Storia di Novoli
Testi e documenti
Mario De Marco
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Prefazione
Nell’assai lontano 1980 pubblicai la mia Storia di Novoli, primo studio organico sulle trascorse vicende del paese, testo ormai introvabile ma che, anche a causa della provvisorietà della ricerca e dei limiti imposti dall’editore circa il numero delle pagine, inevitabilmente conteneva non poche lacune, alle quali si aggiungevano imprecisioni a me addebitabili, ma si trattava del primo testo su Novoli, anche se nel 1977 il compianto amico Enzo Maria Ramondini aveva pubblicato un opuscoletto contenente alcune interessanti notizie: Novoli di Lecce. Fatti e misfatti dalle origini ad oggi, lavoro che intendeva ampliare non riuscendovi, però, essendo morto prematuramente nel 1982.
La diffusione della mia Storia di Novoli subito destò nel paese un accresciuto interesse per le trascorse vicende del luogo, e così studiosi novolesi, quali Gilberto Spagnolo, Piergiuseppe De Matteis, Dino Levante, Mario Rossi, Oronzo Mazzotta, Alfredo Mangeli, Antonio Politi e Salvatore Epifani, principalmente, ma anche non pochi altri, con i libri, saggi e articoli hanno via via squarciato il velo sugli ignorati e fabulosi accadimenti novolesi ma, come è ovvio, la ricerca continua. Da parte mia mai ho smesso di interessarmi del paese natio, pubblicando non pochi articoli essenzialmente sui numeri unici di Sant’Antoni e l’Artieri, Lu Puzzu te la Matonna, sulle riviste da me dirette Rassegna Salentina e lu Lampiune. Ho poi dato alle stampe Le iscrizioni latine di Novoli e Novolesi, una corposa rassegna di profili biografici di novolesi illustri.
La pubblicazione del mio testo sulla storia di Novoli, come si è detto, smosse i ricercatori del luogo, ma questa feconda operazione culturale, tesa alla ricerca dell’identità, se pur necessaria e lodevole, ebbe però alcuni risvolti di cattivo gusto, già perché essendo tanti animati dallo spirito di priorità godevano e godono nel provocare e alimentare le contrapposizioni personalistiche, felici di cogliere in fallo, a ragione o a torto, coloro che già si erano occupati delle vicende cittadine. Al tempo ci si rimbeccava e pur ci si denigrava, sì perché qualcuno, pace all’anima sua, essenzialmente indulgeva nell’autocelebrarsi, rivendicando sempre e comunque la propria priorità e la spocchiosa pretesa di aver detto l’ultima parola.
Questo sport di marca provincialistica e teso a nullificante il lavoro altrui non ci appartiene, non dovrebbe appartenere a nessuno, poiché dovreb-
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be instaurarsi, invece, il rispetto, la tolleranza e la collaborazione, avendo la consapevolezza che l’operazione storiografica resta sempre e comunque provvisoria.
Sono passati oltre 37 anni dalla pubblicazione della mia Storia di Novoli, ma mentre scrivo queste pagine noto che, ahimè, l’interesse per gli studi sul paese negli ultimi tempi sono notevolmente diminuiti, per cui ho deciso di rivedere, limare e integrare le conoscenze concernenti le trascorse vicende di Novoli, facendo pure tesoro degli studi di alcuni autori, ed ecco perché nel mio testo inserisco tanti dei loro contributi, laddove l’ho ritenuto necessario, ovviamente citando ed evidenziando la paternità degli scritti, e da qui è nato il sottotitolo di questo volume: Testi e documenti.
Di particolare utilità ho ritenuto di inserire alcuni scritti apparsi su Lu puzzu te la Matonna e i testi di Gilberto Spagnolo, Piergiuseppe De Matteis, Mario Rossi e Dino Levante, tutti carissimi amici. Per quanto riguarda le illustrazioni mi sono avvalso delle incisioni grafiche del pittore Piero Pascali, che ha arricchito tanti miei libri con la sua arte che costituisce un valore aggiunto alle mie modeste fatiche. Il testo che ora propongo, quindi, tutto sommato rappresenta un’operazione collettiva, di sereno coinvolgimento e riconoscimento della validità delle altrui ricerche, tutte finalizzate ad offrire la più possibile vera identità al paese, senza lasciarsi suggestionare da fabulose e improbabili narrazioni campanilistiche o, peggio ancora, da reticenze ed omissioni.
Licenziando alle stampe questo volume auguro con tutto il cuore che altri più e meglio tornino ad occuparsi di Novoli, da sempre e per sempre la mia piccola patria con la quale mai ho reciso il cordone ombelicale, essendo sempre orgoglioso della mia novolesità, fatta di sentimenti, lingua materna che mai ho contaminato, nonostante da oltre sessant’anni residente a Lecce. Intatta, infine, è restata la mia devozione per la Vergine di Costantinopoli, o del Pane che dir si voglia, e per S. Antonio Abate, Patroni del paese. L’Autore
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Il sito e i primi insediamenti
Il territorio
Il Comune di Novoli ha una superficie territoriale di 17,77 kmq., di cui 15,42 sono destinati all’agricoltura. Il paese dista km. 10
Lecce, 17 dall’Adriatico e 16 dallo Jonio, in linea d’aria. L’abitato si adagia sulle falde della bassa dorsale della Serra di Montedoro che è la continuazione della Serra di S. Elia, appartenente alle Murge salentine. Il terreno è costituito da sabbie micacee sciolte e stratificate, intercalate da altre consolidate da cemento calcareo con la presenza di solfuro di ferro in forma di piccoli cristalli lucenti, donde il nome della contrata di Montedoro, alto m. 62, che è un dosso lungo la strada per Trepuzzi, dopo il Cimitero, emerso nel periodo pleistocenico. Ai piedi di questa altura inizia un banco di calcare tufaceo risalente al Pliocenico, circa 600.000 anni fa che, formando il fondo del suolo della vallata in cui sorge Novoli si estende verso la frazione di Villa Convento e, quindi, verso Arnesano.
Si precisa che l’abitato novolese riposa su marne calcareo-argillose di colore grigio, le quali si addossano su sabbioni calcarei compatti (tufi). La restante parte del territorio è composta da profondo terreno coltivabile costituito da elementi calcareo-argillosi, ottimi per le colture soprattutto arboree. Tale terreno è addossato ad un profondo banco di argilla gialla, permeabile e pura, adatta per la produzione figulina che, come si dirà, fu presente anche a Novoli. Il banco argilloso, a m. 10-12 di profondità, presenta uno strato della stessa argilla, compatta e impermeabile, che dà luogo alla formazione della falda freatica superficiale, che permette l’emungimento di acqua salmastra.
Verso Campi Salentina il terreno cambia la sua struttura geologica in quanto appare formato da un calcare compatto e bianco, che si sfrutta per l’edilizia. Nella contrada “Lombarde”, sulla via per Salice, a circa 20 metri di profondità, si incontra un sottile strato di lignite (combustibile fossile dei terreni terziari), mentre nella contrada “Canali”, tra Novoli e Carmiano, si estende per quasi 15 ettari una zona cosparsa alla superficie di una grande quantità di noduli limonitici (minerali di ferro) e bauxitici (minerali di alluminio). A poca distanza dalla tenuta “La Corte”, presso il Cimitero, sulla via per Trepuzzi, fu scavato un pozzo dalla profondità di m. 25 , da cui si attingeva acqua risorgente da fessure del calcare sottostante. Verso Carmiano si trova il calcare compatto e bianco, coperto qua e là da argille sabbiose e da
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calcare marmoso-tufaceo. Verso Veglie il terreno vegetale calcareo-argilloso riposa anch’esso sull’argilla figulina, e nella contrada “Padula” si avvalla formandovi una zona in cui l’acqua meteorica ristagna.
L’altezza dell’abitato novolese, sul livello del mare, è di m.37, l’elevazione media del suo territorio varia da 30 a 35 metri s.m., ha longitudine orientale da Roma: 5°, 36’, 1’’, latitudine settentrionale: 40°, 22’, 30’’.
Molto estese e produttive erano verso Villa Convento, le cave o pietraie, dette di Cardamone dall’omonima villa esistente nella contrada della frazione. Dalle cave, ora poco utilizzate, si estraevano sabbioni teneri detti tufi, ottimi per la costruzione di case che a Novoli, a causa del suolo argilloso, richiedono fondamenta di profondità variabile tra i 70 cm. e i 2 metri. Parecchi Novolesi (zuccatùri= cavatori di pietra) nel passato si dedicarono ad estrarre la pietra, ma oggi questa attività è stata abbandonata per l’utilizzazione di altri materiali per l’edilizia.
L’idrografia
Novoli è posta nella depressione longitudinale di origine pseudo- carsica che attraversa Sandonaci, S. Pancrazio, Guagnano e Campi. La depressione del territorio novolese è detta “Cupa” e la si incontra a nord-est dell’abitato. Tale zona è fertilissima ma è battuta da frequenti e forti venti che, soprattutto nei mesi estivi, arrecano seri danni alle colture. La struttura geologica della depressione rivela la sua emersione dal mare essendo formata da rocce terziarie e quaternarie.
La media annua della pioggia che cade sul territorio novolese è di 600/700 mm. Le precipitazione meteoriche dei periodi autunnali e invernali scorrono dalle alture di S. Pancrazio e di Cellino; un tempo si raccoglievano nella depressione di Sandonaci formando estese paludi. Nelle annate di forte piovosità, le acque, non contenute dalle depressioni paludose, rotti gli argini, dilagavano verso Guagnano formando, lungo la “Cupa”, due deflussi: uno verso il territorio tra Campi e Salice giungeva nella contrada “Madonna del Franco” in territorio novolese, per precipitare poi nella contrada detta “Padula” (metatesi di Palude) e quindi rivolgendosi verso Carmiano, attraverso le contrade “Sali Bianchi” e “ Sali Russi” finiva nella voragine “Nfocamonaci” (affoga monaci).
L’altra corrente, costeggiando Villa Baldassarre, deviava a nord di Campi, ove si congiungeva con le acque provenienti dalle colline Madonna dell’Alto, di S. Elia e di Montedoro. Le masse delle acque meteoriche si fermavano
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qui allagando tutto il territorio sottostante sino alla tenuta “La Corte”, ove trovasi la voragine della “Fontana”, costituita da una depressione dal fondo della quale zampillava una sorgente di acqua potabile a 10 metri di profondità. Ma, essendo stato ampliato lo scavo, l’acqua si perdette nei meati della roccia sottostante.
Il fenomeno degli allagamenti sul territorio novolese si è oggi enormemente attenuato grazie agli abili lavori di ingegneria idraulica che, sin dal 1930, hanno convogliato le acque, scendenti dalle alture di S. Pancrazio e di Cellino, verso il mare o verso pozzi artificiali assorbenti, questi ultimi facilmente riconoscibili nelle cave di tufo e nelle caverne sotterranee, per la più parte riempite di terra rossa di trasporto alluvionale o da argille inglobanti resti di conchiglie.
Scarsa è quindi l’acqua piovana che resta alla superficie del territorio novolese, essendo in gran parte assorbita dal terreno, dalle rocce più o meno permeabili del sottosuolo, nei pozzi assorbenti fino a raggiungere la falda idrica sottostante. L’acqua meteorica, ancora, va a scaricarsi nei mari, alimenta le paludi litoranee, si perde con l’evaporazione. Eppure, se in parte trattenuta, potrebbe essere certamente utile all’agricoltura.
Il paese è ricco di falde freatiche che, in alcuni punti, affiorano tra gli 8 e i 12 metri; nella campagna tra i 20 e i 30 metri è possibile mungere l’acqua. Tali falde portano un’acqua abbondante, un po’ dura, che prima dell’Acquedotto Pugliese alimentava nel territorio circa duecento pozzi.
Il fenomeno carsico
I fenomeni dell’azione solvente delle acque di precipitazione sui terreni calcarei e gessosi sono noti col nome di “Fenomeni carsici” (dal celtico Kar = paesaggio nudo e roccioso, con tutte le caratteristiche morfologiche delle regioni calcaree). Si intende per terreno carsico quello composto da brecce e conglomerati calcarei permeabili alle acque di precipitazione. L’assenza di ogni traccia di morfologia fluviale o lacustre, l’aridità complessiva, le nude distese calcaree, rotte da fratture di ogni genere, i profili rotti nel rilievo a grandi tavolati ed alti fianchi uniformi, a linee aspre di cresta e burroni profondamente incisi, poco terriccio raccolto nelle depressioni, sono i caratteri più appariscenti del passaggio carsico di superficie che, nel sottosuolo, registra frequenti cavità, originate dall’erosione delle acque la cui opera scioglie la roccia dando luogo ai fenomeni stalattitici e stalagmitici.
Laddove nel territorio novolese stagnavano e stagnano le acque, e co-
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munque ove il terreno è particolarmente idrovoro (contrade Spongani e Salore) si verificano i fenomeni carsici, che non sono però quelli veri e propri, ma vengono definiti pseudocarsici in quanto la roccia novolese, costituita prevalentemente di tufo non si altera chimicamente granché, pur essendo molto permeabile e assorbente. Nel sottosuolo il fenomeno carsico appare più visibile, tuttavia non dobbiamo lasciarci trarre in inganno, poiché le grotte sono state originate dall’azione delle acque meteoriche solo in parte, in quanto l’azione più rilevante per la loro formazione è da imputare alle acque profonde che determinano peculiari reazioni fisico-chimiche. E poi l’ampliamento delle grotte avviene sovente per lo sfaldamento delle volte in disfacimento. Il fenomeno carsico sotterraneo, a Novoli, lo si riscontra soprattutto nelle contrade suddette, “Cupa” e “La Corte”.
Il cav. Donato Romano, a suo tempo proprietario della tenuta “La Corte”, volle rendersi conto del fenomeno che aveva formato la caratteristica di quel rendimento. Egli fece venire alla luce una minuscola grotta-lago, formatasi con la lenta azione del tempo nel tufo. Tale grotta deve ritenersi originata da una circolazione idrica pseudocarsica. In essa si nota un laghetto del diametro di una trentina di metri, fenomeno questo non comune nella regione pugliese1 .
La Breccia ossifera di Cardamone
Il 20 aprile 1872, in seguito allo scavo per l’estrazione del tufo dalle cave della contrada Cardamone, a quattro km. da Novoli, verso Villa Convento, essendo crollata una delle pareti della cava, venne alla luce una profondità verticale, a forma di imbuto capovolto, profonda 15,42 metri, comunicante col piano del suolo a mezzo di tre bocche ed al fondo con una grotta dell’ampiezza di metri 8x9,40.
È questo uno dei giacimenti del Quaternario più importanti d’Italia di carattere prevalentemente paleontologico, in cui gli operai trovarono resti di ossa fossili e di ciò ne fu informato Cosimo De Giorgi (Lizzanello, 1842 - Lecce, 1922), il quale intuendo l’importanza della casuale scoperta,
1 Cfr., C. De Giorgi, Note geologiche sulla Provincia di Lecce, Lecce 1876; Id., Geologia del Leccese e del Barese, Trani 1884; Id., Geografia fisica e descrittiva della Provincia di Lecce, Lecce 1897; Id., Descrizione geologica e idrografica della Provincia di Lecce, Lecce 1922; C. Colamonico, Studi corologici nella Puglia, Bari 1908; A. Mauget, Note geologiche sulla provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1934; F. Trombe, Traitè de spilèologie, Parigi 1952. Di utile consultazione ci è stata la tesi di laurea di W. Ippolito, Fenomeni pseudocarsici dei tufi pliocenici di Novoli, discussa presso la Facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Bari nell’a.a. 1952-53.
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ciò segnalò al celebre scienziato Ulderico Botti (Montelupo Fiorentino, 1822 - Reggio Calabria, 1906) che, giunto a Novoli, studiò e catalogò le ossa già estratte ed esplorò la grotta onde rinvenire altri materiali. Lo scienziato con alcuni operai esplorò il sottosuolo rinvenendo nella grotta ellissoidale tanto prezioso materiale preistorico riguardante la fauna del Pleistocenico superiore, ivi accidentalmente caduta o trasportata dalle acque. Al Botti, e non poteva essere diversamente, fu accanto Cosimo De Giorgi, e la notizia dei ritrovamenti ben presto venne conosciuta dall’ambiente scientifico.
La grotta Cardamone, dopo lo svuotamento, fu distrutta durante i lavori di estrazione della pietra tufacea, per cui oggi non resta alcuna traccia. La fauna in essa giacente rappresenta, nelle linee generali, un complesso di clima nettamente freddo, e il Botti rinvenne i resti dei seguenti animali: Pachidermi
- Elephas primigenius Blum = Mammouth
- Rhinoceros megarinus Crhistal = Rinoceronte
Equini
- Equus = Cavallo
Ruminanti
- Bison Europaeus = Bisonte
- Bos Taurus = Toro
- Cervus = Cervo
Carnivori
- Felix Catus (o Linx) = Lince
- Hyena Crocuta = Iena
- Canis Lupus = Lupo
- Canis Vulpes = Volpe
- Canis Familiaris = Cane domestico
Roditori
- Lapus = Coniglio
- Mus = Topo
- Arvicola = Topo d’acqua
Insettivori
- Erinaceus Schm. = Rettile
Uccelli
- Grus cinerea Beshst. = Gru cinerina
- Strix = Civetta
Diversi indeterminati, specialmente rapaci notturni.
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Questi resti erano inclusi negli strati di terre vegetali argillose ocracee e negli strati bassi in un terriccio sabbioso ed argilloso di colore grigio o tabacco. Intercalati tra gli uni e gli altri piccoli strati di terra color cenere o di roccia friabile fra le dita. Il materiale paleontologico trovato, dopo una lunga peregrinazione in vari locali, fu infine raccolto e conservato nel Museo di Paleontologia e Paleontografia di Maglie, dopo essere stato inventariato da Cosimo De Giorgi e dal suo discepolo Liborio Salomi (Carpignano, 1882Lecce, 1952), altro illustre scienziato2 .
Il riempimento della grotta ossifera di Cardamone avvenne nel corso dei millenni per la caduta non solo di animali, ma anche per i loro avanzi e per il terriccio trascinato dalle acque fluenti. Il Botti pubblicò a Lecce nel 1881 il resoconto delle sue ricerche in un agile volumetto dal titolo Sulle brecce ossifere nella Provincia di Terra d’Otranto, inserendovi pure una Lettera al Duca Sigismondo Castromediano, relazionandolo sulle sue ricerche3 .
della storia
Nel V millennio a.C. l’agricoltura, proveniente dall’Asia Minore, mette piede in Europa, dapprima in Grecia e nei Balcani poi, risalendo il Danubio e attraverso il Mediterraneo, giunge fin nel cuore del continente.
Molti studiosi fanno risalire a quest’epoca l’inizio dell’età neolitica che registra l’invenzione di armi e strumenti più perfezionati in pietra levigata, la cui produzione si attarderà anche quando si sarebbe affermata la lavorazione dei metalli.
Nel 4.000 a.C. l’uomo salentino non vive più nelle caverne, egli impara a costruire capanne e insieme alla caccia ed alla pesca pratica l’agricoltura e l’allevamento.
Verso la fine del terzo millennio a.C. ha inizio la vera fase del bronzo che giunge fino al 1.200 a.C. circa. Fra gli animali comincia ad apparire il cavallo, che i primi contingenti indoeuropei del gruppo orientale introducono in Europa, dove le popolazioni autoctone hanno già dato luogo a proprie civiltà. Si svolge in questa età la civiltà delle terremare (palafitte), mentre la Grecia viene invasa dagli Achei.
2 Cfr., U. Botti, La grotta ossifera di Cardamone in Terra d’Otranto, Lecce 1891, p. 7; E. Flores, Catalogo dei mammiferi fossili nell’Italia meridionale e continentale, Napoli 1895, p. 11, A. Sabia, Il Gabinetto di Scienze Naturali presso l’Istituto “O.G. Costa” di Lecce, in “Rassegna Salentina”, III nn. 4-5, Lecce 1978, pp. 51-58.
3 La contrada “Cardamone” prese il nome dei suoi antichi proprietari, i Cardamone di Lecce.
4 Cfr., M. Bernardini, Panorama archeologico dell’estremo Salento, Trani 1955, p. 19.
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L’alba
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Nel 3.500 a.C. fanno il loro ingresso in Europa le prime bellicose avanguardie indoeuropee che occupano le sedi del Danubio e della Vistola, avanzano a mano a mano nelle sedi italiche, dove introducono il cavallo e l’ascia di combattimento. I feroci indoariani si sostituiscono rapidamente alle popolazioni autoctone si insediano in residenze ben fortificate e instaurano ovunque aristocrazie guerriere.
A partire dal 3.000 a.C. sorgono nel nord Europa le prime tombe megalitiche (fatte di grandi pietre) che si estendono con l’avanzata degli indoariani in tutta l’area mediterranea e lungo le coste atlantiche. Le sepolture megalitiche esprimono un’accresciuta venerazione per gli antenati, che con la forza di una nuova religione conquista varie parti del mondo.
La presenza dell’uomo nell’area novolese è già documentata nel periodo neolitico. Si tratta di una razza umana piccola e bruna, dolicocefala e snella, largamente presente nell’area mediterranea. Presso Cardamone furono trovate selci scheggiate risalenti a quest’epoca4 alla quale risaliva pure una specchia (dal lat. specula = vedetta). Le specchie erano grandi cumuli di pietra, a forma conica, e una di queste fu trovata nella contrada omonima, a due km. circa dall’attuale abitato, a nord-ovest sulla via per Salice, distrutta circa cento anni fa per dare spazio alla coltura della vite.
Il menhir novolese
Le prime tombe megalitiche sono i dolmen, camere formate da cinque poderosi lastroni di pietra. Nessuna traccia di dolmen a Novoli, dove però a ovest dell’abitato, sulla strada partifeudo per Campi Salentina, nella contrada Petra Rossa (Pietra Grossa) troviamo i resti di un menhir alla cui basa esiste un ambiente ipogeo detto parmientu (palmento), forse in origine destinato a tomba. I menhir, o pietre fitte, sono costituiti da un masso monolitico di varia altezza, a forma di parallelepipedo, infisso nel terreno a scopo religioso. Il menhir novolese fu scoperto nell’autunno del 1939 da Romeo Franchini, il quale lo face fotografare dall’amico Giuseppe Palumbo che così ne scrisse: “Anche questo, più che un menhir vero e proprio, è attualmente un semplice troncone di menhir, una specie di cippo lapideo.
Trovasi a poco più di un chilometro dall’abitato, sulla sinistra della carrozzabile per Campi Salentina e precisamente ad una settantina di metri di là dallo stabilimento vinicolo Moreschi in contrada Pietragrossa, volgar-
5 Cit. da G. Palumbo, Salento megalitico, in “Studi Salentini”, II, 1956, P. 89; Cfr. A. Politi, “Pietra-
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mente «Petrarossa» per corruzione dell’etimo, è piantato su di una stradicciola vicinale detta comunemente “Petrarossa” ed è a nord-ovest due quote di terreno che vanno sotto la stessa denominazione, una di proprietà Centonze, l’altra Savino. Il materiale che costituisce il protostorico segno è un calcare sabbioso-tufaceo cavato nei paraggi ed evidentemente sarà stata questa sua struttura poco compatta a recar pregiudizio alla conservazione del monolito. Tuttavia si può arguire da quanto avanza che la stele sarà stata fra le più importanti di Terra d’Otranto. Le due facce larghe presentano alla parte superiore un piccolo foro irregolare che traversa il blocco da parte a parte. Dimensioni del rudere: altezza m.1,13; facce adiacenti m.0,70x0,47. Orientazione delle due facce larghe rispettivamente da nord a sud. Altitudine del posto m.37 sul livello del mare.”
Meta di tanti studiosi e curiosi, questa pietra fitta novolese resta tuttavia un mistero per tante ragioni che Antonio Politi ha cercato di risolvere giungendo infine alla conclusione che non si tratta affatto di un menhir5 .
Nel 1875 a Novoli, nelle masserie Giorgini e Spani furono scoperte officine litiche con materiale lavorato, consistente in coltellini di ossidiana, frecce, raschiatoi di crisopazio, più schegge e altri manufatti e arnesi incompiuti6 . Nell’area novolese più consistente appare la presenza dell’uomo durante l’età del bronzo7. Il luogo, pur non avendo restituito tracce del periodo messapico, appartenne tuttavia a questa civiltà, le cui origini e manifestazioni sono per tanti aspetti ancora incerte, controverse e dibattute8 . grossa” è un menhir autentico?, In “Le Fasciddre te la fòcara”, XXXIX, 17 gennaio 2001, pp. 10-11.
6 Ossidiana: Denominazione generica di qualsiasi roccia pressoché totalmente vetrosa e quindi priva di minerali riconoscibili. Si tratta di una pietra molto dura usata nella preistoria per lavorare pietre meno dure e per fabbricare armi e utensili. Crisopazio: Varietà di calcedonio di color verde mela con riflessi dorati. Il crisopazio è traslucido ed è usato come pietra ornamentale. Lo si trovava anticamente nella Slesia e negli Urali.
7 U. Botti, Sistemazione del Museo Provinciale di Lecce, Lecce 1879; M. Gervasio, La civiltà del bronzo nelle Puglie, Bari 1913. Nelle regioni mediterranee l’Età del bronzo copre tutto il II millennio a.C.
8 Nicandro, Ant. Lib. XXX, 1; Pausania, Focide, X, 10; Tolomeo, Tab. VI Europae; Strabone, Geogr. VI, 281; Livio, Hist., XXXVI, 17; Plinio, Hist. Nat. II, 103; A. Galateo, De Situ Japigiae, tr. it. di G. Miccoli (La Japigiae) a cura di V. Zacchino, Galatina 1975, pp. 81-82; J.A. Ferrari, Apologia Paradossica della Città di Lecce, a cura di A. Laporta, Cavallino 1977, p. 85 e segg.; O. Parlangeli, Studi Messapici, Milano 1960. Il Franchini riferì dell’esistenza di tombe messapiche a Novoli ma di queste non ne dette né esiste la prova. Alcuni cittadini novolesi asserivano, però, che durante i lavori di sterramento per la costruzione del tronco ferroviario Novoli-Nardò, nella via Monte Grappa furono trovati nel sottosuolo vasi e lanterne e, in prossimità del passaggio a livello della “Cupa” furono asportati enormi massi rozzamente squadrati, chiamati nella voce dialettale “pèntume”.
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Messapia, Salento, Greci e Romani
Intorno al secondo millennio a.C. l’Europa è in fermento. L’avanzata delle tribù indoariane scompiglia le popolazioni mediterranee e balcaniche, che vengono cacciate dalle loro sedi. Nel continente fiorisce l’età del bronzo che durerà nelle aree meridionali fino al 1.000 a.C. Il cavallo diviene il protagonista delle battaglie che registrano lo sviluppo di un’arma formidabile: il carro da guerra. Nel 1.400 a.C. gli Achei conquistano Creta, ma saranno a loro volta travolti dalla migrazione dorica. Dall’Illiria, attraverso l’Appennino, penetrano in Italia le avanguardie degli indoeuropei, che portano con essi la cultura dei campi d’urne.
Nel 1.230 a.C. spade, lance, pugnali, asce ad appendici laterali, fibule a violino e campi d’urne cinerarie di tipo mitteleuropeo sono già presenti nell’area mediterranea. Bruciano Micene e Tirinto, arde Cnosso, Troia è travolta dai Frigi messi in moto dagli “Enetoi”. Tutto l’Egeo è in ebollizione, i nuovi insediamenti già delineano l’assetto di molte nazioni europee. In questo periodo, proveniente dall’Illiria, giunge nel territorio pugliese il popolo dei Messapi, di stirpe indoeuropea, che rapidamente si sostituisce alle popolazioni paleo-meridionali, chiamate anche ausoniche.
Gli invasori, secondo la leggenda, sono guidati da Japige, Dauno e Peucezio, figli dell’arcade Licaone. I seguaci di Dauno si insediano nell’attuale Foggiano, le genti di Peucezio si stanziano nel territorio di Bari, il gruppo guidato da Japige occupa le sedi meridionali della Puglia, stabilendosi nell’attuale territorio delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. Tuttavia tutto il territorio pugliese prende la denominazione di Japygia, e tale denominazione resterà fino alla totale conquista romana (269-267 a.C.).
Quasi contemporanea all’emigrazione dei Messapi è quella del popolo dei Salentini, sintesi di diverse genti provenienti da Creta, dall’Illiria e dall’Italia. Gli storici greci e romani, e lo stesso Virgilio, narrano le vicende di Idomeneo, re di Licto a Creta, il quale cacciato dalla sua patria, per sedizione nella guerra contro i Magnesi, giunse con un grande esercito presso il re Divitium nell’Illirico. Ricevuti da questi uomini e aiuti, Idomeneo si unì in mare con i Locresi e con altri sbandati, coi quali strinse patti di amicizia per la stessa causa, ossia per la ricerca di una nuova patria.
Giunto a Locri, che nel frattempo era stata abbandonata per timore degli abitanti, egli conquistò la città e si dette da fare per per fondare molti centri abitati, tra cui Uria e Castrum Minervae. Idomeneo divise queste genti in dodici tribù, dette dei Salentini, poiché in mare, in salo, avevano stretto amicizia. Dalla fusione dei Messapi con i Salentini, penetrati questi ultimi
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a sud del golfo di Taranto, sorse una nuova nazione che sin dall’antichità si distinse dalle altre genti pugliesi. Idomeneo fondò Sallentia (l’odierna Soleto) che eresse a capitale del nuovo Stato.
La Japygia, che sorse come entità statale nel 1.280 a.C., estese in seguito la sua influenza nel Salento e a tutti i territori dell’odierna Puglia, costituendo una federazione di nazioni e stati con i Salentini, i Peucezi e i Dauni. E soltanto la dorica Taranto, che era stata fondata nel 707 a.C. dagli Spartani, guidati da Fàlanto, conservò una propria egemonia nella regione opponendosi con le armi agli Japygi stessi.
Nel VII sec. a.C. il Salento appare consistentemente grecizzato, appartiene alla Magna Grecia che è rappresentata dalle fiorenti città di Otranto e di Gallipoli, la cui influenza però fu lenta ad intaccare la cultura messapo-salentina che fu soltanto fagocitata dalla conquista romana. Della cultura degli antichi abitanti della provincia di Lecce ci restano oggi le reliquie della produzione vascolare, raccolta nel Museo Nazionale di Taranto e nel Museo Provinciale di Lecce.
L’arte dei messapo-salentini, che conosciamo attraverso i corredi funerari, può definirsi “italiota” per il fatto che essa si sviluppò nel periodo magno-greco, del quale ne assimilò tante manifestazioni. Circa l’alfabeto è concorde ormai il parere che esso si sia diffuso prima nella Messapia settentrionale e successivamente, intorno al V sec. a.C., nell’estremo Salento.
La lingua degli antichi Messapi fu affine all’Illirico. Essa venne parlata nel Salento fino alla conquista romana, ed è documentata da antiche glosse e da iscrizioni che vanno dal VI-V sec. a.C. fino ai primi anni dell’Impero. Col passare del tempo si venne a mano a mano attenuando l’unità etnico-linguistica della Japygia, per cui all’epoca della conquista romana già esisteva, forse con gli stessi confini odierni, una differenziazione linguistica nell’ambito di quella che sarà con Augusto la Regio II (Apulia et Calabria), con consistenti caratteristiche per il dualismo dialettale pugliese- salentino, ancor oggi netto e preciso9 .
9 Cfr. J.A. Ferrari, L. Tasselli, Antichità di Leuca, Lecce 1819; L. De Simone, Note Iapygio-messapiche, Torino 1877; A. Mosso, Le origini della civiltà mediterranea, Milano 1910; L. Pigorini, Monumenti megalitici in Terra d’Otranto, in “Bollettino Paletnologico Italiano”, Roma 1911; P. Marti, La provincia di Lecce nella storia e nell’arte, Manduria 1932; C. Schuchardt; Alteuropa, Berlino 1941; O. Parlangeli, op. cit.; G. Devoto, Origini indoeuropee, Firenze 1962; D. De Rossi, Il Salento della speleologia neolitica alla crittografia bizantina, Lecce 1974; M. De Marco, Soleto, in “Rassegna Salentina”, III, n. 6, Lecce 1978, pp. 6-8. La contaminazione della lingua messapica fece sorgere un nuovo dialetto, che fu quello vergari (volgare) dei nostri avi. Tale dialetto conserva tanti etimi ed esiti sino a far dare dal prof. Giacomo Devoto un punteggio di purezza pari ad 8 punti contro i 9 dei dialetti toscani.
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Reperti magno-greci del V sec. a.C. vennero scoperti il 15 settembre 1936 nell’agro di Villa Portaccio, a circa un km. da Novoli per Villa Convento, allorché si eseguivano lavori di aratura. Vennero scoperte due tombe scavate nella roccia ed entrambi coperte da un lastrone lapideo, distanti tra di loro circa due metri. La notizia del casuale ritrovamento giunse alle orecchie di Mario Bernardini, noto archeologo e Direttore del Museo Archeologico di Lecce, che verosimilmente venne informato dall’avvocato Arrigo Portaccio, proprietario dell’omonima Villa con la moglie Adele Zagari, entrambi residenti a Lecce.
Dal verbale stilato da Mario Bernardini il 24 settembre 1936 emerge che il Portaccio gli consegnò i seguenti reperti trovati nelle due tombe:
1. Anfora attica a file rosse su fondo nero recante in A) una Vittoria alata incedente a sinistra con figura nella destra e tre pateri nella sinistra. In B) Efebo ammantato rivolto a sinistra. Una Palmetta greca sotto ciascun manico.
2. Lekytos attica con palmette nere su fondo rosso. Priva del becco e di parte del manico.
3. Idem come sopra con figure rosse su fondo nero. Un vecchio barbato con lungo scettro è in atto di trattenere un giovane che regge nella destra un arco. Sotto una greca. Rotta in vari pezzi tenuti insieme con lo spago.
4. Kylix attica. Decorazione invisibile perchè ricoperta da patina.
5. Piccolo oscillo a vernice nera schiarita. Frammenti vari di ceramica antica decorata a figure e senza. Frammenti di bronzo e ferro.
Novoli 24 settembre 1936.
Dott. Mario Bernardini di Salvatore. Direttore del Museo Provinciale di Archeologia.
Gilberto Spagnolo, che ha scritto sull’argomento, precisa che: «Dal Museo Archeologico di Lecce le suppellettili furono assegnate al Museo Nazionale di Taranto il cui direttore all’epoca era invece Ciro Drago studioso e archeologo di chiara fama. L’ elenco del Bernardini, oltre che sommario, è certamente incompleto e probabilmente si riferisce a quanto rinvenuto in una sola tomba. La consistenza reale e completa del corredo funerario rinvenuto nelle due tombe la si rileva, infatti, attraverso una lettera che un anno dopo, esattamente l’8 luglio del 1937, lo stesso Direttore Ciro Drago invia all’avvocato Arrigo Portaccio informandolo che degli oggetti rinvenuti solo tre venivano trattenuti dal Museo mentre il restante materiale gli veniva restituito. Scriveva, infatti, testualmente Ciro Drago: “La Soprintendenza alle Opere di Antichità in Bari ha stabilito che gli oggetti rinvenuti in due tombe antiche nella Villa di sua proprietà a Novoli siano ripartiti a
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norma dell’art.18 della legge 20 giugno 1909, n.364, nel senso che restino a questo Museo: 1) un’anfora a figure rosse; 2) una lekythos a figure rosse; 3) un vasetto a figure rosse e che il restante materiale sia restituito alla S.V. Previa notificazione di importante interesse, la prego pertanto di volermi indicare quando e dove potrà essere effettuatala a sue spese la spedizione dei predetti oggetti”.
In una lettera successiva datata 26 luglio 1937 il Drago comunicava, infine, al Portaccio (che si trovava all’Hotel Eden di Levico in provincia di Trento) che si era provveduto della spedizione della suppellettile che gli spettava e la elencava descrivendola così dettagliatamente:
Tomba I
1) Lekythos nello stile delle figure rosse. Sul davanti Hermes barbato col caduceo in mano avanza verso destra. Ricomposto. Altezza cm. 36
2) Kylix in vernice nera a basso piede e profondo bacino. Altezza cm. 8,8 diametro cm. 18.
3) Piccola kylix in vernice nera a basso piede e profondo bacino. Altezza cm. 8, diametro 14,5. Ricomposta e priva di un’ansa.
4) Altra piccola kylix simile alla precedente. Altezza cm. 8, diametro 14,5. Ricomposta e priva di molti frammenti
5 e 6) Due piccoli skyphoi in vernice nera in gran parte scomparsa. Ricomposte. Altezza cm.5, diametro cm. 6,5.
7) Una olpe in vernice nera. Ricomposta e mancante di frammenti. Altezza cm. 15.
8) Piccolo vasetto globulare con ansa verticale sormontante l’orlo.
Tomba II
1) Lekythos in vernice nera lucente con palmette sulla spalla. Altezza cm. 28 2) Coppa in vernice nera lucente a largo bacino e basso piede. Altezza cm. 11, diametro cm.23,7.
Voglia la S.V. accusare ricevuta affinché questo Ufficio possa provvedere alla notifica dell’importante interesse degli oggetti.
Il Direttore Ciro Drago
La cassa con le suppellettili contrassegnata con il numero 18054, spedita tramite le Ferrovie dello Stato gli veniva consegnata a domicilio (in via R. Isabella n.6 a Lecce) il 7 agosto 1937.
Infine, su richiesta del Ministero dell’Educazione Nazionale, il messo comunale di Lecce, consegnandola nelle mani del suo autista Rocco Manni, il 12 agosto 1937, notificava al Portaccio “che gli oggetti antichi descritti a tergo, quale parte spettatagli ai sensi dell’art.18 della legge 20 giugno 1909, n. 364, perché rinvenuti in due tombe nella villa di sua proprietà a Novoli hanno
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importante interesse e sono quindi sottoposti alle disposizioni contenute negli articoli 5,6,7,12,14,29,31,34 e 37 della citata legge e degli articoli 1,2,3 della legge 23 giugno 1912 n.688” (in allegato l’elenco degli oggetti). Ciro Drago, successivamente, nel 1962, nel suo Corpus Vasorum Antiquorum inseriva, pubblicandole, le splendide decorazioni di due degli oggetti rimasti al Museo, ovvero il Grande lekythos in vernice nera lucente attribuito al Pittore di Pan e l’Anforetta dello stesso colore entrambe facenti parte del corredo funerario della tomba contrassegnata con il numero 2. Nel Grande lekythos vi è rappresentato un uomo barbato, nudo, con benda sui capelli, col manto raccolto sulle spalle, armato di lunga lancia e che cerca di trarre a sé un riluttante giovanetto dei lunghi capelli ornati di benda, anch’esso nudo col solo manto sulle spalle e con un cerchio nella mano destra.In alto, sulla testa del fanciullo si legge kalos. Alta cm.35,3. Sull’ anforetta invece vi è rappresentata una Nike diademata e vestita di sottile chitone con apotygma, ritratto nell’atto di volare con una lira nella mano destra protesa e con tre coppe nella sinistra. Alta cm.25,2, diametro dell’orlo 12,5. Delle suppellettili restituite al Portaccio, invece, da allora, non se ne seppe più nulla. Ma questa è un’altra storia»10. Invano la dorica Taranto tentò di assoggettare i messapo- salentini. I Tarantini, imbattibili sul mare, dovettero cedere sulla terra contro questi abili guerrieri, esperti domatori di cavalli. La cavalleria salentina era celerissima negli spostamenti e fulminea nelle scaramucce. Dell’imbattibilità dei cavalieri salentini se ne accorsero i Romani allorché li vollero alleati nella seconda (dal 362 al 304 a.C.) e terza (dal 298 al 290 a.C.) guerra sannitica. Poi i Salentini si allearono con Taranto spalleggiata da Pirro, ma fu la loro rovina poiché l’Urbe non tollerò l’offesa. Infatti nel 267 a.C. i legionari romani dilagavano vittoriosi in tutto il territorio pugliese che perdette la sua libertà.
Al tempo della II guerra punica, a Canne, i Salentini, tranne Brindisi, passarono dalla parte di Annibale e, dopo la vittoria di Zama, i Romani fecero sentire su di essi il peso della loro vendetta11. Il sito di Novoli fu in quel tempo attraversato dalle legioni romane che partivano e tornavano dalle loro imprese d’Oriente, sino a quando si servirono del porto di Otranto. Il viaggio da Benevento a Brindisi si effettuava tramite due vie: l’una, la Via Appia, più lunga ma più adatta per coloro i quali viaggiavano a cavallo. La contrada di Equo era un punto cardine per le comunicazioni. Da qui, infatti,
10 Cit. da G. spagnolo, Ritrovamenti archeologici a Novoli: Le tombe di età ellenistica di Villa Portaccio (V sec. a.C.). Documenti inediti, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XXI, 20 Luglio 2014, pp. 13-15.
11 Cfr., T. Mommsen, Storia di Roma antica, voll. 2, vol. 1, Firenze 1963, pp.449-534; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, III, Milano 1932, pp. 18-26 e 132-143.
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iniziava la via che portava a Brindisi attraverso la Traiana, che nel I sec. a.C. non era ancora pubblica ma solo riservata per le comunicazioni tra i municipi romani. Primo ad aprire questa via al pubblico o, certamente a renderla praticabile fu nel 110 d.C. l’imperatore Traiano, dal quale la via ebbe la denominazione12 .
La via Traiana partiva da Taranto e, toccando Manduria, Nardò, Alezio, Ugento, giungeva quasi al Capo di Leuca e poi incurvandosi verso Castrum Minervae (Castro) portava a Otranto e a Lecce, da Lupiae puntava a Brindisi, ripiegando sul suolo di Novoli, forse per seguire il depluvio orientale delle ultime propaggini delle Murge, cioè fiancheggiando Montedoro. La contrada novolese fu completamente romanizzata e certamente trasse vantaggio per la sua posizione lungo l’importante arteria romana13.
Nell’evo antico il territorio salentino era ricoperto da un lussureggiante manto boschivo diviso in due parti: Ager uritanus e Saltus carmianensis. L’Ager uritanus confinava con quelli lyppiense, tarentinum e brundusinus, detto nell’alto medioevo Foresta di Oria o Grande Foresta. Si estendeva dalle balze tarantine ai territori di Brindisi e di Nardò e, raggiungendo lo Jonio, comprendeva nel suo ambito anche il territorio di Arneo. Ne facevano parte Guagnano, Campi, Salice, Veglie e Copertino.
Il Saltus era costituito da selve e pascoli, interrotto da radure coltivate ad uso dei pastori e dei contadini. Il suo territorio venne assegnato ai plebei e ai veterani dedotti in colonia14 .
Nel basso Impero, con l’estendersi del latifondo, i Saltus divennero proprietà dei grandi signori e degli imperatori, con la conseguenza che con l’avanzata della vegetazione diminuirono le terre coltivate e si estese l’area per il pascolo e la macchia, dove l’allevamento ebbe nuovo ruolo e importanza. I coloni potevano pascolare su tutte le terre del Saltus stesso (ius pascendi) dopo la stagione del raccolto. Il Saltus Carmianensis si estendeva dalla marina di Otranto a quella di Brindisi e dall’Adriatico alla parte mediterranea della provincia di Lecce, avendo per centro amministrativo Carmiano15 . La porzione del territorio novolese, che faceva parte della foresta di Oria è
12 Cfr., K. Miller, Itineraria romana, Stoccarda 1916, p. 374.
13 Cfr., Antonini Augusti, Itinerarium prov., ed. O. Cuntz, Lipsia 1929, p. 118; Peuntigeriana tabula itineraria, ed. P. Katancsich, Budapest 1825; Itinerarium Burdi-Peuntigeriana tabula itineraria, ed. O. Cuntz, Lipsia 1929; G.B. Mancarella - P. Salamac, Romanizzazione e riflessi linguistici della Regio Secunda, Lecce 1978, pp. 29 sgg.
14 Lib. col. II, Gromatici Veteres, ed. Lachmann, Berlino 1884, I, pp. 261-62; Notizia dignitatum et amministrationum omnium tam civium quam militarium, ed. O. Seeck, Berlino 1876, p. 155; E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961, p. 37.
15 Notitia dignitatum etc., op.cit., p. 155.
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quella che, attualmente, iniziandosi dal tratto della provinciale Campi-Lecce, compreso tra le vie vicinali di “Montarello” e della “Badìa”, si estende verso Veglie. Essa, composta da terreni profondi e fertili, era allora in prevalenza paludosa, come testimonia il Marciano. Costituiva, infatti, il naturale displuvio, e lo è tuttora benché molto mitigato, di tutto il sistema collinoso settentrionale della piana leccese, compreso tra S. Pancrazio, Sandonaci e Cellino. La toponomastica della zona risente della natura del terreno, che è idrovoro, ed è quasi tutta di impronta greca. Abbiamo infatti la contrada dei “Sali” (Salos = mare) e delle “Salore”, è quella degli “Spongani” (Spongos = spugna, cioè terreno spugnoso, assorbente)16 .
La contrada del “Mali” adiacente alla “Nfocamonici” (Mali e Maglie = macula, poi ridotta a macla), ha il significato di radura17. Eccetto qualche testimonianza toponomastica ci è pervenuto pochissimo della presenza romana nel territorio novolese.
Novoli e la frazione di Villa Convento sorsero sul poggio sito tra la via vicinale di Mortarello è quella della Badìa. La toponomastica romana nel territorio è rappresentata soltanto da tre testimonianze:
- Nubilo: denominazione di tutta l’intera area dell’ex feudo di Villa Convento, che poi si chiamò Novule. Questo territorio, ora frazione, è a due km. circa da Novoli sulla via che conduce a Lecce. Qui esistono gli avanzi di un antico monastero dei Domenicani, soppresso nel periodo napoleonico, e volgarmente chiamato Convento, mentre il vicinato è chiamato Feudo. Nel 1695, dopo una lunga lite, il territorio fu diviso tra Lecce e S. Maria de Nove (Novoli)18. Nubilo: dal termine latino Nubilum19 con il quale si indica un locale coperto, adiacente all’aia, in cui si depositavano le messi da trebbiare in caso di intemperie20
- Áparu: dal latino aparium (alveare). Località poco distante dalla frazione Convento e, precisamente, sul declivio della serra di Montedoro. Nel passato il luogo era evidentemente adibito all’apicoltura.
- Rifi, contrada adiacente a quella di àparu, verso la Masseria della Corte, dal greco érifion (capretto). Il luogo stava ad indicare, pertanto, l’allenamento degli ovini.
16 Cfr., G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia di Terra d’Otranto, Napoli 1855, p. 471.
17 Cfr., G. Colella, Toponomastica pugliese. Dalle origini alla fine del medioevo, Trani 1941, pp. 443-444.
18 Cfr., G. Guerrieri, Gualtieri IV di Brienne, Napoli, 1896, pp. 36; G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Monaco, 1956-1959, III, p. 1011, II, p. 418. Lo studioso tedesco ricollega il toponimo con la base latina novulum nel senso di “novale”.
19 Cfr., Varrone, De re rustica, II, 13.
20 Cfr., W. Meyer-Lubke, Romanisches Etymologisches Worterbuch, Heidelberg 1935, p. 491.
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La Via Traiana traversava per intero il Saltus carmianensis e passava per il territorio di Novoli. L’arteria per secoli si animò due volte all’anno, in autunno quando gli armenti scendevano dall’Abruzzo e dalla Basilicata per svernare in Puglia fino all’estremo Salento, e in primavera quando le greggi tornavano ai monti. I pastori seguivano itinerari precisi, con stazioni di riposo o tappe. La contrada novolese, detta ancora oggi tappa, è sulla via per Trepuzzi. In tali stazioni, quasi sempre al centro delle grandi zone di pascolo, avveniva nel periodo romano e in quello feudale l’esazione fiscale21. Questa migrazione pastorale si fermò durante l’alto Medioevo, tuttavia riprese sotto i Normanni, i quali regolarono la transumanza e le esazioni fiscali che la riguardavano. Federico II prima, e gli Angioini, poi, dettagliarono il sistema fiscale che sotto gli Aragonesi fu rivisto onde regolare lo svolgimento dell’attività pastorale22. La conquista romana del Salento comportò l’insediamento di molti coloni, di patrizi che a mano a mano furono padroni di immensi latifondi. A Novoli, sul dorsale della collina che da S. Elia, tra Campi e Squinzano, si stende sino a Montedoro, la contrada denominata Terenzano. Ivi sorgeva anticamente un omonimo casale che, scomparso ormai da secoli, era divenuto al tempo del Marciano un cumulo di rovine23. Casale e territorio formavano sin dal Medioevo un feudo che ai princìpi del sec. XVIII apparteneva ai Mattei, signori di Novoli. La denominazione e le vestigia archeologiche ivi rinvenute lo rivelano un antico centro romano originato probabilmente da un Terenzio che lo aveva posseduto24 .
La denominazione Calabria, propria nell’antichità classica e dell’alto Medioevo della nostra regione, passò poi per alcuni speciali ragioni storiche, nel sec. XI, ad indicare l’attuale penisola calabrese, che in primo tempo si chiamava Bruzio25
Com’è noto in epoca romana non esisteva il casale di Novoli, le cui origini risalgono al basso medioevo, all’incirca verso il XII-XIII secolo. Tuttavia nel territorio ove poi sorse il casale di S. Maria de Nove non vi erano soltan-
21 Cfr., D. Musto, La regia dogana della mena delle pecore in Puglia, in “Quaderni della rassegna degli Archivi di Stato”, 28, Roma 1964, p. 7; N.F. Faraglia, Intorno all’archivio della dogana delle pecore di Puglia, Napoli 1903, p. 6.
22 Cfr., C. Carcani, Constitutiones regum regni utriusque Siciliae, Napoli 1786; M. Palumbo, I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità, Montecorvino Ravello 1910.
23 Cfr., G. Marciano, op. cit., p. 468.
24 Cfr., C. De Giorgi, Cronologia dell’arte in terra d’Otranto, in “Rivista Storica Salentina”, VIII, Giurdignano 1912, p. 107.
25 Cfr., M. Schipa, La migrazione del nome Calabria, in “Archivio Storico per le Provincie Napoletane”, XX, 1895, I, p. 23; G.B. Mancarella-P. Salamac, op.cit., pp. 29-50.
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to boschi e terre abbandonate, ci fu verosimilmente la presenza antropica costituita da genti magnogreche, messapiche e poi romane in insediamenti sparsi nelle campagne o in minuscoli nuclei abitati. Dopo l’assoggettamento dei Messapi e della potente Taranto in seguito alla sconfitta di Pirro, loro alleato, nel 267 a.C., i Romani dilagarono anche nel Salento, assegnando terre ai loro veterani e a mano a mano deducendovi pure diverse colonie. Si era ormai nell’orbita di Roma che latinizzò le nostre contrade sostituendosi via via alle civiltà precedenti e instaurando una dominazione che durò all’incirca sette secoli. Mercanti, nobili e contadini usarono, ma ciò avveniva già da prima, le monete coniate da Roma, il cui valore, se un avventato paragone si può fare, è paragonabile al dollaro che per diversi decenni è stata la moneta di riferimento a livello mondiale.
Erano gli inizi del Novecento allorché nel territorio novolese furono casualmente ritrovate due monete romane, una del periodo repubblicano, del 136 a.C., nella contrada denominata “Russia” nel 1903, l’altra dell’età imperiale in località “Porziano”, nei pressi della Cappella di S. Nicola, nel 1911. Qui, secondo Girolamo Marciano, ai suoi tempi, vennero rinvenute alcune “tombe pagane” (op.cit., p.454), quindi non è escluso che questa moneta abbia fatto parte di un corredo funerario.
Non si sa chi venne in possesso di queste monete, comunque le vide e le descrisse Cosimo De Giorgi, ma né lui né altri si curarono di decifrarne le scritte, restando così nel vago e nell’approssimativo. Chi scrive, da sempre appassionato di epigrafia romana e latina, sulla scorta della descrizione pervenutaci e della consultazione di alcune pubblicazioni specialistiche di numismatica, ha deciso di tradurre le non facili iscrizioni contenute dalle due monete. La prima, come si è detto del periodo repubblicano, riproduce su di una faccia Giove sulla quadriga a galoppo. Il re degli dei impugna lo scettro, la lancia ed un fulmine, con sotto scritto: l(ucius) antes(tius).Sull’altra faccia appare da un lato il volto di profilo della dea Roma, guerriera, con il casco alato e la scritta grag(ulus). Tutta l’iscrizione così si traduce: Lucio Antestio Cornacchia, che è il nome de magistrato monetario che fece coniare la moneta d’argento.La seconda moneta, quella dell’età imperiale, è di bronzo, del 250 d.C. circa, e contiene il ritratto laureato e corazzato dell’imperatore Decio da una parte, come si può capire svolgendo e decifrando l’iscrizione: imp(erator) g(aius) m(essius) q(uintus) traianus decius aug(ustus), ossia L’imperatore Gaio Messio Quinto Traiano Decio Augusto. Sull’altra faccia appare la dacia dacia felix rivolta a sinistra, che stringe con la mano destra uno stendardo. Non ci è noto chi abbia posseduto queste monete e se queste furono
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custodite dal Museo “Sigismondo Castromediano” di Lecce, allorquando ebbe sede nel Chiostro dei Celestini. Ma, com’è noto, da questo museo alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso venne trafugata la prestigiosa collezione numismatica, che non è stata più recuperata26.
Il De Giorgi afferma che in Terenzano furono trovate alcune tombe contenuti vasi fittili di terra cotta, di rozza fattura, di argilla gialla e senza alcuna patina. Nel 1906 gli fu mostrata una lucerna trovata in un sepolcro. Era di terracotta grezza, dalla forma di un otto, divisa in due centri da una strozzatura e con due fori, uno per versare l’olio, l’altro per il lucignolo.
Nella faccia superiore della lucerna vi era una piccola maschera da teatro modellata nel centro da una strozzatura tra due fori; nella base incavata di forme circolari, nella facciata inferiore, era impressa la scritta octavi, ossia di Ottavio. Sotto l’iscrizione vi era modellata una piccola corona di edera o di mirto27.
Sette secoli durò la dominazione romana nel Salento. Durante questo periodo la regione fu completamente latinizzata e delle civiltà precedenti poco e niente si conservò. La penisola salentina, grazie alla sua posizione geografica, ben presto entrò a far parte dell’orbita di Bisanzio e nell’alto Medioevo fu totalmente grecizzata per i rapporti etnico-culturali e religiosi stabiliti con l’Impero d’Oriente.
26 Cfr., E. babelon, Description historique et cronologique des monnaies de la République romaine, Bologna 1963, vol. I, p. 146. Imperatore dal 249 al 251 d.C., Gaio Messio Quinto Traiano Decio Augusto, originario della Pannonia, fu acclamato dai soldati dopo il successo sui barbari nei Balcani. Fu il primo persecutore sistematico dei Cristiani e impose un editto a tutti gli abitanti dell’impero di sacrificare all’imperatore e farsi rilasciare un attestato. Era nato a Budalia nel 200 circa d.C. e morì combattendo contro i Goti ad Abritto nel 251 d.C.
27 Cfr., C. De Giorgi, op. cit., p. 180, e Id., Nuovo scoperte in Vereto, in Valesio e in Terenzano,in “Rivista Storia Salentina”, IIII, Giurdignano 1906.
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Le origini di Novoli
Salento bizantino
Nel 476 d.C. l’Impero romano d’Occidente cadeva nella mani dei barbari, che dilagavano sin nel Salento, terra contesa nella prima metà del secolo successivo dai Goti e dai Bizantini, i quali alla fine vinsero la feroce guerra greco-gotica (535-553) che devastò e spopolò la provincia di Lecce1. Lungo la Via Traiana, che attraversava il territorio novolese, irruppero nella provincia orde di invasori e passarono le armate di Bisanzio, i nobili, i pellegrini, i mercanti per recarsi a Lecce, ad Otranto e a Leuca.
Il 13 agosto del 554 Giustiniano emanava la Prammatica Sanzione, con la quale estendeva il diritto dell’Impero d’Oriente alle terre riconquistate. Ha così inizio nel Meridione d’Italia, ed in particolare nel Salento, il ritorno a quella grecità interrotta dai secoli della dominazione romana. Le contrade meridionali vengono ripopolate da coloni, soldati e monaci bizantini, e si colmano così ampiamente i vuoti umani causati da tanti anni di lotte, di invasioni e di epidemie. In questo periodo di sconvolgimenti e di miserie la storia del Salento si interseca e si confonde con le vicende di avvenimenti di più ampia portata. Purtroppo soltanto notizie rarefatte sull’alto medioevo salentino sono giunte fino a noi, sicché ricostruire i fatti di quel tempo è quanto mai arduo se non proprio impossibile.
La popolazione del Salento si contrasse paurosamente a causa delle guerre e delle epidemie, la vastatio imperii cancellò intere comunità, i grandi centri greco-romani furono ridotti a minuscole proporzioni, sicché ci è dato supporre che il sito di Novoli abbia risentito dello spopolamento dell’intera regione. La macchia e la foresta ripresero il sopravvento, il luogo divenne la sede per gli eremiti, per le loro comunità che già nel IV sec. d.C., come ci attesta San Paolino di Nola, erano fiorenti tra Lecce e Otranto. Si trattava di comunità monastiche latine, della cui sorte non sappiamo niente durante la riconquista di larga parte dell’Italia meridionale da parte di Giustiniano e nei primi tempi della dominazione bizantina. Le prime fonti che rompono il
1 Cfr., Procopio da Cesarea, La guerra gotica (tr. it. di D. Comparetti), Roma 1954; cap. 20; Paolo Warnefrido Diacono, Storia dei Longobardi (tr. it. di P. Felisatti) Milano 1967, cap. 4; M. De Marco, Il Salento tra Medioevo e Rinascimento, Cavallino 1977, pp. 7-9; R. Aprile, Nuove interpretazioni per la storia della Grecìa Salentina, in “Rassegna Salentina”, III, 3, Lecce 1978, pp. 5-8.
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silenzio ci mettono dinanzi ad un monachesimo non più latino, ma bizantino, e non ci permettono di renderci conto esattamente come il trapasso, nel mutato clima politico, sia avvenuto.
Probabilmente la presenza di soldati e di coloni bizantini, nonché i rapporti economici e culturali con l’altra sponda adriatica, contribuirono a “rigrecizzare” il Salento, influirono decisamente anche in campo religioso. Non dobbiamo poi dimenticare il ruolo svolto dagli imperatori d’Oriente nelle faccende religiose, poiché il loro cesaro-papismo di fatto legava il potere politico alla professione del culto. Comunque nel VI sec. d.C. Otranto divenne sede del governo bizantino e della gerarchia ecclesiastica, e la città assunse un ruolo decisivo a tutti i livelli come punto obbligato per i rapporti tra Bisanzio e l’Italia.
Un aspetto fondamentale di questo periodo è rappresentato dal consolidarsi del Cristianesimo in Puglia mediante l’organizzazione delle diocesi,che raggrupparono la popolazione di un territorio ben definito intorno ad una sede vescovile. Tuttavia l’organizzazione ecclesiastica subiva i contraccolpi delle dominazioni che si alternavano in Puglia. È questo il caso verificatosi con la discesa, nel 568, dei Longobardi in Italia. Costoro penetrarono qualche anno dopo nel Mezzogiorno, ove Zottone fondò il ducato di Benevento. Sia lui che Arechi, suo successore, volsero le loro mire verso la Puglia, che vide in breve tempo limitare il territorio bizantino alle coste e alla penisola salentina, secondo confini incerti e fluttuanti. La presenza longobarda in Puglia, che durò dal VI alla metà dell’XI secolo, comportò la diminuzione delle sedi vescovili e il ridimensionamento del potere ecclesiastico2.
