Stati di allucinazione

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qualche decina di minuti. Avevamo ancora un po’ di mele selvatiche. E la trota. Era questa il pericolo maggiore. Ma era nostra. Il dolore all’occhio cominciava a passare e il naso non sanguinava più, ma zoppicavo vistosamente. «Non capisco ancora cos’è successo. Così all’improvviso, quella discussione, poi tutta quella violenza, maledizione, stava andando tutto così bene, cosa diavolo gli è preso?» disse il Riccio. Non risposi. Il fuoco cominciò a scoppiettare illuminando due facce tumefatte, sporche, stravolte e parecchio incazzate. Eravamo zuppi di sangue coagulato fuori e di adrenalina dentro, ma ora, con la notte, la calma alimentava dolore e riflessioni. I bagliori rossicci davano forma alle cose e mi cadde l’occhio (per come era ridotto poteva cadere davvero) sulla canna da mosca. Era lì, appoggiata a terra con la lenza arrotolata lungo il fusto. Bella ed affascinante

piume di beccaccia. Una fortuna inaspettata. Ci stupimmo di quante possibilità affioravano alla mente, alimentate da un entusiasmo sconfinato. Fu più facile del previsto avvolgere una piccolissima piuma screziata bloccandola tra la sporgenza dell’ossicino e il corpo dello spino. Si ottenne un’imitazione dal fascino misterioso, un potente feticcio che paralizzò la nostra attenzione per lunghi minuti. Non avremmo mai immaginato emozioni così vitali e potenti. L’attrezzo era pronto. Non era un semplice attrezzo. Era un prodotto della mente magicamente realizzato con i frutti della terra. Era cosmologia pura. Avevamo

La canna - Eravamo stati bravi. Il Baffo scelse un secco ed elastico ramo di bosso, ma era troppo corto, così lo si infilò nel fusto di un sambuco, irrobustito con una legatura di corteccia di salice tagliata a strisce sottili. Era sui tre metri. La lenza - La lenza fu facile, da rossi rami di salice sfibrammo lunghi filamenti che vennero rapidamente intrecciati con massa decrescente. Non servì neppure l’ossidiana, bastarono le unghie. Per il finale risolse il problema un asino. Scorrazzava libero in un prato delimitato a monte da un roveto, usava il roveto per grattarsi e tra una mora e l’altra recuperammo lunghi crini che andarono a formare un finale perfetto. La mosca - All’ultima fibra legammo un robusto spino, strappato assieme ad una piccola striscia di corteccia, irrobustito da un ossicino raccolto tra i resti di un piccolo uccello. Gli avanzi del pasto di una volpe fornirono alcune

materializzato qualcosa di indefinibile, come forze misteriose creano materia dalla pura energia. Ci sentimmo come Dèi. Eravamo Dèi. La preda – Ci parve giusto affidare la canna a Super Fly. L’attrezzo era vano senza una cattura, e inutili i nostri sforzi. Una cattura avrebbe dato senso a tutto. Una cattura avrebbe rappresentato Eros; il fallimento Tanatos. Ho ancora negli occhi il guizzo di quella trotella. Si fece prendere in un piccolo anfratto scuro. Alla base di una cascatella un macigno formava una stretta fessura nella quale finì la mosca, lanciata dal su-

perpollo. L’aggredì quasi subito e la ferrata istintiva la fece saltare in un piccolo spiazzo di ghiaia a lato del sasso a pochi decimetri dalla pozza. L’amo, imperfetto, bastò a farla saltare. Un ulteriore guizzo l’avrebbe fatta finire in acqua e così mi lanciai per afferrarla. La lotta – Non fui l’unico ad intuire quel rischio, così ci tuffammo all’unisono incrociando quattro teste e otto braccia agitate. Ma non furono quattro esseri umani soddisfatti e divertiti a tuffarsi in quel metro quadrato per salvare la loro preda, bensì quattro belve inferocite e sanguinarie. Esplose una rissa furibonda per il possesso del pesce, una lotta senza esclusione di colpi, compresi morsi, graffi e alcuni sputi. La ragione scomparve del tutto finché il Riccio non riuscì a scappare con la trota su per il greto. Lo seguii inerpicandomi forsennatamente per qualche decina di metri, scorticandomi unghie e ginocchia, seguito dagli altri che urlavano a squarciagola, poi per un po’ si sentì solo l’affanno ed infine il silenzio. L’energia era finita. Eravamo tutti spossati. Il Riccio in alto, al margine del bosco di conifere, io più sotto, aggrappato ad una radice, Super Fly ed il Baffo ancora più dabbasso. Fu Super Fly a rompere il silenzio, là sotto: «Vi prenderemo maledetti! Voi due non ve la caverete così, io e il Baffo vi prenderemo e ve la faremo pagare! La trota è mia, solo mia! MIA!» E così anche i branchi erano consolidati. Noi due, sopra Super Fly, eravamo i nemici, il Baffo, sotto di lui, era il suo complice. Quattro uomini, due tribù nemiche. Da un punto di vista matematico la situazione era sotto assoluto controllo. Io, che stavo seguendo il Riccio per ucciderlo e prendergli la trota, ora stavo con lui e con lui avrei condotto l’avventura fino alla fine. Lo raggiunsi e fuggimmo nel bosco senza fermarci fino a notte fonda. La caccia, parte seconda – Possedevamo la canna da mosca e la trota, mentre i nostri nemici non avevano nulla, 47


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