificazione narcisistica come risposte estreme alla liquefazione generalizzata dei legami sociali»4. Se la ricerca di identità più o meno fittizie è una strategia di difesa rispetto alla precarietà delle relazioni sociali innescata in parte dai processi della globalizzazione e delle trasformazioni economiche e sociali che ad essa si accompagnano, essa produce anche una mutazione nel desiderio e nell’immaginario. Contribuendo alla costruzione di identità fittizie, il discorso politico si è dimostrato spesso incapace sia di assumere la fatica dell’incontro con la differenza e la pluralità, sia di sfruttare la ricchezza e le potenzialità dell’esposizione del medesimo al diverso, che lo chiama a trasformarsi e a


Proprio in questo tempo emerge la necessità di lasciarsi attraversare dalle differenze, invece di respingerle d’acchito, cercando di integrarle e farle cooperare. Bisogna saper evitare due estremi: tenere distanti o ignorare le alterità, da un lato, mescolarle e confonderle in una miscela di luoghi comuni, dall’altro. Il “luogo comune” si situa agli antipodi di ogni ricerca di “bene comune”. «È, questa, una delle lezioni più importanti dell’interculturalità: liberiamoci dal solipsismo, non solo individuale ma anche culturale. L’interculturalità non è un lusso: e questione di vita o di morte. Di vita o di morte dell’umanità»7. Ciò significa coltivare e diffondere la consapevolezza che riconosce come ogni cultura nasca e si affermi in quanto continuo processo di mutazione e alterazione, come una dinamica di costruzione e ricostruzione identitaria che non si arresta mai, che non produce e non si fissa in identità “sostanziali” e autosussistenti. Una cultura si può certo identificare con alcuni tratti marcanti, con quello che François Jullien ha definito i «fondi d’intesa» (fonds

d’entente) delle culture8, ovvero le linee di forza che nel lungo periodo hanno prodotto solchi e tendenze ben individuabili, senza tuttavia potersi reificare in strutture inamovibili o impermeabili agli apporti esterni. L’identificazione non coincide mai con l’identità viva, che rimane sempre eccedente rispetto a una definizione ultima, e non si riduce a nessuna delle figure in cui si incarna né alla loro somma. La ragione può accogliere l’istanza di universalità senza confinarla in un luogo astratto, lontano e immune dalle dinamiche culturali effettive, dal momento che le forme di intelligibilità e di comprensione del mondo sono sempre particolari, parziali, limitate, precarie. Questi tentativi non sono in grado di realizzare la totalità del sapere, di esprimere in modo definitivo la “verità” dell’uomo attraverso una serie di proposizioni. La verità non si traduce mai in significati determinati, non è circoscrivibile da risposte conclusive, perché travalica, eccede sempre ogni risposta singola. La filosofia è chiamata a operare una trasformazione dal monoculturalismo imperante – come l’idea che esista un’unica Ragione a cui conformarsi, o la mitologia della crescita continua9 – per operare una conversione del pensiero e dell’azione in chiave economica e politica. Una filosofia politica non può oggi esimersi da un interesse e una pratica a carattere interculturale, se il Politico non vuole essere un mero effetto collaterale dall’Economico, ma incarnare la capacità di organizzare un nomos dell’oikos, una regola, un sapere, una legge del nostro abitare comune. In questo senso la riflessione filosofica può aiutare a vivere diversamente il presente; può aprire la strada a un esercizio di riduzione all’essenziale (decrescita non significa recessione), per accedere a una pienezza diversa e più profonda di quella segnalata dal PIL; può favorire il valore cooperativo delle differenze, mostrando come l’Altro non si riduca a un sapere determinato, ma il suo evento richieda una risposta che coinvolge tutto l’ethos dell’umano – la pratica, l’abito, il comportamento che si dimostra di volta in volta efficace

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immaginare nuove vie da seguire. All’altro si imputa la colpa di un mancato godimento, di una riduzione di sicurezza – si vorrebbe restare sine cura, senza preoccupazione alcuna – mentre si proietta sulla propria appartenenza a un territorio la promessa di «un godimento immediato, desublimato appunto, senza mediazioni simboliche e senza più limiti. […] Il godimento assume la forma di un imperativo categorico che rifiuta la castrazione: Devi godere!»5. Si promuove futilmente un godimento immaginario che dovrebbe colmare il vuoto lasciato dalla perdita dei significati e delle coordinate tradizionali, sradicate dall’incedere di nuove situazioni economiche e di nuovi attori politici sulla scena internazionale. «Il pericolo è che, a livello mondiale, accada questo: […] che, sotto lo strato dell’occidentalizzazione (globalizzata), si ricostituisca uno strato identitario, autoctono, che si rafforza quanto più evita di farsi penetrare dall’altro, isolandosi da esso»6.


ed opportuno, senza potersi appoggiare su ricette precostituite (in questo tratto, attento alla contingenza, si può intendere lo scarto dell’etica rispetto alla morale, che finisce quasi sempre per isterilirsi in formule irriflesse, preconcette). In fondo, è questo l’esercizio richiesto e insieme promosso in ogni epoca dall’esercizio del pensiero che, se è serio, trasforma il soggetto che la compie. È un percorso che si delinea nel suo farsi e, in questo movimento, ribadisce al contempo il valore extra-filosofico della dimensione interculturale, che compenetra ogni frammento di esperienza dell’umano e lo sottopone al vaglio di una critica intesa in senso foucaultiano, ovvero come un movimento di pensiero che «non consiste nel dire che le cose non stanno bene come sono. Consiste nel vedere su quali tipi di evidenze, di familiarità, di modi di pensare acquisiti e non riflettuti riposino le pratiche che accettiamo»10. Il lavoro dell’interculturalità si mostra allora come essenziale per innescare una capacità di critica in grado di abbinare decostruzione e costruzione di modelli d’azione, in grado di smantellare sistemi e paradigmi obsoleti per proporre itinerari originali, che siano capaci di dare spazio alle trasformazioni politiche – senza accogliere ogni novità come se fosse in se stessa positiva, ma offrendo il tempo della valutazione e dell’analisi. Il lavoro di un pensiero interculturale non implica la costruzione di un super-sistema che raccolga e uniformi sotto di sé le pulsioni, le spinte, le motivazioni e le istanze di una pluralità di soggetti o di culture; vuole piuttosto dare spazio a un avvicinamento e a una interazione tra gli attori sociali, tra le diverse pratiche di vita, di pensiero, di rappresentazione di sé e del mondo. Esprime il tentativo di superare ogni forma di monologo autocratico, di ripiegamento su un sé sordo alle voci che provengono da un’esteriorità non inquadrabile in categorie già date. 2. L’idea stessa di cultura è debitrice di tutto ciò che riguarda il reciproco relazionarsi, per cui una cultura non

esiste mai come una monade isola e autarchica, ma è sempre intercultura. «Quando una cultura non riconosce più di essere nata e di essersi sviluppata solo e in quanto intercultura, comincia a coltivare il pericoloso culto di sé come entità autonoma»11; una deriva che assume una consistenza sempre maggiore intende l’identità secondo una concezione «istituzionale», mentre l’identità è un elemento che va continuamente «rinegoziato»12. L’identità non è un passato, un retaggio oggettivo, inalienabile e immutabile; resta sempre davanti a noi, poiché l’identità si coniuga sempre al futuro, pur tenendo conto del passato. È un inesauribile compito da assolvere, e implica uno sforzo cosciente e perenne di approfondimento e di messa in discussione degli schemi concettuali, dei pregiudizi, dei canoni che troppo spesso si danno per scontati. Quello che oggi accade, invece, è un curioso fenomeno che l’antropologo Gerard Lenclud ha definito filiazione inversa, per cui la tradizione è un processo di costruzione (più o meno fittizia) di un passato: «sono i figli che generano i propri padri», e non viceversa13. Un processo di questo genere senza dubbio si è dato in ogni tempo e luogo, pur se in modalità differenti. Ma quella che un tempo poteva essere una strategia più o meno stravagante per legittimare il proprio potere ora viene spacciata come ricerca autentica delle radici culturali di un paese, di una regione, di un territorio. Ma nessuna identità e nessuna cultura possono in verità definirsi auto-nome, perché il nomos che le regge e le informa non può che scaturire da un loro scontro/ incontro, da uno scarto differenziale14. Nel suo saggio Adorno e la globalizzazione Zygmunt Bauman confrontava le critiche di Adorno alla mentalità illuministica con il processo storico e culturale della globalizzazione, che negli ultimi decenni è stato segnato da una fluidificazione di certi confini (economici e finanziari) e una costruzione di nuovi confini e di identità territoriali o culturali immaginarie. In quest’epoca «il capitale


e il mercato delle merci si sono spostati in un nuovo spazio “socialmente extraterritoriale”, situato ben al di sopra della sovranità degli Stati-nazione e quindi fuori della portata della loro capacità di controllare/equilibrare/ mitigare»15. Il fenomeno della globalizzazione, come si è accennato in precedenza, ha investito non solo i mercati ma anche le auto-rappresentazioni dell’Europa. Le forme dell’immaginario oggi non rispondono più alle logiche archetipali per cui un repertorio di immagini o di modelli collettivamente riconosciuti aiutavano l’individuo a orientarsi nel mondo, ma sono piuttosto meccanismi anodini di istanziazione del desiderio, dispositivi transindividuali che prescrivono le dinamiche di scelta e di consumo e che in certi casi, come si è visto in Italia negli ultimi due decenni, arrivano a determinare strategie economiche e agende politiche16.

3. La dimensione comunitaria dell’essere umano, di cui l’Unione Europea vorrebbe essere un nuova formulazione, assume un valore autentico solo se sa dare un’espressione plurale, plastica e costruttiva alla possibilità, al rischio, alla difficoltà, al thauma della relazionecon-altri, all’inquietudine e allo stupore che questa provoca. Non ha senso esaminare le linee di forza e le cosiddette “radici” storiche, se questa operazione non viene anche decostruita e complicata da un esercizio di apertura e di riconoscimento della pluralità presente in ogni fondo comune, in ogni identità collettiva. È essenziale evitare di cadere nelle due forme unilaterali e contrapposte di attaccamento: da un lato, la visione conservatrice che ipostatizza la realtà e i suoi processi; dall’altro, l’utopia di un totale affrancamento da ogni contingenza ed eredità culturale. Il problema è che i discorsi rivolti contro il meticciato, l’ibridazione, la qualità interculturale di ogni processo storico e sociale si sottraggono al banco di prova delle argomentazioni razionali, alle critiche di tipo logico. Affondano in un terreno distinto da quello delle categorie argomentative, tant’è che nel dibattito pubblico o nell’agone politico non è raro assistere a contrapposizioni sterili e irrazionali, per cui le istanze presentate rimangano fatalmente sorde le une alle altre, senza interagire o illuminarsi a vicenda. Come ci si può collocare di fronte a un discorso che rimuove la carica eversiva e per ciò stesso utile dell’alterità e della differenza, che misconosce la fecondità degli scarti fruttuosi che le culture apportano nella

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Senza dubbio l’insieme delle trasformazioni che l’Europa, e non solo essa, sta incontrando ha determinato una «nuova insicurezza d’esistenza, […] un’insicurezza che ha una forma inedita e sconosciuta in quanto priva di difese o rimedi consueti»17. Smotta il terreno di antichi riferimenti morali e ideologici, sotto i piedi dell’identità che vorrebbe proteggersi dai mutamenti storici e politici. Lo stesso termine “ideologia” pare oggi desueto e poco efficace da un punto di vista euristico ed ermeneutico. Non abbiamo più a che fare con ideologie forti e identificabili, per come si sono presentate e sono state conosciute nel corso del secolo scorso; abbiamo a che fare sempre più con la diffusione di quell’immaginario già descritto, meccanismo acefalo di canalizzazione dei desideri, delle speranze e delle paure, in grado anche di mettere a profitto la capacità finzionale degli esseri umani (nel caso della pubblicità, della televisione o del cinema) o di generare chiusure e ostilità nei confronti degli aspetti rinnovativi delle differenze. Tra i compiti delle ideologie novecentesche vi era anche quello di gestire i rapporti con il potere; analogamente, la formazione e la manipolazione dell’immaginario hanno

molto a che vedere con la costruzione e la gestione di un potere, oggi meno individuabile in figure determinate. Se nell’epoca delle ideologie era necessaria una pratica del pensiero come critica, nell’epoca dell’immaginario si rende forse utile anche una pratica del pensiero come forma di clinica, nel senso psicoanalitico, che sappia mettere in luce il disagio di una civiltà attraversata da spinte e da inquietudini a cui i mezzi tradizionali di risposta non offrono riparo18.


società contemporanea? Con quali strumenti argomentativi si possono affrontare le istanze di chi resta al di fuori del confronto argomentativo, che non porta ragioni per le proprie opinioni ma fa esplodere malumori o tutt’al più esprime sensazioni? È evidente che non si può contrapporre direttamente il logos razionale al mythos di cui si è portatori inconsapevoli, e che emerge in narrazioni non argomentate. Ma forse è anche in questo caso la capacità di accogliere modi del pensiero e strategie privilegiate in altri luoghi, in altre tradizioni, che può fornire un aiuto o indicare una strada da seguire19. Nella tradizione cinese, per esempio, l’efficacia in un discorso pubblico o in un dialogo tra letterati di posizioni diverse si è sempre accompagnata alla capacità di riassorbire le posizioni opposte, più che a quella di trionfare sull’altro dimostrando la falsità dei suoi assunti o la scorrettezza dei suoi ragionamenti. Più che far trionfare il vero sul falso, si tratta di far circolare i modi del pensiero, le posizioni particolari, i partiti presi, che altrimenti diverrebbero sterili e resterebbero incapaci di comunicare. Nella circolazione delle idee, che si integrano a vicenda, si dà vita a una nuova ampiezza di respiro, a un pensiero più ampio e inclusivo. La vera strategia non consiste nel ridurre l’altro a una posizione di falsità, ma mostrare che si è più inclusivi e comprensivi. L’errore consiste cioè nell’essere parziali, chiusi, settoriali, mentre l’efficacia consiste nella capacità di includere anche il punto di vista opposto, integrandolo e non eliminandolo dal proprio orizzonte. Chi si vuole sottrarre alla fatica e all’impegno della relazione con l’Altro finisce per soffocare nel proprio mito, in quel fondo impensato a partire da cui si pensa e che proprio per questo non è messo in questione. La vita in comune non può prescindere dall’assunzione del diverso in quanto diverso, e «che i distinti, proprio perché assolutamente tali, si riguardano l’un l’altro, che l’uno ha bisogno dell’altro nella sua verità, proprio per essere l’assolutamente distinto che è»20. Questo intrecciarsi di relazioni – l’identità con l’alterità,

l’identità che si fa alterità in quanto a sua volta altra dall’alterità – descrive un processo, una dinamica, mai uno stato compiuto e realizzato una volta per tutte: «Lo hostis, lo xénos è sacro proprio nella sua identità e individualità altra rispetto a quella dell’ospite […] Nello hospes vive sempre anche lo hostis, e nello hostis lo hospes. Sono due dinamiche che s’intrecciano, non due stati»21. Il binomio hospes/hostis dà luogo a un continuo rincorrersi e confondersi di prossimità e di distanza, di amicizia e di ripulsa. Lo straniero, il diverso, l’estraneo sgomenta, turba, meraviglia: thaumazein è il suo verbo; esso scuote, agita, turba, stupisce, meraviglia, sgomenta il medesimo. Costringe a riconoscere l’ambivalenza costitutiva del mondo e della vita, poiché al contempo richiede accoglienza, ospitalità, cura. È minaccia e promessa al tempo stesso. «Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell’unicità»22, ogni logos che vorrebbe raccogliere, collegare, connettere nell’unico Senso che organizza tutti gli altri, che unifica e acquieta la molteplicità diffratta delle nostre esperienze. Dal momento che in Occidente la filosofia ha di mira proprio il Senso, la Verità, ecco che lo straniero è proprio l’ospite più inquietante per la filosofia – più ancora che per l’arte o la poesia, le quali accolgono con maggiore plasticità i confini sfumati dell’ambiguità dei sensi, dei non-sensi, delle verità plurali. Lo straniero inquieta perché ci svela la nostra estraneità, la non coincidenza interna a noi stessi, «poiché l’identità non è un “dato” da cui si possa partire, quanto piuttosto il prodotto di un processo attraverso il quale si giunge a riconoscere la propria identità, e soltanto attraverso la relazione con l’altro […]»23; è proprio da qui che emerge la consapevolezza circa la «difficoltà nella quale oggi ci troviamo a definire la figura dell’ospite e quella dello straniero. Di qui una ricerca appassionata e insieme drammatica tesa a verificare quali nuove forme e quali nuove immagini possano essere necessarie per produrre oggi la nostra identità»24. L’altro, l’ospite inquietante che alberga al fondo di


ciascuno, rappresenta la fondamentale apertura di quel singolo a se stesso e al mondo. Per questo ci impedisce di fissare dei sicuri confini che definiscono le identità come alcunché di compiuto. Lo straniero non va accolto con la speranza di poterne smussare i tratti difformi e spigolosi, ma proprio in virtù della sua inappropriabilità. «La figura dello straniero non sta ferma, inquadrata in una categoria. La sua eventuale staticità è un’illusione: coinciderebbe ancora una volta con il tentativo da parte del ‘noi’ di marginalizzarlo, di ridurne l’essenzialità. La sua mobilità corrisponde del resto alla mobilità del ‘noi’; è, anzi, la traduzione quasi visiva della continua modificabilità dei rapporti tra noi e gli altri. Difficilmente una società può continuare a tenere a lungo i propri stranieri in una categoria immobile di pura estraneità»25.

4. Pensare l’Europa, e non solo vagheggiarla, invocarla, o presumere che essa sia qualcosa di costituito sulla base di radici consolidate e inamovibili, è certo uno dei compiti importanti e difficili che quest’epoca ci assegna. Pensare l’Europa vuol dire essere consapevoli che essa è un compito inesauribile, che ogni nuova configurazione potrà e dovrà lasciare spazio ad altre, e che per questo motivo siamo chiamati a impegnarci a generare figure e idee sempre nuove. Il carattere incoativo dell’Europa richiede un surplus di entusiasmo e di impegno, una capacità “esodale” che sappia uscire da ogni egocentrismo. Tutte sono e saranno figure imperfette, perché necessariamente incompiute, di una “verità” dell’Europa tanto più coerente e seria quanto più soggetta alla trasformazione continua. Decisivo sarà apprendere a ragionare secondo la categoria del “processo”, così bene elaborata e sfruttata dal pensiero cinese, per evitare di restare aggrappati a quelle, più tipicamente europee, di “atto”e di “azione”. «La nostra

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Secondo Bernard Waldenfels l’estraneità inizia già all’interno del sé, nell’identità dell’individuo; e questa estraneità è talmente radicale, dentro e fuori di noi, che non può essere ricompresa da alcuna ricomposizione. Essa suscita e muove un pathos prima e più di qualunque logos in grado di dominarlo e di contenerlo26. A restare sempre attuale, però, è (o dovrebbe essere) la volontà di «mantenere aperto lo spazio che rende problematica ogni riduzione a qualsiasi identità fissa: sia a quella propria, sia a quella estranea, ma anche a quella della differenza»27. Assumere «una visione fondamentalmente relativa della totalità e del confinamento di una cultura»28 non significa consegnare e ridurre all’indifferenza ogni possibile reazione, ma rendersi conto che nella molteplicità delle opzioni culturali vi è sempre uno scambio reciproco, tanto tra singoli quanto tra numerose persone in interazione reciproca. Ecco perché anche i processi che stiamo vivendo possono e devono essere occasione di incontro e crescita davvero comune e “globale”; la condizione è che ci si ponga in una continua tensione, che si sia protesi, pro-gettati verso una realtà sempre da costruire, mai del tutto data. È questa la trascendenza del Politico: in una sfera pienamente, consapevolmente umana,

accettare e amare l’inesauribilità della ricerca – non tanto a dispetto delle contraddizioni, quanto attraverso di esse, per mezzo del loro operare. «Il Politico diviene il segno dell’esigenza insoddisfatta»29, che si dà nel suo continuo rivolgersi su di sé, in sé, contro di sé. Anche le deviazioni dalla meta, tutti i fenomeni di depoliticizzazione che sembrano produrre caos invece che ordine, non sono in realtà agiti «da forze ‘nemiche’ del Politico, che provengono da territori che esso non era riuscito ad annettersi, ma dal suo stesso interno»30. Saper orientare i processi in atto implica in primo luogo la capacità di interpretarli, e quindi rendersi disponibili al pensiero. All’esercizio del pensare, dell’interrogare vanno dedicati tempo e cura: la dimensione dell’umano, che ricomprende al proprio interno il Politico e l’Economico, e che non deve farsi riassorbire da quelle sfere come se ne fosse un mero sottoinsieme, lo si sarà ormai capito, è costante processualità, mai uno stato compiuto e definito una volta per tutte.


concezione di efficacia è legata, in Europa, alla valorizzazione dell’atto, alla dimensione evenemenziale e, di conseguenza, a quella spettacolare ed eroica: per noi dipende sempre, in misura maggiore o minore, dall’epopea. Non sappiamo invece contare sulle trasformazioni iniziate di nascosto, che procedono in silenzio e che fanno raccogliere i frutti successivamente»31. Le figure dell’Europa saranno frutto di processi, e non solo di azioni o di epopee. Ma sarà fondamentale sviluppare, educare l’intelligenza a riconoscere questi processi e a saperne leggere le linee di fuga, le chine scivolose da evitare e le propensioni da incentivare. Il bene comune dell’Europa si potrà cercare nelle immagini e nelle figure sempre nuove che lo costituiranno, avendo presente quel thauma che significa anche la disponibilità a preservare un posto vuoto per l’Altro che irrompe sulla scena, che giunge imprevisto. La disponibilità a stupirsi, ad accettare l’inquietudine e renderla cooperante, feconda possibilità di approfondimento e di ampliamento del sé, passa attraverso la volontà di immaginare ulteriori possibilità e nuove composizioni dei legami – familiari, comunitari, sociali, culturali – che strutturano le vite degli esseri umani, e di creare nuove narrazioni in grado di offrire orientamenti e modi per incontrare l’altro. L’ambito del Politico è chiamato a incentivare, a promuovere e favorire nuove articolazioni di senso, ad accogliere, a reggere e a gestire – senza irreggimentare – la pluralità degli stili di vita, esaltando la ricchezza delle diverse risorse culturali e contenendo le ripercussioni e le insicurezze che ogni grande mutamento comporta. Essere propositivi rispetto alle istanze incipienti non significa diventare ciechi ai contraccolpi che queste producono… Dopo un’epoca in cui si è anelato al messaggio eversivo e liberatorio dell’utopia, si apre una stagione in cui ad essere valorizzati potrebbero essere piuttosto i caratteri positivi che si accompagnano all’eterotopia. La valenza generativa, incitativa del “luogo altro”

che muove il pensiero e la prassi può essere oggi la cifra del dischiudersi di vie che l’utopia aveva ignorato o addirittura sbarrato. Ci si dovrà muovere sulla sottile linea di confine che sutura l’ambivalenza del communis: in quanto tale, esso può infatti tanto aprire quanto chiudere a una dimensione di appartenenza e di cittadinanza, è inclusivo ma anche esclusivo; può identificarsi con il proprio (a detrimento di chi non vi è inscritto) oppure opporvisi (limitando gli effetti e le prerogative dei particolarismi). A differenza dell’universale, che è un concetto della ragione e che resta legato a categorie logiche, che poi vengono messe a prova nella realtà dei fatti, il comune implica un calarsi nell’immanenza della vita, della condivisione dell’esperienza32. Ma è proprio in virtù della sua ambiguità appartenenza/opposizione, inclusione/ esclusione, e non malgrado essa, che il comune va considerato un bene; per lo stesso motivo, il bene dell’Europa (genitivo soggettivo e oggettivo) deve essere considerato “comune”. Non c’è dono di valore che non rechi in sé una duplicità costitutiva, perché solo il confronto con l’ambivalenza, con l’ineludibilità della scelta, produce una soggettivazione e una responsabilizzazione dell’individuo – chiave di accesso a una vita comunitaria consapevole, agita in prima persona e non meramente subita. «Si abbandona la pretesa di trovare la verità soltanto nel cerchio ristretto della propria soggettività; […] non per andare verso un sistema totalitario ma per andare verso un’intersoggettività del Mondo-tutto»33. Non si può obbligare nessuno a reggere l’urto del thauma, ad incontrare l’Altro, a lasciarsi provocare da esso: lo Stato o la comunità di Stati che costringesse a questo comportamento assumerebbe una configurazione di carattere totalitario. Quello che può, e forse deve, fare è invece offrire la possibilità ai propri cittadini di educarsi perché le domande e le risposte diventino occasioni di soggettivazione e non di reificazione, perché siano avvertite ed elaborate da ciascuno per poi essere riportate nella collettività. Non indottrinamento delle folle, né


idiotismi solipsistici, ma fecondazione di ciascun soggetto nella consapevolezza che solo insieme all’altro ogni “sé” può davvero riconoscersi. “Educarsi” non è solo “essere educati”, intendendo il “si” come passivante; è anche un educare se stessi, nell’uso riflessivo del pronome. Una scuola che non si riduca alla controfigura di se stessa ha il compito di fornire gli strumenti per costruire la propria casa, il proprio oikos, e non quello di dispensare a ciascuno studente un prefabbricato a cui adattarsi senza possibilità di critica. Non ci può essere discorso sul Politico che non mantenga al suo centro anche un pensiero legato all’educazione e alla ricerca; da ciò che uno Stato decide da fare o di non fare per l’istruzione, si capisce che tipo di Stato sia, quale modello di oikos e di nomos esso offra.