Per i fatti intercorsi tra i Longobardi e i Bizantini si delimitò con una muraglia, detta “limitone” dai Greci, il territorio che comprendeva Otranto, Castro, Gallipoli ed i paesi limitrofi. Il resto del Salento si chiamò invece “Lagghibardia” o “Loggobardia”, dipendente dai duchi di Benevento. Di questa muraglia divisionale si hanno ancora residui nella toponomastica salentina: Limitone, Paretone, Muro Grande, ed anche ruderi che talvolta hanno sviato gli studiosi di storia e di archeologia, nel supporre città scomparse laddove affiorano tali avanzi.
L’area novolese attraversata dal “Paretone”, era zona di frontiera tra Greci e Longobardi, fino a quando il territorio venne a fare parte dei possedimenti normanni, che ormai già appaiono consolidati nella penisola salentina dalla seconda metà dell’XI secolo. Nell’VIII secolo d.C. scoppiò a
2 Cfr., A. Antonaci, Otranto, Galatina 1976; AA. VV., Storia della Puglia, voll. 2, vol. 1, Bari 1979, cap. 7, pp. 125-142 e cap. 8, pp. 147-158; P. Coco, op.cit., p. 141; F. Tanzi, I beni e i feudi della chiesa vescovile, Lecce 1899, p. 13.
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Bisanzio la questione iconoclasta, che rapidamente coinvolse anche le sedi periferiche dell’Impero. I monaci iconoduli furono aspramente perseguitati, ma più che una lotta contro le immagini sacre, sembrò una guerra contro il monachesimo che aveva accentrato un forte potere spirituale e materiale, certamente mal visto dagli imperatori. Leone III Isaurico, l’imperatore che aveva dato l’avvio alla lotta iconoclasta, nel 733, per ritorsione contro il papa Gregorio III che nel concilio romano aveva condannato l’iconoclastìa, devolveva al fisco imperiale i redditi di tutti i beni patrimoniali della chiesa romana esistenti nei domini bizantini dell’Italia meridionale. Di questo basileus in agro di Novoli fu trovata una moneta, facente parte di una collezione privata.
In Terra d’Otranto, sin dall’epoca giustinianea, si era formato il patrimonium sancti Petri che comprendeva oltre che i Saltus, donati dagli imperatori bizantini al Papa, anche il castello di Gallipoli, la Massa gallipolitana, nonché molti altri beni provenienti da donazioni di fedeli. Le lettere di Gregorio III ci danno informazioni in merito all’amministrazione di queste terre.
Il sec. VIII segnò la fine di tale patrimonio poiché fu definitivamente confiscato da Costantino V, detto il Copronimo, in seguito all’acuirsi della controversia iconoclasta tra Roma e Bisanzio.
I Saltus, divenuti nuovamente patrimonio imperiale, presero allora la denominazione di Terrae Imperiales, così come affermano i notai nei primi documenti normanni.
Poi, fin dall’eversione della feudalità nel XIX sec., presero il nome di Foreste di Lecce,fonte inesauribile di giudizi civili e demaniali. Sul piano religioso la tensione tra Roma e Bisanzio causò il graduale distacco delle diocesi meridionali dalla S. Sede a quella del Patriarca di Costantinopoli. Questo fu l’inizio che aprì la strada per il distacco tra la chiesa d’Occidente e la chiesa d’Oriente. I monaci, su consiglio di S. Stefano juniore, per evitare le brutalità delle persecuzioni iconoclastiche si rifugiarono nei territori occidentali o nelle sedi più periferiche dell’Impero bizantino. In un primo tempo, però, poiché quando la Sicilia e la Calabria divennero insicure per l’avanzata araba, in gran parte trovarono rifugio nei territori bizantini, nel Salento, dove giunsero nel IX secolo quando ormai era cessata l’iconoclastìa e, anzi, gli imperatori d’Oriente cercavano addirittura di favorire la penetrazione religiosa, culturale ed etnica dell’elemento bizantino per assicurare la loro presenza nel Meridione d’Italia.
Il monachesimo bizantino, nel Salento, ebbe una vita essenzialmente lauritica. La laura era un complesso di celle autonome, distanti tra loro, ma gravitanti intorno ad una chiesa-cripta, ad una o più absidi, dove nei giorni
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stabiliti la comunità monastica si riuniva per celebrare i divini misteri e per pregare. A volte, quando i monaci non potevano adattare le grotte naturali, scavavano i loro rifugi in aperta campagna; questi somigliavano a pozzi il cui ingresso era costituito da una buca dall’alto o laterale; oppure da una gradinata. In questi antri venivano tracciate le immagini dei santi, della Vergine e del Cristo. Per naturale evoluzione il monachesimo lauritico divenne cenobitico, si passò pertanto dalla vita solitaria a quella organizzata, fondata su di una regola e sulla gerarchia ecclesiastica.
I monasteri bizantini furono operosi centri di cultura e di organizzazione economico-sociale. Essi contribuirono alle elevazione morale e materiale delle genti locali, e furono fecondo punto di incontro tra la cultura orientale e quella occidentale. Basta citare per tutti il cenobio di S. Nicola di Càsole, presso Otranto, oggi ridotto a qualche rudere, che dette impulso fondamentale alla cultura meridionale, soprattutto tra l’XI ed il XII secolo3 .
Origine di Novoli
A testimoniare il passaggio romano, longobardo e bizantino, restano nel territorio novolese tre località, la cui voce toponomastica è ancora viva.
Di questi luoghi la tradizione ci tramanda la memoria di tre villaggi, distanti tra loro poco più di un chilometro denominati rispettivamente: Porziano (oggi San Nicola), Erre o Lummarde (Longobarde), Pizzinichi (da pizzi = capra e nicchia = capretto).
Tali villaggi, si dice, nell’alto medioevo già esistevano e poi dipesero dall’Abbazia di S. Maria di Cerrate, ed erano abitati da coloni greci o grecizzati. Secondo Girolamo Marciano le popolazioni di questi casali avrebbero costituito il primo nucleo degli abitanti di Novoli, a causa dell’abbandono dei loro siti malsani o perché forse c’era qualche avamposto di Lecce dove si trasferirono, ricevendone così protezione e sicurezza. Tanto si riporta con il beneficio dell’inventario, ma sicuramente quanto ci riferisce il Marciano è pura fantasia e, quindi, invenzione.
Comunque certificare l’atto di nascita di un comune è quasi sempre un’im-
3 Cfr., P.G. Barrella, La Madonna di Parabita e l’arte basiliana in Terra d’Otranto, Lecce 1913; P. Coco, Vestigi di grecismo in Terra d’Otranto, Grottaferrata 1922; A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, Roma 1939; G. Gabrieli, Inventario topografico e bibliografico delle cripte eremitiche e basiliane in Puglia, Roma 1939; M. De Marco, op.cit., pp. 7-19; AA. VV., Storia di Puglia, op. cit., vol. I, cap. 9, pp. 161-177, cap. 10, pp. 179-199, cap. 11, pp. 201-219; P. Schreiner, Problemi dell’iconoclasmo nell’Italia meridionale e nella Sicilia, in “Rivista Storia del Mezzogiorno”, Lecce 1979, pp. 115-128.
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presa difficile se non proprio impossibile se mancano documenti certi e non revocabili in dubbio, e ciò riguarda l’origine di Santa Maria de Novis (Novoli) e di Novule (Villa Convento), nomi antichi di questi insediamenti distanti circa due km. Nonostante tanti studi e le ipotesi più improbabili non si è riusciti a scoprire l’origine del nome di Novoli né quando esso si affermò. Tale termine certamente nacque e fu in uso tra il popolo che non si esprimeva con la denominazione latina degli atti ufficiali. Analogamente accade per la frazione, in antico detta “Nubilo” o “Novule” e addirittura “Novoli”, e ciò ha generato tanta confusione sicché, d’ora in poi diremo soltanto Novoli per indicare il paese, e Villa Convento per riferirci alla frazione che, com’è ovvio, così si denomina per esserci stato ivi un convento di Domenicani4.
I primi documenti reperiti a tutt’oggi che citano Novoli, risalgono rispettivamente al 1272 e al 1274. Il primo ci riferisce che Giovanni Capece al tempo era signore di Campi, di Novoli e di Bagnuolo; il secondo documento dice che gli abitanti di Santa Maria de Novule erano stati chiamati a testimoniare per una controversia fra Lecce e Squinzano. In questa seconda testimonianza si noterà che la dicitura del luogo è Sancta Maria de Novule e non, invece, Sancta Maria de Novis. Si tratta di un errore di chi aveva compilato il documento, oppure come si tende a credere si indicavano nello stesso tempo gli abitanti del casale e della frazione5?
Nel 1220 un altro documento cita Novoli come castrum, ossia luogo fortificato, che nel 1075 il normanno Maureliano, visconte di Lecce, aveva munito di torri per garantire il capoluogo della Contea di difese periferiche. E proprio intorno a queste difese, il Marciano e altri dicono, senza però alcun supporto documentario, che si sarebbe originata Novoli. Il documento del 1280 ci dice che le fortificazioni nel sito di Novoli erano sotto il comando di Galardo de Jamurinula.
Sulle difese militari del territorio dove poi sarebbe sorta Novoli, Enzo Maria Ramondini scrive, ma senza alcun supporto documentario, che tra la fine del XIII secolo e gli inizi di quello successivo, il luogo ebbe un’organizzazione difensiva, costituita dal castello normanno, trasformato nel secoli successivi in residenza fortificata, ed una serie di torri, delle quali così dice: «Torri di avvistamento e di difesa, a servizio dell’area fortificata, sorge-
4 Cfr., G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina 1976, voll. 3, vol. II, p. 410 e 489; G. Marciano, op. cit., p. 471; Cfr. inoltre, P. Salamac, Saggio di antropomastica e toponomastica novolese, in “Note di civiltà medievale-2”, Bari 1980, pp. 65-69; G. Spagnolo, Sulle origini del nome di Novoli (testimonianze e ipotesi), in “Spazio C.R.S.E.C.”, Novoli, dic. 1986, pp. 39-92.
5 Registri della Cancelleria Angioina, ricostruiti da R. Filangieri, Napoli 1957, vol. IX, aa. 1272-73, p. 65 e vol. XI, aa. 1273-77, Napoli 1958, p. 73.
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vano ad utile distanza e precisamente: alla Masseria della Corte, trasformata in colombaia, come molte costruzioni del genere, dopo il disarmo; è stata malamente rimaneggiata in tempi relativamente recenti; alla Masseria Pozzo Nuovo, demolita durante i lavori per la costruzione della strada ferrata che porta a Campi; sulla via di Trepuzzi, all’altezza del passaggio a livello della ferrovia che porta a Carmiano, ridotta anch’essa a colombaia, ha lasciato il nome alla contrada che si chiama «Palombaro»: fu sconsideratamente demolita in fase d’espansione edilizia; Torre Scianne, nei pressi della chiesa di S. Antonio, diede per molto tempo, il nome alla strada in fondo alla quale si trovava.
Una quinta torre ha lasciato – unica traccia – il toponimo ad una contrada, che sorge a SE dell’abitato fra le vie per Lecce e per Carmiano, e ove esiste un pozzo che porta incisa- su una colonna di pietra leccese- la data del 1127 certamente coeva per i motivi che illustreremo nell’edizione definita, dice ancora il Ramondini, aggiungendo che la disposizione delle torri a ventaglio – da nord a sud – con epicentro il castello, è un’ulteriore prova dell’importanza strategica che si annetteva al sito.
Da tutti questi elementi si può desumere che la quota di 37 metri, su cui sorge ora Novoli, fu fortificata, a vedetta e difesa dalla pianura circostante, da epoca immemorabile e che al primo tentativo d’impianto di un castello, nell’alto Medioevo, rimasto incompiuto o rovinato in parte, sia seguito quello che ha dato vita al fortilizio di piazza Margherita.
A ridosso di queste costruzioni (torri, palazzo, chiese e castello) si installò i primo nucleo abitativo dei profughi del casale distrutto. L’epoca in cui questo avvenne può collocarsi tra la fine del XIII secolo e i principi del XV secolo»6 .
Ancora qualche esile notizia che preferiamo riportare in lingua italiana e non nella originaria versione latina, e ciò per facilitare la comprensione del lettore che, volendo, potrà effettuare riscontri consultando quanto citato in nota. Nel 1291 Ugo di Brienne, Conte di Lecce, annoverava tra i suoi possedimenti i casali di Campi e di Villa Convento. Nel 1354 Tommaso Maramonte è feudatario di Campi, Firmigliano e Novoli, nonché della metà del casale di Bagnuolo. Nello stesso anno Giacomo de Avon risulta signore di Villa Convento e Magliano7 .
Le scarne notizie testè citate nulla ci riferiscono delle origini di Novoli e di Villa Convento, ci dicono soltanto che negli anni riportati i due casali
6 In Id., vol. XXV, aa. 1280-82, Napoli 1978, pp. 129 e 171-72. Cit. da E. M. Ramondini, Novoli di Lecce, Novoli 1977, pp. 18-19.
7 Libro Rosso di Lecce, introduzione e cura di P. F. Palumbo, Bari 1997, p. 132.
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già esistevano. E poi, i feudatari succitati, nonché quelli che riporteremo appresso, fatta eccezione per Novoli dei Mattei e dei Carignani, risiedettero nei loro feudi? È sicuramente improbabile perché costoro, al pari di tanti altri, dai loro possedimenti traevano soltanto benefici angariando le misere popolazioni del luogo tramite i propri sgherri.
Lo Stemma civico e l’Hosanna
Indugiando ancora sul medioevo novolese, sappiamo che al tempo il paese possedeva il proprio stemma civico che era ben diverso di quello odierno. Infatti esso raffigurava la Madonna di Costantinopoli, in stile bizantino, ossia in trono con Gesù Bambino in piedi sul grembo, tenendo la mano sinistra del Piccino, mentre con l’altra lo stringe amorevolmente a sé. Alla Vergine, che da tempo immemorabile era la Protettrice di Novoli, poi venerata dal XVIII secolo come Madonna del Pane per un miracolo che sarebbe avvenuto in quel tempo e di cui diremo appresso, nel 1664 subentrò come protettore del paese S. Antonio Abate.
L’immagine della Vergine di Costantinopoli, in rilievo come lo stemma dei Mattei e l’immagine di S. Antonio, appaiono sull’artistico capitello dell’Hosanna (Sannà), testimonianza del rito greco, sita sul lato di sinistra, quindi guardando Via Campi, della chiesa di S. Antonio Abate. Questo monumento, sul cui capitello si innalza una croce greca lapidea, risale al 1692 e fu smontato nel 1938 allorché si dovette far posto per la costruzione del campanile del Santuario antoniano, ma alcuni anni dopo, intorno al 1975, per volere del parroco don Gennaro D’Elia la stele venne ripristinata a poca distanza dal sito originario. Alta m. 4,60, compreso il basamento di m. 1,45, l’Hosanna nella stele marmorea misura m. 0,57 di diametro. Ritornando allo stemma civico di Novoli occorre annotare che quello antico mutò dopo l’unità d’Italia sia per lo spirito laicista che si era diffuso nella nazione e sia perché nel comune si era notevolmente sviluppata la viticoltura che portò, fino ad alcuni decenni fa, tanto benessere al paese, dove oggi purtroppo è pressoché assente la produzione per l’estirpazione dei vigneti e poi perché mancano i contadini. Il fiorire della viticoltura, agli inizi del secolo scorso risparmiata dalla fillossera che non colpì il Salento, rese Novoli meta ambita di alcuni industriale vinicoli del nord Italia, sicché nel paese i Martini, i Folonari e i Ferrari, tra gli altri, impiantarono propri stabilimenti che ovunque fecero conoscere il nostro vino, essenzialmente
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il negroamaro e la malvasia. Il periodo aureo della vitivinicoltura novolese sicuramente indusse a cambiare lo stemma civico che oggi raffigura tre grappoli d’uva pendenti da un tralcio obliquo da sinistra in basso, con due foglie. L’ufficializzazione di tale insegna risale a circa un secolo fa, essendo stata approvata nel 1922 in sostituzione della precedente che raffigurava un solo grappolo d’uva. Invero in tanto tempo il disegno dello stemma di Novoli è cambiato più volte, già perché nel 1880 apparivano tre grappoli d’uva, ma dieci anni dopo soltanto uno, mentre nella facciata del municipio i grappoli sono quattro e cinque le foglie. Finalmente per porre fine a questa confusione ventiquattro anni fa la Civica Amministrazione di Novoli ha chiesto ed ottenuto il riconoscimento ufficiale dell’arma cittadina, che è quella dei tre grappoli d’uva pendenti du un tralcio in diagonale con due foglie. A onor di cronaca, purtroppo, da decenni è tramontata l’epoca d’oro della viticoltura novolese, poiché di piante ne sono restate pochissime8 .
Il rito greco venne praticato a Novoli sicuramente fino ai primi anni del XVI secolo, e di ciò ne fa fede la testimonianza delle S. Visite dalle quali apprendiamo che in quel tempo si praticava ancora nel paese il battesimo per immersione. Con l’avvento del clero latino a mano a mano scomparve ogni traccia civile e culturale greca nell’area di Novoli.
Nel 1043 la Puglia è ormai in mano normanna, la regione viene divisa in dieci baronie, con Melfi metropoli. I Bizantini sono definitivamente cacciati dal Meridione d’Italia, che sotto i nuovi dominatori vive un periodo prospero e benefico. Il regno, con capitale Palermo, ebbe ben presto una organizzazione efficiente e centralizzata, che ricalcava in parte il modello bizantino. Tolleranti verso gli altri gruppi etnici e religiosi, i Normanni, seppero far collaborare e amalgamare Cristiani, Ebrei, Arabi, Bizantini e Longobardi, consentendo il fiorire di quella civiltà arabo-normanna che dette impulso e vigore alle lettere, alle scienze, alle arti e all’economia.
La stirpe normanna stabilitasi in Puglia fu quella degli Altavilla, dei quali un Goffredo prese il titolo di primo conte di Lecce nel 1055. Novoli trasse vantaggio dalla sua vicina posizione a Lecce, e le comunità monastiche bizantine del suo territorio, dopo un iniziale periodo di diffidenza, ebbero ben presto l’aiuto e la protezione dei Normanni i quali tramite il clero greco fecero leva sulla fedeltà delle popolazioni ellenofone per arginare lo spirito di insubordinazione sempre latente nei baroni e per rallentare la pressione della chiesa romana sul loro regno9.
8 Cfr., D. Levante, L’“Osanna” di Novoli, Galatina 1987; C. De Luca, Lo stemma araldico di Novoli: considerazioni a margine, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVIII, 17 luglio 2011, p. 26.
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Villa Convento
Antico quanto il casale di Novoli è quello di Villa Convento che nei documenti medioevali viene menzionato con le voci di Nubilo e di Novule. Nel 1695 dopo una lite annosa fu diviso tra Lecce e Novoli, e i tentativi successivi per riunificarlo al paese fallirono. Don Giuseppe De Luca, primo parroco della parrocchia del Buon Consiglio, meglio conosciuto come “Papa Pippiniellu”, nel 1925 firmò una memoria manoscritta sulle vicende di Villa Convento che il dott. Lorenzo Carlino pubblicò integralmente nell’aprile del 1997 su “lu Lampiune”. Tale memoria, dal titolo Breve cenno storico intorno alla contrada Feudo o Convento nel territorio di Lecce presso Novoli, prevalentemente riferisce quanto già si sapeva.
La frazione di Villa Convento, così detta negli atti ufficiali odierni, col vernacolo novolese è detta Cumentu o Fieu, ossia Convento o Feudo, ed essa dista circa 2 km. dal paese e sorge sulla provinciale per Lecce, inaugurata nel 1864, con un nucleo di case raggruppate attorno all’ex Convento dei Domenicani e con abitazioni e ville che un tempo apparivano sparse nel suo territorio, ma che oggi con moderne costruzioni realizzate nel secolo scorso configurano un centro urbano con strade e piazzetta. A Villa Convento da tempo memorabile, esistono cave di pietra tufacea, ora abbandonate, e qui spesso gli ambienti ipogei sono stati trasformati in residenze oppure sono stati adattati per le colture. Il Marciano, con evidente esagerazione, ci dice che il luogo era chiamato “Feudo nobile” per la “vaghezza del sito e nobiltà del luogo adorno di molti giardini, abbondanti frutti, olii e vini”. Qui, è evidente, lo storico di Leverano dimostra superficialità circa la derivazione etimologica del toponimo.
Papa Pippiniellu, ossia don Giuseppe De Luca, ci riferisce che la contrada di Villa Convento nell’alto Medioevo si denominava Nove “poiché i monaci basiliani fondando nell’attiguo territorio (oggi Novoli) la cappella ed il centro abitato, che poi nel corso dei secoli doveva meravigliosamente svilupparsi, ne risultò S. Maria de Nove, ossia l’attuale Novoli. La contrada fu detta “Convento” poiché la possedevano i PP. Domenicani, ma già prima i Basiliani. Il luogo e il convento, causa la soppressione degli ordini religiosi (da parte di Gioacchino Murat) furono ceduti a privati, e l’antica cappella fu il nucleo originario della piccola chiesa, poi divenuta parrocchia”. Villa
9 Cit. da P. Coco, Cedularia Terrae Idrunti, 1378, Taranto 1915. Cfr., L. Carlino, Breve storia di Villa Convento, in “lu Lampiune”, XIII, 1, aprile 1977, pp. 119-122; F. De Luca, La Diocesi leccese nel Settecento attraverso le visite pastorali, Regesti, Galatina 1984, p. 149.
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Convento, e non poteva essere diversamente, seguì le sorti della Contea di Lecce e dei signori feudali di Novoli e nel tempo le due comunità, pur citate distintamente nei rilievi, negli apprezzi e nei catasti, è sempre con un’unica denominazione, che variò nei secoli: cioè S. Maria de Novis, S. Maria de Novulis, S. Maria de Novule e, finalmente, nel 1595 sotto il definitivo nome di Novule. Quindi, secondo il De Luca, l’antichissima contrada del Convento avrebbe dato il nome di Novoli.
Abbiamo riportato quanto sostiene il De Luca per pura curiosità, e ci pare suggestiva l’ipotesi che il nome di Novoli derivi da Nubilo, ossia dall’antica denominazione di Villa Convento. Quell’attento studioso che è Antonio Politi ritiene invece, e lo condividiamo, che da Neobule derivi la voce Novoli e quindi Noule nell’espressione vernacola. Se a Neobule togliamo la prima e e la seconda b si legge Noule, e con la v al posto della b, egli dice, si legge Novule, Noule, e in tal caso non sarebbe che una parola di origine greca, che sta a significare nuova adunanza-assemblea di persone intorno alla chiesetta della Vergine che non poteva essere titolata se non Sancte Maria de Neobule da cui Noule, Noue, Novule, Novoli (Nouis- Novis), come si legge in vari documenti nel tempo. La storpiatura, conclude il Politi, se così si può dire, sarebbe avvenuta passando dal greco-dialetto all’italiano-latino volgare10 .
La toponomastica novolese è ricca di riferimenti a torri erette nel periodo normanno e nelle epoche successive. Nel paese esistevano le torri denominate Torrescianne (via Roma), Turrecchia e Pozzonuovo, tutte sono state distrutte lasciando però il nome alla contrada. Tuttavia le torri che riuscirono a sfuggire alla distruzione furono quelle del feudo di Nubilo, ossia di Villa Convento.
Nel Regno di Napoli sin dal tempo dei Normanni furono imposte parecchie gabelle, che non è del tutto possibile precisare, com’è difficile riesce a conoscere le condizioni finanziarie, essendo allora il potere regio assai limitato dal particolarismo baronale, che a sua volta imponeva proprie tasse. Da una disposizione di Guglielmo II d’Altavilla, tuttavia, si apprende che si pagavano le gabelle “Dohanas tam terrae, quam maris, forestagia, plateatica, passagia et alia tam coetera jura, quam nova”, le quali si esigevano per appalto che ordinariamente era di tre fiori d’argento, per ogni 12 marche. Federico II introdusse nel 1218 le collette che tutti dovevano pagare come tributi ordinari, secondo la proporzione di beni.
Sulla politica delle imposte, notizie più chiare abbiamo al tempo degli Angioini. I regi tesorieri erano adibiti per vigilare all’esatta ripartizione dei
10 Cit. da A. Politi, Timme ci su stato, Gruppo Teatrale Novolese “La Focara”, Novoli 1991, p. 63.
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tributi e a non esentare nessuno della sovvenzione generale, la quale non poteva neppure essere diminuita senza il consenso della Regia Curia. Per ovviare ad inconvenienti dovuti alle indulgenze degli esattori a discapito dell’erario pubblico, si facevano collezionare di tanto in tanto i quaderni particolari di alcune provincie ai quaderni delle prime e seconde scadenze. Un simile ordine fu dato da Carlo I d’Angiò per le Terre di Bari e di Otranto. Nell’eseguirlo si riscontrarono alcune famiglie alle quali era stata diminuita la sovvenzione e anche occultata. Allora si ordinò di rimediare a tale difetto aggiungendovi il pagamento di un altro augustale (l’augustale di oro era del valore di un quarto di oncia, ossia 15 carlini e pesava sei trapesi, uguali a 20 carati) per i primi due mesi dell’anno 1272.
Dai Cedularia (scritture dell’Archivio di Stato, ove si incontrano nomi di persone insigni, di arti, di armi, di uffici, di consuetudini etc.) dello stesso Carlo I si rileva che egli sei volte all’anno faceva raccogliere delle collette equivalenti a un augustale. Come poi si facesse l’apprezzo dei beni dei cittadini, per poter regolare l’esazione delle collette, si rileva molto bene da un documento di Carlo I d’Angiò del 1271, diretto all’Università di Matera.
Durante la dominazione angioina il numero dei tributi si accrebbe in modo considerevole per le disastrose condizioni economiche del regno. I cedolari del tempo ne sono testimonianza probante.
Nei Cedolaria Terrae Idronti, che contiene l’intestazione dei feudi e dei baroni di Terra d’Otranto, composto tra il febbraio 1377 e il maggio 1380, nel tempo di Carlo I di Durazzo (1376-1382), si rileva che non è citato il casale di Novoli che, per la sua inconsistenza, certamente ai fini tributari era stato aggregato a Lecce.
Il Cedulario si offre per una ricognizione demografica ed economica del tempo a cui si riferisce. In esso sono elencati tutti i paesi della provincia con a lato l’indicazione della tassa, in ragione del numero delle famiglie in once, tarì e grani, imposta a ciascuna terra abitata. Le scorrerie dei Greci, degli Ungari e più tardi dei Turchi, nonché le terribili epidemie, carestie e terremoti, del XIV secolo desolarono la nostra provincia, alla quale le guerre di successione tra Angioni e Aragonesi diedero il definitivo tracollo.
Perciò il numero delle terre abitate varia sensibilmente durante la dominazione angioina e , per le ragioni suddette, va scemando sempre più nel periodo aragonese, fino a ridursi nel 1505 a paesi
161 con un numero di fuochi 17084, con circa 85420 abitanti, che realmente erano stati molto di più negli anni precedenti. Da un documento dell’anno 1278, dell’Archivio di Stato di Napoli, si apprende che il re Carlo I ordinò l’elezione dei giudici delle terre e città demaniali, nonché dei maestri giurati nel-
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le terre baronali. Dallo stesso documento ricaviamo il numero di terre abitate e degli abitanti di ciascuna provincia; 212 erano i centri abitati in Terra d’Otranto nel 1278, pochi di meno un secolo dopo. Dalla Sovvenzione generale, poi, imposta nello stesso anno 1278 dal re Carlo, troviamo che la provincia di Terra d’Otranto era tassata per once 3445, tarì 17 e grana 8. Dal cedolario qui citato, dopo più di cinquant’anni, si rileva che era tassata per once 3505, ricavate da 14290 famiglie che danno approssimativamente 71450 abitanti11 .
I signori di Novoli
Sui possessi feudali al tempo dei Bizantini non ci è giunta alcuna notizia, per cui occorrerà attendere la dominazione normanna per sapere qualcosa sul casale di Novoli, e così pure del periodo angioino, allorché Carlo I d’Angiò nel 1271 investì del possesso della Contea di Lecce Ugo di Brienne. Il sovrano in quel tempo aveva confiscato il feudo di Novoli, con altre terre, a Giovanni Capece perché coinvolto nella congiura dei baroni fedeli al normanno-svevo Manfredi (1268-69), figlio di Federico II, capeggiata dal signore di Corsano Corrado Capece, congiunto di Giovanni.
I Capece, quindi, in virtù delle notizie che abbiamo, furono i primi signori di Novoli. Probabilmente furono infeudati dai Bizantini, in un primo tempo, ed in seguito ebbero la conferma dei loro possedimenti dai Normanni della Contea di Lecce. Gli Angioini sostituirono ben presto nel loro regno l’antica a nobiltà normanna, sicché Novoli che al tempo contava circa 100 famiglie, più o meno 600 abitanti, fu infeudata a Raynone de Caniana a cui succedette il figlio Bernardo che tenne il possedimento fino al 1315, anno in cui Novoli ritornò a far parte dei beni del Conte di Lecce Gualtieri IV di Brienne, da cui venne ceduta a Bernardo Capitignano, che nel 1348 vendette il feudo a Cervo de Palmerio.
L’epoca angioina, com’è noto, non fu particolarmente felice per i territori meridionali, l’esoso fiscalismo dei nuovi dominatori fece presto rimpiangere il periodo normanno, e poi diverse calamità tra XIII e XV secolo funestarono il regno. Le epidemie, di cui la più grave scoppiò nel 1296, le scorrerie aragonesi e saracene, il tremendo terremoto del 1456 e prima ancora la peste bovina e il carbonchio, causarono nel 1270 la desolazione, la miseria ed una impressionante contrazione della popolazione.
11 Cfr., F. Tanzi, La Contea di Lecce, Note e documenti, in “Archivio Storico Salentino”, fasc. I, Lecce 1894, pp. 22-27; AA. VV., Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di B. Vetere.
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Gualtieri IV di Brienne per la sua vita avventurosa non si interessò gran che dei suoi possedimenti salentini. La lotta tra i Del Balzo e i Sanseverino per la successione al Principato di Taranto scissero le sorti di Novoli e di Villa Convento, dando l’avvio a una contesa giudiziaria che si concluse nel 1695, sotto i Mattei.
Nel 1353 Tommaso Maramonte risulta infeudato di Novoli, nello stesso anno in cui era signore di Villa Convento Giacomo de Nove. A Tommaso Maramonte succedette il figlio Filippo, che ricevette l’investiture del feudo nel 1369, a lui il figlio Carlo, che ne fu infeudato dal re di Napoli Ladislao d’Angiò-Durazzo il 24 aprile 1406. Carlo fu padre di Raffaele e di un altro Carlo che sposò Audisia de Pactis, senza però averne figli.
Lecce, capitale dell’omonima Contea, di cui faceva parte il casale di Novoli, per le sue necessità finanziarie chiamava in causa gli abitanti del suo territorio, e così dovendosi fare i fossati delle mura della città, nel 1372 il conte Giovanni d’Enghien impose a Novoli la contribuzione di 9 once, 28 tareni e 5 grana.
Nel 1406 la Contessa di Lecce Maria d’Enghien ordinò lo sterminio dei lupi che infestavano le sue terre, quindi anche Novoli che è citata nel suo Codice, ove pure si legge che il nostro paese con gli altri casali della contea doveva contribuire con 5 once e 15 tareni d’argento per il rifacimento delle mura di Lecce12. Nel 1417 Giovanni Antonio Orsini del Balzo, figlio di Maria d’Enghien e di Raimondello, è signore di Novoli che, con altri possedimenti di questo potente, viene esonerata dalla decima sulla pigiatura delle uve, che viene sostituita con il dono simbolico di un “crogiolo di spirito di vino della prima spremitura, effettuata il primo giorno di vendemmia”. Ciò fa supporre che dopo i Capitignano e i de Nove, i feudi di Novoli e di Villa Convento furono di nuovo riuniti nella Contea di Lecce.
Nel 1423 il feudo di Villa Convento appartiene ad Antonello Guarini e a questo casato fu tolto nel 1530 dalla Corte di Napoli per ribellione contro Carlo V. Ma già prima i Guarini erano incappati nei guai, poiché il 10 maggio 1483 il re Ferdinando I d’Aragona concesse l’assenso all’obbligazione dei beni feudali di Gabriele Guarino anche sul casale di Villa Convento,a garanzia del debito di 500 carlini d’argento dovuto al figlio Giacomo Francesco. Tuttavia il 15 settembre di quattordici anni dopo Alfonso II d’Aragona confermò a Vincenzo Guarini e ai suoi eredi il possesso del casale di Villa Convento13 .
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Il diploma di Giovanni d’Enghien è riportato da Aar (Luigi Giuseppe De Simone), Studi Storici in Terra d’Otranto, Firenze 1888, pp. 219; cfr., M. Pastore, Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1978, p. 68.
13
In Regesto della Cancelleria Aragonese di Napoli, a cura di J. Mazzoleni, Napoli 1951, pp. 32 e 145.
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Ritornando al casale di Novoli, alla morte di Carlo Maramonte succedé Raffaele che ricevette conferma del possesso del feudo nel 1468. Raffaele fu padre di Carlo, Orlando e Tommaso, il primo dei quali Carlo Maramonte sposò Antonia Protonobilissimo da cui ebbe Filippo Antonio e Bernardino, il quale succedette alla sua morte avvenuta il 20 maggio 1476 e sposò nel 1479 Isabella di Sansone Sanseverino, Contessa di Capaccio, dalla quale, però, non ebbe figli, per cui a lui succedette il nipote ex frate Filippo Antonio, Bellisario che sposò nel 1494 Giulia di Luigi Paladini da cui ebbe due figli: Federico nel 1497, che morì fanciullo, e Giovanna che gli succedette alla sua morte avvenuta il 9 marzo 1510. Giovanna, morta nel 1538, sposò in prime nozze Bernardo Peruzzi ed in seconde Gio. Carlo Guarini, ma nel medesimo anno 1518 vendette il feudo di Novoli a Maria Quatrara che lo rivendette alla Regia Corte14 .
La vita a Novoli durante il medioevo
Il casale di Novoli comunicava facilmente con i paesi e con le campagne circostanti, mediante una rete ben articolata di strade e di viottoli. Il nucleo primitivo del paese era costituito dal rione dell’Immacolata, dal territorio intorno alle tre laure, dalle vie Pendino e Moline. Difficoltà per l’approvvigionamento dell’acqua potabile non mancarono ai primi abitanti di Novoli, poiché la zona, pur abbondando di falde freatiche piuttosto superficiali, ma salmastre, consentiva l’emungimento dell’acqua dolce solo a notevole profondità.
La vita dell’uomo novolese, durante il Medioevo, era quella misera e grama di ogni altro uomo del suo tempo che non fosse nobile o ecclesiastico. Il potere feudale, giudiziario ed economico, gravava la gente e la proprietà con i suoi usi ed abusi, tasse, decime e balzelli. Consuetudini barbariche vessavano i servi della gleba, i pastori e quanti altri cercavano di esercitare l’attività artigianale o commerciale, attività che spesso erano legate alle necessità del feudatario, il quale era l’esclusivo proprietario del suolo, e delle acque; costui obbligava a molire le olive nel proprio trappeto e a macinare il grano al suo mulino.
L’economia dei novolesi si fondava essenzialmente sull’agricoltura e, in minor misura, sull’allevamento. A determinare questo indirizzo economi-
14 Cit. da L.A. Montefusco, Le successioni feudali di Terra d’Otranto, vol. 2, vol. I, La provincia di Lecce, Lecce 1994, p. 447-451. Cfr., Id., Nobiltà del Salento, vol. 5, Lecce 199-2004. Cfr., Libro Rosso di Lecce, con traduzione e cura di P.F. Palumbo, voll. 2, vol. I, Bari 1997, p. 132; P. Coco, op. cit., pp. 135-136.
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co subentravano fattori di natura storica e geografica. Il centro era lontano dai porti, risentiva dell’isolamento causato dalle foreste che lo circondavano sicché poteva offrire soltanto i prodotti della campagna. Gli abitanti del villaggio erano costretti a condurre un’esistenza grama, appena garante del solo sostentamento, poiché poco o niente veniva loro lasciato dalla rapacità feudale e dagli interessi ecclesiastici, invero cospicui, rappresentati da beni immobili, terreni, case, provenienti dai lasciti dei fedeli pro remedio animae e baroni e clero si preoccupavano di spremere il popolo, vivendo su di una economia parassitaria mai migliorata per promuovere, anche, l’evoluzione morale e materiale della gente. L’economia del Salento fu organizzata nel Medioevo dal monachesimo bizantino che nei primi tempi, invero, cercò in ogni modo di sollevare le condizioni della gente, con fiere e mercati, ristrutturando l’agricoltura, bonificando i terreni paludosi e introducendo il rapporto della colonia. I calogeri greci introdussero la quercia vallonea dalle cui grosse ghiande ricavavano il pane, reintrodussero la coltivazione dell’olivo e accanto alle loro cappelle costruivano abitazioni composte da qualche vano a piano terra con tetti di canne (cannizzi) ricoperti di tegole (embrici) cotte in loco da essi stessi. In pari tempo si provvedeva a costruire le opere necessarie alla vita domestica del nucleo: l’aia, le fosse granarie, il palmento, il trappeto, la stalla, la cisterna, il pozzo, etc. Un tipo, questo, di economia curtense che a mano a mano si evolse sempre di più con l’organizzazione di fiere e mercati che incrementavano così i contatti con le popolazioni dei casali ai fini dello scambio e dello smercio dei prodotti e del bestiame.
La famiglia novolese vive a in ambienti angusti, spesso i più poveri alloggiavano in tuguri, in promiscuità con gli animali. La mortalità infantile era altissima, né la numerosa figliolanza riusciva nell’alto Medioevo a incrementare la popolazione che regolarmente veniva falcidiata da guerre, scorrerie, epidemie e carestie. A tutto ciò si aggiungevano gli abusi che rendevano inumana la vita delle plebi15. Pur essendo prevalente l’economia agricola, i Novolesi si dedicavano all’artigianato per soddisfare i bisogni del paese ed anche per esportare i loro prodotti nei centri vicini, ma anche oltre. Dato che il casale era circondato da boschi, non pochi abitanti del luogo, come altri della Contea di Lecce, si dedicavano ai mestieri del carbonaio e del legnaiolo onde soddisfare i quotidiani bisogni delle famiglie, i forni e il riscaldamento della gente nei mesi freddi. È però ampiamente documentato che i Novolesi ed altri rifornivano di legna la Zecca di Lecce nel XV secolo,
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Cfr., L. Carducci, Storia del Salento. La Terra d’Otranto dalle origini ai primi del Cinquecento. Società, religione, economia e cultura, Galatina 1993, pp. 386 sgg.; M. De Marco, op. cit., pp. 10 e sgg.
per la fusione dei metalli necessari per realizzare le monete. La Zecca in questione fu voluta da Giovanniantonio Orsini del Balzo che la allocò nella Torre del Parco.
7) I carbonai novolesi fornitori della Zecca di Lecce.
Con la morte di Maria D’Enghien, contessa di Lecce, avvenuta il 9 maggio 1446,all’età di 79 anni, il figlio suo Giovanniantonio Orsini del Balzo ereditò vastissimi possedimenti, ossia il Principato di Taranto, che includeva la Contea di Lecce. Com’è noto prima della scoperta dell’America il Mediterraneo costituiva l’epicentro di ogni attività economica e perciò il Meridione d’Italia prosperava, in particolare Lecce, dove si erano stabilite colonie di mercanti, veneziani, genovesi, fiorentini, etc., e potente era la comunità ebraica, nonostante i divieti e le restrizioni che la riguardavano.
Il Principato di Taranto per ragioni politiche ed economiche appariva come uno Stato nello Stato; Lecce poteva essere considerata la seconda città del Regno partenopeo, dopo Napoli, fiorivano non solo i traffici ma anche le lettere e le arti e il suo vasto territorio nel XV secolo godeva di un immenso patrimonio boschivo, la “Grande foresta di Lecce” che interessava soprattutto i casali a nord della città, tra i quali Novoli.
La grande foresta di Lecce costituiva un’importante risorsa economica per l’utilizzo del legname indispensabile per fondere i metalli, una volta ridotto a carbone, per il riscaldamento, la cucina e per tante altre attività pure di tipo artigianale. Purtroppo già nel XVIII secolo sia per il disboscamento dissennato, sia per la crescita della popolazione e ancora per la necessità di porre a coltura nuove terre, la foresta di Lecce era già divenuta un lontano ricordo16. La potenza di Giovanniantonio Del Balzo Orsini, figlio di Raimondello e di Maria D’Enghien, derivava dalla sua scaltra e spregiudicata
16 Vastissimi erano i possedimenti di Giovanniantonio Del Balzo Orsini che fu principe di Taranto, duca di Bari, conte di Lecce, Acerra, Soleto e Conversano dal 1406, signore di Altamura, conte di Matera dal 1433 e di Ugento dal 1453. Possedette 400 castelli, 70 città vescovili e 30 città arcivescovili, un patrimonio, quindi, pressoché equivalente a quello del re. Fu Gran Connestabile del Regno. Per la sua politica ambigua il re Ferrante d’Aragona e altri nemici ordinarono contro di lui una congiura, sicché il 15 novembre 1463 Giovanni Antonio fu strangolato nel castello di Altamura. La sua salma fu trasportata nella chiesa di S. Caterina, a Galatina, dove fu tumulata. Cfr., M. De Marco, op. cit., pp. 26-29; G.C. Infantino, Lecce Sacra, Lecce 1634, ora a cura di M. De Marco, Gallipoli 1988, pp. 213-214; N. Bodini, Il demanio della città di Lecce, Lecce 1916.
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politica, alleandosi ora con gli Angioini e ora con gli Aragonesi, traendo di volta in volta privilegi e benefici. E appunto allorché Giovanni Antonio si alleò con Giovanni d’Angiò, candidato alla corona di Napoli, ottenne la facoltà di istituire una zecca a Lecce, dove vennero coniati tornesi di puro rame, carlini d’argento con impresso il giglio di Francia, indi nel periodo aragonese, nel 1460 e poi nel 1485 rispettivamente le “Sirene d’argento” e i “Cavalli di rame”, entrambi con l’effige di Ferdinando I d’Aragona. La flotta di Giovanniantonio importava metallo prezioso dall’Oriente e dalla Dalmazia, tuttavia i suoi contemporanei lamentavano che il conio di Lecce produceva mala moneta in quanto conteneva poco metallo prezioso, oro o argento. Dopo il 1460 la zecca di Lecce conia, a nome di Renato d’Angiò, il carlino (o gigliato) d’argento, con croce duplicata di Lorena o doppia croce d’Angiò. Tale emissione presenta al diritto il re in trono con la lettera L (ossia LICI= Lecce), sulla quale, a destra, appare un giglio; al rovescio la croce duplicata di Lorena accantonata da gigli.
Tra il 1460/1461, Giovanniantonio commissiona a Sulmona, sempre a nome di Renato d’Angiò, il carlino del duca Giovanni, figlio di Renato. La moneta presenta al diritto il re in trono con l’acronimo smpe (Sulmo mihi patria est = Sulmona è la mia patria. Qui è chiaro il riferimento ad un verso di Ovidio che, appunto, era di Sulmona) in cartella e al rovescio le armi inquartate di Lorena, Bar, Gerusalemme, Napoli e Ungheria. Nei due esemplari le legende sono uguali, sicché al diritto si legge: renatus d(ei) g(ratia) r(ex) si(ciliae) (et) hier(osolymae) (Renato, per Grazia di Dio, re di Sicilia e di Gerusalemme) e, al rovescio, honor r(egis) iudiciu(m) diligit (L’onore del re predilige l’esercizio della giustizia).
Si sa che tra il 1461/62 Giovanniantonio fece coniare una grande quantità di tornesi, di cui oggi non ci è pervenuto alcun esemplare, realizzati, in “bassa lega”, dal Maestro Antonio Valente di Lecce17. Nel periodo aragonese, nel 1460 e poi nel 1485 vennero coniate rispettivamente le “Sirene d’argento” e i “Cavalli di rame”, entrambi con l’effige di Ferdinando I d’Aragona. Le “Sirene d’argento”, sia pure con qualche modifica furono emesse fino al 1497, ma mentre quelle più antiche sul recto effigiavano uno scudo a testa di cavallo con lo stemma aragonese sormontato dalla corona regia e con attorno la legenda ferdinandus d(ei) g(ratia) r(ex) si(ciliae) (Ferdinando re di Sicilia per grazia di Dio), sul retro un ermellino movente da sinistra, con sopra, in un nastro, scritto decorum, attorno, in alto, serena omnia (Il
17 Cfr., A. Sambon, I tornesi falsi di Ferdinando I d’Aragona coniati a Napoli, a Barletta, a Gaeta, a Cosenza, a Lecce, a Capua et a Isernia, in “Supplemento... Cangiati”, III, nn. 5-7 (1913), pp. 15-21.
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decoro di ogni cosa) e sotto, fra due rosette, lici (Lecce). Queste monete che più tardi si fregiarono dell’effige di Ferdinando II, altro non erano che le famose “armelline”. L’armellino, variante di ermellino, alludeva all’Ordine Equestre omonimo, fondato dal re Ferdinando I, e la moneta fu coniata a ricordo del perdono concesso dal Re ai seguaci di Casa d’Angiò che gli si erano ribellati18.
Tra il 1495-96 vennero coniate armelline in argento a nome di Ferdinando II d’Aragona, con F (Ferdinandus = Ferdinando) nel campo e a rovescio. Infine, tra il 1495-1501, a nome di Federico III d’Aragona, vi fu l’emissione di ermellini in argento, con F(F redericus = Federico) nel campo e a rovescio. Secondo Luigi Maggiulli, sulla scorta di antichi documenti, a Lecce sarebbe avvenuta la coniazione di “corone d’oro”, al tempo del re Carlo VIII di Francia19 .
Per quanto attiene l’ubicazione della Zecca di Lecce l’Infantino riferisce che ebbe sede nella Torre del Parco che Giovanniantonio iniziò a far costruire nel 1419 per destinarla a propria residenza. Altri, come il De Simone e il Palumbo ritengono che la Zecca leccese sia stata ospitata nei locali del castello normanno, che poi fu incluso nell’attuale, voluto dall’imperatore Carlo V. A sua volta il Paone scrive che la Zecca avrebbe avuto sede nelle adiacenze del palazzo ritenuto dai Conti di Lecce, nell’attuale piazzetta Pellegrino, che nella toponomastica cittadina antica veniva denominata piazza della Zecca20 .
Per quasi un secolo funzionò la Zecca leccese, e per alimentare forni e crogiuoli quotidianamente alla Torre del Parco, o altrove, giungevano carri colmi di carbone, ivi portati dai fornitori. Uno studio a cura di Luciana Petracca21 riporta i nomi dei carbonai novolesi, nonché i rispettivi pagamenti relativi alle forniture di carbone effettuate negli anni 1461/62. Da tale pregevole studio, pertanto, abbiamo estrapolato i seguenti nominativi di novolesi:
- Die XXI (settembre 1461) sono stati pagati ad Donato Thoscano et soy companghi di Sancta Maria de Nove per salme doy et sacco uno de carbuni tarì I grana VI e mezzo.
- Die XXIIII octobris (1461) so’ stati pagati ad Finiguerra de Sancta Maria de Nove per sacchi quattro di carbuni grana X.
- Die XXVI eiusdem so’ stati pagati ad Ianne Verre de Sancta Maria de Nove per sacchi septe de carbuni grana X.
18 Cfr., G.M. Fusco, Notizie intorno alla zecca di Lecce, in “Annali di Numismastica pubblicati da G. Fiorello”, Roma 1846, pp. 190-200.
19 Cfr., L. Maggiulli, Monografia numismatica della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1871, pp. 34 e sgg; N. Vacca, Memorie metalliche salentine, Napoli 1962.
20 Cfr., P. Palumbo, Storia di Lecce, Galatina 1992, pp. 111-114; L.G. De Simone, Gli studi storici in terra d’Otranto del signor Ermanno Aar, in “Archivio storico italiano”, 1883, IX, p. 211.
21 Cit. da L. Petracca (a cura di), Quaterno de spese et pagamenti fatti in la cecca de Leze (1461/6).
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- Item so’ stati pagati ad Iuliano de Sancta Maria de Nove per salma una de carbuni grana XVIII.
- Die penultimo eiusdem so’ stati pagati ad Antonio Macciotta (Mazzotta) de Sancta Maria de Nove per some doy et sacco uno de carbuni ad grana due i la soma tarì I e grana VI e mezzo.
- Die V novembris so’ stati pagati ad Pedro Spagnolo ed doy suoi companghi per some tre de carbuni ad grana quindeci la soma tarì II e grana V.
- Item so’ stati pagati ad Iuliano de Sancta Maria de Nove per sacchi septe de carbuni ala dicta rasone tarì I e grana I.
- Item so’ stati pagati ad Antoni Macciotta (Mazzotta) de Sancta Maria de Nove per sacchi quattro de carbuni ad essa rasone grana XII.
- Die VII decembris so’ stati pagati ad Cola Macciotta (Mazzotta) de Sancta Maria de Nove per sacconi septe de carbuni grana XVI.
- Item ad Pietro Calò per salma una grana XII.
- Die XI ianuarii (1462) ad Cola Verre de Sancta Maria de Nove per sacchi tre de carbuni grana VIIII.
- Item ad Agrimi de Sancta Maria de Nove per sacchi II grana VI.
- Dei XX eiusdem so’ stati pagati ad Stephano de Luca de Sancta Maria de Nove per sacchi quattro de carbuni grana XV.
- Dei XXI eiusdem so’ stati pagati ad Lallo Spagnolo per soma una de carbuni grana XV.
- Eodem die so’ stati pagati ad Angelo greco de Sancta Maria de Nove per sacchi tre de carbuni grana X.
- Die XXVI eiusdem so’ stati pagati ad Fingiguerra de Sancta Maria de Nove per soma una de carbuni grana XV.
- Item ad Lillo de Sancta Maria de Nove un’altra grana XV.
- Item ad Stephano de Luca del dicto casale per soma una grana XII.
- Item ad Petro Cutrone per sacchi undeci tarì uno, grana sexdeci.
- Item ad Francisco Passante per sacchi quattro grana XII.
- Die XXVIII eiusdem so’ stati pagati ad Fingiguerra de Sancta Maria de Novis per sacchi quattro de carbuni grana XII.
- Die penultimo ianuari so’ stati pagati ad Petro Leuchi per soma una de carbuni grana XV.
- Die XVIIII februarii ad Agrimi de Sancta Maria de Nove per soma una (de carbuni) grana XVIII.
- Die XII de marcii a Saraceno de Sancta Maria de Nove per soma una (de carbuni) grana XV.
- Die XV a Ioanne Toscano de dicto casale per soma una (de carbuni) grana XIII.
- Die XVIII so’ stati pagati ad Iohanne Verre de Sancta Maria de Novis per soma una (de carbuni) grana XII.
- Die XXII eiusdem so’ stati pagati ad Cola Grasso per sacchi quattro de carbuni grana XII.
- Item ad Agrimi de Sancta Maria de Novis per soma una (de carbuni) grana XV.
- Die XXVI marcii so stati pagati ad Antoni Macciotta (Mazzotta) per soma una (de carbuni) grana XVI.
- Die primo aprilis so’ stati pagati ad Petro Spagniolo per soma una de carbuni grana XV.
- Die eiusdem so’ stati pagati ad Saracino de Sancta Maria de Nove per sacchi sacchi duy de carbuni grana IIII.
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- Die III eiusdem Antonio Gurreri de Sancta Maria de Nove per soma una (de carbuni) grana XII.
- Die XXI maii Saraceno de Sancta Maria de Novis per soma una (de carbuni) grana XII.
- Die XXV Saraceno de Sancta Maria de Nove per sacchi tre (de carbuni) grana VIII.
- Die ultimo Lillo Spagnolo de Sancta Maria de Nove per soma una (de carbuni) grava XV.
- Die II iunii Iuliano de Sancta Maria de Nove per sacchi quattro (de carbuni) grana XIII.
- Die XXVI Antonio de Helia et Saraceno de Sancta Maria de Nove per soma una et sacchi grana XVI.
Il “Quaterno de spese et pagamenti” si interrompe il 28 maggio 1462 per quanto attiene le forniture di carbone che appaiono effettuate da cittadini di Novoli, Campi, Salice, Carmiano, Aradeo, Cutrufiano e Guagnano. Da notare che in pochi mesi il prezzo del carbone era aumentato notevolmente22.
Continua la feudalità
Ritornando alle successioni feudali ricordiamo che non solo da autoctoni era costituita la popolazione novolese, dove per la ricchezza agricola ed il commercio giunsero non pochi forestieri che ivi fecero famiglia imparentandosi con gente del luogo. È questo il caso di Vittorio de Prioli Senior che di certo nacque a Novoli da Jacopo e da una Buccarelli, ma costui non va confuso, come lo è stato, con l’omonimo nipote (1538-1623) che fu persona dottissima, ebbe palazzi a Lecce, di cui fu sindaco nel 1628. I Prioli, probabilmente di origine veneziana, giunsero a Novoli con Colella durante il regno aragonese ai primi del Quattrocento, per il commercio dei cavalli. Nel nostro paese avevano ottenuto di costruire una cavallerizza e accanto a questa, di seguito, il palazzo baronale, con lo stemma del loro casato: un albero di pino terrazzato, che ancora si scorge sul frontespizio d’ingresso della loro dimora, in via Umberto I.
Vittorio de Prioli Senior sposò Caterina (o Caterinella) Mattei figlia di Paolo Mattei e di Giovanna Capece, dalla quale ebbe Jacopo, Paolo e Melchiorre. Egli, come si è detto, col suocero aveva acquistato il feudo di Novoli, nel 1520, dal Viceré Raimondo de Cordona per 6850 ducati. Trasferitisi a Lecce con Vittorio junior, l’illustre umanista, i Prioli ebbero storia nel capoluogo salentino, e la loro discendenza diretta e indiretta si estinse nel XVII secolo. Vittorio de Prioli jr., che alcuni vogliono nato a Novoli e altri a Lecce nel 1538, da Melchiorre terzo figlio del suo omonimo nonno, morì nel mese di settembre del 1623 e il suo corpo fu sepolto nella cripta della Cattedrale
22 Cit. da Id., pp. 38-50.
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di Lecce nella tomba gentilizia dei de Prioli, ai piedi dell’altare dedicato alla Madonna di Costantinopoli. Appena ventenne aveva sposato Giovanna Paladini, figlia di Luigi Maria, barone di Campi, ma dal matrimonio non nacquero figli. Persona assai facoltosa, Vittorio jr. sia per interessi sia per parentele restò, comunque, sempre legato a Novoli, ma è noto soprattutto a Lecce dove nella piazza dei Peruzzi acquistò, ancora in costruzione, il palazzo Giaconìa, oggi Istituto dei Ciechi “Anna Antonacci”, e nei pressi di questo stabile ebbe il proprio palazzo ed un altro ancora nell’attuale via Maremonti. Di lui si è scritto che era “un uomo dottissimo e coraggiosissimo e servì la Corte romana (del Papa) per molto tempo ed era accettatissimo dalla Repubblica Veneziana e per li suoi meriti fu creato Conte Palatino”. Egli si insediò nel palazzo appena acquistato che dotò di cimeli e di opere d’arte, e a tal proposito Guglielmo Paladini riferisce che “fu profondo costudioso di cose patrie, e competitissimo in archeologia. Accompagnato dal suo parente ed amico D. Claudio Falconi, barone di Latiano, eseguì scavi profondi e sistematici sulle rovine di Rugge e di Salapia e nelle campagne salentine. Raccolse un vistoso patrimonio di cose antiche, che andò disperso dopo la sua morte. Si dedicò al servizio di Lecce, della quale fu sindaco nel 1593”.
Intorno a Vittorio jr., nel palazzo già Giaconìa, si raccolse un cenacolo di letterati e artisti, ed egli stesso fu fecondo scrittore e poeta. Di lui conosciamo la Storia delle famiglie nobili di Lecce, la Storia delle scorribande turchesche della Provincia, il Sonetto a Santa Irene, il Sonetto ai PP. Gesuiti, le Lettere a G. Antonio Ferrari, intorno alla famiglia Paladini di Lecce.
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L’eta’ moderna
La signoria dei Mattei
Con la morte di Giovanni Antonio Orsini del Balzo, avvenuta ad Altamura nel 1463, la contea di Lecce passò agli Aragonesi e della città salentina prese possesso Ferrante I, nipote del re di Napoli. Col dominio aragonese Lecce ottenne privilegi e immunità, tuttavia il XV secolo venne funestato da diverse circostanze, tra le quali l’epidemia del 1466-68 e le nevicate che con la rovina delle campagne causarono una tremenda carestia. Il territorio salentino subì il flagello dei Turchi che, nel 1480, espugnarono Otranto. L’anno dopo la peste mieteva oltre quindicimila vittime nella provincia, e nel 1484 i Veneziani portavano la guerra nel Salento per assicurarsi i capisaldi per il loro commercio. Nel 1438 una decisione di Ferrante I d’Aragona incrinava notevolmente il sistema feudale. Il re promulgava una Magna Charta con la quale dava piena liberazione ai servi della gleba e stabiliva che l’investitura del feudo dovesse estendersi per giurisdizione e non per possesso1. Questo provvedimento creò subito il malcontento dei baroni, i quali nel 1485 congiurarono contro Ferrante I che a mala pena riuscì a domarli. La politica dell’aragonese mirava a liberare la corona dai condizionamenti feudali, e perciò si appoggiò al popolo ed alla borghesia, affrancò molte città dai vincoli feudali dichiarandole “regie”. Occorre notare che egli, col proposito di cogliere i favori del popolo, nella Prammatica del 23 luglio 1466 aveva dato ad ognuno la libera facoltà di commerciare i frutti della terra senza impedimento da parte dei prelati, conti e baroni, che usavano imporre l’esclusività del loro acquisto ai prezzi da loro stabiliti, e aggravò il contrasto nel 14 dicembre 1483, quando tolse la privativa delle osterie e degli alberghi ai baroni2. In questo periodo a Novoli all’elemento greco-salentino si aggiungono già nuove famiglie, che nei due secoli successivi rimpiazzano ampiamente gli antichi casati. Le vicende del tardo Quattrocento e dei primi anni del XVI secolo videro il Salento al centro di tumulti e contese. Già appariva chiara la decadenza di tutto il Meridione d’Italia, dove le campagne venivano abbandonate, la malaria infieriva e le guerre desolavano o il territorio.
Nel 1539 Carlo V conferì a Lecce la dignità di capoluogo delle Puglie. In pochi anni la città trasformò la sua fisionomia di sonnolenta città medioe-
1 Cfr., P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1977, pp. 115-123.
2 Cfr., G. Porzio, La congiura dei baroni, Milano 1965.
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vale, venne fortificata per disposizione dell’imperatore asburgico, mutò il suo assetto urbanistico, si adornò di chiese, conventi, palazzi, organi amministrativi e giudiziari, divenne centro della nobiltà della provincia, per i letterati e per gli artisti.
Novoli risentì positivamente del rinnovato clima politico e umanistico-rinascimentale già fiorente nella vicina città di Lecce, dalla quale giunsero i Mattei, il cui dominio durato circa due secoli dette una diversa fisionomia al paese che si arricchì di chiese e palazzi.
Con la morte di Giovanna Maramonte, consorte di Antonello Guarini barone di Campi e di Novoli, non essendoci discendenza il feudo del nostro paese nel 1520 fu devoluto al Regio Fisco che lo vendette per 6.850 ducati, il 26 giugno 1520, a Paolo Mattei dottore in leggi e a Vittorio dè Prioli, genero dello stesso Paolo, perché consorte della figlia Caterinella. Di poi il solo Mattei, che aveva sposato Giovanna Capece, dalla quale ebbe Caterinella e Filippo, con istrumento del notaio leccese Pomponio Stomeo, comprò nel 1523 da Aurelia de Acaya, consorte di Giovanni Maria Guarino, separatamente, il feudo di Villa Convento3 .
