Il Barça

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Prefazione di Paolo Condò

C’è sempre un luogo nel quale il talento fresco improvvisamente e inevitabilmente si concentra, come attratto da un campo magnetico, per trasformarlo nella porta su una nuova dimensione. Alla fine della Prima guerra mondiale Ernest Hemingway avverte l’inutilità concettuale di un ritorno in America dopo il congedo, perché la modernità – «le cose che avvengono», per dirla con lui – abita in Europa. Si parcheggia allora a Parigi, lasciandosi vivere in un circolo di giovani e sconosciuti connazionali che si chiamano Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound, John Dos Passos, la «generazione perduta» destinata a reinventare la letteratura. Erano tutti lì, nella Parigi degli anni venti: noi li avremmo capiti più tardi, ma fra loro s’erano riconosciuti al volo. Gli esempi possibili sono infiniti, e riguardano ogni ambito. Se spulciate l’elenco degli allievi passati per l’Actors Studio di Lee Strasberg, una piccola e graziosa palazzina newyorchese, scoprirete come il metodo di recitazione Stanislavskij che lì si insegna abbia «prodotto» l’intero cinema americano degli ultimi sessant’anni: James Dean, 7

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Marlon Brando, Paul Newman, Steve McQueen, Bob De Niro, Al Pacino, Meryl Streep, persino Marilyn Monroe. Tutti lì, diligenti scolari dell’accademia sulla 44esima. Oppure, venendo alla mia città, da quando il professor Basaglia aprì le porte del manicomio («la libertà è terapeutica» il suo manifesto, 1971) la psichiatria contemporanea ha eletto Trieste a suo posto delle fragole, e l’ospedale di San Giovanni è diventato per tutto il mondo la Graceland dell’igiene mentale. La teoria di «quel luogo» in «quel tempo» va ovviamente completata da «quel polo di attrazione»: il salotto di Gertrude Stein per la generazione perduta, Lee Strasberg e Franco Basaglia negli altri esempi citati. Ecco, Johan Cruijff è il polo di attrazione che ha permesso a Barcellona (quel luogo) un ventennio (quel tempo) di centralità calcistica. Pep Guardiola dice sempre che Cruijff ha dipinto la cappella e i suoi successori – lui compreso – non fanno altro che ammodernarla e restaurarla. È una visione un po’ riduttiva del lavoro degli altri tecnici – specie del suo – e ha anche la colpa di tacere il fondamentale apostolato di Rinus Michels; ma siccome il compito delle visioni è volare alto per fotografare una realtà, inevitabilmente riassumendola, il primato di Cruijff non è certo una scelta contestabile. Di più: attraverso la tribuna che tiene sul El Periódico, il grande Johan continua a recitare un importante ruolo sulla scacchiera catalana, da stimolo a non sedersi sugli allori ai tempi della presidenza Laporta – a lui totalmente devota – e da custode dell’ortodossia ora che Rosell, senza negare la filosofia di fondo, prova a smarcarsi nella gestione quotidiana. Guardiola è un dipendente, può discutere fino a un certo punto. A corto di liquidi, il 8

