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a pagina del pollo è una rubrica a sorpresa che costituisce un vero e proprio corso di apprendimento Pam. Ma attenzione, tutti i concetti sono controcorrente, l’unico punto di vista considerato è quello della razionalità animale, senza offesa, specie perché l’ho scritta io. Qui vengono snobbati gli aspetti puramente bipedi quali: consumismo, protagonismo, esibizionismo, vanità, egocentrismo, moda, ecc. Insomma, ci siamo capiti. Se non siete principianti è meglio non leggere il seguito. Qui si mira a creare macchine da guerra senza orpelli attrezzistici o ammennicoli mentali. Si va al sodo. A tal fine la lettura è severamente proibita a: a) tutti i commercianti di articoli da pesca b) tutti i giornalisti ed editori di pubblicazioni Pam c) tutti coloro che hanno già catturato una trota in misura d) tutti coloro che si ritengono segretamente fenomeni La lettura è invece obbligatoria per: a) tutti coloro che hanno già catturato una trota in misura, ma se la sono mangiata b) tutti coloro che hanno catturato trote sotto misura, ma le hanno mangiate lo stesso c) tutti coloro che continuano a misurare le trote
Roberto Messori
Alla ricerca del perché una trota non è un lavarello, non ho nulla contro i lavarelli, semplicemente non sono trote, non ne troverete mai in un ruscello d’alta montagna formato dall’alternanza di altissime cascatelle con piccole pozze alla base. E se ce ne trovate uno, potete star certi che qualcosa non va. C’è un’altra cosa che affiora nell’articolo, il “diritto dei bimbi al selvaggio”, che oggi viene sostituito col diritto all’iPhone. Io la considero una tragedia umanitaria. 22
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Il torrente Fellicarolo negli anni ‘60, più o meno, nel punto dove l’ultimo tratto di sentiero è franato. Quello nella foto sono io, ripreso dallo zio prima della “grande avventura” (vedi testo).
a mia preparazione alle cose della vita consistette in due risposte date ad altrettante domande. La prima la rivolsi a mia madre chiedendole come fanno a nascere i bambini, ed imparai che un dottore deve prima farti un puntura. La cosa non mi convinse molto e per un bel pezzo mi chiesi come diavolo si facesse prima dell’invenzione delle siringhe, ma poi crescendo imparai diverse cosette sulla medicina alternativa. Di certo da grande non avrei fatto il medico. La seconda domanda la rivolsi alla nonna. – Nonnina, dov’è finito il cane? Si era in vacanza in uno sperduto paesino dell’Appennino e lei aveva portato il mio cucciolo in un bosco vicino al torrente e lo aveva abbandonato (lo capii quando lo ritrovai, magro e terrorizzato), comunque la nonna rispose. – Non lo so, e poi smettila di andare in giro per i boschi vicino al torrente, se ti prendono degli uomini e poi ti tagliano il pirillo dopo ti arrangi! Evidentemente la nonna sapeva diverse cosette sul mio pirillo. Non indagai mai su quella singolare affermazione, anche se andarsene in giro per i boschi con il pensiero di rozzi montanari che quando incontravano un bambino gli tagliavano il pirillo rendeva un tantino inquietanti le mie escursioni, comunque presi in considerazione questa eventualità valutandola alla stregua di un rischio calcolato.
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Non capii mai il perché di quella minaccia, probabilmente la nonna mi utilizzava come una sorta di cavia creando atmosfere di timore ed inquietudine per studiare le mie reazioni e comprendere meglio certi aspetti connessi al concetto di castrazione, studi da impiegare poi nel suo rapporto col nonno. Oppure, molto più semplicemente, la nonna ebbe una presa di coscienza tardiva circa la differenza dei sessi, o forse era solo freudianamente invidiosa. Quel paesino di montagna si chiamava Fellicarolo, allora era un piccolo borgo sperduto in una valle ad est del monte Cimone e da pochissimo tempo la strada che lo collegava a Fanano, il primo paese di una certa dimensione, era stata resa carreggiabile. Si andò lì in vacanza per diversi anni. Durante uno di questi un gruppo di boy-scout si sistemò nella parrocchia della chiesina del paese, erano bambini all’incirca della mia età o con qualche anno in più e la nota piacevole era che ad alcuni loro giochi partecipavamo anche noi indigeni locali, cioè i bimbi del paese, anche se io in realtà ero un villeggiante, ma i boy-scout non si dimostrarono mai in grado di valutare una così sottile sfumatura antropoide. Essere scambiato per un indigeno locale di razza bianca aveva lati negativi ed altri positivi. Ad esempio non era piacevole sentirsi considerato un montanaro che non conosceva niente del mondo, ma d’altra parte sarebbe stato indelicato puntualizzare la mia posizione, specie dopo aver assistito a tentativi infruttuosi di pratiche onanitiche offerte da autentici montanari di tredici anni nell’ambito di una serie di scambi culturali, ma ero poi avvantaggiato quando si giocava all’Alce Rossa per via di un delicato e complesso gioco di sottigliezze psicologiche.