In questo libro ci soffermeremo particolarmente sui Mattei e sui Carignani, signori di Novoli e di Villa Convento poiché di essi non mancano le fonti e poi poiché proprio a Novoli soprattutto i Mattei ebbero residenza e, pur non differenziandosi sostanzialmente dagli altri feudatari del Meridione d’Italia nell’esercizio delle prerogative nobiliari, comunque nel paese lasciarono positive tracce della loro permanenza.
Innanzitutto chi erano e da dove venivano i Mattei? Certo è che il loro fu un ramo della famiglia romana dei Papareschi da cui uscirono due pontefici nelle persone di Innocenzo II e Clemente III. Dal ramo dei duchi di Gaeta e di Sessa derivarono i Mattei che sul declinare del Quattrocento si stabilirono a Lecce, dove ben presto furono aggregati al patriziato locale per ricchezza, pur non esercitanti alcun ruolo importante nella città4 .
I Mattei con acquisti, matrimoni ed eredità accrebbero notevolmente i
3 Cfr., P. Coco, Cenni storici su Squinzano, Lecce 1922. Lo studioso francescano in “Appendice” riporta documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, i cui originali sono andati perduti. Il documento che interessa l’argomento è il XVII, pp. 359-60. Per i vasti approfondimenti sulle fonti e sulla bibliografia riguardante la feudalità novolese, e non solo, cfr., G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Lecce 1990. I due libri sono intimamente collegati. Cfr., inoltre M. De Marco, Il tramonto della feudalità nel Salento. Una causa contro gli abusi dei Carignani, in “Quaderni salentini”, I, n. 3, 1981.
4 Cfr., G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Bologna 1965, vol. 3, vol. II, p. 406; L.A. Montefusco, Nobiltà etc., op. cit., vol. III, pp. 88-90; A. Foscarini, op. cit., pp. 137-138.
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propri possedimenti. Si estinsero con Alessandro III nel 1706 e con la zia di costui, Cornelia, che portò titoli e feudi nella famiglia Brayda. Possedettero i feudi di Cerese, Cocumola, Filippo, Giuggianello, Maglie, Morigine, Villa Convento (1523), Palmariggi, San Marzano, quota parte di San Cesario, Sanarica, Novoli (1520), Terenzano, e Vicinanza, nonché Palmariggi (1578) e il marchesato di Trepuzzi portato in dote ad Alessandro I nel 1610 dalla consorte Cornelia Condò. Filippo II, per aver sposato Sibilla Venturi, con la quale si estinse nel 1593 il ramo dei baroni di Palmariggi, ereditò questo feudo portato in dote dalla moglie.
L’arma dei Mattei, ossia l’insegna araldica, è la seguente: Scaccato d’argento e di azzurro di otto file alla banda d’oro attraversante, col capo d’oro caricato dell’Aquila spiegata di nero.
Le divise, ossia il motto scritto in una parte dello scudo o dell’arme gentilizia, nei diversi rami dei Mattei furono le seguenti:
1. Nec Obscura, Nec Imo = Né (progenie) oscura, né in ambito basso.
2. Spiritus Durissima Coquit = Lo spirito vince anche le cose più difficili.
3. Non Amat Obscurum, Nec Obscura, Nec Imo = (La stirpe) non ama essere ignorata, né le imprese di scarso rilievo, né ciò che è infimo.
4. Unita Fortiora = Ciò che è unito è più forte.
5. Arde e non Luce. È certo che già nella seconda metà del 1200, e precisamente tra il 1280-82, secondo i Registri Angioini5 esisteva a Novoli un castello, documentato pure nel 1476 e nel 1533, al tempo di Filippo Mattei che ne era comproprietario con i Prioli. Difficile e non sappiamo oggi quanto sia possibile individuare i segni del fortilizio originario di Novoli sul quale sorse l’attuale palazzo ducale, che nel tempo ha subìto non poche trasformazioni, ma dello stesso stabile ci è giunta una dettagliata descrizione in un Apprezzo6 redatto nel 1707, quindi in epoca già tarda, in seguito alla morte di Alessandro III Mattei.
Paolo Mattei e il Palazzo baronale
Paolo Mattei, primo barone di Novoli e della quarta parte di San Cesario (1523) risiedendo nel paese realizzò una dimora all’altezza del suo rango, e per-
5 Cfr., P. Coco, Cenni storici etc., op. cit., Appendice.
6 In Apprezzo del feudo di S. Maria de Nove e del feudo di Nubilo o Convento fatto nel 1707 da Donato Gallarano, è riportato in parte nel rogito del notaio Giuseppe Raguccio (o Ranuccio) di Napoli per ordine della R. Camera con decreto del 10 dicembre 1706. Di detto Apprezzo, un tempo nell’Archivio di Stato di Napoli, non vi è traccia alcuna se non alcune notizie nel rogito del notaio Raguccio, che annota soltanto i beni stabili feudali e, burgenseatici, delle decime e dei diritti feudali dei Mattei. Il documento, copiato dall’originale in forma dattiloscritta, non sappiamo da chi, è conservato presso la parrocchia di Villa Convento, pp. 13 e 18-19.
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ciò costruì il palazzo baronale agli inizi del XVI secolo, come residenza fortificata, che fu ampliata nel secolo successivo, subendo poi non poche modifiche, ed oggi tale edificio, nonostante tanti buoni restauri, mostra i segni del tempo. Passato dai Mattei ai Carignani, il palazzo baronale al momento della liquidazione dei beni di questi ultimi fu acquistato nel 1854 dai Plantera, già procuratori dei beni ducali, e poi attraverso i Balsamo, Scarderbeg-Paladini-Lopez y Rojo e Invidia, passò agli attuali proprietari, la famiglia Guadagno-Valzano.
La costruzione, che rimane tra le più importanti di Novoli, prospetta sull’attuale piazza Regina Margherita e si impone per la sua mole quadrangolare e per la sobrietà della linea architettonica. Da una Perizia di stima del Palazzo Ducale di proprietà della Contessa Isabella Paladini, perizia effettuata dall’ing. Francesco Parlangeli il 14 marzo 1914, si apprende che all’epoca il Comune di Novoli progettava l’eventuale acquisto dell’antico stabile per allocarvi la nuova casa comunale, ritenuta quella vecchia e insufficiente. Il progetto non andò a buon fine, com’è noto, tuttavia tale Perizia è illuminante e ci riferisce, tra l’altro, che al tempo il pian terreno del palazzo ducale, sul prospetto, si aprivano 10 botteghe, nell’agro esistevano un magazzino, una rimessa, una abitazione ed un trappeto con due frantoi, con 12 torchi in ferro e altrettanti in legno, nonché altri attrezzi per la molitura delle olive. Negli ampi giardini sorgevano due case di abitazione, una tenuta dai giardinieri e l’altra orientata verso Vico Mazzotti. Tra le numerose stanze del pian di sopra, molte disabitate, vi erano i locali adibiti a Scuola Elementare e a Caserma dei Carabinieri, dati in affitto dalla proprietà7 . Assai interessante, in questo palazzo, è l’ampio belvedere terrazzato, dotato di balaustra, ove si innalzava l’artistica fonte realizzata nell’anno 1700 da Alessandro III Mattei. La struttura, a tre fornici, richiama gli archi di trionfo. Sull’architrave appaiono motivi decorativi e floreali che incorniciano l’epigrafe che così dice: deo xenio non magnitudini aut dominationi sed solatio et ocio alexander mattei aedes suas xisto et fonte excoluit mdcc
Traduzione: Al Dio dell’ospitalità. Alessandro Mattei non per desiderio di grandezza o di potere, ma per diletto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nell’anno 17008 .
7 In G. Spagnolo, Novoli etc., op. cit., pp. 133-138. Interessante la Scrittura privata che segue riportata alle pp. 139-141, tra la contessa Isabella Paladini e il sindaco cav. Antonio Miglietta.
8 In M. De Marco, Le iscrizioni latine di Novoli, Lecce 2012, pp. 72-73.
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L’Apprezzo riguardante Novoli e Villa Convento, stilato nel 1707 da Donato Gallarano, riferisce che di fronte al palazzo baronale “erano scavate quattro fosse dette Foggie buone per conservare orzo e avena che insieme sono di capacità tomola quattrocento”. Paolo Mattei, inoltre realizzò per il proprio figlio Domenico e forse anche per Caterinella, un bel palazzo con magazzini e scuderia al pian terreno, un giardino di sei stoppelli, e il piano nobile, formato da sei stanze. Questa abitazione signorile sorse sul lato di sinistra di piazza S. Antonio, guardando la chiesa.
Nel citato Apprezzo si legge che l’epicentro dell’abitato era costituito essenzialmente dal castello dei Mattei, prospettante sull’attuale Piazza Regina Margherita, dove confluivano tre strade abbastanza ampie, quella di e per Trepuzzi, quella che da Campi giungeva sino all’entrata del palazzo baronale, e infine un’altra che giungeva dall’originario nucleo abitato. Certo, ed è appena il caso di notarlo, nei secoli il castello ha subito tante trasformazioni e rimaneggiamenti, tra le quali la modificazione delle finestre e la scomparsa del balcone con quattro pilastri scolpiti con figure. Al pian terreno, oltre i magazzini, vi erano le carceri9.
Oggi il palazzo baronale “si presenta come una fortezza-residenza articolata su due livelli, disposta lungo l’asse della strada principale ed attorno ad una maestosa corte centrale“10. Certo, col passare del tempo l’edificio ha perduto il suo originario aspetto cinquecentesco, sicché oggi il suo prospetto “di fattura ottocentesca come le ali laterali addossate alla pianta quadrata, è scandito al piano nobile da cinque porte-finestre con timpano retto da mensole a volute, di gusto neoclassico; al pianterreno un ampio arco a tutto sesto ospita l’ingresso principale. Mentre i locali a piano terra, adibiti un tempo a stalle, magazzini e alloggi per la servitù, non presentano tipologie architettoniche degne di nota, le stanze al piano nobile, destinate alla residenza dei baroni, presentano svariati esempi di volte, da quelli a padiglione, a quella a schifo incorniciata e decorata con stucchi ad altre volte lunettate su peducci, unitamente a ricchi portali di fattura settecentesca e decori policromi a tempera, in parte coperti da scialbi strati di calce”11.
“Una delle sale ospita un camino incassato nella muratura, decorato con motivi in rilievo di epoca settecentesca, in un’altra si conserva ancora un altare ornato da un affresco che, con l’effetto del trompe l’oeil, simula una macchina architettonica con nicchia, trabeazione e fastigio decorato. Stacca-
9
In Apprezzo etc., op. cit., . 13 e 18-19.
10
In Ministero per i beni e le attività culturali, Relazione storico-artistica (allegata al Decreto di vincolo), Roma 8 giugno 2001.
11 Cfr., W. Mazzotta, Novoli, emergenze storico-artistiche, Campi Sal., 2003, pp. 49-57.
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tosi dalla parete nella parte superiore, lascia intravedere la porzione di un altro affresco di epoca precedente, un fastigio di forme barocche”12. Della cappella del palazzo baronale diremo in seguito.
Filippo I
Figlio di Paolo Mattei e di Giovanna Capece succedette al padre e al cognato Vittorio dè Prioli senior, morto improle. Secondo barone di Novoli, Filippo I si mise nei guai partecipando alla seconda ribellione antispagnola (1527-1529), fomentata dai Francesi e dai Veneziani. Dopo alterne vicende prevalsero le armi spagnole che effettuarono una feroce repressione, per cui tanti baroni perdettero i loro feudi, tra i quali Filippo I, ma per breve tempo, poiché grazie ad un provvidenziale indulto del 23 aprile 1529 e della più ampia amnistia pubblicata a Trento il 28 aprile 1530, ben presto riebbero i loro beni.
Filippo I non fu benvoluto dai Novolesi poiché egli abusava dei propri privilegi, in quanto oltre che a tante illegittime prestazioni personali pretendeva addirittura una tassa sulla vendita delle galline. E fu così che l’Università di Novoli intentò una causa contro il suo barone, rivolgendosi al Sacro Regio Consiglio Capuano che reclamava il pagamento dei diritti fiscali, a cui Filippo I era tenuto per il possesso dei beni comprati e posseduti nel territorio di Novoli.
Anche per questa ragione verteva una causa presso la Regia Camera della Sommaria, ma per mancanza di documenti non si sa come si concluse la protesta dei Novolesi.
A Villa Convento Filippo fondò e dotò nel 1551 il Convento dei Padri Domenicani, dedicato a S.Maria delle Grazie con l’annessa chiesa di S.Onofrio, nella quale furono sepolti i Mattei, della cui tomba però non si ha alcuna traccia13.
Alcuni anni prima, nel 1546, Filippo, fece costruire a Lecce sulla via oggi dedicata a Giuseppe Libertini, la chiesetta intitolata dell’Assunzione della Vergine, detta dal popolo Chiesa Nova, e che oggi è conosciuta come chiesa di S.Elisabetta perché dal 1845 ivi officia la Confraternita della Visitazione della Vergine a S.Elisabetta, fondata nel 1762. Di questa chiesetta, che sorge di fronte all’ex Convento dei Carmelitani Scalzi, Filippo I riservò per sé e per i suoi discendenti il patronato. Questo tempio era attiguo al palazzo che i Mattei ebbero a Lecce.
A proposito di questa chiesetta l’Infantino ci tramanda che essa “era an-
12 Cit. Da Ministero etc., op. cit.
13 Cfr., G. Capelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, Teramo 1965, p. 48.
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ticamente sotto il titolo di S. Andrea, per essere che in questo sito vi era una piccola cappella di questo Santo, ed oggi nella medesima chiesa si vede un altare eretto a onore di questo medesimo Santo. È bellissima tutta a volte, sebbene non di molta grandezza, con sagrestia, organo ed un bellissimo coro di legno di noce, dove stanno scolpite le immagini di Cristo N.S. e dè dodici Apostoli; è provvista di ogni paramento, ed altre cose necessarie per lo culto divino.
Oltre la chiesa vi sono comodissime stanze si per l’Abbate, come per altri cinque cappellani, che di continuo officiano la chiesa, quando volessero stanziarvi”14.
Interessante è ciò che scrive Mario Cazzato sui rapporti che il Mattei ebbe con l’allora vescovo di Lecce Braccio Martelli: «Documenti inediti pubblicati recentemente (2008) permettono di precisare meglio tutta l’oscura faccenda e di evidenziare un aspetto assolutamente sconosciuto della personalità del “barone” e, insieme, un clamoroso episodio che lo vide contrapposto al vescovo del tempo Braccio Martelli che resse la Diocesi dal 1552 al 1560. Dal testo di una lettera del 19 maggio 1558 dal Martelli inviata da Lecce alla romana Congregazione per la dottrina della Fede, nella persona del cardinale Michele Ghislieri, il presule lamenta un episodio “pestifero alla fede e all’officio apostolico” rappresentato proprio non tanto da quella nuova costruzione, quanto dalle intenzioni neppure troppo dissimulate del “barone”, persona “ricca e facoltosa” e perciò pericolosa.
Il Mattei aveva proditoriamente “distrutto una chiesa antica... spianandola fino a fondamenti”, incluso il suo cimitero “con avere levato le ossa de fedeli”, edificandovi sopra un’ampia abitazione e una “cappelletta” dedicata allo stesso Sant’Andrea. Non contento, accanto a questi edifici costruì una vera e propria “chiesa sotto il titolo di Nostra Donna”. Fin qui, a parte un’evidente dose di temerarietà se non prepotenza, non ci sarebbe nulla di cui lamentarsi. Ma, aggiunge il vescovo, il “barone” ha un figlio illegittimo, di nome Francesco, per il quale intende “erigere un altro vescovado in detta sua cappella”, tanto che con propri “denari” ha ottenuto non meglio specificati privilegi “dalla chiesa di S. Giovanni Laterano di Roma” per i quali la detta “cappella beneficia” appare esente dalla sua autorità e, ancora, “ha fatto ... esente tutto lì preti che esso vole tenere a officiare [in] detta sua cappella di S. Maria et di più non essendo in questa città altra parrocchia che la chiesa mia cattedrale che così è ancora in Brindizi et in Otranto in questa parti...”.
Era una situazione insostenibile. Addirittura due vescovadi nella stessa
14 Cit. da G.C. Infantino, Lecce Sacra, Lecce 1634, ora a cura di M. De Marco, Gallipoli 1988, p. 56.
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città. Siccome il “barone ... con la forza dei suoi denari”, briga a Roma per ottenere tutto ciò, il Martelli minaccia addirittura di abbandonare Lecce pur di non continuare a scontrarsi con i potenti feudatari e per non vedere la propria potestà avvilita proprio adesso che aveva messo in moto i tentativi di riconoscimento primariziale leccese. Supplicava perciò che di tanto fosse informato il papa, allora Paolo IV.
Per quanto la documentazione taccia, le mire dei Mattei non furono esaudite e forse per questo la famiglia, memore di questo scacco, per tutto il ‘500 appoggiò sempre i nuovi Ordini Religiosi insediati a Lecce che rappresentavano un contraltare al potere vescovile, prima offrendo proprio la chiesa Nuova ai Teatini appena giunti in città, poi appoggiando concretamente i gesuiti leccesi (i documenti relativi alla quaestio sono P. Nestola, I grifoni della fede. Vescovi inquisitori in Terra d’Otranto tra ‘500 e ‘600, Galatina 2008).
Ma cosa ne fu di quel Francesco, figlio illegittimo di Filippo?
Viveva ancora nel 1565 esercitando l’avvocatura. Nel 1568 sposa la figlia Porzia di Marcello Prato; abitava “vicino alla chiesa di Santa Vienneri”, ossia nell’isola della Cattedrale.
Per quanto riguarda la chiesa, a fine ‘500 era comunemente indicata come “chiesa della Nova alias dell’Assunzione” (ASLE, 46/2, 1585, atti del 9 settembre e del 7 dicembre). All’epoca cappellano era Annibale Mercurio»15 .
Filippo sposò Paola di Antonio Bozzicorso, barone di Arnesano, da cui ebbe un figlio, Pietro Antonio, che sposò Marisa Paladini e le premorì, per cui alla sua morte avvenuta nel 1571 succedette il figlio di costui, Alessandro.
Alessandro I
Pochissime e reticenti notizie ci sono pervenute di Alessandro I, sapendo soltanto che morì nel 1572, un anno dopo il nonno Filippo I, per cui non ebbe il tempo per lasciare traccia di sé. Non essendo sposato, e quindi non avendo prole, gli successe il fratello Filippo che a buon diritto viene considerato il III barone di Novoli.
Filippo II
Costui aveva sposato Sibilla Venturi, che gli portò in dote il feudo di Palmariggi; di questo possedimento non divenne automaticamente proprietario ma, in un primo tempo soltanto amministratore.
Essendo Sibilla oberata dai debiti vendette al marito per 10.743 ducati il feudo di Palmariggi, com’è attestato in un atto notarile. Filippo II, poi,
15 Cit. da M. Cazzato, Una singolare controversia cinquecentesca sulla chiesa “Nuova” dei Mattei a Lecce, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVI, 19 luglio 2009, p. 14.
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ottenne il titolo di Conte con diploma dato a Madrid il 10 settembre 1578, divenendo esecutivo a Napoli il 21 gennaio 157916.
Dal matrimonio con Sibilla Venturi nacquero a Filippo sette figli, ossia, progressivamente, Lucrezia, Giovanni Francesco, Anna, Alessandro il quale gli successe, Orazio, Antonia e Pietro Antonio17 ed egli oltre ad acquistare il feudo di Palmariggi, già prima nel 1567 aveva comprato da Ugo Harrias il feudo di Trepuzzi e il suffeudo di Terenzano per 13.000 ducati, indi l’anno dopo acquistò per 1.200 ducati il casale di Salice dal barone Luigi Maria Paladini di Campi18 .
Filippo II era amico del Padre Gesuita San Berardino Realino che giunse a Lecce nel 1574. La Compagnia di Gesù per la sua attività missionaria giunse pure a Novoli dove fondò due confraternite religiose, quella del nome SS. di Gesù, che ben presto venne meno, e l’altra detta dell’Immacolata che ancora esiste.
Si tramanda che S. Bernardino Realino, avendo constatato la penuria di acque potabili a Novoli, ricco di falde freatiche superficiali, ma salmastre, consigliò il suo amico Filippo II di far scavare un pozzo nello spazio antistante il castello, assicurando così alla gente l’emungimento di acqua buona e dolce. Questo avvenimento, raccontato dal P. Ettore Venturi della Compagnia di Gesù, uno dei biografi di S. Bernardino Realino, costituisce la prima notizia sul “Pozzo del Signore”, realizzato dai Mattei19. Il pozzo, che aveva dissetato tante generazioni di Novolesi, al pari di altri, via via perdette la sua funzione con l’arrivo dell’acquedotto pugliese e venne “nfucatu”, ossia interrato, all’indomani della seconda guerra mondiale. L’acqua si attingeva a circa 30 metri di profondità, venne realizzato tra il 1580-1589, possedeva una vera ovale larga due metri, ed era sito di fronte al castello tra l’angolo di via Umberto I e la strada mediana di piazza Regina Margherita. È bene ribadire che a Novoli non manca l’acqua superficiale, e ricordo che questa veniva detta “mara”, ossia salmastra e, quindi, non era potabile ma utile soltanto per altri usi. Ecco, allora, l’utilità del Pozzo del Signore e di altri che furono scavati in profondità per attingere il prezioso liquido potabile che, per il principio dei vasi comunicanti, si trova al livello del mare.
Ma qual è stato il destino delle strutture esterne di questo pozzo e dei suoi ornamenti, ossia del puteale con alle estremità due colonne sormon-
16 Cfr., G. Venturi, op. cit., p.2 62; R. Franchini, Il pozzo del Signore, in “La voce del Pastore”, Novoli 1958, I, pp. 4-6.
17 Cfr., L.A. Montefusco, Nobiltà etc., op. cit., vol. III, p. 90.
18 Cfr., O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), Novoli 1989, pp. 21-31; G. Spagnolo, Storia di Novoli etc., op. cit., pp. 30-54.
19 Cit. da G. Marciano, op. cit., p. 472.
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tate da un’architrave, fregio e cornice, nonché dalla carrucola al centro per attingere l’acqua? Si narra che ciò nel 1928 fu smontato e che qualche tempo dopo fu affidato ad una famiglia del luogo, sicché bisognerebbe individuare gli eredi che posseggono tali pezzi che, se considerati di valore artistico dovrebbero essere restituiti non essendo in tale caso soggetti al diritto di usucapione; si aggiunge poi che alcuni decenni dopo le leggi eversive della feudalità i Carignani reclamarono il loro diritto sul Pozzo del Signore, ma la loro pretesa non approdò a nulla.
Nel marzo del 2008 il Pozzo del Signore venne alla luce, casualmente, durante i lavori di sistemazione della piazza, non pochi sollecitarono il suo ripristino, non mancarono le promesse, ma come spesso e volentieri accade non se ne è più parlato. Il pozzo si disse del “Signore” non perché consacrato da Dio o per grazia ricevuta, ma per indicare che esso apparteneva al barone del luogo, che a suo piacimento poteva concedere o vietare l’uso alla popolazione. Val la pena di ricordare che il Pozzo del Signore si adornava di artistici fregi, opera forse degli stessi artisti che avevano scolpito il portale della Chiesa Matrice e di quella di Villa Convento e gli originari capitelli della chiesetta di S. Oronzo, eretta da Fillippo II, chiesa di cui diremo in seguito e che poi venne acquistata dai Carignani sotto il cui patronato è rimasta.
Alessandro II Filippo II morì nel 1589 e gli successe il figlio Alessandro nato l’11settembre 1580. Costui pagò il relievo di 878 ducati per l’eredità paterna e, intorno al 1610 contrasse matrimonio con Cornelia Condò, di Lecce, che gli portò in dote il marchesato di Trepuzzi. Dal matrimonio nacquero Filippo, Sibilla, Aurelia, Carlo, Dorotea, Giuseppantonio, Livia, Francesca, Lucrezia, Giangeronimo e Paolo Bonaventura20.
Non si sa come e perché alla morte di Filippo II la sua famiglia si trovò oberata dai debiti che mai si riuscì a sanare nonostante i cospicui introiti provenienti dai prodotti agricoli, dalle decime e da un censo di 480 ducati annui sui primi frutti prodotti a Novoli. Problemi di interesse, con cause, litigi e altro frustrarono l’esistenza di Alessandro II e dei suoi famigliari, che giunsero perfino a spartirsi i beni mobili della casa, e questo tormento durò fino alla morte che lo colse nel 1634, data sulla quale non tutti i ricercatori concordano. Di Alessandro II si è scritto tanto e purtroppo non sempre con serenità ed in maniera appropriata. Certo è, però, che egli emerse tra i mem-
20 Cfr., O. Mazzotta, op. cit., pp. 32 e sgg.
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bri della sua famiglia che di Novoli furono baroni, e la sua fama si deve allo storico di Leverano, Girolamo Marciano che a Novoli fece casa dal 1615 al 1626, divenendo amico di Alessandro II, di cui ne tessè le lodi, tramandandoci quanto appresso: “Alessandro Mattei conte di Palmerici e Signore di questo luogo il quale oggi vive, uomo di singolare dottrina versato in tutte le scienze e nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e Prudentissimo Principe, il museo del quale è ricchissimo di molti libri di tutte le scienze, greche e latine, che non ha pari nella provincia, onde io per curiosità di goderlo e per finire comodamente queste fatiche mi ridussi in questo luogo quasi in una remota vita avendovi quivi riposta l’ultima mano, e comunicando e discorso con esso Signore Conte di questa mia descrizione”21 .
Il Marciano qui si riferisce all’opera che lo ha reso noto, ossia Descrizione, origini e successi della Provincia di Terra d’Otranto, e qualcuno ha messo in dubbio l’onestà intellettuale dello storico di Leverano nel descrivere Alessandro II a proposito del quale avrebbe esagerato per opportunismo. Ma Gilberto Spagnolo, da par suo, ha rintuzzato con approfondimenti e serenità il pregiudizio e l’acrimonia del prof. don Oronzo Mazzotta, al quale ci riferiamo, che in un suo testo tra sviste e imprecisioni nulla risparmiò ai Mattei e, in particolare, ad Alessandro II22 . È noto che presso il palazzo baronale Alessandro II costituì un cenacolo culturale frequentato da molti dotti che furono protetti dal suo mecenatismo, nonostante che non se la passasse tanto bene. Egli ebbe una ricca biblioteca è una pregevole pinacoteca, che la tradizione vuole anche ricca di documenti riguardanti Novoli. Purtroppo questo prezioso patrimonio è andato disperso quando la signoria del paese passò ai Carignani, nel 1714. Tra i quadri migliori si ricordano alcune grandi tele raffiguranti fiori, frutta, animali, un S. Giovanni Battista, una Fuga in Egitto, una Maddalena, etc. I Mattei, checché se ne dica, dettero decoro e lustro a Novoli. Nel luogo oggi detto Masseria La Corte possedevano una villa con ampio parco nel mezzo del quale sgorgava una sorgente d’acqua fresca e limpidissima che poi fu distrutta dall’insipienza dei nuovi padroni. Alessandro II scrisse una Geografia di Terra d’Otranto che, rimasta inedita fu tenuta in grande considerazione dagli scrittori sincroni, e fu citata dal Tasselli e dal Montorio. Girolamo Marciano verosimilmente tenne conto
21 Cfr., E. Aar (pseudonimo di Luigi De Simone), Studi storici di Terra d’Otranto, Firenze 1888, pp. 15-16; L. Tasselli, Antichità di Leuca, Lecce 1963. P.2; S. Montorio, Zodiaco di Maria, Novoli 1715, p. 494; G. Marciano, op. cit., p. 472.
22 Cfr., G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di S. Maria de Nove, Lecce 1992; M. De Marco, Novolesi, Lecce 2016, p. 69.
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delle notizie storiche attinte dall’amico e protettore Alessandro e dagli studiosi che frequentavano il cenacolo novolese di cui, tra gli altri, fecero parte il frate Lorenzo ed il padre Francesco Guerrieri sui quali ora ci soffermeremo essenzialmente perché furono due illustri novolesi.
Frate Lorenzo, Cappuccino, nacque a Novoli nella seconda metà del Cinquecento, ma della sua vita si sa poco o nulla se non che pubblicò nel 1617 l’opera corografica Descrizione della Provincia di Terra d’Otranto che lo rese noto a non pochi suoi contemporanei. Quest’opera, purtroppo è scomparsa e doveva esemplarsi al De situ Japigiae del Galateo.
Al frate Lorenzo, poi, si attribuisce la meridiana che appare sulla parete esterna, sul lato di ponente, della chiesetta di S. Oronzo a Novoli, dove avrebbe pure realizzato alcuni affreschi nella Chiesa dell’Immacolata. Infine gli si attribuisce una Carta Geografica della Provincia di Terra d’Otranto.
Padre Francesco Guerrieri nacque a Novoli nel 1563 e morì a Manduria, in odore di santità il 1° novembre 1629. Dal P. San Berardino Realino fu introdotto nella Compagnia di Gesù il 2 novembre 1562 e per molti anni insegnò retorica e lettere greche a Chieti, a Taranto e a Lecce, distinguendosi per dottrina e come rinomato predicatore dedito alle missioni popolari. Fu lodato da tanti suoi contemporanei, tra i quali Giulio Cesare Infantinio, il sacerdote Peregrino Scardino, dal Marciano, etc. Padre Francesco intrattenne amicizia con Torquato Tasso e fu assai benvoluto dal P. Bernardino Realino.
Scrisse in latino diverse opere, tra cui ricordiamo: Oratio Habita Lupiis in funere Margaritae Austriacae Hispaniarum; Horatio dicta in instauratione Studiorum; Epistulae grecae et latinae; Carolus sive de virtute Theologica, Dialogus Francisci Verieri e soc. Iesu Carolo della Monica editus (postumo nel 1633); De animum ornaturi oratio habita; De Judicibus, un Carme dedicato a Prospero Rondella, un dialogo intitolato Manfridus, seu de vita perfecta.
Scrittore assai prolifico, Francesco Guerrieri scrisse molti trattati di vario genere, commenti e annotazioni sugli antichi greci e romani, e di lui resta inedito il poema Ignatius, dedicato a Giovanni Antonio Albricci, ultimo di questa famiglia feudataria a Salice Salentino23. Girolamo Marciano è considerato a buon diritto la prima fonte storiografica su Novoli, ma lo è perché non ci sono giunte le due opere che riteniamo analoghe, quelle di Alessandro Mattei e di frate Lorenzo. L’opera di Morciano, la cui attendibilità in merito alle origini di Novoli è assai discutibile in quanto non appare sor-
23 Cfr., G. Spagnolo, Francesco Guerrieri e Prospero Rondella giureconsulto e storiografo napoletano, in “Annuario di studi e ricerche”, Novoli 1983, pp. 115-135; Id., Novoli, origini etc., op. cit. e Storia di Novoli etc., op.cit.; M. De Marco, Novolesi, op. cit., pp. 84-87.
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retta da documenti e spiegazioni probanti, dimostra una indubbia presenza di suggestive ipotesi. Egli, infatti, sostiene che la provenienza del primo nucleo di Novolesi sarebbe avvenuta dal casale di Porziano, fondato da un tal Porzio, cavaliere romano, nel 102 a.C. allorquando, secondo Frontino, l’agro lupiense fu suddiviso e assegnato ai veterani romani.
I contadini novolesi chiamavano “Fursano” una contrada presso Veglie, e forse questa voce toponomastica avrà indotto il Marciano a supporre l’abitato di Porziano ed il suo presunto fondatore romano. La mania tutta umanistica di antichizzare cose e fatti, riconducendoli al periodo greco-romano, pare senza dubbio presente nello storico di Leverano che, probabilmente non era a conoscenza del ruolo svolto dai normanni di Lecce nel sito di Novoli. Comunque è assurdo puntare il dito contro il Marciano ed altri pochissimi che si interessarono delle trascorse vicende di Novoli, già perché difettando da parte dei moderni la contestualizzazione degli autori non si coglie il faticoso progresso della metodologica storiografica che solo negli ultimi tempi si è perfezionata, per cui dobbiamo essere grati al “cenacolo” di Alessandro II Mattei, e a coloro che intorno ad esso ruotavano, poiché hanno aperto un abbozzo di ricerca, in tempi che ancora si irretivano e per almeno altri due secolo si sarebbero irretiti, a differenza di altre aree d’Italia, nel fabuloso e nel cronachistico.
Giuseppe Antonio
Alla morte di Alessandro II divenne signore di Novoli il figlio suo Giuseppe Antonio, che era nato l’11 agosto del 1621. Costui, dicono le fonti, al matrimonio preferì la vita libera del donnaiolo, generando diversi figli illegittimi. Con lui peggiorò vieppiù la situazione economica già tanto precaria ai tempi del padre, per cui non onorò i debiti vecchi e nuovi nemmeno verso i familiari e per la sua condotta libertina fu censurato dalla Curia di Lecce che gli impose di devolvere 500 ducati in opere di beneficienza. Nel 1646 ricevette il Vescovo di Lecce che a Novoli era giunto in visita pastorale, e lo stesso avvenne sei anni dopo, e intanto aumentavano i suoi debiti. Morì nel 1656.
Paolo Bonaventura
Poiché due fratelli di Giovanni Antonio avevano deciso di farsi Domenicani, nuovo signore di Novoli fu l’ultimo figlio di Alessandro II, ossia Paolo Bonaventura che nacque il 15 luglio 1632 e morì il 5 giugno 1705. Dapprima egli si era fatto frate, poi abbandonata la vita del chiostro convolò a nozze con la nobile leccese Barbara Paladini il 3 settembre 1660, generando Alessandro suo unico figlio, e restando vedovo il 25 novembre 1681.
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Debiti, sequestri e contese giudiziarie angustiarono la vita di Paolo Bonaventura, che dovette addirittura alienare non pochi dei suoi beni, come il feudo di Palmariggi, riservandosi sia pure a livello nominale il titolo di conte e poco ci mancò che non perdesse il feudo di Novoli24 .
Alessandro III
Nato il 26 giugno 1662, Alessandro morì il 7 marzo 1706, e con lui finì la vicenda dei Mattei novolesi poiché avendo sposato Angela Invitti dei Principi di Conca da costei non ebbe figli. Debole in salute e assai malato morì sette mesi dopo il padre. Ereditò tanti debiti ma, al pari dei nobili del suo rango, quando poteva spendeva e spandeva, tuttavia fu generoso e munificio tant’è che nel suo palazzo finanziava una scuola di musica, e sempre nel terrazzo della sua dimora fece costruire la fontana della quale abbiamo già detto. Inoltre sull’altare che aveva fatto erigere nella chiesetta di S. Salvatore, a Novoli, tempio meglio conosciuto con la denominazione di S. Oronzo, fece incidere questa epigrafe:
servatori et tibi gratiarum virgini matri aram hanc alexander mattei erexit ann(o) d(omini) 1704
Ossia: Al Salvatore e a Te Vergine Madre di grazie questo altare eresse Alessandro Mattei nell’anno del Signore 1704.
Morto Alessandro III, due anni dopo, improle, il feudo di Novoli ricadde nella R. Corte che ne investì la cugina per parte di madre del Mattei, Cornelia Brayda, figlia di Geronimo Brayda e di Aurelia Mattei e vedova di Francescantonio Paladini che aveva sposato nel 1664. Poiché le finanze del feudo di Novoli erano in dissesto, la Brayda dopo aver arraffato coi due figli quel che poteva dal palazzo baronale, ove impietosame umiliava la vedova di Alessandro III, trattandola al pari della servitù, rinunziò al possesso del feudo in favore della R. Corte, e così il R. Fisco ne dispose l’apprezzo e lo vendé all’asta nel 1713.
I beni dei Mattei furono apprezzati da Donato Gallarano per il valore di 105.307 ducati, e l’ Apprezzo fu pubblicato il 24 marzo 1707; i beni alla fine se li aggiudicò per 75.710 ducati, il 4 maggio 1712, il nobile Felice Carignani per il quale l’anno successivo la Contea fu elevata a Ducato.
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Palazzo baronale: artistica fontana sulla terrazza
I Carignani
Nobile famiglia di origine tarantina,della quale si ha notizia dal 1270, trasse il cognome dell’omonimo feudo nei pressi di Nardò. Godette nobiltà in Taranto, Napoli (Seggio di Portanova, ove fu ascritta nel 1789), Lecce, Nardò e Bologna per effetto del matrimonio con una Malvezzi. Fu, questa famiglia, ricevuta dal Sovrano Ordine Militare di Malta nel 1728 e inoltre fu decorata degli Ordini Cavallereschi: Costantiniano, di S. Giorgio, di S. Gennaro e delle Due Sicilie. Possedette i feudi Carignano (1462), Civitella, Terrazzano, la Contea di Valleria, i Marchesati di Carignano (1729), Novoli (1738) e Tolve (1854).
I Carignani a Lecce ebbero il Palazzo Giaconìa, poi passato ai Lopez y Royo, oggi Istituto dei Ciechi, nella piazzetta dei Peruzzi, ove sorge pure la chiesa di S. Maria degli Angioli, detta pure S. Francesco di Paola, ove ebbero diritto di sepoltura. Arma: D’azzurro al capriolo d’oro accompagnato da tre stelle di sei raggi d’argento, due in capo e una in punta24.
Felice
Allorché i beni dei Mattei furono posti in vendita, Felice Carignani, nato a Napoli da Giulio Cesare e Francesca Alfarano-Capece, incaricò il suo agente Nicola Latronico di acquistarli e così avvenne, come si è detto, con rogito del notaio napoletano Giuseppe Raguccio, l’11 febbraio 1713.
Primo Marchese di Trepuzzi e primo Duca di Novoli, non contrasse matrimonio, per cui alla sua morte avvenuta a Napoli il 3 marzo 1716, gli successe il nipote, ex frate Giulio Cesare, Francesco Lorenzo.
Francesco Lorenzo
Nato a Nardò da Giulio Cesare e da Francesca Alfarano-Capece il 14 gennaio 1692, morì il 5 gennaio 1767 a Napoli, Francesco Lorenzo il 20 ottobre 1716 rilevò i feudi pagando 658 ducati per la successione. Nel 1728 ottenne il titolo di Duca, il secondo di Novoli. Fu terzo Marchese di Trepuzzi, primo Marchese di Cerigno (1726), primo Duca di Cerigno (1729). Sposò Marisa della Torre, dei Conti di Lavagna ed ebbe cinque figli: Giulio Cesare, Anna, Gio. Carlo, Felice e Gio. Battista.
24 Cfr., L.A. Montefusco, Nobiltà etc., op. cit., vol. I, p. 294; M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996, pp. 37 e sgg.
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Persona abilissima in campo economico, era assai facoltoso e a Napoli ebbe ampia notorietà in ambito finanziario, tant’è che erogò prestiti perfino alla Corte di Vienna. Il Di Vittorio scrisse che egli fu “il maggiore mercante banchiere di Napoli e del Regno nel periodo austriaco il quale a causa dei forti appoggi politici di cui godeva appare impegnato in un giro di affari più vasto dei suoi colleghi”. Francesco Lorenzo, dice ancora il Di Vittorio, gestì per parecchi anni l’appalto della Dogana di Napoli che gli fruttava mediamente 40.000 ducati annui.
L’importante situazione economica consentì al Carignani di acquistare il Marchesato di Trepuzzi e il suffeudo di Terenzano, il 2 marzo 1743, dal marchese Giuseppe Acquaviva e, appena preso possesso di Novoli, emanò nel 1714 i Bandi Pretori che comprendevano 31 articoli che disciplinavano i comportamenti dei novolesi e ribadivano i diritti del barone del luogo e i doveri dei vassalli. A tali Bandi si oppose l’Università che ricorse alla R. Camera, la quale introdusse alcune modifiche alle sanzioni e ridusse gli articoli a 24, obbligando il Governatore e la Corte baronale a pubblicare i Bandi nella maniera più ampia affinché nessuno accampasse il pretesto di esserne all’oscuro. Il 15 gennaio 1716 il sindaco di Novoli Mauro Ippolito effettuò la promulgazione dei Bandi in presenza del Consiglio comunale e del governatore Francesco Jennero, e delle clausole delle nuove norme civiche ne citiamo alcune per averne qualche comprensione.
1. Si proibiva l’uso di qualsiasi arma per la difesa personale.
2. Non si poteva circolare dopo le tre di notte senza lume, ad eccezione dei medici e delle levatrici chiamate d’urgenza.
3. Si proibiva di suonare oltre le tre di notte con qualsiasi strumento, di tirare archibugiate, di scagliare pietre negli orti, di evadere la decima spettante alla corte baronale.
4. Si proibiva di andare in giro per il paese con spada e corpi contundenti. Si intimava, poi, di denunziare i feriti a medici, chirurghi, barbieri e a chi in genere sapesse curarli, si vietava ai carrettieri di porsi innanzi ai buoi e di condurli nell’abitato.
5. Si vietava ai notai di stipulare atti senza la licenza scritta dei mastrodidatti della Corte baronale, si intimava se chiamati in giudizio di comparire subito e di osservare compostezza durante l’udienza, si proibiva ai venditori di pesce di vendere il prodotto senza averlo denunciato al “compratore del palazzo baronale per servirsi la casa”.
Il governatore o camerlengo, di nomina baronale, esercitava gli incarichi di polizia, coadiuvato da armigeri a piedi e a cavallo. Egli esercitava la giustizia locale di prime e seconde cause e spesso veniva in contrasto con
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l’amministrazione dell’Università, che doveva soggiacere alle vessazioni di costui.
A Novoli vigeva il diritto dell’adutorio, che consisteva nella pretesa baronale di ricevere il soccorso in circostanze particolari. Questo diritto era compreso nelle ingiunzioni dei succitati Bandi Pretori del 1714. Difatti nella clausola 19 si legge: “Si ordina e si comanda che, quando il Governatore luogotenente o altra persona di Corte chiami a aiuto a favore, debba ognuno subito accorrere ed aiutarlo sotto la pena di 15 giorni di carcere”. Clausola n.20: “S’ordina e si comanda a tutti qualsivogliono persone che quando sentono suonare all’armi la campana del Palazzo Baronale, che è segno di domandare aiuto, debbono subito occorrere a detto Palazzo Baronale, armati con quelle armi che più prontamente ponno avere sotto pena di giorni venti di carcere ed altri a nostro arbitrio”25. A differenza dei Mattei i Carignani risiedettero saltuariamente a Novoli, dove governavano per mezzo dei loro agenti generali.
Una vicenda boccaccesca di altri tempi
Primogenito di Francesco Lorenzo Carignani e di Maria della Torre Spinola, figlia di Giovan Battista Conte di Lavagna, Giulio Cesare nascque il 17 maggio 1718 e, ovviamente, era destinato a succedere al padre nei titoli e nei beni. Ma le cose per lui, purtroppo, andarono diversamente poiché avendo sposato al nobile bolognese Ippolita Malvezzi Locatelli Leone, nata il 14 marzo 1732, figlia del Conte Palatino Ercole Giuseppe, XII Conte della Selva e da Anna Pepoli, si rivelò impotente, e la donna non rassegnandosi a restare illibata, e quindi senza prole, circa un anno dopo le nozze, che erano avvenute nel 1753, citò in giudizio il marito impotente per ottenere l’annullamento del matrimonio.
Ippolita Malvezzi, a tal proposito, si rivolse direttamente al Papa Benedetto XIV tempestandolo di istanze. Il Pontefice, a sua volta, investì del caso il Vescovo di Lecce Alfonso Sozy Carafa il quale avendo ottenute le dichiarazioni giurate della nobildonna, della sua levatrice e di alcuni medici circa l’impotenza di Giulio Cesare Carignani, che tale risultava già prima del matrimonio, relazionò al Papa che il 20 maggio 1755 emanò un “Breve” con il quale dichiarava nullo il matrimonio tra don Giulio Cesare e la Malvezzi.
25 ASL, Scritture delle Università e degli ex feudi (Nociglia, Novoli, Oria). Bandi pretori dell’Università di Novoli, fasc. 66/1.
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Il povero don Giulio Cesare, dopo aver ceduto il diritto di primogenitura al fratello terzogenito Giovanni Carlo Battista, si fece prete, e la Malvezzi poco dopo il deliberato del Papa convolò a nuove nozze proprio con Giovanni Carlo, ma anche questa volta ebbe da recriminare propalando la voce che il nuovo marito non era granché a letto, rivelandosi piuttosto “debole”. La donna, evidentemente, era alquanto esigente, ma nonostante tutto partorì due figli maschi, Giuseppe e Francesco, e così era garantita la discendenza dei Carignani. Intanto l’infelice Giulio Cesare, onde evitare lo scorno a Novoli, e non solo, si trasferì a Napoli dove concluse i suoi giorni, come l’ex moglie Ippolita che ivi morì il 22 agosto 1805.
Le vicende sessuali della Malvezzi erano diventate di dominio pubblico anche oltre Novoli, e immaginiamo i pettegolezzi nelle piazze e tra le comari; ma non solo, perché un uomo di alta cultura, il novolese don Pasquale Francioso (1733-1806), colpito dalla comicità del fatto compose motti salaci in distici che ebbero subito larga popolarità. Si trattava di “Versi satirici per la duchessa di Novoli”, che riportiamo integralmente: Hyppolita infelix, et virgo et nupta fuisti:/cumque viro virgo; nupta sed absque viro./Hyppolita infelix, nulli bene nupta marito: /primi culpa fuit, posterioris tua est. (Infelice Ippolita, fosti sposata e vergine; vergine col marito; congiunta ma lontana dal marito. Infelice Ippolita, a nessun marito ben sposata: del primo fu la colpa, ma per l’altro è tua)26 .
Giovan Carlo Battista
Divenuto signore di Novoli e poi aggregato alla nobiltà del Seggio di Portanova, a Napoli, il 30 luglio 1788, Giovan Carlo nacque il 5 ottobre 1720. Per il relevio del feudo nel 1768 versò alla R. Camera la somma di 921 ducati, in seguito alla morte del padre avvenuta l’8 gennaio 1767. Rammentiamo che egli era terzogenito, ma i suoi fratelli maggiori avevano rinunciato ai propri diritti di successione perché Giulio Cesare era divenuto sacerdote e perché Felice era Cavaliere Gerosolimitano.
Giovan Carlo risiedette prevalentemente a Napoli, ove morì il 7 febbraio 1794. Per la gestione dei suoi beni novolesi aveva nominato come suoi procuratori, dando loro “carta bianca” dapprima D. Pasquale Sapagnolo e, morto costui, Domenico Plantera di Copertino, che fece casa nel palazzo ducale27.
26 Cfr., F.A. Piccinni, Cronache leccesi, in “Rivista Storica Salentina”, I, pp. 200-201; R. Franchini, Inediti su Pasquale Francioso, in “La cucchiara”, I, n. 4, Novoli novembre 1963, pp. 3-4.
27 Cfr., L. A. Montefusco, Le successioni etc., op. cit., vol. I, p. 449.
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La famiglia Carignani, allorché risiedette stabilmente a Napoli, ivi fece trasferire quanto ancora di prezioso conteneva il palazzo ducale novolese, e a tal proposito Cosimo De Giorgi ci riferisce che “la libreria e la pinacoteca presero il volo altrove nel 1710. Tra i quadri migliori si ricordano, come si è detto, alcune grandi tele rappresentanti fiori, frutta e animali, un S. Giovanni Battista, una Fuga in Egitto, una Maddalena, etc.”28 .
Giuseppe
Nato da Ippolita Malvezzi e da Giovan Carlo il 13 febbraio 1759 a Lecce, morì a Napoli il 24 novembre 1829. IV Duca di Novoli, il 7 ottobre 1781 sposò Margherita di Giovanni Pignatelli, secondo Principe di Monteroduni, e di Lucrezia Mormile dei Duchi di Carinari, nata il 20 luglio 1755 e morta il 30 aprile 1796. Dal matrimonio nacquero Lucrezia, Maria Luisa e Giovan Battista. “Consultando vecchi documenti, scrive Piergiuseppe De Matteis, apprendiamo che il duca Giuseppe Carignani, con molta probabilità, durante la rivoluzione del 1799 si schierò dalla parte della Repubblica Partenopea dal momento che ci è pervenuta una lettera datata 1803 in cui si ringrazia sir John Francis Edward Acton per i buoni uffici interposti per ottenere “la riammissione all’onore di baciar la mano ai sovrani”.
Non ci è dato sapere se il Nostro abbia ricoperto qualche incarico di rilievo durante il lungo regno di Ferdinando IV. Sappiamo, però, che nel corso della seconda occupazione del Regno di Napoli da parte dei francesi il signore di Novoli si schierò per gli invasori dai quali il 4 luglio 1806 ebbe la nomina a Consigliere di Stato e il 13 agosto successivo l’incarico di presidente del Corpo della città di Napoli. Il 14 novembre 1806 fu inviato, insieme al duca di Monteleone, al principe di Strongoli e al duca Serra di Cassano a “complimentare l’Imperatore dei Francesi per le sue vittorie” mentre nel gennaio 1808, ricoprendo la carica di presidente del Senato di Napoli, presentò “tributo di rispetto e di sincera riconoscenza” al re Giuseppe Bonaparte e al “grande Napoleone”.
Gran Ciambellano di Corte del re Gioacchino Murat e suo ambasciatore nel 1813 presso Napoleone, a Parigi, al Carignani fu affidato il delicatissimo compito di sapere dall’imperatore “se corrispondeva al vero che era intenzione dell’Imperatore accorpare il regno di Napoli al Grande Impero”. Non sappiamo cosa rispose Napoleone, ma questa ipotesi non ebbe seguito poiché dopo il grande Corso venne sconfitto e mandato in esilio, in seguito alla disastrosa battaglia di Waterloo (18 giugno 1815).
28 Cit. da C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, voll. 2, vol. II, Galatina 1975, p. 301.
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Il duca di Novoli dal 20 marzo al 22 aprile 1815 sostituì il duca di Gallo, allora ministro degli Esteri del Regno di Napoli, il quale era, al seguito del Murat, ad Ancona per importanti operazioni militari, il Carignani, però, ebbe non poche difficoltà a riconciliarsi con i Borboni, che a Napoli ritornarono in seguito al Congresso di Vienna. Infatti il 18 settembre 1821, l’ambasciatore austriaco Karl Ludwig von Ficquelmont propose al cancelliere austriaco Klement von Metternich come ministro delle Finanze del nuovo governo della restaurazione borbonica il duca Giuseppe Carignani. Ferdinando I vietò, però, l’accesso al signore di Novoli nel palazzo reale in quanto era stato in passato “costituzionale”.
Nel 1824, essendo divenuto re Francesco I, il duca Giuseppe Carignani ricoprì l’incarico di vicepresidente della Consulta di Stato. Dopo aver ottenuto il permesso di fregiarsi del gran cordone dell’Ordine di San Gennaro e della gran Croce dell’Ordine di Francesco I, il marchese Giuseppe Carignani, terzo duca di Novoli e Patrizio napoletano dal 7 febbraio 1796, in seguito alla morte del padre, con i predicati di Trepuzzi, Terenzano, Santa Maria di Novi e San Todaro, i cui titoli sulle signorie erano nel frattempo scomparsi con l’eversione dei feudi nel 1806 (29).
Giuseppe fu quindi l’ultimo feudatario di Novoli, ma i suoi discendenti conservano ancora, ovviamente soltanto a livello nominale, il titolo di Duchi di Novoli. La vicenda dei Carignani si concluse in maniera analoga a quella dei Mattei, ossia tra tanti debiti.
Gli abusi feudali e l’economia novolese fino al XIX secolo
Riportate le successioni feudali, vediamo ora come i nobili esercitavano il potere, quali erano le loro prerogative e abusi che vennero a galla essenzialmente dopo l’eversione della feudalità, per le tante controversie giudiziarie sia da parte dei cittadini e sia da parte dei feudatari che non si rassegnavano alla perdita dei loro privilegi.
Gli abusi feudali furono esercitati a Novoli, col timore e con le vessazioni, sino all’alba dei XIX secolo, e ciò grazie anche all’ignoranza in cui versava il popolo che da secoli sopportava anche le più assurde angherie dei feudatari, i quali col tempo avevano accresciuto a dismisura il loro arbitrio e la loro rapacità. Ma anche nelle sonnolente aree meridionali era giunto il soffio innovativo della Rivoluzione francese e le idee libertarie della Libera Mura-
29 Cit. da P. De Matteis, L’annullamento di matrimonio, nel Settecento, tra i signori di Novoli: Carignani-Malvezzi, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIII, 16 luglio 2006, p. 10.
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toria, attraverso i fecondi contatti con Napoli di studenti, nobili e commercianti, e poi le armi napoleoniche avevano introdotto nel regno partenopeo nuove leggi e nuove idee, tra le quali quelle dell’Illuminismo riformatore, sicché l’eco del nuovo ordine sociale era giunta anche nel periferico Salento, dove per ragioni diillegittimità due cittadini aventi interessi su Novoli contestarono gli arbitri feudali, chiam ando a giudici della controversia l’Università di Novoli e la Regia Camera che, per ragioni opposte, dettero torto al duca che fu diffidato di esercitare il suo strapotere30 .
Il Comune per la prima volta difese i suoi cittadini e, finalmente così, dopo immemorabile tempo di soggezione al signore del luogo, il quale sempre aveva determinato la composizione della civica amministrazione, si emancipava da uno stato di indecorosa dipendenza. I tempi stavano cambiando e la gente cominciava a difendere il diritto per un’esistenza umana e dignitosa. Il re, a sua volta, favoriva la lotta allo strapotere dei baroni per ribadire e rafforzare la sua autorità e sia perché la tassazione poteva così essere incamerata dal regio fisco.
Quanto si esporrà, è proprio il caso di ribadirlo, avveniva prima delle leggi eversive della feudalità, e quanto si dirà offre un quadro esauriente di quanto il barone, in questo caso Giuseppe Carignani, ma gli abusi si erano sedimentati nel tempo, pretendeva dagli abitanti dei suoi feudi, quindi anche e soprattutto di Novoli.
Ma ritorniamo al casus belli. Giuseppe Oronzo Turfani di Lecce, possessore di vari poderi nel feudo di Villa Convento ed i fratelli Paolo e Luigi Mazzotta, novolesi, aventi proprietà nel feudo di Novoli, furono i primi a ricorrere, nel 1802, all’autorità giudiziaria. I due fratelli avevano introdotto a Novoli le proprie olive raccolte nei fondi che possedevano nel feudo di Veglie, ottennero dall’agente di Novoli la licenza di ingresso nel paese per macinarle nei trappeti del duca. Tuttavia per diversi mesi le olive restarono in deposito senza essere molite. Gli interessati chiesero il permesso di portarle altrove, ma neppure questo venne accordato. I due fratelli, allora, tentarono di portar via le olive clandestinamente, ma sorpresi dagli armigeri del Carignani furono carcerati i trasportatori, vennero confiscate non solo le olive ma anche l’olio che i fratelli Mazzotta tenevano depositato nei trappeti ducali, prodotto dalla molitura di altre olive.
La questione non si risolse né con le preghiere dei Mazzotta né con altre vie bonarie. Il Turfani e i Mazzotta ricorsero allora al magistrato e raccolsero
30 La questione è trattata in Per l’Università di S. Maria di Novoli e i suoi naturali contro l’utile possessore di quella. Commissario il Sig. Presidente S. Vincenzo Sanseverino, Attuario D. Nicola Guerra, Bernardo Tizzani e Nicola Turfani, Napoli 11 gennaio 1805.
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quaranta capi d’accusa che inviarono alla Regia Camera. Appena notificato, il Carignani replicò che si doveva sentire l’Università. Questa, però, convocata in pubblico parlamento concluse all’unanimità di condividere i 40 capi d’accusa prodotti dal Turfani e dai Mazzotta, e a sua volta ne aggiunse altri 29.
La controversia fu lunga e cavillosa, ma ogni pretesa del feudatario novolese fu invalidata dalla considerazione che il suo avo, Felice Carignani, aveva si comprato le proprietà dei Mattei, ma non aveva ricevuto alcun assenso regio per esercitare i diritti feudali. La questione, indubbiamente, segna un’evoluzione per il contenimento di tanti abusi perpetrati, e se non pone in discussione il privilegio feudale, di fatto lo incrina creando un non trascurabile precedente per le analoghe contemporanee controversie e per quelle sorte dopo le leggi eversive della feudalità.
Da parte nostra sorvoliamo sulla cronaca della controversia, ma elencheremo appresso i capi d’accusa contestati al Carignani, annotando perciò molti di quegli abusi economico-fiscali esercitati nel territorio novolese e in tanti centri del Meridione d’Italia, fino a quando le leggi napoleoniche abolirono la feudalità.
I capi d’ accusa prodotti dal Turfani e dai Mazzotta
1. Guardia delle vigne: Il barone esige una tassa in denaro da alcuni possessori di vigne, scegliendo questi a suo arbitrio. La custodia, in questo caso, lo garantisce dai coloni che sono messi nella condizione di non rubare il frutto, e, perciò, di non frodarlo della decima. A loro volta sono anche tassati i guardiani per l’esercizio della loro vigilanza.
2. Agliutorio: Oltre alla decima delle uve in vino mosto, il barone esige grana due per ogni “orto” di vino mosto.
3. Decima delle uve da mosto e non in uva.
4. Oltre alla decima in vino mosto esige una canestra di uva per ogni possedimento di vigne, col pretesto che i coloni e i proprietari mangiano uva senza pagarne la decima.
5. Il barone obbliga i possessori del feudo disabitato di Nubilo (Villa Convento)31 di portarsi dentro la terra di Novoli e di chiamare l’erario per decimare.
6. Il barone pretende obbligare i possessori dei beni nel feudo di Novoli a portare la decima di alcuni generi nei suoi magazzini: pretende inoltre obbligare i possessori del fondo di Villa Convento a portare i generi nei suoi magazzini, ancorché il preteso trasporto li obbligasse ad uscire fuori feudo.
31 In effetti il feudo di Villa Convento non era “disabitato”, ma così veniva detto poiché privo di una civica amministrazione.
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7. Decima dei tufi e pietre che si tagliano nei fondi privati.
8. Il barone, dopo tagliata la pietra, ed esatta la decima si usurpa il fondo come a sé devoluto.
9. Il barone pretende che gli abitanti della Terra di Novoli fossero obbligati a macinare i loro grani nei suoi molini baronali.
10. Il barone pretende che possessori e coloni del feudo di Villa Convento vadano a macinare nei molini siti dentro l’abitato della Terra di Novoli.
11. Il barone pretende il diritto proibitivo dei trappeti.
12. Il barone pretende la decima in olio e non in olive.
13. Il barone pretende di appropriarsi degli alberi agresti che nascono nel fondo dei privati
14. Pretende il barone tre grana e mezzo, sotto il nome di Vatica, per ogni staio di olio che nasce dalle olive, che si triturino nei suoi trappeti.
15. Esige cinque grana a titolo di Testatico da ogni maschio o donna, che giunga all’età di sei anni, o che sia nativo, o che si porti ad abitare nella Terra di Novoli, eccetto solamente i sacerdoti.
16. Il barone esige una certa quantità di denaro da possessori delle case sotto il nome di Fida (tre carlini per l’uso proprio, sei carlini per l’affitto).
17. Il barone pretende la decima del prezzo di vendita degli stabili.
18. Il barone pretende grana 30 da ciascun possessore di case quando passa ad abitare da una casa all’altra. Tale tassa va sotto il nome di Vassallaggio.
19. Erbastica. Una pecora col figlio per mandria, e se quella mandria si dà a metà o in affitto, ne pretende due, una dal pastore delle pecore, l’altra dal socio, o conduttore.