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Compito della politica, in un’ottica europea che non si voglia ancorare a un passato obsoleto o a miti isteriliti, è anche quello di rinnovare costantemente le proprie strategie d’azione, percorrere vie non ancora battute, aprirsi a logiche d’azione suggerite da contesti culturali diversi e da categorie difformi rispetto a quelle tradizionali. Come si è detto in precedenza, apprendere le dinamiche del pensiero cinese può far scoprire modi di abitare il mondo e di costruirvi figure della relazione capaci di arricchire il panorama della cultura occidentale, che oggi stenta a mantenere efficace la propria operatività. La strategia cinese, oggi emergente dopo alcuni secoli di subalternità all’avanzata occidentale, insegna a promuovere un continuo bilanciamento tra le parti in gioco. Ciò che conta è mantenere vivi i processi, nei quali le parti in causa si coappartengono e si rigenerano a vicenda. Ad essere evitato è il blocco, la stasi, il contrasto che non genera nuovo movimento ma fissa le parti in un’opposizione sterile. «Ciò che è grave non è tanto quello che ci capita, ma il fatto che ci “fissiamo” su di esso. […] Fissazione si oppone così a crescita e a sviluppo»34. Invece di erigere fronti contrapposti, bisogna imparare a seguire tattiche e strategie indirette, oblique, che

sappiano tanto impiegare gli strumenti dell’argomentazione dialettica quanto produrre nuovi orizzonti di senso, mythoi slegati da localismi e idiotismi. Come accade nel campo delle arti, così anche dovrebbe essere nel campo della politica: «Gli innovatori ridisegnano i confini, quelli che interrogano l’arte li mettono in discussione. I primi ne amplificano gli ambiti di azione, i secondi li sconvolgono. Ma si tratta di contrapposizioni puramente analitiche»35. Non c’è mai soltanto chi assegna dei confini e chi li valica, chi traccia dei limiti e chi li rompe. Le figure del Politico si intrecciano e si alternano, per vivificare il movimento delle comunità umane. L’interesse per l’alterità non è dunque un fenomeno di curiosità per l’esotico, e neppure è soltanto una risorsa teoretica (per imparare a pensare altrimenti) o etica (per non fossilizzarsi nelle secche delle proprie abitudini inveterate). È una risorsa strategica, che introduce possibilità d’azione là dove, diversamente, sarebbero apparsi solo blocchi o contrasti irriducibili. E come le pratiche artistiche o le teorie filosofiche, anche le prassi sociali e le strategie politiche si prestano ad essere descritte e valutate come fenomeni di interferenza36. Nell’ambito dei fenomeni ondulatori l’interferenza è il fenomeno di sovrapposizione di più onde, mentre nelle scienze biologiche si definiscono “interferenti” le sostanze esogene che alterano la funzionalità di un sistema. Nell’ambito politico e sociale si può intendere come fenomeno di interferenza il movimento di persone, idee, costumi e atteggiamenti che attivano modelli di rappresentazione e di riconoscimento plurali, sulla base degli scarti differenziali che costituiscono elementi di riscoperta e riattivazione delle risorse di ogni cultura. «Questi scarti che facciamo lavorare tra i pensieri, invece di nasconderli, sviluppano lo spazio di una nuova riflessività; fare questo significa oggi essere militanti. Ma militanti di cosa? Non partiamo più da una definizione a priori dell’“Uomo”, ma esploriamo, attraverso questo confronto reciproco, ciò che ne va – o che si è dischiuso – dell’umano.


Si prospettano delle risorse del pensiero in grado di riconfigurare, da una parte come dall’altra, il campo del pensabile»37. Le culture si presentano come luoghi di negoziazione, campi dinamici e trasformativi in cui si manifestano e si rinnovano le interferenze. Osservando e mettendo in evidenza i fenomeni di interferenza culturale più diversi – economici, politici, filosofici, sociali – si coglieranno le culture come luoghi di identità, di proiezioni, di desideri, di lotte e rappresentazioni in cui ciascun individuo vive, pensa, si scontra e si confronta con l’altro, rilanciando e attivando reciprocamente le proprie risorse. L’Europa è chiamata così a proseguire e rinnovare una delle sue vocazioni storiche: lo sviluppo e la custodia di «un’intelligenza poliglotta e traduttrice»38, che sappia convocare lingue e pratiche di pensiero da diverse fonti facendole cooperare e trasformandole ancora, aprendo la strada a possibilità di pensiero, di convivenza e di comprensione ancora inesplorate.

1 – «Il brivido di meraviglia è quanto di meglio abbia l’uomo» (GOETHE W., Faust, II, atto primo, v. 6272; tr. it. a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 2009, p. 555). 2 – Quanto più si fanno sentire le difficoltà economiche e sociali riemerge nei confronti del pensiero filosofico o in genere di un sapere meno rivolto al cosiddetto “utile”, all’ambito produttivo, una revoca in dubbio circa il suo ruolo e la sua efficacia. A cosa servono l’arte, la letteratura, la filosofia nelle epoche di una crisi materiale? Non è un caso che oggi anche l’insegnamento della filosofia a scuola sia motivo di interrogativi e critiche, e vi siano proposte di modifiche e ridimensionamenti. Sui caratteri che indicano come questo tempo sia antagonista all’esperienza del limite, della differenza, della ricerca di verità, cfr. RECALCATI M., L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010, pp. 8-11. 3 – RENAN E., Cos’è una nazione?, tr. it. Donzelli, Roma 1993, p. 7. 4 – RECALCATI M., op. cit., p. XIV. 5 – Ivi, pp. 9-13, passim. 6 – JULLIEN F., Entrer dans une pensée, ou Des possibles de l’esprit, Gallimard, Paris 2012, p. 173. 7 – PANIKKAR R., Pluralismo e interculturalità, «Opera Omnia», VI/1, Jaca Book, Milano 2009, p. 192. 8 – Cfr. JULLIEN F., Entrer dans une pensée, cit., pp. 167-168. 9 – Cfr. su questo punto la proposta nota e “scandalosa” della decrescita formulata in LATOUCHE S.,

Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011: Id., Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Eleuthera, Milano 2011; Id., Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 10 – FOUCAULT M., Est-il donc important de penser?, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, p. 999. 11 – Cfr. PASQUALOTTO G., in East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia 2003, p. 19. 12 – Cfr. AIME M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 26. 13 – Cfr. LENCLUD G., La tradizione non è più quella di un tempo, in P. Clemente e F. Mugnaini, Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Carocci, Roma 2001, p. 131 (citato anche in M. Aime, op. cit., p. 38). 14 – «Il vero contributo delle culture non consiste nell’elenco delle loro invenzioni particolari, ma nello scarto differenziale che esse presentano fra di loro» (LÉVI-STRAUSS C., Razza e storia. Razza e cultura, tr. it. Einaudi, Torino 2002, p. 44). 15 – BAUMAN Z., Adorno e la globalizzazione, in «MicroMega», 5/2003, pp. 62-81 (la citazione si trova alle pp. 77-78). 16 – Vale la pena citare, anche solo parzialmente, una lucida nota presente in M. Recalcati, op. cit., p. 13: «Il carattere epocale di una figura come quella di Silvio Berlusconi non consiste ovviamente nell’azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica,


ma nel come la sua persona abbia suggellato paradigmaticamente questa equivalenza ipermoderna tra Legge e godimento. Non solo i cosiddetti comportamenti privati, ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa (vedi, ad esempio la cosiddette leggi ad personam), svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato miri alla realizzazione del proprio godi-mento situato non come capriccio estemporaneo, ma come di diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre». 17 – Ivi, p. 79.

20 – CACCIARI M., Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 148. 21 – CACCIARI M., L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, p. 33. 22 – CURI U., Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 13. 23 – Ivi, p. 139. 24 – Ibidem. 25 – REMOTTI F., Cultura, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 100. 26 – Cfr. WALDENFELS B., Fra le culture, in «Aut Aut», 313-314, 2003, pp. 68 ss. 27 – PASQUALOTTO G., La comparazione fra Oriente e Occidente, in «Filosofia Politica», Il Mulino, Bologna, 1/2004, p. 75. 28 – VAN BINSBERGEN W., Le culture non esistono, in A. Miltenburg (a cura di), Incontri di sguardi. Saperi e pratiche dell’intercultura, Unipress, Padova 2002, p. 39. 29 – CACCIARI M., Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 214. 30 – Ibidem; cfr. in generale pp. 210-229. 31 – JULLIEN F., Cinq concepts proposés à la psychanalyse, cit., pp. 167-168. 32 – Cfr. JULLIEN F., L’universale e il comune. Il dialogo tra le culture, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 5-34. 33 – GLISSANT E., Poetica del diverso, Meltemi, Roma 1998, p. 104.

34 – JULLIEN F., Cinq concepts proposés à la psychanalyse, Grasset, Paris 2012, pp. 120-122. 35 – JULIUS A., Trasgressioni. I colpi proibiti dell’arte, tr. it. Mondadori, Milano 2003, p. 113. 36 – Ho cercato di descrivere e utilizzare questo concetto in relazione alla dimensione estetica e alle sue valenze interculturali nel breve saggio Confine/soglia, in GHILARDI M. (a cura di), Vie per un’estetica interculturale, Mi-mesis, Milano-Udine 2008, pp. 12-25. 37 – JULLIEN F., Entrer dans une pensée, cit., pp. 173-174 (corsivo dell’autore). 38 – Ivi, p. 177. 76—77

18 – Cfr. BONAZZI M., Uno spettro si aggira per l’Europa: l’immaginario, in M. Barenghi, M. Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea, Quodlibet, Macerata, pp. 7-13. «Nella versione moderna, un immaginario sociale è una formazione composta da rappresentazioni di carattere simbolico (parole, immagini, narrazioni) che mobilita un collettivo sociale nella costruzione di scenari (come vorremmo essere) e nella produzione di una identità collettiva. Una narrazione identitaria, una prefigurazione della futura legge comune che richiede un riconoscimento e fa comunità. Tutt’altra è la versione contemporanea dell’immaginario: una formazione fantasmatica, derivata proprio dalla rottura del patto simbolico, un insieme eterogeneo di elementi che mettono in scena piuttosto un processo di rigetto o di separazione della Legge e ne accentuano la crisi […]. L’immaginario contemporaneo è una forza pragmatica, non un insieme di idee: non ci dice cosa dobbiamo pensare, ci impone come fare – un certo stile, una certa gestualità, un certo abito –» (p. 9, corsivo dell’autore).

19 – Su questo tema mi sono soffermato in GHILARDI M., Inventare la tradizione. Identità e verità nel discorso leghista, in M. Barenghi, M. Bonazzi (a cura di), op. cit., pp. 186-195.


Europa: bene comune o divenire collettivo? di Anna Longo

È l’Europa un “bene comune”? Questa è la domanda sulla quale siamo stati invitati a riflettere per cercare di ritrovare un significato alle parole del lessico politico il cui senso sembra smarrito. Credo che se molte parole oggi sembrano vaghe è perché i concetti corrispondenti hanno perduto la loro attualità. Il problema non consista nel cercare le definizioni corrette di Stato, bene comune, soggetto politico o democrazia al fine di adeguarvi la realtà. Anche possedendo definizioni perfette, infatti, questo sforzo mi pare non solo vano, ma anche pericoloso. Sarei piuttosto favorevole ad un movimento contrario del pensiero nel quale, invece che cercare di costruire la realtà a partire dai concetti, esso lascia che la realtà stessa, nella sua inedita e drammatica configurazione, costituisca l’esperienza reale che forza a pensare di nuovo, al di fuori dell’abitudine. Vorrei evitare il movimento per cui pensare significa sempre riconoscere ogni situazione come una delle esperienze possibili determinate dal solito schema aprioristico, come se tutto quello che può verificarsi dovesse essere sempre già contenuto nelle stesse categorie concettuali, nelle stesse parole, nella stessa origine. La mia proposta consiste nel considerare che l’irriducibilità della situazione attuale ai tradizionali concetti della politica va presa come un segno del fatto che siamo entrati in una dinamica differente che, se lo vogliamo, può permetterci di pensare in una modalità diversa, di creare nuovi concetti e nuove parole. Se effettivamente un reale cambiamento è in atto, questo non può essere compreso facendo ricorso ai concetti tradizionali della filosofia politica, incapaci di affrontare il divenire in quanto pensati per fondare lo “statico”,

per determinare i principi capaci di garantire la produzione e il mantenimento di un’identità stabile. Oggi sono proprio le strutture gerarchiche, territoriali e centralizzate che sembrano travolte da flussi difficilmente controllabili e prevedibili, come quello finanziario, quello migratorio, quello della comunicazione globale, che mettono a dura prova la volontà regolante delle strutture statali e “statiche”. Nel loro passare attraverso tutti i confini e tutte le soglie, tali flussi sembrano minacciare la stabilità stessa delle tradizionali organizzazioni politiche, ormai ridotte a chiudersi in inefficaci, e probabilmente controproducenti, misure difensive. Questi flussi a-territoriali in rapido e imprevedibile divenire potrebbero essere forse compresi, accompagnati e gestiti se, invece che volerli a tutti costi riassorbire in logiche statiche, li si considerasse come uno stimolo per ripensare l’organizzazione sociale in termini dinamici e fluidi, ovvero per riflettere su come sia possibile il cambiamento invece che su come vi si debba resistere. Se le mutate condizioni reali, come le dinamiche sociali, economiche e culturali, non sono più comprensibili e definibili attraverso le categorie della filosofia politica tradizionale, forse, allora, esse costituiscono un’esperienza che sfugge al vecchio schema concettuale basato sull’identità, la permanenza e la territorialità. Perché non cercare, allora, di risolvere il problema di questa incompatibilità attraverso una nuova “individuazione” del pensiero? Perché non considerare che le condizioni reali del problema implichino, come soluzione, un cambiamento, una mutazione


ad assumere una serie di ruoli funzionali predeterminati e un certo modo di pensare e di agire. Il potere statale avrebbe così lo scopo di preservare i valori comuni che fondano la società, la struttura culturale che la sostiene e il tipo di organizzazione più idoneo rispetto ai valori comuni. Contrariamente al caso precedente, qui sarebbe l’identità del tutto a determinare l’identità delle parti, ovvero degli individui. Tuttavia, anche in questa prospettiva, il cambiamento (che pure avviene) risulta di difficile comprensione, dal momento che la struttura culturale e la gerarchia dei valori condivisi è statica ed opera per normalizzazione, il che implica un’esclusione delle devianze. Pertanto, anche qualora esistano individui che sfuggono al processo di omogeneizzazione, resta comunque difficile render conto del modo in cui questi potrebbero mettere in variazione l’intera organizzazione rispetto alla quale assumono la loro l’identità, ovvero il loro ruolo funzionale di soggetto marginale. Il cambiamento risulta quindi un fenomeno difficilmente spiegabile facendo ricorso alla filosofia politica tradizionale. Mi sembra che la ragione di tale difficoltà consista nel fatto che l’identità viene data come punto di partenza e come punto di arrivo: da un lato si tratta di definire l’identità dello Stato come somma delle identità individuali, dall’altro, invece si tratta di definire le identità individuali a partire dall’identità comune della società e della struttura che le determina. Il divenire di queste identità non è contemplato, dal momento che l’interesse consiste nel fondarle, ovvero nel dar conto del modo in cui le parti costituiscono un tutto e del modo in cui il tutto determina le parti in maniera efficace. Ora questa spiegazione segue, in un certo senso, il paradigma ilemorfico al quale Simondon intende opporre la propria teoria dell’individuazione. In effetti possiamo considerare sia che lo Stato rappresenti la forma che deve essere data alla materia disomogenea dell’umanità al fine di produrre l’identità della società civile, sia che la materia umana, sostanza razionale, sia tale da aspirare a darsi una certa forma al fine di dare origine

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del pensiero stesso, dei suoi concetti e delle sue parole? In questo consiste, a mio avviso, la grande proposta di Gilbert Simondon, teorico di un rovesciamento dell’ontologia tradizionale, di un pensiero del divenire e di una riformulazione della nozione di conoscenza che, come vedremo, possono applicarsi al pensiero politico. Tuttavia, prima di entrare in maniera più approfondita nella proposta filosofica di Simondon, vorrei spiegare perché i concetti legati alla teorizzazione del potere statale sono inefficaci qualora si tratti di dar conto del cambiamento e del divenire. In filosofia politica esistono due maniere principali di spiegare la fondazione del potere statale. L’una è la teoria del patto sociale in base alla quale gli individui liberi e autonomi, che non hanno in comune che la razionalità, comprendono che ciascuno ha la possibilità di ottenere maggiori vantaggi se tutti decidono di aderire allo stesso progetto comune, il che implica che tutti debbano preventivamente sottomettersi alle condizioni che rendono possibile il progetto stesso. Gli individui si accorderebbero per dare a origine ad un corpo unico che non preesisteva prima dell’atto della sua istituzione. Questo corpo è dotato della volontà di perseguire lo scopo da tutti desiderato ed in questo senso può dirsi dotato di un’identità che il potere statale legittimo deve garantire. Secondo questa teoria gli individui precedono le relazioni stabilite per regolarne i rapporti, queste sono la condizione del buon funzionamento del tutto istituito come accordo tra le parti. In questi termini, le eventuali modificazioni delle relazioni si spiegano solo in termini di corruzione e dissoluzione. In questo modo il cambiamento è inteso, allora, come qualche cosa che va contro le regole stabilite dal patto e che conduce allo sfaldamento dell’istituzione. Per quanto riguarda la seconda alternativa, la legittimità dell’organizzazione Statale si fonda su caratteristiche comuni – come la lingua, la cultura, il sistema di valori – che costituiscono la struttura che fonda la società e rispetto alla quale i soggetti sono formati e prodotti in maniera omogenea. La struttura genererebbe soggetti adatti


alla migliore struttura collettiva, lo Stato. Ora è chiaro che, una volta trovata la forma migliore da imporre ad una certa materia, o che una certa materia si è organizzata secondo la forma che le è la più consona, non si capisce perché le cose debbano cambiare, se non per il fatto che tutte le cose hanno una durata limitata nel tempo e tendono alla dissoluzione. Inoltre, si tenga presente che l’ilemorfismo, in tutte le sue variazioni, è considerato da Simondon come un pensiero essenzialista, proprio per il fatto che la materia e la forma preesistono in maniera ideale al loro accoppiamento produttivo1. La materia e la forma, che potremmo definire essenziali, conterrebbero già, quindi, il risultato del loro accoppiamento, ovvero l’identità che verrà costituita: come questa potrebbe allora mutare, cambiare e divenire? Nel paradigma tradizionale di legittimazione e fondazione del sistema collettivo statale tutto è una variazione dello Stesso. Come in tutto il pensiero che si rifà all’ilemorfismo, che caratterizza il pensiero occidentale fin dall’antichità, non è possibile dar conto dell’ontogenesi delle identità, ovvero della produzione dei termini individuati, se non a partire da modelli ideali (quali la materia e la forma). L’ontogenesi dell’individuale è quindi l’oggetto delle ricerche filosofiche di Simondon, nel suo sforzo di andare oltre l’ilemorfismo e il suo essenzialismo costitutivo. La teoria dell’individuazione, di cui parleremo, rappresenta quindi una modalità del pensiero che rompe con una tradizione filosofica millenaria e che abbandona l’identità per aprirsi sul divenire. Quello che vorrei sottolineare è che per Simondon l’esigenza di un tale pensiero si situa nelle mutate condizioni reali dell’esperienza e non in un gioco retorico. Egli sostiene, infatti, che sono gli studi recenti sulla metastabilità2 dei sistemi ad aver reso possibile, nonché necessaria, la ricerca di nuove spiegazioni riguardanti l’ontogenesi e l’individuazione degli enti fisici. Una delle ragioni principali che spingerebbero a pensare un’ontogenesi dell’individuale a partire dalla nozione di pre-individuale (un potenziale assoluto e indifferenziato) sono le scoperte

della fisica quantistica rispetto al comportamento degli elettroni. Questi si presentano sia come onde che come corpuscoli, il che implica, secondo Simondon, che si “individuino” in uno o nell’altro modo rispetto a determinate condizioni sperimentali, piuttosto che costituire identità minime e già date. Il fatto che a livello subatomico la realtà si presenti allo stesso tempo come materia (corpuscoli) e come onde (energia) implica che vi sia una dimensione preindividuale che si costituisce come un puro potenziale dal quale possono emergere i due stati complementari. I sistemi individuati emergerebbero dal potenziale pre-individuale differenziandosi reciprocamente l’uno come complementarietà dell’altro, come individuo e milieu, come interno ed esterno. Questo processo di ontogenesi è stimolato da una differenza di potenziale che si verifica nel campo delle tensioni che animano e attraversano il campo preindividuale ponendo un “problema”. Tale problema o differenza di potenziale è, secondo Simondon, la relazione in base alla quale si individueranno reciprocamente i termini singolari attraverso un processo risolutivo di differenziazione. Vi è quindi una precedenza ontologica della relazione rispetto ai termini, essa è ciò che determina le condizioni del problema del quale l’individuazione dei termini complementari è una possibile soluzione. La differenziazione degli esseri individuati consiste in una riorganizzazione di sistemi interagenti in una nuova fase di equilibrio dinamico (stabile o metastabile). In questi termini, allora, l’essere non è inteso da Simondon come un’identità già data che può avere una storia di variazione o di modificazione, piuttosto l’essere è ciò che si “sfasa rispetto a sé stesso, che si risolve sfasandosi”3, che si differenzia nel processo di individuazione dando origine a sistemi metastabili distinti. Questi non devono essere intesi come modificazioni dell’essere, ma come modi di essere del divenire essenziale, “il divenire non è una cornice all’interno della quale l’essere esiste; è la dimensione stessa dell’essere, il modo in cui si risolve


dell’individuazione, a partire da quanto detto sull’idea di pre-individuale e sulle linee generali dell’ontologia relativa. L’ontogenesi degli esseri individuali ha inizio quando una certa differenza di potenziale polarizza il campo indifferenziato del pre-individuale. Si determina così un problema di incompatibilità, una relazione che induce il processo di individuazione che porterà alla reciproco differenziarsi dei termini. Nel corso di tale processo un sistema si definisce rispetto al proprio milieu per mezzo di una membrana che distingue l’interno dall’esterno. Sistema e milieu si individuano l’uno differenziandosi dall’altro rispetto ad un problema che, turbando l’equilibro metastabile precedente, spinge alla ricerca di una nuova fase di assestamento. Individuo e milieu, quindi, si individuano reciprocamente rispetto ad una differenza di potenziale che li precede e li istituisce; essi si definiscono l’uno in maniera complementare all’altro istituendo uno scambio di informazione nel corso del quale si strutturano sia al livello della morfologia esterna, sia a quello dell’organizzazione interna. Pertanto, gli esseri individuati risuonano tra loro in quanto differiscono e differiscono in quanto risuonano. Per quanto riguarda gli esseri inanimati come i cristalli, che Simondon porta ad esempio, l’individuazione è un processo che conduce ad una stabilizzazione definitiva, ad una fase di equilibrio nella quale il potenziale si esaurisce in una forma stabile. Per quanto riguarda i viventi, invece, il processo di individuazione deve essere considerato come continuo. Questi non raggiungono mai una fase definitiva di equilibrio, ma persistono nella metastabilità grazie al potenziale di pre-individuale che sono in grado di conservare e che consente ulteriori individuazioni. Nel loro incessante e reciproco scambio di informazione il sistema vivente e il suo milieu continuano a modificarsi a vicenda in una risonanza differenziante, essi non smettono di porre l’uno un problema per l’altro. Inoltre, il vivente si caratterizza per una risonanza