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presidente appena eletto gli chiese per tre volte di restituire Chygrynskiy allo Shakhtar, e per tre volte Pep rispose che preferiva tenerlo. Messo alle strette da una quarta richiesta, infine acconsentì. Cruijff, che non solo non è un dipendente ma da Rosell si è visto togliere la presidenza onoraria concessa da Laporta, può dire no finché vuole. E sull’opinione pubblica il suo parere continua a pesare. Barcellona luogo del calcio, dunque. Un buon modo per calcolare l’appeal di un posto – e in questo caso di un preciso club visto che l’Espanyol non ha proprio voce in capitolo – è osservare il flusso di giornalisti freelance che vi si dirige. I freelance sono diversi dagli inviati dei grandi media, che hanno lo stipendio garantito; loro sono quotidianamente costretti a industriarsi per mettere assieme pranzo e cena, e dunque devono vendere articoli, filmati, interviste, collegamenti radio, e possono farlo in misura sufficiente a campare soltanto se l’argomento di cui si occupano tira. Bene, in questi anni la sala stampa del Camp Nou è stata oggetto di una tale invasione da costringere il Barça a sdoppiare le sue munitissime pubbliche relazioni: c’è chi si occupa di catalani e spagnoli, e chi assiste i cosiddetti internazionali. In principio gli inglesi calarono in forze a Madrid al seguito di Beckham, in assoluto il calciatore di maggior presa sul pubblico dei tabloid (che pagano meglio e più puntualmente). Quando David si trasferì negli Stati Uniti, però, in molti non lo seguirono preferendo spostarsi a Barcellona: era l’estate del 2007, il crepuscolo del ciclo di Ronaldinho e l’alba dell’era Messi, l’ultima stagione con Frank Rijkaard in panchina. Il suo contributo tattico viene spesso sottovalutato – come racconta lo stesso Modeo nel saggio che state per leggere – perché la memoria dell’epoca è intasata dai 9

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numeri di Ronaldinho; in realtà Rijkaard è stato il perfetto ostetrico di Messi e Iniesta, introdotti in prima squadra nei tempi e nei modi giusti, un seminatore tattico del cui lavoro Guardiola ha beneficiato, e il pacificatore di una sala stampa esausta per la lunga guerra di trincea contro Van Gaal, detto il «gran queso» (il «formaggione») con ferocia denigratoria. Assurdamente antipatico – laddove Mourinho lo è scientificamente, ed è un’altra faccenda – Van Gaal litiga con tutto e tutti isolando il club dai suoi cronisti, che pure storicamente non sono mai stati ipercritici. Rijkaard, bravissima persona oltre che allenatore di ottimi fondamentali (ma scarso polso), medica la frattura col suo gradevole modo di fare, e ovviamente i risultati, che arrivano copiosi. Quando lo spogliatoio gli prende la mano, costringendo Laporta al cambio, i giornalisti lo salutano regalandogli una T-shirt con la scritta «You’ll never smoke alone», parodia dell’inno di Anfield e interpretazione insieme affezionata e maliziosa dello sguardo trasognato col quale Frank spesso si presentava ai microfoni. Una digestione difficile, o si era appena fumato uno spinello? L’episodio descrive bene il clima che accoglie l’insediamento di Pep Guardiola nell’estate del 2008. Un filone stampa-dirigenza ha insistito fino a primavera per Mourinho, scontrandosi però con le idee di Laporta e soprattutto col veto di Cruijff; la promozione di Pep, che ha fatto bene con la seconda squadra del Barça ma è soprattutto il regista del vecchio Dream Team, è una scelta di stampo opposto. Riletta a distanza di anni, la battaglia in favore di Mourinho condotta da alcuni settori del Mundo Deportivo (con un paio di terminali nella stanza dei bottoni del club) assume un sapore grottesco: dopo le troppe ordalie contro il suo Real, nessun per10

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sonaggio verrà mai odiato e disprezzato a Barcellona quanto il portoghese. Se a molti era però venuto in mente di ingaggiarlo malgrado gli scontri già spiacevoli ai tempi del Chelsea – aperitivo di quanto sarebbe poi accaduto con l’Inter e soprattutto col Madrid – la ragione va ricercata nella sfiducia che serpeggiava nell’ambiente sulla possibilità di rilanciare il solito sistema di gioco. Anche questo, riletto a posteriori, fa sorridere: in quel Barça sta emergendo un talento con rari precedenti nella storia come Messi, altri giocatori da sogno come Iniesta, Xavi e Puyol sono stati educati a quel tipo di calcio, eppure si teme che il ciclo sia finito (nelle interviste, spesso e a ragione Xavi descrive il pessimismo come abito mentale dei catalani). Guardiola diventa allenatore, prima del Barça B e poi di quello vero, dopo una lunga riflessione sul cosa fare della sua vita, passata anche per un’esperienza giornalistica della quale purtroppo non restano tracce: Pep venne invitato da Zapatero (fra i due c’è una forte corrente d’intesa) a condividere alcuni viaggi di lavoro per poi documentare con l’occhio di un regista non convenzionale – quello calcistico – il dietro le quinte della vita di un premier. Il video poi non è stato prodotto, ma l’episodio basta a descrivere il ventaglio di chance a disposizione di Guardiola dopo il ritiro: il mestiere di allenatore, la più banale e frequentata delle vie per gli ex giocatori, in lui è una scelta molto meditata e in qualche modo persino originale. Gli straordinari successi di questi anni hanno una radice filosofica di fondo e un preciso aggancio con alcune decisioni prese da Pep nella prima estate al comando, quella del 2008, a conferma che in qualsiasi attività la spinta propulsiva degli inizi andrebbe sfruttata senza tentennamenti. La radice filosofica, che prima di lui avevo osservato dal 11