20. Decima del lino, fagioli, bombace e di qualunque cosa si semina, o si pianta,ancorché fosse uno stelo di rose.
21. Il barone pretende la mena del nonuplo, se non si paga la decima prima di compiere l’anno.
22. Il barone pretende la giurisdizione delle prime e seconde cause in ambedue i feudi.
23. Cultorio: Se uno tiene un paio di buoi, e semina grano in un territorio, oltre la decima paga un tumulo di grano. Se semina orzo corrisponde un tumulo di orzo, se semina grano e orzo, contribuisce un tumulo di grano e di orzo, e ciò tanto in Terra di Novoli, quanto nel feudo di Villa Convento.
24. Il barone permette a forestieri, che possino in detti feudi indistintamente pascolare animali, ed esige una prestazione per si larga licenza.
25. Quando si vuole immettere uva nel feudo di Novoli prodotta da terrieri siti in altro feudo, esige una mezza di vino mosto per ogni possessione, cioè carafe 16 a misura di Napoli.
26. Angaria ogni anno un naturale di Novoli per esercitare l’officio di Erario, ed esigere le decime, il Testatico, il Vassallaggio, senza emolumento.
27. Pretende il barone la scelta del sindaco, e degli eletti dell’Università, la quale ne fa semplice nomina.
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28. Elegge ogni anno il Governatore senza essergli stato concesso dal diritto sub verbo signanter. Non gli dà provisione, per cui si commettono enormi ingiustizie, che si garantiscono dal suo Aggente, e dallo stesso barone. Affitta la Mastrodidattia (funzione dei giudici supplenti in fase istruttoria), onde si commettono anche estorsioni.
29. Il possessore di Novoli esercita il diritto di Portolania (tributo per l’ingresso nel paese) della Terra di Novoli e nel fondo di Villa Convento.
30. In alcuni anni il barone obbliga i coloni di fatigare nelle possessioni baronali e gli proibisce di lavorare nei fondi di altri possessori.
31. Il barone pretende avere il diritto proibitivo di raccogliere e vendere la neve.
32. Impedisce, che il possessore dopo la mietitura, e dopo la raccolta delle olive, e dell’uva, introduca nè suoi fondi i propri animali, che tiene in altri feudi ne vuole il diritto di entratura (carlini 15 a mandria).
33. Il barone vanta il diritto proibitivo di tenere palombari e pretende che i suoi palombi debbano pascolare nè territori, e seminati dè particolari senza poterli cacciare con lo schioppo.
34. Pretende la decima da lavoratori cretaioli. Un carlino per il forno piccolo, grana 15 per il forno grande.
35. Pretende la decima della calce ancorché si faccia con propria legna, e pietre in un luogo proprio e pietre in un luogo proprio.
36. Il barone transige i delitti in denaro.
37. Esige i censimenti da alcune case sotto il pretesto di esser concessi i fondi.
38. Pretende il barone la decima dell’avena che si pascola in erba nè mesi di dicembre e gennaio per maggiormente fruttificare. 39. Il barone pretende la decima dei lupini in erba. 40. Il barone pretende la decima senza la deduzione della semente.
Capi d’accusa prodotti dall’Università di Novoli
1. Il barone pretende la decima senza dedurre la semenza, e le spese della necessaria coltivazione.
2. Nel feudo di Novoli non si decima né bombace, né ortalizi, né qualunque albero fruttifero, eccetto le olive. Essendo due feudi vicini ha dedotto l’Università di essere gravata, perché nel feudo di Villa Convento si pretende la decima di questi generi.
3. Il barone esige la decima delle scaglie di grano, della biada, dei legumi, e delle cipolle in tutti e due i feudi, e la decima di ogni erba, e frutto in quella di Villa Convento. Tali decime o non si devono, o se si devono quando tali generi si vendono e non già quando servono all’uso proprio.
4. Quando qualche volta si seminano i legumi nè i vigneti, o altri generi negli uliveti per fare uno stracoltivo, e fare vieppiù fruttificare la vigna, e gli alberi, il barone pretende la decima.
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5. Esistendo nello stesso territorio vigna, ed olive il barone dovrebbe esigere la decima di una specie solamente del prodotto. Vuole esigerle ambedue.
6. Il barone pretende la decima del giorno, che la vigna comincia a dar frutto senza potersi rifare il possessore delle gravi spese sofferte per molti anni, nei quali la vigna non ha dato frutto.
7. Il barone pretende la decima della biada in erba della ferragine, che si semina per pascolo degli animali.
8. Il barone pretende la decima del letame.
9. Il barone pretende la decima delle uve delle pergole, e dè frutti dei giardini chiusi esistenti nel feudo di Villa Convento, nonostante servano all’uso proprio.
10. Il barone esige a tenore del “rivelo” tanto dopo la mietitura senza darsi carico di quello che si ruba, né di quello che si consuma da sorsi e altri animali.
11. Il barone nel feudo di Villa Convento manda l’erario ad apprezzare i frutti sugli alberi senza sentire i possessori, e si fa pagare la decima in denaro secondo l’apprezzo del suo erario.
12. Pretende il barone la decima delle legne degli alberi secchi, i quali vuole che non si spiantino senza il suo permesso.
13. Il decimatore chiamato a sollecitare da possessori spesso o per dispetto o per noncuranza tarda a portarsi nè fondi, e fraditanto i prodotti o si rubano, o marciscono o si dissipano.
14. In alcuni casi vuole che l’erario sia pagato dai possessori dei fondi.
15. Il barone impedisce che nella Terra di Novoli e nel feudo di Villa Convento entrino prodotti di altri feudi, e che dopo entrati dal padrone altrove di trasportino.
16. Il barone impedisce che i padroni immettano i loro animali nè propri oliveti, e vigneti senza il suo permesso sotto pretesto, che si diminuisca la decima.
17. Il barone è obbligato a custodire il feudo con i suoi armigeri, ed è tenuto dè danni che si commettono.
18. Quando si commettono danni si esige la pena a capriccio anche senza querela.
19. Il barone esige censi per le case, e palmenti che si costruiscono nel feudo sotto pretesto di decima, che perde per il suolo che si occupa.
20. Il barone esige una prestazione da coloro che immettono animali per pascere in detti feudi.
21. Il barone esige 3 carlini a titolo di fondo e 3 a titolo di fida per le case, e botteghe site entro l’abitato di Novoli.
22. Il barone pretende la preferenza della compra del pesce ed altri commestibili e la franchigia di un grano al rotolo, che si paga per dazio universale sulla carne e sul pesce.
23. Pretende egli, ed i suoi officiali esser esenti dalla rata del sale, che dispensa l’Università per uno dè rami dè Regi pagamenti.
24. Per la frode della decima pretende esigere la pena nonuplo.
25. Per la pena del sangue esige ducati 6 e per le pene contumaciali ducati 150.
26. Il barone pretende avere il privilegio di quattro lettere arbitrali.
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27. Il barone sotto pretesto di diritti feudali fa procedere la corte baronale anche nelle cause nelle quali vi è il suo interesse.
28. Il barone pubblica i bandi pretori senza approvazione della Regia Camera. 29. Il barone pretende di avere diritto sulla portolania.
La controversia tra i Carignani, i Mazzotta e il Turfani, nonché il Comune di Novoli dapprima fu di competenza della Regia Camera, poi intervenute le leggi eversive della feudalità fu trattata dalla Commissione Feudale che, con sentenza del 31 dicembre 1810, abolì tutti gli arbitri feudali esercitati dal duca, fatta eccezione del diritto di esigere la decima su grano, orzo, avena, fave, lino, vino mosto e olio32 .
Abbiamo riportato alcuni degli abusi del feudatario novolese e ovviamente di quelli che lo precedettero, i quali allorché furono istituiti gli eserciti nazionali e permanenti potevano essere esentati dal servizio militare pagando al sovrano una tassa, detta Adhoa. Allorché il feudatario moriva, l’erede del feudo doveva pagare alla Regia Camera la tassa di successione, ossia il relevio, ma se si trattava di chiese e conventi per i loro beni la tassa era più blanda e si versava ogni quindici anni, e perciò fu detta quindennio.
I feudatari, ancora, versavano annualmente la tassa per il diritto sul territorio, detto portolania, cioè per l’uso delle acque e della giustizia, che sin dal periodo angioino fu completamente nelle loro mani ed arbitrio, con differenze però tra feudo e feudo.
Padroni di uomini e cose, questi nobili eleggevano a piacimento giudici e governatori, potevano commutare anche i delitti più gravi in sanzione economica, compreso l’omicidio. La loro fedeltà al sovrano veniva ricompensata con ulteriori facoltà nel campo della giustizia, ossia con le lettere arbitrarie che consentivano di emanare editti che, ovviamente, aumentavano il potere vessatorio sulle inermi popolazioni. A Novoli, in particolare, il barone aveva il diritto di vita e di morte, aveva la giurisdizione delle cause civili e penali, era lui che nominava l’apparato amministrativo, sindaco compreso, e con lo Jus prohibendi tutelava ogni suo interesse, vietando quanto poteva nuocere alle sue entrate, o obbligava la gente a servirsi dei suoi trappeti, mulini etc. Tutto, insomma, era nella sue mani33 .
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ASL, Scritture etc., op.cit., fasc. 66/5.
33 Cfr., N. Santamaria, I feudi, il diritto feudale e la loro storia nell’Italia meridionale, Sala Bolognese 1978; L. Bianchini, Storia delle finanze delle Due Sicilie, Napoli 1971; L. Bruno, Dai diritti feudali alle leggi eversive, in La questione demaniale in Terra d’Otranto nel XIX secolo, Galatina 1985; D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli 1811.
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5) Verso l’abolizione della feudalità.
Il XVII secolo non costituì un’epoca tranquilla per il Regno partenopeo e, quindi per la provincia di Terra d’Otranto dove se da una parte si assiste alla frenetica costruzione di chiese, conventi e palazzi barocchi, stimolata dalla Chiesa Cattolica ferita ma non vinta dalla Riforma protestante, dall’altra fa riscontro l’immiserimento ulteriore delle plebi a causa della rifeudalizzazione e del malgoverno spagnolo.
Anche nell’estrema propaggine di Puglia giunse l’eco della rivolta di Masaniello a Napoli (1647), ma qui nulla si mosse e la vita continuò nell’apatia e nel fatalismo. Le cose non andarono meglio nel secolo successivo soprattutto per le popolazioni rurali e dei casali. Da parte sua, tuttavia, la borghesia e la nobiltà continuarono la costruzione di edifici e la Chiesa vegliava sulle genti, essendo uscita rinnovata dal Concilio di Trento (1546-1563) e istituiva Seminari, favorendo, anzi imponendo il culto di alcuni santi, come il caso di S. Oronzo, a Lecce, che avrebbe salvato la Terra d’Otranto da una tremenda epidemia.
Nei primi mesi del 1710 il cardinale Grimani, vicerè, emanò una disposizione con la quale sopprimeva tutti i mulini che erano posti fuori della città di Lecce, e stabiliva punti di passaggio ove veniva pagata la tassa e veniva donato giornalmente un pane a tutti i preti. All’epoca era vescovo di Lecce Mons. Fabrizio Pignatelli, il quale intimò alle civiche autorità di presentarsi a lui. Il gesto parve arrogante, la gente mal digeriva questa ulteriore vessazione, sicché, avendo i pubblici amministratori ignorato il comando del vescovo, costui li scomunicò. Scoppiarono tumulti, si ricorse al re che parteggiò per il popolo, anzi il sovrano dispose la confisca delle rendite episcopali, ma clero e clericali si opposero con la forza; giunse addirittura l’ordine di arrestare il vescovo che venne condotto prigioniero prima a Napoli e poi a Roma. Il presule, però, aveva fatto in tempo a scomunicare un sacco di gente e ad emanare l’Interdetto contro la città, ove non vennero celebrati i sacri riti fino al 1719, anno in cui la corona di Spagna e il Papa trovarono un accordo, il vescovo ritornò a Lecce e, così, venne revocato l’Interdetto. Malcontenti per le tasse, faide comunali animarono la vita cittadina, ove di fronte ad una nobiltà arrogante e altezzosa, emulata dall’alta borghesia, si contrapponeva la massa di modesti lavoratori e di tanti diseredati. Il secolo dei Lumi, era il 1799, si concluse nel Regno partenopeo con turbolenze rivoluzionarie che, che influenzate dalla nuova cultura e dagli esiti della Rivoluzione Francese, contestavano il malgoverno borbonico, la sua corruzione e il suo dispotismo. Si inneggiava alla repubblica, e per un istante si
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credette di aver abbattuto i monarchi, che fuggirono a Palermo. La Repubblica partenopea, come si sa, ebbe vita effimera per il contrattacco dei reazionari e dei sanfedisti. Anche a Lecce il 9 febbraio 1799 fu innalzato l’albero della libertà, ma dopo 24 ore venne abbattuto dalla plebe sobillata da preti e realisti; seguirono vendette, e la città vide salire sul patibolo napoletano uno dei suoi più illustri figli, il generale Massa, che aveva scelto di combattere per la libertà.
Il XVIII secolo fu turbolento e misero per la città di Lecce, che conobbe l’incremento dei fatti criminosi, carestie, il rallentamento dell’attività edilizia ma, è appena il caso di notarlo, ciò riguardò principalmente i ceti popolari, mentre l’alta borghesia e la nobiltà conducevano una vita brillante, sia pure nei limiti di una città periferica che cercava di imitare comunque la capitale partenopea. L’artistocrazia leccese, in fatto di moda, trasformò i suoi costumi emulando la Francia. Via via vennero abbandonati i modelli di retaggio spagnolo e tedesco, sicché nella città che organizzava accademie e rappresentazioni teatrali apparvero cicisbei e damigelle, che esibivano abiti sfarzosi e ricchi di gioielli.
Per quanto attiene il costume popolare, esso, come per le altre aree d’Italia, anche in Terra d’Otranto si formò tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, per ragioni di ordine economico, sociale e e culturale. Nel Salento i capi di abbigliamento si uniformarono, in linea di massima, a quelli del Regno partenopeo, ma non in maniera pedissequa, ma con varietà di fogge, tipi e caratterizzazioni locali dipendenti da influssi e da peculiarità economiche.
Se nella Grecìa salentina il costume popolare sembrò richiamare suggestioni bizantino-orientali, nei paesi di lingua romanza l’influenza venne esercitata dal costume popolare borghese che da Lecce si promanava fino al Capo di Leuca, ovviamente con sfumature tipologiche pressoché per ogni centro.
Alla fine del XVIII secolo le idee illuministe e giacobine entusiasmarono per i loro progetti riformatori della società, e sebbene da parte di un ristretto ceto di intellettuali queste idee di diffusero anche nel Meridione d’Italia.
Com’è noto la seconda fase della Rivoluzione francese fu contraddistinta dalle imprese napoleoniche, che misero in subbuglio l’intera Europa. Napoleone voleva realizzare un nuovo ordine, ma soprattutto mirava a divenire il padrone del vecchio continente. Le armi francesi ben presto conquistarono quasi tutta la penisola italiana, ovunque introducendo i Codici del Gran Corso e vieppiù diffondendo i principi laicisti, rappresentati dalla Massoneria che, però, era già presente a Napoli nel 1723, mentre a Lecce ufficial-
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mente apparve nel 1805.
Nel gennaio 1806 i Borboni furono cacciati da Napoli dalle armi francesi e nel regno subentrarono come sovrani Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat, che continuò l’opera riformatrice del suo predecessore. Egli nel 1807 soppresse gli Ordini religiosi. Ogni provincia ebbe i suoi intendenti e sottointendenti, i Consigli Provinciali, Comuni e decurioni. Così tramontavano le Università istituite nel Medioevo, venne realizzata l’anagrafe, tuttavia per conoscere il numero di abitanti di ogni casale già prima si fa riferimento ai registri parrocchiali dei battezzati, matrimoni e morti, voluti dal Concilio di Trento.
In Terra d’Otranto, ancora alla vigilia dell’eversione della feudalità, il potere dei baroni era solido ed opprimente. Tra i tanti ostacoli che impedivano il libero sviluppo dell’economia agraria della provincia emergeva in modo particolare il sistema di decimazione che caratterizzava la feudalità otrantina a cui la legge eversiva del 2 agosto 1806, N. 130, dedicava un intero e discusso articolo.
Le prestazioni consuete nei feudi salentini erano: la decima, in genere di natura laicale o prediale, di tutti i prodotti del suolo- grano, orzo, fave, lino, bambagia- quella dell’odio e del vino mosto e di tutti i generi di sussistenza, al fida dell’erba agreste o pagamento del prezzo del pascolo, l’erbatica, la carnatica, ed altre prestazioni sull’industria del bestiame, la decima parte del prezzo sulle alienazioni dei fondi rustici ed urbani situati nei feudi baronali. La legge eversiva aboliva il peso dell’adoha, il relevio, tutte le angarie e perangarie ed ogni altra opera di prestazione personale, dogane o piazze e tutti i diritti proibitivi, e, all’art. 15, stabiliva che i demani appartenenti agli aboliti feudi restassero ai possessori, conservava gli usi civili alla popolazione e si riservava di regolare successivamente la divisione delle terre in proporzione dei diritti rispettivi.
Molto importante fu anche l’art. 14 che toglieva ai baroni ed alle Università i diritti di portolania, bagliva, zecca di pesi e misure, scannaggio e simili, ed ogni potere giurisdizionale.
La Commissione feudale, istituita con decreto 11 novembre 1807, N. 297, per giudicare tutte le cause sorte tra le Università e gli ex baroni, doveva risolvere “specialmente” -secondo l’art. 2 del decreto 27 febbraio 1809, n. 300- le “controversie nascenti da’ diritti, redditi e prestazioni territoriali, così in denaro come in derrate... conservati con la legge 2 agosto 1806”. Per la Terra d’Otranto, in particolare, la Commissione, secondo l’art 1 del decreto 16 ottobre 1809, n. 487, dichiarò abolito, il diritto di decimare solo su alcuni generi minori, quali legumi, ortaggi, noci e ritenne, invece,legittime a
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favore dei baroni le decime esatte su tutti i prodotti principali: grano, orzo, aveva, bambagia, lino, fave, vino, mosto olive. L’esazione del vino mosto, secondo l’art. 4 del decreto, non poteva farsi se non nei palmenti degli stessi contribuenti e le decime delle olive non potevano riscuotersi se non in frutto nei luoghi dove si raccoglievano. Lo stesso decreto vietava invece espressamente le decime di ogni rata di prezzo nella alienazioni di tutti i fondi, la decima delle erbe, la fida, l’erbatica, ed ogni altra prestazione sugli animali e sui loro prodotti. Sulle difese legittimamente costituite, cioè sulle terre chiuse a qualunque diritto estraneo, fu conservata la fida. Significativo fu l’atteggiamento della Commissione nei riguardi degli enti ecclesiastici possessori dei feudi. La sentenza 20 luglio 1810, ad esempio, riconosceva sacramentali - quindi soggette all’abolizione- le decime esatte dalla Massa arcivescovile di Brindisi nel comune di San Pancrazio. Essa dichiarava inoltre la demanialità dei feudi sui quali i cittadini esercitavano gli usi civici i quali, poi, secondo la legge 1° settembre 1806, n. 185, dovevano essere divisi tra i comuni e gli ex baroni.
A norma dei decreti 20 giugno 1808, n. 151, 17 gennaio 1810, n. 540, si dette poi la possibilità ai possessori di fondi gravati ancora da prestazioni a favore degli ex feudatari e collettivamente ai comuni per tutti e per una parte dei possessori dei loro rispettivi territori, di commutare in denaro le rendite e le prestazioni ex-feudali.
Con decreto 20 agosto 1810, N. 719, decorrente dal 31 dello stesso mese, la Commissione feudale fu sciolta ed il compito di decidere sulle controversie sorte tra gli ex feudatari ed i comuni in seguito alle leggi eversive, e destinate a protrarsi ancora per lunghi anni, fu lasciata ai tribunali ordinari.
L’analfabetismo, piaga delle regioni meridionali, cominciò ad essere affrontato dal re francese, il quale con decreto del 13 agosto 1806 stabilì l’istituzione in ogni comune del regno di una scuola primaria, e con decreto del 30 maggio ordinò il funzionamento di un collegio per ogni provincia. Nel 1807 Giuseppe Bonaparte giungeva a Lecce, nel giugno dell’anno successivo concedeva la Costituzione, accolta ovunque con entusiasmo. Subito dopo Napoleone gli diede il Regno di Spagna e sul trono napoletano fu insediato Gioacchino Murat.
Il Conte Anguissola, primo intendente di Lecce, il 17 agosto 1806 pubblicò l’esito concernente l’abolizione delle feudalità. Con decreto del 20 gennaio 1808 l’Anguissola fu sostituito da Pietro de Sterlich, il quale fece sorgere il “Giornale d’Intendenza della Provincia di Terra d’Otranto”, che cominciò a pubblicare il 1° maggio. Le spese della stampa furono addossate ai comuni, rateizzate a nove ducati per ciascuno. Si spedivano loro due esemplari, uno
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per l’archivio e l’altro per uso dei cittadini. Per la spedizione e per la corrispondenza ufficiale si crearono corrieri i quali giungevano nel capoluogo il mercoledì ed il sabato.
La presenza francese nel Meridione d’Italia se da una parte rivestì il carattere di una vera propria occupazione, dall’altra, però, fu sicuramente benefica per l’afflusso delle idee illuministiche e per l’estensione del Codice Napoleonico in tutte le terre soggette alla giurisdizione dell’Impero. L’idea costituzionale, l’abolizione dei privilegi feudali e dei beni ecclesiastici, nonché l’inizio della scolarizzazione delle masse, furono elementi di novità che la restaurazione reazionaria dei Borboni, dopo la breve parentesi della dominazione austriaca, non riuscì a cancellare. Il Congresso di Vienna restaurò anche i Borboni di Napoli, ai quali raccomandò moderazione e rispetto di alcune concessioni fatte dai francesi eccetto, però, la Costituzione, che fu abrogata. La reazione borbonica è tristemente famosa. Carcere ed esecuzioni furono all’ordine del giorno, il brigantaggio imperseverava nel regno34 .
La soppressione dei conventi
Nello spirito della Rivoluzione Francese e del Codice Napoleonico, tra le riforme effettuate da Gioacchino Murat nel Regno di Napoli, vi fu la soppressione e confisca di molti conventi, tra il 1806 e il 1809, ben 165 in Terra d’Otranto di Ordini religiosi sia maschili e sia femminili, con scarse proteste delle comunità municipali. Tuttavia ancor oggi alcuni ecclesiastici inveiscono contro i provvedimenti murattiani e poi del governo unitario addebitando quanto accadde al giacobinismo e ad una “congiura massonica”. Ma le cose, però, non stanno così, o lo sono relativamente in parte, poiché il pensiero fiorito nell’età dei Lumi anelava l’eguaglianza di ogni cittadino di fronte allo Stato, senza ceti privilegiati e parassitari accampanti criteri di priorità, come il clero e la nobiltà, sicché ne conseguì il ridimensionamento del potere temporale della Chiesa che oggi, e lo hanno ribadito gli ultimi Pontefici, essendo libera dai condizionamenti terreni, meglio e in maniera più autentica può svolgere la sua missione evangelica. Ma, come si diceva, in ambito ecclesiastico ancor oggi non mancano posizioni retrive e reazionarie, non mancano i nostalgici di Pio IX,Leone XIII e
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di
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34 Cfr., M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, Napoli 1804, pp. 624 e seg.; D. Winspeare, op. cit.; P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; F. Venturi, Settecento riformatore, Torino 1969; L. Bruni, op. cit
San Pio X. Se è pur vero che Gioacchino Murat fu Massone e Gran Maestro del Grande Oriente di Napoli egli, come si suol dire, non guardò in faccia nessuno allorché si pose l’obiettivo della modernizzazione dello Stato, per cui nel solco delle riforme napoleoniche e , più indietro ancora, della Rivoluzione Francese, se da una parte tolse i privilegi al clero, dall’altra fece altrettanto nei confronti della feudalità, che mai si sognò di tirare in ballo la “congiura massonica”. Ma come si giunse alla soppressione degli Ordini religiosi e all’incameramento dei loro beni? A parte il fatto che Murat aveva urgente bisogno di denaro per il mantenimento dello Stato partenopeo, a prescindere dalla considerazione che intendeva porre “sul mercato” i beni ecclesiastici, congelati dall’istituto della “mano morta”, egli che relativamente era informato sul patrimonio degli Ordini religiosi e sul loro ruolo nel sociale, si rivolse a persona di fiducia per poter intervenire adeguatamente nell’opera di soppressione di tali Ordini. E così si rivolse tramite il Ministro del Culto, Giuseppe Zurlo, al Padre Silvestro Miccù, Minore Osservatore, Arcivescovo di Amalfi, al quale il 23 gennaio 1809 affidò il compito di preparare un elenco riguardante la riduzione delle case religiose nel Regno di Napoli, e tale elenco il vescovo lo presentò al Murat nel maggio 1809, proponendo un piano “parziale” di soppressione delle case religiose. Tuttavia il Ministro Zurlo, divenuto il 24 febbraio 1809 contemporaneamente Ministro della Giustizia e del Culto, andò oltre il piano dell’Arcivescovo di Amalfi e propose, con decreto del 7 agosto 1809, una “soppressione totale”, con il risultato della chiusura nel Regno di ben 78 conventi degli Ordini possidenti, di 1421 religiosi espulsi, e di 200.733 ducati di rendita incamerati.
Le cose peggiorarono allorché nel 1810 (genn. febb.) il nuovo Ministro del Culto, Francesco Ricciardi, continuò la soppressione anche degli Ordini mendicanti, ma con diverso sistema. Si camuffò la scure della soppressione e della confisca dei beni, sotto la formula del ripristino della disciplina regolare, riprendendo l’antica norma di Innocenzo X che, cioè ogni convento dovesse essere abitato da almeno 12 religiosi. E così il nuovo Ministro Ricciardi rese esecutiva questa norma il 25 maggio 1811, fornendo agli Intendenti regionali un primo elenco degli Ordini Mendicanti da sopprimere. Con la chiusura dei conventi andò disperso o distrutto un enorme patrimonio artistico- letterario, libri, biblioteche, arredi sacri, etc. Chi poteva acquistava a prezzi assai convenienti quanto era stato confiscato, e tra i maggiori acquirenti leccesi ricordiamo i Foscarini, i Mancarella, i Perrone, i Della Ratta, i Notaristefano, i Libertini, etc. In Terra d’Otranto vi furono 165 soppressioni di conventi maschili e femminili: i Domenicani perdettero 29 case, i Con-
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ventuali 23, i Cappuccini 19, i Carmelitani 15, i Paolotti 13, gli Agostiniani 11, i Riformati 11, gli Osservanti 8, gli Alcantarini 4, i Celestini 4, i Teresiani 3, gli Olivetani 4, i Fatebenefratelli 2, gli Scolopi 5, i Servi di Maria 1, i Teatini 1, i Teresiani 1, i Cassinesi 1. Ciò per gli Ordini maschili, mentre per gli Ordini femminili le Clarisse perdettero 3 case, le Domenicane 2, le Alcantarine 1, le Benedettine 1, le Terziarie francescane 1, le Paolotte 1. Alcuni religiosi passarono ad altro ordine o congregazione risparmiata dalla soppressione, altri confluirono nel clero secolare e altri ancora ritornarono allo stato laicale.
Con il Concordato del 1818, 52 conventi vennero ripristinati in virtù del fatto che questi erano autosufficienti e, diremo oggi, socialmente utili, in quanto curavano l’istruzione dei giovani, si occupavano degli infermi e si dedicavano alla predicazione. L’operazione di soppressione-confisca fruttò allo Stato la considerevole somma di 175.618 ducati35.
Anche a Novoli, e precisamente nella frazione di Villa Convento, giunse la scure della soppressione delle case religiose, e quindi toccò pure al convento domenicano di S. Maria delle Grazie la definitiva chiusura e i suoi beni passarono al demanio, allorché esso annoverava un solo religioso e due conversi.
“Il 29 ottobre 1809 i commissari Giacomo de Marinis, Matteo Francioso e Celestino Andrioli, insieme all’eletto Tommaso Mazzotta redassero gli inventari – dice il Mazzotta – e al tempo il convento possedeva 62 tomoli di terra, 20 orti di vigne, 125 alberi di ulivo e 4 case di abitazione. I terreni erano frantumati in microfondi dati tutti in enfiteusi perpetua e a lungo termine. La rendita degli immobili era di 141 ducati e 44 grani, ai quali andavano aggiunti altri 100 ducati provenienti da canoni e rendite da un capitale di 720 ducati”36.
35 Cfr., G. Barletta, I decreti di soppressione degli Ordini religiosi nel Regno di Napoli durante il decennio francese, alcuni riflessi in Terra d’Otranto, in “Nuovi Orientamenti”, Gallipoli, XVII, n. 97, 1986, pp. 3-16; G. Cioffari-M. Miele, Storia dei domenicani nell’Italia meridionale, voll. 3, Napoli-Bari 1993; G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, Teramo 1965; P. Villani, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806-1915), Milano 1963.
36 Cit. da O. Mazzotta, I conventi soppressi in Terra d’Otranto nel decennio francese (1806-1815), Bari 1996, p. 100.
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Giuseppe Longo 1663
Domenico Saracino 1664
Domenico Saracino 1673
Gioacchino Ruggio 1686
Giuseppe Zillo 1690
Gioacchino Tarantino 1697
Francesco Morciano 1697
Andrea Guidano 1706
Pietro Mazzotta 1713
I Governatori feudali
Liberato Tornese 1715
Oronzo Conte 1716
Francesco Iennero 1717
Vito Relli 1725
Giovanni Battista Agazi 1737
Natale De Simone 1747
Leonardo Mazzotta 1751
Nicola Mazzotta 1766
Matteo Francioso 1778
Novolesi da ricordare, vissuti tra XVI
Giuseppe Mazzotta 1784
Paolo Nicola Mazzotta 1788
Abramo Miglietta 1788 Omobuono Mannarini 1788 Leonardo Mazzotta 1791
Gaspare Cuttone. 1791 Pasquale Longo. 1793 Carlo De Dominicis. 1795 Pietro Longo 1796
e XVIII secolo
Nel mese di gennaio 2016 pubblicai, con la collaborazione di Piergiuseppe De Matteis e di Gilberto Spagnolo, Novolesi che con successo di pubblico e di critica fu presentato a Novoli nel successivo mese di febbraio. In questo testo, di ben 80 profili biografici di Novolesi che hanno lasciato indelebile memoria di sé, la diffusione è stata irrisoria, tuttavia preventivata per un paese che legge poco, non si interessa più di tanto della propria storia e dove non pochi pretendono in regalo il libro. Scusate la franchezza ma chi mi conosce sa che non ho peli sulla lingua37
Per questa storia di Novoli spero di avere maggiore fortuna, e qui rifacendomi al libro succitato, a cui si rimanda anche per le note bibliografiche e foto, opererò una sintesi di quanto già scritto effettuando nel contempo una ulteriore selezione, escludendo pure i Novolesi di adozione. Così farò per i capitoli successivi, ovviamente inquadrando nel loro tempo e avvenimenti quei cittadini che hanno dato lustro a Novoli, e non solo.
- Pasquale Domenico Felice Andrioli, Novoli 12/VIII/1716-Lecce, 1784. Rinomato musicista fu virtuoso del violino ed egli ben presto ebbe vasta notorietà in Terra d’Otranto, sempre conteso da impresari teatrali e per tante occasioni sacre e profane.
- Don Pasquale Francioso, Novoli 26/V/1733 - Lecce, 1806. Di brillante e non comune intelligenza, fu dotto sacerdote e insegnò Umanità e Retorica presso il Seminario di Nardò e di Lecce. A Novoli fu rettore della Confraternita del Sacramento. Per cinque anni fu Prefetto del Venerabile Oratorio di S. Croce a Lecce, dove fu cappellano del castello. Ottimo predicatore e rinomato
37 M. De Marco, Novolesi, Lecce 2006.
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epigrafista in latino fu pure un abile verseggiatore satirico. Compose un Inno a Sant’Antonio Abate e l’Inno a San Gregorio Taumaturgo. In occasione della visita del re Ferdinando IV a Lecce, nel 1797, dettò alcune iscrizioni latine.
- Frate Lorenzo, nato a Novoli verso la fine del ‘500 non si sa quando e dove morì. È noto per aver pubblicato nel 1616 una Descrizione della Provincia di Terra d’Otranto, opera (ahimé) scomparsa. Si sa ancora che fu Cappuccino che forse avrebbe realizzato alcuni affreschi nella chiesa dell’Immacolata a Novoli, dove pure avrebbe realizzato una meridiana sul muro di ponente della chiesetta di S. Oronzo. Gli si attribuisce una Carta Geografica della provincia di Terra d’Otranto.
- Alessandro mattei ii, Novoli 11/IX/1580-1637 circa. Barone di Novoli, di lui Girolamo Marciano tramanda che fu persona assai colta, che protesse letterati e artisti e che abbia avuto una fornitissima biblioteca della quale nulla è giunto sino a noi, come nulla ci è giunto della sua rinomata pinacoteca. Presso il suo palazzo, a Novoli, tenne un cenacolo di letterati e artisti. Concluse la propria esistenza oberato dai debiti.
- Padre Francesco Guerrieri, Novoli 1563-Manduria 1/XI/1629. Gesuita, per molti anni insegnò retorica e lettere greche a Chieti, a Taranto e a Lecce, si distinse come persona dottissima, fu celebrato oratore dedito alle missioni popolari e morì in odore di santità. Lodato dal Marciano e dell’Infantino, fu amico di Torquato Tasso, dell’umanista Alessandro II, signore di Novoli, e fu assai benvoluto da S. Bernardino Realino. Scrisse in latino molte opere e trattati di vario genere, commenti e annotazioni sugli antichi greci e romani. Di lui resta inedito il lungo poema Ignatius.
- Benedetto Mazzotta, nacque a Novoli dove visse e morì nel XVII secolo. Padre Celestino, si distinse nelle lettere e nelle scienze, e a Bologna insegnò filosofia e teologia, e insegnò pure presso altri rinomati atenei, quelli di Pavia, Napoli, Roma, Siena e Padova. Della sua produzione resta un’opera che al tempo fu assai lodata, ossia De triplici philosophia naturali, astrologica et minerali, pubblicata a Bologna nel 1653.
- Nicola Mazzotta, Novoli 11/X/1669-Napoli, 1737. Gesuita, insegnò materie umanistiche prima nel Collegio di Sulmona e poi in quello dell’Aquila. Persona assai dotta, si formò pure a Napoli e fu prefetto del Collegio gesuitico lupiense, presso il quale insegnò logica e metafisica, diresse la Congre-
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gazione dei Chierici e, dopo altre cariche, assunse quella di Rettore del Collegio Massimo della Compagnia di Gesù. Di lui ci resta l’opera pubblicata postuma, nel 1748, il Trattato teologico- morale, che fu mandato alle fiamme nel 1763 dal Parlamento dei Parigi nel clima anticlericale, ma detta opera fu ristampata in diverse nazioni.
- Pietro Mazzotta, Novoli 1688- 30/VI/1750. Ottimo letterato, fece parte della leccese Accademia degli Spioni. Di lui ci resta un Sonetto.
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Novoli, via Moline
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C’era una volta
Preambolo
Per secoli e secoli vita e costumi si sono tramandati attraverso tante generazioni, con ovvie modifiche nel tempo ma senza che queste abbiano scalfito più di tanto le tradizioni, pressoché immobili nella società contadina, nella quale si inseriva Novoli almeno fino a circa sessanta anni fa, ossia fino ad alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale. Poi tutto è cambiato, e non sempre positivamente, con l’avvento del cosiddetto progresso, con le nuove omologazioni, con l’avvento di mezzi e tecniche a scapito anche della creativa manualità. È così pure a Novoli via via è tramontata la civiltà contadina non solo per l’abbandono dei campi e delle specifiche colture, ma anche per la metamorfosi della mentalità, e ciò a causa dell’emigrazione di ritorno e del commercio dei tessuti, settore oggi in una crisi irreversibile.
Tutto è destinato a mutare, e se qui ci soffermiamo su alcuni aspetti del mondo di ieri lo facciamo con moderata nostalgia non volendo subire quanto imposto dalla persuasione occulta dei mass-media e delle strategie economicistiche e consumistiche, di nuovi gusti e pronti alle mode che velocemente mutano e ottenebrano le coscienze. Parliamo del mondo di ieri non celando un pizzico di inattualità, consapevoli però che nel passato non tutto era rose e fiori, anzi, per cui si cercherà di storicizzare e quindi di far conoscere, soprattutto alle giovani generazioni, chi siamo stati e, non ultimo, per sapere dove vogliamo andare, considerando che ahimé oggi, almeno a me così pare, Novoli sia ora un paese privo di specifica identità, immemore del passato, incapace per tanti aspetti di coniugare la tradizione del luogo con gli apporti più ampi della nazione e del mondo.
E del passato io scrivo perché ritengo, come quelli della mia età, di essere testimone di un’epoca di passaggio tra l’antico e l’attualità, affidandomi pure alla memoria personale e a quella a suo tempo trasmessami dagli anziani. Potrei continuare non so quanto su questo discorso, ma voglio scansare suggestioni personalistiche che diverrebbero stucchevoli, per cui sommariamente scriverò del mondo di ieri, della mia Novoli e di quello spirito dello luogo che si possiede per esservi nati e che le parole sono incapaci di esprimere.
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La popolazione novolese nel tempo
Nella prima metà del XVI secolo, nel 1532, Novoli era poco più di un villaggio, contava appena 38 fuochi (famiglie), quindi una popolazione mediamente di 220 abitanti1. Col tempo il casale crebbe sia in estensione e sia per numero di persone ma la popolazione, qui come altrove, registrò alti e bassi dovuti essenzialmente alle ricorrenti epidemie, quella più cruenta che avvenne tra il 1721 e il 170, a poi altissima era la mortalità infantile, circa il 25%, quella delle puerpere curate, si fa per dire, dalle mammane, donne praticone e digiune di medicina. La mortalità, ancora, era causata dalle pessime condizioni igieniche, dall’arretratezza della medicina a volte praticata da barbieri o altri che estraevano i denti, effettuavano salassi e piccoli interventi chirurgici. A ciò aggiungasi la cattiva e scarsa alimentazione, le carestie che colpivano essenzialmente la gente comune. I cimiteri del tempo erano costituiti dal sottocorpo delle chiese, ma chi poteva acquistava il patronato di altari per sé e per i suoi familiari, non volendosi mischiare con la gente comune. La stragrande maggioranza delle sepolture era a “carnaio”, ossia nelle fosse venivano fatti scivolare con un tavolaccio obliquo i morti. C’erano le tombe ipogee per i bambini presso il fonte battesimale, mentre nelle navate di seppellivano, in distinte sezioni, gli uomini e le donne, nel presbiterio i sacerdoti, sotto gli altari privilegiati nobili e ricchi, raramente in loculi murari. Le confraternite seppellivano i loro aderenti nelle cappelle privilegiate. Immaginiamo il puzzo esistente nelle chiese, dove si bruciava tanto incenso per rendere respirabile l’aria pestifera.
Poiché prima delle leggi napoleoniche le Università mancavano di anagrafe, i dati riguardanti la fluttuazione della popolazione, nascite, matrimoni, come e quando si moriva, ci vengono offerti dai registri parrocchiali, fonti pressoché inesauribili di notizie non solo demografiche, ma anche di ordine economico, sociale, di arti e mestieri, e perfino della criminalità, ossia se una persona moriva ammazzata. Tali registri vennero resi obbligatori per decisione del Concilio di Trento (1545-1563), e il più antico registro dei battezzati risale, a Novoli, al 1571. Certo, dipendeva dai parroci, al tempo non sempre adeguatamente istruiti, l’accuratezza della compilazione, ma complessivamente per quanto riguarda Novoli non si notano sciatterie di rilievo. Con le leggi murattiane, com’è noto, cambiò l’organizzazione dei
1 Per i “fuochi”, o famiglie, non tutti concordano nello stabilire una media dei componenti del nucleo familiare, tenendo conto non solo del numero dei figli, ma anche di chi viveva da solo, vedovi, sacerdoti, nubili e celibi. Ci si è orientati, pertanto, a considerare un “fuoco” mediamente composto da 5 o 6 elementi.
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compiti municipali, venne tra l’altro istituita la pubblica anagrafe con Regio Decreto del 28 ottobre 1808, di cui ben presto si dotò Novoli. Il quadro sinottico della popolazione novolese, dal 1532 al 2015, che appresso riporteremo, ci offre un’idea abbastanza significativa sul numero delle persone che nel tempo ebbe il paese.
La popolazione di Novoli nel tempo2
- 1447 17 fuochi - 1480 24 “ - 1532 38 “ - 1555 128 “ - 1580 100 “ - 1594 110 “ - 1601 126 “ - 1648 210 “ - 1669 326 “ - 1672 1495 abitanti - 1706 1916 “ - 1719 1920 “ - 1748 1839 “ - 1767 2094 “ - 1785 2543 “ - 1790 2889 “ - 1799 2747 “ - 1800 2795 “ - 1807 2906 “ - 1832 3487 “ - 1861 3390 “ - 1871 4151 “ - 1882 4774 “ - 1900 6220 “ - 1911 6027 “ - 1921 6686 “ - 1931 6727 “ - 1951 9371 “ - 1971 9198 “ - 1992 8756 “ - 2015 8087 “
2 Cfr., L. Giustiniani, Biblioteca storica e topografica del Regno di Napoli, Napoli 1793, p. 136; Id., Dizionario geografico del Regno di Napoli, Napoli 1806; ASL., Catasto Onciario di Novoli, anno 1571; F. De Luca, La Diocesi leccese nel Settecento attraverso le visite pastorali-Regesti, Galatina 1994, pp. 241-253;
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Gli spazi abitativi
A Novoli, come in altri paesi del Salento nei secoli scorsi e, comunque fino al Novecento, la casa popolare possedeva una tipologia pressoché uguale. Poi mano a mano le cose cambiarono soprattutto all’indomani della seconda guerra mondiale allorché le abitazioni aumentarono grazie anche alle rimesse degli emigranti e ad un certo benessere che a Novoli fu determinato dallo sviluppo dell’agricoltura, dal commercio dei tessuti e dall’aumentato numero dei professionisti. Mentre nel passato le abitazioni non superavano il piano terra, eccetto quelle dell’agiata borghesia, invero ben poche, si cominciò via via a realizzare i secondi piani e ad effettuare l’espansione edilizia verso ogni direzione del paese, almeno da cinquanta anni a questa parte. Il centro storico novolese, essenzialmente ora rientrante nelle vie denominate Lecce, Pendino, Moline, Salice, Roma, S. Antonio, S. Giovanni e la piazza Regina Margherita, proprio nel cuore del paese esprimeva strade strette e tortuose, come via S. Vito che interseca via Moline con via Pendino, via Salvatore Mazzotta che interseca via Moline con via Roma, via dei Mazzotti, etc., che conduce dalla Piazza Municipio, ora detta Aldo Moro, all’antica chiesetta dell’Immacolata, costeggiando all’inizio la chiesetta di S. Oronzo. Ritornando alla via Salvatore Mazzotta, che i novolesi meglio conoscono come la strada delle poste ecchie, sicuramente perché originariamente ivi era allocato l’ufficio postale telegrafico. Questa via mi è particolarmente cara perché vi nacqui nell’abitazione allora al n.16, ora n.20. Le strade novolesi, almeno fino a cinquant’anni fa, non erano pavimentate a basolato né erano asfaltate, ma erano ricoperte da terra battuta e costituivano il teatro dei giochi dei bambini e di tante faccende domestiche, nonché di artigiani e di altri lavoratori. Come si è detto, a Novoli si potevano contare sulle dita di una mano le case a due piani abitate dai benestanti, mentre le dimore più povere, nonché vetuste, erano costruite con pietre informi, terra rossa e calce, poi mano a mano si impiegarono conci tufacei tratti dalle cave di Villa Convento, gli uccetti di tufo. Legate l’una all’altra, realizzate a schiera o a corte, le abitazioni sul retro possedevano l’orto, comunicante quasi sempre con analogo spazio di un’altra abitazione, ovviamente avente l’accesso su di un’altra strada. Le stanze erano disposte una dietro l’altra, e si trattava di due o tre camere medio- piccole, denominati casa (ingresso-soggiorno), cammara (camera da letto) e cucina, dove in un angolo sorgeva lu fucalìre, ossia il camino, indi l’ortale dove poteva esserci la stalla per l’asino, il mulo o il cavallo, nonché gabbie per l’allevamento di galline e conigli. Vi era poi una sorta di gabinetto alla turca, ossia la scettaròla, quasi sempre scoperta, costituita da una buca ricoperta da assi di legno o da
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lastre di pietra, con un foro centrale, dove si espletavano i bisogni fisiologici, si versavano le deiezioni umane raccolte nei càntari (pitale di terracotta smaltata, a due anse) che veniva usato in casa, essenzialmente di notte, e le acque di scolo; si trattava, insomma, di una vera e propria fogna domestica che, ovviamente, inquinava la falda freatica, Il gabinetto, come oggi lo intendiamo, a Novoli apparve intorno alla metà del secolo scorso, epoca in cui già nella cucina il vecchio fucalìre si evolse nella cucina economica tutta piastrellata che, a fine secolo però, appariva già sostituita dalle moderne cucine a gas. Nello stesso tempo sparirono le stalle per gli animali, e con l’avvento dell’acquedotto pugliese vennero realizzate le fontane pubbliche, e quindi si fece a meno di pozzi e cisterne, anche perché le abitazioni si dotarono dell’impianto idrico e quindi delle fogne pubbliche. Nel lontano passato le case popolari, fatta quindi eccezione per quelle dei ricchi, erano coperte da cannizzi (graticci di canne poggianti su travi lignee disposte a cuspide) sui quali si ponevano gli ìrmici (embrici, tegole di terracotta), poi via via il tetto venne realizzato con robuste volte a crociera, dette a stella, in muratura, e sulle terrazze, dette nella voce popolare logge, dove spesso sorgeva la suppìnna (soffitta) che raccoglieva provviste, masserizie ed altro, le donne potevano spandere agevolmente la biancheria che precedentemente si era costretti a stendere nell’orto, oppure appendendo le robe alle finestre e verande che davano sulla strada o nella corte. Nel tempo, pertanto, le abitazioni popolari, a volte veri e propri tuguri, a Novoli si evolsero, sia pure nell’essenzialità e nella semplicità, guadagnandoci soprattutto sotto il profilo funzionale ed igenico, non dimenticando che negli spazi ristretti si viveva in una indecorosa promiscuità e che l’animale da portare nella stalla, sita nell’orto, doveva attraversare tutta la casa.
Un tempo pessime, a Novoli come altrove, erano le condizioni igieniche, ci si lavava poco, si era a contatto con gli animali che espletavano i propri bisogni fisiologici dove capitava, a casa, nelle strade, dove tanti poveri bambini venivano impiegati per la raccolta te lu rumàtu, ossia dello sterco degli equini, e non solo, che veniva impiegato nelle campagne come fertilizzante, costituito anche dalle deiezioni umane allorché se nnittàne (ripulivano) li cessi, ossia le fosse biologiche. Non si sa quando, a Novoli, a ridosso del fabbricato ex Carceri Mandamentali fu installato “un orinatoio pubblico il cui stato igenico e estetico – negli anni Trenta del secolo scorso – lasciava molto a desiderare”. Così si leggeva, tra l’altro, nella relazione del 7 agosto 1931, firmata dal rag. Oronzo Madaro, il quale esponeva il progetto per la realizzazione di un più decente e funzionale orinatoio pubblico, a due posti, indicandone gli aspetti tecnici.
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Nella seduta comunale del giorno successivo, presente il Commissario Prefettizio Cav. Luigi Briganti, si approvò l’immediata realizzazione dell’orinatoio in questione affidandone la realizzazione alla ditta Alessandro Manca di Novoli, con la condizione però che il costo di L. 2.292,40 sarebbe stato saldato con il bilancio del 1933, senza interessi. Ottenute le necessarie autorizzazioni nel 1933 i lavori risultarono effettuati, e così l’orinatoio pubblico, che venne distrutto alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, venne addossato sul lato destro del Teatro comunale3 .
La corte e la strada
Molte le case a corte nel centro storico di Novoli e in questo spazio a volte si affacciavano pure qualche volta altre dimore. Nella corte spesso si trovavano il pozzo e la cisterna, mete del vicinato che ivi si recava per attingere l’acqua e per scambiare qualche chiacchiera. Nella corte, ancora, potevano esserci locali adibiti a ripostiglio per capase, capasuni e capaseddhre, ossia otri di terracotta smaltata, ma a volte di rame, contenenti vino, olio, aceto, legumi e fichi secchi, non mancavano le botti e altri recipienti, ma nella corte a volte poteva aprirsi la stalla che, generalmente, era allocata nell’orto. Sempre nella corte di svolgeva tanta parte della giornata, qui giocavano i più piccoli, le donne effettuavano tanti lavori, non solo domestici. In primavera esse risistemavano i materassi, saccùni, riempiti di foglie di granoturco o di paglia, sostituendo quanto si era rovinato o polverizzato. Se nel cortile vi era la pila, vasca in muratura o ricavata in un blocco di pietra, ivi si lavava di tutto, dalle verdure alle stoviglie, ai panni minuti e perfino i bambini, ma un rito particolare era costituito dall’emungimento dell’acqua dal pozzo e dalla cisterna. Sulla vera del pozzo si innalzava un arco metallico o in mu-
3 Questo capitolo doveva essere pubblicato nel 1980 nel mio libro Storia di Novoli. Tuttavia per ragioni editoriali il libro non doveva superare le 180 pagine, per cui gli argomenti qui esposti fui costretto a sacrificarli al pari di altre notizie. Già al tempo, oltre che avvalermi della mia memoria e quindi del mio vissuto personale, feci tesoro delle informazioni ricevute da carissimi amici novolesi, quali Fernando Sebaste, il cav. Donato Romano, Mario Rossi, Gilberto Spagnolo, Alfredo Mangeli, ed altri ancora. Necessariamente riveduto, questo capitolo riporta alcune voci del vernacolo novolese con ovvia corrispondenza nella lingua italiana, e pertanto ho ritenuto necessario avvalermi delle seguenti pubblicazioni specialistiche: A. Garrisi, Dizionario leccese-italiano, voll. 2, Cavallino 1990; A. Bernardini-Marzolia, Saggio di un vocabolario domestico del dialetto leccese con i vocaboli italiani corrispondenti, Lecce 1889; G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), ristampa fotomeccanica, Galatina 1976, voll. 3. Per le vicende dell’orinatoio pubblico a Novoli, Cfr., M. Rossi, Un “vespasiano” in Piazza Regina Margherita, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XV, Novoli 20 luglio 2008, pp. 24-25.
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ratura, avente al centro una carrucola fatta girare dalla corda, ‘nsartu, che opportunamente manovrato, portava giù e poi su il recipiente di terracotta o di rame o di zinco, e se tale recipiente cadeva in acqua, ecco allora che si ricorreva a li pampaùddhri per recuperarlo. Lu pampaùddhru, o raffio, era un arnese di ferro con più ganci, idoneo a ripescare le secchie cadute nel pozzo.
Le famiglie contadine nella corte pigiavano l’uva per la provvista personale del vino, oppure soprattutto le donne confezionavano le ‘nzerte di tabacco, ottenute infilzandone con l’acuceddhra, un grosso ago e spago, le foglie, ottenendo così delle sfilze che si ponevano sui taralètti, una sorta di lettiera di legno, di forma rettangolare, con ganci paralleli in orizzontale, ove si stendevano le ‘nzerte di tabacco per asciugare al sole. Si ponevano in piano, avendo quattro piedi lignei, oppure in verticale appoggiati sui muri stradali delle corti o sulle terrazze.
Quanta vita comunitaria di svolgeva un tempo nelle curti, uno spazio separato dalla strada dove spesso transitavano greggi, equini, traini; poi giunsero le biciclette e quindi i mezzi meccanici, auto, moto, camion e trattori che resero pericolose le vie e inadatte per bambini e adulti. Eppure fino agli anni Sessanta del secolo scorso la gente d’estate numerosa prendeva il fresco per strada sedendosi a gruppi vicino agli ingressi delle abitazioni, chiacchierando, progettando, scherzando, e ciò durò fino alla diffusione capillare della televisione. Oggi stringe il cuore vedere le strade di Novoli deserte, anche di giorno, le automobili parcheggiate o che sfrecciano con altri mezzi di locomozione nell’abitato.
La gente ormai, a Novoli come altrove, si rinserra nelle case, nel proprio privato, scarsa è la frequentazione dei locali pubblici eccezion fatta per pizzerie et similia, si va poco al cinema. Un tempo ovunque vi erano le putee, botteghe, di alimentari e altro, e questi luoghi di aggregazione sociale sono stati ormai soppiantati da market sempre più grandi, dove si trova di tutto, comprando senza interloquire con nessuno, ma ficcando tutto nel carrello e facendo la fila per pagare alla cassa. La vecchia putèa, però, svolgeva anche un servizio sociale dando la merce a critènzia, a debito, già perché coloreo che non disponevano di denaro potevano saldare il conto a fine settimana o mese, oppure quando potevano, mano a mano. È noto che i market non danno la merce a credito, si nutre chi paga, oppure niente, e Dio sa quante famiglie oggi fanno la fame, soffrono per la mancanza di lavoro e quindi di soldi, per cui non resta altro che rivolgersi alla pubblica carità.
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6) Il soggiorno.
Nella casa ovviamente si accedeva dall’ingresso-soggiorno che appariva accogliente pur nella sua semplicità, dove appariva l’essenziale suppellettile costituita da alcune sedie, spesso mpaiàte, impagliate, da abili artigiani che realizzavano il fondo con paglia intrecciata, un tavolo coperto dalla tovaglia più bella posseduta dalla famiglia, qualche cassa, càscia, per riporvi tessuti, l’appendirobe quasi sempre di ferro, il porta ombrelli e sulle pareti si scorgeva qualche quadretto, generalmente stampe di vario genere, oppure immagini di santi e , ovviamente, a Novoli non poteva mancare quella di S. Antonio Abate, Patrono del paese. Poi, con l’invenzione della fotografia, cominciarono ad apparire le immagini dei defunti, spesso con una specie di altarino dove durante la ricorrenza dei morti o per altre occasioni come quella di un recente decesso, ardevano lumini ad olio (lamparieddhri). Chi poteva impiegava lumini di cera o candele e, infine, vennero usate piccole lampade elettriche.
Un mondo arcaico, lo abbiamo già detto, a Novoli come altrove per tanti aspetti è durato sino ai primissimi anni dopo la seconda guerra mondiale, tempo in cui ancora in molte case le donne tessevano al telaio, lu talàru, producendo lenzuola ed altri panni, poi velocemente questo antico strumento fu soppiantato dai tessuti industriali, certamente meno costosi e più pregiati; le donne, ancora, lavoravano la lana, la cardavano, la filavano con la conocchia ed il fuso realizzando così grossi gomitoli che poi passavano al telaio oppure, quasi sempre, a due lunghi ferri, fierrizzùli, per confezionare la maglieria. Altra specialità delle donne novolesi era il ricamo, e a loro non era sconosciuta alcuna tecnica.
Il telaio, quasi sempre, si trovava in qualche angolo dell’ingresso; per secoli e secoli si cuciva a mano, ma nel Novecento con la macchina da cucire, la famosa Singer, il lavoro venne enormemente velocizzato soprattutto per i sarti.
7) La camera da letto.
Questo ambiente costituiva la parte più riservata dell’abitazione popolare, perché di questa stiamo parlando, già perché nelle dimore dei ricchi, dei professionisti e dei tanti preti che esprimeva Novoli si poteva notare dagli arredi, dalla pavimentazione e da altro il gusto e il grado di cultura di chi le abitava; restando al pavimento chi poteva usava mattoni, maioliche e perfi-
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no qualche mosaico, a differenza della casa popolare dove esisteva l’àstricu, ossia la pavimentazione ottenuta con un’unica gettata di cemento impastato a graniglia di terracotta o di marmo.
Ed eccoci nella camera da letto che fino al secondo dopoguerra ricordava un’organizzazione ancestrale, poiché il letto era costituito da tristieddhri, piuttosto alti, ossia da cavalletti di legno o di ferro sui quali si ponevano assi di legno e, su questi, un saccone (saccùne) riempito di foglie di granoturco oppure di paglia. Ma i ricchi riempivano di lana lu saccùne, la cui confezione era più accurata, palesandosi come l’antenato dei moderni materassi. Accanto al letto il comodino, alcune sedie, più in là un bacile retto da un treppiedi metallico che reggeva qualche asciugamano, e sotto il letto, piuttosto alto, come si diceva, si poneva lu càntaru per espletare di notte i bisogni fisiologici.
Quanto detto avveniva nel migliore dei casi, già perché vi era tanta promiscuità, poiché nel letto a volte vi dormivano tutti, sicuramente i più piccini, oppure sempre nella stessa stanza si allestiva qualche altro saccùne e le famiglie più fortunate, che possedevano qualche stanzetta in più, vi facevano coricare la numerosa figliolanza. Situazioni precarie, di sicuro, oggi difficilmente immaginabili, ma in antico così andava il mondo, ci si doveva arrangiare ritenendosi pure fortunati ad avere un tetto sopra la testa, non importa se a cannìzzi oppure con le volte in muratura.
Sul capezzale del letto matrimoniale campeggiava sempre, almeno da quando si diffusero le stampe, immagini sacre, quadri che raffiguravano la Sacra Famiglia, il Cristo o la Vergine, e così la gente si riposava andando a letto piuttosto presto per alzarsi la mattina al sorgere del sole per recarsi in campagna, spesso a piedi nudi per risparmiare le scarpe, indossando tuttalpiù zoccoli, sandali o pantofole.
Per lavarsi si usava la lìmmara, una bacinella di terracotta, poi di metallo smaltato sorretta da un treppiedi metallico rettangolare, lu portalìmmara. Ciò per mani , volto, testa, braccia e torace, per il resto ci si serviva di una tinozza pure questa di terracotta smaltata, lu limmu. D’inverno, per scaldare le lenzuola, ci si serviva de lu scarfaliettu, o monica, un contenitore metallico rettangolare, tenuto da un telaio ligneo, entro cui venivano posti dei carboni.
8) La cucina.
Ed eccoci ora nella cucina, la stanza più frequentata e dove essenzialmen-
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te le donne effettuavano la maggior parte dei lavori giornalieri. Qui si trovava il camino, lu fucalìre, necessario per cucinare e per scaldarsi. Accanto ad esso la legna da ardere, cippùni e sarmènte, tronchi e tralci di vite, tàccari, ossia ceppi di vari alberi ma soprattutto di ulivi, strome, le frasche degli ulivi, carboni, etc., la cui cenere veniva conservata per fare il bucato.
Anche qui l’arredo era ridotto all’essenziale, alcune sedie, la mattrabanca, ossia la cassapanca con il piano superiore ribaltabile; se chiusa serviva da panca e da mensa, aperta funzionava da cassone per contenere la farina per fare il pane, la pasta ed altri cibi. Poi in questo ambiente vi era la cretenza, una sorta di armadietto ove si riponevano i piatti, bicchieri in terracotta o vetro, stoviglie di legno o di metallo, le bottiglie dell’olio e dell’aceto, il sale, lo zucchero, le conserve alimentari, etc. Il tutto poteva essere posato, in alternativa, su mensole murarie.
La cucina costituiva un mondo a sé, e tale è restata sino ad oggi sia pure in maniera molto, ma molto diversa. Qui si trovavano pentole di varia misura e forma, di terracotta, come la pignàta, per cuocere i legumi, la cazzaròla (casseruola) di metallo, etc.