Il torrente Fellicarolo, luogo selvaggio per un bimbo, non era difficile vederci una tigre saltare da una roccia. O una trota coi punti rossi attraversare rapida una pozza d’acqua.
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Dovevano essere terribilmente invidiosi, non solo non si congratularono mai per le mie vittorie, ma le ultime volte che giocammo mi affissero sulla schiena un numero gigantesco. Ma il mio segreto, il fulcro della mia eccitazione, l’immagine che la mia mente cercava con gioia tra i castagni e i versanti scoscesi dei monti era dove questi, scendendo, s’incontravano. Un versante era la parete Est del monte Cimone e la cresta che dalle sue pendici formava un crinale che arrivava, beh, ci arriva ancora, fino a Pian del Falco, questo versante era scosceso, con veri e propri burroni, con pareti rocciose alternate a tratti meno inclinati ricoperti di conifere e latifoglie, era solcato, ed anche questi ci sono ancora, da due ruscelli assai scoscesi formati dall’alternarsi di altissime cascatelle, nessuna casa avrebbe potuto starci ed infatti nessuno pensò mai di provare a costruircela. L’altro versante era molto più dolce, ricco di boschi, per lo più betulle e castagni, con pochi insediamenti sia isolati che raggruppati in piccolissimi borghi, la strada che lo percorreva era a metà costa, ma sotto la strada ad un certo punto anche questo versante diventava scosceso e roccioso a tratti.
L’Alce Rossa era una sorta di combattimento in mezzo ai boschi dove si uccidevano i nemici leggendo un numero che portavano addosso; ci si divideva in due squadre di scout e di indiani, si applicava sulla schiena con quattro spille di sicurezza un rettangolo di tela con stampato un numero di due cifre e ci si sparpagliava nei boschi cercando di leggere quello dei nemici, certo non era come sparargli. Nella mente di quei boy-scout noi indigeni autentici sapevamo come muoverci in mezzo ai boschi e nelle praterie e così loro si sentivano inferiori, mentre i bimbi del paese sapendo che io ero un cittadino in vacanza mi ritenevano ricco e intelligente e a loro volta si sentivano inferiori. Così finiva spesso che io ero l’unico superstite della lotta ed anche il vincitore. Probabilmente ero anche uno dei pochi in grado di leggere i numeri. Sopra: a pesca nel fiume Secchia, nel cuore della pianura Padana. Lo so, è inverno, peccato. La foto la fece il nonno con una Ikonette a soffietto, per inciso la più piccola fotocamera a soffietto mai realizzata, il nonno la comprò al mercato dei ferravecchi e la fece funzionare.
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A sinistra in basso: scorcio del torrente Fellicarolo negli anni ‘60, forse il 1961 o 1962, lo zio Ugo è al centro, la foto la feci io, con una Comet II. Qui sotto: la valle del Fellicarolo vista dal Libro Aperto, il crinale che chiude la valle. Là sotto, dove i versanti s’incontrano, si forma il torrente. Qui sopra: “Pesca miracolosa”. Non è un miracolo molto più grande della trotella sorpresa nell’affluente, in una pozza isolata da due altissime cascate e fuori da ogni rotta antropoide.