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vivo soltanto in Arrigo Sacchi, è il concetto di opera aperta, o di rivoluzione permanente per citare il Lenin di Stato e rivoluzione: Guardiola evolve continuamente il suo gioco partendo dal presupposto che lo stato di quiete non esista, ma è un impercettibile arretramento. La più eclatante di queste innovazioni è lo spostamento di Messi dall’ala al centro, avvenuta a metà della seconda stagione; ma in vista della nuova stagione sono curioso di verificare se la saltuaria trasformazione della difesa in una «tre» con l’arretramento di Busquets sulla linea di Piqué e Puyol, avvenuto lo scorso anno, fosse in qualche modo propedeutico all’inserimento in squadra di Fabregas, di certo molto più che un’alternativa a Xavi. Sullo sfondo di grandi e piccoli aggiustamenti c’è un uomo che ha il raro pregio di mettersi continuamente in discussione, tormentandosi a volte oltre il lecito sulla possibilità di fare qualcosa di più. Le decisioni della prima estate sono sostanzialmente quattro, e le prime due girano attorno a Leo Messi. 1) L’aut aut alla società, o vendete Ronaldinho, Deco ed Eto’o, o io non accetto l’incarico. Già impegnativo per un tecnico con un corposo curriculum di titoli alle spalle, un ultimatum di questa portata lanciato da un allenatore al primo impiego ne rivela la vena di follia e/o la portentosa sicurezza in se stesso. In realtà Guardiola – che conosce lo spogliatoio del Barça come se non ne fosse mai uscito – intende sgravare Xavi e Iniesta dall’influenza di un giocatore finito come Deco (al Chelsea lo ribadirà oltre ogni dubbio), e vuole togliere Messi dall’ombra fastidiosa e insieme comoda proiettata su di lui da Ronaldinho. In triste anticipo sui tempi fisiologici, il brasiliano ha imboccato la parabola discendente: in campo non rende – ma Messi continua a la12

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sciargli le principali responsabilità – e fuori non vive come un atleta. Perché Leo sviluppi il suo inevitabile leaderato (e non venga aggregato a scorribande notturne) occorre liberarsi di Ronaldinho, e il Milan – che cerca un grande nome per poi vendere Kakà senza rivolte di piazza – è un partner perfetto per condurre in porto l’operazione. Viceversa Eto’o, che resiste un anno fino a rientrare nell’affare Ibrahimovic, non ha nulla che non vada dal punto di vista tecnico, ma per le regole del Pep la sua incontinenza verbale in allenamento non è gestibile; certi rilievi spettano al tecnico, non ai giocatori, per quanto importanti, e dunque addio Samuel. 2) La concessione delle Olimpiadi a Messi. Il dissidio tra club calcistici e il Comitato Olimpico Internazionale a proposito dei tre fuoriquota consentiti al torneo olimpico di calcio tocca il suo apice nei giorni immediatamente precedenti i Giochi di Pechino, quando il Barcellona per Messi e lo Schalke 04 per Rafinha ottengono dal tas un verdetto liberatorio dalle rispettive nazionali olimpiche. Guardiola, però, sa che quei Giochi sono molto importanti per l’immagine di Leo in patria; così, con una telefonata quasi paterna gli concede di sua iniziativa il permesso di restare in Cina, bypassando l’intimazione a rientrare del club. È una mossa felicissima: Messi vince la medaglia d’oro e la prima persona che ringrazia per la sensibilità dimostrata è l’allenatore col quale non ha ancora lavorato un giorno, ma la cui sintonia è già dimostrata. Di lì in poi la simbiosi fra i due sarà assoluta, con Leo capace di non tradire mai Pep nel momento del bisogno e Pep disposto addirittura a liquidare Ibrahimovic (Milan pronto a rimbalzo anche in questo caso) pur di non disturbare l’evoluzione tecnicotattica del suo pupillo. 13