Questo era un privilegio che ben pochi potevano concedersi. I coltelli erano di pessima qualità, e così cucchiai e forchette di metallo. Periodicamente si ricorreva allu mulafòrbici (arrotino) che passava per strada, il quale era a volte pure cconzalimbure, ossia riparatore con il fil di ferro e con il cemento delle vasche di terracotta che si erano rotte. Si riparava di tutto, era ignota la società dell’usa e getta, per cui l’ombrellàru riparava gli ombrelli, lu scarpàru confezionava o riparava le scarpe, le robe se ripizzàne, si rammendavano, gli abiti spesso si rivoltavano, e tanto comunque si riciclava. Ritornando alla cucina qui vi erano altri utensili da tempo in disuso, come lu farnàru, il setaccio, per separare la crusca, canija, dalla farina, lu catùru, un ferro lungo circa 30 cm., usato per cavare la pasta dei maccheroni fatti in casa, dettipizza rieddhri, la cùcuma, recipiente cilindrico di terracotta smaltata con o senza anse, ma con coperchio, adoperato per raccogliervi i resti dei cibi, oppure per conservarvi lo strutto, mostarda o conserva di pomodori. Sempre in cucina non mancava la giucculatèra, ossia la caffettiera all’antica che nulla ha a che fare con le moderne caffettiere a vapore (moka) o elettriche, essendo alla turca, quindi un bricco ove si bolliva la polvere di caffè, di orzo abbrustolito ed altro, come polvere di cicoria, di ceci e, addirittura di gramigna. Poi il tutto veniva lasciato “riposare”, sul fondo si adagiavano le polveri non sciolte, le pose, e si faceva molta attenzione nel versare (culàre) la miscela ottenuta, evitando che nella tazzina o nel bicchiere vi entrassero i residui di polveri. Ovviamente nella giucculatèra il cioccolato sciolto non
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richiedeva tali attenzioni.
Nella cucina vi erano tante altre cose che oggi i più giovani neanche immaginano, come lu panàru, il paniere, realizzato con listelli di canna intrecciati con sottili giunghi di olivo, le sporte di paglia e vi era pure l’immancabile ursùlu per il vino, boccale in terracotta smaltata e decorata, al pari di piatti e bicchieri che, con le raste (vasi da fiori), provenivano da San Pietro in Lama, Lucugnano, Cutrofiano e Grottaglie, mancando a Novoli la produzione figula, e che la gente acquistava in piazza nel giorno di mercoledì, da tempo immemorabile animato dal mercato settimanale.
Tanti gli oggetti qui non tutti annoverati, ma in cucina si era sempre in attività, per fare la pasta, maccarrùni e ricchitèlle, maccheroni e gnocchi a forma di orecchietta, sagne, lasagne, e poi dolci, il pane e le frisèddhre, ossia il pane biscottato di forma circolare del diametro di 10/15 cm. Per questi due prodotti ci soffermeremo un po’ di più, considerato che oggi di pane e frisèddhre a casa non se ne fanno più.
Un tempo difficilmente la gente acquistava nelle botteghe di alimentari, le putee, pane e frisèddhre, risultava più conveniente confezionare in casa tali prodotti. Si portavano al mulino, che a Novoli non mancava, grano e orzo della propria campagna, oppure si acquistava dal mulino o da altri la farina già pronta, che poi si passava al setaccio per separare la crusca, canija, che non andava buttata ma serviva per spanderla sotto il pane e frise onde evitare che l’impasto si attaccasse alla tavola. Quel che restava della crusca veniva dato agli animali.
Timpiràta, impastata con acqua e sale la farina, si aggiungeva lu llatu, ossia il lievito di farina di cui se ne conservava una parte per riprodurlo per il nuovo impasto. Dopo alcune ore venivano confezionati li piezzi te pane, le forme di pane di varie dimensioni, tutti contraddistinti da un segno particolare perché portati al forno non si confondessero con quelli di altre persone.
Quanta fatica scanàre, ossia realizzare con le mani l’impasto, quanta fatica ancora per ottenere le sfoglie da cui ricavare la tria, le tagliatelle, dette pure sagne lisce o ‘ncannulate, attorcigliate, e ancora altro. La donna scanàva servendosi pure di un robusto bastone tondo, detto lianàru, il matterello, che muoveva su e giù con forza per stendere la pasta nello spessore desiderato.
Confezionate le forme del pane e delle frise, oppure di altro ancora, tutto era pronto per recarsi al forno, rigorosamente a legna, di ulivo preferibilmente. Il giorno prima lu furnàru distribuiva lunghe e robuste tavole su cui porre le forme di pane, indi la mattina presto del giorno successivo le ritirava e quindi si passava ad infornarle, e poi, avvenuta la cottura, ognuno riprendeva il frutto di tanto lavoro. Era una sorta di rito confezionare pane
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e frise, alimento principale e a volte pressoché unico della famiglia, e ciò si ripeteva mediamente ogni 10/15 giorni, e chi ha vissuto questo rito, come il sottoscritto, non può dimenticare odori e sapori ormai da anni estinti, atmosfere ahimè scomparse, come lo scoppiettio della legna nel forno di pietra dove venivano cotte le puddhrìche, ciambelle, fucazze, focacce variamente condite e se schiacciate da cuocere sotto la cenere, e poi le pucce perte all’ampa tanto simili alla pizza napoletana. Questo ed altro, come i biscotti, veniva portato al forno, luogo di incontri e di socializzazione.
Per quanto riguarda le frisèddhre queste, una volta cotte non del tutto, dovevano essere divise a metà, per cui le donne afferravano con entrambe le mani queste pagnotte e una ad una le dividevano a metà servendosi di un paniere che al posto del manico aveva un fil di ferro o spago. Premendo la pagnotta e tirandola in alto si ottenevano le due metà che si lasciavano cadere nel paniere. E così si continuava e alla fine si riponeva il tutto nel forno, ottenendo le frise che potevano essere di grano o di orzo, queste ultime assai dure, ma tutte gustosissime se adeguatamente bagnate e condite con olio, sale, origano e pomodoro.
In tal modo si otteneva il pane quotidiano, cibo primario soprattutto per il ceto popolare ed assolutamente per i più miseri. La gente si nutriva poi di legumi, verdure, frutta, non mancava però il vino che a Novoli si produceva in abbondanza. Rari i latticini, le uova non mancavano, qualche volta il pesce, quello azzurro tanto per intenderci, ma la carne si consumava raramente e soltanto in occasione di ricorrenze e festività, e non tutti si recavano in macelleria, ma venivano mangiate galline e conigli che, in quasi tutte le case si allevavano. Per chi poteva, e lo ripetiamo, l’alimentazione era certamente più ricca, ma nel complesso parca. Si mangiava in alcuni grandi piatti di terracotta, però non tutti singolarmente avevano il proprio piatto, uno era per i coniugi e un altro per i bambini.
9) Il bucato.
Un’altra faticosa incombenza delle donne era il bucato che si effettuava mediamente ogni 15/20 giorni, oppure quando ve ne era la necessità. La biancheria veniva posta in un recipiente di terracotta, detto còfanu, per cui l’espressione vernacola fare lu còfanu intendeva dire fare il bucato. Posti i panni, le lenzuola ed altro nel recipiente lo si ricopriva con una tela pesante, lu cinniratùru; sul panno veniva posta della cenere e qualche foglia di limone. Sul tutto veniva versata acqua bollente che, filtrando attraverso la
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cenere trattenuta dal panno, puliva perfettamente la biancheria. La miscela dell’acqua bollente con la cenere produceva la lissìa, la lisciva, che per le sue caratteristiche chimiche era assai detergente.
Chi poteva, essenzialmente, per fare il bucato usava il sapone, e per togliere alle robe macchie e sporcizia le strofinava su e giù allu scofinatùru, un piano di legno scanalato, piuttosto robusto, avente in rilievo profili aguzzi.
Poi le robe, ossia i panni, venivano stesi, appesi a fili metallici per asciugare o nell’ortale, oppure se le case possedevano le làmie, le terrazze in muratura, dette pure logge, trovavano qui spazi più ampi e areati, senza ricorrere come nel più lontano passato, per la casa a cannìzzi, a verande e finestre.
Ritirata dalla terrazza la biancheria, le lenzuola venivano più volte piegate da due persone, ognuna posta all’estremità del telo; il resto veniva stirato servendosi di un pesante ferro da stiro riscaldato all’interno da carboni ardenti.
10) La crisi della famiglia.
Al di là delle inevitabili nostalgie per il mondo di ieri e con le odierne inattualità, va obiettivamente osservato che la vita nel passato costituiva una scommessa in tutti i campi, c’erano più sofferenze che gioie, tuttavia è incontestabile l’esistenza di tanta semplicità e spontaneità, probabilmente frutto dell’ignoranza che non risparmiava nessuno, né uomini né donne. I maschietti in pochi andavano a scuola, spesso non conseguivano la licenza elementare e meno ancora le bambine, già perché ogni membro della famiglia doveva contribuire alle magre entrate di cui si poteva disporre. I maschietti o seguivano il mestiere del padre, generalmente contadino, oppure venivano mandati a bottega di qualche artigiano, lu mèsciu e così pure le femminucce che, oltre ad aiutare la madre nei lavori domestici, in minor misura venivano portate in campagna ed esse si recavano alla mèscia per apprendere l’arte del ricamo o della sartoria. Imparavano pure a sferruzzare la lana per confezionare maglie, calze ed altro. Intanto per le bambine chi poteva cominciava a preparare la dote con la speranza, un giorno, di un buon matrimonio, magari con un giovane di agiate condizioni sociali. Era una speranza, legata a tanti presupposti, ossia alla reputazione della famiglia del giovane, il suo lavoro e quanto possedeva. I registri parrocchiali dei matrimoni ci dicono tuttavia che ci si sposava nell’ambito dello stesso ceto, quasi sempre, per cui a Novoli come altrove era difficile operare il salto
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sociale,a meno che non si sceglieva la via del seminario per farsi prete, e a Novoli tanti pur di sfuggire alla miseria divenivano sacerdoti, dando lustro al parentato ma spesso cattivi esempi essendo privi della vocazione.
Società patriarcale, quella novolese, all’apparenza oggi egalitaria per l’emancipazione e l’istruzione delle tante donne che pure lavorano, ma tantissime disoccupate soprattutto ai tempi nostri per la crisi economica che impersevera. Tuttavia ritengo che la nostra società abbia ancora tanto della mentalità patriarcale, ma in effetti matriarcale, e mi spiego. La donna per bisogno e per mentalità arcaica, dipendendo dall’uomo non si sognava mai di abbandonare la famiglia, di farsene una nuova, se non in rarissimi casi, sicché assecondava le decisioni e i comportamenti maschilisti dell’uomo, ma in effetti era lei che gli dava l’illusione di comandare, “rispettandolo” quindi, e per dirla alla napoletana lo faceva “fesso e contento”. Certo è però che oggi e come sempre, soprattutto se la donna è saggia e virtuosa nonché responsabile, la famiglia resta unita e serena, viceversa tutto va in rovina, a scapito soprattutto dei figli.
Vero è che oggi è stato realizzato tanto progresso sul piano della parità coniugale, anche perché tante donne possono permettersi il divorzio e perché lavorano, nonché per il fatto che la mentalità è cambiata. Tuttavia è innegabile che oggi l’uomo sia in crisi anche per aver perduto le sue prerogative patriarcali, ed egli spesso cade nella frustrazione, nella depressione e in comportamenti che definire patologici è poco, poiché quasi ogni giorno si allunga l’elenco dei femminicidi e di tante violenze che vengono esercitate nei confronti delle donne, sulla cui odierna mentalità non mi soffermo, mentalità non priva di velleità e di essere a volte la brutta copia dell’uomo.
11) La nascita, il matrimonio, la morte.
Nel passato ci si sposava abbastanza giovani anche perché l’aspettativa di vita era piuttosto breve e, come si è detto, il matrimonio avveniva tra persone dello stesso ceto. Da sempre la donna doveva arrivare al matrimonio assolutamente vergine, ma ciò non vuol dire che in un certo senso ci si arrangiava già prima. In un passato poi non tanto remoto avveniva che la suocera e altre donne pure controllassero l’illibatezza della promessa sposa, ma ciò non bastava poiché ci si doveva mettere d’accordo sulla dote, e spesso tanti matrimoni saltavano proprio per questo motivo.
Se la coppia aveva già consumato il rapporto, oppure c’erano opposizioni da parte delle famiglie, non restava altro che la “fuga” presso amici o parenti compiacenti. Ecco allora l’unica soluzione possibile per gli innamorati
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contrastati, e solo il matrimonio riparatore portava finalmente la pace. Ma la fusciùta non poteva sposarsi normalmente, niente abito bianco, e solo di mattina presto, alla prima messa, poteva recarsi in chiesa per ricevere il sacramento del matrimonio. Comunque, come sempre per ogni ceto, il giorno del matrimonio costituiva un grande evento, si erano scelti i testimoni, si era preparato a volte con tanti sacrifici l’abito bianco, pochi effettuavano il viaggio di nozze e ognuno, come poteva, organizzava il pranzo nuziale. Gli sposi erano finalmente soli, potevano amarsi liberamente, e ciò compensava quanto avevano subito durante il periodo del fidanzamento che a volte durava per molti anni. Se il promesso sposo era ben accetto tuttavia veniva sempre guardato a vista dai genitori e dai parenti di lei acché non si prendesse alcuna libertà; i due non potevano nemmeno sfiorarsi o incontrarsi da soli fuori casa, e poi il giovane doveva ingraziarsi la futura suocera con le criànze, ossia con attenzioni, regalini e cortesie.
Ma come si giungeva al fidanzamento? Da sempre il volto e gli sguardi dicono molto più delle parole, per cui ci si scambiava occhiate furtive, ci si faceva incontrare all’uscita della chiesa, alla putèa laddove si presentava l’occasione, ma la donna doveva essere sempre in compagnia, ma ancora di dichiarazione d’amore nemmeno a parlarne se non in casi rarissimi, e comunque toccava all’uomo esporsi avendo compreso, o illudendosi di essere gradito alla donna.
Ancora oggi allorché una ragazza riceve la dichiarazione d’amore, ma attualmente è lei che a volte prende l’iniziativa, dice che quiddhru m’ha mandatu, e ciò perché fino ad un passato non tanto lontano soprattutto il giovane incaricava qualche anziana di fiducia a contattare e convincere la ragazza ad accettare l’amore di un bravo, onesto e simpatico lavoratore che sprasimava, spasimava per lei. La persona che instaurava il contatto altro non era che la minzàna, mezzana, detta pure rufiàna, e se le ‘mbasciate, ossia i messaggi sortivano effetti positivi, l’intermediaria veniva ricompensata adeguatamente. Al tempo c’erano rufiàne di mestiere ed esse, comunque, evitavano allo spasimante di ricevere un no secco e imbarazzante. La rufiàna, poi, ronzava intorno a parenti e amiche della ragazza, preparava il terreno, insomma, acché il suo incarico avesse il migliore esito.
Poi le gioie del matrimonio ben presto lasciavano il posto alla vita di sempre, alle preoccupazioni e al lavoro quotidiano, e la donna se da nubile doveva obbedire al padre e fratelli, da sposata cambiava padrone, ossia il marito. Se di figli non ne venivano la colpa era sempre e comunque della donna ed era sempre colpevole se non metteva al mondo figli maschi, altre braccia per il lavoro, già perché partorire femminucce costituiva nell’arcaica mentalità, solo problemi, impegni e preoccupazioni. Ciò, ed è appena il
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caso di notarlo, era frutto dell’ignoranza anche da parte della medicina, alla quale pochissime potevano avere il lusso di rivolgersi mentre la più parte ricorreva alla mammana, una sorta di ostetrica fai da te la cui abilità nell’assistere la puerpera si fondava soltanto sull’esperienza.
Si partoriva in casa, assistite da donne, maschi e bambini venivano allontanati, ma le grida della partoriente echeggiavano fin nella strada, e molte donne proprio a causa delle complicazioni del parto ci lasciavano la pelle.
Già dai primi giorni della nascita il bambino veniva nfassàtu, fasciato, e ciò durava circa un anno perché si riteneva che così le gambe si sarebbero sviluppate diritte. Il cambio della fasciatura avveniva due o tre volte al giorno, e immaginiamo con quali esiti per l’igiene se ciò capitava una volta al giorno, e poi quanta fatica lavare e rilavare le fasce, spesso insufficienti per il ricambio. Il neonato veniva rigorosamente allattato al seno e se la madre non produceva il latte,chi poteva ricorreva alla nutritrice, da pagare ovviamente, ma non mancavano gli atti di generosità da parte di donne pronte a offrire il proprio latte, e queste erano dette mamme te latte. Guai, però, se si ricorreva al latte animale, di capra, di pecora o di mucca, perché non essendo pastorizzato il piccino correva seri rischi, era poco digeribile, e spesso venivano colpiti da malattie come la tremenda febbre maltese generata soprattutto dal latte caprino. E non era facile procurarsi il latte di asina, ritenuto compatibile con quello umano.
Lo svezzamento iniziava con pappe, come il pane cotto, cereali e latte vaccino e via via il bambino doveva adattarsi al cibo a disposizione, un’alimentazione povera, comunque e sempre carente. Anche il normale allattamento aveva i suoi rischi, dovuti soprattutto all’igiene della madre, che se non curava la pulizia dei capezzoli ovviamente trasmetteva al bambino germi, specialmente se soffriva di ragadi. Insomma fin dal primo giorno di vita era una scommessa stare al mondo e non solo per ragioni igieniche e alimentari, ma anche perché bisognava fare i conti con le intemperie, con le malattie esantematiche, perfino con i raffreddori e l’influenza, mancava pertanto la prevenzione, mancavano le medicine, e avveniva così una sorta di selezione naturale poiché i più forti ma anche i più fortunati riuscivano a farcela. Qualcosa cambiò durante il fascismo con l’istituzione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, intanto la medicina faceva progressi e tante, ma tante vite furono salvate.
Generalmente il neonato veniva fatto coricare nel letto matrimoniale, a volte veniva fatto riposare nella naca, una culla sospesa formata di un vello di pecora, poi di stoffa. Di culle come noi oggi le intendiamo neanche a parlarne, almeno per i ceti più bassi; ad appena tre o quattro anni il piccino, se i genitori dovevano assentarsi per il lavoro o altro, o veniva affidato ai
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fratelli più grandi oppure alla mescia, il cui compito era quello di vigilare e accudirlo nelle sue necessità primarie. Appena grandi i maschietti ma pure le femminucce venivano avviati al lavoro, sia domestico e sia esterno. E così per secoli e secoli vivevano i bambini, senza le attenzioni che oggi, giustamente vengono riservate all’infanzia. Sia per i piccoli e sia per gli adulti l’unico riferimento sociale ed educativo fu la Chiesa, dove alcuni si recavano per il catechismo, per fare i chierichetti, da cui erano escluse le bambine, ma la famiglia tradizionale curava come poteva l’educazione religiosa, ottemperava all’obbligo della prima comunione e poi della cresima.
Triste nel passato fu la condizione dei gettateli, scittatieddhri, dei fanciulli abbandonati nelle “ruote” di chiese e conventi, oppure dove capitava, e non se la passavano meglio i figli illegittimi e gli orfani che solo da carità dei parenti accoglieva con tante difficoltà, poiché si dovevano fare i conti con la precaria economia familiare.
I rintocchi delle campane che suonavano a morto annunciavano a Novoli che qualcuno aveva lasciato questa terra, e la notizia si spandeva velocemente coinvolgendo l’intera comunità. Il lutto aveva i suoi riti e le usanze ad esso connesse, dal via vai presso la casa del defunto all’accompagnamento in chiesa e al cimitero, ovviamente dopo che questo venne istituito. A Novoli nei tempi antichi non mancò la réputa, la prefica, che dietro compenso cantava, nel solco di una tradizione millenaria di origine greca, le lodi dello scomparso. Per alcuni giorni nella casa del morto non si cucinava, non ci si curava della persona, e parenti e amici fornivano di vivande la famiglia in lutto che in un certo senso doveva esibire il proprio dolore. Questa usanza, ancora in voga, altro non era che lu cùnsulu, pasto offerto a turno ai familiari dello scomparso, per i quali era disdicevole accendere il fuoco sino alla domenica successiva al triste evento. Gli uomini non si radevano, si vestivano di scuro, si imbacuccavano, ma le donne dovevano vestirsi di nero per parecchio tempo, secondo una regola che stabiliva il tempo del lutto in virtù del grado di parentela con lo scomparso. Tante, per il resto della propria vita, non abbandonavano il nero, sia perché le morti si susseguivano ed anche in quanto non si disponeva di abiti di ricambio.
Il funerale poneva in evidenza a Novoli, ma credo dappertutto, lo stato sociale del defunto, per cui erano diversi i preti che officiavano il rito e l’accompagnamento funebre. Difficilmente un solo prete e una croce comparivano nell’accompagnare lo scomparso all’ultima dimora, i parenti non volevano sfigurare e facevano i salti mortali almeno per la menza nferta, la mezza offerta, ossia la metà dei sacerdoti del paese, ma tutti ci tenevano, potendo, alla nferta sana, al coinvolgimento di tutti i sacerdoti, sborsando tariffe che ipocritamente venivano dette offerte. Capitava poi che venisse-
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ro coinvolte le congregazioni religiose, specialmente quelle che ospitavano bambini senza genitori, costretti a porsi in corteo per accompagnare il defunto, che veniva seguito dai confratelli se appartenente a qualche confraternita e con la banda se i familiari potevano permetterselo.
I preti, tanti a Novoli, oltre ad intascare il denaro della nferta, se ne procuravano altro con le messe di suffragio periodiche o perpetue. Tale usanza, ancora in voga, la colgo come la filosofia della raccomandazione, per cui non credo che il Padre Eterno porga orecchio dando particolare attenzione a chi può farsi pagare più messe, giacché Egli nella sua infinita bontà e misericordia considera tutte le anime alla stessa stregua, essendo tutti uguali di fronte a Lui che non ha in nessun conto le gerarchie sociali vigenti sulla terra, anzi. Morire non conviene. Si fa per dire, il funerale costa oggi più di un matrimonio, ma forse è stato sempre così in quanto nel passato i nobili e i ricchi erigevano altari e cappelle nelle chiese per essere ivi sepolti, ed oggi dal becchino all’agenzia di pompe funebri, dalle confraternite ai fiorai occorre un patrimonio per le sepolture, specialmente se gestite dai privati. Chi può erige cappelle non badando a spese, ma ciò non costituisce un serio culto dei defunti, ma ancora una volta l’esibizione di una appartenenza. I poveri, i derelitti, ma anche chi non lo fa per scelta, sono destinati allo surchi, alle fosse scavate per terra e, una volta riesumati, finiscono nei grandi ossari. A questo punto mi piace ricordare che quando negli anni Sessanta del secolo scorso morì il re dell’Arabia saudita, Feisal, egli venne sepolto in una fossa anonima alla periferia di Riad, senza monumento o altro, poiché dice l’Islam: “tutti siamo uguali di fronte ad Allah”.
Per vedovi, ma soprattutto per le vedove e per gli orfani la situazione era tragica se appartenevano alle fasce sociali più basse. Un uomo, tutto sommato, non trovava difficoltà a risposarsi, ma la cattìa, ossia la vedova con bambini difficilmente poteva aspirare a rifarsi una famiglia, e così in una società scarsamente solidale a livello istituzionale, si perpetuavano le sofferenze e i problemi del duro mestiere del vivere.
L’albero della cuccagna, il carnevale e la quaremma
Con il raggiungimento della vecchiaia, com’è noto, avviene l’inevitabile consuntivo della propria esistenza che ahimè al presente vive l’inattualità, il disagio di non stare al passo con i tempi, ed ecco allora l’eterna recriminazione che rimpiange il passato, ritenuto più vivo e umano, e si condanna il presente, ma perché non lo si capisce o non lo si vuole capire.
Scontro di generazioni a parte, in questa occasione voglio assecondare i
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miei struggenti ricordi di una Novoli che non c’è più, quando la vita scorreva con semplicità, pur tra tante miserie e amarezze, tra ingiustizie e problemi. E così tra le tante memorie che costituiscono il mio imprinting rammento due episodi accaduti nel 1953, allorché avevo 7 anni. In quel tempo come tanti altri bambini mi recavo giornalmente alla fontanina pubblica, allu largu te la Mmaculateddhra, per attingere l’acqua con pesanti menze di terracotta. E proprio in quel luogo, poteva essere il mese di febbraio o marzo, per la circostanza del carnevale venne innalzato l’albero della cuccagna, un palo alto e levigato, tutto cosparso di grasso, con in cima ogni ben di Dio, almeno per quei tempi, salumi, una gallina, pasta, zucchero e tanto altro ancora.
Fu la prima e forse l’ultima volta che assistetti a quello spettacolo, allorché i giovani più baldi di Novoli tentavano la difficilissima impresa. Il pubblico, numeroso e rumoroso, incitava i propri beniamini, e intanto coloro che si arrampicavano sul palo dopo qualche metro piombavano a terra, tra le risate e gli sberleffi degli spettatori. Alla fine, però, qualcuno riusciva a raggiungere la cima dell’albero della cuccagna impadronendosi così delle cibarie, ma giustamente la gente commentava che gli scalatori precedenti avevano “ripulito” il palo di tanto grasso, per cui era stato più agevole conseguire il risultato.
Il carnevale, a Novoli come altrove, era atteso soprattutto dai bambini, ai quali venivano regalati dolciumi tipici, come li cannillini, li confetti e le mèndule ricce che, pè crianza, i fidanzati regalavano all’innamorata e alla suocera, i figli adulti ai propri genitori. I bambini venivano vestiti goffamente, con maschere colorate di cartoncino, mentre gli adulti, ma chi poteva, non disdegnava i veglioni, allora molto in auge. Nelle famiglie popolari non pochi organizzavano festicciole per il carnevale, con giovanotti e signorine compostamente sedute in attesa di essere invitate a ballare, e l’occasione era propizia per qualche fidanzamento.
Ricordo il grammofono gracchiante e dischi di scarso repertorio, fatto di brani di musica classica eseguiti da Beniamino Gigli e da Tito Schipa, ma non mancavano le canzoni, assolutamente melodiche e romantiche di Claudio Villa, Nilla Pizzi, Giacomo Rondinella, e poi i classici della canzone napoletana. Per fortuna mancavano all’epoca le canzoni in inglese, oggi tanto in voga, che però pochi comprendono e tanti fanno finta di capire.
Poi gli immancabili cumprimienti (ciò che si offriva ai convitati), costituiti dal caffè fatto alla giucculatèra, paste al burro, taraddhri, bocconotti (pasticciotti con crema o marmellata) e bicchierini di liquori rigorosamente realizzati in casa, come la strega, l’alchemens, i mille fiori, ma non mancavano il vermouth, il marsala, il moscato e altro. A conclusione della serata
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l’immancabile gioco te la pignàta (la pentolaccia), il più atteso e il più divertente. Cose, queste, del mondo di ieri, di quella sociologia del vicinato, che con proprietà di linguaggio i griki salentini chiamano ghetonìa, ormai da tempo tramontata poiché gli adulti quasi sempre amano isolarsi per rimbambire di fronte al televisore, mentre i giovani si scatenano, ahimè, con le note esagerazioni, nelle discoteche, nei pub, etc.
E sempre nel lontano 1953, nel largo te la Mmaculateddhra, nel tempo della Quaresima, quando ancora la gente di Novoli esprimeva fede e penitenza, venne appesa tra i due lati di via Moline la Quaremma (da Quaresima), la pupazza raffigurante una vecchia che simbolicamente alludeva alla penitenza, ma pure all’anno trascorso e ai suoi tanti problemi, già perché in antico il nuovo anno iniziava in primavera. Figura di molteplici significati, compreso quello misogino, la Quaremma doveva esorcizzare la miseria ed ogni altra calamità, ed essa costituiva perciò il residuo di ancestrali credenze sopravvissute al Cristianesimo e giunte sino a noi.
I giochi di una volta
Il gioco è connaturato nel bambino e nei cuccioli di tanti animali, ed è universalmente riconosciuto che spesso favorisce l’apprendimento e la socializzazione. Tralasciando gli aspetti psico-pedagogici delle attività ludiche e ludiformi sulle quali ci sarebbe tanto da dire, ora ci soffermeremo a ricordare come e con cosa i bambini giocavano un tempo, poi non tanto lontano, ossia fino a circa 50/60 anni fa, fino a quando il mercato si impadronì pure dell’infanzia imponendo giochi e giocattoli che oggi ai piccini hanno tolto tanta spontaneità e creatività.
Nel mondo di ieri l’infante aveva bisogno di poco per esternare la propria fantasia, qualsiasi cosa era utile a lui per scoprire il mondo che lo circondava, qualsiasi oggetto occupava il suo tempo per toccarlo, trascinarlo e spesso distruggerlo. Per far star buono il piccino gli adulti procuravano qualsiasi oggetto innocuo, lu ntartieni cu se squaria (un qualcosa di cui occuparsi per distrarsi), ma secondo l’età evolutiva i genitori potevano fornirgli qualche palla di pezza, poi di gomma, lu tatè (un cilindro di cartoncino con dentro alcuni ceci e attaccato all’asta di canna, da scuotere e quindi far rumore), palloncini di gomma, di varie forme, poi nel secondo dopoguerra fucili di legno, pistole cu le càzzule (cartucciera con minuscole cariche che, a percussione esplodevano, senza alcun danno, ma facendo tanto rumore). I più grandi realizzavano le fionde (frecce) con ramoscelli di ulivo a Y e
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striscioni e di gomma di camere d’aria per bicicletta, aquiloni, monopattini e altro, ma ciò riguardava i maschietti, già perché per le bambine i giochi erano differenziati, bambole, servizi di cucina in miniatura, e per esse aiutare la madre nelle faccende domestiche costituiva si un gioco, ma anche l’anticipazione dei ruoli che avrebbero svolto da adulte. Se per i maschietti il teatro dei loro giochi era la strada, il cortile e la piazza, le femminucce dovevano restare rigorosamente a casa, più tardi alla mescia per apprendere il cucito e il ricamo. Ma per tutti i giochi finivano ben presto, perché appena grandi i maschietti venivano avviati al lavoro, o quello del padre, generalmente in campagna, o presso qualche mesciu (artigiano), mentre le bambine imparavano quasi sempre a far le donne di casa, a prescindere se seguivano i genitori in campagna, o se frequentavano la mescia. Come si è detto, fino alla metà del secolo scorso, pochi andavano a scuola, meno ancora le femminucce.
Tra coloro che si sono occupati dei giochi di una volta, quelli più in voga e tradizionali, per quanto attiene Novoli, ma che riguardavano il Salento e anche oltre, specificamente hanno scritto Piergiuseppe De Matteis (4) e Antonio Politi (5), con interessanti approfondimenti e osservazioni, e a tali testi si rimanda il lettore, ma da parte nostra offriremo soltanto l’elencazione nominativa dei giochi di altri tempi, di cui oggi pressoché nulla è rimasto: Cappettu; Lu cuculìsciu; Cocotè; Siròga; Cicilena; Nannulu; Crapazzu; Lu motopattinu; Cocule; La pumeta; Crapa zzoppa; La Corda; Fitu; Tiru alla saula; Cuntrici; Pitrùddhri; Fiocchettu; Cazziddhre; Cua; A palline; Pastiddhra; A sordi; Nuzzuli; Palla te pezza; Mina seggia; Li cascitìeddhri; Risciu; A la guerra; Musca ceca; Lu chiaccu; ‘Ncaddhru ‘mpete; Tozza porte; Quattru puntuni; Mazza e pizzarieddhru; Cerchiu; A secutasurgi; Scursune surdu; La pezza te casa; Ziloca; Corsa intra ‘lli sacchi; Scroia - La cuccagna; Nguzza; A pallone; Zzucca longa; La riffa; Fica passula; A campana; Tozza parite; Zzippi; Tuddhri; Staccia; Spacca chianche; Furmeddhre.
Questi alcuni giochi che si svolgevano nei cortili o per strada. A casa, invece, si giocava alla: Pupa; Trissi; Lu llatùru; Palloni te sapune; Sonarieddhri; Santu mazzone; Telefunu; A pari sparu; Lu trainìeddhru; Tùppu tùppi; Ciuccio; A figurine; Cocuzza paccia.
Tra le attività ludiformi esercitate essenzialmente dai maschietti che già frequentavano la scuola elementare va annoverata la collezione delle figu-
4 Cfr., P. De Matteis, Pituddri. Giochi e passatempi dimenticati, Novoli 2002.
5 Cfr., A. Politi, Timme ci su statu, Novoli 1991, pp. 35-40.
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rine dei calciatori e, poi, la lettura dei giornalini a fumetti, moda che si affermò pochi anni dopo il secondo conflitto mondiale. Si leggevano il già consolidato Corriere dei piccoli, nonché Paperino e Topolino, ma il boom si ebbe con la pubblicazione delle “strisce” di Gim Toro, Il grande Blek, Capitan Miki e, dopo, Tex, giornalini che costituirono l’approccio con il mondo americano, con il West, gli Indiani e i cow-boys. Siccome a Novoli mancava una libreria, esistendo solo la cartoleria te Lu Pitrino farmacista, in via S. Giovanni, angolo via per Trepuzzi; i giornali si trovavano soltanto al bar della stazione ferroviaria, dove puntualmente si recavano i ragazzi per acquistare i giornalini a fumetti e per sapere l’esito delle avventure degli eroi che li entusiasmavano e li facevano fantasticare.
Per i più giovani sembrerà che io stia parlando dell’età della pietra, poiché essi sono cresciuti e crescono con la televisione, con i computer di cui sono veri maestri, con telefonini, smartphone e altre diavolerie del genere, che personalmente ignoro, tant’è che tutti i miei libri, compreso questo, rigorosamente li ho scritti con la gloriosa lettera 22, con i tasti meccanici delle ormai introvabili macchine da scrivere.
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Il Regno di Napoli, Carlo III di Borbone e il catasto onciario di Novoli
Un tentativo di riforma fiscale
Da tempo immemorabile, e direi da sempre, sia pure con variabili consistenti, i popoli sono stati obbligati a versare tributi ai dominatori e il fisco allo Stato di appartenenza, tasse indispensabili in questo caso per il mantenimento degli organi amministrativi, dell’esercito e di ciò che oggi si riferisce ai servizi pubblici, come strade, acquedotti, etc. Senza chiamare in causa l’antica Grecia e Roma, dove il fisco era assai organizzato, nell’età di mezzo data la frantumazione territoriale, politica e feudale che si perpetuò per secoli, tuttavia nulla di nuovo sotto il sole poiché durante la dominazione normanna del meridione d’Italia i comuni dovevano versare al regio fisco un quarto delle loro entrate in virtù di apprezzi, ma si trattava di entrate presunte, analoghe agli odierni “studi di settore”. L’imperatore Federico II di Svevia, nel XIII secolo, al posto dell’ “apprezzo” introdusse la colletta, variabile secondo le necessità della Corte, ma anche in questo caso il sistema feudale non funzionò poiché il bilancio dello Stato prevedeva che ogni cittadino doveva versare uguale cifra pro capite, tuttavia scarsi e approssimativi erano i censimenti, casali e città quasi sempre non dichiaravano l’effettivo numero di abitanti, per cui tanti gli evasori.
Non funzionò nemmeno, anzi aumentò le ingiustizie, la riforma fiscale di Alfonso d’Aragona che nel 1442 sostituì le collette con i fuochi, ossia le famiglie, a prescindere dal fatto che esse fossero formate da una o più persone. E poco importava al fisco se nel frattempo per cause varie le famiglie di una data comunità erano diminuite o aumentate, già perché i censimenti, quando e se si effettuavano, si aggiornavano in un lungo lasso di tempo. Si doveva pagare e basta, ma non tutti pagavano poiché in un società fondata sui privilegi e sull’alleanza tra il trono e l’altare, venivano esentati i nobili che anzi, a loro volta, imponevano altre tasse, venivano esentati gli ecclesiastici per cui alla fine il fisco esoso e ingiusto ricadeva sui poveri cristi, e a questo punto è lecito chiedersi quanto sia cambiata nell’epoca nostra l’imposizione fiscale richiesta dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni, e diremmo ben poco nella sostanza poiché si continuano a strozzare le fasce produttive e professionali, poco la rendita e la ricchezza, per cui in Italia il cittadino lavora per circa la metà dell’anno soltanto per il fisco. Val la pena di annotare che le tasse difficilmente diminuiscono, anzi, e l’esempio più antico di cui si
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dispone ci è dato dal fuocatico istituito nel XV secolo, che partito da 10 carlini nel 1707 a fine secolo raggiunse la rispettabile cifra di 5 ducati e 4 grani1 .
Il 10 maggio 1734 si insediava sul trono Napoli Carlo III di Borbone il quale si trovò a governare un regno stremato dal malgoverno spagnolo e per ventisei anni (1707-1734) dominato dall’Austria. La creazione di un regno autonomo nel Mezzogiorno d’Italia, il distacco sia pure formale dalla Spagna destò non poche speranze in molti strati sociali, i quali in un Stato nazionale da loro diretto e ispirato posero fiducia e impegno2 .
Il re, nel restaurare l’autorità dello Stato, tentò di demolire la forza della feudalità e di porre rimedio ai mali endemici del regno. Carlo III dovette affrontare la riforma giudiziaria, la riforma del sistema fiscale per renderlo più equo ed efficiente. Sopra una popolazione di circa tre milioni di anime viveva nel regno piuttosto che un ceto privilegiato una società a parte, di circa 75.000 persone strabocchevolmente ricche. La condizione dello Stato e pertanto anche quella del periferico Salento erano caratterizzate dall’arbitrio feudale, custode di molte prerogative parassitarie e di tanti abusi, tra i quali val la pena di ricordare la cunnatica (ius primae noctis), l’obbligo di macinare le olive nel trappeto baronale, di decimare, ossia di esigere una quota-parte sui prodotti agricoli, di esercitare il potere finanziario e giudiziario sui sudditi, godendo di tanti privilegi e immunità. Ogni feudo aveva le sue particolari decime che gravavano sui terreni e sulle persone facenti parte di esso. Questa impalcatura feudale, che giustamente sarà eliminata con la famosa legge eversiva della feudalità emanata il 2 agosto 1806 da Giuseppe Bonaparte, rendeva incerta e precaria la vita e la proprietà dei cittadini. Il clero sia regolare che secolare possedeva considerevoli ricchezze in beni mobili ed immobili, nessuno si preoccupava di migliorare le condizioni produttive e sociali. Unico scopo di chi deteneva il potere era quello di spremere la gente con le tasse, balzelli e decime, sicché ogni cosa e attività languivano3. Lecasedeicontadini,intuttoilMeridioned’Italia,generalmente consistono in miserabili tuguri, per lo più coperti di legno o di paglia ed erano esposti a tutte le intemperie. L’interno non offriva
1 Cfr., L. Bianchini, Storia delle finanze delle Due Sicilie, Napoli 1871; R. Carrozzini, Aspetti di storia economico-sociale nel Mezzogiorno d’Italia nel XVIII secolo (I beni ecclesiastici a Lecce), Lecce 1983; G. De Meo, Saggi di statistica economica e demografica nell’Italia meridionale nei secc. XVII-XVIII, Roma 1962; A. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli 1707-1734, Napoli 1969.
2 Cfr., F. Venturi, Settecento riformatore, Torino 1969, p. 21.
3 Cfr., M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, Napoli 1904, pp. 624 sgg.; D. Winspeare, op.cit., pp. 80 sgg.; P. Villani, Mezzogiorno tra riforma e rivoluzioni, Bari 1962.
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agli sguardi che oscurità, puzzo, miseria e squallore. Un misero letto, ma in effetti un giaciglio riempito di foglie di granoturco o paglia, poggiante su di un tavolaccio sostenuto da due cavalletti di legno, raramente di ferro, nessuna igiene, tanta promiscuità e quasi sempre i bisogni corporali venivano espletati all’aperto servendosi di una fossa biologica alla turca. Bassa era l’aspettativa di vita per la malnutrizione, malattie ed epidemie, soprattutto di ciò ne erano vittime i bambini e, a tal proposito, i registri parrocchiali dei defunti ne danno probante testimonianza. Nelle case dei contadini vivevano o passavano gli animali quando questi avevano la stalla nell’ortale, e oltre agli animali da cortile si trovavano il porco, l’asino, il cavallo, etc.4.
Il salario medio di un lavoratore meridionale, verso la metà del XVIII secolo, era di circa 30 ducati annui, appena sufficienti per la minima sussistenza di una famigliola. Ciò valeva sia per i contadini che per gli artigiani sui quali gravava pressoché tutta l’imposizione fiscale necessaria per mantenere l’apparato dello Stato e quanti nei singoli comuni non lavoravano, cioè il barone, il governatore, l’assessore, l’agente del feudo, etc.
Al tempo di Carlo III di Borbone la giustizia nel regno partenopeo era esercitata in maniera caotica, arbitraria per il particolarismo baronale, e altrettanto caos esisteva nella pubblica finanza gestita per lo più da ministri corrotti e da corrottissimi funzionari. Il disordine era generale, le Università, ossia i Comuni, cercavano di evitare il “fuocatico” corrompendo gli agenti fiscali, altri, però, ne erano esenti come il clero che fruì di questo privilegio fino al 1741, allorché un Concordato impose loro una tassa, sia pure ridotta.
Al pagamento di un’imposta speciale, chiamata adoha (tassa in denaro corrisposta in luogo della prestazione del servizio militare) erano sottoposti i beni feudali. A tutto ciò si aggiungeva la miriade delle imposte indirette, tanto alte, a volte, da superare lo stesso valore della merce5.
Tutte le Università dipendevano dalla Camera della Sommaria e costituivano la base delle finanze dello Stato. La più parte di esse erano feudali
4 Le tristissime condizioni socio-economiche delle popolazioni meridionali, irretite dal timore referenziale verso il ceto dominante, prostrate dagli arbitri baronali, avvilite dalla povertà e schiacciate da ogni sorta di balzelli, sono compiutamente descritte da quel grande e geniale economista che fu Giuseppe Maria Galanti, il quale nella sua veste di ufficiale Visitatore Generale, scrisse una relazione al re Ferdinando IV sulla Terra d’Otranto il 24 aprile 1771. Cit. da G.M. Galanti, Nuova descrizione storico e geografica della Sicilia, II, Napoli 1788, p. 280; B. Perrone, Neofeudalesimo e civiche università in Terra d’Otranto, Galatina 1978; M. De Marco, Cenni storico-economici della realtà del Salento leccese fra Settecento e Ottocento, in AA. VV., Fiscoli e muscoli. Archeologia industriale nel Salento leccese, Cavallino 1998, pp. 19-34.
5 Cfr., G. De Meo, op. cit., pp. 24 sgg.
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e solo 59 su 1999 erano demaniali obbedendo direttamente al potere regio. Le Università feudali erano sottoposte ad un barone che aveva un dominio pressoché assoluto sul Comune che aveva sempre una personalità giuridica come una qualsiasi terra regia o demaniale e possedeva anche un proprio patrimonio. Esso veniva amministrato dalla comunità dei vassalli, i quali in “pubblico parlamento” eleggevano il “reggimento” o collegio esecutivo che durava in carica uno o più anni, composto da uno o più “sindaci” ed “eletti” i quali decidevano del sistema e della misura dell’imposte che erano principalmente costituite dai tributi spettanti al barone, al “regio precettore”, dalle “spese comunicative” come “la provvigione della grascia” (annona), la manutenzione delle strade, fontane, carceri, ed in ultimo il salario del medico e del maestro di scuola.
Il potere delle Università veniva esercitato dall’Assemblea generale che manifestava la propria volontà quasi sempre direttamente, talvolta tramite un collegio di “decurioni” i quali convocavano annualmente il “pubblico parlamento” ed eleggevano il “sindaco” e cinque “eletti”; il “sindaco” ed uno degli “eletti” appartenevano sempre alla “nobiltà generosa”, gli altri appartenevano al “ceto comune” o “popolano”. Queste le norme che regolavano la vita delle Università meridionali intorno alla metà del Settecento. Anche a Novoli vigevano gli stessi usi e ordinamenti, ma qui come altrove il “sistema” suddetto non era così “democratico” come potrebbe apparire. La vita politica del paese era manipolata del barone, sempre onnipotente con le buone o con le cattive, ad esso si aggiungevano il clero, le famiglie più in vista che facilmente manovravano la massa degli analfabeti, nei cui riguardi venivano perpetrati arbìtrii e macroscopiche violazioni delle leggi e delle usanze del tempo.
Nell’ottobre del 1741 Carlo III di Borbone ordinò la costituzione del Catasto Generale (Onciario), con lo scopo “che i pesi siano con uguaglianza ripartiti e che il povero non sia caricato più delle sue deboli forze, ed il ricco paghi secondo i suoi averi”6. L’intento regio era quello di raggiungere, finalmente, la giustizia fiscale, ma mirava anche e soprattutto a garantire allo Stato una sicura rendita fiscale nonché una centralità, assai compromessa dal particolarismo feudale. Le operazioni per la formazione dei Catasti furono assai lunghe e complicate, ed in alcuni comuni non furono mai completate. Il sindaco e gli eletti che venivano proposti per la compilazione del Catasto dovevano diffondere il “bando” per la pubblicazione delle rivele.
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6 Cfr., L. De Rosa, Studi sugli arredamenti del Regno di Napoli, Napoli 1962; M. Schipa, op. cit., p. 46.
Ogni cittadino doveva compilare una rivela nella quale erano contenute tutte le indicazioni riguardanti tutte le persone componenti il “fuoco” ed i beni posseduti. Poi il Pubblico Parlamento eleggeva 6 deputati per la discussione delle rivele e 4 estimatori per la valutazione dei beni compresi nella giurisdizione delle Università.
Gli atti degli “estimatori”, raccolti cronologicamente e rilegati, formano quel volume che va sotto il titolo di Atti preliminari ed Apprezzi, atti che dovevano servire alla compilazione dei Catasti da parte delle Regia Camera della Sommaria. Successivamente le Università stesse provvidero alla formazione degli onciari. Le imposte calcolate erano di duplice natura: reali e personali. La tassa veniva regolata a seconda della “qualità” delle persone e dei beni. Le persone venivano distinte in: cittadini costituenti i “fuochi delle Università forestieri, inseriti nel Catasto o perché residenti nell’Università o perché possessori ivi di beni. Altra distinzione era in laici ed ecclesiastici. In base a queste due divisioni si avevano le seguenti categorie da accatastare:
- I cittadini e non abitanti erano tenuti al pagamento del testatico (un ducato) se capifuoco, coloro che esercitavano un lavoro venivano tassati secondo la loro attività. Erano esentate le donne, i sessagenari, i minori di 14 anni (dai 14 ai 18 pagavano per metà e coloro che vivevano di rendita o esercitavano nobili professioni). Pertanto la misura dell’imposta era così determinata:
- Speziali in medicina, manuali, procuratori non notai once 16.
- Sonatori, panettieri, massari, barbieri, bottegai, cuochi, etc., once14.
- Tavernieri, ortolani, potatori, fabbricatori, armieri, pollieri, etc., once 12.
- Le vedove e le zitelle venivano accatastate a parte se fungevano da capofamiglia e pagavano solo per i beni posseduti se la rendita di questi superava i 6 ducati.
- I forestieri abitanti laici pagavano la tassa sui beni (bonatenenza) ed uno “ius habitationis” di 15 carlini.
- Gli ecclesiastici forestieri secolari abitanti venivano tassati solo per i beni che superassero il limite del patrimonio sacro immune.
- Le chiese, i monasteri e i luoghi pii forestieri pagavano per metà la “bonatenenza”.
- La “bonatenenza” veniva pagata per intero dai forestieri abitanti laici, mentre pagavano per intero questa tassa i forestieri non abitanti ecclesiastici, se i beni superavano la rendita immune come patrimonio sacro.
- Il feudatario veniva tassato solo per i beni “burgenseatici”, ossia non feudali, e rientrava nella categoria dei cittadini abitanti laici, se costituiva “fuoco” dell’Università; veniva annoverato nella categoria dei forestieri abi-
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tanti laici se, pur abitando nel Comune, non costituiva “fuoco”, nella categoria dei forestieri non abitanti laici, se non abitava e non costituiva “fuoco” nell’Università.
Per le spese “comunicative”, come strade, orologi, fontane, medici, maestri, etc., non esistono esenzioni e privilegi. Erano considerati beni immobili i terreni, le case, i molini, i trappeti.
Tuttavia la casa di abitazione non veniva tassata in quanto non produceva reddito. Per i terreni seminativi, vigneti, oliveti, boschivi, montagnosi e macchiosi, si calcolava un’oncia ogni tre carlini di rendita, cioè il 5%. Veniva poi tassato il capitale investito e l’imprenditore; se forestiero, pagava la tassa non dove investiva, ma nell’Università di cui era cittadino. Per gli animali si applicava la tassa del 10% sulla rendita7.
Il progetto di riforma fiscale di Carlo III di Borbone non dette i frutti sperati; in quanto dopo quattordici anni del bando venne meno. Tuttavia c’è da annotare un progresso importante raggiunto dal Catasto Onciario, ossia la tassazione del clero e dei suoi beni. Il nuovo catasto, poi, tentò di far prevalere in tutte le Università l’imposizione diretta, o almeno di introdurre un sistema misto, per cui si sarebbe ricorsi alle gabelle solo nel caso in cui le imposte dirette si fossero dimostrate insufficienti8 .
Il Catasto Onciario di Novoli
Nel Catasto Onciario di Novoli, conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce, ovviamente troviamo registrate le varie occupazioni esercitate nel paese nella metà del XVIII secolo, ove prevalendo il settore agricolo i bracciali, ossia i braccianti, costituiscono la categoria più numerosa. Un quadro esauriente circa la popolazione di Novoli ci viene offerto dalla seguente tabella.
7 Cfr., G. De Meo, op. cit., p. 28.
8 Cfr., P. Villani, op. cit., p. 80.
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Attività dei capifuoco Capifuoco Componenti Maschi Femmine Totale
Bracciali 290 585 525 1110 Foresi 23 39 46 85 Massari 17 44 41 85 Scarpari 10 33 17 50 Sartori 10 32 25 57 Vaticali 12 32 41 73 Falegnami 4 5 9 14 Fabbricatori 4 9 10 19 Ferrari 3 2 5 7 Lagnaiuoli 4 6 8 14 Pecorari 3 3 3 6 Beccari 3 5 7 12 Viventi del proprio 7 23 23 46 Aratori 1 1 1 2 Medici 1 2 3 5 Notai 1 1 2 3 Chiubari 1 1 2 3 Speziali in medicina 1 2 5 7 Speziali 1 4 4 8 Mastrodascia 1 2 5 7 Armigeri e armieri 2 7 2 9 Senza mestiere 1 1 - 1 Panecciari 1 1 5 6 Studenti 1 4 3 7 Insegnanti 1 4 1 5 Scrivano 1 2 1 3 Molinaro 1 3 5 8 Bottegari 1 2 1 3 Negoziante di bestiame 1 3 5 8 Coloni 2 2 1 3 Musici 1 3 5 8 Vedove e zitelle 66 16 104 120 Sacerdoti 33 31 - 31
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Da ciò si ricava che all’epoca i “fuochi” a Novoli erano 507, composti da 910 maschi 915 femmine, per un totale di 1825 individui.
Come già detto al tempo la popolazione novolese per la più parte era dedita all’agricoltura, ben il 65,58%. Molti “artieri”, artigiani, ma non solo, integravano i loro incerti guadagni dedicandosi a coltivare qualche appezzamento di terra di loro proprietà procurandosi così le provviste necessarie per la famiglia. Sotto la categoria dei “bracciali” il Catasto Onciario annovera tanto i medi e piccoli proprietari di terra, ricchi possessori di appartamenti e di terreni, quanto coloro che erano nullatenenti e perciò abitavano in case prese in affitto e vivevano alla giornata, ossia del solo lavoro. Di quest’ultima categoria ben 87 famiglie, pari all’incirca a 450 persone, non possedevano niente, sicché le 12 once pro capifuoco costituivano veramente una tassa ingiusta e gravosa.
106 famiglie possedevano fazzoletti di terra, insufficienti per il fabbisogno del nucleo, 120 fuochi campavano del lavoro dei loro campi e, in qualche caso, conducevano una vita dignitosa tanto da mandare i loro figli a studiare o in seminario. I braccianti veri e propri erano rappresentati da 19 fuochi, ed era la categoria più indigente sovraccarica di prole e vivente in uno stato di estrema miseria e di abbrutimento, che si cibava degli scarsi prodotti della terra, scarsi perché nonostante la buona qualità dei terreni, la tecnica e gli strumenti agricoli erano assi primitivi e rudimentali, e poi perché poco lasciava la rapacità fiscale e feudale.
Le donne e i ragazzi attendevano pure al duro lavoro dei campi, anche se si occupavano delle operazioni colturali meno gravose. Ricca appare la categoria dei massari, rappresentata da 17 fuochi, con 85 componenti. Posseggono casa, animali e terreni,, si occupano dell’agricoltura, dell’allevamento e del commercio dei prodotti del lavoro. È una categoria agiata, dietro la quale vien subito dopo quella degli “artieri”, rappresentati da 36 fuochi, con 168 componenti.
I “Vaticali” (trasportatori di grano per lunghi tragitti) sono numerati per 12 fuochi con 73 appartenenti. Costoro dovevano vivere certamente bene se appaiono proprietari di animali e mezzi di trasporto, possessori di case e terreni e in grado di avviare, in qualche caso, i propri figli allo studio e al sacerdozio. Vedove e vergini, quest’ultimo le zitelle, sono numerate per 54 fuochi con 120 componenti.
Tutte appaiono persone benestanti; alcune lavoravano badando ai bambini in casa propria (mescie) oppure avviavano le giovinette ai lavori del cucito e del ricamo.
Pochi i professionisti, un notaio, un medico, due speziali, un insegna-
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te, uno scrivano, un musico. Da queste famiglie, soprattutto,uscivano gli studenti, che a Novoli, nella metà del ‘700 erano ben 7, di cui 3 donne. 31 i sacerdoti, 9 i soldati, 46 i viventi del proprio, ossia i ricchi, non pochi esercitavano l’attività di domestico presso le famiglie benestanti. I primogeniti seguivano generalmente il mestiere del padre, gli altri figli maschi erano quasi sempre avviati ad altre attività, le donne attendevano alle faccende domestiche.
Consistente appare il numero della famiglie, 144, che non possedevano alcuna oncia di beni, tra queste il più alto numero è rappresentato dai bracciali con 84 fuochi. 343 famiglie, pari al 67,52% del totale, hanno un reddito imponibile sino a 50 once. I fuochi compresi in un reddito tra 50 e 200 once, 14 in tutto, rappresentavano la media borghesia novolese, alla quale vanno pure aggiunti quanti tassati da 40 a 50 once, sicché i fuochi raggiungono il numero di 30 circa. I ricchi del paese sono soltanto enumerati per 5 fuochi e pagano una tassa oscillante tra le 200 e le 300 once. Sono coloro che determinano la vita economica e anche politica della cittadina. La superficie agraria coltivata registrata dal Catasto era di Ha 1406,53, ma in effetti era ed è di Ha 2804. Questa disparità di dati dipende forse da mancate registrazioni e da errori di misurazione e forse, anche, da false dichiarazioni, visto che da quel tempo non vi sono variazioni di confine. Le aree non registrate erano probabilmente quelle infruttifere, costituite da terreni nudi, pascoli e bosco.
Le colture più fiorenti a Novoli, in quel tempo, erano l’oliveto, il seminativo e il vigneto. L’olivo, quindi a Novoli come in tutto il Salento, costituiva la coltura più estesa e redditizia, con circa 75 alberi per ettaro. Una vera e propria scienza della coltivazione dell’olivo fiorì in quel tempo nella provincia di Lecce, che fu illustrata da insigni agronomi, come Giovanni Presta9. La qualità dell’olivo novolese non era certamente delle migliori per il forte grado di acidità, ciò perché la spremitura delle olive avveniva in maniera ancora rozza e poi perché il prodotto, essendo per lo più ricavato in ritardo nei trappeti baronali, a causa dello “ius prohibendi” di cui godevano i feudatari, andava incontro all’irrancidimento. Tuttavia la produzione olearia novolese era molto alta, e in gran parte veniva esportata essendo stata imbarcata nei porti di Gallipoli, Otranto, Brindisi, S. Isidoro, Porto Cesareo, San Cataldo e Badisco (10). Nel traffico e nella produzione dell’olivo i No-
9 Cfr., G. Presta, Degli olivi, delle olive, e delle maniere di cavar l’olio, Lecce 1797; E. Pennetta, L’economia agricola salentina nel secolo XVIII, Galatina 1957.
10 Cfr., C. Moschettini, Osservazioni intorno agli ostacoli dei trappeti feudali, Napoli 1792; Id., Della coltivazione degli ulivi e della manifattura dell’olio, Napoli 1794.
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volesi traevano indiscussi vantaggi, anche se venivano rosi e defraudati dal feudatario, da tasse, dogane e balzelli.
La coltura dell’olivo entrò in una crisi irrimediabile con il blocco commerciale voluto da Napoleone, e i Novolesi, pertanto, ripiegarono sulla cerealicoltura che legarono anche all’attività zootecnica. Nelle contrade denominate La Cupa, Li Mali e Padula, i contadini novolesi coltivavano in buona quantità il cotone, che fece fiorire nel paese una discreta industria tessile e manifatturiera, di tipo casalingo e piccolo artigianale, necessaria oltre che ai bisogni della popolazione anche a incrementare un piccolo commercio con paesi limitrofi. Poiché i Novolesi confezionavano i loro vestiti e corredi con il cotone, esportavano quasi tutta la lana che producevano. Altre colture furono quelle del tabacco, del lino, degli alberi da frutta e il vigneto, oltre agli ortaggi ed alle leguminose, conservate con la frutta secca e altri prodotti per la stagione invernale in appositi otri di terracotta smaltata, detti capase e capasuni che, insieme alle botti di legno contenevano pure olio e vino.
Il Catasto Onciario ci dice ancora che a Novoli esistevano, nel 1751, 71 capi di cavalli , 123 asini, 903 pecore, 23 capre, 23 vacche e 105 buoi. Gli equini venivano utilizzati per il trasporto e per il lavoro agricolo, dove pure venivano impiegati i buoi posseduti dalla più parte dei massari. Gli animali da cortile non vengono numerati, così pure i suini, forse perché inesistenti. Tuttavia dal suddetto Catasto appare che il 50 % della superficie agraria di Novoli apparteneva ai forestieri non abitanti nel paese ed agli ecclesiastici. Ciò determinò un infrenamento della crescita economica del paese che ancora oggi risente delle tristi eredità del passato. Nel Catasto i terreni sono determinati con le misure esistenti nel XVIII secolo, e cioè i seminativi in “tomoli” (Ha 60,63) e “stoppelli” (1/8 di tomolo), in vigneti in “orte” (Ha 0,22=40 quarantali).
Col passare degli anni, e soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, i Novolesi hanno abbandonato le terre per dedicarsi ad attività meno faticose e più redditizie. Esplose la categoria dei commercianti di tessuti (marcanti), aumentarono i professionisti, gli addetti all’artigianato. L’artigianato figulo, nel Salento, ha una plurimillenaria, tradizione. Esso sorse oltre che per gli usi pratici quotidiani anche per decorare l’ambiente domestico, e poi l’argilla, di cui è ricco il sottosuolo della penisola jonica ha consentito, sin dalle epoche più remote di dar vita ad una industria locale della terracotta, di cui i centri maggiori furono Rudiae, Laterza, Martina Franca, Grottaglie, Taranto, Francavilla, Mesagne, Oria, Salice, S. Pietro in Lama, Cutrufiano, Nardò e Lucugnano.
Nel passato l’arte figulina fiorì pure a Novoli, purtroppo le notizie a pro-
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posito sono lacunose, sicché in un Apprezzo di Novoli e Nubilo (Villa Convento) del 24 marzo 1707 ne abbiamo la prima e certa menzione: “La decima delle “codame” è di tutte quelle opere e lavori di creta che si fanno in detto feudo, la quale si paga per ciascuna cotta di fornace grana diece e grana quindeci per la grande ed il barone l’assegno il luogo per cavar creta compensamente ducati sei, tarì due e grana dieci”11.