Questi due versanti convergevano verso il basso e dove s’incontravano originavano un miracolo: il loro punto di contatto era un accumolo armonioso di grandi macigni fagocitati a tratti dal sottobosco, ma lo straordinario è che questo vertice che scendeva per chilometri verso valle era rivestito da un limpido, freddo, scrosciante e vitale velo d’acqua. Io ne ero affascinato. Giocando all’alce rossa, girovagando con gli altri bimbi nei boschi, andando a caccia con la fionda o giocando a bigliardino nella sacrestia della parrocchia, il mio pensiero era sempre rivolto al torrente. Il torrente era mio, non ci andavo con nessuno, poi era scomodo da raggiungere, distante mica poco e non mi spiaceva che gli altri bimbi non ci potessero andare. La nonna non me lo proibì mai in modo esplicito, probabilmente riteneva sufficiente lo spauracchio dello psicopatico di classe P (quello del pirillo, versione freudiana dell’uomo nero), ed io non le riferii mai che di tanto in tanto ci andavo, attraversando un castagneto, scendendo lungo un sentiero che non finiva mai, superando due tratti dove questo era stato portato via dalle frane,
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qui di regola i bimbi coi quali scorrazzavo nei boschi tornavano indietro, continuando ancora un po’ verso il basso fino ad arrivare sopra una piattaforma di roccia dalla quale dovevo calarmi per raggiungere l’acqua. Raggiunto il torrente non mi allontanavo mai di molto da quel punto, non conoscevo altri sentieri per risalirlo o discenderlo in altri punti ed il fatto che era già difficile tornare sul sentiero il cui tratto finale era franato doveva rendere ancor più inquietante stare lì da solo, tra quelle pareti rocciose con nelle orecchie lo scroscio dell’acqua, guardandomi le spalle per via dello psicopatico di classe P. Lo risalivo fino al termine della conformazione a grandi macigni, gli unici che l’acqua non poteva portare a valle, qui si stringeva tra due pareti di roccia e poco più a monte andava a contatto col sottobosco. Questo era il punto più bello, procedevo ancora un po’ fin dove entrava un piccolo, ripidissimo affluente che scendeva dalla cresta sotto il Cimone, ma era il mio limite; sentivo che andare oltre sarebbe stato troppo. Verso valle andavo di rado e per pochis-
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A sinistra: nei nostri geni ci dev’essere qualcosa di potente e forse non ben compreso, oggi certamente occultato, se non dimenticato, relativo all’idea dei bimbi a pesca. Eccoli nell’antico bassorilievo di una fonte battesimale, certo uno splendido augurio. Sopra a destra: alta cascatella di un tributario del Fellicarolo. A fronte: la cascata del Doccione, particolare. sime decine di metri, non so perché, ma, come mi attraeva risalirlo, mi inquietava discenderlo. Ero incantato dall’acqua, anzi di più, ne ero quasi ipnotizzato, potevo stare lì ore (pochissime comunque: non avevo il permesso di soggiorno ufficiale per quel luogo): quel velo d’acqua che nascondeva buche profonde, anfratti cupi, sassi coi quali costruire piccoli dolmen, menir e dighe mi stregava. Straordinarie dighe mi consentivano di modificare il torrente, un potere quasi divino; un flusso rallentato dalla mio sbarramento o addirittura una piccola, nuova pozza di qualche decimetro quadrato dipendevano da me. Questo era potere! Che me ne facevo di leggere le avventure di Salgari? Le stavo vivendo. Attraversavo una giungla ostile, abban-
donato dai miei prodi che tanto prodi non dovevano essere, e comunque dovevano obbedire alle mamme, continuavo indomito in una strada senza ritorno (nel caso non ce l’avessi fatta a risalire sul sentiero franato), modificavo il pianeta secondo i miei piaceri, ed il tutto nel pericoloso territorio dei tagliatori di pirillo. Non sapevo niente della pesca in quei luoghi. Sì, sapevo dei pescatori di trote, ma non ne avevo mai visto uno vero e quel luogo mi sembrava troppo lontano e selvaggio perché ce ne arrivasse qualcuno. E le trote? Non so perché, se per qualche discorso sentito dai “grandi”, oppure per qualcosa letto in proposito, o per la scena di un film dimenticato, o, forse, un racconto del nonno, certo non l’avevo visto in Internet, ma la trota per me era
le pesce non abboccò mai alla mia lenza, ma questo probabilmente contribuì alla preparazione delle delusioni future, una costante nella vita del pescatore. Ma della pesca in torrente non sapevo proprio nulla, per giunta il nonno era morto da poco. Non avrei mai potuto immaginare un possibile sistema. Del resto sono le cose più semplici il vero problema dell’umanità. Quella cannetta fissa, utile solo a far giocare un bimbo, tenendolo costantemente d’occhio, lungo le rive di un lento e profondo fiume del piano, sarebbe stata un’attrezzatu-