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3) L’acquisto di Piqué, pezzo preziosissimo in sé e trailer del successivo ritorno a casa di Fabregas. La Masia per Guardiola non è soltanto il suo Barça B, dal quale peraltro estrae subito Pedro e Busquets, ma anche alcuni crac del vivaio che, da ragazzi culturalmente più effervescenti dei compagni, a 16 anni si erano lasciati sedurre dalla possibilità di un’esperienza inglese. Piqué e Fabregas, non a caso molto amici fra loro, sono figli dell’alta borghesia catalana: hanno passato l’adolescenza a giocare a pallone ma anche a studiare, e Pep li vuole indietro proprio perché due campioni intelligenti con l’imprinting tattico del Barça sono merce rarissima. Fra le leggi di Guardiola ce n’è una che rende l’idea: «Dal mercato voglio un fuoriclasse così fuoriclasse da ripagare con la sua superiorità il tempo che devo spendere per inserirlo nella manovra; se invece possiamo arrivare soltanto a un buon giocatore, molto meglio un ragazzo della Masia, al quale tatticamente non devo spiegare nulla». 4) L’inserimento nello staff di Manuel Estiarte. Amico sincero di Guardiola da sempre, il più grande giocatore di pallanuoto della storia (assieme al nostro Eraldo Pizzo) è un allegro signore che nel 2008 ha 47 anni, vive a Pescara dove ha messo su famiglia e, dopo aver cercato senza fortuna di aiutare Madrid – notevole, per un catalano – a ottenere i Giochi, è in attesa di nuove avventure. Guardiola lo inserisce nell’organigramma in maniera liquida: Estiarte può stare nello spogliatoio perché i giocatori ne riconoscono il carisma – sei Olimpiadi, una vinta – e la portata del personaggio fa sì che in nessun modo l’amicizia con Pep ne limiti la confidenza con i giocatori in un senso, con i dirigenti nell’altro e con i media a 360 gradi. Estiarte diventa 14

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così la perfetta camera di compensazione di ogni attrito, liberando Guardiola da ogni supplemento di stress. Questi sono alcuni dei piccoli segreti di navigazione della squadra più forte di sempre, osservati dall’attico del Camp Nou: ho avuto infatti il privilegio di seguire per la Gazzetta l’intera epopea del Barça di Guardiola. Sì, la squadra più forte di sempre. Condivido senza se e senza ma la gerarchia che Sandro Modeo fra poco vi illustrerà, in questo libro che verosimilmente è la frontiera più avanzata mai raggiunta dalla saggistica del football; l’analisi logica e grammaticale del Barcellona è inserita in un compendio sul calcio totale che fa scattare relè di memoria quasi commoventi (lo Spartak Trnava!) dando un ordine alle cose che in questi anni hanno confusamente parlato – attraverso diagonali, sovrapposizioni, possessi e tagli – alla nostra necessità di estetica. Come vedrete, la lettura che Modeo dà del Barcellona e dei suoi precursori è entusiasmante ma non semplice; procedendo febbrilmente pagina dopo pagina mi sono sentito come l’astronauta di 2001: Odissea nello spazio, che nella sua esplorazione incontra prima situazioni conosciute sul campo, poi esperienze che ha studiato solo in via teorica, e infine una fantasmagoria di luci e riflessi che può percepire solo usando sensi diversi dai cinque canonici. Ecco, la meccanica quantistica che spiega il gioco del Barcellona è una metafora di straordinario fascino anche per la sua complessità, e del resto non c’è niente di semplice in un gioco che include Maxwell ed esclude Ibrahimovic, che preferisce i ragazzini del vivaio ai giocatori fatti e finiti, che ti permette di volare in Inghilterra a 16 anni, ma avvinto a un invisibile elastico da bungee jumping che al momento giusto ti riporta in Catalogna. 15