Ai principii del XVIII secolo operavano a Novoli circa trenta fornaci di codomari, che non si sa dove fossero allocate. Dal citato Apprezzo si apprende ancora di: “una stanza terranea affittata ad un cretaro o codomaro per carlini 15, che tiene fornace per cuocere le pignate”. Questa fornace era sita nella Piazza Castello, ora Piazza Regina Margherita.
Il Catasto Onciario del 1751 non registra alcun figulo a Novoli, ciò fa supporre la scomparsa di tale attività nel paese, ma non corrisponde al vero, poiché figuli dovevano esservi operanti ancora nel 1761, secondo una testimonianza del Sacco. Oltre ottanti anni fa, presso la Chiesa della Madonna del Pane, durante i lavori per la demolizione di vecchie case, fu trovata nel sottosuolo una fornace figulina con diverse stoviglie. Comunque dalla numerazione dei fuochi del 1658, che è andata perduta e che era nell’ Archivio di Stato di Napoli, erano registrati ben sette maestri figuli a Novoli12. Tra di questi artigiani appaiono figli di codomari di Campi, mentre i rimanenti quattro provenivano certamente da Cutrofiano, essendo congiunti di un tal maestro Antonio D’Elia originario, appunto, di Cutrofiano.
Sempre il citato Apprezzo ci notizia del modo di vestire dei Novolesi nei primi anni del ‘700: “vestono i Civili di Giamberga di diversi colori, e gli altri bracciali con Giustacuori di panno colorato, e Zegrini, che si fabbricano nel medesimo paese e portano la coppola. Le donne civili vestono sete di lana alla Spagnola e l’altro vestono lana colle gonne coscite allo Corpetti senza Maniche, portano solamente le braccia coperte dalle camicie, e detti loro vestiti li vogliono portare ornati con fettuccine di seta e si adornano ancor di qualche ornamentouccio d’oro; ed il loro esercizio è di filar lini e lana e tesserle che ne fanno la tela, ed i panni.
Gli abitanti della predetta terra, i Civili tengono le loro case convenevolmente adornate da mobili, ed il resto per essere per lo più fatigatori ed industriosi non stanno in povertà infima, ma tutti quasi hanno le piccole case proprie dove abitano, con orticello e giardino, tengono qualche cosa di suppellettile, buona parte dormono sopra Materassi di lana, ed altri sopra
11 Apprezzo etc., op. cit.
12 Cfr., G. Spagnolo, La ceramica salentina, in “Paise miu”, Novoli, dicembre 1977, n. 2, pp. 10-14.
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sacconi, è quasi tutti si fanno il pane nelle loro case. Il vino alcuni l’hanno delle proprie vigne, è quello che resta bisognevole al proprio vitto non costa a caro prezzo...”13. Non ci lasciamo sedurre dalle considerazioni del compilatore dell’Apprezzo,costui doveva, per ragioni d’ufficio, magnificare il sito e la condizione degli abitanti proprio per alzare il prezzo del feudo, che versava nelle condizioni precarie di tutti gli altri centri abitanti e oppressi dal regime feudale in Terra d’Otranto.
Non fu facile realizzare il Catasto onciario di Novoli a causa di tanti problemi e controversie. Le cose andarono per le lunghe e pertanto la fiscalità continuò ad essere esercitata col sistema delle gabelle che, come si è detto, colpivano essenzialmente i poveri. I ricchi novolesi, per eludere i giusti apprezzi delle loro proprietà, “commisero molte frodi, parte in occultare i loro beni e parte in occultare il valore di quelli”14. Altri problemi furono creati dai coloni e giardinieri residenti a Villa Convento, i quali non riconobbero la giurisdizione novolese di esigere tasse di qualsiasi natura essendo il feudo “disabitato”, ma com’è stato annotato, il feudo di Villa Convento aveva si i propri residenti, ma era privo di una propria civica amministrazione15. Problemi più seri vennero posti dai Leccesi i quali, anch’essi, contestarono la giurisdizione di Novoli sui loro beni di Villa Convento, feudo separato appunto da Novoli, ed essi a tal proposito sostenendo che “hanno sempre corrisposto le collette per detti beni alla Università di Lecce, senza che mai fossero molestati dall’Università di Novoli”16. L’Università di Novoli reagì rivendicando fermamente la propria giurisdizione su Villa Convento per il fatto che ivi venivano amministrati i sacramenti dal parroco di questa terra, i morti sono sepolti nella Matrice di Novoli. “La giurisdizione della cause civili, criminali e miste le esercita l’Ufficiale di questa ducal corte perché in detto feudo non vi è stato mai banco di giustizia”17. A sostegno del proprio diritto di giurisdizione su Villa Convento l’Università di Novoli produsse testimonianze e documentazioni, e finalmente la controversia si concluse il 4 marzo 1752 con la decisione della Camera della Sommaria che dette ragione a Novoli, che già l’anno prima, nel mese di febbraio, si era attivata per la formazione del Catasto, la cui commissione risultò costituita dal Sindaco
13
In Apprezzo etc., op. cit., pp. 5-6.
14
In Catasto Onciario di Novoli 1751, c. 2, in Archivio di Stato di Lecce.
15
In Scritture delle Università e feudi. Atti diversi, Novoli, fasc. 66/4, c. 18, in Archivio di Stato di Lecce.
16
In Catasto Onciario etc., op. cit., c. 28.
17 In Id., c. 27.
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Domenico Mazzotta e dai seguenti rappresentanti eletti dal civico parlamento essendo presente il luogotenente Leonardo Mazzotta:
- Nicola Mazzotta di Gioacchino e Domenico Mazzotta di Giuseppe in rappresentanza del primo ceto, ossia dei benestanti.
- Antonio Spagnolo di Ignazio e Marcantonio Coviello in rappresentanza del secondo ceto, costituito da artigiani e massari.
- Pasquale Ricciato e Nicola Cantore in rappresentanza del terzo ceto, costituito dai bracciali, ossia i braccianti.
Anche gli ecclesiastici ebbero i propri rappresentanti, sicché il Capitolo elesse:
- Don Benedetto Mazzotta e don Antonio Spagnolo per i beni della chiesa novolese.
- Per i beni dei religiosi troviamo in qualità di rappresentante il P. Domenico Andras, vicario del monastero di S. Maria delle Grazie.
- Svolsero la funzione di Stimatori e Apprezzatori per i beni cittadini Oronzo Ippolito e Salvatore De Luca. Per i beni posseduti a Novoli dai forestieri furono designati Pietro De Dominicis e Pasquale Carlo Longo, entrambi di Trepuzzi.
- Svolse le funzioni di segretario Paolo Guerrieri.
Nonostante i richiami e le sanzioni previste per chi produceva rivele, ossia dichiarazioni e apprezzi infedeli, a Novoli come altrove ci si dette non poco da fare per eludere il fisco, e alla fine, completato il Catasto, il paese fu tassato per 15.141 once18.
18 In Id., 84 B e 85 B, 83, c. 425.
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Masserie, ville e casini
Tra XVII e XIX secolo anche nel modesto agro di Novoli vennero realizzate alcune masserie, piccole strutture prive di opere atte alla difesa, a differenza delle analoghe costruzioni del XV-XVII secolo che dovettero munirsi di torri, caditorie, feritorie, ponti levatoi ed altro per assolvere il bisogno della difesa territoriale dalle incursioni saracene, di pirati e delinquenza locale. Essendo sorte più tardi, quindi, le masserie novolesi non ebbero bisogno di fortificarsi, e poi esse erano a breve distanza dall’abitato per cui, in caso di pericolo, potevano facilmente raggiungerlo in breve tempo.
Tali masserie, come avveniva altrove, divennero spesso dimora estiva dei loro proprietari, non sempre di Novoli, senza perdere tuttavia la funzione di centro di tutte quelle attività che si svolgevano nelle campagne. Abbiamo ritenuto di offrire al lettore almeno l’elenco di masserie, ville e casini ricadenti nel territorio novolese, strutture che non assolvono più la funzione che ebbero un tempo sia per l’annosa crisi dell’agricoltura e della zootecnia e sia perchè le vacanze estive vengono effettuate altrove. Tante nel tempo le trasformazioni degli insediamenti di campagna e a volte sono cambiate pure le destinazioni.
- Masseria Lombarde, si incontra a circa 2 Km. da Novoli sulla omonima strada vicinale. È costituita da un modesto edificio ad un solo piano.
- Masseria “La Corte”, sorge nei pressi della strada provinciale Novoli-Trepuzzi ed è forse la più antica tra quelle esistenti nel territorio novolese poichè il suo nucleo originario si assegna al XVI secolo. Ampliata e rimaneggiata nel tempo, questa masseria possiede i resti di un ampio frantoio ipogeo. Già prima dei Mattei e poi dei Carignani, fu detta pure “del Signore”, riferendosi ovviamente al signore del feudo di Novoli.
- Masseria Panzera, la troviamo nei pressi della strada provinciale Taranto-Manduria-Lecce, a circa 2 Km. dall’abitato. Si tratta di una madesta struttura ad un solo piano.
- Masseria Pezzuti, è poco lontana dalla strada comunale Campi Salentina-Trepuzzi e dista 3 Km. dall’abitato. Delle strutture architettoniche originaria non resta un granché, tanti i rifacimenti anche per l’attuale destinazione a ristorante.
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- Masseria Convento, ad essa si giunge dalla strada vicinale Laurenzi e la struttura si sviluppa in due piani. Dagli inizi del XVII secolo, possiede un ampio ingresso ad arco sovrastato da una balconata e quanto resta di un frantoio del 1622.
Sin dal basso medioevo chi poteva realizzava costruzioni in campagna sopratutto a scopo abitativo per sfuggire le pessime condizioni igieniche delle città, e comunque dei centri abitati, e sopratutto per evitare il contagio causato dalle ricorrenti epidemie. Tuttavia tra Settecento e Ottocento divenne una moda villeggiare in campagna, dove pure si seguivano i lavori stagionali, e non pochi signori realizzarono così Ville e Casini anche per prestigio sociale.
Ecco, allora, quanto di incontra nella campagna novolese:
- Casino San Nicola, sulla omonima strada vicinale, dista al paese circa 2 km. e mezzo. Si sviluppa ad un solo livello, in orizzontale e possiede un piatto prospetto con quattro entrate.
- Casino Pietà, a 2 km. da Novoli, sorge nei pressi della strada provinciale Taranto-Manduria-Lecce. Abbastanza ammodernata, la struttura si sviluppa a due piani.
- Casino Ayroldi, si incontra tra Novoli e Villa Convento e la sua costruzione si assegna al XVII secolo. Semplice nella struttura, a due livelli, un tempo doveva essere fortificata e nonostante i tanti rimaneggiamenti conserva una caditoia nella parte centrale.
- Casino Cappelluto, si trova sulla omonima strada vicinale e si sviluppa ad un solo piano, il cui prospetto è scandito tra tre arcate con altrettante entrate. Indi, in seguito sul lato sinistro furono aggiunti altri ambienti con due entrate.
- Casino Potenza, risalente alla metà dell’Ottocento, è una dignitosa struttura a due piani, il cui prospetto al pian terreno è scandito da tre arcate con altrettanti ingressi, mentre al primo piano troviamo in asse con le aperture del piano terra tre finestre di cui la centrale è balconata.
È appena il caso di notare che casini e ville furono e sono costruzioni signorili, non sempre però realizzate nel passato della nobiltà, ma pure dai
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possidenti borghesi che in un certo senso vollero emulare la nobiltà di spada e di toga. Certo, il casino rispetto alla villa è più modesto, mentre la villa è una costruzione sontuosa, veramente signorile, spesso circandata da un grande giardino o da un parco. Pur non avendo grandi pretese, le Ville novolesi costituiscono testimonianza di gusto e talvolta di arte.
- Villa Cosima o Portaccio, si incontra nei pressi della strada provinciale Novoli-Villa Convento. Si tratta di una dignitosa ed elegante costruzione a due piani, balconata anche sul prospetto che guarda il giardino retrostante. Qui nel 1936 si scoprì un importante corredo funerario costituito da vasellame a figure rosse del VI sec. a.C., ora nel Museo Nazionale di Taranto.
- Villa Cardamone, a 3 km. da Novoli, sorge nei pressi della strada provinciale Novoli-Monteroni-Lequile. La villa, a due piani, esprime semplici linee architettoniche. Alle tre entrate del piano terra corrispondono in asse altrettante finestre, di cui la centrale è balconata.
- Villa Torre Vecchia, si giunge percorrendo la strada vicinale Milelli e fu realizzata nella seconda metà dell’Ottocento. A due piani, l’edificio si presenta massiccio e nel prospetto mostra archi ogivali binati sui quali poggia il balcone balaustrato. Il piano superiore ha la parte centrale arredata rispetto al pian terreno, con finestre a timpano.
- Villa Mellone, del 1784, si incontra nei pressi della strada provinciale Novoli-Villa Convento. L’edificio, a due piani, possiede una cappella dedicata alla Beata Vergine Assunta in Cielo. Nel semplice prospetto si notano due balconi balaustrati. Costruita da don Gennaro Mellone, la villa fu ereditata dai suoi discendenti Luigi e Francesco Mellone, indi è divenuta proprietà della famiglia Libertini di Lecce.
- Villa Maria, sorge sulla strada provinciale Novoli-Villa Convento e si sviluppa a due piani. Si nota l’eleganza architettonico-decorativa che si ripete nella contigua cappella di gusto neoclassico. Ottimo lo stato di conservazione.
- Villa Beniamino Russo, ad appena un km. e mezzo dal paese, si incontra nei pressi della strada provinciale Novoli-Salice-Veglie. Costruzione assai elegante, questa villa è a due piani con tre torrette ottagonali, due sul lato destro e una a sinistra.
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- Villa Pisanelli già Chiga, a circa due km. e mezzo dal paese, si sviluppa a due piani con semplici linee architettonico-decorative. Questa costruzione originariamente venne adibita a dimora del colono e possiede locali attigui destinati a palmento, magazzini, attrezzi e ambienti che ospitavano la servitù. Nell’ampio piazzale sorge una cappella.
- Villa Quattro Pizzure, è così detta perchè la struttura, a due piani, possiede quattro torrette angolari che terminano a punta. Al pianterreno si notano due finestre, una per lato del modesto portale, e sopra, in asse, tre trifore. A circa un Km. dall’abitato, è nei pressi della strada vicinale Fallavena1 .
1 Cit. da W. Mazzotta, op. cit., pp. 83-94. Cfr., A. Costantini, Guida alle Ville del Salento, Galatina 1992; A. Elia, Le masserie a Nord di Lecce, Galatina 1985 ; A: MONTE, Frantoi ipogei di Terra d’Otranto, in “ lu Lampiune”, a. VIII n. I, aprile 1992; M. De Marco, Torri e castelli del Salento. Itinerario costiero, Cavallino 1994; C. Daquino, Masserie del Salento, Cavallino, 2007.
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Il Risorgimento
La dominazione francese e il ritorno dei Borboni
La visita di Ferdinando IV di Borbone a Lecce, il 22 aprile 1797, fu accolta con largo entusiasmo popolare; l’euforia, però, cessò ben presto quando si seppe che le truppe francesi si appressavano a Napoli e che per la difesa del regno si dovevano reclutare contingenti nella nostra provincia. Il 21 dicembre dell’anno successivo i Borboni lasciarono Napoli e fuggivano in Sicilia. Napoli fu in preda all’anarchia e ad ogni sorta di violenza, l’effimera Repubblica Partenopea sostenuta dal generale Championnet nel gennaio 1799 si scontrò con i ceti popolari devotissimi alla monarchia borbonica, sostenuta dalle bande sanfediste del cardinale Ruffo che ben presto prevalsero per cui, entrate a Napoli il 17 giugno 1799 iniziarono una feroce repressione, e molti salentini finirono in carcere o furono giustiziati, come il generale leccese Oronzo Massa1.
Nel 1801 il re Ferdinando IV sottoscrisse la pace con la Repubblica francese, però mantenne nel regno napoletano un corpo di 12.000 soldati, un cui distaccamento alloggiò a Lecce, dove non mancarono abusi e violenze da parte dei francesi. Dopo la vittoria di Trafalgar (21 ottobre 1805) gli Inglesi furono accolti da amici a Napoli, ma qui la reazione francese fu immediata poiché il generale Gouvion De Saint Cyr calò nel napoletano con oltre 32.000 soldati. Ferdinando di fronte agli avvenimenti che precipitavano scappò di nuovo in Sicilia e nel marzo del 1806 Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, divenne re delle Due Sicilie, e nello stesso anno pubblicò editti sull’abolizione della feudalità, riforma poi portata a termine da Gioacchino Murat che il 7 agosto 1809 soppresse gli ordini religiosi e, quindi lo stato incamerò il Convento di Villa Convento e i suoi beni, la cui rendita lorda si aggirava intorno ai 142 ducati. Gli abitanti della frazione non ebbero più , con la partenza dei Domenicani, nessuna istruzione o riferimento spirituale, chi poteva si recava a Novoli e solo in casi eccezionali qualche prete del paese si recava a Villa Convento per somministrare i sacramenti. Con la soppressione degli Ordini religiosi furono pure incrementati dal demanio due “ospizi” novolesi, quello dei Padri Francescani Riformati di
1 Cfr., B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Milano 1992; Id., La rivoluzione napoletana del 1799; Bari 1948; E. Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee, Soveria Mannelli 2012; G. Galasso, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze 1992; P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1977.
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Lecce, costituito da tre vani in via Castello , e quello dei Padri Alcantarini di Squinzano, allocato in via Pendino e consistente in due vani.
Nel 1867 lo Stato devolse al Comune di Novoli i locali dei due ex ospizi che restarono abbandonati per circa un secolo, fino a quando la Civica Amministrazione decise di affittarli a privati. A tali locali aveva pure pensato il pio arciprete don Pasquale Tarantini ( 18281900 ) , il quale nel 1893 aveva devoluto tutti i suoi beni perchè a Novoli fosse fondato un ospedale per i poveri, ma il tempo passava senza risultato alcuno, per cui la locale Congregazione di Carità, costituita nel 1852, e che gestiva tra l’altro i beni del Tarantini, pensò di realizzare l’ospedale nel grande palazzo del benefattore, in via Moline, n. ll.
Tuttavia il Prefetto ritenendo inidonei i locali del palazzo Tarantini nel 1912 dette parere negativo, per cui dell’ospedale non se ne parlò più, e la Congregazione di Carità dovette limitarsi all’ordinaria beneficenza per i più poveri del paese, gestendo pure il “Monte Pecuniario di Novoli”, ossia l’ex “Monte Frumentario” soppresso il 15 novembre 18712.
Sotto il regno di Gioacchino Murat ogni provincia ebbe i suoi Intendenti e Sottintendenti, i Consigli Provinciali, Comuni e decurioni. Così tramontavano definitivamente le Università istituite nel lontano Medioevo.
Il Decurionato
Soppressa la feudalità, al posto dei vecchi Consigli comunali venne istituito un organismo municipale più ristretto, il Decurionato, i cui membri venivano sorteggiati tra coloro, invero pochi, che nel comune risiedevano da almeno cinque anni e possedevano una buona rendita finanziaria, e tra costoro almeno un terzo doveva saper leggere e scrivere.
Comune di seconda classe, a Novoli si potevano eleggere tre decurioni ogni mille abitanti, e siccome nel 1810 il paese superava di poco le 3.000 unità, in quell’anno ebbe nove decurioni, il cui numero crebbe ovviamente con l’accrescimento della popolazione. Tra i compiti dei decurioni vi era quello di formare le terne fra le quali il re, ma abitualmente l’Intendente, sceglieva il sindaco, gli eletti e i consiglieri provinciali. Il sindaco rappresentava il governo centrale e svolgeva le funzioni di ufficiale dello Stato civile e dell’archivista, il quale aveva il compito di compilare i registri dello Stato
2 Cfr., G. Spagnolo, Novoli tra ‘700 e ‘800. Gli “Ospizi” degli Alcaltarini e dei Riformati e un “Ospedale”, in “Lu Puzzu Tella Matonna” , IX, 21 luglio 2002, pp. 11-13.
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civile, resi obbligatori da Gioacchino Murat il 20 ottobre 1808.
È appena il caso di notare che il Decurionato esprimeva un’amministrazione di inequivocabile struttura borghese. Essa, ogni cinque anni, doveva inviare all’Intendente il bilancio di previsione, ma era diventata una prassi apportarvi annualmente alcune modifiche. Le spese comunali, a Novoli e altrove, erano tante tra stipendi, opere pubbliche ed altro, ma le entrate erano poche e ricavate essenzialmente da tasse e gabelle che stremavano la povera gente. Tuttavia tra il 1810 e il 1861 soltanto quattro bilanci del Decurionato novolese si chiusero in passivo, ma ciò non vuol dire che nel paese si stava bene, poiché il pareggio del bilancio, come è facile capire, si raggiungeva con l’aumento delle imposte indirette, ossia delle gabelle, sui beni di prima necessità, come la molitura del grano, il consumo delle farine, pasta, pane, etc., sicché per la gente, i meno abbienti soprattutto, la situazione migliorò con l’abolizione di queste odiose gabelle.
A Novoli, ma come dappertutto, la burocrazia era lenta e quasi sempre inefficiente, non mancava la piaga della corruzione e dei favoritismi e nel paese comandavano preti e benestanti, gente potente e rispettata a causa dell’atavica e fatalistica rassegnazione e riverenza dei ceti più umili, digiuni di diritti e sempre disposti a servire e a tenersi buoni i potenti, dai quali poteva così, con le raccomandazioni, ottenere favori e benevolenze.
Le casse comunali erano sempre al verde, tuttavia Novoli e i paesi circonvicini, sia pure tra mille difficoltà, realizzarono strade intercomunali nella prima metà del secolo, come quelle per Carmiano, Veglie, Campi, e poi in seguito altre. Ma i costi erano notevoli poiché bisognava risarcire i proprietari dei terreni attraversati dalle nuove strade, era costosa la manodopera e poi la burocrazia complicava il resto, comprese le dispute e le contestazioni giudiziarie. Lo Stato, come al solito, era assente e poco poteva fare l’Amministrazione Provinciale.
Compiuta l’Unità d’Italia il Decurionato si evolse in Consiglio Comunale, che venne eletto da chi, per censo, godeva dell’elettorato attivo e passivo, a Novoli 99 persone, e così pure venivano eletti i Consiglieri provinciali. Ancora una volta amministrazioni rappresentate dalla ricca borghesia, attenta ai propri interessi e latitante verso le opere di solidarietà sociale, perpetuarono l’andazzo vigente in epoca borbonica, se non peggio3.
3 Cfr., P. Palumbo, Risorgimento salentino (1799-1860), Lecce 1968; M. De Marco, I Leccesi e l’Unità d’Italia, Lecce 2011, pp. 25-34; L. Liberati, L’organizzazione amministrativa, in “Atti del 3° Convegno di studi sul Risorgimento in Puglia. L’età della Restaurazione (1815-1830)”, Cassano Murge 1983, pp. 121-134; D. De Marco, L’economia e la finanza degli stati italiani dal 1848 al 1860, in “Nuove questioni nel Risorgimento e dell’Unità d’Italia”, Milano 1969, pp. 782-785.
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L’analfabetismo, piaga delle regioni meridionali, cominciò ad essere affrontato dal re francese, il quale con decreto del 13 agosto 1806 stabilì l’istituzione in ogni comune del regno di una scuola primaria e con decreto del 30 maggio ordinò il funzionamento di un collegio nel giugno dell’anno successivo concedeva la Costituzione, accolta ovunque con entusiasmo. Subito dopo Napoleone gli diede il Regno di Spagna e sul trono napoletano fu insediato Gioacchino Murat.
Il conte Anguissola, primo intendente di Lecce, il 17 agosto del 1806 pubblicò l’editto concernente l’abolizione della feudalità. Con decreto del 20 gennaio 1808 l’Anguissola fu sostituito da Pietro de Sterlich, il quale fece sorgere il Giornale d’Intendenza della Provincia di Terra d’Otranto, che cominciò a pubblicarsi il 1° maggio. Le spese della stampa furono addossate ai comuni, ratizzate a nove ducati per ciascuno. Si spedivano loro due esemplari, uno per l’archivio e l’altro per uso dei cittadini. Per la spedizione e per la corrispondenza ufficiale si crearono corrieri i quali giungevano nel capoluogo il mercoledì ed il sabato.
La presenza francese nel Meridione d’Italia se da una parte rivestì il carattere di una vera e propria occupazione, dall’altra, però, fu indubbiamente benefica per l’afflusso delle idee illuministiche e per l’estensione del Codice Napoleonico in tutte le terre soggette alla giurisdizione dell’Impero. L’idea costituzionale, l’abolizione dei privilegi feudali e dei beni ecclesiastici, nonché l’inizio della scolarizzazione delle masse, furono elementi di novità che la restaurazione reazionaria dei Borboni, dopo la breve parentesi della dominazione austriaca, non riuscì a cancellare. Il Congresso di Vienna (18141815) restaurò anche i Borboni di Napoli, ai quali raccomandò moderazione e rispetto di alcune concessioni fatte dai francesi, eccetto, però, la Costituzione, che fu abrogata. La reazione borbonica è tristemente famosa, carcere ed esecuzioni furono all’ordine del giorno, il brigantaggio imperversava nel regno.
Al regime borbonico non si adattarono i liberali, pochi nel leccese in verità e per la più parte intellettuali. Nella provincia di Lecce fiorirono sette carbonare, con un migliaio in tutto di aderenti, divisi in 33 vendite. A questi patrioti vanno poi aggiunti i Massoni che, organizzati a Napoli durante la presenza francese, operarono con spirito filantropico e patriottico e dettero con la loro organizzazione un impulso decisivo, in tutta la penisola, per l’unità del Paese4.
4 Cfr., G. Gabrieli, Massoneria e Carboneria nel Regno di Napoli, Roma 1982; G. Leti, Massoneria e Carboneria nel Risorgimento Italiano, Genova 1925; M. De Marco, Storia della Massoneria in Terra d’Otranto. Testi e documenti, Lecce 2006.
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I settari novolesi
Rispetto agli altri comuni di Terra d’Otranto i settari novolesi furono molto meno numerosi e i loro nomi ci vengono forniti da due elenchi giudiziari, rispettivamente del 1° giugno e del 27 dicembre del 1829. Gemmata in Francia dalla Massoneria, che al tempo era costituita da nobili ed intellettuali poco propensi ad immischiarsi in condotte rivoluzionarie, la Carboneria esprimeva progetti e condotte di lotta anche armata contro l’assolutismo monarchico, era sostanziata prevalentemente dai ceti popolari e ben presto si diffuse in tutta Europa assumendo diverse denominazioni. Tuttavia la sua vita fu effimera e per la cattiva organizzazione e per il fallimento dei moti che aveva organizzato, in Italia fu soppiantata negli anni trenta dell’Ottocento dal pensiero mazziniano, pur essendo rivoluzionario ma rigorosamente repubblicano.
In Terra d’Otranto la Carboneria ebbe una diffusione capillare, in ogni comune e perfino nelle frazioni, e la Vendita carbonara di Novoli denominata Nuovo Carbone fu tra le prime ad operare nel Tallone d’Italia, essendo sorta intorno al 1814. Nel paese, poco tempo dopo, sorse una seconda Vendita che si denominò Sparta risorta ed essa nacque ai tempi del novilunio per scissione dalla prima.
La Vendita Nuovo Carbone venne fondata dal leccese Francesco di Paola Perrone, che si era stabilito a Novoli, dove nel 1820 capeggiò un moto rivoluzionario e perciò fu arrestato, continuando tuttavia, pur stando in galera, a tessere contatti con gli altri carbonari novolesi, ossia: Raffaele Tarantini, Oratore, patriota nel 1817, Tenente della Legione; Gregorio Barci, di Manduria, ma residente a Novoli, Capitano della Legione; Leonardo Giampietro, Tenente della Legione; Saverio degli Atti, Terribile, Tenente della Legione, nel 1817 Filadelfo e Dignitario dei Patrioti; Paolino Miglietta, Tenente della Legione; Giuseppe Tarantini, Capo dei Patrioti nel 1817, Tenente forzoso dei Militi; Luigi Beli, 1° Assistente, Patriota nel 1817, sergente dei Legionari; Giuseppe Beli, 2° Assistente; Luigi Miglietta; G. Bolli e Sugelli; Pasquale Miglietta, Esperto, Forziere della Legione, non partì per l’Armata, nel 1817 Patriota; Giovanni Cosma, Intimatore, nel 1817 Patriota e Filadelfo; Paolo Tarantini, Sergente dei Legionari; Donato de Matteis.
Questi gli affiliati alla Vendita Nuovo Carbone fondata, come si è detto, da Francesco di Paola Perrone che nel 1817 fu anche a capo dei Patrioti e dei Filadelfi, indi subito dopo l’Unità d’Italia fu iniziato massone da Giuseppe Libertini che gli fu amico. Alla seconda Vendita carbonara di Novoli appartennero: Francesco Orlandi, Gran Maestro; Domenico Beli, Maestro,
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Patriota nel 1817, Legionario; Giuseppe Francioso, sacerdote, 1o Assistente; Salvatore de Matteis, 2o Assistente; Domenico Orlandi, Oratore; Donato de Matteis, Esperto, Patriota nel 1817, sergente forzoso dei Militi, partì per l’Armata5 .
Oltre ai suddetti nominativi nelle carte della polizia ne emergono altri con maggiori dettagli nei due elenchi del 1829, succitati, ricchi di maggiori notizie e che integramente riportiamo.
Settari novolesi riportati dell’elenco del 1° giugno 1829:
• Perrone Francesco di Paola, di Lecce domiciliato in Novoli, proprietario, settario dal 1816 e durante il nonimestre, Filadelfo, Patriota e carbonaro nella Vendita di Novoli. Fu sempre dignitario e poi Gran Maestro. Mostrò riscaldamento ossia un entusiasmo in tutte le epoche, ma non promosse il politico disordine. Capitano della Legione, senza però che fosse partito all’armata.
• Tarantini Raffaele, di Novoli, proprietario, fu settario prima del 1820 e carbonaro durante il nonimestre, nella Vendita di Novoli, dignitario. Tenente della Legione: non vestì però l’uniforme né partì all’armata.
• Gregorio Barci, di Manduria domiciliato a Novoli, proprietario, settario prima del 1820 e carbonaro nel nonimestre nella Vendita di Novoli, non fu dignitario. Capitano della Legione.
• Leonardo Giampietro, di Novoli, proprietario, settario prima del 1820 e carbonaro nel nonimestre, non fu dignitario. Non mostrò effervescenza: fu Tenente della Legione, non vestì uniforme né partì all’armata.
• Saverio degli Atti, di Novoli, sarto, settario nel 1816 e durante il nonimestre, dignitario dè Patrioti e Filadelfi, e poi carbonaro nella Vendita di Novoli, non fu dignitario. Mostrò effervescenza ed entusiasmo. Fu Tenente della Legione, vestì l’uniforme e partì all’armata.
• Paolino Miglietta, di Novoli, proprietario, carbonaro durante il nonimestre della Vendita di Novoli, non fu dignitario, Mostrò entusiasmo. Fu sergente della Legione: vestì l’uniforme ma non partì all’armata.
• Donato de Matteis, di Novoli, proprietario, fu carbonaro durante il nonimestre, non fu dignitario. Fu sergente dei Militi, partì all’armata.
• Giuseppe Tarantini, di Novoli, proprietario, settario nel 1816 e carbonaro durante il nonimestre, non fu dignitario. Non fu legionario, […] nente dei Militi e […] all’armata.
5 Cit. da V. Zara, La Carboneria in Terra d’Otranto (1820-1830), Torino 1913, pp. 35-36. I Patriotti (Patrioti), i Filadelfi furono altre associazioni di tipo carbonaro.
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Nel secondo elenco del 27 dicembre 1829 si aggiungono nuovi nomi e più precise notizie:
• Perrone Francesco di Paola, Capitano della Legione formalmente eletto, vestì uniforme ma non partì all’armata. Fu Gran Maestro della prima Vendita: mostrò effervescenza. Fu Capo dei Patriotti nel 1817. In Novoli furonvi due Vendite, una più antica e l’altra posteriore: la più antica detta la prima denominavasi il Nuovo Carbone.
• Beli Luigi, di Lecce domiciliato a Novoli, proprietario, Primo Assistente. Fu legionario volontario col grado di Sergente, vestì uniforme e partì all’armata. Fu patriota nel 1817.
• Beli Giuseppe, di Lecce domiciliato a Novoli, proprietario Seconda assistente. Vestì uniforme de Foriere milite forzoso e partì all’armata. Fu patriota nel 1817.
• Tarantini Raffaele, Oratore e Tenente della Legione, non vestì l’uniforme né partì all’armata. Fu patriotta nel 1817, non mostrò effervescenza.
• Barci Gregorio, Carbonaro e Capitano eletto della Legione. Vestì uniforme e non partì all’armata: non mostrò effervescenza. Si figurò nel solo nonimestre non essendo stato per lo innanzi settario.
• Miglietta Luigi, di Novoli, proprietario, guardabolli, sergente volontario della Legione, vestì uniforme e non partì all’armata: non mostrò riscaldamento. Fu patriota nel 1817.
• Degli Atti Saverio, Occupò il grado di Terribile. Fu Tenente della Legione, vestì l’uniforme e partì all’armata. Fu patriotta nel 1817, mostrando entusiasmo.
• Miglietta Pascale, di Novoli, proprietario, Esperto, Foriere della Legione, vestì uniforme e non partì all’armata, benché volontario. Fu patriotto nel 1817.
• Cosma Giovanni, di Novoli, proprietario, Intimatore, mostrò riscaldamento. Fu legionario ma non partì all’Armata, essendo stato filadelfo nel 1817.
• Tarantini Giuseppe, Cassiere. Fu capo dei Patriotti nel 1817. Fu Tenente forzoso dei Militi, vestì l’uniforme e partì all’Armata, mostrando entusiasmo.
• Tarantini Paolo, di Novoli, proprietario. Sergente dei Legionari, vestì uniforme e non partì all’Armata. Stante la di lui assenza non si sa se prima del nonimestre fosse settario. Fu carbonaro nel 1820.
• Orlandi Francesco, di Sternatia domiciliato in Novoli, proprietario, Gran Maestro, Non fu legionario né riscaldato settario: appartenne solo nel nonimestre e non antecedentemente a proscritte società segrete. Appartenne alla seconda Vendita formata negli ultimissimi tempi del nonimestre per scissure nella prima: di essa non è possibile appurare il nome.
• De Matteis D. Salvatore, di Novoli, sacerdote, Secondo Assistente. Non fu settario che negli ultimi del nonimestre. Non mostrò effervescenza. Fè parte nella sopradetta Vendita.
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• Francioso D. Giuseppe, di Novoli, sacerdote, Primo Assistente. Non fu settario che negli ultimi tempi del nonimestre. Non mostrò effervescenza.
• Orlandi Domenico, domiciliato in Novoli, nativo di Sternatia, proprietario, Oratore. Patriotto nel 1817. Non fu settario che negli ultimi tempi del nonimestre. Non mostrò effervescenza.
• Beli Domenico, di Lecce, domiciliato in Novoli. Fu patriotto nel 1817 ed ebbe nel nonimestre il grado di Maestro della Carboneria. Nella surriferita epoca di aberrazione fu richiamato, come ritirato Sottouffiziale, e partì all’Armata: mostrò entusiasmo.
• De Matteis Donato, Esperto e sergente forzato dei Militi, vestì l’uniforme e partì all’Armata. Fu patriotto nel 1817 e mostrò entusiasmo6 .
La Carboneria novolese ebbe le sue riunioni segrete in una villetta abitata nel secolo scorso dal sacerdote Emanuele Ricciato, sita nei pressi della ferrovia Novoli-Carmiano, luogo che fu sede della prima Vendita. Esaurito per fallimenti e organizzazione il proprio ruolo, la Carboneria fu soppiantata dalla Giovine Italia del Mazzini, si è detto, e nel paese contribuì a diffondere le idee del grande Genovese il gallipolino Bonaventura Mazzarella (1818-1882), giudice regio in Novoli, dove sposò Chiarina Tarantini, donna bigotta e ignorante, barbaramente uccisa in casa sua da alcuni ladri. Altri come il Mazzarella, pure ferventi Massoni, ebbero seguito nel paese, e ci riferiamo a Giuseppe Pisanelli (1812-1879), famoso ministro che villeggiava in un casino dei “Chiga”, altra contrada del feudo di Novoli, e a Gaetano Brunetti (1829-1900), deputato al Parlamento italiano, il quale ebbe molte frequentazioni novolesi. Falliti i moti del ’48 il Perrone fu nuovamente arrestato, mentre il Pisanelli ed il Mazzarella ripararono in esilio, in Dalmazia il primo, a Malta l’altro. Ma se a quel tempo i Novolesi tenevano in grande stima Francesco di Paola Perrone, non così era per Giuseppe Tarantini e Saverio Degli Atti, amici intimi del Perrone e con lui anime vive del movimento settario, novolese. Su di loro si racconta una fosca leggenda intorno ad un delitto consumato la sera del 5 maggio 1813 rimasto misteriosamente impunito. Verso le 21,30 di quel giorno, dunque, si narra che il giovane Giuseppe Tarantini, appena venticinquenne, uccise a schioppettate il capitano della legione Raffaele Plantera di 31 anni, vegliese, con la complicità del suddetto Degli Atti. L’uccisione avvenne sulla porta della casa di “Madama”, amante del capitano. Per sfuggire alla giustizia, e qui entra la leggenda, il Tarantini
6 Cit. da M. Pastore, Settari in Terra d’Otranto (con appendice di documenti carbonari), Lecce 1967, pp. 88-90.
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compiuto il delitto con una velocissima cavalla si recò nel Teatro “Paisiello” di Lecce in cui, con la scusa di regolare il suo orologio, fece notare la sua presenza in quel posto.
Saverio Degli Atti veniva detto “Terribile” non perché avesse comportamenti crudeli o violenti, ma perché nella Vendita carbonara, come in una Loggia massonica, questa era una specifica carica riguardante colui che “si impossessava” del profano, ossia di chi doveva essere iniziato per istruirlo all’osservanza della ritualità. Saverio Degli Atti era nato a Novoli nel 1776 da Paolino e Chiara D’Agostino, e nel paese era chiamato pure “don Saveriu Tutu”. Era fratello del Sindaco Cosimo Degli Atti e del Segretario comunale don Germano.
Verso i principii del 1820 la vendita novolese “Nuovo Carbone” subì per contrasti interni una scissione che determinò la fondazione di una seconda Vendita che ebbe come sede la spezeria di Gaetano Prete, sulla attuale via S. Antonio, che si denominò Sparta Risolta, nome rimasto ignoto per molti anni. Ne fu Gran Maestro e fondatore Francesco Orlandi ed ebbe come collaboratori ed affiliati principali Domenico Beli, il sac. Giuseppe Francioso, Salvatore De Matteis, Domenico Orlandi, Donato De Matteis.
Nel gennaio del 1820 si ebbero i moti liberali di Spagna, il 2 luglio dello stesso anno avvenne l’insurrezione militare di Nola ad opera di Giuseppe Silvati, Michele Morelli e del sacerdote Luigi Minichini. L’eco di questi fatti spinse i Novolesi ad insorgere contro la tirannide borbonica. Francesco di Paola Perrone fu l’animatore e l’organizzatore del moto. Si voleva la Costituzione e questa fu concessa da Ferdinando I, ma i carbonari novolesi, in frequente contatto con Lecce, all’annuncio della notizia non si abbandonarono ad eccessive manifestazioni. Rendendosi conto della gravità del momento, pensarono con serietà a non compromettere l’impresa liberale: fu rafforzata la corrispondenza con la città di Lecce mentre si organizzava e si armava la guardia di Sicurezza perché si difendesse a tutti i costi l’ottenuta Costituzione. Intanto i Novolesi votavano nelle elezioni dei Deputati di Terra d’Otranto.
Gli avvenimenti, intanto, precipitavano, gli Austriaci intervenivano nel Napoletano e soffocavano ogni speranza liberale, la Costituzione cadeva dopo appena nove mesi di vita. La Carboneria subiva un gravissimo colpo, i suoi membri venivano perseguitati ed incarcerati, Francesco di Paola Perrone e Saverio Degli Atti, che aveva venduto ogni proprio bene per finanziare un gruppo di volontari novolesi armati per combattere gli Austriaci del generale Frimont, subirono la galera.
Il 21 dicembre del 1821 il farmacista novolese Salvatore Marra accusa-
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va all’Intendente di Lecce, Fernando Cito, Bonaventura Spagnolo e Angelo Scardia perché in una manifestazione avevano sventolato “la vergognosa bandiera tricolore” e avevano proposto come esattore al posto dello Scardia un certo Giosuè Russo. Una delle maggiori vittime dell’Intendente Cito fu l’allora sindaco di Novoli Leonardo Giampietro, nel 1819 iscritto alla Carboneria e nel 1820 nella seconda vendita. Il Giampietro che ha lasciato il suo nome legato alla istituzione del vecchio mercato di Novoli ed alla costruzione del Cimitero, fu rimosso dalla sua carica pubblica il 14 dicembre 1824. Novoli, centro di una circoscrizione mandamentale che comprendeva i comuni di Trepuzzi e Carmiano, fu in quegli anni covo di un movimento carbonaro prima, mazziniano e giobertiano poi; qui si stanziò giovanissimo e pose famiglia Bonaventura Mazzarella di Gallipoli, per tenervi il posto di giudice; qui convennero per vivere nelle loro ville, occulti alla polizia borbonica, Giuseppe Pisanelli, Gaetano Brunetti ed altri giovani con le loro famiglie, patrioti e cospiratore iscritti alla Giovine Italia che nei moti del 1848 si compromisero e si salvarono con l’esilio7.
Il Cito fu zelante persecutore della Carboneria, e a Novoli fu lui che la disperse indagando, cercando quanti ancora venivano denunciati da lettere anonime. Subirono le sue “attenzioni” il giudice circondariale Carlo Scorrano, tali Antonio Cosma e Pietro Quarta, il sacerdote Bernardino Mazzotta, Gaetano Prete e gli altri carbonari che abbiamo già citato.
Nel 1830 l’organizzazione carbonara è ormai scomparsa a Novoli, dove tuttavia non mancano ferventi patrioti, i quali si unirono nel 1828 ad una setta allora sorta, denominata Catena Salentina o Salentini Risvegliati. Costoro li troviamo tra le file di quella schiera che combatté per la libertà e l’unità d’Italia.
Nel 1831 Novoli inviò due trappelli di volontari al generale Guglielmo Pepe nello sfortunato tentativo di fermare gli Austriaci che marciavano su Napoli. Il contingente novolese era gli ordini dei tenenti Francesco Degli Atti e Raffaele Tarantini, che a loro spese avevano armato ed equipaggiato gli uomini. Francesco Degli Atti spese tutto il suo patrimonio per sostenere la Carboneria, e per tale attività subì la persecuzione e il carcere, sicché concluse da povero la sua esistenza, facendo il sarto per vivere. Pure in povertà concluse i suoi giorni un altro patriota, il notaio Leonardo Giampietro, che addirittura dovette vendere la sua casa, allogata tra via Salvatore Mazzotta e via Moline.
7 Cfr., P. Guadagno, La Carboneria novolese (1815-1830), in “La Giuanna” numero unico, Novoli , 17 luglio 1861 pp. 6-7.
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La reazione borbonica fu particolarmente attiva tra il 1847 ed il 1848, anni in cui era a Novoli il giudice Bonaventura Mazzarella (1818-1882) il quale giunto nel paese nel 1847, subito qui organizzò un nucleo mazziniano della Giovine Italia alla quale aderirono il Tarantini, il Degli Atti, il notaio Giampietro, il farmacista Paolo D’Agostino, il notaio Antonio Andrioli, il medico Giuseppe Piccinno, Giuseppe Oronzo Tamiano e i sacerdoti Nicola Calabrese e Giovanni D’Agostino.
Luogo delle segretissime riunioni fu la farmacia D’Agostino, in via S. Antonio. D’estate i patrioti si davano convegno presso le numerose case di villeggiatura, a Villa Convento, soprattutto nella residenza di Vito Chiga. Il Mazzarella, che a buon diritto è considerato novolese d’adozione, non solo perché il giudice fu del locale Circondario ma anche perché sposò la nobile Chiarina Tarantini che, come si dirà, morì assassinata; lui che fu massone di primo piano introdusse tra i liberi muratori Paolo D’Agostino, Antonio Andrioli, Raffaele Tarantini e Francesco Degli Atti. Del resto tra Novoli e Villa Convento negli anni Quaranta del XIX secolo avevano soggiornato due altri illustri Massoni, Giuseppe Pisanelli (1812-1879) e Gaetano Brunetti (1829-1900) che nel paese diffusero sia il pensiero mazziniano e sia quello della Massoneria. Il Mazzarella, il Pisanelli e Gaetano Brunetti furono eletti deputati al parlamento unitario, ricoprendo importanti cariche. Anche Novoli ebbe un suo combattente tra i volontari di Garibaldi. Fu Antonio Metrangolo, detto Tata ‘Ntoni Rizzu, morto a 98 anni, al quale l’Eroe dei due mondi avrebbe detto: “Antonio, i soldati sono forti, ma tu vali almeno dieci soldati forti, ti servirà la tua forza, penza intanto a tua madre”. Generazioni di novolesi hanno ascoltato i racconti di Tata ‘Ntoni, e a lui Ferdinando Sebaste dedicò una pagina piena di ricordi e di commozione8
All’indomani dell’Unità d’Italia
Primo Sindaco di Novoli, dal 1861 al 1864, fu il leccese Francesco di Paola Perrone (1777-1865), novolese di adozione non solo perché aveva scelto di dimorare nel “casino” detto te li ddoi purtuni, sito sulla strada Novoli-Lecce, ma anche perché aveva sposato due nostre concittadine, Francesca Vergari che morì prematuramente e poi Donata Metrangolo. Carbonaro,
8 Ib.; S. Panareo, Dalle Carte di Polizia dell’Archivio di Stato di Lecce, in “Rinascenza Salentina”, V, Lecce 1937, n. 338, pp. 120-137; F. Sebaste, Tata ‘Ntoni Rizzo garibaldino nel 1860, in “La Giuanna”, op. cit., p. 7; M. De Marco, Profili biografici di Massoni salentini, Lecce 2007.
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mazziniano e massone, il Perrone dovette affrontare non pochi problemi, tra i quali le pretese del Duca (nominale) Felice Carignani (1817-1896) che, nonostante l’abolizione della feudalità nel 1806, ancora vantava diritti di decimare su grano, orzo, avena, fave, lino, vino mosto e olio, nella misura di uno per ogni dodici e mezzo, così come stabilito con sentenza del 31 dicembre 1810 dalla Suprema Commissione Feudale.
Mario Rossi ha avuto l’occasione di reperire casualmente una lettera del 14 maggio 1862 che il Perrone inviò al Prefetto di Terra d’Otranto, ritenendo abusivi i diritti vantati dal duca Carignani. Nella missiva il sindaco Francesco di Paola Perrone «si lamentava con il Prefetto, dichiarando che l’ex feudatario, pur non avendo diritti particolari perché privo di investitura e di Successione Regia per esercitare il diritto feudale, avendo solo acquistato le proprietà dei Mattei, pretende le decime sul vino mosto dopo la realizzazione del vino mentre prima del 1809 la decima era sul prodotto delle uve appena pigiate. Continua dicendo che l’ex feudatario chiede la tassa sui cereali depurati dalla pula quindi in quantità maggiore rispetto agli anni precedenti il 1809 e il pagamento delle decime anche sui terreni non coltivati, mentre in data antecedente al 1809 si doveva pagare solo sulle terre ridotte a coltura»9 .
Il Prefetto rispose con sollecitudine, ma dichiarò la sua impotenza di fronte alla sentenza della Suprema Commissione feudale di cui sopra, sicché ai Novolesi, come agli altri cittadini che erano stati soggetti ai feudatari, toccò ancora subire le pretese di costoro fino a quando, nel 1887, venne abolito ogni residuo abuso feudale.
Com’è noto la Chiesa costituì sempre il maggiore impedimento per l’unità d’Italia, non volendo perdere il potere temporale e i tanti privilegi accumulati nei secoli grazie all’alleanza tra i troni e l’altare. Si sa che tutto venne messo in discussione dalla Rivoluzione francese, dal pensiero laico-giacobino, liberale e massonico che velocemente si diffuse in tutto il vecchio continente. Monarchia assoluta per eccellenza, di tipo teocratico, la S. Sede non poteva tollerare tutto ciò e il Sillabo di Pio IX, tra l’altro, ne è testimonianza probante per l’avversione allo Stato laico, fondato su Statuti o Costituzioni, ma anche e soprattutto era tenacemente contro la riunificazione della penisola italiana, che considerava tutto sommato come un feudo dello Stato della Chiesa, che si sentì espropriato di quel che restava dopo le soppressioni murattiane. Ecco perché, allora, la caduta del regno borbonico, tra gli altri, innescò nel clero condotte legittimiste e reazionarie, un vero e proprio odio per il pensiero laico-liberale, avversione che durò non senza strascichi, fino alla firma dei Patti Lateranen-
9 Cit. da M. Rossi, Circa le decime, in “Lu Puzzu te la Matonna” IV, 20 luglio 1997, p. 19.
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si l’11 febbraio 1929. A Lecce il regime borbonico si poteva dire crollato fin dal 3 luglio 1860. Contemporaneamente all’ingresso di Garibaldi in Napoli si formò nel capoluogo salentino un governo provvisorio (Mazzarella, Cepolla, Donno), dinanzi al quale gli ufficiali della guarnigione locale, con alla testa il generale Moreno, riconobbero il nuovo ordine politico e prestarono giuramento di fedeltà alla monarchia sabauda. Il plebiscito del 21 ottobre consacrava la volontà di Lecce di far parte dell’Italia una, libera e indipendente10 . L’Unità del Paese, a Novoli come altrove nel Meridione, fu un’occasione mancata per lo sviluppo socio-economico. Il trapasso dal regime borbonico al nuovo ordine politico non fu certamente indolore. In tutta la provincia salentina, sia pure in tono minore rispetto ad altre aree di Puglia e del Sud, si manifestarono i fenomeni del brigantaggio e del legittimismo borbonico, fenomeni che si intersecavano e si confondevano anche con la delinquenza comune, causando non poche volte episodi cruenti. A Novoli i malavitosi spesso e volentieri divennero fiancheggiatori dei briganti, qualcuno lo fu, e dalle carte del giudice del locale Mandamento, Nicola Coriglioni, si apprende che non poche donne novolesi si prostituivano con i briganti dalla banda di Pizzichicco (Cosimo Mazzeo) di San Marzano. Tra queste donne emerge il nome di Filomena Ippolito che all’età di 27 anni fu trovata morta il 22 novembre 1866 a S. Pietro Vernotico, in casa di un certo Cosimo Marangio. Della banda del Pizzichicco faceva parte il padre della povera Filomena, Oronzo, ma nel paese si era dato pure al brigantaggio Luigi Sozzo, che nel 1862 venne arrestato poiché trovato armato.
Il fenomeno della prostituzione, mestiere antico quanto il mondo, che nessuna legge o morale civile e religiosa è mai riuscito a debellare, nel XIX secolo ebbe particolarmente recrudescenza a Novoli come altrove, a causa soprattutto della miseria e dell’ignoranza, delle condizioni di emarginazione in cui versavano tante donne che, per fame, erano costrette a vendere il proprio corpo. Le “carte” di polizia, quelle comunali, i registri ecclesiastici e dell’anagrafe municipale documentano l’alto numero di figli di N.N., poveri disgraziati spesso abbandonati a se stessi o a quel poco che potevano offrire gli enti caritatevoli o la pubblica assistenza. All’indomani dell’Unità d’Italia Novoli annoverava non pochi preti, e la Chiesa non accolse con favore la fine del potere temporale e, prima ancora, la caduta dei Borboni, tant’è che il Vescovo di Lecce Nicola II Caputo, morto il 6 novembre 1862, dispose che si pregasse per Francesco II ormai in esilio, con vane speranze di rientrare in
10 Cfr., S. Panareo, Dalle “Carte di Polizia” dell’Archivio di Stato di Lecce, in “Rinascenza Salentina”, V, VI, VII, Lecce 1937-1939, nn. 333-341; D. De Rossi, Sette segrete e brigantaggio politico in Terra d’Otranto, Cutrofiano 1979, pp. 111-175; Memorie del Sud, a cura di A. Orlandi, Lecce 1999.
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possesso del proprio regno. Le masse popolari del Meridione, complessivamente, restarono indifferenti al mutato stato delle cose, ma ben presto però ebbero in odio l’aumento delle tasse e la leva obbligatoria che di fatto privava, ed era il caso di Novoli, allora fiorente centro agricolo, di tante braccia, sicché non pochi rimpiansero il trascorso regime. Ciò, tuttavia, durò poco, ben presto tutti si adeguarono al nuovo ordine politico-sociale, anche perché il paese non aveva espresso né un particolare entusiasmo risorgimentale né, a Unità avvenuta, fenomeni legittimistici, né di vendette tra fazioni politiche contrapposte, palesando in tal modo l’atavica abulia di fronte ad importanti novità, un’indifferenza, insomma, così tipica delle società contadine.
Se Novoli non espresse briganti e brigantaggio di rilievo, non fu però del tutto estranea a questo fenomeno, poiché qui vi fu pure qualche contadino “che si arruolò nella banda del sergente Romano che, spadroneggiando nelle Murgie e nella zona dell’alto Salento, si scontrò spesso con i Carabinieri e i Militi della Guardia Nazionale. Altri novolesi che prestavano la propria opera nella campagne del Brindisino e del Tarantino si aggregarono alle bande armate, organizzate come un vero esercito al soldo del Borbone, guidate da Carmine Crocco Donatelli e da Giuseppe Nicola Summa, conosciuto con il nome di Nico Nanco, facendo uso sia di armi bianche che da fuoco. Altri si aggregarono agli uomini capeggiati dal Pizzichicco e, trovando rifugio tra la fitta vegetazione del bosco Curtipitrizzi, nei pressi di Cellino San Marco, trucidarono alcuni Carabinieri. I briganti erano ladri ed assassini, gente di malaffare e rapinatori che saccheggiavano le masserie depredandole, aggredivano i viandanti togliendo loro quel poco che avevano e chiedendo il pizzo ai benestanti sotto la minaccia di gravi ritorsioni. Il brigantaggio fu soffocato nel sangue, e a tal proposito qualcuno ha affermato che ci sono stati più morti nella guerra tra “Piemontesi e briganti che in tutte le guerre del Risorgimento messe assieme”11 .
11 Notevole è la produzione storiografica sui fenomeni del banditismo, del legittimismo e del brigantaggio post unitario. Per oltre un secolo ha imperversato la cosiddetta “storiografia ufficiale”, quella voluta e scritta dai conquistatori piemontesi, ma da alcuni anni a questa parte studi sei e approfonditi hanno smontato in buona parte tanto di ciò che ci è stato raccontato, ma tanto, ancora resta ancora da chiarire. Cfr., comunque, oltre ai testi citati dalla nota precedente, R. Church, Brigantaggio e società segrete nelle Puglie, Firenze, 1899; V. Santoro, In nome di Francesco Re, Cavallino 1998; F. Scozzi, Brigantaggio e reazione cattolica in Terra d’Otranto (1860-1865), Cavallino 1986. Lo Scozzi si è diligentemente documentato su materiale d’archivio, ASL, Corte d’Assise, processi politici, 1861, proc. N. 115 del giudice istruttore; M.T. Ciccarese Capone, I moti reazionari nella Provincia di Lecce tra il plebiscito del 1860 e le elezioni del 1861, in “Rassegna Salentina”, I, n. 2, nov. dic. 1976, pp. 23-37. Cfr., A. Persano, Anche a Novoli ci furono i briganti, in “Lu Puzzu te la Matonna”, VIII, 15 luglio 2001, pp. 32-33. Il virgolettato cita A.S. Elia, Novoli, scuola per i duelli all’arma bianca, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XII, 17 luglio 2005, pp. 20-21.
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Malandrinaggio novolese
Novoli giace in un’ampia pianura e l’unico rilievo di nota, a qualche Km. Dal paese è Monte te l’autu (Montedoro), sulla strada per andare a Trepuzzi. Nel passato il luogo era boschivo, non privo di anfratti, e qui si nascondevano i briganti, i malandrini, i renitenti alla leva, i disertori, quanti anche per reati di piccolo conto venivano ricercati.
Antonio Salvatore Elia, che ha dedicato un suo saggio al malandrinaggio novolese, ricorda che uno di questi birbanti era detto Terribile, “Alto, robusto, con capelli arruffati, barba lunga. Era stato denominato Terribile forse per la sensazione di ferocia che emanava il suo rude aspetto, ma con ogni probabilità, non doveva essere molto cattivo”. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento ed agli “era ricercato non perché fuggito per non essere arrestato ma poiché era stato sorpreso a rubare da un pollaio una gallina per dare da mangiare alla madre inferma… Il suddetto brigante trascorreva la latitanza rintanandosi di giorno e operando di notte, rubando presso i giardini e le masserie quando non aveva di che sfamarsi. Ma non era raro che si rivolgesse agli utenti abituali delle strade della zona per richiedere qualche favore consistente di solito in cibo o indumenti ormai smessi”.
Nell’immaginario popolare tipi come il Terribile correvano di bocca in bocca, venivano, spesso esagerando, esaltati per il loro coraggio e per le loro capacità di far fessi i Carabinieri, sfuggendo alla cattura. Sempre dal D’Elia apprendiamo che “erede diretta del fenomeno del brigantaggio fu la malandrineria come élite non solo della variegata plebe urbana, impiegata in attività spesso al limite della legalità, ma anche di un emergente ceto mercantile. La malandrineria, parafrasando un’affermazione dello storico Pasquale Villari, nelle intenzioni voleva essere un naturale mezzo d’ordine nel disordine”.
Negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, una qualità che richiedeva “rispetto”, perché incuteva timore, era costituita dalla forza fisica di cui si era dotati e dall’abilità nel maneggiare armi bianche. Poiché il possesso delle armi, in genere, era proibito, clandestinamente ci si forniva di fusetti e coltelli, a molla o a serramanico, facilmente occultabili data la loro contenuta dimensione, ed estraibili con facilità allorquando si presentava l’occasione, essendo non rari i litigi e le risse.
In ogni paese della nostra terra salentina vi era, quella che si potrebbe definire, la graduatoria di forzuti capaci di fronteggiare, con paletti o con raggi di ruote da traino, gruppi di persone avversarie, o abitanti dei paesi limitrofi quando con gli stessi non correvano buoni rapporti. Di questi uo-
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mini dalla forza eccezionale – si diceva che avessero doppia muscolatura – si raccontavano episodi strabilianti.
Tra i forzuti di Novoli, ma che mai hanno avuto a che fare con la malandrineria, il primo posto pare che spettasse a tale Francesco Piccinno alias ‘Ngiccu Ciaffune che, scommettendo con un mugnaio, riuscì a portare dal mulino alla propria casa, caricandoseli sulle spalle, sacchi di grano per il peso complessivo di tre quintali in un unico “viaggio”.
Ma anche della categoria di chi sapeva tirare col coltello vi era una nomenclatura di vulgata popolare. Di questi si narravano fatti rocamboleschi, quasi incredibili, ma, almeno per alcuni, riscontrabili nelle testimonianze dei più anziani e negli sfregi visibili sulle persone procurati dai colpi di coltello subiti.
Per i “tiratori di coltello” non era necessario avere un fisico possente e robusto, ma condicio sine qua non era l’abilità e l’elasticità.