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il problema di un’incompatibilità iniziale ricca di potenziale”4. Secondo Simondon, il processo di individuazione consiste esattamente in questa sfasatura, in questa distinzione reciproca di sistemi in risposta ad un problema reale. Tale processo implica che l’essere coincida col divenire stesso e che non sia da intendersi, quindi, come l’identità da sempre già data e che in seguito varia pur restando sé stessa. In mancanza della nozione di equilibrio metastabile e delle condizioni problematiche offerte dall’osservazione degli elettroni, una concezione dell’ontologia come quella proposta da Simondon non avrebbe potuto essere pensata nell’antichità, né prima di recenti sperimentazioni scientifiche. Il fatto che l’essere sia stato concepito in rapporto all’identità ed in contrapposizione al divenire sarebbe, secondo il filosofo francese, una conseguenza della considerazione esclusiva riservata per molto tempo all’equilibrio stabile, rispetto al quale è normale pensare secondo le categorie della permanenza e dell’identità. È così che, secondo Simondon, la nozione di metastabilità apre alla possibilità di esplorare un territorio insondato dalla filosofia, quello relativo all’ontogenesi degli esseri individuati. Questa via permetterebbe non solo di ripensare le categorie ontologiche, ma anche i concetti tradizionali della politica rispetto al problema teorico attualmente posto dalla realtà concreta, nel suo esibire caratteristiche prima sconosciute. È possibile concepire una filosofia politica basata sull’essere della relazione piuttosto che dei termini, in cerca del divenire piuttosto che dell’identità? È possibile che sia questo il percorso da intraprendere per afferrare quanto sembra oggi sfuggire ai concetti e alle parole della tradizione? È possibile che il problema che pone oggi l’Europa possa trovare una soluzione in una nuova fase del pensiero politico? È possibile pensare l’Europa come un processo di sfasature metastabili piuttosto che come un’identità comune che ci informa o che dobbiamo produrre? Prima di cercare di rispondere a queste domande vorrei spiegare brevemente la poco nota teoria simondoniana


interna che gli consente di considerare i propri stati interiori come problematici: questa risonanza con sé stesso è alla base della capacità di autorganizzazione e della soggettività. Il vivente, allora, può essere considerato come il portatore di una problematica interna che entra in una problematica più larga o, come dice Simondon, “la partecipazione è per l’individuo il fatto di essere un elemento in un’individualizzazione più vasta, grazie alla carica di pre-individuale che contiene, grazie al potenziale inespresso che trattiene”5. In questi termini il problema del tutto e delle parti trova una nuova espressione: non si tratta del modo in cui le parti si accordano per costituire un tutto, né del modo in cui il tutto regola le parti, ma è un problema specifico che produce un’individuazione collettiva emergente. L’essere individuato non è “né sostanza, né una semplice parte del collettivo: il collettivo interviene come soluzione della problematica individuale”. È allora il divenire ad apparire come la dimensione propria dell’individuo e non certo l’identità stabile e permanente (ma disponibile a entrare in certe relazioni con altre identità). In quanto divenire l’essere individuato non può che divenire in un divenire più vasto, dal momento che un processo di individuazione coinvolge sempre il milieu (che è composto anche dagli altri esseri individuati). Non sono i termini che possono entrare in relazioni diverse, ma sono le relazioni che inducono i divenire specifici nei quali consistono i termini. Questi sono presi in un movimento già sempre collettivo pur essendo singolare. Cominciamo forse a comprendere la pertinenza del pensiero simondoniano rispetto alla filosofia politica e possiamo quindi rivenire alla questione che riguarda il bene comune e l’Europa. Abbiamo detto che l’individuazione è un processo che consiste in una fondamentale differenziazione tra individuo e milieu che genera direttamente una pluralità: ciascun essere si individua rispetto al milieu come un’ interiorità che si distingue rispetto all’esteriorità composta da tutte le altre interiorità. Un insieme di esseri individuati non si fonda su qualcosa di comune, su un’identità

spartita, o un su un debito che interessa tutti, in quanto l’ontogenesi, nella quale appaiono individui già sempre in relazione tra loro, è un processo di differenziazione che consiste nella manifestazione delle potenzialità del divenire in quanto essere. Da questo punto di vista, allora, il concetto di bene comune andrebbe sostituito con quello di divenire comune, dimensione stessa dell’individuazione, dimensione dell’immanenza tra il tutto e le parti. Piuttosto che considerare le proprietà che consentono ai termini di entrare in relazione, è la relazione che deve essere considerata come ciò che produce e mette in variazione i termini, i quali appaiono così sempre già presi in una reciproca appartenenza. Il concetto di “appartenenza”6, impiegato a questo proposito dal filosofo canadese Brian Massumi, diventerebbe quindi fondamentale per indicare la dimensione collettiva del processo di individuazione. Un gruppo individuato si distinguerebbe dal milieu per un fenomeno di risonanza interna, tale risonanza segna i limiti di un problema collettivo specifico e di uno specifico divenire che vi risponde come soluzione. Quest’individuazione collettiva, che si esprime sulla base di un campo di modulazione delle risonanze, sarebbe la dimensione effettiva del sociale piuttosto che il prodotto di una serie di regole, di leggi. Il regolamento imposto dal potere statale, pertanto, non sarebbe il fondamento della rete sociale, o l’a priori che lo rende possibile, esso piuttosto funzionerebbe a posteriori, come spiega Brian Massumi, bloccando la modulazione delle relazioni in una certa fase7. In pratica, il potere statale opererebbe attraverso un arresto del flusso di potenziale in configurazioni fisse e regolate, in equilibri stabili, separando i termini per trasformarli in identità. È così che le identità possono venire intese come i dati primi che devono restare gli uni rispetto agli altri in certe posizioni gerarchiche e rapporti funzionali. In pratica, si tratterebbe di ridurre l’equilibrio metastabile ad un equilibrio stabile, rispetto al quale le regole sono il fondamento, lo schema comune, il nucleo rispetto al quale le identità si definiscono le une rispetto


un divenire collettivo a cui è sottratta la reale appartenenza poiché i problemi vengono prodotti per ottenere soluzioni pre-derminate e temporanee: per il capitalismo odierno la differenziazione è fondamentale, sono le nuove particolarità che richiedono nuovi prodotti e soluzioni. I flussi relazionali globali, pertanto, sarebbero fuori dall’ambito di gestione dei poteri statali, che continuano a sforzarsi di mantenere l’equilibrio del proprio sistema opponendosi al divenire ed attraversando così una crisi che possiamo paragonare ad una transizione di fase, inevitabile benché si cerchi di resistervi aggrappandosi ai vecchi concetti dell’equilibrio: non c’è da meravigliarsi che questi sembrino privi di senso. Non sarebbe il caso, allora, di sostituire questo paradigma con un pensiero capace di prendere in considerazione la metastabilità e le sue capacità trasduttive? Non sarebbe forse il caso di riformulare i concetti e le idee sulla base della nozione di metastabilità? Se le regole tradizionali tendono a preservare un equilibrio nel quale si riconosce una certa identità o stabilità formale ed organizzativa, Simondon propone un’etica basata su norme trasduttive. Una serie di norme che, invece di proteggere un certo equilibrio, regolano il passaggio da un equilibrio metastabile ad un altro, ovvero sono capaci di accompagnare processi di individuazione successivi. Forse, allora, dovremmo iniziare a pensare l’Europa come un divenire collettivo, come un sistema metastabile che in questo preciso momento storico richiede norme trasduttive che l’accompagnino nei cambiamenti di fase necessari al fine di contrastare la deriva nei flutti e nei flussi del controllo globale. Piuttosto che un rafforzamento dell’identità sulla base di un bene comune da imporre, sarebbe forse il caso di impegnarsi in un processo di individuazione che tenga conto del problema attualmente posto dal rapporto con un milieu in rapida modificazione. È rispetto alle condizioni reali di questo problema che dobbiamo lasciar divenire il nostro modo di pensare, i nostri concetti.

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alle altre. Chiedersi se l’Europa sia un bene comune, quindi, implica di pensare all’interno del paradigma dell’identità e dell’equilibrio. Tale domanda presuppone due risposte possibili: l’Europa è un bene comune qualora consideriamo che il suo fondamento sia una certa comunanza della struttura culturale regolante nella quale gli individui-materia sono stati prodotti in maniera omogenea; oppure, l’Europa è un bene comune in quanto vi è un’identità collettiva prodotta artificialmente sulla base della stipulazione di un accordo. Nei due casi avremmo sottratto all’Europa il suo divenire, avremmo ridotto al minimo il potenziale, l’energia e le differenze che, risuonando tra loro, inducono la libera dinamica dell’appartenenza. Per quanto detto rispetto alla filosofia di Simondon, proporrei quindi una soluzione diversa: l’Europa è un divenire collettivo di termini che risuonano tra loro in maniera problematica in virtù delle loro differenze. I termini sarebbero allora legati da un rapporto di reciproca appartenenza che sarebbe stato in seguito regolato, bloccato e, quindi, negato in quanto tale. Tuttavia, credo sia necessario porsi un’altra domanda: il potere statale che abbiamo descritto come fondato su una certa volontà di normalizzazione è ancora una modalità attuale? Secondo Massumi, il tradizionale potere regolante sarebbe stato sostituito dalla nuova modalità del controllo. Questa non si esprime bloccando le relazioni e il divenire dei termini, ma funziona determinando la modulazione delle risonanze e trascinando i termini in un divenire funzionale a certe esigenze economiche. Nell’attuale fase del capitalismo il potere non si esprimerebbe più come imposizione di regole e distribuzione di ruoli o d’identità fisse, “il controllo è la modulazione trasformata in un fattore di potere (il suo fattore di flusso)”8. Il controllo delle modulazioni agirebbe quindi inducendo cambiamenti di fase negli equilibri metastabili sociali, ed è questa instabilità che tutti oggi sperimentiamo, mentre siamo trascinati da un ruolo precario all’altro, di network in network, senza poter fare previsioni a lungo termine. Il potere di controllo stimolerebbe quindi


1 – Cfr. SIMONDON G., L’individuation à la lumière des notions de forme et information, Million, Parigi 2005, p. 45 , trad. it., L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, Mimesis, Milano 2011. 2 – Metastbilità: stato di equilibrio di un sistema fisico o chimico caratterizzato da un tempo di vita molto più lungo di quello di un generico stato eccitato ma comunque finito. In termini di paesaggio energetico, lo stato metastabile si configura in genere come un minimo locale a un livello energetico più alto dello stato fondamentale. Da un punto di vista dinamico possiamo quindi considerare un equilibrio metastabile come associato a uno stato stazionario transitorio. Il tempo di vita di uno stato metastabile dipende in maniera esponenziale dall’altezza della barriera energetica che il sistema deve superare per entrare nel bacino di attrazione dello stato di minima energia. In Treccani, enciclopedia della scienza e della tecnica. http://www.treccani.it/ enciclopedia/equilibriometastabile_ (Enciclopedia_della_ Scienza_e_della_Tecnica)/ 3 – SIMONDON G., L’individuation à la lumière des notions de forme et information, Millon, Parigi 2005, p. 25 [mia traduzione], trad. it., L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, Mimesis, Milano 2011. 4 – Ibidem. 5 – Ivi, p. 29. 6 – Cfr. MASSUMI B., Parables of the virtual: movement, affect, sensation, Duke University Press, Durham 2011, p. 76. 7 – Ivi, p. 82. 8 – Ivi, p. 88.


Discussione

p. 85 ≥ Francesco Bilotta p. 91 ≥ Damiano Cantone p. 96 ≥ Teresa Lapis p. 102 ≥ Alessandro Tessari p. 106 ≥ Roberto Masiero 84—85



Europa, democrazia, diritti. di Francesco Bilotta

Per questo non stupisce che pur rimanendo pressoché inalterato il diritto scritto, cambi progressivamente la sua interpretazione. È un meccanismo di adeguamento che consente la diffusione di relazioni giuridicamente rilevanti, in sintonia con le mutate relazioni economiche. Così il passaggio da un’economia prevalentemente centrata sulla proprietà terriera a un’economia avente come cardine l’impresa ha determinato uno spostamento dell’attenzione da parte degli operatori giuridici dal proprietario al lavoratore, dalla proprietà statica (della terra) alla proprietà dinamica (delle partecipazioni societarie). Possiamo ancora dire che nell’attuale configurazione socio-politica ed economica al centro del sistema giuridico ci sia il soggetto proprietario/lavoratore/maschio/ sano di mente? Per rispondere a tale domanda, non possiamo eludere la considerazione di come il fenomeno del consumo e tutto ciò che ruota attorno alla figura del consumatore abbia inciso sulla qualificazione del soggetto di diritto. È un passaggio fondamentale – nella prospettiva che qui ci interessa – per comprendere la relazione tra il sistema giuridico nazionale e il sistema giuridico europeo. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’Europa, nello sforzo di armonizzazione dei sistemi giuridici dei Paesi membri di quella che era la Comunità economica europea, inizia ad emanare una serie di norme riguardanti il consumatore. L’Italia, in quanto partecipe dell’organizzazione sovranazionale europea – che nasce con l’obiettivo tutto economico di creare un’area geografica di libero scambio – è tenuta, in base ai Trattati istitutivi, a recepire all’interno del proprio

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Introduzione La parola “diritti” fa istintivamente sorgere alcune domande: quale è il contenuto di queste pretese che chiamo diritti? Quali sono le loro caratteristiche? In quale testo sono sanciti? Qual è l’istituzione che li tutela? E, inoltre – in considerazione del tema delle nostre riflessioni – può essere l’Europa quel luogo simbolico prima che giuridico in cui rintracciare la loro origine? Nelle brevi riflessioni che seguono cercherò di rispondere a queste domande, anche se dal particolare angolo di visuale di chi studia il diritto civile. Partiamo da una considerazione. Il diritto riveste un ruolo importante nella costruzione sociale e culturale della persona. Chi scrisse il Codice civile italiano del 1942 aveva in mente un preciso soggetto di diritto, con caratteristiche che è piuttosto agevole intravedere attraverso la trama normativa. Si tratta del cittadino borghese: proprietario, maschio, in possesso dei diritti politici, sano di mente. Tali qualità lo abilitano a compiere scelte politiche e sociali, e altresì scelte relative al proprio patrimonio e alla propria persona. Secondo aspetto da non dimenticare. Il diritto scritto aspira alla immodificabilità, poiché le regole di comportamento per essere osservate spontaneamente devono essere conosciute al punto tale da creare automatismi nelle relazioni sociali. Il punto è che si tratta di un’aspirazione irrealizzabile, per una serie di ragioni diventate più numerose e difficilmente superabili nel mondo contemporaneo globalizzato. Una di queste ragioni è la stretta interdipendenza tra la dimensione economica della vita sociale e i diritti (civili, politici e sociali) delle persone.


ordinamento tali normative. Ciò ha comportato – data la numerosità dei provvedimenti di origine europea che si sono susseguiti – una stratificazione di regole riguardanti il cittadino-consumatore in diversi ambiti. Un’esigenza di semplificazione e di armonizzazione di tale mole di regole, ha reso necessario nel 2005 la nascita di un codice specifico, il Codice del consumo. L’entrata in vigore di questo Codice ripropone una distinzione che – con la fusione del 1942 tra il Codice civile e il Codice di commercio – pensavamo di esserci lasciati alle spalle, ossia quella tra il cittadino e l’uomo del commercio (derivante dalla tradizione francese). Nel soggetto borghese del Codice civile del 1942 si erano uniti i due aspetti: quello del cittadino proprietario, poi lavoratore, poi membro attivo della società dal punto di vista politico e quello del cittadino dedito al commercio in quanto proprietario di un’impresa o partecipe di una società. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, invece, subiamo dall’Europa la scelta di conferire al consumatore una sua dignità sociale e giuridica, simbolicamente consacrata in Italia nel 2005 con l’emanazione del Codice del consumo. Dal consumatore al cittadino: la Carta di Nizza. Quella del consumatore però è ancora una tappa. Non si tratta del punto di arrivo nel rapporto tra Europa e Italia dal punto di vista della tutela dei diritti e nella definizione delle caratteristiche del soggetto che di quei diritti può godere. Del resto, nemmeno quello che sto per descrivere può considerarsi un approdo definitivo. Poiché il diritto e la società (nelle sue diverse dimensioni) sono strettamente legati, non si può sperare di descrivere in maniera definitiva la loro relazione, dal momento che entrambi gli elementi di tale relazione possono subire nel tempo sensibili modificazioni. Ad ogni modo, un elemento di novità è stato senza dubbio l’emanazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta a Nizza nel 2000, ed elaborata nel 19991. Nonostante il rilievo – anche simbolico – di questa dichiarazione, tendente ad armonizzare le tradizioni

costituzionali dei Paesi che fanno parte dell’Unione europea, l’Italia, che vive l’istituzione europea sempre un po’ ai margini, è restata un passo indietro. Infatti, non viene immediatamente colto il valore fondativo (e non meramente ricognitivo) della Carta di Nizza. In quel testo, il cittadino europeo viene focalizzato non tanto in quanto proprietario o imprenditore o consumatore, ma proprio in quanto “cittadino”, nella sua dimensione sia nazionale sia europea. A partire da questa sua qualità basilare, si individuano le sue prerogative, i suoi diritti “fondamentali” (aggettivazione per nulla pleonastica). Così facendo, si cerca di individuare un insieme di valori e di prospettive intorno alle quali far ruotare tutta l’organizzazione sociale di un’istituzione come l’Unione europea. Non può sfuggire, quindi, l’importanza di un’operazione che non può essere relegata all’ambito giuridico. E pertanto, ci si aspetterebbe che in Italia, in quanto membro dell’Unione, in molti – non solo i giuristi – abbiano seriamente preso in considerazione l’esistenza di questo documento. Al contrario, per anni la reazione generale è stata quasi nulla. I giuristi italiani, pur comprendendo la portata delle nuove prospettive aperte dalla Carta di Nizza, hanno continuato a non riconoscerle alcun valore, appellandosi a rilievi di carattere formale, quanto alla sua mancanza di vincolatività. La forza delle cose ha permesso il superamento di tale atteggiamento insensato: come è possibile non tenere conto di una sintesi delle tradizioni costituzionali di un ente sovranazionale a cui l’Italia partecipa? Infatti, la magistratura italiana e, in particolare, la Corte di cassazione, hanno ben presto cominciato a porsi il problema della rilevanza giuridica della Carta e dei suoi riflessi sull’ordinamento giuridico italiano. Le domande che i nostri giudici si sono poste sono state essenzialmente le seguenti: a. che tipo di tutela hanno, se ce l’hanno in Italia, diritti che nella Carta di Nizza sono qualificati come “fondamentali”? b. è pensabile che i cittadini italiani possano avanzare pretese nei confronti


La Carta di Nizza e la Costituzione italiana. Va sottolineato che – nonostante ciò che nel tempo ha sostenuto la Corte di cassazione – non si possono ritenere totalmente sovrapponibili la Carta di Nizza e la Costituzione italiana. E ciò innanzitutto per ragioni di carattere storico, dato che tra le due Carte fondamentali esiste uno scarto di oltre mezzo secolo. Ciascuna di esse sottende una visione della società, della cittadinanza, dei rapporti tra Stato e cittadino e tra cittadini completamente diversi. Fermi restando alcuni punti

in comune, quella dimensione plurale dei diritti che si ritrova nella Carta di Nizza – come vedremo subito – ha una caratura ben diversa da quella della nostra Costituzione. A riprova di ciò, vi è un dato testuale, ossia l’espressa tutela della “dignità” di cui all’art. 1 della Carta di Nizza, mai affermata esplicitamente dalla nostra Costituzione, ma ricavabile dalla lettura di alcuni articoli, in cui troviamo l’aggettivo “dignitoso”. Inoltre, la concezione della cittadinanza, che sta alla base della Carta di Nizza ci induce a immaginare una diversa organizzazione del nostro stare insieme in una società caratterizzata da una profonda tensione verso l’inclusione. La dimensione plurale dei diritti permette di individuare aree di tutela della vita della persone che, nella Costituzione italiana, sono solitamente ricondotte all’articolo 3 Cost., in cui troviamo l’espressione (generica e astratta) “condizioni personali e sociali” (che non devono essere rilevanti per garantire il rispetto del principio d’uguaglianza). Nella prima parte della Carta di Nizza, dedicata all’enucleazione dei diritti fondamentali del cittadino europeo, invece, vengono espressamente nominate alcune categorie di persone: minori, anziani, disabili, che rinviano alla concretezza della loro quotidianità e dei loro bisogni. Si passa dall’astratto al concreto. Lo stesso si dica del principio di “non discriminazione”, sancito dall’art. 21 Carta di Nizza. Nell’art. 3 Cost. it. lo si può desumere interpretativamente, mentre nell’art. 21 viene imposto in maniera espressa come regola di comportamento nei rapporti tra Stato e cittadini, tra cittadino e cittadino, e addirittura diventa principio ermeneutico di tutte le norme dell’ordinamento comunitario (art. 51 Carta di Nizza), nel senso che nessuna norma dell’Unione europea può essere interpretata in modo da avere un effetto discriminatorio. Si tratta solo di una questione redazionale? Di un diverso modo di scrivere le stesse cose? Evidentemente no. La Carta di Nizza finisce per costituzionalizzare la persona in tutte le sue espressioni. Al centro dell’ordinamento europeo (e quindi italiano)

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dello Stato e della pubblica amministrazione italiana fondate sulla Carta di Nizza? La strategia argomentativa usata dalla Corte di cassazione è consistita nell’evidenziare le somiglianze tra la Carta di Nizza e la Costituzione italiana. In tal modo, si è sfruttata la massima vincolatività della Costituzione per introiettare nell’ordinamento i contenuti della Carta di Nizza, il cui valore anche sul piano simbolico e culturale – come abbiamo accennato – va oltre il riconoscimento di singoli diritti. Incidentalmente, si noti che tra le prime pronunce in cui s’è fatto riferimento alla Carta di Nizza, ci sono state quelle della terza sezione della Cassazione, che si occupa della responsabilità civile. La responsabilità civile è infatti la sentinella di ogni ordinamento nella tradizione occidentale, dal momento che il risarcimento del danno è la risposta sanzionatoria affidata ai privati, tutte le volte in cui si affacci al mondo del diritto una nuova pretesa (“chiedo il risarcimento del danno in quanto mi ritengo leso nel mio diritto appena sancito dall’ordinamento giuridico”). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il cui articolo 6 attribuisce alla Carta la forza dei Trattati europei, nessuno ha più potuto ignorarne il contenuto e anche l’Italia si è rassegnata al rispetto della Carta di Nizza. Ciò che è interessante è considerare di qui in avanti come cambieranno non solo i rapporti verticali Stato-cittadino ma anche quelli orizzontali, dei cittadini tra loro. Così come sarà interessante osservare il riparto di competenze che si determinerà tra le autorità nazionali e quelle europee circa la tutela dei diritti fondamentali.


non vi è più il soggetto proprietario, lavoratore o consumatore che sia, ma la persona, ossia un soggetto in relazione con altri soggetti, portatore di esperienze e di qualità che lo rendono differente, portatore di saperi e di vissuti unici nella loro composizione. La persona, quale categoria di riferimento dell’ordinamento giuridico, indica un soggetto totipotente, inqualificabile a priori e quindi non tutelabile astrattamente, bensì a partire dalla sua storia, dai suoi desideri, dai suoi bisogni. In una tale dimensione complessa e problematica, non è più possibile guardare al diritto come nell’Ottocento e nel Novecento, ossia come a una regola predefinita in astratto. Il passaggio dal “soggetto di diritto” alla “persona”, obbliga tutti gli operatori del diritto a elaborare regole di comportamento che valorizzino la concretezza dei bisogni individuali nel rispetto delle qualità e delle scelte di vita di ciascuno. Autonomia e autodeterminazione. La parola “persona” libera il diritto dall’astrazione e fa recuperare la materialità delle relazioni giuridicamente rilevanti obbligando, così, a pensare a un diritto flessibile, capace di rispondere alle necessità del caso concreto. Per comprendere il senso e la portata di questo passaggio, forse è utile riflettere su due termini: “autonomia” e “autodeterminazione”, spesso utilizzati come sinonimi, ma che invece rinviano, anche etimologicamente, a due concetti completamente diversi sul piano giuridico. Quanto alla parola “autonomia”, i giuristi degli anni Cinquanta del secolo scorso, come obbedendo a un riflesso condizionato vi associavano l’aggettivo “negoziale”, influenzati com’erano dalla tradizione tedesca e dagli studi che erano stati fatti nel corso dell’elaborazione dell’allora nuovo Codice civile. Il termine, in grande sintesi, faceva pensare al potere di ciascuno di organizzare il proprio patrimonio utilizzando i mezzi giuridici messi a disposizione dall’ordinamento. Oggi invece, la parola autonomia – anche in senso non strettamente giuridico – ci induce immediatamente a pensare al potere di decidere in merito alla propria vita e al proprio corpo. In questo senso

la parola “autonomia” viene usata in un’accezione che l’avvicina molto alla parola “autodeterminazione”. Si riscontra, quindi, un notevole scarto tra il giurista del Novecento, che al termine “autonomia” associava automaticamente il concetto di “patrimonio”, e il giurista contemporaneo che pensa l’autonomia in relazione alla persona, ovvero alla gestione di ciò che nella sua sfera giuridica c’è di non patrimoniale e in cui lo Stato non deve ingerirsi. La possibilità di pensare l’autonomia in questi termini è dovuta anche al fatto di aver sostituito al soggetto, come entità astratta delle relazioni giuridiche, la “persona”. Il passaggio definitivo dall’autonomia patrimoniale all’autonomia concernente le scelte esistenziali, ossia all’autodeterminazione, è anche frutto dell’innovazione portata dalla Carta di Nizza. Non è un caso che la sentenza n. 438/2008 della Corte costituzionale, in cui si utilizza tra le prime volte l’espressione autodeterminazione, citi espressamente l’art. 3 della Carta di Nizza, a mente del quale «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica». La redistribuzione dei poteri. Vista dall’Italia questa “Costituzione della persona” (come spesso Stefano Rodotà chiama la Carta di Nizza) ha altre implicazioni, ancora più pratiche e dirompenti rispetto a quelle che abbiamo finora richiamato. Insieme alle regole di funzionamento dell’Unione europea, la Carta di Nizza determina una redistribuzione dei poteri. Uso il termine al plurale perché vorrei indicare tanto il potere politico, quanto quello del mercato, quanto infine – pensando ai rapporti tra cittadini – quello degli “specialisti”, ossia quelle persone che hanno determinate competenze (es. medici, giuristi, economisti), ovvero svolgono professioni che presuppongono un sapere tecnico, un sapere attraverso il quale è possibile incidere sulle vite degli altri. La centralità della persona e la preminenza dei suoi bisogni comporta un’inversione dei rapporti di potere. Non può essere né lo Stato, né il depositario di un qualsiasi


di sottoporla al vaglio della Consulta. Ma nemmeno una volta varcata la soglia della Corte costituzionale i cittadini, in quanto collettività, riacquisteranno la possibilità di esprimersi sulle loro vite, perché soltanto le parti del giudizio cosiddette “a quo”, ovvero da cui proviene la richiesta di vagliare la costituzionalità di una certa norma, potranno partecipare al giudizio dinanzi alla Corte. Tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, ad esempio le associazioni e i rappresentanti degli interessi connessi a quella controversia, sono esclusi, tenuti a distanza da quell’istituzione fondamentale per la legalità costituzionale che è la Corte costituzionale. Diversa è la situazione all’estero, dove esiste un istituto chiamato “Amicus curiae”. Dinanzi alle Corti supreme alcuni soggetti, o in quanto specialisti di quella determinata materia o in quanto interessati perché facenti parte di associazioni con lo scopo di curare gli interessi connessi con la vicenda, possono far pervenire ai giudici un cosiddetto “brief”, un documento in cui analizzano la vicenda ed esprimono il loro punto di vista. Il funzionamento della nostra Corte costituzionale è ancora governato da una visione del diritto intrisa di dogmatismo. A prevalere è l’aspetto ermeneutico: l’esistenza della cosa in sé è totalmente subordinata all’atto interpretativo. Coerentemente con tale impostazione è impossibile chiedere alla Corte che acquisisca prove utili al suo giudizio né che senta la persona interessata o un esperto. Il cittadino, in definitiva, è tenuto distante dai luoghi in cui si decide sui diritti fondamentali, sia esso il Parlamento o la Corte costituzionale. Così non è nella dimensione europea, dove in attuazione del Trattato di Lisbona è stato emanato un Regolamento, in vigore dal primo aprile 2012, in forza del quale i cittadini possono sollecitare la Commissione europea ad adoperarsi per l’emanazione di un atto giuridico da parte dell’Unione. E la Commissione non può esimersi dall’attivarsi quando si siano verificate tutte le condizioni poste dal Regolamento. Qualcuno potrebbe obiettare che esiste anche all’interno del nostro sistema la possibilità di un’iniziativa di legge popolare. In questo caso sarebbe necessario