ra perfetta in torrente, bastava togliere l’inutile galleggiante e sostituire al pane una di quelle larvette che avevo scoperto sul fondo. Larvette? Dovete sapere che tra i sassi del fondale c’erano degli strani grumi di sassolini che si muovevano. Fatti come dei piccoli cilindretti, emettevano delle zampette ad una estremità e poi gironzolavano nella ghiaia, ne avevo aperto qualcuno e avevo scoperto che contenevano delle larve giallastre cicciottelle. Ero sicuro che avrei potuto usarle come esche. Erano buone, provai anche a
un’entità magica, potente, misteriosa, fuggevole, che immaginavo nascosta in qualche buca, ben protetta da una cascatella, e che mai sarei riuscito a sorprendere all’aperto. Le mie cognizioni di pesca erano limitate alla cannetta fissa, il galleggiante, il piombino ed un pizzico di mollica di pane da fare affondare nella lentissima corrente del fiume Secchia all’altezza del vecchio ponte di ferro ferroviario, ad un tiro di bicicletta da Modena, nel cuore della pianura Padana, sotto lo sguardo vigile del nonno, che non era un pescatore, ma che talvolta mi portava al fiume la domenica. Facevamo una capanna di frasche, m’insegnava a nuotare, mangiavamo le carote e i pomodori di un orticello abbandonato da chissà chi sul gradone interno dell’argine, raccoglievamo la terra creta per fare statue da far seccare al sole, ma la pesca era una mia prerogativa. Il nonno sembrava solo certo che il pane fosse una buona esca, del resto faceva il fornaio, e i cagnotti costavano denaro. Non presi mai un pesce. Un unico, piccolo, miserabile, compassionevo-
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mangiarne qualcuna. Neppure la più azzardata fantasia comunque mi poneva nell’atto di pescare: non avevo mai visto nulla, in quelle correnti rotte ovunque dai sassi, che somigliasse a un pesce. Tra l’idea della trota, l’essere misterioso che avevo visto solo nelle immagini dei libri di scuola e dell’enciclopedia per ragazzi che mi aveva regalato uno zio, e quel torrente, c’erano troppe incognite, un vero abisso. Il torrente era vero, ma la trota a pois rossi era ancora un fantasma. Un po’ come il bimbo che immagina una tigre nel parco cittadino. Mi sconcertava il fatto che si vedeva quasi tutto attraverso la limpidezza dell’acqua, come se il fondo non avesse segreti, come si fa a pescare qualcosa che non si vede? Nei fiumi del piano
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l’acqua è mistero, ad un certo punto non traspare più e sotto sai che i pesci ci sono, ma nel torrente quel mistero è limitato a pochi punti, le pozze più profonde, gli anfratti tra grandi macigni, la roccia scavata dall’acqua, le buche cupe sotto le cascate più grandi... Se esistono le trote devono trovarsi lì. Se esistono. Poi un giorno mi arrampicai su un grande macigno e nella buca a valle di questo vidi chiaramente un pesce fuggire velocissimo da un capo all’altro della buca e scomparire sotto un sasso. Sono convinto che distinsi con certezza i punti rossi. All’improvviso la fantasia divenne realtà. Ecco la giungla ostile, ecco la solitudine, ecco l’avventura, solo i tagliatori di pirillo, per fortuna, non si fecero mai vedere. Chissà se la nonna
ci rimase male. La solitudine dipendeva dal fatto che nessuno, oltre a me, aveva assistito all’incredibile evento. Non riuscii più, nell’osservare il fondo pietroso di un torrente, ad evitare di immaginare una trota nascosta sotto ogni sasso. Un giorno lo zio ci venne a trovare con la zia. In una famiglia ristretta e di sole donne come la mia uno zio era da sfruttare, e bene. Gli chiesi se voleva vedere il mio torrente, e così ci andammo. Scendemmo lungo il sentiero fino alla roccia piatta, poi risalimmo il Fellicarolo fino al piccolo affluente rapidissimo e iniziammo a risalirlo, non lo so perché, lo facemmo e basta. Non so, tra me e lo zio, chi fosse più felice. Lo zio era un impiegatino magro, tutto ossa e nervi, con un discreto
A fronte: quando dipinsi quel quadro non mi resi conto che riportava antiche immagini del Fellicarolo e mi stupì anche l’aspetto favolistico. Sopra: “Da quando pesco a mosca il torrente che ho frequentato di meno è proprio il Fellicarolo”, siamo nella metà degli anni ‘70. Sotto: curiosamente lo zio Ugo somiglia parecchio a Carl Fredricksen, ma io non somiglio affatto a Russel, lo scout di 8 anni che incidentalmente fugge con lui, io sono biondo (dal film “Up”).