Le figure smilze avendo maggiori qualità nel destreggiarsi, attaccando e schivando con rapidità, avevano più facilmente ragione dell’avversario.
Una di queste figure, che conobbi quando ero ragazzo fu mesciu Pietro, un uomo dalla bassa statura, un guercio poco apprezzato, anche perché avanti con gli anni. Nell’ultimo periodo, verso la metà degli anni Quaranta, vendeva cozze nere e spesso i ragazzi lo imbrogliavano, approfittando della sua scarsa vista, dandogli meno denaro di quanto era il costo vero dei mitili comprati. Sembrava debole e incapace, ma ne sono certo, non si sarebbero permessi di gabbarlo se avessero saputo della sua abilità al tiro col coltello e della capacità di saltare e di affrontare più duellanti per volta. Ignoravano che fosse stato lui a segnare profondamente, con diverse coltellate, il volto di un tal Renna, uomo alto, robusto e temuto perché molto capace nel manovrare il coltello, ma evidentemente meno agile e scattante di lui, che aveva ottenuto l’appellativo di maestro proprio per la sua bravura nel maneggiare il coltello.
Questi ed altri fatti pesanti si raccontavano nelle botteghe e sui cantieri edili, durante le pause per la merenda, prendendo spunto dai frequenti lavori pesanti che mettevano alla prova la forza e l’abilità dei lavoratori. A volte si allargava la discussione parlando della destrezza dei tiratori di coltello degli altri paesi del circondario tra cui spiccavano le avventure di cui erano stati protagonisti quelli abitanti a Novoli.
Tra tutti emergeva il primato di un tale Angiulinu S. che, essendo abilissimo nel tiro al coltello ed avendo notevole forza fisica, era portato a farsi “giustizia” da sé, incorrendo, pertanto, in reati di una certa gravità. Quando i Carabinieri, per tali reati, andavano per catturarlo egli sempre, svelto
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e scattante, riuscì ad eludere gli arresti allontanandosi dal paese e dandosi alla macchia. E vani furono i tentativi delle Forze dell’Ordine per poterlo catturare, quando nottetempo si recava clandestinamente nella propria casa. I Carabinieri si appostavano intorno all’intero isolato credendo di poterlo ingabbiare, ma egli passando da un terrazzo in terrazzo e, alcune volte, saltando dal tetti con un salto eccezionale si sottraeva alla cattura. Una delle poche volte in cui fu acciuffato riuscì a sfuggire ai carabinieri che, mentre lo ammanettavano, furono sorpresi ed atterrati dal suoi calci potenti e rapidi. A Novoli oltre ad un tale soprannominato Prodigi proprio per le sue imprese fatte di bravate e furbizie, tiravano egregiamente il coltello Ciu Grassu, Niny Pittinaru, Tore Malepiru, Mimmi Zingaru e Pippi Scuta. Quest’ultimo fu uno dei pochi a non fuggire in America quando ci fu il repulisti voluto dal Fascismo ed era solito ripetere: La baracca te li muerti è partuta pe l’America.
Si raccontava, pure, che un certo Evangelista, detto Lista, più di una volta sia riuscito ad evadere dal Carcere Mandamentale di Campi Salentina dove era rinchiuso. Costui, nottetempo, scavalcava l’alto muro di cinta eludendo la vigilanza delle guardie, effettuava furti e rientrava all’alba nelle “patrie galere” senza farsi notare da alcuno. Da questo fatto pare sia nato il detto, noto pure a Trepuzzi: Ci rrubba? Rrubba lu Lista e lu Lista stae carciratu.
Si raccontava pure che un tal Esposito nel corso di un duello col coltello squarciò il ventre ad un certo Savoia, sulla via di Trepuzzi, che al malcapitato un altro malandrino saturò, alla meno peggio, la larga ferita addominale. Del fatto, tra paura e sgomento, un uomo diede la notizia urlando: Scappati ca ncete nu cristianu cu le ‘ntrame te fore.
Ed ancora, mingherlino e scattante, ma molto abile era lu Vasciu Vasciu, detto così per la sua piccola statura. Nelle diverse contese che ebbe riuscì sempre vincitore nei confronti degli avversari, pure abili e di maggiore statura fisica.
Novoli contava molti altri abilissimi duellanti di coltello, quasi tutti trainieri e zoccaturi, tanto da far loro assegnare, per questa categoria, il primato tra i paesi della zona.
Si raccontava che alcuni di questi maestri di coltello novolesi si portassero alla periferia dell’abitato di Trepuzzi, attraverso la via della Serra, nella campagna della Chiesa, per impartire “lezioni” di duello con l’arma bianca a diversi giovani del posto, ricevendo compensi in denaro. Le lezioni, dopo la spiegazione teorica nella quale si esponevano le mosse e le contromosse, erano costituite da allenamenti pratici che vedevano scontrarsi due apprendisti duellanti col coltello, avvolto insieme alla mano da un panno dal quale
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sbucava solo la punta della lama affinché gli apprendisti, durante le esercitazioni, non si procurassero ferite di una certa gravità.
Nessuno di questi giovani, benché valenti col coltello, riuscì ad eguagliare la “fama” dei maestri di Novoli.
Le ultime leve giovanili addestrate a Trepuzzi si ebbero verso la fine degli anni Venti del secolo appena trascorso, ma nell’assoluta segretezza perché la proibizione a questo “sport” era stata inasprita con l’avvento del Fascismo.
I duelli col coltello, quando non si trattava di risse improvvise, venivano concordati e si svolgevano all’esterno del paese, nella zona de il chiuppi o in quella del cimitero, i duellanti si affrontavano col coltello completamente aperto mentre l’altra mano era avvolta da un indumento tendente a parare qualche colpo o a fingere l’attacco, un po’ come facevano i gladiatori con la rete nell’antica Roma.
I giovani promettenti, dopo avere conseguito l’abilità necessaria, assumevano la qualifica di picciotto. Il battezzando prima di ricevere i gradi ripeteva: All’angolo di una vecchia strada, lì c’era la società formata a forma di staffa o di mezza luna. Ventisette e Cinquanta erano i miei diritti da pagare. A questo punto era interrotto da un anziano che gli chiedeva: Allora ti hanno fatto picciotto per denaro? Senza indugio l’adepto doveva rispondere: No, mi hanno riconosciuto degno della società. All’unisono l’assemblea, dicendo: Lo meritate, consegnava l’ingresso nella malandrineria. Alla prova di duello seguiva il giuramento che costituiva il primo gradino della gerarchia degli associati.
A Novoli la fine della scuola rusticana e l’ultimo battesimo di picciotto pare sia avvenuto nel 1937, come risulta dalla testimonianza resa da Francesco Zeppola, anziano studioso di patrie memorie, che ci ha riferito pure la formula del giuramento dell’aspirante picciotto. Questa così recitava: “Giuro su questa punta di pugnale macchiata di sangue di sconoscere padre, madre, fratelli e sorelle e di essere fedele al Corpo della Società e se tragedia porto o macchia di peccato vada a scapito mio e a discolpa della Società. Lo giuro”. Naturalmente oltre ai cavamonti e ai carrettieri tutti potevano far parte della consorteria. L’adesione veniva negata solo agli sbirri, infami, sottomisti e a chi indossava cariche speciali.
Però non tutti i praticanti della scuola di coltello entravano a far parte del così detto corpo della Società, sia perché non abbastanza bravi nell’uso dell’arma, sia perché non accettavano di irreggimentarsi in queste associazioni che andavano sempre più diversificandosi dal vivere civile, essendo spesso imbrigliate in misfatti e pertanto perseguite dalla Legge. Si trattava
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di una sorta di società segreta di tipo camorristico, denominata appunto Onorata Società, a capo della quale vi era il capobastone, l’ultimo dei quali a Novoli fu un tale Pitrinu P.
Gli altri affiliati che ne facevano parte si suddividevano nei ruoli gerarchici di: camorristi di sgarro, camorristi, malandrini e picciotti. Tuttavia le lezioni di tiro col coltello erano state utili per non dover subire sempre i soprusi dei prepotenti che, sentendosi più forti fisicamente, malvivevano con i ricatti e le ruberie.
Sino alla metà degli anni Venti del Novecento le struttura della Forza Pubblica per la salvaguardia sociale non era ben radicata su tutto il territorio e pertanto rimanevano ampie maglie non controllate nelle quali trovavano spazio coloro che si macchiavano di reati e i latitanti che erano sfuggiti alla Giustizia. L’assenza o l’impraticabilità di alcune strade e la mancanza di mezzi di locomozione idonei rendevano difficile la cattura dei ricercati che, conoscendo bene i luoghi più adatti a nascondersi, sfuggivano alle forze dell’Ordine. La vita di coloro che vivevano alla macchia spesso si caricava maggiormente di reati tenendo sotto scasso le case delle periferie dei paesi e i traini e le trainelle carichi di derrate alimentari e di mercanzie varie che si portavano nei mercati e nelle fiere paesane. Chi conduceva questi mezzi di trasporto, oltre a conoscere il proprio mestiere di commerciante, di solito era stato a suo tempo edotto sull’uso del coltello. Spesso il commerciante poteva essere accompagnato da giovani lavoranti che dovevano dare man forte al “principale” nel difendersi dalle insidie dei malviventi che potevano sbucare all’improvviso da dietro i muri o le siepi per sottrarre la merce e dovevano essere in grado di affrontare le frequenti risse che accadevano nelle locande dove, dopo aver depositato i cavalli, pernottavano o nelle piazze dei mercanti per la scelta del posto da occupare per l’esposizione e la vendita della merce.
Uno di questi giovani di Trepuzzi che accompagnava i mercanti di stoffe, essendo abilissimo nel maneggiare il coltello, era un certo Lazzarino soprannominato lu Squerscia.
Nel passato, è stato già detto, si ricorreva poco alle Forze dell’Ordine per far valere i propri diritti. Era, invece, frequente che i conti si regolassero direttamente, personalmente o attraverso faide che coinvolgevano intere famiglie e, pertanto, possedere forza ed abilità nell’uso delle armi procurava un certo vantaggio. Ma era un vantaggio anche al fine di potere esercitare un tipo di lavoro che non richiedesse enormi fatiche fisiche, com’era invece consueto per la gente comune. Si poteva far parte di pattuglie campestri ed urbane, organizzate e pagate da proprietari per la vigilanza delle campa-
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gne, onde contenere l’abigeato, ma principalmente per vigilare i trappeti nel periodo della molitura e scongiurare, quindi, assalti briganteschi miranti ad impossessarsi dell’olio che vi si produceva.
Molti dei nostri predecessori divennero malviventi per le condizioni di miseria in cui versavano, avendo trovato nel furto e nelle rapine il modo per sopravvivere e sfamare la propria famiglia. Probabilmente avevano messo anche in conto di morire ammazzati. Ma per loro era meglio morire una sola volta anziché ogni giorno ed un po’ alla volta da miserabili e affamati.
Nei nostri paesi circolava il detto: È meglio vivere un giorno da toro che cento da buoi ed era evidente il riferimento, in positivo, a chi si dava alla macchia.
Per la malavita di oggi, però, è tutt’altra faccenda12 .
Così conclude il D’Elia questa interessante ricognizione sulla malandrineria novolese, ed io attingendo dalla mia memoria ricordo che allorquando ero ragazzino di 7 o 8 anni si raccontavano le “imprese” dei birbanti, ormai diventate di dominio pubblico. Qualche malandrino, sia pure avanti con gli anni, l’ho conosciuto, e più di uno aveva cambiato vita lavorando onestamente. Restai sbalordito e confuso quando due di costoro parlottavano probabilmente con la lingua “serpentina” e con strani gesti, ovviamente il gergo segreto dei malavitosi.
Mio padre raccontava che luogo di incontro dei malavitosi novolesi era sutta alli chiuppi e che costoro qui osservavano i comportamenti dei monelli del paese per individuare i più arditi a cui poi far scuola di coltello, già perché non andasse perduta la “tradizione”. Storie e personaggi d’altri tempi che, certamente non si rimpiangono, storie di miseria, emarginazione e disperazione che se oggi non generano il malandrinaggio, producono di peggio, com’è noto, non solo le organizzazioni malavitose di natura mafiosa ma, per i più deboli e sprovveduti, tante altre devianze che ben conosciamo.
Novoli in morte del re Vittorio Emanuele II
Nato a Torino il 14 marzo 1820, Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, morì a Roma il 9 gennaio 1878. Appena sparsasi l’infausta notizia anche in Terra d’Otranto, e quindi anche a Novoli, pressoché unanime fu il cordoglio e subito si organizzarono manifestazioni, uffici funebri e commemorazioni. Novoli ricordò il Re Galantuomo il 15 gennaio, giorno dell’antivigilia della festa di S. Antonio Abate, e quell’instancabile appassionato ricercatore
12 Cit. da S. Elia, op. cit., pp. 20-23.
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che è Mario Rossi ha pubblicato quanto appreso dalla Cronaca funeraria riguardante anche Novoli, estrapolandone interessantissime notizie13, per cui leggiamo che a Novoli “La parrocchiale parata a lutto mostrava un’urna cineraria, sulla quale poggiava l’Italia in atto di dolore. Così la idearono i signori Alessandro Guerrieri e Salvatore Mazzotta.
Ai riti del Clero furono presenti Autorità e popolo. Il Maestro Luigi Andrioli lesse alcune poesie, una delle quali cantata e messa in musica dal nominato Mazzotta. Le botteghe frattanto rimasero chiuse, e il Municipio, oltre d’avere spedito un telegramma al Re, deliberò una lapide commemorativa da essere collocata nella sala delle sue adunanze”.
L’allora sindaco di Novoli, Pietro Longo, in una lettera inviata a Carlo Arrighi direttore de “Il Risorgimento”, così scrive:
Novoli, 18 gennaio 1878
Arrighi carissimo, perché l’opinione pubblica non accusi d’ingratitudine il Comune da me indegnamente amministrato ti piaccia annunziare nel tuo accreditato giornale che anche Novoli ha inteso profondamente il dolore della immatura perdita del 1° Re d’Italia, Vittorio Emanuele; prova ne sia l’immenso concorso di popolo di tutte le classi nella chiesa parrocchiale il giorno di martedì 15 volgente, quando, a spese di questo Municipio, si fece un solenne funerale in commemorazione dei Re Galantuomo, la classe elevata del paese vi assisté tutta, tutti i negozi furono chiusi spontaneamente in segno di lutto ed il popolo accorse come nelle grandi solennità.
S’intende che del Municipio e i suoi impiegati, del Pretore e i suoi dipendenti, degli alunni delle scuola elementari coi rispettivi maestri, non mancò nessuno.
La chiesa era parata a lutto, e in mezzo all’unica navata sorgeva un gran catafalco sormontato da un’urna al cui piè era poggiata una statua, simboleggiante l’Italia immersa nel dolore.
Tutto l’ornato fu diretto dal Sig. Alessandro Guerrieri, dilettante di disegno e farmacista di questo comune, e dal maestro di 3° elementare Sig. Salvatore Mazzotta, il quale compose pure 5 belle iscrizioni allusive, quattro delle quali furono situate ai quattro lati del catafalco ed una sulla parta maggiore della Chiesa.
La mesta cerimonia riuscì splendida, avuto riguardo alla poca importanza di questo Comune e fu chiusa con una sentita poesia del maestro di 2° elementare Luigi Andrioli e con un inno dello stesso, posto in musica dal maestro di 1° elementare Sig. Giuseppe Mazzotta, cantato in fin della funzione.
Questo Municipio non ha potuto di più nella circostanza; si riserba però
13 Cfr., Onoranze funebri a Vittorio Emanuele II in Terra d’Otranto, Lecce 1878, con Relazione di Sigismondo Castromediano.
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concorrere pel Monumento Nazionale al Grande Estinto, come questa Giunta Municipale farà mettere una lapide commemorativa in faccia alla Casa Comunale.
Ora mi domanderai: ed il Sindaco che ha fatto? ... eccomi a soddisfare la tua giusta osservazione.
Il Sindaco il giorno 11 volgente spedì un telegramma di condoglianze al Sig. Ministro dell’Interno, ed il giorno 12 un indirizzo della Giunta al Re Umberto I; di questi documenti te ne acchiudo una copia.
Ti par lunga questa corrispondenza? ... ebbene castrala a tuo talento, purché dica qualche cosa che salvi l’onore del mio paese natìo.
Accetta un cordiale saluto ed una stretta di mano dal Tuo Aff.o Amico Pietro Longo Sindaco
Sulle pagine de “Il Risorgimento” n° 5 datato 25 gennaio 1878 fu pubblicato il messaggio che la Giunta Municipale di Novoli aveva inviato pochi giorni prima al nuovo sovrano d’Italia Umberto I. Ci piace riportare quelle righe:
A Sua Maestà Umberto I Re d’Italia
Il sentito dolore di tutto il popolo dalle Alpi al Lilibeo, per immatura morte del primo Re d’Italia e del primo campione della sua indipendenza, hanno costernato la intera Nazione e staccato lagrime ai cuori più duri.
La Giunta municipale e sottoscritta compie il sacro dovere di Umiliare ai piedi della Maestà Vostra il sentito dolore di lealtà che stringe i Principi di Casa Savoia, fu atto di sommissione alla Maestà Vostra, certa com’è che Umberto I farà rispettare e tenere questa Italia rigenerata dal primo suo Re, e la cui indipendenza è stata suggellata sui campi di battaglia dal suo Sangue e da quello dei Suoi Figli.
Noi siamo certi di avere in Vostra Maestà la Regina d’Italia, la madre di tutto un popolo. Sire, l’Italia è con Voi conscia di avere in Voi il depositato più geloso della sua libertà e della sua indipendenza.
Novoli, 12 gennaio 1878
Firmato
La Giunta Municipale Cav. Pietro Longo Celestino Andrioli Giovanni D’Agostino Luigi Ricciato Vincenzo Toscano14.
Il Sindaco
14 Da M. Rossi, Novoli: in morte del Re Galantuomo, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XX, 21 luglio 2014, pp. 20-12.
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Massoni novolesi
La storia delle istituzioni iniziatiche, fiorite presso ogni civiltà, si perde nella notte dei tempi, tuttavia la Massoneria moderna nacque in Inghilterra nel 1717 e ancor oggi sorge il dubbio se essa sia gemmata dall’Illuminismo o viceversa. Diffusasi velocemente in tutta Europa, pochi anni dopo, nel 1728, essa era già presente a Napoli dove mano a mano sorsero tante Logge sebbene di obbedienze diverse, inglesi, francesi, olandesi, etc…, e ovviamente autocefale, cioè napoletane, maschili, femminili e miste15 .
Via via tanti salentini, essenzialmente nobili, professionisti, studenti, commercianti, etc…, nella capitale partenopea entrarono in contatto con gli ambienti massonici ricevendone l’iniziazione e, una volta tornati nella propria terra non pochi installarono proprie Logge, diffondendo così le idee di tolleranza, libertà e uguaglianza della Libera Muratoria. Sulle vicende della Massoneria in Terra d’Otranto il sottoscritto è stato primo e finora l’unico a scriverne compiutamente, non solo perché “iniziato” ma anche e soprattutto per aver avuto accesso a documenti severamente proibiti al pubblico profano16. Purtroppo dopo l’Unità d’Italia sono andati dispersi i documenti della Massoneria napoletana, e meridionale in genere, ma non mancano fonti di seconda mano che riportano pure tanti documenti. Comunque tra quei Novolesi che si recarono a Napoli o che poi dal 1864 ebbero contatti con Giuseppe Libertini (Lecce, 1823-1874), mio antenato per parte materna, patriota e fondatore delle Logge massoniche in Terra d’Otranto, ubbidienti al Grande Oriente d’Italia, oppure per una serie di relazioni umane, politiche e professionali, aderirono alla Libera Muratoria, almeno nella seconda metà dell’Ottocento, e poi altri ne fecero parte e vi appartengono, ma di questi ultimi taceremo i nomi per non esporli al pregiudizio popolare ancora in voga.
15 Cfr., C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze 1974; C. Gentile, Appunti per la storia dei Liberi Muratori delle Puglie, in “Rivista Massonica”, LXV-XI della nuova serie, n. 2, Roma 1974; L. SYLOS, Massoneria e Carboneria nei primi anni del sec. XIX, Bari 1914; M. De Marco, Storia della Massoneria etc., op. cit., pp. 5 sgg.; U. Bacci, Il libro del massone italiano, Roma 1922.
16 Cfr., M. De Marco, Appunti per la storia della Massoneria salentina (1800-1925), Gallipoli 1987; Id. Storia della Massoneria in Terra d’Otranto, etc., op. cit.; Id., Giuseppe Libertini patriota e fondatore delle Logge massoniche in Terra d’Otranto. Testi e documenti, Lecce 2009; Id., Profili biografici di Massoni Salentini. Testi e documenti, Lecce 2007; Id., Storia della Loggia “Liberi e Coscienti” di Lecce, Lecce 2014; Id., Storia della Massoneria Brindisina, Lecce 2016. Questi i testi principali, ai quali vanno aggiunti tanti saggi, biografie e articoli.
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A proposito dei massoni novolesi una cosa va detta, nel senso che essendo la Massoneria nel passato, ma non oggi, una istituzione élitaria non poteva far presa sulla massa analfabeta e non più di tanto sui pochi professionisti che il paese esprimeva. Va poi considerato che Novoli, anche per l’alto numero dei preti e di non pochi religiosi, era un paese clericale e che oggi, fatte salve le apparenze e le abitudini, complessivamente palesa ahimè il qualunquismo e l’indifferentismo. Ora dei massoni novolesi, vissuti tra il XIX e il XX secolo ne diamo brevi profili biografici, avendo altrove pubblicato in maniera più ampia.
- Andrioli Antonio, di Celestino e Oronza Colelli, nacque a Novoli il 4/10/1817 ed ivi morì il 15/1/1935. Notaio come il padre, con studio a Novoli, si sposò a Lecce con Giuseppa Fina, originaria di Campi Salentina, il 19/11/1898. Uomo assai versatile, fu pure ottimo musicista e suonava diversi strumenti. Ricevette l’iniziazione massonica dalla Loggia “Liberi e Coscienti”di Lecce il 9/1/1915.
- Andrioli Francesco, di Antonio, fratello di Celestino, nacque a Novoli nel 1845 ed ivi morì nel 1923. Avvocato, sposò Francesca Taurino dalla quale non ebbe figli. Più volte Consigliere comunale, si impegnò per la sistemazione urbanistica di Novoli. Il 6/4/1906 fu iniziato Massone presso la Loggia “Liberi e Coscienti” di Lecce. Raggiunse il 18° grado del Rito scozzese Antico e Accettato (R.S.A.A.).
- Andrioli Celestino, di Antonio e di Giovanna Maglietti, nacque a Novoli l’1/10/1839 ed ivi morì il 30/12/1897. Notaio, ricoprì diversi incarichi nell’Amministrazione comunale e fu chiamato a gestire i dazi. Fu tra i primi ad introdurre in provincia la distillazione razionale dell’alcool e la manifattura dei liquori. Il suo nome appare tra quelli di 23 cittadini italiani partecipanti all’esposizione di Londra del 12 maggio 1888. Fu iniziato da Giuseppe Libertini nella Loggia “Mario Pagano” di Lecce il 12/1/1867, dove ricoprì diverse cariche e raggiunse i gradi più alti del R.S.A.A.
- Busi Serafino, di Mario e di Rosa Marzo, nacque a Brindisi il 9/6/1887 e morì a Novoli il 22/1/1944. Ingegnere civile, partecipò al primo conflitto mondiale con il grado di sottotenente telegrafista. Il 26/7/1913 sposò la bolognese Ester Pilla, dalla quale ebbe Stelvio e, con la famiglia nel 1931 si trasferì a Novoli, dove dopo la morte dell’ing. Francesco Parlangeli ne pro-
17 In M. De Marco, Profili etc., op. cit.
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seguì i lavori. Massone di primo piano, Serafino Busi ricevette l’iniziazione presso la Loggia “Lavoro e Disciplina” di Brindisi nel 1913, indi nel 1919 fu affiliato alla Loggia “Liberi e Coscienti” di Lecce dove ricoprì diverse cariche. Proseguì il proprio perfezionamento iniziatico nel R.S.A.A.
- De Matteis Vincenzo Francesco Mario, di Luigi, nacque a Novoli il 17/9/1882, morì a Roma nel 1959. Avvocato, esercitò a Novoli, a Lecce e infine a Roma. Sposò la novolese Maria Miglietta. Ricevette l’iniziazione massonica il 18 febbraio 1908 presso la Loggia “Liberi e Coscienti” di Lecce, dalla quale tuttavia fu radiato per assenze e morosità il 22 dicembre 1913.
- Franchini Romeo, di Antonio Luigi e di Emanuela Vetrugno, nacque a Novoli il 27/7/1887 e morì a Gallipoli il 7/2/1971. In possesso della maturità classica si iscrisse a Giurisprudenza ma non conseguì la laurea poiché per la morte del fratello Salvatore rientrò a Novoli per gestire col padre l’azienda molitoria familiare attiva sin dal 1872. Persona di molteplici interessi, dalla critica d’arte alla storia patria, affabile, generoso e attivissimo, il 22/2/1992 sposò a Tuglie Ada Vergine, dalla quale ebbe Luigi e Mario, quest’ultimo medico e massone di prestigio. Romeo Franchini venne iniziato massone presso la Loggia “Liberi e Coscienti” di Lecce il 9/7/1911, ricoprì qui diverse cariche e restò attivo fino alla chiusure delle Logge da parte del fascismo, non “risvegliandosi” dopo la caduta del regime, al quale fu sempre avverso. Comunque in Massoneria raggiunse il 30° grado del R.S.A.A. Nel 1911 fu tra i fondatori della Società Agricola Novolese e tre anni dopo fu promotore della ricostruzione della Società Operaia di M.S. del suo paese. Nel 1918 fondò una Cooperativa di Consumo tra Operai, con l’ing. Serafino Busi e Donato Manca. Animato da ideali di libertà e di giustizia, fu tra i promotori e attori della sommossa novolese del 12 febbraio 1931 e, salvato dal confino, fu sempre attenzionato dalla polizia. In questo periodo la sua casa divenne meta di tanti affezionati amici e studiosi. Nel 1940 restò vedovo e caduto il fascismo il C.L.N. il 22 novembre del 1944 gli affidò l’incarico di Sindaco pro tempore. Nello stesso anno fondò a Novoli la Democrazia Cristiana. Sindaco per due legislature, ebbe stima e rispetto anche degli avversari politici. A Novoli asfaltò le strade, fece costruire case popolari e, avanti con gli anni, si dedicò fino alla morte ai suoi amatissimi studi.
- Longo Pietro, di Leonardo, nacque a Novoli il 9/5/1830 e morì a Casamicciola Terme il 28/7/1883. Laureatosi in Medicina, si prodigò gratuitamente per i poveri del paese e a soli 21 anni contrasse matrimonio, il 1° novembre 1851, con la sedicenne Adelaide Filomena Vergari di Nardò. Nel 1863 lo
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troviamo nella Guardia Nazionale di Novoli e in quell’anno fu coinvolto nei fatti che videro tutto il paese rivoltarsi contro la condotta arbitraria e morale del giudice del locale mandamento di Nicola Moriglione, un debosciato che non onorava certamente la sua carica Liberale, filantropo e legato alle sorti del paese natìo, Pietro Longo nel 1862 fu eletto consigliere comunale di Novoli. Due anni dopo fu Sindaco del paese, succedendo al Fr. Francesco di Paola Perrone, il primo sindaco di Novoli dopo l’Unità d’Italia. Per cinque anni esercitò questa carica e, dopo l’intervallo di quattro anni, dal 1873 al 1882 fu di nuovo Sindaco del paese, carica che esercitò, insieme a quella di Consigliere Provinciale, dal 1873 al 1883, anno della sua morte. Cavaliere della Corona, Pietro Longo spese la proprio esistenza al servizio della gente del suo paese, e non solo. Ebbe a cuore la pubblica salute, l’istruzione scolastica e senza ombra di dubbio contribuì al benessere di Novoli occupandosi dell’igiene delle case, strade e della realizzazione di opere pubbliche, tra le quali ricordiamo la costruzione dell’attuale Casa Municipale, inaugurata nell’aprile del 1881, e del Carcere Mandamentale, inaugurato nell’anno successivo. Le due opere furono progettate dal Fr.·. ing. Oronzo Bernardini, in servizio presso il Comune di Lecce. Altre opere edilizie novolesi recano la firma del Fr.·. ing. Fortunato Galluccio. A Novoli Pietro Longo, ancora, potenziò l’illuminazione notturna, a petrolio, istituì la scuola serale per analfabeti; nel 1882 fece impiantare il telegrafo, fece iniziare la costruzione del Teatro comunale, fece erogare le rette per il mantenimento di cinque indigenti presso l’Asilo di Mendicità, fece aumentare lo stipendio delle balie che accudivano i bambini abbandonati, si prodigò per la vaccinazione della popolazione. Queste, in sintesi, alcune delle opere che da onesto amministratore effettuò Pietro Longo, che incurante del pericolo si spese interamente durante l’epidemia di colera 1866-67. Parimenti si impegnò in qualità di Consigliere Comunale. Con la consorte morì durante il tremendo terremoto che distrusse Casamicciola Terme il 28 luglio 1883. Qui si era recato, per cure termali, con la moglie e con l’amico Oronzo Orlandi, ingegnere e capo del Comune di Novoli, perito con la consorte Concetta Bodini, nella stessa circostanza. Pietro Longo, presentato dal Fr.·. Celestino Andrioli, e sorretto dalle positive tavole informative a firma dei FF.·. Oronzo Bernardini e Fortunato Galluccio, ricevette l’iniziazione massonica dalla Loggia Mario Pagano il 18/4/1872. Nello stesso anno fu promosso Compagno e nel 1874 era già Maestro e nel R.S.A.A.
- Francesco di Paola Perrone, nacque a Lecce il 15/5/1777 e morì a Novoli il 13/8/1965. Di famiglia benestante, ero figlio dell’avvocato leccese Vincenzo
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e di Anna Scarambone. Per ragioni di matrimonio si traferì a Novoli, avendo dimora nel “casino” detto “Ddo purtuni” (due portoni), sito sulla strada Novoli-Lecce, “ad un quarto di miglio fuori dall’abitato”. Rimasto vedovo di Francesca Vergari si unì in matrimonio con Maria Donata Metrangolo, entrambe di Novoli. Da un elenco trasmesso dal Giudice Regio del Circondario di Novoli l’1 giugno 1829 al Ministro di Polizia Generale e conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce, Intendenza di Terra d’Otranto, Atti di Polizia- Attendibili trascriviamo: Francesco di Paola Perrone, di Lecce domiciliato in Novoli, proprietario, settario dal 1816 e durante il nonimestre, filadelfo, patriota e carbonaro nella Vendita di Novoli (Il Nuovo Carbone). Fu sempre dignitario e poi Gran Maestro. Mostrò riscaldamento ossia un entusiasmo in tutte le epoche, ma non promosse il politico disordine. Capitano della Legione, senza però che fosse partito per l’armata. Francesco di Paola Perrone nell’aprile del 1827 fu denunciato per le sue idee liberali, tramite una lettera anonima, all’Intendente di Terra d’Otranto Ferdinando Cito. Nella lettera si accusava il patriota novolese di nascondere in due case di campagna, una delle quali da lui abitata, emblemi della Carboneria, una quantità di cartocci, che dice li serviranno alla circostanza, tre schioppi, una sciabola (sic), muntura, tasco e tutt’altro gli servì in quantità di Capitano costituzionale. Francesco di Paola Perrone, come si diceva all’epoca, visse del suo; fu laico, mazziniano e si affiliò alla Giovine Italia. Fu amico di Giuseppe Libertini, Gaetano Brunetti, Luigi Falco e Bonaventura Mazzarella, del quale fu testimone di nozze allorché costui prese in sposa Chiarina Tarantini. Compiuta l’Unità d’Italia Francesco di Paola Perrone fu il primo Sindaco di Novoli, carica che tenne per quattro anni, ossia fino al 1864, circa un anno prima della morte. Falliti i moti del 1848, Francesco di Paola Perrone, pur restando sempre mazziniano, aderì alla Libera Muratoria presentato, come si legge da un vecchio documento, dall’avv. Luigi Falco di Lecce, ovviamente Massone, presso il quale faceva praticantato il figlio suo Giuseppe, laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Dal documento in parola risulta che il Nostro nel 1852 era già Maestro di una Loggia leccese di cui non ci è dato il titolo distintivo. Anche il figlio Giuseppe fu Libero Muratore, però nella Loggia Mario Pagano, fondata da Giuseppe Libertini.
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Tra Ottocento
e Novecento
La fine del 1800 e i primi anni del 1900 furono caratterizzati a Novoli dalla liquidazione dei beni dei Carignani, già iniziata di fatto nel 1780 quando la casata si disfece del grande palazzo, ora Istituto dei Ciechi, che possedeva a Lecce per trasferirsi definitivamente a Napoli, portandovi ivi quanto di più prezioso era rimasto nel palazzo baronale dei Mattei.
Amministratore dei Carignani fu un Plantera il quale, al momento della liquidazione dei beni acquistò per sé tutti gli immobili urbani, compresi i due palazzi ducali e la cavallerizza, diventata nel frattempo stazione di posta per cavalli e locanda. I Balsamo, nobili gallipolini, acquistarono invece i beni rustici che si estendevano attorno alla masseria “La Corte” ed il palazzo marchesale di Trepuzzi.
Adelaide Plantera, già avanti negli anni, con il palese intento di nobilitarsi, sposò Alessandro Castriota Scanderbeg, anch’egli anziano ma in critiche condizioni economiche. Costoro andarono ad abitare nel palazzo ducale di Corso Umberto I, a Novoli.
Morta la Plantera, il Castriota Scanderbeg si risposò nel 1911, per la terza volta, con la nobile leccese Isabella Paladini che a sua volta, restata vedova, convolò a nuove nozze col magistrato napoletano Gabriele Criscuolo, trasferendosi definitivamente a Lecce.
Il Cimitero
Il Real Decreto del 29 ottobre 1808, in applicazione del Codice Napoleonico (L. I, titolo 2) intimava ad ogni civica amministrazione la tenuta di un registro degli atti di morte nonché la realizzazione di un cimitero fuori dall’abitato. A Novoli, come in ogni altro centro, per secoli e secoli i morti vennero sepolti nelle chiese dove ancora li troviamo per buona parte del XIX secolo. Purtroppo, nonostante la consultazione delle carte ecclesiastiche e di altra documentazione, abbiamo ricavato poche e reticenti notizie sulle vicende che portarono alla realizzazione del cimitero novolese, che è sito sulla via per Trepuzzi.
A Novoli sin dal 1818 si cominciò a metter da parte del denaro per la costruzione del cimitero, ma le cose andavano alquanto per le lunghe poiché, fatte pochissime eccezioni, nessuno si entusiasmava a non essere sepolto nelle chiese, ossia nella Matrice e in quella della Madonna del Pane. Final-
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mente nel 1841, anche per sollecito della Prefettura, il Sindaco Leonardo Gianpietro assegnò ad asta all’imprenditore Cosimo Ancora di Campi l’incarico della realizzazione del cimitero che sarebbe venuto a costare 1340 ducati.
Ma nonostante le leggi in materia a Novoli, come altrove, si continuava a seppellire nelle chiese, e ciò durò fino al 1865 nella chiesa, allora in aperta campagna, della Madonna del Pane. Anche a Novoli scoppiarono proteste e tumulti contro l’istituzione del cimitero, ma alla fine ci si dovette rassegnare e accettare la necessità di seppellire i morti in un luogo lontano dal centro abitato. Nel Liber defunctorum della parrocchiale di S. Andrea Apostolo in data 23 settembre 1866 per la prima volta si legge la parola Coemeterium quale luogo di sepoltura, tuttavia nonostante l’esistenza del cimitero le civiche autorità in certi casi, come si suol dire, chiusero un occhio, e ancora per alcuni anni si eluse il cimitero realizzando le sepolture in aree esterne e contigue alle due chiese novolesi, ovviamente con fosse e carnaio.
Alla fine del XIX secolo ovunque, e quindi anche a Novoli, nessuno ormai contestava le sepolture cimiteriali, anzi all’alba del nuovo secolo il cimitero novolese fu ingrandito, e via via esso ha allargato il suo perimetro per la costruzione delle cappelle da parte delle Confraternite e dei benestanti del paese. I poveri disgraziati venivano destinati alli surchi, ossia ai solchi di fosse ricavate nella nuda terra, ed oggi viene ritenuto un disonore per le famiglie destinare a tale sepoltura i propri cari. Anche la morte, pertanto, viene considerata un lucroso affare per Confraternite e ditte private che si occupano di cimiteri e sepolture.
Nonostante le resistenze nei confronti delle sepolture nel cimitero, via via ci si convinse che per ragioni igieniche occorreva seppellire i morti non più nelle chiese ma in un luogo adeguatamente distante dal paese. A tale determinazione si giunse soprattutto in occasione delle ricorrenti epidemie che falcidiavano la popolazione e a Novoli, come riferiscono i registri parrocchiali dei morti in età moderna ne sono annotate di terribili, come quella del 1756-57 che, oltre la morte di numerosi adulti, registrò la scomparsa di 58 bambini al di sotto di sette anni. Poi un’altra epidemia, quella del 183233, ritenuta di colera, che a Novoli causò ben 142 morti e poi, ancora, il colera del 1867, altrettanto funesto.
In quell’anno, per non deprimere gli animi, non vennero suonate le campane a morto, né i defunti venivano portati in chiesa, evidentemente per evitare occasioni di contagio ma si suppone per non frustrare la gente, la quale ricorreva all’intercessione dei Santi con processioni, funzioni religiose e preghiere, visto che la medicina del tempo era impotente a debellare il
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morbo, che solo la profilassi igienica avrebbe potuto alleviare. Ma, e ancora una volta si ribadisce, in quei tempi erano ignorate le norme più elementari dell’igiene, e se anche la medicina forniva qualche raccomandazione, questa era puntualmente ignorata dalla gente1.
La Pretura
Con la conquista francese del Regno di Napoli anche qui venne esteso il Codice Napoleonico dal re Giuseppe Bonaparte. Per quanto attiene l’amministrazione della giustizia la riforma napoleonica venne mantenuta dai Borboni una volta ristabilitisi nel proprio regno, dopo il Congresso di Vienna. A Novoli, in virtù dei nuovi criteri organizzativi dell’amministrazione giudiziaria, intorno al 1808 si ebbe un Giudice Commissario di Polizia, una sorta di pretore che aveva competenza sulle cause penali e civili fino ad un valore di dieci ducati. La Pretura novolese ebbe sede in un locale al pianterreno, a destra dell’ingresso del Municipio.
Tuttavia con l’applicazione della Legge del 30 marzo 1890, n. 6702 (Seria 3a), riguardante le modificazioni delle circoscrizioni mandamentali giudiziarie si ordinava la riduzione delle Preture del Regno d’Italia non oltre un terzo di quelle già esistenti, dovendosi sopprimere soltanto quella la cui inutilità fosse dimostrata. L’utilità delle preture dipendeva, secondo le nuove disposizioni, dalla quantità degli affari, dal livello demografico, dall’estensione territoriale, dalla posizione geografica, dalle condizioni climatologiche, dagli ordinari rapporti di interessi, dalle distanze e dallo stato delle comunicazioni, dalla comparativa importanza dei centri abitati, dall’importanza storica delle sedi e dalle tradizioni locali.
Qualcosa, però, non andò per il verso giusto, certamente in tanti brigarono per conservare la propria pretura e così, nonostante Novoli risultasse inoppugnabile sede di notevole importanza, anche per il disinteresse della deputazione locale perdette la sua pretura nonostante che il proprio mandamento, costitutito dai comuni di Novoli, Trepuzzi, Carmiano e Magliano contasse oltre 13.000 abitanti, di cui ben 6.000 nel paese titolare della pretura.
Novoli era meta di molti forestieri per il fiorente commercio dei vini e di altri prodotti agricoli che venivano contrattati durante il mercato settima-
1 Cfr., ASN, Stati discussi comunali, b. 479, n. 5; APN, Libro dei morti 1857-1878, p. 180; O. Mazzotta, Novoli 1806-1931, Novoli 1990, pp. 32-33; M. De Marco, Il piano regolatore di Novoli redatto dall’ing. Francesco Parlangeli, in “Lu puzzu te la Matonna”, XIV, 15 luglio 2007, pp. 22-35.
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nale, che si tiene ancora ogni mercoledì e nel corso delle fiera che si svolgeva nella quarta domenica di luglio e nel sabato che la precedeva. Il paese aveva buone vie di comunicazione con altri centri, il sito era salubre, tant’è che molti forestieri vi villeggiavano; possedeva due importanti stabilimenti, uno di sfarinatura con annesso pastificio ed un altro di alcool, per il quale si pagava la tassa annua di ottantamila lire. Il citato carcere a sistema cellulare, fu ristrutturato intorno al 1870 per ordine della Procura Generale di Trani. A Novoli, infine, cospicuo fu il numero delle sentenze civili e penali e dei verbali di conciliazione emessi dal 1886 al 1890. La statistica riferita al quinquennio suddetto ne è testimonianza probante.
Sentenze Civili e Verbali di Conciliazione: 1886, n. 68; 1887, n. 69; 1888, n. 106; 1889, n. 89; 1890, n. 84.
Sentenze Penali: 1886, n. 62; vanno aggiunte 24 ordinanze di desistenza; 1887, n. 60 sentenze più 17 ordinanze di desistenza; 1888, n. 70 sentenze e 27 desistenze; 1889, n. 81 sentenze e 49 desistenze; 1890, n. 35 sentenze e desistenze. I reati di competenza superiore ed istruiti furono poi nel 1886, n. 64; nel 1887, n. 58; nel 1888, n. 66; nel 1889, n. 69; nel 1890, infine, n. 73.
A nulla valsero le vibranti proteste e le argomentazioni inviate al Governo dal Pretore G. Volpe e dal sindaco Pietro Longo, né valse l’interessamento dell’on. Gaetano Brunetti e dell’on. Francesco Lo Re. Un viaggio, a vuoto, fece a Roma il segretario comunale FrancescoAndrioli ivi recatosi a rappresentare Novoli nell’assemblea dei Mandamenti soppressi. In questa riunione, tenutasi nella capitale il 10 dicembre 1891, il Governo fu irremovibile e, pertanto, i Novolesi ben presto si rassegnarono con l’amarezza, però, di dipendere da Monteroni, centro allora di scarsa importanza, mal collegato, senza stazione ferroviaria, che non è stata a tutt’oggi realizzata, mentre per Novoli già dal 1888 era stato stabilito il passaggio della ferrovia. In seguito Novoli dipese dalla Pretura di Campi Salentina2 .
2 Le vicende della protesta per l’abolizione della pretura a Novoli sono riportate in uno scritto curato dalla Civica Amministrazione, allora presieduta dal sindaco Alfredo Longo: Per la pretura di Novoli, Lecce 1892. Qui si trova riportato il carteggio con il Governo, carteggio riguardante la perorazione, con dettagliate argomentazioni per il ripristino della pretura novolese. Cfr., P. De Matteis, 1891 Novoli e la sua pretura, in “Le fasciddre te la focara”, Novoli 17 gennaio 1988, pp. 29-33. Il 12 agosto 1908 moriva Alfredo Longo, sindaco molto amato dai Novolesi, all’età di 59 anni. Fu certamente un buon amministratore, dinamico, pio, colto e filantropo. Esercitò la professione di chimico-farmacista nel suo paese, dove sposò Mariuccia Franco, dalla quale non ebbe prole. Un suo fratello, Giovannino, era morto nella III guerra di indipendenza. Un altro fratello, Pietro, medico di professione, era perito nel terribile terremoto di Casamicciola. Cfr., In memoria del cav. Alfredo Longo, a cura della Civica Amministrazione novolese, Lecce 1908.
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Il carcere mandamentale
Tutti gli Stati sin da tempi immemorabili ebbero le loro carceri, e così poi pure i feudi dove i signori esercitavano la giustizia, si fa per dire, con tanto arbitrio ed estremo rigore. Si sa che a Novoli, fino alla soppressione della feudalità, le carceri erano collocate al pianterreno e nei sotterranei del palazzo ducale, dove i reclusi vivevano in condizioni peggiori delle bestie. E ciò non mutò con l’avvento dei re napoleonici Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, non cambiò con il ritorno dei Borboni né più di tanto con il Regno d’Italia, e solo oggi in generale le condizioni dei reclusi, nonostante tutto, appaiono più dignitose.
Già prima dell’Unità d’Italia, nei primi anni dell’800, anche Novoli ebbe il suo carcere mandamentale, costituito da un vano in via Moline e da altri due ambienti al pian terreno del palazzo ducale, tutti vigilati da un solo carceriere. Il 15 marzo 1848 il giudice Bonaventura Mazzarella a proposito del carcere novolese annotava che “ qui non vi sono prigioni, che per poco prestar si possono al benché minimo sistema penitenziario; il Criminal sembra tana di belve. Non vi è carcere per donne, non per i giovinetti minori di venti anni, non per gli Ecclesiastici, non per coloro che siano semplicemente imputati, né vi è cappellano per i necessari atti di devozione. Prigioni simili intristiscono, non migliorano gli animi”3.
Tale documento, oltre a testimoniare la precarietà del carcere novolese, accenna ai vari stipendi degli impiegati, cancellieri e uscieri della Pretura, e a proposito dei reclusi ci fa sapere che costoro erano per la più parte contadini costretti nella cattiva stagione alla miseria e a delinquere. Si trattava di povera gente ignorante strozzata dagli usurai anche per i prestiti più modesti. Questo, pertanto, fu un luogo squallido dove venivano ammucchiati i condannati o quanti erano in attesa di giudizio, vivendo tutti indistintamente in una indecente promiscuità, a spregio delle più elementari norme igieniche e di umana dignità.
Finalmente si decise di costruire un nuovo carcere mandamentale che fu inaugurato nell’estate del 1882. L’opera, progettata dall’ing. Oronzo Bernardini, venne a costare 13.144,75 lire, da ripartirsi tra i comuni del Mandamento, in relazione al numero degli abitanti di ognuno. Novoli, che al tempo contava 4.775 abitanti, sborsò la somma di L. 5.553,10, Trepuzzi 5.044,53, Carmiano con la frazione di Magliano 2.547,12. Ma la cifra fu insufficiente per realizzare, come prevedeva la Legge del 28 gennaio 1866, un carcere
3 In O. Mazzotta, Novoli etc., op. cit., p. 34; P. De Matteis, 1891 Novoli etc., op. cit.
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dignitoso, costituito da celle, sicché cambiarono i locali ma non mutò la promiscuità tanto indecente. Questo carcere era collocato al primo piano di uno stabile sito in Piazza Regina Margherita e, precisamente, sul vecchio mercato del pesce, affianco alla Società Operaia fondata il 6 gennaio 1884, e sugli ambienti la cui parete esterna contiene il piccolo monumento dedicato ai Caduti delle ultime due guerre.
La tradizione narra che a costruire il carcere novolese fu la Ditta Carlo De Angelis e Alberto Kirel Mazug, e che il primo che ivi fu ristretto fu un certo Manca di Novoli, in quanto condannato per aver percosso un tale che era venuto a diverbio con il proprio figlio. Con l’abolizione della Pretura venne meno a Novoli anche il carcere, il paese quindi non fu più sede di Mandamento e con Trepuzzi fu aggregato al Mandamento di Campi.
Il Municipio
Si tratta di un modesto edificio che prospetta di fronte alla Chiesa Madre di S. Andrea Apostolo. Realizzato all’incirca nell’area della precedente Casa comunale, è a due livelli e accenna un’impostazione neo-classica. Al pian terreno si apre al centro il portale con un’ampia finestra per lato, e a destra poi un’entrata che introduce ora nella sede dei Vigili Urbani. Separa il pianterreno dal primo piano una lunga balconata balaustrata, voluta nel 1929 dal Podestà Vincenzo Sequi, probabilmente sull’onda della suggestione del Duce che proprio dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma, arringava la folla. Su tale balcone si aprono tre porte, indi a destra appare un finestrone. Sulla porta centrale campeggia lo stemma civico, di cui già si è detto, e più su ancora, in asse, ecco la torretta con l’orologio del 1880 circa, sormontato da un’intelaiatura metallica che regge due campanelle, parti integranti dell’antico orologio della precedente Casa Comunale, necessarie per battere i rintocchi orari.
Il nuovo Municipio venne inaugurato il 9 giugno 1881 e alcuni anni dopo, nel 1889, nella sala consiliare venne apposta una lapide marmorea esprimente gratitudine al re Vittorio Emanuele II, quale artefice dell’Unità d’Italia. In seguito tale lapide venne spostata nell’ambito dell’androne da cui si diparte una scala marmorea che conduce al pian di sopra, ossia agli uffici e all’aula consiliare, che appare disadorna. I locali del pianterreno del Municipio, quelli prospettanti su via Moline, per tanti anni hanno ospitato l’ufficio postale, poi trasferito nella nuova costruzione che sorge in via Don Francesco De Tommasi, negli anni Ottanta. Rammentiamo che il primo Uf-
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ficio postale e telegrafico novolese era allocato nella via Salvatore Mazzotta, non a caso conosciuta dalla gente come la strada “te le poste ecchie”.
La ferrovia
Con la legge 29 luglio 1879 furono assegnati dal Governo 1.530 km. per le linee ferroviarie di quarta categoria. Per le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto (allora appartenenti tutte alla provincia di Lecce) furono assegnati soltanto 87.331 km., e tale linea fu concessa dal Governo l’8 maggio 1883, ma oltre cinque anni passarono inutilmente, finché l’allora Ministro dei La-
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vori Pubblici, Saracco, stabilì con la legge del 20 luglio 1889 che le linee ferroviarie, elencate nella tabella B, si dovevano costruire dal 1893 al 1898. Ma la questione andò ancora per le lunghe, per mancanza di fondi. Solo nel 1897 l’on. Gaetano Brunetti presentò al Governo a nome del Consorzio della Provincia e dei Comuni di Lecce di cui era membro il novolese ing. Parlangeli, la domanda di concessione della linea Lecce-Francavilla-Nardò, col massimo sussidio unitamente al Piano finanziario ed alla Istruttoria. Il Comitato Superiore delle Strade Ferrate espresse parere favorevole a seguito della relazione del comm. Calvori, e analogo parere dettero il Ministero del Tesoro ed il Consiglio di Stato, dopo la prassi burocratica di rito. Finalmente il 26 maggio 1906 si inaugurò il tronco ferroviario Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò. La strada ferrata portò notevoli vantaggi al paese: un gruppo di imprenditori settentrionali giunse a Novoli e vi installò stabilimenti vinicoli per il trasporto del vino in alta Italia anche per dare maggiore gradazione alcolica ai vinelli che ivi si producevano. Non lontano dalla stazione ferroviaria, anzi a poche centinaia di metri, sorse a Novoli una sorta di area industriale, complessivamente lungo la via che, anche per sollecitazione degli industriali del nord, poi fu detta Milano, dove sorsero appunto gli stabilimenti vinicoli, attrezzati con le macchine e i ritrovati più moderni dell’epoca. Se è pur vero che la presenza degli industriali del nord portò benessere al paese, è altrettanto vero che tanta ricchezza del luogo prese altre vie, che i Novolesi, insomma, non seppero sfruttare appieno la propria vitivinicoltura e, poi va pure detto che gli industriali del nord imposero un “cartello”, a Novoli come altrove nel Salento, per il prezzo d’acquisto delle uve, pagando pure poco il lavoro degli operai.
In quell’epoca il paese registrò notevoli progressi nell’ammodernamento colturale dei vigneti di malvasia, aleatico, moscato negroamaro e primitivo, e tanto è durato fino a circa una cinquantina di anni fa, fino a quando la stragrande maggioranza dei vigneti è stata estirpata e a coltivare la terra sono rimasti pochissimi.
Tanti gli industriali settentrionali che giunsero a Novoli per realizzare con le nostre uve il vino, e tra questi ci piace ricordare Ferdinando Martini, Fernando Montanelli, Giulio Veneri e Fratelli, Fava, i Fratelli Capitano, e poi il Ferrario, i Mareschi, i Covelli, i Comerio e i Lomazzi. Alcuni di questi rientrarono a nord, altri fallirono e altri ancora vendettero i propri opifici a imprenditori locali, tra i quali ricordiamo gli Schipa, i D’Elia, i Donno, i Carlino, i Manzo e, infine, i De Falco.
A Novoli, lo stabilimento Capozza, detto stabilimentu te lu spiritu, poi divenuto Bombardieri, sorgeva nei pressi della via per Campi, e allorquan-
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do già si prospettava la chiusura degli stabilimenti degli impresari del nord, nella cantina dei Ferrario negli anni Cinquanta del secolo scorso alcuni produttori vitivinicoli novolesi costituirono la Cantina Sociale del paese, che poi trasferirono in via Veglie, chiusa da circa dieci anni. E così ebbe termine un’epoca, quella del vino novolese universalmente apprezzato per la sua alta qualità, ed oggi resta solo il rimpianto di ciò che avrebbe potuto dare il vero benessere al paese che, con consapevolezza di tutti oggi non possiede risorse e naviga soltanto in cattive acque4 .
I Carabinieri
Con l’Unità d’Italia, com’è noto, il regno sabaudo estese le proprie leggi, i propri organi di governo e polizieschi in tutto il Paese, e nel Meridione agli sgherri feudali e borbonici subentrò la Guardia Nazionale5, indi giunsero i Carabinieri6 e via via gli altri Corpi di polizia che garantirono e garantiscono il rispetto delle Leggi e l’ordine pubblico.
A Novoli una stazione dei Reali Carabinieri venne istituita intorno al 1863 con il beneplacito del Comune che dovette far fronte alle necessità per accogliere i militi, che in sette giunsero nel paese al comando di un Brigadiere, trovando sede fino al 1913 nel palazzo ducale, in locali dati in fitto, pagato dall’Amministrazione Provinciale. La stazione novolese dei Carabinieri dal 1913 in poi è al comando di un Maresciallo, e dal 1943 trovò sede in un ampio locale sito in via Moline, di fronte all’inizio del lato sinistro del
4 Consorzio della Ferrovia Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò Verbale della tornata 11 novembre 1897, Lecce 1898; D. Romano-F. Sebaste, La ferrovia giunse a Novoli, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, IV, 17 gennaio1980, p. 3; S. Falco, Via Milano, in “Lu puzzu te la Matonna”, XX, 21 luglio 2013, pp. 24-25; A. Ferrario, Ritratto di famiglie: I Ferrario, in “Lu puzzu te la Matonna”, XX, 21 luglio 2013, pp. 26-27.
5 La Guardia Nazionale in origine venne costituita a Parigi nel 1789, ben presto benne estesa in tutta la Francia e negli Stati conquistati dalle armi napoleoniche. Essa era formata da tutti i cittadini atti alle armi essenzialmente per difendere l’ordine interno. Venne via via meno con l’Unità d’Italia. A Novoli essa contava agli inizi dell’800 150 militi in servizio.
6 Corpo speciale dell’esercito del Regno di Sardegna, i Carabinieri vennero istituiti nel 1814 da Vittorio Emanuele I per i compiti di polizia, con ordinamento analogo a quello della Gendarmeria di Napoleone. I reparti, appiedati e a cavallo, erano armati di carabina. Successivamente ebbero compiti più ampi, da quello di fungere da guardia personale del re sul campo di battaglia a quello di combattere in prima linea come cavalleggeri. Mantenuti, come arma autonoma, nell’esercito italiano, oltre a conservare le funzioni combattenti e quelle di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, assunsero compiti di polizia miliare in guerra.
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Municipio. Finalmente negli anni ottanta del secolo scorso la caserma della Benemerita ebbe una nuova e dignitosa sede, sita nella via S. Paolo, 17/B. Non solo repressione dei crimini, che ovviamente a Novoli e nei paesi vicini non mancarono né mancano, e a tal proposito il compianto amico Alfredo Mangeli in un suo saggio ne ha citati non pochi, ma anche azioni di soccorso alla popolazione in diverse occasioni, sopratutto durante le calamità naturali. Novoli ha dato all’Arma tanti suoi figli che ovunque e sempre si sono distinti con sacrifico e abnegazione7 .
La Società Operaia di Mutuo Soccorso
Nel passato triste era la condizione degli indigenti e dei derelitti, e ad alleviare la loro necessità, per quanto poteva, provvedeva la Chiesa con i pii sodalizi, intervenivano i filantropi e la solidarietà caritatevole. Nel XVIII secolo via via in tanti parti d’Europa sorsero organizzazioni con il fine della mutua assistenza tra operai, in seguito allo sviluppo industriale e alla formazione di un vasto proletariato. In Italia le Società Operaie e di Mutuo Soccorso crebbero specialmente dopo l’unità nazionale sotto l’influsso del pensiero mazziniano, occupandosi dell’istruzione, del sostegno morale ed economico, dell’assistenza dei propri aderenti.
A Novoli non mancarono filantropi che sin dal ‘700 cercarono di alleviare le misere condizioni della gente, come Francesco Antonio Mazzotta e Teresa Elia che istituirono un monte di maritaggio per fanciulle povere, ma le risorse erano scarse, le ragazze povere molte, per cui non si riuscì a soddisfare le tante richieste. Non pochi pii sacerdoti e confraternite religiose si prodigarono tanto in opere di beneficenza, ma si trattava di iniziative individuali, di sforzi inadeguati di fronte alle necessità del paese. Finalmente nel 1881 venne stilato lo Statuto per la realizzazione a Novoli della Società Operaia che per regolamenti e finalità si esemplava a quella di Lecce fondata nel 18618.
Questo sodalizio pare che si sia sciolto qualche anno dopo per poi ricostituirsi nel 1884 e venne inaugurato in quell’anno nella seconda domenica di giugno, alla presenza di alcuni rappresentanti di altre Società Operaie
7 Cfr., A. Mangeli, La Benemerita Arma di Novoli (1863-1930), Novoli 2000.
8 Cfr., Statuto dell’Associazione di Mutuo Soccorso fra gli operai di Novoli, Lecce 1881. Due anni dopo questo statuto fu rivisto e integrato e venne pubblicato a Lecce con il seguente titolo: Statuto organico della Società di Mutuo Soccorso tra gli operai di Novoli
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salentine e degli avvocati Rubichi e Trinchera che tennero brillanti discorsi. Tuttavia il sodalizio novolese ebbe vita effimera tant’è che nel 1904 non esisteva più. Tale Società Operaia aveva ottenuto dal Comune, nell’attuale piazza Regina Margherita, attigua al carcere, una vecchia cantina che poi avrebbe riscattato, da utilizzare come aula scolastica.
Nel 1914, con atto rogato dal notaio Antonio Andrioli, il sodalizio venne ricostituito con un folto numero di soci, grazie soprattutto a Romeo Franchini e a Serafino Busi, al pari dell’Andrioli filantropi e massoni. Nel 1925 il sodalizio acquista per circa 5.000 lire la cantina di cui si è detto, a suo tempo data dal Comune in comodato d’uso, ristruttura gli ambienti e mano a mano accresce il numero dei soci che negli anni successivi comprenderà molti ex combattenti.
Con l’avvento del Fascismo, la Società Operaia di Novoli venne assorbita dall’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita il 28 ottobre 1936, e tre anni dopo la sezione novolese si intitolò “Arnaldo Mussolini”, fratello del Duce. Caduto il regime, l’11 febbraio 1948 alcuni ex aderenti all’Opera Nazionale Dopolavoro dettero vita al Circolo Unione, tuttora esistente, aperto ad ogni ceto sociale e rigorosamente apolitico. Più o meno nello stesso periodo si ricostituì la Società Operaia novolese che continua ad attuare i principi di solidarietà sociale9.