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potere (amministrativo, giudiziario, basato sulle competenze) a prevalere sul cittadino. Il potere in quanto funzionale al soddisfacimento dei bisogni della persona, deve conformarsi alla volontà del beneficiario dell’uso del potere. Riflettiamo, ad esempio, sul potere politico e sulla distanza che in questi anni si è generata tra gli eletti e gli elettori in Italia. Il modello di potere che si è affermato e che nel Governo dei tecnici ha conosciuto la sua apoteosi, esclude totalmente il cittadino dalla compartecipazione alle scelte fondamentali per la sua vita. Un luogo comune ha trasformato, nella percezione collettiva, la democrazia rappresentativa in una democrazia oligarchica. Il luogo comune consiste nella diffusa convinzione che, attraverso la delega fornita al rappresentante politico con il voto, il cittadino esaurisca il proprio ruolo, sicché di lì in avanti non potrebbe in alcun modo incidere sul “farsi” della vita pubblica. Una tale visione semplificata e formalista della democrazia rappresentativa fa del cittadino colui che sceglie (cosa discutibile, peraltro, nel vigente sistema elettorale) qualcuno che da un certo momento in poi prenderà qualsiasi decisione in sua vece. Siamo sicuri di non trasformare in tal mondo il cittadino in un “suddito”? Seguendo tale logica, l’istituzione parlamentare si è gradualmente scollata del tutto dalla realtà. Infatti, tale logica non presuppone un dialogo costante tra i due protagonisti della vicenda, ma un monologo in occasione delle tornate elettorali, in cui non è certo il cittadino ad avere la facoltà di parola. Rispetto al riconoscimento e alla tutela dei diritti fondamentali, questo vuol dire che il cittadino non avrebbe più la possibilità, una volta formatasi una determinata maggioranza parlamentare, di incidere sulle dinamiche del Palazzo, al cui arbitrio è rimessa ogni decisione. Il tutto si acuisce a causa del fatto che nel nostro sistema è impossibile un ricorso diretto alla Corte costituzionale. È forse il caso di ricordare che per accedere alla Corte costituzionale è necessario da un lato il sorgere di una lite che coinvolga l’applicazione di una determinata norma e dall’altro lato la volontà del decidente


ricordare che finora, in tutta la storia repubblicana, non ne è mai stata discussa dal Parlamento italiano nessuna, di queste proposte di legge d’iniziativa popolare. Nella dimensione europea si accorciano le distanze anche tra i cittadini e coloro che giudicano sui diritti fondamentali. Alla Corte europea dei diritti umani, organo che sovrintende al rispetto della Convenzione europea dei diritti umani, è possibile accedere direttamente sia pure in presenza di determinati presupposti. E anche in questo caso la Carta di Nizza fa valere la sua influenza, giacché la Corte EDU sempre più frequentemente la utilizza come strumento ermeneutico della Convenzione europea dei diritti umani. La prospettiva europea dei diritti fondamentali. Alla luce di queste considerazioni, la nostra partecipazione all’Unione europea e al Consiglio d’Europa ha in sé le potenzialità ancora inespresse capaci di indurre una rinnovata visione della nostra democrazia a partire da una nuova centralità dei diritti fondamentali, ovvero quei diritti senza i quali sarebbe impossibile immaginare l’organizzazione della nostra esistenza. Stilare una lista dei diritti qualificati come fondamentali, di fronte ai quali lo Stato si debba arrestare è da sempre uno degli obiettivi del costituzionalismo. Forse è giusto che sia un orizzonte capace di allontanarsi ogni volta che si tenta di raggiungerlo, tanto più oggi in cui non il soggetto di diritto, ma la persona è posta al centro dell’ordinamento giuridico. Ma proprio in ragione della complessità insita nel concetto di diritto fondamentale, è opportuno guardare con favore alla Carta di Nizza e alla dimensione europea, perché possono servirci da sponda per meglio tutelare la persona nel nostro Paese. A tal fine, bisogna cessare di considerare le norme di derivazione europea un corpo estraneo. Così come bisognerà abituarsi ad una tutela multilivello dei diritti fondamentali. È inaccettabile, in questo senso, il giudizio del Cardinal Bagnasco sull’ultimo pronunciamento della Corte europea dei diritti umani riguardante la nostra legge 40 concernente la fecondazione

medicalmente assistita. Senza voler entrare nel merito della questione, per il fatto che qui non si discutono questioni contenutistiche ma di metodo, è inaccettabile che il Cardinale affermi che la nostra magistratura è stata “scavalcata” da giudici “stranieri”, descrivendo così la Corte EDU come un giudice “diverso”, “distante”, indicandola paradossalmente come un’istituzione che mette in discussione i fondamenti stessi del nostro sistema giuridico. Si tratta di un’operazione culturale, nemmeno troppo sottile, che inculca nei cittadini la diffidenza e la disaffezione nei confronti di un’istituzione di garanzia come la Corte europea dei diritti umani, che è chiamata a garantire il rispetto di norme che costituiscono un ordinamento giuridico di cui l’Italia fa pienamente parte. La Carta di Nizza e la dimensione europea ci offrono – a mio avviso – la possibilità di una nuova progettualità sociale a partire dai diritti fondamentali. Tale progettualità appartiene alla sfera politica, come alla politica del diritto del resto appartiene questo ragionamento. Quello che si è fin qui descritto è un obiettivo verso il quale dovrebbero tendere non solo i giuristi, ma anche e soprattutto i cittadini consapevoli dei propri diritti e quindi partecipi in prima persona del loro riconoscimento e della loro tutela.

1 – L’organo che ha elaborato la Carta di Nizza era composto da quindici rappresentanti dei Capi di Stato o di Governo da un rappresentante del Presidente della Commissione, da sedici membri del Parlamento europeo designati da quest’ultimo e da trenta membri dei Parlamenti nazionali designati dai Parlamenti stessi. Per l’Italia, quali rappresentante del Governo è stato designato prima Giovanni M. Flick e poi, in seguito alla sua nomina a giudice costituzionale, Stefano Rodotà, mentre quale membro del Parlamento europeo era presente l’italiana Elena Paciotti e infine come designati

dal Parlamento italiano il senatore Andrea Manzella, dei DS, e il deputato Piero Melograni, di Forza Italia.


Sovranità, rappresentanza, democrazia. di Damiano Cantone

moderna questo è un tema chiave, direi il perno su cui si è incardinato lo sviluppo delle democrazie rappresentative in contrapposizione da una parte agli assolutismi, e dall’altra alle forme di democrazia diretta. La rappresentanza, per usare una definizione molto ampia proposta da Carl Schmitt, più che una forma di potere tra le altre è un mezzo per conferire voce e soggettività politica al popolo. Esso è supposto esprimersi con una volontà unitaria, al di sopra degli interessi dei singoli, secondo una concezione dello stato che abbiamo ereditato da Hobbes e dalle teorie del diritto naturale. Ovviamente, come individuano Bobbio, Pasquino e altri, esistono vari modelli di rappresentanza, che possiamo riassumere in tre forme principali: la delega, il rapporto fiduciario e il rispecchiamento, ovvero la rappresentatività sociologica. Nel primo caso l’autonomia del rappresentante dovrebbe essere limitata, essendo semplice esecutore del mandante, vuoi in territorio straniero, come avviene nel caso degli ambasciatori, vuoi sul suolo patrio, come avviene per tutti i pubblici ufficiali che rappresentano lo stato nell’esercizio delle loro funzioni. Il secondo caso è quello del politico che si suppone debba agire nell’interesse generale, ed in tal senso gode di un certo margine di libertà e autonomia decisionale, regolamentato dalle costituzioni. Il terzo è un punto di vista più ampio, che tende a valutare se davvero ci sia una corrispondenza effettiva tra la società e chi l’amministra. Tutti questi modelli sono utili, ma astratti: la realtà sociale ci presenta queste forme di rappresentanza del tutto sovrapposte, intrecciate, con

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Rispetto ai temi suggeriti quest’anno per il laboratorio di Comodamente, quello della sovranità è sicuramente uno dei più problematici. Paradossalmente tanto più problematico quanto più appare scontato: almeno in linea di principio, nelle nostre democrazie occidentali nessuno deve più lottare affinché il diritto alla sovranità sia garantito. Esistono leggi, costituzioni e istituzioni e convenzioni che regolano validità e limiti della sovranità in campo sia internazionale, tra gli stati, sia nazionale, ovvero nel rapporto tra lo stato e i cittadini. La nostra costituzione, ad esempio, afferma nel primo articolo che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La nostra è una democrazia rappresentativa, il popolo non può esercitare direttamente la sua sovranità, ma solo attraverso dei rappresentanti democraticamente eletti, secondo le modalità che tutti conosciamo. Tuttavia, come abbiamo potuto sperimentare negli ultimi 20 anni, la situazione è tutt’altro che irenica. Basta leggere qualunque quotidiano per trovarvi tristi editoriali sulla crisi della politica, sullo svuotamento delle istituzioni democratiche, sulla fine del rapporto fiduciario che lega gli elettori e gli eletti, e così via. Il minimo comune denominatore è sempre quello del limite delle democrazie rappresentative. In altre parole, si tratta di capire fino a che punto i concetti di “democrazia” e di “rappresentanza” riescano a convivere. Non è facile dare una definizione teorica di “rappresentanza politica” e questo è testimoniato in primo luogo dalla problematicità del suo funzionamento a livello pratico. Nella filosofia politica


problematiche che ne sfumano i confini. Inoltre va sottolineato che la rappresentanza è uno dei tasselli che compongono il mosaico di un sistema politico democratico, anche se certamente è uno dei più importanti. Il quadro è talmente sfaccettato che mi sembra doveroso porre l’ovvia questione: di cosa parliamo quando parliamo di crisi della rappresentanza? Quale delle sue forme è maggiormente coinvolta? La cronaca ci offre lo spunto per abbozzare una prima risposta: oramai da qualche anno assistiamo a un fermento di movimenti popolari che non sappiamo bene come valutare. I primi, ormai quasi dimenticati, sono stati gli episodi di violenza verificatesi nelle banlieues francesi nel 2005. Un’esplosione di rabbia cieca che si scagliava in fin dei conti verso gli stessi partecipanti ai riots: bruciavano le proprie case, le loro auto, le poche cose che erano riusciti a mettere insieme in una vita di frustrazioni. L’episodio colpì l’opinione pubblica, perché accadeva “da noi”, nella civile e pacifica Europa, mise in imbarazzo il governo Sarkozy, solleticò i sociologi, ma non ebbe ulteriori sviluppi. Ora questo fenomeno si è diffuso in modo quasi pandemico in tutto il mondo, e questo sentimento di iniziale stupore lascia il posto ai più vari tentativi di giustificazione. Così oggi movimenti come quelli di Occupy Wall Street negli Stati Uniti o degli indignados in Spagna fino ad arrivare a fenomeni abbastanza peculiari come il movimento 5 stelle in Italia o i Pirati in Germania caratterizzano la scena politica, e costringono i partiti tradizionali, sempre più scricchiolanti e impastoiati nelle paludi della corruzione, e più in generale le forme della politica a fare i conti con loro. È importante distinguere queste forme di protesta da quelle della cosiddetta “primavera araba”, cui spesso i media li accumunano. Anche se i giovani della “primavera araba” sono altrettanto scontenti delle forme di potere che li governano dei loro coetanei indignados madrileni e di quelli che occupano Wall Street, non va dimenticato che c’è una profonda differenza tra i primi,

che anelano a una forma di governo democratico, e i secondi che invece criticano la mancanza di vera democrazia all’interno delle democrazie occidentali. Se le vere e proprie rivolte della Tunisia, della Libia, dell’Egitto e della Siria avevano e hanno come scopo quello di rovesciare dei tiranni e di instaurare delle nuove forme politiche più eque, le proteste europee e statunitensi, in questo molto vicine alle esplosioni di violenza delle banlieues parigine, sembrano più un grido disperato e impotente verso un limite intrinseco dei regimi democratici che reggono i nostri Paesi. Essersi affidati con troppa leggerezza al capitalismo finanziario, non più fondato sulla logica del lavoro e del prodotto, ma sul debito e la speculazione, dopo l’ebbrezza iniziale, ora si sta rivelando per molti un pesante errore. Eppure, come testimonia il caso della Grecia, è molto difficile cambiare rotta, e le popolazioni soffrono perche sono costrette a pagare il prezzo di decisioni che sono state prese al di sopra delle loro teste, e rispetto alle quali non si sentono responsabili. Perciò, a differenza degli arabi, gli europei non si aspettano che da queste proteste esca una forma politica migliore, né possiedono delle reali proposte di respiro globale capaci di cambiare lo stato delle cose. Ma c’è una conseguenza ulteriore: aver condannato la politica all’irrilevanza, a una “gestione dell’inevitabile”. Assistiamo, come è stato rilevato a più riprese, a una managerializzazione della democrazia, nel senso che la vita collettiva e il gioco politico sono imprigionati in un imperativo gestionale: il dovere di gestire tutto, costi quel che costi, derogando se necessario alle regole della democrazia e alle garanzie della legge. A volte questo viene visto anche in modo positivo, come sintomo di un sano pragmatismo, del fatto che finalmente viviamo in un universo postideologico, quindi ci occupiamo di problemi reali, e non di difendere vaghe visioni del mondo. Eppure la riduzione della politica ad amministrazione è davvero il colpo al


cuore della questione della rappresentanza. La politica non può non essere ideologica: deve la sua forza proprio al suo “potenziale utopico”, alla sua capacità di trasformazione della realtà. Anche Marx, il più feroce critico dell’ideologia, era ben consapevole del fatto che, in fondo, anche il comunismo era tale: ma a differenza delle altre ideologie, per Marx il comunismo era scientifico, si basava cioè su un’analisi attentadelle trasformazioni dialettico-sociali della realtà.

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Spesso quando si parla di crisi della democrazia rappresentativa si dimentica che essa possiede due lati: i rappresentanti e i rappresentati. In generale nelle analisi politiche che si leggono sui giornali si tende sempre a analizzare il primo livello della questione, quello dei rappresentanti, mostrando come la forma-partito sia ormai in crisi, come le istituzioni si stiano svuotando di senso, e così via. I rappresentati invece, ovvero la complessa società italiana, vengono sempre descritti con cautela, circospezione, diffidenza. Direi che si utilizza generalmente un’antropologia sbagliata, che vede la società come un coacervo di egoismi e interessi particolari, piccole connivenze, astuzie, ecc. Un’idea che è ancora debitrice dello stato di natura di Hobbes, per intenderci. Altrimenti non si capirebbe l’atteggiamento spaventato nei confronti dell’emergere, una volta tanto, di soggetti politici sulla scena europea e mondiale. Da tutte le parti si denuncia una “perdita di credibilità” della politica, una sfiducia dei cittadini nei confronti delle istruzioni. Ma i primi ad essere stati sfiduciati sono proprio i cittadini stessi. Ci si angustia per l’antipolitica, ma non si calcola che essa è in parte anche un effetto che è stato, almeno negli ultimi 20 anni, accettato, se non cinicamente voluto, dalla politica di professione, cui conveniva mandare ai cittadini un messaggio del tipo “non vi preoccupate, ci pensiamo noi”, per mascherare la progressiva e irreversibile perdita di potere delle politiche nazionali a livello globale. Del tutto coerentemente, l’attuale denuncia di antipolitica spesso maschera una volontà forte di impedire che nascano delle nuove soggettività politiche, di ostacolare dei processi di

consapevolezza politica che nascono “dal basso”, ovvero fuori dai canali istituzionali. La scommessa della politica è allora quella di riuscire a dare piena rappresentanza a queste voci nuove, sfruttandone il potenziale emancipatore ed evitando derive di tipo demagogico: l’indignazione deve trasformarsi in una forza propulsiva per il cambiamento, e non in rabbia distruttiva. Movimenti come quelli dei 5 stelle in Italia o de i Pirati in Germania non devono far paura: non sono un sintomo di una degenerazione della politica in populismo, qualunque cosa questo termine voglia dire, ma sono anzi una spia di un bisogno sociale di politica che ricomincia a scorrere nelle vene dei cittadini. È interessante in questo senso la proposta di Sloterdjik di una visione timocratica della natura umana: considerare i cittadini per i loro tratti pro-sociali anziché per la loro pancia. La politica nasce dal senso dell’onore, della giustizia, della dignità civile e dell’odio verso i soprusi. Fa parte della natura umana, ed è il superamento dei semplici egoismi personali. È l’unico modo per evitare che la sana indignazione dei cittadini contro i politici si traduca nel dilagare di fenomeni demagogici e identitari come è avvenuto negli anni scorsi per movimenti come la Lega Nord. È sempre stato un grosso punto interrogativo quello di definire che cosa significhi “popolo” e il rischio di una deriva populista nel riempire di senso questo significante è terribilmente alto. Possiamo indicare con il termine populismo, anch’esso impreciso, ogni tentativo di parlare in nome del popolo, di riassumere il popolo in un’unica istanza. In realtà in questo periodo la parola populismo è una delle più usate, oserei dire abusate, nei dibattiti politici e televisivi. Viene reciprocamente vomitata come il peggiore degli insulti dai politici degli opposti schieramenti. Ma non è chiaro cosa si intenda con essa. Il risultato è che i confini tra popolo e populismo sono quanto mai confusi. Ciò è estremamente pericoloso dal punto di vista della sovranità democratica, che per l’appunto dovrebbe essere detenuta dal popolo. Invece di costituirsi come un soggetto politico ben chiaro capace di un’azione consapevole,


si aggira per le nostre democrazie come uno spettro pronto a pervertirle in una qualche forma di nuovo fascismo. L’angosciosa domanda alla quale non è ancora stata trovata una risposta si presenta in questi termini: dove finisce il popolo e dove comincia il populismo? Se, come è giusto, nessuno può sentirsi legittimato a parlare in nome del popolo, come facciamo a sapere cosa ha da dire il popolo? Dopo le elezioni presidenziali americane del 2000, durante il periodo d’incertezza seguito al sostanziale pareggio elettorale, Al Gore osservò ironicamente: “il popolo ha parlato. Solo che non siamo ancora in grado di capire cosa ha detto”. Di fronte alle manifestazioni di richiesta di una politica dal basso che caratterizzano la scena italiana e internazionale mi sembra che siamo nella stessa situazione. Ripeto: spesso mi sembra si usi la parola populismo in modo quasi apotropaico per esorcizzare la possibilità dell’emergere di nuovi soggetti politici autonomi. Più volte è stato sottolineato, a questo proposito, l’importante ruolo svolto in queste nuove forme di manifestazione dai cosiddetti new media: social forum, blog e altro. La tecnologia in molti casi ha permesso ai partecipanti – vedi i giovani di piazza Tahir in Egitto – di organizzarsi e di far sentire la propria voce eludendo le forme di censura e di controllo del regime, semplicemente utilizzando dei mezzi di comunicazione ancora relativamente ignoti alle istituzioni. Non possiamo certo aspettarci tuttavia la soluzione di tutti i nostri problemi dai progressi della tecnologia: saremmo piuttosto ingenui a pensare alla tecnica come a uno strumento di emancipazione nelle nostre mani. In realtà, come ha notato Benjamin già nel secolo scorso, la tecnica si è svincolata dal controllo dell’uomo, ha cessato di essere al suo servizio, e anzi è una delle forme di potere più forti tra quelle che progressivamente modellano le nostre esistenze e la nostra percezione della realtà. Eppure i fatti in questione ci dimostrano che è possibile ancora un uso politico

della tecnica, ovvero un suo utilizzo soggettivo e non preordinato. Se certamente l’atteggiamento di chi spera che le nuove tecnologie migliorino la qualità delle democrazie è ingenuo, sottolinearne solo i pericoli è cinico. Potrebbe essere anche questa una strada per far passare un nuovo tipo di sovranità individuale, attraverso la costruzione di un’identità politica permanentemente in contatto con le istituzioni che dovrebbero rappresentarci. Se ne sfruttiamo il potenziale, la tecnica può ancora aiutarci a ricavare degli spazi di libertà e partecipazione (magari attraverso forme di gestione più diretta del potere) tanto necessari quanto problematici. Questo significa anche permettere alle persone di partecipare, semplicemente in quanto singoli cittadini, a decisioni che riguardano il loro futuro, come la gestione delle risorse energetiche, il piano delle comunicazioni, l’informazione, ecc. responsabilizzando ciascuno nei confronti di tutti. Non si tratta di chiudersi in sterili localismi, ma di integrare le esigenze locali in un quadro globale che dovrà essere l’effetto, e non la causa delle decisioni singole. Altrimenti abbiamo rinunciato di fatto alla sovranità, anche se ne manteniamo il possesso nominale. Intendo quindi la sovranità non solo come una forma di potere garantita e stabilita dal diritto, ma come un pieno esercizio della propria soggettività politica. Essere sovrani significa essere pienamente padroni di se stessi e del proprio tempo, della propria pienezza politica. È una dimensione di ricchezza spirituale, nella quale il soggetto politico realizza se stesso individualmente riconoscendosi nella comunità di cui è parte. Si tratta, in definitiva, di ripensare la felicità come la condizione trascendentale dell’azione politica: non stabilire qual è la migliore azione politica possibile per essere felici, ma definire e difendere i criteri affinché un’azione politica felice sia possibile. Parlare di felicità in relazione alla scena politica contemporanea può sembrare appena un’amabile boutade, ma ritengo che non ci possa essere un’azione


politica senza che essa sia sostenuta da un’idea di felicità. Coloro che ritengono che questo concetto sia lontano anni luce dalla concretezza di cui abbiamo bisogno in questi tempi di crisi, in realtà contrabbandano un’idea di felicità tanto forte quanto priva di riflessione che si identifica con i vecchi miti del primo capitalismo, come la crescita economica, o l’opulenza delle merci. È una ben misera immagine di paradiso terrestre quella che ci propongono i moderni profeti di un benessere di gadgets ed edonismo a buon mercato al quale è difficile credere ancora. Un’idea di felicità come condizione trascendentale della politica ancora non esiste, ed è il compito che possiamo darci per gli anni a venire, anche a partire da contesti come questo.