senso dell’humor, un buon uomo bistrattato da tutti che condusse una vita grama a zero sfumature, innamorato della zia, la sorella di mia madre, che comunque era una bella donna, buon per lo zio, che dire? Almeno questo. Mi parve incredibile scoprire che zio Ugo aveva lo spirito dell’esploratore. Chissà cos’avrebbe pensato se fosse vissuto abbastanza a lungo da vedere il film Up. Probabilmente l’ultimo film che vide non aveva neppure il sonoro. Risalire il piccolo ruscello richiedeva doti da alpinista, era un alternarsi di cascate, veri veli d’acqua, ognuna delle quali alla base formava una piccola pozza, arrampicandoci tra le rocce, aggrappandoci agli alberi, aiutandoci nel superare i passaggi più difficili arrivammo quasi in cresta, fino alla cascata più alta che sfiorava una parete di roccia verticale che stabilì il limite estremo. In ogni pozza il mio sguardo cercava la trota, ma capivo che era impossibile che ce ne potesse essere una, come avrebbe potuto arrivare lì? Comunque era una fantasia piacevole, una ricerca speranzosa, e probabilmente una pre-
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Le bionde svampite e le isteriche mediterraneee non dovrebbero mai essere portate a saltellare lungo i sassi di un torrente, portatevi una canna, e magari un nipotino, che è meglio. Neanche Kennedy portò mai Marilyn a pescare. Qui sotto: 1982, si decolla dal versante Est della cima Calvanella a Pian del Falco, la valle nello sfondo è quella del Fellicarolo, dove si apre nella vallata di Fanano.
parazione alla vita: capii che i sogni le danno un senso e che talvolta... La vidi nell’ultima pozza, sotto la cascata più alta, se avessi visto una tigre saltare dalla roccia mi sarei stupito meno. Ancor’oggi mi faccio la stessa domanda: come diavolo era arrivata lì? Una tigre può scappare da un circo, ma lo avete mai visto fare da una trota? Probabilmente imparai più cose da quella trota che da qualunque professore di scienze naturali. Due lustri più tardi sognavo le correnti del torrente Fellicarolo la sera, in branda, mentre cercavo di dormire nella camerata della III compagnia paracadutisti della Scuola Militare di Pisa. Fantasticavo sempre un piccolo rotante luccicante solcare quelle brevi e veloci correnti, nella speranza che una trotella scattasse veloce da sotto un sasso per afferrarlo. Credevo di pescare in fantasia, invece cercavo ancora di trasformare un sogno in realtà. Prima di scoprire la mosca pescai per anni a spinning, e solo ora, saccheggiando i ricordi, mi rendo conto che nel Fellicarolo andai sempre da solo. Avevo un compagno di pesca, un amico rimasto
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tale fin dalle scuole, si andava a pescare a lucci in Mincio, a trote nell’Ospitale, nelle Tagliole, nel Dolo ed in un’infinità di torrenti e ruscelli appenninici, ma mai in quel tratto del Fellicarolo. Circa in quel tempo ci portai con altri scopi una ragazza, una tipa che si faceva notare parecchio all’università, bionda platino e formosa, labbra carnose sagomate dal rossetto, girava con una spider rossa e abiti succinti. Oggi gli
Usa sono saturi di barzellette su questo personaggio, fatevi raccontare quella dell’etilometro. Scendemmo un sentiero che era in realtà un fosso asciutto che portava sul torrente esattamente di fronte allo sbocco dell’affluente della mia esplorazione. Venne in minigonna stretta coi tacchi a spillo. Ignorando totalmente il suo abbigliamento le feci risalire il Fellicarolo fino alla confluenza del ruscello Doccione, circa due ore di scarpi-