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Avevamo lasciato i freelance inglesi appena approdati in riviera alla fine del ciclo di Rijkaard. Quattro anni dopo l’Onu mediatica si è moltiplicata in modo anch’esso spettacolare. Sono tornati i giapponesi, il cui interesse era calato dopo il loro Mondiale; un paio di francesi e un paio di tedeschi coprono il fabbisogno di Barça dei loro paesi, mentre alcuni ragazzi italiani occupano ormai stabilmente uno dei banchi stampa nel ventre dello stadio. I brasiliani hanno tagliato la corda dopo la cacciata di Ronaldinho, ma poi sono tornati come ogni tanto capita alla celebre Inès, la giornalista messicana considerata la top mondiale (in senso non strettamente professionale); ruba l’occhio anche agli arabi, diventati assidui al Camp Nou, e ai russi, sempre più numerosi. Nelle lunghe attese delle conferenze stampa di Guardiola – che non concede interviste individuali ma parla per tutti almeno due volte alla settimana – l’allegria del clima ricorda una scena di culto del cinema moderno, la cantina di Guerre Stellari nella quale un crogiolo di razze si beve assieme una birra, o quello che è. Poi entra Pep, cala il silenzio, e una quantità di cronisti felici si mette ordinatamente in coda per porre una domanda. Felici, certo: il calcio buono – e questo è buonissimo – rende migliore la vita.

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Omaggio alla Catalogna

La notte del 28 maggio 2011 – stadio di Wembley – i nostri sensi e il nostro assetto percettivo sono stati messi alla prova. Per la cronaca sportiva, il Barça ha battuto il Manchester United 3-1 nella finale di Champions League. Ogni aspetto, più o meno, sembrava spiegabile in termini tecnico-tattici e psicologici: una squadra ne aveva superata un’altra per esserle stata «superiore in tutto»: possesso palla, riconquista, precisione, rigore di posizioni, lucidità agonistica. In realtà, in molti avevamo la sensazione definitiva – pre­annunciata da tante altre partite negli ultimi tre anni, quelli della gestione di Josep Guardiola – che, come dice William Gibson in Neuromante, qualcosa si fosse «spostato nel cuore delle cose». A parte qualche sussulto estemporaneo – un feroce pressing iniziale, un gol peraltro dubbio – il Manchester era stato disinnescato e inibito, come fosse un team di categoria inferiore. «Això és més que un club», dice l’adagio catalano: «questo è più di un club». Bene: quella era «più di una partita», era un evento estetico e cognitivo; e il Barça, quella sera, era «più di una squadra»: era la prossimità a una particolare dimensione, 19