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Sovranità, Europa, Cittadinanza: una prospettiva situata. di Teresa Lapis

Quando mi è stato proposto questo titolo, la prima cosa che mi sono chiesta è se fosse in gioco l’opinione di una giurista dei diritti umani, quale sono, oppure semplicemente quella di una giurista, oppure ancora quella di una donna. Tutte e tre queste dimensioni mi appartengono e condizionano e caratterizzano fortemente i miei pensieri, la mia scrittura e i miei comportamenti. Il punto per me fondamentale è che non si può discutere se non situandosi, prendendo posto in un contesto, a partire da un punto di vista specifico e dichiarato. Ed è a partire da questa mia specificità, da questa mia differenza che proverò a discutere di Sovranità, di Europa e di Bene Comune. La svolta spaziale del diritto Sovranità è in effetti la parola chiave che le assume tutte: non solo le altre due, ma assume in sé i termini interi della discussione politica contemporanea. Ma per parlare di sovranità bisogna innanzitutto situarsi. Parlare di sovranità e di Europa significa in primo luogo sapere di che cosa si vuole parlare e in quale contesto, specificando gli interlocutori ai quali intendiamo riferirci. Nel 1995 Luigi Ferrajoli pubblicava un libretto, intitolato La sovranità nel mondo moderno, nel quale mostrava che il concetto di sovranità, al tempo stesso politico e giuridico, risale alla nascita dei grandi stati nazionali europei e al correlativo incrinarsi di un’idea di ordinamento giuridico universale, che la cultura medioevale aveva ereditato dalla cultura romana. In quella sede, l’autore rileva alcune aporie del concetto di sovranità. Tra queste mi pare innanzitutto urgente sottolineare quella tra sovranità e diritto. Ferrajoli,

cioè, analizza la consistenza e la legittimità concettuale dell’idea di sovranità dal punto di vista della teoria del diritto per sostenere l’irriducibilità tra sovranità e diritto. Ovvero per sostenere la non coincidenza dei due termini sia in riferimento alla sovranità interna, cioè rispetto allo stato di diritto che deve garantire ogni singolo cittadino, sia sul piano dell’efficacia esterna, ovvero in riferimento alla comunità internazionale degli Stati dove l’equivalenza tra sovranità nazionale e diritto viene contraddetta dal diritto internazionale e dai cosiddetti diritti umani. Ora è proprio partendo da questa tesi che vorrei proporre alcune note per discutere sulle conseguenze di tali aporie nella ricostruzione delle categorie giuridiche e, soprattutto, della relazione tra diritto, politica e spazio. Tenterò di farlo attraverso il contributo degli analisti dello spazio. È proprio a partire dalle analisi spaziali, infatti, che è possibile definire delle identità basate sul superamento della separatezza. Ed è solo così, a mio avviso, che si può influire sulle prassi di democrazia. Mettendo in atto e rovesciando la stessa separatezza territoriale che la politica ha assunto per definire la sovranità nazionale. Si tratta, beninteso, semplicemente di alcune note, di temi che restano in effetti ancora da discutere. Ma queste note possono forse contribuire a colmare l’asimmetria, ormai esplosiva, tra teoria giuridica e prassi politica, tra il pensare e il fare. La prima questione che pone l’irriducibilità tra sovranità e diritto, argomentata da Ferrajoli, riguarda proprio la svolta spaziale del diritto. L’espressione Spatial Turn allude infatti all’insieme di processi giuridici


Nonostante il diritto regoli le relazioni tra persone e tra Stati, già negli anni ’70 si discuteva della necessità di modificare o rileggere le categorie giuridiche tradizionali in relazione alle trasformazioni sociali, e così si poneva in crisi il negozio giuridico e la signoria del volere come mera traduzione dogmatica giuridica del laissezfaire (per una disamina sul panorama della discussione in oggetto, tra gli altri si veda la collettanea Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, a cura di C. Salvi, Feltrinelli 1978). Allo stesso modo, oggi avremmo bisogno di una critica della stessa intensità. Quando si dice che la rete è oltre il tempo e lo spazio si sottolinea che essa non è né soggetto, né oggetto e quindi che il diritto deve inventarne il dispositivo, o trovarlo al suo interno. Questa invenzione deve rendere la struttura giuridica capace di cogliere e tutelare i flussi o, per dirla con Paul Virilio, le traiettorie che compongono flusso e movimento: il diritto può così scoprire il proprio essere situato e ridefinire il proprio terreno come “relazione di prossimità di punti”, secondo l’espressione di Foucault. Del resto è stato proprio Virilio a mostrare come lo Stato occidentale abbia sempre provato ad organizzare lo spazio secondo i codici della sicurezza/ insicurezza, attraverso velocità e movimento intesi come vettori dell’evoluzione sociale e politica. E le analisi di Virilio sono particolarmente importanti ancora oggi, perché capaci di leggere la normalità della paura e della guerra come fondamenti persistenti anche nelle società progredite. Ora però, nonostante il collegamento continuo dei termini di situazione, localizzazione e descrizione, propri della geografia e degli approcci spaziali, sembra che il diritto sia sempre più despazializzato e cioè che nel diritto lo spazio sia marginalizzato. In fondo, la crisi dello Stato-Nazione trova il suo fondamento, soprattutto, nella crisi di due elementi che lo costituiscono dalla modernità: territorio e sovranità. Il punto però è, secondo PhilippopoulosMihalopoulos, che la sovranità è in crisi perché il diritto ha paura dell’alterità intesa nella sua presenza materiale o presagita dalla svolta spaziale. E ancora più in fondo

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prodotti dalla globalizzazione. Il lemma trova origine nell’ipotesi affascinante di uno studioso, Andreas PhilippopoulosMihalopoulos, che riesce a dar conto delle dimensioni sia semiotiche che epistemologiche della questione. Pur non mettendo in discussione la dimensione terranea del diritto, lo studioso sottolinea come questa non esaurisca l’ambito delle relazioni tra giurisdizione e dimensione geografia, ma costruisca uno scenario di disgiunzioni tra flussi globali e territorio. Nel ripensare la spazialità del diritto l’autore propone il concetto di giustizia spaziale, non rinchiudendosi nella tesi classica, di matrice statunitense, come quella di Soja o Harvey per intenderci, secondo i quali la giustizia spaziale non sarebbe altro che un modo nuovo di intendere la giustizia sociale. Per PhilippopoulosMihalopoulos, giustizia spaziale è un concetto limite, riguarda uno spazio non misurabile perché spazio altro. Attraverso questo gesto teorico l’autore intende mettere in evidenza la differenza fondamentale tra diritto e giustizia. La giustizia spaziale assume i contorni e le caratteristiche della figura dell’ospite, il cui confronto è inteso come un continuo ritirarsi per permettere all’altro di rivelarsi. Il concetto, in altri termini, è da intendersi come una figura giuridica della differenza, in forte riferimento sia all’approccio femminista (come sottolineato da R. Prezzo) sia alle teorie eterotropiche di Foucault, che alle tesi di Derrida e Levinas. Articolando la sua analisi PhilippopoulosMihalopoulos sottolinea che il diritto concepisce sé stesso in una rete sociale di spazi. Dunque l’altra parola chiave cui far cenno è proprio rete, termine fondamentale, non solo per il suo legame congenito con Sovranità e con Europa, ma perché spiega il rapporto tra loro. Come ha notato Franco Farinelli, la rete è oltre il tempo e lo spazio perché è un meccanismo dove ciò che non si vede tende a controllare operativamente ciò che è visibile e ne comanda il funzionamento in termini analoghi ai propri. In tal senso l’idea di rete può colmare il vuoto delle tradizionali categorie spazio-temporali utilizzate dal diritto, non più sufficienti a spiegare il funzionamento del mondo.


ha paura di ciò che il diritto stesso può diventare, è preso dall’ansia per la possibilità o meno di comprendere i propri confini. La questione si pone quindi come questione sia epistemologica che politica: il diritto deve in qualche modo andare oltre se stesso, oltre la sua terminologia, oltre la sua specifica collocazione geografica. La sfida consiste in questo andare oltre se stesso, oltre le categorie del tempo storico per riconciliarsi con le dimensioni della contemporaneità, della simultaneità; e oltre le categorie dello spazio per ridefinirsi nella dimensione del disorientamento e dell’interdipendenza dello spazio-mondo. Il diritto si deve interrogare oltre il globale e il locale, ovvero sulla scala dello spazio dell’immanenza, insomma dobbiamo discutere di un diritto che cerchi la sua concreta collocazione per non perdere la sua spazializzazione, intendere lo spazio non come valore di fondo ma come elemento della comprensione stessa del diritto. Questa è la sfida teorica necessaria alla comprensione e all’uso della giustizia spaziale, come terminelimite tra diritto e giustizia. Per dirla con una battuta: nel 2005 ha cominciato a girare la foto di un graffito su un muro di Gaza fatto probabilmente da un soldato israeliano che diceva “questa è l’unica terra che conosco”. Quello slogan fu poi stampato su molte magliette di movimentisti radicals – per mostrare che la giustizia spaziale è impossibile. Oggi, quella parola d’ordine non è più sufficiente, perché la terra può essere condivisa e quando trattiamo di spazio dobbiamo considerare lo spazio occupato concretamente sia dai corpi di chi sta laggiù che da chi vuole stare proprio qui. Europa, sovranità, cittadinanza Lo spazio europeo mi sembra che stia a raccontarci tutto questo. Ma allora dobbiamo usare altre parole chiave, per comprendere la sovranità. Quando si è cominciato a discutere di che tipo di ordinamento istituzionale l’Europa voleva adottare, il federalismo tedesco sembrava essere un idealtipo nell’ambito del diritto pubblico, un possibile modello dal quale trarre spunto per immaginare

il percorso di integrazione europea. Il federalismo sembrava garantire la sufficiente discontinuità all’interno tuttavia di un equilibrio possibile tra centro e periferia dell’Europa. Il termine federalismo infatti indica un processo di aggregazione tra entità geopolitiche e culturali che conservano la propria identità e un certo tasso di autonomia. Impropriamente in Italia il termine è stato utilizzato per indicare il fenomeno della devoluzione delle competenze dello Stato centrale verso gli enti locali. Federalismo viene da foedus che si traduce “patto”, “convenzione”, “alleanza”. Ciò vuol dire, come ha notato Sbailò, che il federalismo chiama una forma di dialogo e di confronto. Ma da dove possiamo partire per iniziare a dialogare? Da dove possiamo iniziare per costruire, in continuità con lo spirito della Costituzione di Weimar, l’equilibrio tra centro e periferia, tra discontinuità e continuità? Se si vuole contribuire alla elaborazione di un lessico e di categorie politiche utili per il domani allora non possiamo che partire dall’idea di pluralismo. Pluralismo è infatti una categoria che inerisce ad un patto la cui problematicità oggi si fonda sulla mobilità e quindi sulla migrazione come fenomeno organico della società contemporanea. Come hanno scritto Mubi e Brighetti “le categorie non dovrebbero essere gabbie ma ponti”. Solo così possiamo usarle per avvicinare fenomeni che si ritenevano lontani, dissimili e che si studiavano separatamente, per mostrare come il loro studio congiunto giovi alla comprensione generale. Le categorie ritrovate dovrebbero allora rendere conto del maggior numero di differenze possibili. Se il flusso e la relazione sono il contenuto da regolare allora, come sottolineato da Mubi e Brighetti, anche il territorio può essere pensato diversamente – non come terra su cui si sta ed entro cui si è sottoposti a un potere istituzionale, ma come un tipo di commitment reciproco tra le persone, cioè come forma di narrazione e descrizione dei reciproci impegni e della definizione delle relazioni che i diversi soggetti intendono perseguire, attribuirsi o riaffermare. In questo modo si può iniziare a ripensare la sovranità europea a partire


convivenza umana. Famiglia, stirpe, ceppo e ceto, tipi di proprietà e di vicinato, ma anche forme di potere e di dominio, si fanno pubblicamente visibili. L’occupazione e la formazione dei confini coincide dunque, secondo Schmitt, con i vari e successivi stadi di sviluppo del potere dell’uomo sullo spazio. Il confine virtuale, invece, non esiste se non in virtù del suo venire attraversato. E qui la sua dimensione di alterità rispetto al diritto tradizionale, si concretizza. Il confine si mostra in tutta la sua ambivalenza e espone alla vista l’ambiguità di fondo che caratterizza lo spazio giuridico-politico della modernità. L’ambito topografico e cronologico nel quale le norme producono i loro effetti. Non essendo possibile demarcarli, i confini dell’Europa diventano solo un’astrazione figurativa, secondo l’espressione di Ratzel. Come nel tradizionale riferimento a Simmel, essi rappresentano zone di tensione che trovano senso in quella relazione complessa che il flusso assume come azione reciproca dell’interazione umana. I confini, in tal senso, non sono altro che un campo aperto alla contestazione. Ciò significa che lo spazio politico europeo è uno spazio pieno, non certo vuoto. Il conflitto è necessario per farsi largo in esso e attraversarlo. Questo spazio è striato da confini, ma allo stesso tempo il fatto che venga attraversato rivela l’imperfezione che lo caratterizza: i confini sono, in altri termini porosi, riflettono discontinuità presenti al suo interno, le interruzioni nella sostanza che gli conferisce pienezza. Riflettere sulle trasformazioni dei confini dell’Europa significa allora riflettere sul senso che questi cambiamenti assumono per l’interazione umana. Le domande politiche prioritarie sembrano allora essere: se la decostruzione del concetto di sovranità – oramai non più potestas superiorem non recognosens – è causa dell’indebolimento dello Stato, siamo di fronte alla fine del modello statocentrico di stampo westafaliano? Quale forma di solidarietà è possibile pensare tra i cittadini e quale autonomia e quale potere sovrano all’esterno dello spazio europeo? L’Europa è il banco di prova per testare una nuova

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dai suoi confini (sia interni che esterni). Perché i confini definiscono e determinano, insieme a mobilità e a velocità, il mutamento che attraversa la globalizzazione. I confini sono la mappa della transnazionalizzazione, perché, come ha scritto Ulf Hannerz, è sulle terre di confine che succedono le cose, e lì che c’è ibridità. Proprio il tema del confine ci mostra come la discussione sull’Europa e il suo governo non possa esimersi dal ripensare un diritto non più fondato sugli Stati Nazione e neppure lasciato in balia dell’anomia del mercato o della tecnocrazia. Un diritto che si fonda su uno spazio comune, sul bene comune, oltre la sua dimensione pubblica e oltre a quella privata. Un modello possibile per questo diritto lo si può ricavare dal concetto di confine marittimo virtuale. Questo concetto è stato definito nel 2003 dal Consiglio Europeo al fine di superare le limitazioni sul controllo delle acque internazionali, previste dalle consuetudini del diritto del mare e dalla convenzione di Montego Bay, e di permettere i pattugliamenti congiunti nelle acque territoriali e nelle zone contigue. Come ricordato da Enrica Rigo (nel suo Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione Europea, Meltemi 2007) la consuetudine del diritto del mare si fonda sul principio generale della libertà delle acque piuttosto che sulla loro ripartizione tra gli Stati, e ne garantisce la qualifica di spazio libero che appartiene a tutti e può essere utilizzato da chiunque. In deroga a tale principio ogni imbarcazione sospetta di trasportare migranti “illegali” può essere tuttavia considerata “un confine virtuale” ed è soggetta a controlli condotti attraverso le più sofisticate apparecchiature militari a prescindere dalla bandiera che batte. Eppure qui vediamo all’opera un confine “fluttuante” in barba a Carl Schmitt per il quale non è possibile, nel mare, l’unità di spazio, diritto, ordinamento e localizzazione. Come è noto, in apertura del suo Nomos della terra, Carl Schmitt scrive che la terra reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della


forma di sovranità statale, con le sue metamorfosi oppure è solo questione di confini, di nomadismo e mobilità? Risolvere questo insieme di questioni significa collocarsi al punto di intersezione tra teoria giuridica e politica e operare per forzature, parzialità, unilateralità. Di certo pare impossibile rispondere a queste domande reiterando antiche dicotomie come Stato e Società Civile, Pubblico e Privato. L’Europa deve rendersi consapevole, e farsi carico, della rappresentazione spaziale del cosmopolitismo giuridico, in cui il diritto al territorio può realizzarsi ovunque anche se nella forma di jus exludendi. Dire che il mondo è un globo significa supporre che la nuova natura giuridica della politica consisterà nel possesso comune della superfice del globo, quale corollario del diritto all’ospitalità. Al contrario del Nomos di Schmitt, che si fonda su una rappresentazione della spazialità che rileva per il Nulla, qui stiamo discutendo di un diritto al territorio come diritto reciproco, reso reale dall’attraversamento dei soggetti. È su questa ratio che il diritto dei rifugiati e il diritto di asilo ha trovato regolamentazione e fondamento: nei termini materiali di una territorializzazione, di una inclusione in uno spazio organizzato giuridicamente e politicamente. Così la relazione specifica che l’Europa intrattiene con la territorialità deve risolversi proprio in una azione di governo, che non regola il territorio ma lo spazio. Cioè che non si esercita su di un oggetto predeterminato ma su dei flussi o, secondo la felice espressione di Rigo, su di uno spazio circolato. I processi migratori nel mondo globale svelano un paradosso, un dato discontinuo della modernità. La migrazione in sé pone l’Europa e lo Stato di diritto su piani diversi. Ciò rimanda a una serie di problemi storici nella relazione tra diritto, potere politico e territorio. Come ha scritto Fioravanti: Nel medioevo, non è il territorio che deve essere dedotto dal concetto superiore, e più comprensivo, di potere politico, ma, all’inverso, sono i poteri di signoria che debbono essere spiegati a partire dai territori: questo non ha certe

caratteristiche perché su di esso si esercitano certi poteri, ma viceversa, questi poteri sono caratterizzati in un certo modo, perché insistono su “quei” “territori”. La costituzione dello Stato nazionale ha coinciso con la fine del libero accesso alle terre e, con la fine dell’universalismo, si è insomma prodotta nelle pieghe del rapporto tra proprietà e sovranità, con la necessità di individuare il territorio di pertinenza del re come criterio di delimitazione del suo potere esclusivo e oltre la mediazione dei rapporti contrattuali. La sovranità classica fonda la propria legittimazione (sia esterna che interna) sulla regola proprietaria intesa come misura spaziale. Il diritto internazionale ne è l’unico limite, lo spazio nel quale la logica dell’appropriazione si ferma per paura della guerra (il mondo è uno spazio franco dove vige ancora la regola del più forte). Lo spazio europeo invece, diversamente dalla storia dello Stato-Nazione, si può rappresentare come spazio di una sovranità diffusa e allo stesso tempo disaggregata. Un esempio si trova nella Risoluzione del Parlamento Europeo a proposito dei diritti equivalenti dei lavoratori migranti. Ora l’espressione “diritti equivalenti” suggerisce che, a differenza dei diritti uguali, dove l’eguaglianza è riferita alle garanzie e ai diritti, in questo caso invece ci si riferisce ai soggetti, la cui posizione è uguale di fronte al diritto. Ma l’identità dei rapporti di lavoro sul piano del diritto non produce identità dei soggetti. All’interno di questo quadro è necessario ragionare sulla cittadinanza. Come argomentato da Luciani, secondo la concezione giuridico formale, la cittadinanza può essere intesa come rapporto giuridico, evidentemente non paritario in quanto svolto tra il cittadino e una superiore e più forte entità collettiva. Oppure la si può definire uno status e cioè una condizione giuridica personale attribuita al singolo dall’ordinamento dello Stato. In entrambi i casi conta la qualificazione formale e non il contenuto. La cittadinanza resta indifferente alla qualità e quantità di diritti riferiti al cittadino. L’espressione “cittadinanza


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democratica” sembra insomma definire soltanto un problema ricorrente, un insieme di conflitti e di definizioni antitetiche, un enigma senza soluzione definitiva. Tuttavia Etienne Balibar ha da tempo proposto una tesi più costruttiva, che mi pare più convincente. Fondando la sua definizione di cittadinanza sull’ubiquità dei confini, il filosofo francese ha aperto la strada a una definizione validissima e che ha il pregio di venir fuori dall’astrattezza formale. Una cittadinanza ubiqua, definita attorno ai confini in quanto evidenti ed strumenti di controllo, ma anche come spazi da attraversare, pensabile solo a partire dall’efficacia delle sue strategie politiche che trova conferma nelle pratiche. Confini che allora non sono più ai margini dei territori ma al centro. Le frontiere interne/esterne degli Stati diventano così la cartina di tornasole per rileggere la cittadinanza. L’istituzione del confine e gli sconfinamenti prodotti dalle migrazioni sono le due polarità che definiscono la cittadinanza come dispositivo delle/per le differenze, come istituzione probabile e possibile che riflette il cambiamento fondato sulla nuova centralità delle differenze. La cittadinanza europea è un concetto ma è anche lo spazio attorno al quale si giocano alcune delle partite decisive per il nostro futuro: è al centro del confine.


Europa bene comune? di Alessandro Tessari

L’Europa perfino nelle radici oscure e trimillenarie del suo etimo, “terra fertile, vasti orizzonti, luna piena, leggiadra fanciulla”, mostra qualcosa che può rappresentarla perfino oggi: carne desiderabile che le potenze celesti o terrestri si disputano. Dall’aquila jupiterina all’aquila del Sacro Romano Impero della nazione germanica, l’aquila predatrice sarà il simbolo che si imporrà sulla predabile Europa. E l’aquila bicipite non scomparirà nella millenaria storia dei tre Reich tedeschi nemmeno nella parentesi domocraticistica della Repubblica di Weimar e resterà nell’odierno Bundeswappen. Può sembrare paradossale partire dal mito di Europa e del suo ratto per parlare dell’Europa odierna. Ma forse saremo più vicini alla comprensione del concetto di Europa che oggi circola. Soprattutto in ambienti che poco hanno a che fare con l’idea di Europa di alcuni sognatori, tra i quali spicca Altiero Spinelli, che a questo sogno si dedicarono quando l’Europa veniva, per l’ennesima volta, straziata dalle guerre planetarie, dall’insorgere dei totalitarismi e dal diffondersi di caricature della democrazia. Spinelli immaginò una grande e nobile Europa, senza accorgersi di quel che brulicava attorno a lui. Quando entrò nel parlamento italiano, come indipendente nelle liste del PCI nel 1976, aveva già sulle spalle l’esperienza di commissario europeo della politica industriale e tecnologica. Ma tutta la sua vita è stata la storia di un fallimento. Aveva capito quali erano i poteri forti che si sarebbero avventati sull’Europa con la violenza dell’aquila jupiterina. Gli stati uniti d’Europa, che sognavano Spinelli e pochissimi altri tra i padri fondatori, forse Spaak e forse Mansholt, erano qualcosa

che confliggeva con la logica delle banche, con la logica mercatistica e soprattutto con la logica sottesa ai primi trattati per il controllo del carbone, dell’acciaio e dell’atomo: le strutture portanti di ogni guerra. La gestione dell’Europa è sempre stata l’aggiustamento, l’adeguamento agli elementi che per primi hanno imposto un’idea transnazionale. Ma questi gruppi nulla avevano a che fare con le fantasie dello Spinelli sognatore. La CECA, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, è stata la prima strutturazione attorno ai poteri più forti che controllavano il mondo. La CECA è figlia di una rapina bisecolare che ha costruito la sua potenza sullo sfruttamento coloniale dall’inizio del XIX secolo. Quando la CECA si incontra con l’Euratom, per l’idea di Europa di Spinelli non c’è più speranza. È perfino patetico che lo sconfitto Spinelli, da morto, sia stato usato per coprire i trafficanti che nel suo nome hanno cercato una nobilitazione. L’Europa non è una cosa nobile. Nobilitare le lobbies che hanno costruito le premesse per lo sfruttamento coloniale, oltre che nel resto del mondo, anche tra i paesi più fragili della stessa Europa, è come voler vedere nel nazismo hitleriano un’efficace riscatto contro le sanzioni di Versailles e la crisi del ’29, che riversò sulla Germania un’ondata di miseria e paura. Hitler riuscì a rovesciare le cose: da paese impaurito e sconfitto, la sua Germania è riuscita a impaurire il mondo intero. La politica europea si basa su una non trasparente concertazione tra


Non c’è neppure un’Europa delle lingue. Fin dal suo nascere, la patetica e miserabile tripartizione della comunità in tre diversi stati, con uno spreco di risorse che solo le grandi famiglie mafiose possono imporre, visto che non hanno altra etica che quella del massimo profitto a qualunque costo per il resto del mondo, lo mostra chiaramente. Strasburgo, Bruxelles, Lussemburgo, nella gara per ospitare gli uffici dell’Europa, assomigliano, più che ai sogni di Spinelli, alle bande del crimine impegnate nella marcatura del territorio attraverso

la spartizione dei marciapiedi. Non c’è mai stata neppure una strategia per identificare la logica aggregativa dei paesi che si sarebbero aggiunti ai padri fondatori. Il problema era che si doveva allargare al massimo per annacquare nella formale democrazia del voto per testa o per nazione, la sostanziale e illiberale organizzazione dei momenti decisionali. Un paese come la Germania sembra guidare la danza e imporre al resto dell’Europa la politica del rigore contro la politica dello spreco. Ma le differenze tra i paesi si spiegano con secoli di storie diverse, con risorse diverse. La strategia europea, se avesse voluto veramente perseguire una politica del bene comune, avrebbe dovuto non imporre ai paesi più deboli di strangolarsi da soli: per ricevere l’aiuto europeo, i paesi sull’orlo del fallimento dovevano impegnarsi all’acquisto di beni che le lobbies mafiose, nel caso della Grecia, avevano imposto. Si veda, ad esempio, l’acquisto di armamenti da parte di un paese che non avrebbe potuto trarre nessun giovamento da quell’acquisto, ma un più agevole autosoffocamento. La grande Europa ha taciuto su questo piccolo e miserabile incaprettamento della Grecia, parlando della sua disinvolta capacità di spesa. A quella tradizionale di falsificare i bilanci e largheggiare nella distribuzione del denaro pubblico la Grecia ha dovuto assumersi, come sua pervicace capacità di sperpero, anche quella di acquisti forsennati di costosi apparati militari di cui mai avrebbe saputo che fare ma che i paesi virtuosi, produttori degli stessi, le imponevano. L’Europa va rotta prima che le lobbies mafiose, che si sono incistate nei suoi gangli di potere, possano realizzare, con la disinvoltura di cui fece mostra anche Hitler, per la stima che gli avevano concesso i poteri forti del mondo intero, il progetto politico più stupefacente di tutti i tempi: la reinvenzione di un neocolonialismo che non miri solo alle aree povere del mondo, ma punti sul differenziale economico degli stessi paesi che sul colonialismo costruirono la loro arroganza. Spinelli era un grande sognatore. Per qualche anno, nella settima legislatura, sono stato seduto

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la Banca Centrale Europea e le grandi banche internazionali che, per eccesso di hybris, la tracotanza che offendeva gli dei della Grecia antica, come già nel ’29, hanno provocato il disastro del 2008. L’Europa non ha mai saputo dire una sola parola per denunciare la violenza, molto più devastante di quella nazista, che ha consentito a qualche decina di famiglie di lucrare guadagni stratosferici a spese dell’intero pianeta. È un vero peccato che l’ipocrisia internazionale del politically correct abbia già ipotecato il male assoluto per la Shoah: altrimenti avremmo avuto un’ottima occasione per mettere i crimini finanziari, per la prima volta in chiave spettacolarmente planetaria, a confronto con i crimini del nazionalsocialismo. Misurare i milioni di morti per fame, per carestie, per manipolazioni dei mercati alimentari mondiali che le grandi finanziarie hanno provocato pagando dazio solo con il fallimento della Lehman Brothers. Nessuna condanna né morale, né giudiziaria, il mondo, il FMI, la BCE hanno saputo esprimere: neppure un vagito. Perché la gestione di questi enti sovranazionali è alle dirette dipendenze di chi ha voluto e pianificato il disastro e le sue conseguenze. Fingere di credere che due uomini oggi così stimati in Europa, come Monti e Draghi, possano offrire una via di uscita dal cataclisma che le banche da loro consigliate, mentre ne erano gli advisors più prestigiosi, è come dire che alla Direzione Antimafia dovremmo mettere i cartelli delle famiglie emergenti della mafia, camorra e via elencando, le grandi famiglie.


accanto a lui, tra i banchi della Camera dei Deputati. Era tutto occupato dai suoi sogni di un’Europa che potesse proiettare nel mondo le tante radici della sua antica democrazia. Ma l’audacia di proiettare la democrazia periclea nel non-luogo, nel non-tempo odierni, gli impediva di vedere che in parallelo ai suoi sogni stavano avanzando progetti che nulla avevano a che fare con la democrazia periclea, neppure nella sua lettura più corretta di oligarchia razzista, schiavista e xenofoba. Era il mondo degli affari che si candidava a costruire un governo europeo forte verso l’esterno, quanto spietato al suo interno. Era la cultura del mercato che si faceva strada con la forza del fondamentalismo religioso, reso prepotente dal forse necessario bilanciamento della cinica prepotenza staliniana. Non c’è mai stato nel pensiero dei padri fondatori il desiderio di affrontare la complessità della situazione che usciva dalla seconda guerra mondiale. Per motivi perfino troppo evidenti: tra i vincitori c’era anche la Russia di Stalin e fra gli sconfitti quasi tutti i paesi che formeranno la nuova Europa. Che nel frattempo si erano esercitati nelle variazioni del totalitarismo ideologico, populista, razzista, ma accomunati da un acceso anticomunismo. L’Europa nasce come idea antitotalitaria selettiva: no al totalitarismo comunista ma disponibilità alla comprensione dei totalitarismi che si fossero distinti nell’anticomunismo. L’Europa bene comune, rischia di apparire lugubre come il famigerato Arbeit macht frei che campeggiava sui portali dei campi di sterminio nazisti. L’Europa ha accettato di ospitare nelle sue strutture, ma fuori dalla sua moneta, la Gran Bretagna che si esercita, di concerto con il dollaro USA, attraverso delle intrasparenti agenzie di rating, al tiro al piccione delle aree deboli della stessa comunità europea. Questa Europa è il trionfo dell’incultura, dell’ignoranza di ciò che i paesi dell’Europa sono stati in tremila anni di storia. Questa Europa ha messo in ridicolo le ansie di uno dei padri fondatori meno affaristi: Sicco Mansholt. Non volendo far rivivere a nessun

paese dell’Europa la fame e la carestia che il suo paese aveva vissuto durante la seconda guerra, Mansholt si batté contro i privilegi degli agrari, per costituire riserve alimentari non a prezzi di mercato. Egli aveva capito che le leggi del mercato, lasciate senza guida, potevano far nascere aree europee di sterminio di massa per fame. Sempre che questa espressione non sia stata brevettata e non sia diventata di uso preclusivo. Concludo con un esempio concreto. L’organizzazione degli studi universitari poteva e doveva essere il banco di prova del recupero di una storia dell’Europa particolarmente significativa. L’Università nel tardo medioevo non nasce come struttura ma come libera aggregazione di chierici che si spostano da un paese all’altro per ascoltare le lezioni dei più importanti maestri dei diversi campi disciplinari. Dopo secoli di incapacità di coordinamento, il Parlamento Europeo aveva messo sul tappeto l’ipotesi di una riedizione della cultura universitaria della sua storia migliore. L’invenzione del pellegrinaggio degli studenti da un ateneo all’altro doveva essere l’occasione per un confronto interculturale, interlinguistico che desse corpo a una concezione dell’Europa come comunità complessa e federale. La scansione nei tre livelli del baccalaureato, del master e del dottorato di ricerca doveva offrire una effettiva interscambiabilità di personale studentesco, docente e ricercatore. Ma così non è stato: ogni paese ha deciso una ridenominazione soggettiva, impedendo pertanto che potesse ripetersi il miracolo, diffuso già nel XIII secolo, di un curriculum che attraversasse due o tre università in altrettanti paesi. L’Italia che vanta alcuni tra gli atenei più antichi dell’Occidente, ha voluto marcare la sua originalità concedendo il titolo finale, conclusivo di una carriera, dottore laureato, al triennalista, rendendo così inutili i gradi successivi della formazione universitaria. Il risultato è che in giro per l’Europa non viaggiano chierici alla ricerca del maestro migliore, ma dei certificati di ignoranza che ogni università ospite sarà tentata di respingere per salvarsi dall’inquinamento.