nata sui sassi. Non ero sadico, credevo sinceramente che le piacesse. Dei tacchi non rimase molto e la minigonna si strappò sul fianco. Come disse Unghia d’Orso a Jeremiah Johnson, “La montagna ha le sue leggi”. Non la toccai neppure, non feci in tempo, non uscì mai più con me, ed io non uscii mai più con un’esibizionista. Ci tornai una seconda volta con un’altra ragazza, una pugliese dai lunghi capelli corvini che studiava i segreti della genetica. Appena arrivata sul torrente venne presa da una crisi d’ansia. Non era mai stata in un torrente, tra pareti a strapiombo ed il fragore dell’acqua, il suo orizzonte era quello del mare, senza confini e col dolce, ritmico, lento sciacquìo della risacca. Dei segreti della genetica me ne insegnò solo qualcuno. Diversi anni dopo trovai la mia donna, o lei trovò me. La portai in lungo e in largo in un’infinità di torrenti e non solo in Italia, torrenti austriaci, jugoslavi, scandinavi, irlandesi, scozzesi, francesi, tedeschi, americani, spagnoli, andini... ma non la portai mai nel torrente Fellicarolo. Ero innamorato e non volevo correre rischi. Oggi abbiamo una figlia di 13 anni, ma siamo ancora fidanzati. Magari ci sposeremo nel Fellicarolo. E, se Carlotta farà la brava, l’inviteremo al matrimonio. Quel torrente è la mia Zona, avete visto il film Stalker di Tarkovsky? La Zona è un luogo proibito, dove si verificano fenomeni incomprensibili e che le autorità hanno chiuso e circondato dall’esercito. Sembra che la Zona abbia il potere di realizzare i desideri più segreti di chi ci si avventura. Meglio non correre rischi.
Ulteriori due lustri più tardi fui solito per anni decollare in deltaplano da Pian del Falco, ma mentre i miei amici cercavano le facili correnti termiche verso valle nel versante Sud, io preferivo cercare quelle del versante Est del Cimone, più rare e difficili, quando le trovavo potevo percorrere tutta la valle del Fellicarolo fin quasi alle sorgenti, cercando là sotto, tra i sassi che a malapena potevo distinguere, un bimbo di dieci o dodici anni saltellare alla ricerca della visione di una trotella. Da quando pesco a mosca il torrente che ho frequentato di meno è proprio il Fellicarolo. Inizialmente andai spesso, ma presto compresi che quello non era ambiente per tutte le domeni-
Sopra: ci si avvicina alla Zona, nel film Stalker, dove una stanza pare possa realizzare i desideri più intimi e segreti. A sinistra: le nostre trota a molla, ormai giocattoli di peluche, snaturate nella sostanza e nella... filosofia.
che. Andava centellinato come l’ultima bottiglia di un vino raro. Beh, ho finito. Nelle intenzioni originarie volevo partire con qualche ricordo dove la trota aveva un significato importante, per poi arrivare rapidamente ad oggi, dove è trattata come oggetto di divertimento squallido e innaturale, buttata già gigante nei no kill all’italiana (ma non solo) come un qualunque bene di consumo usa e getta, nello specifico sforacchia e rigetta. Come avete visto il programma è saltato, delle aberrazioni e della moderna concezione della pesca a mosca dovrò parlare un’altra volta. Mi spiace, mi sono fatto prendere dai ricordi. Però non m’è dispiaciuto, anzi, la cosa mi ha eccitato al punto che ho deciso di scrivere un libro delle mie memorie, ho già pronto il primo, brevissimo capitolo. Eccolo: Capitolo I Vengo da una famiglia di artisti. La nonna mi portava a spasso con riluttanza, si vergognava delle mie gambe storte ed era terrorizzata dal fatto che potessi essere un nano. La nonna aveva un grande senso dello spettacolo.
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