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una di quelle che il linguaggio fisico-matematico definisce «aggiuntive», cioè nascoste nella porzione di universo che abitiamo. Dimensioni non percepibili dai sensi, in quanto estese al di là delle quattro dimensioni spaziotemporali della nostra esperienza quotidiana: ma che il Barça, con il suo gioco, riusciva a farci percepire. È una scena simile a quella che si spalanca in certe fiction di Philip Dick, quando la «realtà» sembra scucirsi in qualche punto per aprirsi verso un suo strato (stato) ulteriore, a volte attraverso una crepa (un «rintocco» di estraneità), a volte attraverso una fenditura, a volte attraverso l’irruzione improvvisa di un intero paesaggio. Solo che in Dick – per esempio in Noi marziani, nelle Tre stimmate di Palmer Eldritch o in Ubik – lo spalancarsi di queste matrioske coincide con l’ingresso nell’angoscia e nella frantumazione dell’Io; in casi come quello del Barça si declina invece nella meraviglia euforica, in una «sospensione dell’incredulità» come quella provata da ragazzi davanti ai poteri di certi supereroi. In questi anni, lo sport ha rivelato paesaggi simili solo in un paio di altri casi. Uno è quello di Usain Bolt. La sera del 16 agosto 2008 – Olimpiadi di Pechino, finale dei 100 metri – la sua corsa con nuovo record sembra proprio l’irruzione di un’altra dimensione, di un altro livello di realtà. Tutti gli altri finalisti (con)corrono nel sistema abituale, lui sembra un’inserzione estranea, un’immagine trasmessa da altre frequenze: come Flash, sembra spostarsi da una regione spaziotemporale a un’altra. Un altro caso è quello di Roger Federer, il tennista che unisce la classicità apollinea con la potenza del tennis contemporaneo e con colpi inaspettati che sfidano la logi20

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ca geometrica di uno scambio. Nell’omaggiarlo, David Foster Wallace chiama quei colpi «momenti Federer», frame alla Matrix in cui il tennista esce da situazioni chiuse con una grazia impensabile negli attuali scambi da apnea (per esempio i passanti da sotto le gambe, spalle al campo). Come Bolt, come Federer, il Barça esaspera l’avversario. Davanti a quello sciame – a quello stormo d’uccelli – squadre forti, anche fortissime, diventano disorientate e balbettanti, irretite dalla cadenza ipnotica di un possesso palla esemplare per precisione e «leggerezza» (nel senso in cui ne parla Italo Calvino nelle Lezioni americane) e incapaci di spiegare come i propri assalti si infrangano davanti all’opposizione organizzata di una compagine in teoria fragile, con la statura media più bassa tra le squadre di alto livello. È uno stupore simile a quello del grande fisico Ernest Rutherford alle prese con le «potenti» particelle alfa, deviate da una sottile lamina d’oro «come un proiettile di artiglieria navale che rimbalzi contro un fazzoletto di carta». Ecco, stando proprio agli stati e alle dinamiche della materia, il Barça sembra, nei momenti migliori, una squadra «quantistica» di fronte a squadre imprigionate nelle forze della fisica «classica», a partire dalla gravità. Ma questa dimensione particolare – scendendo dalla rarefazione delle metafore alla concretezza dei luoghi e degli uomini – dipende anche dalla dimensione particolare, storica e antropologica, di Barcellona e della Catalogna, a loro volta – per riprendere l’adagio calcistico – più di una città e di una semplice regione. Quando tanti osservatori scrivono del Barça come espressione di «arte e scienza» – alludendo alla fusione armonizzata di finezza tecnica e organizzazione tattica, di 21

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talento e disciplina – viene da pensare al remoto imprinting della regione: tutt’uno con quella aquitano-cantabrica, l’area della futura Catalogna è teatro, tra 18 e 10 000 anni fa, di invenzioni tecnologiche (coltelli, bulini, archi) e di emozionanti capolavori di pittura rupestre. Meno famoso di Lascaux o Altamira, il sito di El Cogul – con le sue scene di caccia e i quarantadue profili di esseri umani e animali – sembra l’antefatto ideale per artisti-scienziati come Antoni Gaudí, Dalí e Miró. E quando si insiste sulla forte matrice identitaria della squadra – sui campioni plasmati alla cantera – si allude anche all’orgoglio e alla rivendicazione autonomista di tutta l’enclave catalana. Un orgoglio e un autonomismo che non coincidono, però, con l’autarchia e l’isolamento. Anzi. Per un verso, non c’è dubbio che quella «gente selvaggia e indomita» resista da sempre a tutti i tentativi di colonizzazione e annessione: all’Hispania romana e a quella cristiana, all’espansione islamica e soprattutto all’assimilazione nell’odiato Impero centrale castigliano. Per un altro verso, però – a differenza dei pastori asturiani o dei baschi – i catalani restano anche aperti a selettivi métissage culturali, come la membrana semipermeabile delle cellule, tesa a vitali scambi biochimici. Adattano così le influenze esterne al proprio assetto sociale, trasformando per esempio il diritto romano nel peculiare «codice» locale o piegando il latino alla sintassi e al lessico del catalano; o ancora, importando dai Franchi di Carlo Magno l’agricoltura, l’ordine feudale e il sapere monastico, o lasciando soffiare dalla civiltà di Linguadoca e Provenza – anche per affinità dell’idioma – il vento della poesia e della musica trobadorica. Proprio questa forte coerenza tra autonomia irriducibile 22