Come la Grecia classica diffidava di chi non parlava bene il greco, i barbari erano i balbettanti, e così preparò la sua fine, così l’Europa affaristica ed anglofona, intesa a conservare la rendita parassitaria dei secoli del suo esercizio schiavistico, non si accorge che avendo eretto al diomercato il culto più irrazionale e avendolo imposto al mondo intero, oggi sta per soccombere alla potenza taurina dei mercati asiatici: Zeus, prima di deflorare Europa in forma d’aquila, in forma di toro l’aveva strappata alla sua sbadata fanciullaggine.

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Pensare l’Europa di Roberto Masiero

Il Congresso de L’Aia del 1948, primo momento federale europeo dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, nasce attorno ad un sentire comune: “… mai più guerra fra di noi”. Il Congresso pose le basi per l’istituzione del Consiglio d’Europa dopo un compromesso tra due visioni dell’unità, quella unionista sostenuta da Churchill, cioè dall’Inghilterra, e quella federalista prospettata da molti tra gli altri rappresentanti politici. Unionisti e federalisti sono ancora nella scena. E non solo loro. Tant’è! Il Consiglio d’Europa sarà istituito un anno dopo con il Trattato di Londra. Nel 1957 nasce il Mercato comune europeo; nel 1979 si dà forma al sistema monetario; nel 1987 col trattato di Maastricht si individuano sistemi di solidarietà e si gettano le basi di una politica estera comune; nel 1989 si elabora la Carta dei diritti, fondamentale preambolo per ogni futuro trattato europeo; nel 1998 si attua la moneta comune e si dà istituzione ad una Banca centrale europea; tra il 2007 e il 2009 con il Trattato di Lisbona si istituisce la Comunità europea e si introduce in modo diffuso il principio di sussidiarietà. Nel 2013 non c’è ancora una Costituzione europea e quindi la forma Stato Europa, anche se simulata, non può essere considerata compiuta. È indubbiamente in atto da allora un processo geopolitico di portata immane che prevede il progressivo depotenziamento degli Stati nazione, i cosi detti mostri freddi, e delle loro organizzazioni territoriali, verso diverse forme di rappresentanza politica e per una nuova autorità sopranazionale, appunto l’Europa. Nulla è definitivo, come dimostra l’attuale crisi, ma quello che sta accadendo da più di mezzo secolo ci costringe a riflettere, al di là delle posizioni

ideologiche o politiche, al di là dei propri ruoli o della appartenenza a ceti o a classi sociali tra loro in conflitto o sociologicamente distanti, attorno ad alcune domande: quale sovranità? quale democrazia? quali forme della delega e della rappresentanza politica? come e perché i territori? siamo vincolati al nomos della terra, come affermava Carl Schmitt, cioè ad un confine o a dei vincoli geografici? e infine, dobbiamo ancora cercare o costruire come garanzia politica una identità comune, oppure ci possiamo immaginare delle forme di legittimità politica fondate sulla differenza? Per ora è utile chiederci: “che cosa ci può o che cosa non ci può tenere assieme? quale è l’assetto socio culturale nel quale riconoscere la nostra reciprocità e quali devono o possono essere le nuove funzioni, nella crisi evidente, non solo dello Stato, ma anche dei suoi apparati territoriali come, per l’Italia, le Regioni, le Province e persino i Comuni? Siamo politicamente perché c’è qualcosa che ci rappresenta o perché possiamo auto rappresentarci come soggetti capaci di autonoma decisione? Siamo politicamente perché stiamo in un determinato territorio o perché abbiamo il coraggio e la forza di essere cittadini del mondo, magari proprio perché apparteniamo a dei luoghi, a delle tradizioni, a delle condizioni di possibilità che stanno solo là dove stiamo e che sta a noi cogliere?” “Mai più guerre tra di noi” (così si è detto e scritto) non è certo una motivazione di natura economico politica, ma, come ha affermato Jacques Delors nel 2011 in occasione del conferimento del dottorato honoris causa presso l’Institut catholique di Parigi, si tratta di una motivazione fondamentalmente spirituale. Secondo


Delors (… e non si può che concordare) l’idea di unire i popoli e le nazioni dell’Europa nasce nelle tenebre degli anni Trenta del secolo scorso. Due anni dopo il congresso de L’Aia, nel 9 maggio del 1950, ci fu la conferenzaappello di Robert Schuman sulla necessità di procedere verso l’unificazione europea. All’uscita della conferenza un giornalista avrebbe chiesto: “Ma, signor ministro, quello che lei propone è un salto nel buio”. Schuman avrebbe risposto: “Lei ha ragione, è un salto nel buio”. A distanza di più di sessanta anni non solo il salto non è ancora stato fatto, ma il buio sembra essere sempre più profondo e aggressivo.

Al di là delle opzioni di natura economica la maggior parte delle giustificazioni sono di natura culturale, qualcuno direbbe ideologiche e, altri ancora (per questo abbiamo prima ricordato Delors), spirituali. Nella maggioranza dei casi queste giustificazioni alludono in maniera esplicita o implicita alla stessa storia dell’Occidente a tal punto che l’unione europea può persino essere pensata come una forma destinale dell’Occidente stesso o come l’ultimo tentativo di fermare il tramonto dell’Occidente. Tralasciamo visioni per così dire poetiche come quella proposta anni fa ad esempio da Benedetto Croce che nei suoi Scritti politici dello spirito europeo scriveva che esiste una “delicata e non bene afferrabile, ma potentemente efficace, affinità della forma interna dello spirito, come pure del modo di concepire, in certe altezze, rapporti

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Delors allora invocò Hannah Arendt per spiegare l’accaduto attraverso due parole: il perdono e la promessa: “Il perdono che non è oblio, perché senza memoria non si può concepire né costruire un avvenire. La promessa perché l’altro, dopo i suoi crimini, non sprofondi nella disperazione e nel desiderio di vendetta”. Era uno straordinario tentativo di riconciliazione in nome di una ragione spirituale prima che economico-politica. Ma, si sa, lo spirito deve sempre fare i conti con la realtà e quindi, nella difficoltà di tenere assieme con una vera e propria Costituzione, cioè con una statualità giustificata politicamente, ciò che per molti secoli era stato diviso da terribili guerre, si cercò una via d’uscita nel tentare di procedere attraverso l’unificazione economica in ragione di quelle materie prime che di fatto sono state una delle cause delle due guerre mondiali del Novecento: il carbone e l’acciaio. Compariva così il grande tema economico politico dell’intera Contemporaneità: il governo dei fattori energetici. Ecco allora la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Si trattava di mettere in comune le risorse. Il passo successivo sarà, come segnalato in precedenza, nel 1957, il trattato del Mercato comune e il trattato dell’Atto unico del 1987 che si spingeva oltre, nel campo della solidarietà. Come stupirci del primato dell’economia? Non è forse vero che proprio in questo il nostro tempo, nel bene e nel male, è l’economia che tutto governa?

Molte sono le argomentazioni che si possono proporre per giustificare l’utilità o la necessità di una unificazione politicoeconomica dell’Europa. Proviamo a segnalarne alcune. La più solida, e, sino a poco tempo fa, la più convincente, è stata quella di natura economica che può essere riassunta nella seguente considerazione: con la globalizzazione ci troviamo tutti ad agire in un mercato planetario governato da superpotenze e dai grandi numeri, cosicché i paesi europei si trovano costretti a strategie comuni persino al di là del fatto che possa esistere veramente un qualcosa di comune tra loro. Con l’attuale crisi, che è, ricordiamolo, di sistema e non certo ciclica e/o congiunturale, si sono presentate nel dibattito, con notevole appeal politico, ipotesi contrarie all’unione che, al di là delle opzioni ancora legate a valutazioni economiche come l’impossibilità per i singoli paesi di stampare autonomamente moneta, ritengono che nella globalizzazione convenga non riunificare i sistemi di potere economico e politico, ma convenga moltiplicarli, persino scatenarli in una logica di concorrenza globale. In sintesi l’ipotesi è che sia inutile ricercare un’impossibile pace imperiale, ma convenga, di contro, accettare e muoversi in forma surf nella guerra di tutti contro tutti.


di pensiero e sentimento, la quale affinità, come la cupola dell’etere, si eleva unitaria sopra le loro differenze nazionali, costituendo così una sfera”. Significativo è il fatto che Croce in questo scritto escluda dallo spirito europeo la Germania ritenuta di fatto un unicum anche se, altri scritti, riconosce alla filosofia tedesca un valore europeo. Proviamo così a chiederci se ci unisce ad esempio la lingua. Evidentemente no! visto che coesistono in Europa innumerevoli lingue con diversi ceppi originari. Anche il sistema economico e politico, pur essendo i paesi dell’Europa quasi tutti parte della storia del capitalismo, hanno sistemi costituzionali diversi. Infatti nel momento in cui è avvenuta la procedura di unificazione sono emerse notevoli incongruenze non solo formali, anche se la tradizione giuridica nel suo complesso può essere comunque riferita allo jus pubblicum europaeum. Anche se abbiamo definito la posizione di Croce poetica per rilevarne (facendo così una inutile offesa alla poesia) una sorta di ingenuità idealistica, possiamo comunque riconoscere che una specie di koinè esiste in Europa, anche se continuamente violata, messa in discussione da innumerevoli e persistenti guerre. Elementi significativi (molto significativi) di questa koinè emergono – e questo meriterebbe una più attenta riflessione – in quella che chiamiamo “arte”, o meglio, che l’Europa, in un momento particolare della propria esistenza, tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, ha chiamato “arti belle”, costruendoci attorno una filosofia e una storia che l’insieme mondo insegue. Che si possa trovare un’unità europea nelle arti (e in particolare nella musica) è molto, molto significativo, così come ci dovremmo chiedere come mai la parola arte ha una enorme capacità di attrazione, non solo nel quadro europeo, al punto da essere usata come un sostituto della stessa parola cultura. Proviamo ad elencare, senza alcuna presunzione di esaurire la questione, dei temi che potrebbero con la loro stessa storia o persino con la loro fenomenologia spingerci

a credere che l’unità europea sia nelle cose, o quasi un destino. Il primo è inevitabilmente mitologico (sappiamo quanto i miti siano politici, meglio teologico-politici. Questo è un tema che ritroveremo in seguito). Come si sa, nella mitologia greca Europa è una fanciulla fenicia rapita e trasportata sulle acque da Zeus che per l’occasione si presenta come un toro bianco di grande bellezza e mitezza, tanto da indurla a cavalcarlo. Il toro allora la conduce nell’isola di Creta dove riprende le sembianze di Zeus e con lei genera tre figli, Minosse re di Creta, Rodomonte, giudice degli inferi, e Sarpedonte. I fratelli di Europa si misero alla ricerca della sorella e fu così che Cadmo giunse nella Grecia continentale fondando Tebe. A lui è attribuita la trasmissione dell’alfabeto dalla Fenicia alla Grecia. In generale il mito rappresenta un movimento di civiltà da Oriente a Occidente e il nome Europa, dato ai territori occidentali, riflette questo spostamento. Sarebbe per altro interessante legare questo mito e la relazione tra la donna e il toro alla trasformazione del sistema sociale da matrilineare a patrilineare che presumibilmente avviene attorno al 10.000 a.C., nel Levante. Queste figure, peraltro, conservano come scrive Jacques Cauvin nel suo Nascita delle divinità e nascita dell’Agricoltura “il loro ruolo indiscusso per tutto il Neolitico e l’età del Bronzo orientale, e anche nella religione del Mediterraneo orientale preellenico”. A conferma, secondo recenti studi, i culti dei bovini e della luna (le corna del toro hanno la stessa forma della falce di luna e i due simboli venivano collegati nei riti religiosi) adombrati nel mito di Europa furono trasmessi attraverso le migrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa alla Grecia. Da questo mito, e quindi all’interno di una logica delle origini, si può dedurre, come per altro fa Przywara, nel suo L’idea d’Europa. La “crisi” di ogni politica “cristiana”, che dal punto di vista della mitologia l’Europa non è una realtà auto fondata e che esiste in quanto parte di qualcosa d’altro, dal quale riceve la propria identità.


Altro tema più volte usato per giustificare l’unità europea è la derivazione da Roma, dal suo impero che ha, in un determinato momento storico, dominato non solo l’Europa ma tutto il mondo allora conosciuto, e il fatto che dalle complesse vicende politiche di Roma nasce una riflessione ancora fondamentale nella nostra cultura sui modi del diritto, in particolare con la sua forma, per così dire compiuta, del Corpus Iuris Civilis. Con l’impero romano si intreccia lo sviluppo del cristianesimo. È indubbio che, più che legittimamente, coloro che cercano nella storia le ragioni del presente possono affermare che i segni dell’impero romano sono ancora presenti nei territori dell’Europa; che ancora si usano, non solo nel diritto, alcune categorie e logiche che appartengono a quel mondo, e che il cristianesimo nelle sua varie articolazioni ha segnato e continua a segnare le vicende dell’intera Europa. Sarebbe semplicemente sciocco negarlo.

Un particolare modo di affermare una unità culturale europea emerge in ambiente tedesco tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento; modo ripreso più volte sino ad oggi da vari autori, tra i quali Heidegger. La questione è la seguente: con la traduzione dal Greco antico da parte di Lutero del Nuovo Testamento, nasce di fatto la stessa lingua tedesca. Questa sarebbe così ancorata al modo di pensare della Grecia antica e quindi alla sua filosofia. Lingua e pensiero tedeschi avrebbero pertanto un legame particolare con il logos greco, logos che andrebbe considerato come l’origine dell’intera cultura occidentale. Indubbiamente la lingua tedesca è strutturata in modo notevolmente efficace rispetto al pensare filosofico, ma viene comunque il dubbio che in questo modo la cultura tedesca contemporanea abbia cercato una legittimità europea affermando una propria specificità, anziché considerando nel suo insieme la storia stessa dell’Europa. Ho provato a segnalare alcune linee interpretative. Trovo a questo punto necessario proporre uno schema che inevitabilmente si intreccia con alcune delle trame sopra segnalate, con una premessa che non è certo di metodo: pensare l’Europa per me significa pensare nella dimensione del lungo, lunghissimo, periodo e in forma di scenari possibili. In questo caso mi trovo a confrontarmi con dimensioni che usualmente vengono definite come epocali che so benissimo essere pericolose e che rischiano di mettere

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Sino a qui le tracce del mondo antico, ma a queste bisogna aggiungere l’emergere di altri fattori che, anche se in modi diversi, hanno percorso e caratterizzato la storia dell’Europa: la nascita di quello che si chiama Umanesimo e cioè l’emergere dell’autonomia del soggetto e della storia come sapere specifico; lo sviluppo progressivo della scienza sperimentale con la sua formalizzazione, avvenuta nel Seicento, che ha determinato la trasformazione definitiva del potere della spada in potere della scienza e della tecnica e che ha creato i presupposti dello stesso dominio planetario dell’Occidente; la parallela nascita dello jus Pubblicun europaeum nelle costituzioni dello Stato Assoluto sino alla universalizzazione dell’Occidente indotta (o caratterizzata) dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo implicita nella Rivoluzione Francese. Tutti fenomeni che hanno formato, tra mille contraddizioni, ciò che chiamiamo Europa. Tutto questo probabilmente giustifica quella koinè che Croce definiva con la metafora della “cupola dell’etere”. Oltre tutto è indubbio che la Rivoluzione Francese (ma anche quella Americana) è la fine di un lungo processo di universalizzazione di categorie politiche

che hanno coinvolto e ancora stanno coinvolgendo l’intero orbe terraqueo. Con la Rivoluzione Francese e con il suo capovolgimento nella avventura politicoimperiale napoleonica, secondo alcuni, si compie un evo: termina in modo definitivo il mondo in cui si era intrecciata una ragione imperiale con la religione cristiana. Il fallito tentativo di imporre un impero, anche se non più motivato teologicamente, è la dimostrazione di questa lunga fine; allo stesso modo, da allora, risulterà evidente che l’appellativo “imperatore” dato a qualche regnante assumerà persino il sapore del grottesco.


in gioco categorie scivolose o parole per loro natura infide, come destino, origine, identità, che portano il più delle volte verso logiche (se così si possono chiamare) misteriosofiche o mistiche. Credo sia un pericolo da correre se non altro per cercare di creare uno scenario per poi (solo poi) verificarne la plausibilità e la capacità simulativa. Detto in modo più radicale questa disponibilità non parte, né apre alla possibilità che ciò che si sta dicendo sia il vero, ma più semplicemente prova ad insinuarsi in uno spazio interpretativo. Inizierei da ciò che sembra aver dato forma all’Europa nella Modernità: lo jus pubblicum europaeum. Il testo di riferimento non può che essere il Nomos della terra di Carl Schmitt. Sintetizziamo. Secondo Schmitt, ad ogni ordinamento spaziale corrisponde un ordinamento giuridico-politico in quanto la terra (lo spazio controllabile) è la madre di ogni diritto. La riforma protestante nel XVI sec., escludendo questioni teologiche nella trattazione pratica dei problemi di diritto internazionale, dà il via ad una progressiva deteologizzazione del diritto: questo ha portato alla formazione dello jus pubblicum europaeum, cioè a un diritto internazionale europeo-continentale che si configura come diritto tra Stati. Nasce lo Stato assoluto che si rappresenta come un universale, mentre opera, nella decisone del sovrano, come un singolare. La contrapposizione è persino drammatica per il semplice motivo che la decisione sovrana non viene legittimata da alcunché, se non da se stessa. Ponendosi lo jus pubblicum europaeum come interstatale si motiva come ordinamento eurocentrico e, nel contempo, si impone come mondiale. Detto in altri termini si universalizza. Sempre secondo Schmitt la nuova concezione dello Stato provoca un cambiamento del concetto di guerra. Se nell’ambito della res pubblica cristiana la guerra trovava la sua giustificazione in una justa causa legata al principio di superiorità-legittimità della religione cattolica su altre forme religiose, e pertanto era di tipo esclusivamente civile e religioso (o di entrambi), successivamente nell’ambito del diritto interstatale la guerra diventa

un duello tra justi hostes nel quale gli stati si battono legittimati dalle norme del diritto interstatale. Così nell’ambito dello jus pubblicum europaeum le guerre possono riguardare il solo ambito spaziale e preservare l’ordinamento politico esistente, oppure tendere a mutare e distruggere l’ordinamento esistente. Questa seconda possibilità vale nel caso di occupazioni belliche di territori liberi. Secondo Schmitt è oramai avvenuta la dissoluzione dello jus pubblicum europaeum, in particolare con il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dello Stato del Congo nel territorio africano, avvenuta nel 1885, e con la conferenza di pace di Parigi del 1919 con la quale termina un ordinamento spaziale della terra. Il nuovo ordinamento non fa più riferimento alla terra, ma al mare che, a differenza della terra è libero, non costituisce territorio statale e per questo motivo è aperto alla libera circolazione di merci, persone ed eserciti. Nasce così un nuovo diritto internazionale e una nuova concezione della guerra che diventa illimitata. Il sospetto è che permanga il fantasma di quello jus, inevitabilmente avvitato nella sua stessa crisi fondativa. Forse le difficoltà alla elaborazione di una qualche costituzione e quindi di una ragionevole statualità europea sono l’inevitabile esito di questa dissoluzione che si è materializzata circa un secolo fa? Forse il ragionamento politico non dovrebbe più ancorarsi ad una qualche territorialità, ma dovrebbe vincolarsi alle logiche del nuovo diritto internazionale, anche se questo si presenta (sempre secondo Schmitt) non più come jus gentium (diritto delle genti) ma come jus inter gentes (diritto tra le genti)? Forse non dovrebbe cercare lo specifico delle genti europee ma le logiche del tra? Forse questo tra non è più di un mondo che non ha più come paradigma fondativo la terra, nemmeno il mare, ma il tra stesso, cioè la globalizzazione digitale? Di certo l’Europa che aveva imposto il proprio jus pubblicum europaeum dovrà riconoscere che questa imposizione si è oggettivamente dissolta e non rappresenta più il mondo in termini globali: altri soggetti


un comprensibile e giusto atto di buona volontà? Forse è la conferma che lo jus pubblicum europaeum è non solo finito, ma non è nemmeno più ri-pensabile o riproponibile e che, nel caso, ciò che va cercato è uno jus pubblicum mundi? Forse la partita non va intesa intra moenia, ma extra moenia, cioè nella elaborazione di universali non in nome di una ragione impositiva o di una dogmatica metafisica? Sempre seguendo Schmitt, si pone una ulteriore questione, una sorta di contraddizione o di crisi permanente che sta alla base non solo della formazione dello jus pubblicum europaeum, ma anche della secolarizzazione e della stessa teologia politica, che come si sa è uno dei temi cruciali delle riflessioni non solo di Schmitt, ma dell’intera teoria politica moderna e contemporanea. È la questione dell’emergenza che, a sua volta, è connessa a quella del potere. Emergenza e l’interrogazione attorno al potere legano tra loro la secolarizzazione, la teologia politica, la formazione dello jus pubblicum europaeum e l’attuale crisi del sistema Europa. Accenniamo quindi alla questione dello stato di emergenza. Da una parte si riconosce (anche Schmitt riconosce) che la decisone o è legittimata da una ragione trascendente (cioè divina o metafisica) o ha una sostanziale legittimità solo a posteriori, quindi non si fonda se non su se stessa e questo rinvia al fatto che ogni decisione non risolve mai le cause storiche che la determinano dato che procede sempre per rinvio in ragione della sua sostanziale illegittimità. Da questo punto di vista tutti i momenti di determinazione storica che articolano le forme della secolarizzazione sono atti di crisi che continuano a produrre crisi e lo jus pubblicum europaeum è stato uno di questi atti che operano proprio in nome della sua stessa irrisolvibilità. Si tratta di una sorta di metafisica dell’emergenza. O l’esistente si presenta sempre come stato di emergenza oppure c’è un prima e/o un dopo in cui questo stato di emergenza non si dà, c’è una origine senza contraddizione e/o un compimento che tutto risolve.