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e apertura selettiva è una delle chiavi dell’originalità e della precoce modernità catalana. Una modernità che si impone anzitutto come leadership tecnologico-industriale nel paese, conquistata per sequenze successive: Barcellona è la prima città in cui appaiono macchine a vapore (1833); è la stazione di partenza (capolinea Matarò) del primo tronco di linea ferroviaria (1848); ed è la sede dell’Esposizione Universale del 1888, terminale del suo «impressionante sviluppo fuori dalle mura medievali». Ma è una modernità che si estende alle lotte e alle conquiste sociali: dopo aver proclamato per primi anche il dritto di sciopero (1855), i catalani assorbono (di nuovo dalla Francia) una forte inclinazione anarco-insurrezionalista che si tradurrà, subito dopo la Prima guerra mondiale, nei disordini per le strade di Barcellona. Purtroppo l’ambigua mescolanza di quelle frange ribelli – che vede insieme sindacalisti e terroristi, socialisti e assassini comuni – si prolungherà anche nel momento decisivo della guerra civile: come racconta George Orwell nel suo reportage-capolavoro (Omaggio alla Catalogna), i repubblicani e gli anarchici antifranchisti dovranno pagare la cecità dei filosovietici. È anche grazie a questa disunità che il Caudillo vincerà la Battaglia dell’Ebro, sottomettendo Madrid e Barcellona. L’avanguardia culturale e calcistica del Barça, in questa prospettiva, è un’applicazione particolare di quella catalana. Il club blaugrana è nello stesso tempo orgoglioso della propria officina autoctona (la cantera) e consapevole di dovere tutto alla propria apertura selettiva, cioè al trapianto di calcio olandese avvenuto all’inizio degli anni settanta, col «Generale» Rinus Michels e con Johan Cruijff come giocatore «totale». L’esito – uno dei più felici ogm calcistici 23

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di sempre – è una squadra diventata «més que un club» non solo in Catalogna o in Spagna, ma in tutto il mondo, fino a incarnare un brand transnazionale tra i più seduttivi, col seguito di tifosi più consistente (50 milioni, contro i 46 del Real e i 33 del Manchester). Un dato su tutti impressiona: la presenza, a ogni match casalingo del Barça, di 9000 «turisti», tedeschi, russi, giapponesi, provenienti da ogni dove, che incentrano i loro «weekend lunghi» in Catalogna sulla visita al Camp Nou, non meno importante di quella alla Sagrada Familia o al Museo Picasso. In cosa risiede questa forza seduttiva? In tanti motivi convergenti: nella struttura «democratica» del club, coi suoi 170 000 soci-azionisti; nella sua sensibilità sociale, concentrata nel simbolo unicef sulla maglia (anche se da quest’anno sarà gregario rispetto a quello della Qatar Foundation); negli stessi colori blu-granata, che sembrano rubati a una delle decorazioni folli di Gaudí. Ma risiede, soprattutto, nel gioco, nella costante subor­ dinazione del risultato all’estetica; e quindi, proprio nell’assimilazione del «calcio totale» olandese, che ha calato nel palleggio iberico (spesso gratuito, compulsivo e masturbatorio) il rigore, lo slancio e la concretezza che gli mancavano. C’è un momento fortemente simbolico, in particolare, in cui il trapianto sembra compiersi e affinarsi in modo definitivo. È un’altra notte a Wembley, il 20 maggio 1992, quella della prima Coppa dei Campioni blaugrana vinta contro la Sampdoria. In quell’occasione, il Dream Team (con Johan Cruijff in panchina) indossa una tenuta orange, e il gol vincente – ai supplementari, quasi sull’orlo dei rigori – viene segnato con una punizione violenta e millimetrica di Ronald Koeman, un olandese purosangue. Paradossalmente, però, quella squa24

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dra magnifica è ancora lontana dall’appeal degli «antenati» ajacidi. Ci arriverà lentamente, per approssimazioni pazienti e molecolari, passando attraverso altri tecnici olandesi come Van Gaal e Rijkaard. Ma ci arriverà, soprattutto, con la trasformazione di un finalista del ’92, Josep Guardiola, da ragazzo-prodigio del centrocampo a tecnico dalla conoscenza stratificata e dissimulata. È con lui che il Barcellona compie il «salto quantico», raggiungendo una caratterizzazione inconfondibile. Da una notte di Wembley all’altra, la figura di Guardiola è il ponte di connessione. È soprattutto grazie al gioco – al principio per cui l’interazione tra le parti di un sistema è qualcosa di più e di diverso dalla loro semplice somma – che un gruppo di calciatori dotati è diventato una squadra di campioni conclamati. Se li osserviamo uno per uno, i ragazzi del Barça sono spesso calciatori forti ma alla radice incompleti, specie sul piano caratteriale: o troppo esuberanti o troppo anonimi, o troppo egoici o troppo timidi. È proprio il sistema Barça – scegliendoli per la loro compatibilità reciproca – a completarli ed esaltarli: all’aumentare dell’amalgama del gruppo, aumenta la «visibilità» del talento individuale. È un sistema, cioè, altamente inclusivo ed educativo, che ha fatto fiorire non solo i catalani (Victor Valdés, Puyol, Piqué, Xavi e Busquets), ma anche castigliani della Mancia come Iniesta e isolani di Tenerife come Pedro; e che ha integrato asturiani come David Villa, brasiliani caratteriali come Dani Alves e maliani come Seydou Keita. Persino la pulce Leo Messi, fuori dal Barça, sembra spesso un mini supereroe privato dei poteri, un Ant Man senza pungiglione. Ma all’occorrenza è anche un sistema spietatamente esclusivo, come sa bene «l’incompatibile» Zlatan Ibrahimovic. 25

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È grazie al gioco che oggi, per un’intera generazione, vedere in azione questi ragazzi produce lo stesso entusiasmo contagioso e liberatorio che producevano negli anni sessanta e settanta Krol e Suurbier, Rep e Hulshoff, Neeskens e Cruijff, protagonisti dell’Ajax e della grande Olanda. Con una differenza sostanziale. L’Ajax e l’Olanda hanno sviluppato la loro utopia calcistica in sintonia con la storia: quel calcio soffiava nella stessa direzione del sogno sessantottino (della sua parte migliore) e di quello «socialista», quando ancora si pensava che i possibili modelli di società fossero più d’uno. Il Barça di Guardiola ha fatto proseguire e perfezionato quel modello nell’età del disincanto, in cui a tante salutari disillusioni – a cominciare proprio da quelle su certe chimere del ’68 – è corrisposta la liquidazione indiscriminata di ogni tensione costruttiva: con le ideologie si sono bruciati gli ideali, con l’utopia ogni desiderio di giustizia. Forse è questo il motivo profondo della seduzione del gioco blaugrana: continuare a credere all’utopia, tenere aperto lo sguardo su un’altra dimensione senza pretendere che si sostituisca alla nostra. Del resto, proprio Orwell – prima di ogni altro – cercava un equilibrio in quella direzione: tra un realismo che non coincidesse col fatalismo e una luce che illuminasse senza incendiare. «L’omaggio alla Catalogna», oggi, attraverso il Barcellona, è anche un piccolo omaggio della Catalogna al suo cantore.

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