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sono comparsi nel panorama globale con altre logiche territoriali, con altri rapporti con il mare e persino con internet e soprattutto con la guerra. Esemplare da questo punto di vista è un testo pubblicato in Cina nel 1999 da Qiao Liang e Wang Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. L’arte della guerra assimetrica fra terrorismo e globalizzazione. Per i due generali cinesi la guerra mondiale non è affatto terminata è , appunto, senza limiti, infinita. Questo al di là dei limiti, cioè al di là di ogni jus pubblicum sostiene la validità del ricorso al terrorismo, alla manipolazione dei media, alle azioni di pirateria nei siti Web, alle turbative dei mercati azionari al fine di provocare crisi finanziarie, alla diffusione di virus informatici e ad altre armi non convenzionali. Forse con la dissoluzione dello jus pubblicum europaeum è terminata la pretesa dell’Occidente di dettare le regole se non la natura stessa del vivere civile e dei valori che lo determinano? Forse dovremmo trovare una soluzione all’antitesi posta negli anni Novanta tra La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, che riteneva compiuto l’intero viaggio dell’Occidente con l’avvento della globalizzazione guidata dalle liberal democrazie occidentali. E Lo scontro di civiltà di Samuel P. Huntington per il quale la fine della Guerra Fredda liberava le diverse civiltà dal gioco del bipolarismo politico ideologico USA e URSS? Ci sono ovviamente altre ipotesi come quella che emerge dalla trilogia di Toni Negri e Michael Hardt che vedono l’emergere di nuove forme di sovranità globale derivate dalla crisi degli Stati nazione, cioè da quella che definiscono come crisi dell’impero. Impero che può essere abbattuto non più dalla classe operaia resa impotente dalle logiche postfordiste e dal capitalismo globalizzato, ma da un nuovo soggetto politico, la moltitudine, plurale, diffuso, fluido, trasversale. Ma quale posizione può assumere l’Europa proprio nel momento in cui cerca di costituirsi o ri-costituirsi? Quale il suo possibile ruolo nella globalizzazione? Cosa significa allora quel “mai più guerra tra di noi” che ha spinto nel bene e nel male l’intera politica dei paesi usciti dalla seconda guerra mondiale a ricercare l’unità europea, oltre ad essere


Lo stesso jus pubblicum europaeum si presenta in quanto la secolarizzazione non è pervenuta all’esito che ci si poteva aspettare, cioè al superamento di quello stato di emergenza che permetterebbe che la costruzione giuridica possa essere data non per un solo atto di decisione, cioè dal nulla. Ha ragione Giorgio Galli in un suo saggio in un AA.VV dal titolo La politica oltre lo stato: Carl Schmitt, quando scrive: “… lo jus pubblicum europaeum non è il risultato perfetto (compiuto) di un processo/progresso automatico e orizzontale, ma anzi contiene in sé un elemento di infinità, che è la potenza decisionista del sovrano. Il caso di eccezione non è espunto dal diritto, né vi è contenuto pacificamente; piuttosto, è il reagente che dimostra l’irriducibilità di principio del potere creatore sovrano al sistema giuridico (pacifico) creato, e in quanto tale non autonoma, ma passibile di sospensione”. Esiste un fattore di crisi della stessa secolarizzazione. Detto in modo sintetico: il sovrano non ha più alcuna possibilità di trovare la legittimità delle proprie decisioni nella teologia ed è costretto ad alimentare costantemente la propria stessa illegittimità, cioè la propria crisi, e a giustificare la propria stessa decisione attraverso una teoria dell’amico/nemico; detto in modo ancora più sintetico è costretto a produrre il proprio nemico. L’oggi quindi potrebbe essere interpretato a partire dalla stessa crisi implicita nello jus pubblicum europaeum, crisi irrisolta perché irrisolvibile, essendo interna al processo stesso di secolarizzazione. La domanda è se questo processo sia infinito o abbia (o possa) avere hegelianamente un compimento e se questo compimento non possa avere come soggetto/oggetto proprio l’Europa teologicamente/politicamente compiuta, in una unità/identità metafisicamente compiuta. Forse per uscire da questo corto circuito, e quindi per provare una nuova strada oltre lo jus pubblicum europaeum, è necessario mettere in discussione proprio ciò che lo produce: il fondarsi sulla relazione amico/ nemico. Secolarizzazione, jus pubblicum europaeum, teologia politica si alimentano tutte dell’emergenza. Assumono la decisione e quindi il potere come esito di uno stato di eccezione. Forse è necessario tagliare

il nodo gordiano della attuale crisi europea uscendo concettualmente dallo stato di eccezione e/o dalle logiche amico/nemico. Si consideri il fatto che lo jus pubblicum europaeum si formalizza là dove si presenta una nuova antropologia giuridica basata sul rispetto della sfera individuale degli uomini, il proprium di ognuno che significava e significa diritto di libertà e proprietà; antropologia che si fonda quindi sul primato del singolo soggetto o del soggetto come singolo (e questo ha a che vedere con la nascita della borghesia e del capitalismo). Ma questa stessa imposizione del soggetto si presenta subito come contraddittoria, in particolare in Hobbes che nell’immaginario del Leviatano presenta lo jus pubblicum come rinuncia da parte dei singoli a una parte dei diritti che hanno in natura per costruire l’ordine sociale. Se da una parte con l’Umanesimo l’Europa diventa entità culturale (così la pensano ad esempio Erasmo da Rotterdam o Machiavelli quando definisce l’Europa come la terra delle libertà politiche di contro all’Asia terra del dispotismo, teoria che ritroveremo nella Filosofia della storia in Hegel), dall’altra (o di contro) la legge si fa immediatamente potere e quell’insieme culturale si ritrova continuamente in guerra, forse non basta dire “mai più guerre tra di noi”, o che possiamo stare assieme perché, ci riconosciamo in una comune identità o perché inventiamo un modo della convivenza dei diversi, ma bisogna anche provare a ripensare quella soggettività da cui deriviamo (per intenderci quella borghese capitalistica) e lo jus che la sostanzia. Forse l’attuale crisi Europea può permetterci di affrontare una rinnovata opzione antropologica ripensando il moderno soggettivismo, assieme ad una critica sia alla secolarizzazione che alla teologia politica. Con la secolarizzazione le questioni si complicano. Nella secolarizzazione si parte dal presupposto che il potere sia in una indeterminata origine o in una determinata metafisica (che poi è un po’ lo stesso), che venga da dio e prenda corpo nella religione. Religione, potere e sua rappresentazione nello Stato, sarebbero quindi la stessa cosa.


nella globalizzazione. In più, dopo l’11 settembre si sono affacciati nel panorama internazionale movimenti e forme della politica che intendono riaffermare un loro stretto rapporto con la religione: settori radicali dell’islam, reazioni teocon, settori ultra ortodossi in Israele, l’induismo nazionalista; movimenti che alimentano quello che è stato chiamato “scontro di civiltà” prefigurando alle volte il ritorno del dio degli eserciti. Questo, se non altro, a dimostrare che il processo di secolarizzazione non si è compiuto e che la teologia politica può avere altre e nuove forme di legittimazione.

Indubbiamente non è più possibile evocare lo jus pubblicun europaeum sia perché si è dissolto nella globalizzazione, sia perché la sua presunta unicità e universalità non ha più capacità di dominio, cioè con lo Jus si è dissolta l’idea stessa che l’Europa sia una sorta di faro della civiltà. Peraltro il processo di secolarizzazione che dava come inevitabile una progressiva separazione tra religione e politica si è dimostrato utile per comprendere alcuni (non tutti) i fattori che hanno caratterizzato la storia Occidentale dall’emergere del cristianesimo in poi, ma non lo è più se applicato alle molte genti e alle molte storie che operano oggi potentemente

La questione teologico-politica non a caso emerge nel complesso intreccio tra cristianesimo e impero romano, in particolare attorno alla disputa sulla theologia civilis che riguardava il culto pubblico tributato agli dei delle città per garantire alla comunità politica la massima prosperità. Inutile ricordare il rifiuto di Sant’Agostino in quanto la theologia civilis gli appariva come mera invenzione umana e pura idolatria. Il paradosso è che sarà alla fine proprio il cristianesimo a farsi theologia civilis. Forse anche per questo il tema non ricomparirà se non nel Seicento, appunto là dove si stava componendo lo jus pubblicum europaeum. Diventerà di seguito

Riprendiamo a grandi linee i temi della teologia politica che possono così essere articolati: se l’accento è posto sul termine “teologia” allora l’ordine politico appare come subordinato al dettame religioso; nel caso i due termini tendano ad equivalersi concettualmente, abbiamo a che fare con una riflessione sull’essenza teologica della politica e sul valore filosofico-politico intrinseco a ogni teologia; se l’accento è sul termine “politica” allora emerge l’idea che la teologia sia sostanzialmente al servizio della politica, che sia cioè un artificio per il potere, l’oppio dei popoli. Su queste tre accezioni della relazione tra teologia e politica si incardinano tre diverse antropologie: l’uomo è fondamentalmente e originariamente animale religioso; l’uomo è animale religioso perché politico e politico perché religioso; l’uomo è sostanzialmente e originariamente animale politico.

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Questa unità si sarebbe progressivamente disunita sino alla completa e motivata separazione tra teologia e politica. La Modernità trova la sua stessa natura in questa separazione e la nascita dello Stato assoluto con lo jus pubblicum europaeum ne sarebbe l’incarnazione, una incarnazione destinata a vivere della sua stessa crisi. Nell’unità teologico-politica la decisione politica è immediatamente religiosa e quindi derivante dall’unico referente possibile, la verità stessa in Dio. La decisone è quindi sempre legittima, mentre là dove la teologia è separata dalla politica non esiste più una vera e propria possibilità di decisione per la teologia, e il luogo assoluto della decisione diventa la politica. Una decisione che subisce sempre l’imposizione dello stato di emergenza e quindi non può mai razionalizzarsi, cioè affidarsi al principio ragione. La politica decide allora solo in nome del conflitto amico/nemico per difendere la propria terra. La terra è così identità politica e legge. Può l’Europa nel costituirsi seguire questa traccia? Può ancora invocare una qualche teologia politica? Si consideri il fatto che, per reggersi concettualmente, la teologia politica deve fondarsi su una antropologia che ritiene che l’uomo sia animale religioso, che il potere si radichi nella terra, nel territorio, nello spazio, nell’ambiente come risorsa basica e che alcuni hanno in questo evocato il diritto originario del sangue e della terra. Ma non è proprio da questo che vogliamo fuggire dichiarando “mai più guerre tra di noi?”.


cruciale per i pensatori conservatori del pensiero controrivoluzionario cattolico come de Maistre e Donoso Cortés (quest’ultimo in particolare oggetto di studio da parte di Schmitt) convinti che solo la scoperta del nesso intimo tra ordinamento politico e rappresentazione religiosa poteva fornire un antidoto alla crisi aperta dalle rivoluzioni politiche della seconda metà del Settecento. Sarà anche importante per quei pensatori romantici (Schlegel, Müller e, in parte, per lo stesso Schelling) che ripropongono il modello dell’Europa medievale per una vita spirituale e politica indivisa. Solo il Novecento porrà in modo analitico e storico critico il problema della teologia-politica come riflessione per comprendere il potere e la sua legittimità. In particolare Hans Kelsen coglie una palese corrispondenza concettuale tra il monoteismo cristiano e la struttura logica dello Stato sovrano, quale conseguenza di una metafisica sociale autoritaria che, rappresentando la sovranità come un principio assoluto, sulla falsariga della teologia che vede in Dio l’essere trascendente per eccellenza, deve essere superata per il bene collettivo; per far ciò, occorre liberare la scienza giuridica da ogni riferimento al trascendente, partendo dalla consapevolezza che la democrazia e il religioso sono sostanzialmente incompatibili. L’imposizione di un Dio inteso come essere sovrannaturale e dello Stato come ente sovra giuridico è, per Kelsen, il frutto di una visione religiosa rigorosamente monoteistica, che va soppiantata da un panteismo giuridico, all’interno del quale Dio e il mondo siano uguali e ogni diritto sia diritto dello Stato. Carl Schmitt, nella sua fondamentale Teologia politica del 1922, assume una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella di Kelsen, dato che s’impegna a sottolineare la necessità per la politica moderna di una corrispondenza reciproca tra religione e diritto. Schmitt considera la teologia politica come strumento per porre l’attenzione sul ruolo fondamentale che la trascendenza deve ricoprire in ogni sistema politico. Schmitt ritiene che tutti i concetti basilari della dottrina politica di uno Stato siano

concetti teologici secolarizzati, cioè traslati in campo politico. L’interpretazione in termini metafisici del processo di secolarizzazione e del fondamento teologico di ogni ordine politico determina, tuttavia, una tale osmosi tra teologia e politica, da compromettere la loro reciproca autonomia. Da una parte, la politica rischia di dipendere dalla teologia, al punto che diviene tangibile la possibilità di giustificare un nuovo regime politico su base teologica; dall’altra, la religione rischia di essere così condizionata dalla comunità statale da perdere la propria purezza spirituale. Questo all’interno della filosofia del diritto. Interessante la risposta sul fronte teologico. Se Erich Peterson, negli anni Trenta, apre una disputa durissima con Schmitt definendo ereticale ogni teologia politica, la cultura teologica della seconda metà del Novecento segnala un nuovo orizzonte interpretativo in particolare con Johann Babtist Metz e Jürgen Moltmann. Questi i due rappresentanti più significativi di una nuova teologia politica caratterizzata dall’intreccio profondo tra escatologia e libertà cercando di cogliere le relazioni profonde tra teologia e politica. Entrambi considerano obsolete quelle tendenze di natura trascendentale, esistenzialista e personalista che tengono separata la religiosità personale dal dibattito politico pubblico. Ogni affermazione teologica deve essere misurata sulla base delle implicazioni, non solo individuali, ma anche collettive della terminologia e della simbologia di cui si fa uso. Il carattere politico intrinseco alla teologia è strettamente unito alla promessa escatologica che inerisce necessariamente alla fede, per cui il futuro è il metro di giudizio delle verità religiose e politiche e il regno di Dio a venire è il riferimento principale di tutte le società umane, di contro ai pericoli mondani che seguono un processo di secolarizzazione totalmente concentrato sul presente. Il gesuita e teologo tedesco Erich Przywara nel suo L’idea dell’Europa. La “crisi” di ogni politica “cristiana” cerca, riprendendo alcune riflessioni di Husserl, di mostrare attraverso una “fenomenologia dell’Europa” che la stessa è finita in quanto è terminata l’interrogazione sul senso di verità. La riduzione della conoscenza ad un sapere


meramente strumentale ha fatto scomparire la domanda sull’origine e il senso della storia e ciò significa che è venuto meno lo spirito europeo. Questo avrebbe potuto scriverlo anche Heidegger. Secondo Przywara, da Costantino a Hitler si è tentato di identificare stato e chiesa, politica e teologia, e così facendo si è trasformato l’altro in vittima, il non-cristiano in un nemico, rinnegando così la propria stessa teologia, quella della riconciliazione, dello scambio totale tra l’alterità di Dio “totalmente altro e beato” e dell’uomo “totalmente altro e infelice”. In questo scambio Przywara coglie la possibilità di un autentico (nuovo) pensiero teologico politico.

Molte sono le forme di impero che la storia ci racconta. L’idea dell’impero è però, in sintesi, una idea assoluta nella quale il potere si pone come legittimato da una volontà divina e mette in gioco il concetto di universalità. Sempre tende a identificarsi con una divinità, per cui il potere diventa sacro, e con una determinata civiltà. È di per sé teologia-politica: discrimina quindi tutti coloro che non vi si adeguano. Si presenta come l’ordinatore del caos primordiale. Sempre avviene una identificazione religiosa dell’imperatore con la figura del sovrano universale la cui autorità viene esercitata ben al di là del territorio effettivamente controllato dalla

Cosa ha (o può avere) l’impero romano di singolare o di diverso dalle altre forme imperiali e perché esso può essere considerato – la sua memoria storica può essere considerata – come un fattore unificante, come ciò che – anche se in parte – potrebbe giustificare l’immane sforzo attuale di tenere unita o di produrre ex novo una unità Europea? I caratteri fondamentali dell’ìmperium sono quelli della unicità della sublimità e perennità. Impero è parola di origine latina. Il corrispettivo greco è egemonia che rinvia al comando, all’autorità, ma anche a credere e a saper imporre il proprio credo. Le parole analoghe in greco sono kratos (forza, vigore) e dunamis (capacità o proprietà di ciò che può passare all’azione o ricevere l’azione di un agente), Queste due parole non risolvono le modalità che la parola imperium assume nel mondo romano. I caratteri fondamentali dell’ìmperium sono quelli della unicità della sublimità e perennità. L’impero prima di essere legittimato da una volontà divina, quindi altra, si fonda sulla sua presunta unicità e opera per esclusione/inclusione, cioè il suo motore primo non è la rappresentazione, ma il dominio, non è, per dirla in chiave pseudo marxiana, l’ideologia, ma il possesso. L’impero porta con sé la sublimità. In età romana il princeps e il dominus erano circondati dallo splendore e dalla dignità, viva, sostanziale, dell’Imperium popoli romani. La giustificazione prima mondana poi religiosa data nel mondo romano della perennità dell’impero conteneva in sé la somma dignità di ufficio e funzione di chi quella carica ricopriva. Tutto derivava da Dio, Omnis potesta a Deo. L’impero è centro di coordinamento di tutta l’umanità o di quella parte di umanità che si rifà a identici

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Per capire cosa potrà essere l’Europa o come muoverci per procedere verso una qualche forma di unità forse è il caso di considerare un po’ più da vicino una ipotesi parallela a quella tracciata dalla secolarizzazione e dalla teologia-politica, parallela perché analoga ma con caratteristiche diverse; parallela perché si intreccia senza emergere. La domanda che sta sotto traccia è la seguente: forse ciò che caratterizza l’Occidente, e quindi l’Europa nella sua storia come nelle sue contraddizioni, non è la questione della secolarizzazione né della teologia politica, ma quella della metafisica, dell’universalizzazione, dell’unum e quindi dell’imperium o della potenza per la potenza (qualcuno ha già drammaticamente detto della volontà per la volontà).

sua amministrazione e dai suoi eserciti: è quindi un potere inclusivo ed espansivo. Ad esempio all’epoca della monarchia feudale in Cina il sovrano è Figlio del Cielo; nell’Islam il califfo si presenta come erede del profeta e nell’impero mongolo il Gran Khan si situa al di sopra di tutti i sovrani e di tutte le religioni.


motivi etnici o politico-culturali di fondo, la perennità in quanto esito di continuità e di necessità e come strumento voluto dalla divinità per la salvezza del popolo, guida unica e piena, perfetta e dunque permanente. Questi caratteri sono analoghi in tutte le modalità in cui l’impero si è imposto. Ma è nell’incontro con il monoteismo, sia nella sua forma vetero testamentaria che, in modo più cogente, in quella neotestamentaria, che l’impero diventa momento significativo del viaggio dell’Occidente sino all’attuale fase della globalizzazione. Se dovessimo individuare un momento significativo della elaborazione del concetto di imperium all’interno di quella che chiamiamo cultura occidentale dovremmo probabilmente riferirci al momento in cui avviene, ad esempio con Filone di Alessandria, una sintesi tra politeismo greco e monoteismo ebraico. Questo passaggio, anche se tutto da argomentare dal punto di vista storico critico, e dal punto di vista della teologia politica, è cruciale. Filone, che vede nelle teoria del demiurgo esposta nel Timeo il Dio creatore ebraico, pone il kratos divino come unico e sovrano. Tutto è soggetto alla potenza divina e le nostre capacità non sono altro che potenze in prestito, derivate. Dio è il Signore. Filone per tentare di dar conto del potere divino accosta kratos, dunamis, ed egemonia. Più o meno negli stessi anni, circa trenta prima della nascita di Cristo, si vengono a formare le radici del successo della formula imperiale nel principato di Augusto. Questi si pone come princeps rispetto alla Repubblica creando così una contraddizione giuridica non solo formale, in quanto la protezione sociale passa dal potere rappresentativo della Repubblica a quello assolutistico del Principe. È così che Augusto assume il titolo maiestatico di Imperator Caesar Augustus che rinchiude tutti gli sviluppi e le aspirazioni definitorie successive. Augusto si attribuisce quindi un potere non umano, ma divino, e in questo assoluto. Da questo punto di vista nessuna differenza rispetto alle tradizionali modalità con le quali un potere imperiale si giustifica. Ma, ribadisco, è nell’incontro con la dottrina

cristiana che l’impero si fa in qualche modo nel contempo storia e mondo e strumento escatologico. L’impero dapprima ostile diventa con Costantino il difensore e il depositario della nuova religione. La giustificazione è che Dio stesso aveva concesso ai Romani l’impero sul mondo per la diffusione prima e la tutela poi della religione rivelata. La permanenza della religione postula la permanenza stessa dell’impero e viceversa. Dall’essenzialità della religione deriva l’essenzialità dell’impero e la perpetuità della religione conduce a dedurne la perpetuità dell’impero. La perennità dell’imperium è analoga al fatto che il popolo non muore mai, quia populus non moritur. La perennità dall’alto (Dio) corrispondeva alla perennità dal basso (popolo) e così il conferimento dell’imperium al principe era considerato un effetto congiunto dell’azione di Dio eterno e del popolo perpetuo. Attraverso il popolo che lo elegge il re governa per natura mentre l’elezione stessa di un certo individuo o di un casato reale era determinata da Dio come causa remota e ispirata per grazia. L’impero riconosce se stesso nella radicalità dell’unum e come principio di totalizzazione e per questo non può che occupare la totalità anche territoriale cioè non può che procedere per progressiva inclusione, per espansione così come la sua rappresentazione, come le sue stesse pratiche non possono che assumere le forme della idolatria. Questo intreccio tra impero, monoteismo, cristianesimo in una teologia politica continuamente in crisi è durato sino alla Rivoluzione Francese, passando attraverso la formazione dello Jus pubblicum europaeum, cioè attraverso la stessa elaborazione dei prodromi dello Stato moderno nello Stato assoluto. Dopo la Rivoluzione questa dimensione occidentale dell’impero si è dissolta o si è trasmutata nelle logiche dell’imperialismo. Verrebbe da accettare la tesi di Gianfranco Miglio che di fatto lo Stato moderno è orientato all’auto-neutralizzazione e persino alla spoliticizzazione. Diventato ineffettuale non è più soggetto ma oggetto della più politica delle guerre: la guerra civile mondiale. Cosa significa una costituzione


europea in un contesto di guerra civile mondiale? Contro Schmitt è fondamentale accettare l’irrevocabilità del crollo dello jus pubblicum europaeum provando a pensare persino al di là della stessa forma Stato. Questo potrebbe complicare per l’Europa (e a mio parere ha complicato) una riflessione fondativa alla ricerca di una costituzionalità ancorata alla forma Stato tradizionale, anche se modellata in forma federativa.

Il cristianesimo è l’unica religione che allontana da sé il sacro, ciò significa che riconosce l’esistenza di qualcosa che chiamiamo il sacro, ma che non si identifica con lo stesso, anzi! È chiaro che sto accogliendo alcune tesi di autori che propongono che il sacro preceda la religione (tra tutti Girard ) e che il sacro sia sostanzialmente il tremendo (la valenza originaria) che costituisce la stessa possibilità del sociale (si ricordi, per altro, Totem e tabù di Freud). Il politico prima di essere la risposta al religioso è, da questo punto di vista, l’esito diretto della repressione-sostituzione (lo logica vittimaria) delle pulsioni originarie che eventualmente possono anche operare nelle forme della religione, ma sempre dopo il sacro (anche il principio amico nemico è originario, e analogamente sacrale?). Il cristianesimo così non può essere giustificato da nessuna teologia politica. Da questo punto di vista va accolta (anche

Se questo ha un minimo di plausibilità, dire che la politica così come si è presentata nelle diverse vicende della storia occidentale, in particolare nella formazione dello jus pubblicum europaeum, è giustificata da categorie teologiche secolarizzate può essere vero per particolari scritture giuridiche, ma non di principio, se non altro perché la politica, al di là della sua stessa etimologia, è sostanzialmente il rimosso della violenza sociale che permette il costituirsi formale delle relazioni di potere. Non ha bisogno di religione anche se può produrre religioni. Ha bisogno di rappresentazioni – questo sì! – e la religione è comunque una straordinaria macchina di rappresentazione e per questo inevitabilmente e comunque idolatrica. Proviamo ad avvicinarci alle considerazioni conclusive rispetto a questa trama per molti aspetti inconsistente, ma iniziali rispetto al Pensare l’Europa. All’origine c’erano il sacro e la violenza vittimaria; all’origine il nomos della terra e la distinzione amico/nemico. Lo stare assieme (per sopra-vivere), la politica, si misura inevitabilmente con queste precondizioni, con ciò che è esistenzialmente irriducibile o che non manca mai di tornare. La religione incarna la dimensione simbolica e in questo anche il linguaggio possibile, tiene assieme (in quanto, appunto, re-ligio) trascendendo la necessità della relazione sociale che il simbolo, come la stessa rappresentazione, portano con sé. Tutte le religioni sono politiche e tutte le politiche sono religiose. Accade (e su questo molto ci sarebbe da ragionare) che una religione, il cristianesimo, riconosca l’impossibilità di risolvere il sacro, di liberarsi dalle sue pulsioni non solo politiche ma biologico-esistenziali.

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Affrontiamo, quasi per concludere, o meglio per rilanciare l’intera questione, la relazione diretta tra secolarizzazione, teologia politica e cristianesimo, e l’imperium, ricordando che uno dei temi fondamentali del cristianesimo e anche del giudaismo è la questione dell’eskathon, cioè del compimento e che la secolarizzazione per propria natura tende ad un compimento. La questione è se il cristianesimo vada considerato alla stregua di tutte le altre religioni o se abbia delle caratteristiche singolari, senza ovviamente in questa occasione darne una giustificazione teologica, caratteristiche interne alle stesse ragioni della secolarizzazione. Questo può permettere di individuare, sotto traccia, alcuni nodi della crisi stessa che accompagna la stessa teologia politica.

se in parte) la posizione di Peterson o quella di Przywara. Il tutto risulta evidente in uno degli adagi politicamente più significativi del Nuovo Testamento: “… date a Cesare quello che è di Cesare” che ben esprime la separazione tra teologia e politica. Questo almeno nel cristianesimo alle sue origini; ciò che succede nella identificazione (?) con l’impero romano e con la stessa Europa diventa la questione basilare della stessa teologia-politica.


Nel riconoscere tutto questo non si sottomette; vuole trattenerlo, depotenziarlo, e per questo elabora una narrazione (o, per chi ha la fede, degli eventi) in cui la stessa divinità attraverso la figura del Cristo-Figlio, che media le due “alterità” quella divina e quella umana (Przywara), diventa vittima sacrificale. Da allora non sarà più necessario portare all’altare un qualche vittima. Il cristianesimo dà al sacro ciò che è del sacro, dà alla politica ciò che è della politica e si ritrova così ad allontanare da sé il bisogno del nemico, cioè la logica originaria dell’amico/nemico. Ma anche questa re-ligio non può non diventare mondo, ma non potendo più ipostatizzare l’amico attraverso il nemico (a differenza di tutte le altre) si universalizza attraverso la teoria della fratellanza e imponendo la conversione. In questo suo universalizzarsi si fa imperium assorbendo e misurandosi da una parte con il logos greco (Giovanni) e dall’altra con il diritto romano (Paolo). Qui nasce l’Europa e ciò che verrà chiamato l’Occidente. Si è trattato di uno straordinario viaggio della volontà per la volontà o del potere per il potere. Questo viaggio è terminato. Non c’è unità europea, non c’è teologia politica che lo possa compiere. Forse non è più possibile l’inganno imperiale romano, un inganno appunto teologico politico. Il viaggio da occidente a occidente di ciò che non a caso chiamiamo l’Occidente è terminato. Incominciato nel logos greco e finito, disperatamente compiuto, con i totalitarismi (tutti, nessuno escluso) del Novecento, non può che perdere se stesso e predisporsi ad un nuovo viaggio. E la possibilità di una unità Europea è l’occasione per elaborare questo nuovo viaggio. E per far questo la cultura europea deve liberarsi del suo continuo conflitto tra universale e singolare considerando la sua stessa storia come una storia della inclusione e della diversità. Przywara direbbe che andrebbero svelate le radici dell’Europa e l’essenza del cristianesimo: la comune necessità di ricevere la propria identità nello scambio, nella relazione con il proprio opposto, oltre ogni possibile logica dell’amico/nemico, le sue stesse vicende tra secolarizzazione, jus pubblicum europaeum e teologia politica vanno

considerate come resti o patrimoni collettivi da rimettere in gioco, compresi i suoi stessi errori, compreso il suo imperialismo, capitalistico quanto socialista. Così come ha fondato l’idea stessa di soggetto deve ora destrutturarlo (non rinnegarlo); così come ha praticato le logiche della democrazia sia diretta che rappresentativa deve oggi re-inventarle; così come ha imposto le logiche dell’universale, la ragione nomotetica, deve sperimentare non solo quella ideografica, ma la relazione aperta tra le due. Forse persino un nuovo o altro orizzonte per la stessa ragione, verso una ragione non più soggettiva ma collettiva, anche se questa è strada pericolosa visto che la ragione collettiva torna sempre alle proprie origini e quindi al mito; così come ha fondato la scienza sperimentale come dominio sugli enti, separando tra loro i saperi per ridurli ai loro stessi effetti, deve provare saperi capaci di portare alle estreme conseguenze epistemologiche quello che oggi chiameremmo olismo; così come ha praticato metafisicamente l’imperium inventando non certo la statualità ma la forma Stato moderna, deve riflettere su come sia necessario e possibile uscire proprio dalla forma Stato (e non è un caso che le vicende europee degli ultimi sessanta anni abbiano come problema centrale la domanda: come gli Stati europei possono perdere la loro sovranità per uno Stato sovraordinato? Cosa significa questo sovraordinamento?) Per cercare di concludere, l’Europa deve provare a rivedere le stesse categorie della politica che ha prodotto, o che l’hanno formata, per pensare secondo altre modalità la stessa soggettività del politico e quindi la stessa soggettività occidentale. La questione Europa prima di essere economica (nessuno, credo, può non riconoscere che è anche economica) è filosofica, meglio metafisica ed è oggi, inevitabilmente, comunque globale. Nella guerra di tutti contro tutti, ciò che risolve è la strategia. L’unione europea o è, nel contempo, autocritica dell’occidente e momento di una strategia sul globale e per una politica nel globale, o non sarà.


Documenti

p. 121 ≥ Étienne Balibar p. 123 ≥ Sandro Mezzadra

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Una esplosiva crisi di sistema di Étienne Balibar

il Presidente Hollande è ridotto all’impotenza. Dato il fallimento dei suoi tentativi di essere all’altezza, federando «l’Europa latina» o trascinando i vicini in una guerra per combattere il terrorismo in Africa, non può che oscillare tra impopolarità e «sanzione» dei mercati, a rischio d’incappare in entrambi. Ingovernabilità da un lato, immobilità dall’altro: si chiama crisi di sistema. Beninteso, la crisi ha, ogni volta, origini nazionali. Deriva però anche da condizioni europee e porta con sé conseguenze per l’Europa intera che, inevitabilmente, l’aggraveranno se non verrà attuata una soluzione d’insieme. Non tocca, oggi, solo le «periferie», ma due Paesi fondatori della comunità, i più potenti dopo la Germania. Dato il fallimento del ricorso alle istituzioni federali, poiché di fatto nessuno Stato lo voleva, le politiche continuano a essere decise unicamente in funzione dei rapporti di forza tra nazioni. È paralisi assicurata, se non l’esplosione. E i popoli che si allontanano dall’Unione ne saranno le prime vittime. Di questa situazione è importante capire le cause, se vogliamo delineare delle vie d’uscita. Sottolineerò due cause fondamentali. La prima si limita a una parola: disuguaglianze galoppanti. Sono innanzitutto sociali, non risparmiano nessun Paese (neanche la Germania), ma sono distribuite in modo altrettanto disuguale tra le regioni e gli Stati: una sorta di disuguaglianza nella disuguaglianza che la crisi ha drammaticamente aggravato, sottoponendo alcuni Paesi del Mediterraneo a una violenza simile a quella della guerra. Quest’esplosione della società è il contrario degli obiettivi

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E ancora una volta, allarme generale! La vecchia «coppia» franco-tedesca, motore o freno a seconda dei pareri, è sull’orlo dell’implosione. Va detto ai nostri vicini quel che si meritano, anche se stanno per diventare i nostri padroni, o dobbiamo iniziare a pensare per noi, ad accettare i compromessi che dovrebbero evitare il peggio? Credo che sarebbe meglio capire che cosa stia succedendo rispetto all’ensemble europeo, le cui componenti, tutte, insieme si sgretoleranno o si salveranno. La costruzione europea si è bloccata sull’ostacolo del bilancio. Per l’opinione pubblica, è screditata. Ciononostante esiste un sistema politico unico, né nazionale né davvero federale, ma che accumula gli effetti negativi di ogni livello e che ormai comanda tutto. Risulta chiaro, osservando le recenti evoluzioni d’Italia e Francia. L’Italia sta pagando, con un’ingovernabilità apparentemente irreversibile, la somma degli anni del berlusconismo e della «rivoluzione dall’alto» che sotto le ingiunzioni di Bruxelles e Francoforte ha portato al governo una squadra di tecnocrati strettamente legati alla grande banca internazionale. Cerca di cavarsela, con un’evoluzione dal parlamentarismo al presidenzialismo, ma il tentativo si compie attraverso un’unione nazionale fittizia, orfana di qualunque base popolare. La Francia, che le istituzioni della V Repubblica si dice salvaguardino dall’instabilità, ne subisce anche l’altra faccia. Eletto sulla promessa d’invertire lo sviluppo dell’insicurezza sociale, senza per questo potere, o volere, entrare in conflitto con un capitalismo finanziario che controlla ogni iniziativa,


proclamati dall’Unione. È inverosimile che i sistemi di rappresentanza vi resistano a lungo ed è irrisorio pensare che sia possibile rifondare la politica comunitaria senza rimediarvi con misure di salute pubblica. Il che ci porta alla seconda causa: il ritorno dei nazionalismi, cui oggi non sfuggono né i «dominanti», né i «dominati». Probabilmente il «progetto europeo» aveva sottovalutato la resistenza del nazionalismo, non solo per un fattore culturale, o per l’impronta delle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma per il fatto che le sicurezze e le solidarietà sociali si erano tutte costruite per mezzo della coesione nazionale. Di certo, però, la deriva dell’Europa verso un’unione monetaria al servizio di un ordine economico puramente concorrenziale ha scatenato al proprio interno la guerra di tutti contro tutti, dove i più forti schiacciano i più deboli, prima di ritrovarsi esposti allo choc di una globalizzazione di cui saranno solo le pedine. Contro evoluzioni di questo genere non ci sono rimedi facili, poiché è necessario che concorrano opinioni oggi ostili e l’inversione di tendenze che sono state sacralizzate. Motivo in più per porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa. Questa – come giustamente sottolinea nel suo ultimo libro Ulrich Beck (Europa Tedesca) – può nascere solo «dal basso» o da uno sviluppo senza ostacoli delle iniziative cittadine, che si estendono dal dibattito alla protesta e anche all’indignazione suscitata dagli effetti della crisi. E a condizione che non scivoli a sua volta verso il nazionalismo vittimario, ma si riveli capace di proporre alternative che abbiano un senso per la maggioranza dei cittadini del continente. Probabilmente sarebbe anche necessario che nascesse una leadership storica, una proposta politica udibile da tutti e da ciascuno nella propria lingua. Qualcuno ha evocato un New Deal europeo. Di certo, non lo aspetteremo da Angela Merkel. Ipotizzo però che debba arrivare dalla Germania, o ritrovarvisi sostituita, non in quanto «centro», ma poiché il primo dovere

è quello di convincere la massa dei cittadini tedeschi a scambiare i benefici (relativi) che traggono dalla crisi e i vantaggi (provvisori) della loro superiorità economica con un interesse collettivo a lungo termine. Il che pone molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile. Proprio per questo ho qui voluto insistere su quanto siano necessarie. Ndr: questo testo del filosofo è stato scritto per il quotidiano francese Libération, il 6 maggio 2013, ed è stato pubblicato contemporaneamente su il manifesto, e, in versione inglese, sul sito OpenDemocracy. L’obbiettivo è di rilanciare una discussione pubblica sullo stato dell’Unione europea.


La rottura della cittadinanza. Una risposta a Balibar. di Sandro Mezzadra

di consolidate gerarchie spaziali e l’affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l’attuale crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di “deriva dei continenti” (per riprendere l’immagine geologica impiegata da Russell Banks nel famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All’interno di questi processi, l’Europa è sempre più “provincializzata”, anche se non necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante libro del 2000. Di per sé, non è un male. Tutt’altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente le opportunità connesse a questa provincializzazione dell’Europa abbiamo bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo bisogno di un’Europa politica. Al di fuori di quest’ultima, la prospettiva è quella di un’Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, il cui dominio all’interno del capitalismo contemporaneo è alla radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi così evidente in Europa. Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo “geopolitico” sulla questione europea (il che significherebbe in particolare discutere su basi completamente nuove

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Étienne Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia “da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento. Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”, producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. È necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale. Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa. È evidente che la messa in discussione


il problema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui appena evocati per qualsiasi indagine critica sull’attuale situazione europea. Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su qualcos’altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a un’“altra Europa”. Penso sia importante essere consapevoli, in questo senso, di quanto profonda sia la rottura che è già stata prodotta all’interno della stessa struttura delle istituzioni europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare “dentro e contro” la cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in modo sbrigativo quell’esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell’“appartenenza” che dal punto di vista dell’architettura istituzionale – per richiamare i due punti di vista prevalenti negli studi sull’argomento – ci troviamo di fronte a con una profonda crisi della cittadinanza europea. Per dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato “positivo” e “progressivo” agli occhi di una vasta maggioranza della popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna, l’Italia, essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità delle politiche di austerity e con il loro carattere “punitivo”. Allo stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l’intero progetto di “integrazione attraverso il diritto”, tratto distintivo dell’integrazione europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle proprie contraddizioni

degli ultimi anni. L’equilibrio tra un sovranazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi d’interesse. Ne è emersa la cristallizzazione di un nuovo “assemblaggio” di potere capace di dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d’azione di qualsivoglia politica ( “europea” non meno che “nazionale”). Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell’austerity si sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l’indipendenza) della Banca Centrale Europea al centro di questo “assemblaggio” di potere. È difficile immaginare un’altra Europa politica senza porre l’accento sulla necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare questo “assemblaggio” di potere. “Default democratico” (Giandomenico Majone), “crisi di legittimità” (Fritz Scharpf), ulteriore rafforzamento della natura “elitaria” e “post-democratica” dell’UE (Wofgang Streeck) sono alcune delle formule che circolano nei dibattiti sulla crisi europea nel tentativo di cogliere le implicazioni della rottura, a cui si è fatto cenno, della soluzione di continuità che si è prodotta all’interno del processo di integrazione. Se nel concetto moderno di democrazia, per riprendere i termini proposti in un celebre saggio di Étienne Balibar, è iscritta una dialettica tra la dimensione “insurrezionale” e la dimensione “costituzionale” della politica, si deve riconoscere che oggi in Europa (sia a livello nazionale sia a livello di UE) questa dialettica sembra essere interrotta. Quel che ne consegue è una divisione che attraversa gli stessi concetti di politica e democrazia. I loro momenti conflittuali e “insurrezionali” continuano a riprodursi all’interno delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun


da una composizione sociale anch’essa profondamente innovata. L’Europa può avere un senso solo se la si costruisce come uno spazio all’interno del quale queste rivendicazioni possano essere articolate in un progetto politico capace di essere al contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura inoculata e disseminata dalla crisi all’interno del tessuto sociale. Lottare contro il “ritorno dei nazionalismi” e l’ascesa di nuove forme di fascismo in Europa significa prima di tutto lottare per sradicare questa paura. Quando parlo di una “campagna costituente” non penso a un’unica campagna organizzata centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è in primo luogo forgiare uno “spirito costituente” attraverso una molteplicità d’iniziative, articolate su diversi livelli e capaci di investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di piazza al Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di un progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le prospettive per un progetto del genere in questo preciso momento non appaiono particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora l’articolo di Balibar da cui ho preso le mosse, da “molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile”. È un monito essenziale rispetto alla difficoltà del compito che ci spetta: ma nulla dice (e Balibar lo sottolinea) contro la realistica necessità di farsene collettivamente carico. In fin dei conti potremmo concludere ricordando, con un po’ di necessaria ironia, le parole di Max Weber, uno che di “realismo politico” se ne intendeva: “è senz’altro vero che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si tentasse sempre di nuovo l’impossibile”.

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tipo di feedback all’interno delle istanze governative e “costituzionali”. Quello che rimane a livello nazionale della “democrazia conflittuale” (citando nuovamente una formula di Balibar) su cui si è fondato lo sviluppo dello Stato sociale democratico è al momento in fase di smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a livello europeo non c’è nessun tentativo di compensare questa “perdita” con l’edificazione di nuovi sistemi di welfare su scala continentale. Anche quanti avevano detto che il Trattato di Maastrticht avrebbe posto le basi per uno “scambio” di questo genere sono oggi costretti a ricredersi. Inutile dire che questo tema dovrebbe essere prioritario nella “campagna costituente” che si tratta di avviare. E non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state “storico”, quale lo abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Troppe cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del capitalismo e nella composizione di ciò che, con un concetto marxiano, possiamo chiamare il “lavoro vivo” contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti sulla precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per limitarci a un unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della struttura famigliare e dei rapporti tra i generi. Attorno a queste e altre questioni si sono sviluppati con straordinaria continuità movimenti e lotte sociali in tutto il continente: nessuna campagna per un’“altra Europa” è immaginabile senza un’intensificazione e un sempre maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti. “Non essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà europea è la ragione del fallimento della sinistra in Europa”, scrive Bo Strath commentando l’articolo di Balibar (cfr. http://www. opendemocracy.net/). Non potrei essere più d’accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo “fallimento” è a sua volta legato alla miopia della sinistra di fronte alle profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle rivendicazioni emergenti


Profilo degli autori Marco Assennato, (Palermo, 1978) ricercatore precario, vive e lavora a Parigi. Laureato in filosofia si occupa di teoria politica e architettura. Nel 2011 ha pubblicato per l’editore :duepunti Linee di Fuga. Architettura, Teoria, Politica. Marcello Barison (1984) insegna Estetica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara. Dottore di ricerca in filosofia teoretica, ha studiato presso l’Università di Padova, la Humboldt Universität di Berlino, la Albert Ludwigs-Universität di Freiburg im Breisgau e l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Napoli. Tra i suoi principali interessi figurano la filosofia tedesca del Novecento, il pensiero francese post-strutturalista e l’estetica in generale. Ha dedicato alcuni contributi apparsi sia in Italia che all’estero alle possibili convergenze tra prassi filosofica, arte e letteratura contemporanee. Segnaliamo in particolare i volumi La Costituzione metafisica del Mondo (2009), Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio (2011) e i saggi Eterotopie. Gropius – Heidegger – Scharoun (2010) e Seynsgeschichte und Erdgeschichte. Zwischen Heidegger und Jünger (2010). Francesco Bilotta (Sora, 1973) è ricercatore di diritto privato nell’Università di Udine e avvocato in Trieste. Autore di numerosi saggi in materia di diritti delle persone, diritti dei consumatori, responsabilità civile, questioni legate al mondo LGBT. Ha collaborato alla stesura della proposta di legge sul Patto civile di solidarità e unioni di fatto presentata nella XIV Legislatura. È socio fondatore dell’Associazione Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford. Damiano Cantone (Udine, 1977) insegna Storia dell’Estetica presso l’Università degli studi di Trieste. Si occupa dei rapporti fra cinema e filosofia, con particolare attenzione al lavoro di Gilles Deleuze. Ha pubblicato, fra gli altri, interventi su Deleuze, Lyotard, Hitchcock, Cronenberg. È traduttore e curatore di numerose opere del filosofo sloveno Slavoj iek; è redattore della rivista Aut Aut. Leonardo Ebner (Treviso, 1986) si è laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si interessa di filosofia e pensiero politico

contemporaneo, in particolare di teorie della giustizia e forme d’ineguaglianza sociale. È redattore della rivista interdisciplinare Post, pubblicata da Mimesis. Attualmente studia presso il Collège d’Europe di Bruges/Natolin. Marcello Ghilardi (Milano, 1975) svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova e collabora con il Master di Studi Interculturali della stessa Università. È membro del gruppo di ricerca sull’immaginario Orbis Tertius, presso l’Università di MilanoBicocca. Tra le sue pubblicazioni: Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (Padova 2003); L’enigma e lo specchio. Il problema del volto nell’arte contemporanea (Padova 2006); Giochi di ruolo. Estetica e immaginario di un nuovo scenario giovanile (con I. Salerno, Latina 2007); Una logica del vedere. Estetica ed etica nel pensiero di Nishida Kitaro (Milano, 2009). Teresa Lapis si è laureata in diritto penitenziaro nel 1980. Ex difensore civico della Provincia di Venezia (1997/2001) e del Consorzio Opitergino (2006/2008). Dal 1997 al 2010 é docente a contratto allo Iuav in materie giuridiche e docente in mediazione giuridica, difesa civica e diritti umani all’università di Bologna. Dal 2001 al 2005 è esperta in diritti umani per alcune missioni per la UE nei paesi della cooperazione sui temi Rule of Law, capacity building, violenza domestica contro donne e minori. Dal 2009 ad oggi segue il dottorato in urbanistica allo IUAV. Ha fatto parte della ASGI dell’European Group for the study of social control and deviance dal 1978. Giovanni Leghissa (Trieste, 1964) è Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione dell’Università di Torino. Ha insegnato filosofia presso le Università di Vienna, Trieste, e presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe. Redattore di Aut Aut, ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Blumenberg, Husserl, Overbeck, Tempels e Hall. Tra le sue pubblicazioni: Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna (Medusa, Milano 2004), Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione (Mimesis, Milano 2005), Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità

(Mimesis, Milano 2007). Neoliberalismo. Un’introduzione critica (Mimesis, Milano 2012). Le sue indagini hanno come punti focali: epistemologia critica delle scienze umane (con particolare riferimento all’antropologia, alla storia delle religioni e alla filologia), fenomenologia, psicoanalisi, rapporto tra religione e modernità, filosofia interculturale, Postcolonial e Cultural Studies. Da alcuni anni le sue ricerche mirano a indagare le trasformazioni del rapporto tra razionalità economica e razionalità politica nell’età neoliberale. Anna Longo è dottore di Filosofia estetica università Par is 1-Panthèon Sortone e SUM. Si occupa del rapporto tra conoscenza estetica e conoscenza scientifica. Ha curato per Mimesis il testo il divenire della conoscenza, 2013. Roberto Masiero (Venezia, 1944) è Professore Ordinario di Storia dell’architettura (IUAV-Venezia) e architetto. Studioso della storia delle idee con ricerche attorno alle relazioni tra arte, scienza e tecnica, ha pubblicato tra l’altro: Estetica dell’architettura, Bologna 1999 (tradotto in spagnolo e in turco); Livio Vacchini, opere e progetti, Milano 1999 (tradotto in inglese). Ha curato mostre come Il mito sottile. Pittura e scultura nella città di Svevo e Saba, Triere 1991; Mir. Arte nello spazio (con L. Francalanci) Bolzano 1990; La grande svolta. Gli anni ’60 (con V. Barel e E. Chiggio). Recentemente ha pubblicato una introduzione a T. W. Adorno, Parva Aesthetica (Mimesis, Milano 2012). Alessandro Tessari (Rimini, 1942) docente all’Università di Padova, deputato al Parlamento della Repubblica (VI-X legislatura) vive a Freiburg dove fa ricerca presso il Raimundus Lullus Institut della Facoltà teologica dell’Albert-Ludwig Universität. Maria Grazia Turri, economista e filosofa, insegna Linguaggi della comunicazione aziendale e Fondamenti della comunicazione presso il Corso di laurea in management dell’informazione e della comunicazione aziendale all’Università di Torino. Collabora con il Laboratorio di Ontologia teoretica e applicata (LABONT). Tra le sue pubblicazioni La distinzione fra moneta e denaro, 2009; Gli oggetti che popolano il mondo, 2011; Biologicamente sociali culturalmente individualisti, (Mimesis 2012).


Il Presidente della Fondazione Francesco Fabbri Giustino Moro

Laboratorio Politico Il Laboratorio politico si offre come luogo di riflessione e di incontro attorno alle parole chiave della politica oggi: democrazia, delega, rappresentanza, partito, decisione, governo, sovranità… È rivolto a tutti i soggetti politici, istituzionali, formali e informali che intendono aprirsi al confronto.

Il Laboratorio politico intende rivolgersi a tutti quei giovani che non trovano oggi occasione per una riflessione politica libera da vincoli di appartenenza e che vorrebbero dedicare una parte del proprio tempo al bene comune. Il Laboratorio intende diventare un luogo di riflessione attorno ad un problema oggi cruciale: la formazione della classe dirigente.

Il Laboratorio politico intende proporsi come luogo di interpretazione e di confronto sui dati congiunturali che caratterizzano le dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo.

Coordinato da Roberto Masiero, Luca Taddio

Il Laboratorio politico si propone di verificare le condizioni affinché i territori che caratterizzano l’Alta Marca possano configurarsi progressivamente come rinnovati soggetti politici accompagnando o promuovendo processi di aggregazione politico-istituzionale, di modificazione delle forme della governance e di rielaborazione delle identità locali, non solamente in nome della mera appartenenza. Il Laboratorio politico vuole rivolgere la propria attenzione anche ai fenomeni politici globali, nella convinzione che esistano oggi relazioni tra il locale e il globale che debbano essere non solo continuamente “riconosciute”, ma anche governate sia per ragioni economiche che ideologiche.

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Fondazione Francesco Fabbri La Fondazione Francesco Fabbri ONLUS è stata costituita per concorde volontà della famiglia Fabbri, del Comune di Pieve di Soligo e del Consorzio BIM-PIAVE di Treviso per ricordare Francesco Fabbri, Deputato al Parlamento, Senatore della Repubblica e Ministro di Stato, tramandarne l’alta testimonianza di uomo politico e il suo costante impegno per lo sviluppo sociale, economico e culturale della collettività regionale e nazionale. La Fondazione non persegue fini di lucro, il suo ruolo è quello di essere strumento di sviluppo culturale, sociale ed economico delle nostre comunità. La missione è perseguita attraverso lo sviluppo di programmi ed azioni culturali da ideare, coordinare e promuovere in una logica di “rete”. Opera nell’ambito del territorio del Veneto e in particolare della Provincia di Treviso nei settori dell’assistenza, dell’istruzione e formazione, della promozione e valorizzazione nel campo artistico, culturale e storico, dell’innovazione, della tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente.


Colophon Progetto grafico: Heads Collective Editing: Elisa Pordon Catalogo stampato ed edito da: © 2014 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana: Quaderni della fondazione n. 1 ISBN: 9788857519685 Via Risorgimento, 33 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax +39 02 89403935 E-mail mimesis@mimesisedizioni.it www.mimesisedizioni.it Ringraziamenti I testi di Étienne Balibar (Prof. emerito di filosofia politica e morale presso l’Università di Paris-X, Nanterre) e di Sandro Mezzadra (Professore associato in Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna) sono stati pubblicati nel Manifesto del 4 Maggio 2013 e del 17 Maggio 2013. Si ringraziano gli autori per averne concessa la riproduzione.

Fondazione Francesco Fabbri Onlus Pieve di Solighetto Tv 31053 Piazza Libertà, 7 m 334 9677948 f 0438 694711 info@fondazionefrancescofabbri.it www.fondazionefrancescofabbri.it http://twitter.com/FFFabbri www.facebook.com/ FondazioneFrancescoFabbri



Laboratorio Politico Quaderni #1

Questo libro è l’esito dei lavori svolti dal Laboratorio Politico della Fondazione Francesco Fabbri, coordinato da Roberto Masiero e Luca Taddio all’interno degli eventi del Festival Comodamente 2012 a Vittorio Veneto. La domanda era: è l’Europa un bene comune? Nel pubblicare i testi che i partecipanti hanno elaborato dopo il Festival si è ritenuto utile riportare il dibattito tra Étienne Balibar e Sandro Mezzadra pubblicato nel mese di Maggio 2012 dal quotidiano Il Manifesto.


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