Facendo qualche passo indietro rammento che sabato 2 dicembre 1905 Novoli ebbe un altro sodalizio, questa volta costituito essenzialmente da professionisti, dantesi il nome La Nuova Novoli, ma in effetti da tutti conosciuto come Circolo dei Signori proprio per lo specifico ceto sociale dei suoi appartenenti, professionisti, laureati e intellettuali, ma non mancavano altri comunque titolati e veramente ricchi, che perseguivano iniziative ricreative e culturali riservate nel loro ambito.
Personalmente fin da ragazzo ho eccepito sull’appellativo Circolo dei Signori, non so chi l’abbia affibbiato, poiché lo ritenevo e ritengo classista ed esclusivista, nonché in linea con una certa mentalità di alcuni novolese tenacemente legati a criteri di priorità. Tale Associazione, ancora attiva, durante il Fascismo seguì le sorti della Società Operaia e del Circolo Unione, e fu rifondata nell’immediato secondo dopoguerra.
9 Cfr., F. De Luca, La Società Operaia di Mutuo Soccorso in Novoli, lettura tenuta in Novoli di Lecce l’11 dicembre 2001, presso la sede dell’Associazione, in Id., Incontri salentini, Galatina 2007, pp. 115-119; G. Pasanisi, I settanta anni del “Circolo Unione” breve cronaca e curiosità di vita cittadina, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIV, 15 luglio.
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8) Il Teatro Comunale.
Per secoli, ovunque nei paesi, ma non solo, nelle parrocchie e in locali di fortuna si allestivano sacre rappresentazioni e spettacoli profani, e così accadeva pure a Novoli dove il 15 maggio 1881 l’ing. Oronzo Bernardini (1825-1881) di Lecce, ingegnere comunale del nostro paese, ideò il teatro comunale, ma egli colto da morte improvvisa non poté firmare il progetto che la Civica Amministrazione affidò poi ad un altro leccese, l’ing. Gaetano Capozza.
La costruzione dell’edificio avveniva in un contesto in cui la borghesia novolese, ma non solo, esprimeva una forte passione per le rappresentazioni sceniche, e i lavori iniziarono nel 1882 essendo stati affidati, ad asta, al costruttore novolese Gioele Manca per somma di L. 10.570,45, faticosamente stanziata dal Comune che, per carenze economiche, dovette stornare da altri capitoli di spesa sociale cifre non indifferenti. Diversi ingegneri si susseguirono al Capozza fino a quando nell’aprile del 1891 l’opera fu completata e inaugurata.
«La prima direzione dei lavori, scrive Maurizio Domenico Toraldo, in assenza dell’ing. Gaetano Capozza fu affidata all’ing. Oronzo Orlandi che fu incaricato dal Comune per seguire direttamente i lavori. Infatti è lui che
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firma numerose spese necessarie durante i lavori secondo il progetto d’arte dell’ing. Oronzo Bernardini. Anche in questo caso la morte improvvisa dovette far cambiare il direttore dei lavori che fu nominato nella persona dell’ing. Oronzo Greco di Lecce, che per essere il proprietario del teatro Politeama di Lecce, da poco costruito, offriva in quel momento le migliori garanzie. Difatti suo è il progetto per l’allestimento degli interni per le opere in legno e in ferro e della tettoia e del palcoscenico, che fu eseguito dalla Ditta Pietro Ruggio di Novoli il quale vinse l’asta pubblica del 20 settembre del 1885 con la somma di L. 4.460,16. La realizzazione del palcoscenico, invece, secondo il progetto del Greco fu curata direttamente dal Comune e non dall’impresario tramite incarichi personali, motivo per il quale non è rimasta traccia di documenti negli archivi. L’ultimo appalto per le decorazioni scenografiche, per il cilindro del sipario, per le opere interne di pittura, e per le rifiniture fu affidato ad Orazio Tortorella di Lecce per la somma di L. 4.440,16 secondo il progetto del giovane ingegnere Francesco Parlangeli. Queste ultime operazioni dovettero dissanguare le già anemiche casse municipali, tanto che esiste traccia in diverse delibere consiliari di esortazione tese a contenere quanto più possibile la spesa pubblica. Infine dalla lettura attenta delle delibere, precedenti l’inaugurazione, si desume il grande successo che il pittore O. Tortorella di Lecce riscuoteva a livello popolare per le opere di pittura e di decorazione interna.
Molti erano i curiosi che seguivano direttamente le operazioni con caloroso entusiasmo. Alla fine l’edificio teatrale, dice sempre il Toraldo, risultò costruito a più mani, senza perciò possedere una connotazione architettonica definita.
Ciò potrebbe anche spiegare il suo precoce invecchiamento e deterioramento. L’inaugurazione del nuovo teatro avvenne nell’ultima decade dell’aprile 1891»10.
La costruzione del Teatro suscitò a Novoli entusiasmi, tant’è che nel novembre del 1891 qui sorse il “Circolo Giovani Filodrammatici”, presieduto da Antonio Miglietta e diretto da Giuliano Papadia. Si trattò di volenterosi e appassionati dilettanti che nel corso di varie rappresentazioni spesso si fecero apprezzare. Pochi giorni dopo l’inaugurazione, nel Teatro novolese si esibì la Compagnia Almirante e tale fu il successo che ampiamente se ne occupò la stampa leccese. Occorre qui ricordare che molte compagnie ingaggiate per gli spettacoli di giro a Lecce, dedicavano a Novoli qualche serata. Tali furono i complessi diretti, come si è detto di Almirante, e poi
10 Cit. da M. D. Toraldo, Il Teatro Comunale di Novoli: un secolo di storia, Novoli 1988, pp. 23-24.
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Carrara, Tamberlani senior, Rosina Anselmi, Adagilsa Rossi, Giulio Girola, i fratelli De Vico, Sainati, etc.
Ma torniamo alla struttura del Teatro novolese, e perciò ripercorriamo ben volentieri a quanto riferisce Maurizio Domenico Toraldo scrivendo degli aspetti artistici e architettonici dell’edificio, al quale ha dedicato un pregevolissimo studio monografico.
«Al termine dei lavori il Teatro Comunale di Novoli rappresentava il primo ed unico esempio nel Salento di edificio ad emiciclo, totalmente isolato, ubicato nella vicina piazza Regina Margherita, confinante a sud con la omonima piazza e a nord con la via Pietro Longo. L’edificio costituisce a grandi linee una testimonianza di architettura tardo-neoclassica con la conformazione interna a staffa con due ordini di palchi ed un palcoscenico con quattro camerini per gli artisti e un piccolo ingresso che dà ad uno stanzino al piano superiore. I palchi sono formati da impalcati in legno sorretti da pilastri in pietra. La struttura dell’edificio è in muratura, quella della sala con capriate di ferro e manto di lamiere ondulate mascherate da un soffitto a rete metallica (durante i temporali la pioggia battente ostacolava notevolmente l’acustica), quella del palcoscenico a solaio in ferro, quello dell’ingresso a volta in tufo. L’ampiezza della sala è di circa sette metri con una lunghezza di circa dodici metri.
Le pareti interne eran colorate a calce, numerose le decorazioni sul tetto e sulle pareti interne.
Secondo la tradizione orale facevano parte del corredo del teatro sette grandi scene riccamente decorate da pittori del tempo che rappresentavano una sala nobile, una sala rustica, un carcere, un bosco, un giardino e due piazze che si dicevano essere di Torino e di Parigi.
Le scenografie dei teatri dell’inizio dell’800 e più ancora quelle post-unitarie dimostrarono di aver superato le mode barocche per ricostruire volta per volta atmosfere fedeli al testo interpretato, adatte ad un pubblico che si attende emozioni e strutturate con l’intento di colpire la psicologia dell’individuo.
Sempre la tradizione orale vuole che le scenografie del nuovo teatro siano state dipinte da Anselmo De Simone, napoletano, ma residente a Grottaglie e da altri artisti novolesi tra i quali Giovanni Sebaste. Personalmente non ho trovato alcuna documentazione a conforto di ciò. Probabilmente il De Simone essendo stato il direttore della Regia Scuola di Grottaglie dal 1902 al 1919 avrà portato a termine successivamente all’inaugurazione qualche scenografia più suggestiva.
La necessità di illuminare la sala durante gli spettacoli costituì un pro-
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blema grave che il teatro affrontò attraverso gli anni tenendo il passo con il progresso tecnologico e scientifico. Nel 1910, ad esempio sotto la gestione di Pietro D’Elia, fu installato un rudimentale generatore oltre ad un impianto d’energia per le frequenti avarie, alimentato da acetilene, assai poco gradita al pubblico per l’emanazione di fumo e cattivi odori che disturbavano attori e spettatori. Il problema fu radicalmente risolto con l’impianto della rete di distribuzione dell’energia elettrica tra il 1925-26»11 .
Con la prima guerra mondiale bruscamente a Novoli vennero interrotte le attività filodrammatiche e il Teatro Comunale venne adibito a deposito annonario. Nel dopoguerra la ripresa fu difficile e stentata, tuttavia con l’avvento del Fascismo via via riprese anche a Novoli l’attività filodrammatica e del Teatro Comunale che nel 1931 ospitò l’opera lirica e negli anni che seguirono allestì spettacoli di cabaret, operette, etc., ci fu insomma un risveglio ovviamente in linea con il gusto e il clima dei tempi.
Poi giunse la seconda guerra mondiale e nuovamente si spense a Novoli l’attività teatrale, ma verso la fine del conflitto, all’epoca in cui l’Italia fu divisa in due dalla “linea gotica”, poiché molte compagnie teatrali restarono bloccate nelle provincie meridionali, il Teatro novolese visse una breve ma feconda stagione per i tanti artisti che ivi si esibirono. Ancora restano memorabili le serate teatrali e letterarie alle quali diedero vita Carlo Tamberlani, Neda Naldi, Enzo Fiermonte, Rosina Anselmi, Umberto Spataro, Michele Abruzzi e tanti altri attori e attrici. Un figlio di Giovanni Carrara, Cesare, sposò una novolese e un cittadino di Novoli convolò a nozze con la figlia del Sarnella, direttore di un complesso operistico.
Un cenno meritano, nel quadro dell’azione scenica spontanea, i complessi musicali composti da dilettanti: dalla “Estudiantina” (cinque violinisti diretti da Vittorio Andrioli, figlio di Celestino e anche lui notaio), al quartetto Sebaste, Quarta, Invidia e Prato con Valdimiro Chirienti, mio pro zio, cantante di qualche successo, e le due bande, quella te lu Cuccu, e quella te lu Sangunazzu che, ai primi del Novecento animarono il paese con dispute e persino risse.
Già nella metà degli anni Cinquanta il Teatro Comunale fungeva da cinematografo, si susseguirono nel tempo diversi gestori, Pietro D’Elia, Raffaele Metrangolo, Giacomo De Luca, Giovanni D’Agostino, Gaetano Greco, titolare del Teatro Politeama di Lecce, Tonino Parlangeli, detto l’americano, Nino Bruno, Nord Giuseppe Ingrosso di Lizzanello e Giovanni Sebaste, con il quale il Teatro novolese nel 1970 cessò ogni attività, sia per le sue condi-
11 Cit. da Id., pp. 27-28.
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zioni precarie e sia perché venne pure meno l’attività cinematografica per l’affermarsi degli spettacoli televisivi, avendo ormai ogni famiglia l’apparecchio ricevente. Fatiscente e abbandonato per circa quarant’anni, il Teatro Comunale di Novoli era ridotto ormai ad un rudere e solo circa dieci anni fa il Comune iniziò a recuperalo e oggi, in buona parte restaurato, ospita sporadicamente dal 2009 qualche incontro culturale12.
Altre note di vita e di costume novolese
I primi anni dopo l’Unità d’Italia costituirono un triste periodo per Novoli, sia per le precarie condizioni socio- economiche e sia perché il paese fu funestato dal colera che causò tanti morti. A tal proposito riteniamo ora di riportare quanto ha pubblicato lo studioso Andrea Tondo in merito alle epidemie che nel XIX secolo funestarono l’Italia e, quindi anche Novoli. “Intorno al 1817 – scrive il Tondo – il “Morbo Asiatico”, altrimenti noto col nome di Cholera Morbus, iniziò a diffondersi dall’India verso l’Europa e l’Africa. Nel 1835 giunse per la prima volta in Italia per tornarvi in ondate successive nel 1849, 1854-55, 1865-67, 1884-86, nel 1893 e nel 1910-11... Dopo l’epidemia del 1835-37 e quella del 1854-55, il colera tornò ad imperversare in Europa nel luglio 1865 e non risparmiò il neonato Regno d’Italia che, sfiorato fugacemente in quell’anno, verrà colpito direttamente nel triennio successivo. In Italia i primi focolai si registrarono nelle Marche e da lì dilagarono in tutta la penisola. Nella provincia di Lecce, dopo alcuni casi sporadici, il contagio raggiunse livelli ragguardevoli a partire dalla primavera del 1867, anno in cui il morbo aveva invaso praticamente tutto il territorio del regno. Secondo le stime comunicate dal Ministero dell’Interno tra il primo gennaio e il 15 luglio 1867 nelle 49 provincie colpite dal morbo asiatico, si erano registrati 63375 casi con 32074 morti. Nella provincia leccese (chiamata anche Terra d’Otranto, che comprendeva i territori delle attuali provincie di Lecce, Brindisi e Taranto) in quel periodo di riferimento furono denunciati 5161 infetti con 2417 decessi causati dal contagio epidemico. Purtroppo, entro la fine dello stesso anno, quei dati aumentarono in modo esponenziale raggiungendo la cifra di 15.190, dei quali 10.502 furono attaccati dalla ma-
12 Sulle vicende del Teatro Comunale di Novoli cfr., inoltre, E. Miglietta, Le vite dello spettacolo in un piccolo centro del Salento: Novoli, in “Biblioteca teatrale”, XII, 1975, pp. 92-132; D. Levante, Fasti e nefasti del Teatro Comunale di Novoli, in “La Tribuna del Salento”, XVIII, 32, Lecce 25-9-1975, pp. 3 e 6; A. Mangeli, La vita, il teatro e lo spettacolo a Novoli nei secoli XIX-XXI, Novoli 2002, pp. 27 sgg.
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lattia e 4.698 soccombettero. Tra i paesi di Terra d’Otranto più colpiti compare anche la nostra Novoli che, da maggio a luglio 1867, registrò 143 casi e 61 decessi.
In quel clima di tensione, di paura di contagio e di sospetti che si era diffuso in tutta la popolazione del Regno, di frequente i cadaveri non trovavano adeguata sepoltura per la mancanza di necrofori che volevano evitare il contatto, causando così notevoli disagi e delicate situazioni di ordine pubblico. In molti casi si rivelò risolutivo e provvidenziale l’intervento della forza pubblica e di altri volontari quali medici, sacerdoti o semplici popolani di diversa estrazione sociale. Numerose furono, infatti, le attestazioni giunte alle Prefetture o direttamente al Ministero sulla generosa condotta serbata da semplici cittadini o dalle autorità civili o militari, dagli ufficiali e dai soldati che, soprattutto nelle zone dove il morbo si appalesava con maggior virulenza e dove i mezzi di aiuto erano più scarsi, con sacrificio, abnegazione, carità e incuranti del rischio si erano sobbarcato il pietoso compito di trasportare i malati e dar sepoltura ai morti, evitando ulteriori tumulti e rivolte.
Fu proprio in ragione di quel sacrificio spontaneo di semplici cittadini e di quel profondo senso del dovere e di dedizione al proprio ufficio di medici, sacerdoti, sindaci, militari e forza pubblica, che il neonato Governo volle dimostrare il suo ringraziamento assegnando un riconoscimento a coloro che si erano particolarmente impegnati a combattere il morbo. Rifacendosi al regio decreto del 13 settembre 1854 con il quale Vittorio Emanuele II, allora solo Re di Sardegna, aveva istituito una medaglia ai benemeriti della salute pubblica, il 28 agosto 1867 fu emanato il regio decreto n° 3872 per manifestare la riconoscenza e l’ammirazione del paese persone che si rendono in modo eminente benemerite in occasione di qualche morbo epidemico pericoloso, sia prodigando personalmente cure ed assistenze agli infermi, sia provvedendo ai servigi igienici ed amministrativi, ovvero ai bisogni materiali o morali delle popolazioni travagliate dal morbo, e massimamente quando non ne correva loro per ragione d’ufficio o di professione un obbligo assoluto e speciale.
Chiunque, comprese le donne e le persone di umile condizione, poteva essere insignito della medaglia che, secondo i gradi di merito, sarebbe stata d’oro, d’argento o di bronzo. Oltre alle medaglie furono concesse anche numerose “menzioni onorevoli” che, con il regio decreto n° 3706 del 25 febbraio 1886, diventarono “attestazioni di benemerenze” andando ad aggiungersi alle ricompense del 1867. In tutto il Regno d’Italia, con decreti 26 settembre, 13 e 21 novembre 1869, 3 gennaio, 28 febbraio, 9 marzo e 10
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aprile 1870 il sovrano conferì 3 medaglie d’oro, 151 medaglie d’argento, 715 medaglie di bronzo e 458 menzioni onorevoli alle persone che si resero benemerite della salute pubblica durante il cholera del 1867-68.
Pare opportuno sottolineare che i 1327 riconoscimenti assegnati furono senz’altro pochi rispetto al numero di persone che si prodigarono per assistere e alleviare i dolori degli infetti, ma, comunque, fu un primo importante messaggio tangibile e della presenza e della gratitudine del Governo verso i cittadini, anche i più umili. Nella provincia di Terra d’Otranto furono premiati i cittadini di 30 differenti paesi con l’attribuzione in totale di 179 riconoscimenti: 1 medaglia d’oro, 56 d’argento, 101 di bronzo e 21 menzioni onorevoli. Tra i premiati di Novoli spicca senz’altro Pietro Longo che, oltre a ricoprire in quel periodo la carica di Sindaco, si prodigò in prima persona per la cura degli ammalati in veste di medico.
In una sua dettagliata relazione rimessa al Prefetto della Provincia, il dott. Pietro Longo riferì di aver curato con il citrato di ferro 83 attaccati dal colera, dei quali soltanto 18 morirono, mentre gli altri 65 guarirono perfettamente. Di questi ultimi, egli ne curò 40 nel primo stadio del morbo, 20 nel secondo, 4 nel terzo e uno nel quarto stadio della malattia.
La sperimentazione del nuovo metodo curativo, lo stesso utilizzato a Napoli dal dott. Guglielmi durante l’epidemia del 1854, provocò però un’accesa polemica con il medico condotto di Novoli, Giuseppe Piccinno, il quale non risparmiò critiche al suo collega e si dimostrò scettico e poco propenso ad accettare il citrato di ferro, preferendo optare per altri farmaci. Nonostante le critiche, il dott. Longo continuò con la sua sperimentazione e, per fugare ogni dubbio sulla valenza del metodo Guglielmi, in un comunicato pubblicato sul numero successivo dello stesso giornale,si impegnò ad inviare una copia della statistica dei colerosi da lui curati al Consiglio Provinciale di Sanità.
Per l’abnegazione dimostrata furono assegnate 10 medaglie di bronzo a Novolesi o a persone in servizio nel paese, e precisamente: ai Carabinieri Giovanni Angeleri (brigadiere), Carlo Binda, Lorenzo Gasatti, Giovanni Marelli e Maurizio Tarchetti, ovviamente forestieri, mentre ebbero la stessa medaglia di bronzo i Novolesi Pietro Longo, Sindaco di Novoli, Emilio Longo, intimatore comunale, Pietro Ruggio, falegname e Oronzo Ruggio, sarto”13.
Dagli anni Settanta in poi, però, il paese si riprende grazie soprattutto alla
13 Cit. da A. Tondo, Benemeranza di dieci novolesi nel colera del 1867, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XX, 21 luglio 2013, pp. 16-18.
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coltivazione della vite e al commercio del vino che venne esportato in Italia ad anche all’estero, soprattutto in Francia dove imperseverava la fillossera che distrusse intere piantagioni. Il Salento, per fortuna, fu risparmiato da questo parassita che distrugge l’apparato radicale delle vigne, e Novoli prosperò sempre più grazie alla coltura del vigneto, e i suoi vini, essenzialmente ricavati dalle varietà del negroamaro e della malvasia, ovunque vennero apprezzati e riscossero successo e furono richiesti pure per irrobustire, come mosto di alta gradazione, i deboli vini dell’Italia centro-settentrionale.
Per tale ragione in questo periodo Novoli adottò il tralcio di vite con tre grappoli d’uva come insegna civica, e nel 1873 nel paese venne impiantata una distilleria da Giuseppe Capozza, regio sub economo della Diocesi di Barletta, per l’estrazione di alcool dalla vinacce, il che portò altra ricchezza e occupazione14.
Il paese, intanto, si ammodernava urbanisticamente, si dotò di lampioni stradali ad acetilene e a petrolio, curò i percorsi viari, nella piazza Castello, ora Regina Margherita, e in altri slarghi vennero piantati tanti alberi.
Con il Regolamento edilizio il Comune il 5 ottobre 1879 deliberò norme moderne e razionali per la costruzione, l’ampliamento e la sopraelevazione degli immobili, si occupò del decoro e dell’igiene pubblica vietando lo scorrere per le vie delle acque putride, quelle di fogna soprattutto, inibì il traffico di carri e di bestiame nei luoghi più frequentati del paese, etc. Per tali provvedimenti si distinsero tra gli altri il sindaco Pietro Longo (18301883), il notaio Celestino Andrioli (1839-1897) e il dinamico sacerdote Giovanni D’Agostino (1806-1890), detto “Papa Giuanni”, entrambi consiglieri comunali. Va annotato che il D’Agostino, allorché come si è detto il paese ebbe tanti alberi, nel 1875 fece sradicare i pioppi (chiuppi) secolari di piazza Regina Margherita sostituendoli con quelli di robinia che fece pure impiantare lungo la via dedicata poi a Pietro Longo e sulla via per Trepuzzi per lungo tratto15 .
Ancora oggi a Novoli è viva l’espressione in vernacolo “scire alli chiuppi”, “sutta alli chiuppi” per indicare dove un tempo si innalzavano i pioppi, e dove la gente si dava appuntamento, allora piazza Castello, per bighellonare, per trattare di affari, per procurarsi il lavoro giornaliero, ma qui non
14 Cfr., M. De Luca-F.A. Mastrolia, Società e risorse produttive in Terra d’Otranto durante il XIX secolo, Napoli 1988, pp. 334-362; C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, voll. 2, vol. II, Galatina 1975, p. 299; A. Mangeli, La vita etc., op. cit., pp. 13-14.
15 Cfr., R. Franchini, Il pozzo del Signore, in “La voce del Pastore” bollettino parrocchiale, XX, Novoli Maggio-luglio 1977, pp. 4-5; A. Mangeli, La vita etc., op. cit., pp. 15-16.
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mancavano i birbanti, come si è detto, che adocchiavano i ragazzi più vivaci per avviarli alla malavita, a saper tirare di coltello ed alle destrezza di furti e borseggio.
Nel 1884 Novoli contava 4.755 abitanti, ed oltre alla distilleria e ai tanti “stabilimenti” vinicoli gestiti da privati, ci dice l’Annuario Pugliese di quell’anno, il paese dimostrava non poca vivacità economica. Nell’Annuario in questione, già citato, non vengono enumerati i contadini, gli artigiani, ma soltanto professionisti, produttori e commercianti. Nel paese funzionavano 4 classi maschili di scuola elementare e 3 classi femminili, più una scuola privata elementare femminile, diretta da Caterina Bianco; vi erano poi 3 agrimensori; 2 farmacisti; 5 medici chirurgi; 2 notai; 2 ostetriche; 1 albergo; 1 agenzia di pegni; 1 appaltatore dell’illuminazione; 1 appaltatore carcerario; 4 macellerie; 3 caffè; 4 fabbriche di calzature; 1 negozio di cappelli; 3 negozi di cereali; 1 fabbrica di dolci; 3 forni; 8 frantoi di cui uno a vapore; 4 esercizi di generi alimentari; 1 negozio di frutta secca; 4 mulini di cui uno a vapore; 1 venditore di neve; 9 negozi di pane e paste di minestra; 3 pizzicagnoli-salsamentari; 10 grossisti in olio, cereali e vino16 . All’epoca Novoli contava 23 sacerdoti, non pochi di ottima cultura e di spirito filantropico, ma nella seconda metà dell’Ottocento illustrarono il paese tanti artisti e studiosi, tanti gli industriosi artigiani e commercianti che consentirono al luogo di crescere sotto ogni profilo, avendo pure ottimi amministratori, e ciò durò fino ai primi lustri del Novecento. Poi con la prima guerra mondiale tante cose cambiarono.
L’istruzione
È noto che per secoli e secoli, dall’età di mezzo in poi, le popolazioni della penisola italiana versavano nella più gretta ignoranza. Moltissimi erano gli analfabeti, le donne soprattutto, e solo pochi privilegiati potevano fruire di istruzione anche eccellente laddove esistevano sin dal XII secolo rinomate università come quella di Padova, di Bologna, di Salerno, etc. Il monopolio della cultura, essenzialmente, fu tenuto dalla Chiesa con i suoi Ordini religiosi e con i suoi rari volenterosi sacerdoti, molti dei quali possedevano una preparazione sommaria o addirittura erano quasi analfabeti, almeno fino al Concilio di Trento, in seguito al quale furono istituiti i Seminari per la dignitosa preparazione sacerdotale.
16 Cit. da D. Mele (a cura di), Annuario pugliese, Foggia-Napoli 1884, pp. 189-190.
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Si deve pertanto ai Domenicani, ai Gesuiti, agli Scolopi etc., l’inizio dell’istruzione pubblica, ma si dovrà attendere il XVIII secolo perché, almeno in via di principio fosse prospettata la necessità di istituire una scuola popolare, laica e gestita dallo Stato. Mancavano però gli insegnanti, né vi erano scuole per la loro formazione, erano ignorati i più elementari principi pedagogici, e poi la gente era restia a mandare i propri figli a scuola. Delle bambine neanche a parlarne, già perché servivano braccia per il lavoro e per la casa, comprese quelle dei piccoli, e la gente non era entusiasta della scuola non ravvisandone l’utilità.
L’età moderna dell’istruzione scolastica, per metodi e contenuti, ebbe inizio con l’Illuminismo e per la sua concreta applicazione occorre partire dalla rivoluzione francese. Per quanto attiene il Regno di Napoli una politica scolastica fu avviata dal re Giuseppe Bonaparte prima, e dal suo successore Gioacchino Murat dopo, che mancando gli insegnanti laici, come si è detto, dovettero necessariamente coinvolgere il clero che per esperienza e preparazione era in grado di gestire, almeno, la scuola primaria17.
Il 12 luglio 1806, come risulta da un registro capitolare che si conserva nell’Archivio della Matrice di S. Andrea Apostolo, il clero novolese veniva convocato dall’arciprete don Pasquale Antonio Tarantini (1752-1820) per formulare una relazione alla regia corte di Napoli in risposta ai vari dispacci inviati al medesimo arciprete per sapere sulle condizioni di Novoli, sulle scuole per alunni dell’uno e dell’altro sesso, istituti di beneficienza, istituti religiosi, e questi tenessero scuola, sul patrimonio del clero, etc. Fu risposto che il paese non era in grado di tener scuole, ma che a tale deficienza sopperivano in qualche modo due sacerdoti, don Domenico Mazzotta e don Gaetano Dell’Atti, che impartivano lezioni nella propria casa insegnando a leggere e a scrivere ai maschietti e istruendo le fanciulle ai lavori domestici. Grande era quindi il livello di analfabetismo a Novoli, dove le donne non possedevano alcun rudimento scolastico. A Villa Convento, presso il Convento dei PP. Domenicani, soppresso nel periodo murattiano, un sacerdote si prendeva cura di circa 130 abitanti, molti dei quali erano dispersi nelle case circostanti. Questo sacerdote, nominato dal Priore del Convento domenicano di Lecce, faceva del suo meglio per insegnare a leggere a e ascrivere ai figli dei contadini e dei cavatori di pietra del luogo. Ritornati sul trono di Napoli, i Borboni accolsero con diffidenza la legge francese sull’istruzione primaria obbligatoria, poiché temevano che le masse istruite male
17 Cfr., P. Villani, Il Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1915), in “Studi storici in onore di G. Pepe”, Bari 1969.
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avrebbero tollerato l’assolutismo, ma intanto si puntualizzavano gli aspetti organizzativi onde in ogni comune fosse istituita la scuola, fiorivano non pochi studi pedagogici, si valorizzava il sapere, si individuavano le materie di insegnamento e i metodi per reclutare gli insegnanti, il tutto sotto stretto controllo della polizia e degli ispettori regi; tuttavia mancavano maestri laici per cui toccava ai vescovi occuparsi dell’istruzione e, nonostante tante disposizioni ministeriali, a Novoli come in quasi tutti i comuni del leccese di scuole e di scolari nella prima metà dell’Ottocento neanche l’ombra.
Il dotto sacerdote Vincenzo Tarantini (1812-1875), nella prima metà del XIX secolo educò nella sua casa, dove oggi è allocato l’ex Asilo infantile a lui dedicato e a suo tempo gestito dalla Suore d’Ivrea, molti ragazzi novolesi, e presso la sua dimora si davano convegno altri ragazzi dei paesi vicini i quali formarono un cenacolo culturale fervido di sentimenti religiosi e patriottici. Si trattava di una scuola che possiamo paragonare al Liceo-ginnasio. Altri sacerdoti, qualcuno anche per incarico del R. Governo o del Decurionato comunale, insegnavano nella scuole popolari novolesi, come don Pasquale Madaro e don Santo Cosma.
Il 12 febbraio 1861 veniva proclamato il nuovo Regno d’Italia e contemporaneamente veniva estesa a tutte le provincie le legge sabauda del 15 novembre 1859, predisposta dal ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati, legge che restò in vigore fino al 1923, fino a quando venne emanata la riforma Gentile. Onde garantire l’istruzione generale presso le Prefetture furono istituiti uffici scolastici con a capo un Provveditore e un Consiglio scolastico acché provvedessero alle scuole di ogni ordine e grado e vigilassero sul loro andamento. Tutti i comuni furono abilitati ad istituire almeno uno scuola maschile e una femminile per il primo triennio, con l’obbligo della frequenza. La legge in questione mirava a debellare l’analfabetismo assai alto in tutta Italia e, di conseguenza, intendeva conseguire l’unificazione linguistica della nazione contraddistinta da una miriade di parlate locali, incomprensibili tra di loro.
Si provvedè contestualmente alla preparazione degli insegnanti di 1a e 2a elementare tramite la frequenza di dieci mesi della Scuola Magistrale Inferiore al fine di conseguire la Patente di idoneità inferiore necessaria per l’insegnamento. Gli aspiranti maestri delle restanti tre classi dovevano frequentare la Scuola Magistrale Superiore per un periodo di sei mesi, indi un tirocinio obbligatorio di un anno compiuto presso un maestro esperto, equivalente all’attuale tutor. Sorvolando su programmi ed organizzazione riguardanti l’istruzione elementare gratuita ed obbligatoria, sancita dal R. Decreto n.5292 del 16 febbraio 1888, riferiamo che a Novoli, centro allora di circa 4.000 abitanti, furono istituiti due corsi elementari completi, 5 classi
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maschili e 5 femminili, ospitate in due stanze del palazzo comunale e in locali presi in fitto dal Comune nei pressi della piazza Regina Margherita e distaccati in vari punti del paese.
Purtroppo si deve constatare che la gente di Novoli, per la più parte contadina, nonostante l’obbligatorietà della frequenza scolastica o non mandava a scuola i figli o li ritirava prematuramente e così solo pochissimi completavano il ciclo elementare e ancor meno proseguivano l’istruzione. Per le fanciulle, come la solito, niente scuola e le più fortunate fruivano dell’iniziativa religiosa privata.
Difficile fu l’avvio a Novoli della scuola elementare obbligatoria, i maestri erano mal pagati e per la maggior parte provenivano dal clero, mancava quasi del tutto la suppellettile scolastica e i locali che ospitavano gli alunni erano sporchi, umidi e fatiscenti. Il Comune, sempre a corto di denaro, non poteva impegnarsi più di tanto nel settore dell’istruzione. Il reperimento di locali idonei a ospitare le classi, locali sempre presi in affitto, costituì il problema principale della civica amministrazione novolese, che nel 1863 pensò di adattare a tal fine la cappella di S. Biagio, poi tre anni dopo chiese al Governo le cessione di due locali che erano serviti per il ricovero di due conversi questuanti dei PP. Pasqualini Riformati, ma di tutto ciò non si fece niente, e tale precarietà durò fino al 1894, allorché le varie classi furono riunite nel palazzo ducale e presso i locali dove ancor oggi ha la sede il Circolo Cittadino, in via Umberto I. Col passare degli anni cambiavano e si ammodernavano la legislazione scolastica e il trattamento degli insegnanti, e dalla legge Coppino del 15 luglio 1877 di acqua ne è passata sotto i ponti, con la Riforma Gentile durante il fascismo (1933) e fino ad oggi, tra riforme e controriforme che non sembrano aver mai fine. Verso la fine dell’Ottocento, a Novoli, vennero redatti vari progetti per la costruzione di un grande e moderno edificio scolastico, finché intorno al 1920-21 il Conte Giovanni Balsamo donò al Comune il suolo, sulla nuova via dedicata ai Caduti della Guerre Nazionali, sullo sfondo di via Roma. Per iniziativa del sindaco Pietro Tarantini, su progetto dell’ing. Serafino Busi, la ditta del cav. Donato Romano costruì un ampio e confortevole edificio, da me frequentato, con refezione gestita dal patronato scolastico.
Tra i primi insegnanti della scuola elementare novolese vanno ricordati il sacerdote Ignazio Mazzotta, Luigi Andrioli, Giuseppe Mazzotta, valente musicista e compositore. A questi insegnanti novolesi vanno aggiunti i leccesi Luigi Contursi e Giuliano Papadia. Ma il vero fondatore della scuola elementare novolese fu il sacerdote Salvatore Mazzotta (1845-1904), discepolo prediletto di don Vincenzo Tarantini (1812-1875). Egli impostò l’insegnamento con i criteri didattici piùaggiornati dei tempi suoi.
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Non mancavano difficlotà per la formazione delle classi femminili poiché, come si è più volte detto, per una mentalità durata fino alla prima metà del Novecento, si preferiva far restare a casa le fanciulle per attendere alle faccende domestiche. Nelle scuole femminili di Novoli la prima insegnante fu tal Suora Crocefissa Gigli, venuta da fuori. Si ricordano poi le signorine Addolorata Parlangeli, Caterina Bianco, le sorelle Rosaria e Maria Sebaste che nei primi tempi profusero il loro insegnamento per le bambine. Vera fondatrice dell’insegnamento primario, secondo le esigenze didattiche moderne delle scuole femminili novolesi, fu l’insegnante Lucia Carbocchi Marrazzi (1850-1937), di origine romagnola andata sposa a Felice Marrazzi di Novoli. Tre sue figlie, Vincenzina, Livia e Ida ne seguirono la professione, ed esercitarono il loro magistero a Novoli.
Tra le altre maestre novolesi ricordiamo, oltre alle Marrazzi, Giacinta Foresio-Parlangeli, Antonietta Milanese, Antonietta De Cataldis, Antonietta Casciaro, Adele Francese, Vincenza Albanese Papadia, Mignon Bonazzi-Carella e, prima ancora, morte ancor giovani, le insegnati Gaetana Albanese, Maria Megha-Pellegrino, Lina Albanese-Vernaleone, Teresa Pisanò e Costantina Vetrugno. Un affettuoso ricordo ho poi della mia frequenza presso le scuole elementari novolesi, dove ebbi per Maestro Gregorio Vetrugno (1920-2001), amico d’infanzia di mio padre Vito Fiorino e poi cultore della poesia e poeta egli stesso18. Il nuovo edificio scolastico per la scuola elementare, che sorge nella via dei Caduti, ancor oggi è in piena attività e allorché venne inaugurato nel 1937, due anni era durata la sua costruzione, annoverava venti ampie e luminose stanze, ventotto servizi igienici, l’aula magna, la palestra coperta e scoperta, il refettorio. Il suo costo superò le 800.000 lire e la Ditta Romano, rivendicando l’aggiornamento dei prezzi per diversi anni ebbe un contenzioso con il Comune di Novoli. Durante il Fascismo l’ing. Busi propose di intitolare la scuola elementare a Rosa Maltoni, insegnante elementare e madre di Mussolini, ma non si approdò a nulla. Poi, caduto il regime, vennero cambiati i libri e i programmi, cambiò il ruolo della scuola e dell’educazione che venne indirizzata verso valori democratici e pluralistici. Chi voleva proseguire gli studi nella scuola media inferiore doveva recarsi a Lecce o in qualche paese vicino dove era già stata istituita. Novoli, finalmen-
18 Cfr., E. Ricciato, L’istruzione primaria in Novoli dai primi del sec. XIX ai nostri giorni, Lecce 1968. Il testo riporta il discorso che il dotto sacerdote tenne nella Scuola elementare di Novoli il 17 novembre 1957, per l’inaugurazione dell’anno scolastico e per il conferimento delle Medaglie d’Oro del Ministero della P.I. Alle benemerite insegnanti Livia Marrazzi, Ida Marrazzi Amoruso, Giacinta Foresio Parlangeli. Cfr., P. De Matteis, L’istruzione primaria a Novoli, testo di ampio respiro e ben dettagliato, Monteroni 2001.
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te, nel 1956 ebbe la sua scuola media presso l’Istituto delle Suore Mercedarie in via Veglie, con succursale sulla provinciale Novoli-Lecce presso l’Istituto don Cocco. Poi, avendo Giovanni Cezzi (1910-1974) donato un terreno sull’attuale via Luigi Madaro, volle che ivi fosse costruito l’edificio della scuola media da intitolare al padre suo Francesco (1882-1937), edificio che entrò in funzione alla fine degli anni ‘60. Giovanni Cezzi donò pure del denaro per la realizzazione del Campo Sportivo, inaugurato appena dopo la 2° guerra mondiale, volendo che si dedicasse al fratello suo salvatore (Totò) (1912-1926), che morì giovanissimo ed è sepolto a Novoli nella cappella di famiglia, progettata dall’ing. Francesco Parlangeli19. L’istituzione a Novoli della Scuola Media Statale, di cui fu primo preside il prof. Ennio Bonea, mio carissimo amico, venne sollecitata non solo dalla popolazione, ma essa si realizzò pure grazie all’interessamento del sacerdote novolese don Gioacchino Rizzo (1906-1980).
Gli asili infantili
Nel XIX sec. la società e i filantropi dettero non poca attenzione alle condizioni dell’infanzia, ossia ai piccini trascurati dalle madri impegnate prevalentemente nei lavori agricoli, ai gettateli (scittatieddhri), ossia ai neonati abbandonati presso le “ruote” di chiese e conventi, oppure dove capitava, dalle numerose ragazze-madri. I poveri infanti venivano collocati in ospizi, a Lecce20, mentre i piccini che avevano famiglia venivano dati in custodia alle mescie (maestre), povere donne prive di istruzione che li accudivano alla meno peggio.
19 L’antica e facoltosa famiglia Cezzi, di Maglie, si diramò a Novoli con Salvatore (1848-1912) che sposò nel 1879 Maria Francioso (1855-1930), novolese, ultima discendete di una rinomata famiglia di notai e di ecclesiastici. Maria non volle spostarsi dal suo paese natìo e Salvatore accettò volentieri di abitarvi anche lui, recandosi solo periodicamente a Maglie per curare i suoi affari. Egli a Novoli abitò in via Pendino e costruì il palazzo di campagna, di stile neo-classico, circondato da giardini e agrumeti, e ristrutturò il palmento e il trappeto attigui alla casa cittadina. Salvatore e Maria ebbero due figli, Vincenzina (1880-1918) e Francesco (1882-1937) che si formò presso i PP. Passionisti di Novoli e nel 1909 sposò Antonietta de Castro (1886-1961) dei Conti di Lemos. Francesco e Antonietta si trasferirono a Maglie, ma a Novoli Francesco era spesso presente per curare la propria azienda agricola. Ebbe due figli, Giovanni (1910-1974) e Salvatore (Toto) (1912-1926). La famiglia Cezzi ha sempre dato lustro a Novoli, è stata munifica e generosa con chi le si rivolgeva. Cfr., F. Cezzi, Vi racconto la nostra famiglia, Galatina 2008.
20 Cfr., I Trovatelli, gli Orfani e l’Infanzia abbandonata nel Comune e nella Provincia di Lecce, Lecce 1908; O. Colangeli, Iniziative benefiche in epoca borbonica. Orfanotrofi, educandati e seminari, in “Iniziative culturali in Terra d’Otranto (XIX-XX)”, a cura dell’Istituto Professionale Femminile “A. De Pace” di Lecce, Galatina 1979; M. De Marco, L’infanzia minorata e abbandonata in Terra d’Otranto tra XIX e XX secolo, in “Annuario 2009-2010 del Liceo-Ginnasio Statale “G. Palmieri” di Lecce”, Galatina 2010, pp. 63 sgg.
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L’Asilo Tarantini
Ciò avveniva anche a Novoli dove fino al 1878 esisteva però una classe di asilo infantile, ma bisognerà attendere il Novecento perché nel paese si muovesse qualcosa a favore dell’infanzia. Con testamento olografo del 30 settembre 1911, pubblicato con verbale dal notaio Camillo Pagliara di Campi Salentina il 9 gennaio 1919, la signora Filomena Tarantini (1826-1919) nominava suo erede universale mons. Gennaro Trama, vescovo di Lecce con l’obbligo di fondare a Novoli un asilo infantile da intitolare al fratello suo, il sacerdote don Vincenzo Tarantini, con sede nella sua casa di abitazione in Novoli, sulla via per Lecce, sotto la direzione di suore.
Lo stabile, opportunamente riadattato, accolse per beni 65 anni tanti bambini, amorevolmente istruiti dalle Suore dell’Immacolata Concezione. I bambini poveri non erano soggetti al pagamento di una retta a differenza di quei bambini le cui famiglie potevano permetterselo. Il vescovo Trama, venduto il patrimonio della Tarantini, che nel testamento dava la facoltà di alienare i beni rustici, dette l’avvio della costruzione dell’edificio che era già pronto e accogliente sin dal 1920, in grado di ospitare i bambini del paese, non più sotto l’incubo delle mescie che li costringevano a stare fermi per tante ore in ambienti angusti, privi dello spazio necessario per i loro giochi, facendoli pregare a cantilena fino alla noia. L’Asilo fu impostato con seri criteri didattici ed ebbe poi annessa la scuola elementare legalmente riconosciuta. Ospitò l’Associazione Giovanile “S. Maria Goretti”. L’Istituto, che ovviamente privilegiava l’educazione religiosa, organizzava recite, manifestazioni teatrali di cui erano protagonisti proprio i piccini. Rammento di aver partecipato in veste di “attore” alle recite dell’Asilo, che ho frequentato per qualche anno da bambino. La pia istituzione chiuse i battenti nel 1986 allorché le benemerite Suore lasciarono il paese, con il rimpianto generale21 .
Bande, musicanti e compositori
Nel mondo di ieri, prima che fossero inventati radio, televisione, cinema ed altro, la gente comune aveva rarissime occasioni, se non proprio nessuna,
21 Cfr., Statuto organizzo dell’Opera Pia “Asilo Infantile Vincenzo Tarantini in Novoli Provincia di Lecce, in “Archivio Vescovile di Lecce”; O. Madaro, L’Asilo Tarantini ha trentacinque anni, in “S. Antonio Abate”, giugno-agosto 1955, pp. 7-9; A. Politi, Assistenza Sociale e Scuola Pubblica a Novoli. L’istituto Tarantini, Novoli 1993.
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di conoscere e ascoltare la musica, se non quella che si eseguiva nelle chiese. Ecco perché durante le feste giungevano nei paesi cantanti e musicisti che attiravano le folle, sempre più appassionate di esecuzioni bandistiche che ancor oggi resistono, ovviamente senza l’interesse di un tempo essendo ora tutti bombardati da musica e spettacoli diffusi dai tanti mezzi di comunicazione e che ognuno può comodamente gustare in casa tramite compact disc, internet, radio, televisione, etc., e poi le sagre, le discoteche, la riscoperta del folk la fanno da padroni globalizzando il patrimonio musicale e canoro, che spesso dura si e no una stagione, magari in inglese, come di moda, senza capirci un bel niente. Per la musica a se stante il discorso è diverso poiché essa ovunque suscita emozioni spesso inedite, personali e collettive.
I complessi bandistici, nel passato, interessavano essenzialmente le fasce popolari, ma non erano disdegnati da chi era colto e poteva magari permettersi altro, ma il tutto si rapportava alla personale sensibilità. Certo, sin dal basso medioevo, ma non dappertutto, via via sorsero compagnie di attori e di musicanti che si esibivano in lungo e in largo, fermandosi sopratutto nelle città e dove venivano richiesti, e ciò soprattutto nel XIX secolo, epoca che più delle altre espresse compositori, musicisti di ogni spessore, il cui repertorio mano a mano divenne patrimonio comune, anche perché pure nei piccoli centri si costruirono teatri, come accadde poi a Novoli.
Con l’evolversi degli strumenti musicali via via la musica lievitò in termini di qualità, crebbe il repertorio, si istituirono scuole per la formazione dei musicisti e dei cantanti, ma questa è una storia a sé e noi, fatti questi brevissimi cenni, torniamo ad occuparci di Novoli annotando che nel paese il 21 ottobre 1827 venne costituita la prima Banda musicale che fu diretta dal siciliano Salvatore Castorini, stabilitosi a Novoli dove creò intorno a sé un folto gruppo di nostri compaesani istruendoli sulla musica.
Nella metta dell’Ottocento la scuola del Castorini dava ormai i suoi frutti annoverando ventitre componenti, essenzialmente artigiani e commercianti che all’epoca costituivano il ceto medio. Questi musicisti si dotarono ben presto di una divisa e dopo il Castorini vennero diretti dal novolese Pasquale Plantera, già amministratore dei Carignani, ultimi signori di Novoli.
Nel 1876 la Banda musicale divenne municipale e venne perciò finanziata dalla Civica Amministrazione che la dotò di divise e strumenti, nonché del necessario Regolamento che fu approvato nel 1879. In quegli anni fu capomusico dei venticinque componenti della Banda Pietro Liberato Mazzotta (1818-1903). L’impegno del Comune, purtroppo, ebbe breve durata, le spese erano tante sicché nel 1887 la Banda Municipale fu sciolta, ma i musicanti solo sei sia pure tra mille difficoltà continuarono ad esercitarsi presso l’abitazione ora dell’uno ed ora dell’altro, e a volte persino in campagna.
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Tra fine Ottocento e gli inizi del secolo scorso emersero a Novoli valenti musicisti e compositori, come Giuseppe Mazzotta (1848-1927), meglio conosciuto come don Pippinu capibanda, che fu pure maestro di scuola elementare. Fu pure musicista il figlio suo Pasquale Raffaele (1883-1931), che si trasferì in Argentina, acquisendo rinomanza internazionale. Nei primi del Novecento il novolese Angelo Zecca (1870-1916) nel 1904 organizzò una piccola Banda musicale che non mancò di cogliere qualche successo, ma nello stesso anno a Novoli sorse un’altra Banda, diretta dal citato Giuseppe Mazzotta. Iniziata così in sordina la competizione tra i due gruppi bandistici, ben presto questa degenerò in due fazioni di tifoserie che di tanto in tanto si azzuffavano. La Banda del Mazzotta ebbe il soprannome di Banda te lu Cuccu (boccale di vino) in quanto i suoi componenti prediligevano la buona tavola e generose bevute di vino, mentre la Banda dello Zecca fu detta te lu sangunazzu (sanguinaccio) per la parentela stretta di questi con dei macellai.
Comunque, al di là di zuffe ed intemperanze, la concorrenza dette esiti positivi in termini di qualità dei due gruppi bandistici, che si sfidavano e si esibivano nella piazza Municipio e nella piazza Regina Margherita. Tuttavia intorno al 1908 la Banda dello Zecca si sciolse poiché costui si trasferì a Veglie dove fondò e diresse il locale complesso bandistico. La Banda te lu cuccu operò ancora per circa cinque anni, ma alla fine pure essa si sciolse e vendette i propri strumenti musicali.
Con il sopraggiungere della prima guerra mondiale cessò ogni iniziativa anche nel campo musicale, e si dovrà attendere il 4 maggio 1934 per la costituzione di una Banda a Novoli che ebbe per capomusico Antonio Pasquino, ma che durò poco.
Poco tempo dopo Giuseppe Guglielmo Antonucci creò e diresse un piccolo complesso bandistico, chiamato Banda te Noule che ebbe vita difficile ed effimera tant’è che si sciolse alla fine degli anni Cinquanta.
Poi circa trent’anni dopo, nel 1984, venne costituito il complesso musicale Città di Novoli diretto da Donato Spedicato, valente suonatore di clarinetto, che colse non pochi successi, ma che si sciolse nel 1992 e, da allora, Novoli manca di una propria Banda musicale22.
22 Cfr., P. De Matteis, Musica e Musicanti. Note storiche sui complessi bandistici a Novoli, Novoli 2003; M. De Marco, Novolesi, op. cit.; B. Tragni, I nomadi del pentagramma. Le bande musicali in Puglia, Giovinazzo 1985.
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Sec. XIX. Novolesi da ricordare
- Lucia Antonia Carbocchi Marrazzi, nata ad Alfonsine, prov. di Ravenna, il 6/VI/1850 morì a Novoli il 27/VIII/1957. Maestra elementare, insegnò a Novoli dove il 31/V/1875 sposò Felice Marrazzi e dal matrimonio nacquero Oreste, Ugo, Michele Gigi, Vincenzina, Livia, Emilia Marianna, Ada Ilga Zaira, Maria Antonietta, Ida e Bianca. Lucia Antonia Carbocchi Marrazzi instaurò a Novoli la Scuola Primaria Femminile e le premorirono i figli Ugo, Zaira, Bianca e Oreste. Restata vedova continuò a insegnare sino alla fine della sua carriera e il 15/V/1915 il Ministero della P.I. le conferì la medaglia d’oro per meriti professionali.
- Antonio Cosma, nato a Novoli il 28/VI/1862 qui morì il 5/II/1933. Laureatosi nel 1888 in Medicina e Chirurgia, a Napoli, fu assistente del noto prof. D’Antona, si dedicò alla ricerca clinica. Dal 1889 al 1895 fu medico condotto a Corigliano d’Otranto e nel 1892 sposò Chiarina De Donatis di Carpignano, dalla quale ebbe sei figli. Tornato a Novoli esercitò la professione e tutti gli riconobbero filantropia e larga disponibilità, facendo istituire nel ‘900 cucine economiche e prodigandosi nel 1904 per l’epidemia di vaiolo. Da ufficiale medico partecipò alla I guerra mondiale, poi fu assessore comunale, presiedette l’Opera della Maternità e infanzia e fu fervente fascista, divenendo medico della M.V.S.N.
- Don Giovanni D’Agostino, nacque a Novoli nel 1805 ed ivi morì nel 1890. Conosciuto come papa Giuanni ebbe idee liberali e fu consigliere comunale prodigandosi per la sistemazione urbanistica del paese. Nel 1875 fece estirpare i pioppi (chiuppi) di Piazza Castello, poi Regina Margherita, per farvi piantare robinie. Fu stretto collaboratore del sindaco Pietro Longo.
- Don Oronzo De Matteis, nacque a Novoli il 20/II/1805 ed ivi morì il 25/ III/1897. Consacrato sacerdote nel 1829, fu arciprete della parrocchia di S. Andrea Apostolo del 1875 fino alla sua morte. Figura umana di grande rilievo, incurante del pericolo si prodigò totalmente durante il colera del 1866. A Novoli don Oronzo istituì il Terz’Ordine Francescano, la Pia Unione delle Figlie di Maria e fu Presidente della Congregazione di Carità. Volle fortemente che i PP. Passionisti giungessero a Novoli e a tal fine donò il suo giardinetto, sulla via per Campi, dove poi i Reverendi Padri realizzarono il convento e la chiesa. Incrementò il culto della Madonna del Pane, eccelse in opere pie. Tanto si interessò della storia del luogo e in particolare della sua chiesa.
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- Giovan Battista Longo nacque a Novoli il 23/X/1837 e morì nella battaglia di Custoza il 24/VI/1966. Fu arruolato col grado di caporale nella Brigata Brescia, IX reggimento fanteria, XIV compagnia. Fratello di Pietro, sindaco di Novoli morto per il terremoto di Casamicciola nel 1883, è sepolto nel Sacrario dei Caduti, italiani e austriaci, a Custoza. Fu il primo novolese morto per l’unità d’Italia.
- Luigi Raffaele Guerra, nacque a Novoli il 21/I/1810 e morì a Lecce il 6/ XII/1900, nell’Asilo di Mendicità.trasferitosi a Lecce sposò nel 1830 Maria De Franceschi, e qui fu allievo cartapestaio di Pietro Surgente (1742-1827), detto mesciu Pietru te li Cristi, primo maestro della cartapesta leccese. Il Guerra eccelse nell’arte della cartapesta e di ciò ne era consapevole ritenendosi il maestro di tutti. Ebbe bottega nella via Ascanio Grandi, a Lecce, a pochi metri da Porta S. Biagio, e produsse statue, pupi e maschere.
- Giovanni Guerrieri, nato a Novoli il 28/VI/1871 morì a Lecce il 7/II/1818 a causa della “Spagnola”. A Otranto sposò Caterina Macrì nel 1905. Laureatosi a Napoli in Lettere nel 1894, insegnò presso il Liceo annesso all’Abbazia di Cava dei Tirreni e poi presso i licei classici di Senigallia, di Lecce e di Maglie. Nel 1898 e nel 1899 diresse il Museo “S. Castromediano” di Lecce, ed egli è ricordato soprattutto per essere stato uno storico di valore delle patrie memorie, medioevali soprattutto.
- Giuseppe Mazzotta, nato a Novoli il 16/II/1848, ivi morì il 7/I/1927. Nel 1874 sposò Beatrice Mieli dalla quale ebbe cinque figli, tra i quali Pasquale Raffaele che divenne un eccellente musicista noto soprattutto in Argentina dove si era trasferito. Un altro figlio, Domenico Antonio, divenne sacerdote e cantore del Capitolo novolese. Formatosi presso il Seminario di Lecce, Giuseppe Mazzotta conseguì la patente di maestro elementare di grado inferiore il 10/IX/1887. Conosciuto a Novoli come don Pippinu Capibanda per il complesso bandistico che dirigeva, insegnò nella scuola elementare del suo paese, ed egli fu provetto musicista e autore di diverse composizioni sacre.
- Don Salvatore Mazzotta, nato a Novoli il 18/XII/1845, ivi morì il 13/ III/1904. Ordinato sacerdote il 22/V/1869, conseguì l’abilitazione per insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto; tre anni dopo conseguì la patente di grado superiore. Persona di straordinaria cultura, don Salvatore fu nominato Direttore didattico e per i suoi meriti ebbe vari premi e riconoscimenti
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dal Ministero della P.I. Dopo la presa di Porta Pia nel 1871, egli inviò una petizione al Parlamento del Regno affinché il potere politico e quello spirituale trovassero una conciliazione, ma ciò non piacque ai suoi superiori ecclesiastici che lo censurarono e gli comminarono 15 giorni di sospensione dall’insegnamento. Appassionato di musica, fu un virtuoso dell’organo e dell’ harmonium, curò l’esecuzione di musiche classiche, e organizzò coi suoi alunni canti e declamazioni poetiche. Eccellente oratore, don Salvatore mai trascurò i suoi doveri pastorali, dal 1882 fu Padre Spirituale della Confraternita di Maria SS. Addolorata, per la chiesa di S. Antonio Abate fece realizzare un’artistica Via Crucis, incrementò il culto della Vergine di Pompei, instituì la Pia Unione dei Luigini che annoverò tutti i bambini di Novoli. Fu Direttore Spirituale della Congregazione di Maria SS. Immacolata.
- Francesco Parlangeli, nacque a Novoli il 12/VIII/1863 ed ivi morì il 13/ IX/1916. A 23 anni si laureò a Napoli in Ingegneria e l’anno successivo sposò Annina D’Agostino dalla quale ebbe la figlia Rita. Ingegnere del Genio Ferroviario, per i suoi progetti ebbe vasta notorietà anche all’estero, riscuotendo prestigiosi premi e riconoscimenti. Consigliere Provinciale nel 1900, in quel contesto fece sentire la sua voce per la realizzazione del tronco ferroviario Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò. Fu membro della Congregazione di Carità e ovunque nel Salento progettò tante opere. Francesco Parlangeli progettò il Convento e la Chiesa dei PP. Passionisti a Novoli, e nel suo paese, ancora progettò il palazzo Cosma, varie tombe gentilizie nel locale cimitero e alcuni stabilimenti industriali. Sempre a Novoli eseguì i restauri delle chiese di S. Antonio Abate e di S. Biagio, nonché nella Collegiata e nella Chiesa dei PP. Scolopi a Campi.
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novolese
Il Ventesimo secolo ebbe a Novoli un inizio infausto, poiché nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 1900 venne perpetrato un atroce delitto allorché alcuni ladri straziarono la facoltosa nobildonna Chiara Tarantini di 84 anni, vedova del giudice Bonaventura Mazzarella. La Tarantini, già cinque anni prima, era stata derubata dagli stessi malavitosi che poi reiterarono il delitto, uccidendola per soffocamento. Pochi giorni dopo già emersero persone sospettate dell’omicidio e della ricettazione del denaro e dei gioielli rubati alla povera Chiara Tarantini, strozzata nella sua casa in via Lecce n.14. Le indagini si svolsero con celerità e così l’istruttoria, per cui il 12 giugno dello stesso anno fu pronunciata la sentenza con la quale si condannava il novolese Costantino Mazzotta, contadino ed esecutore materiale dell’omicidio a 15 anni di carcere, tre di vigilanza speciale e pene accessorie. Quintino Madaro, anch’egli novolese e contadino, fu condannato a pene lievi per il reato di correità di furto, tutti gli altri imputati vennero assolti.
Certo, e ciò balza subito con evidenza, gli imputati ebbero avvocati difensori di tutto rispetto, considerati al tempi principi del foro leccese, quali Nicola De Simone, Angelo Lo Re e Pasquale Presicce che la spuntarono contro gli altrettanto famosi avvocati della parte civile, Francesco Rubichi e Pietro Tarantini, per cui si giunse ad una condanna piuttosto lieve se rapportata all’omicidio della Tarantini, che destò grande scalpore non solo a Novoli ma anche in tutta la Provincia di Lecce, e dell’accaduto se ne occuparono ampiamenti i giornali1.
Altro fatto luttuoso, il 21 luglio del 1900, fu costituito dall’assassinio, a Monza, di Umberto I, Re d’Italia dal 1878. A dargli la morte fu l’anarchico Gaetano Bresci per vendicare la morte degli operai, e non solo, contro i quali a Milano il generale Bava Beccaris aveva fatto aprire il fuoco, e costui per aver sedato sproporzionatamente la protesta pacifica fu addirittura decorato da Umberto I. A Novoli e in tutta l’Italia, come ritualmente avviene in questi casi, tante le manifestazioni di cordoglio e di solidarietà al successore Vittorio Emanuele III.
A Novoli venne commemorato il sovrano defunto sia a livello civile e sia
1 Cfr., “Corriere Meridionale”, VI, n. 25 del 20 giugno 1895, p. 3; “La provincia di Lecce”, V, n. 3 del 21 gennaio 1900, p. 2; Id., VII, n. 23 del 15 giugno 1902, p. 3. Cfr., inoltre, F. Natali, Bonaventura Mazzarella e il suo tempo (1818-1882), Taviano 2001; P. De Matteis, Un omicidio a Novoli all’alba del Novecento, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIV, 15 luglio 2007, pp. 30-31.
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Il Novecento
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a livello religioso. Le celebrazioni, annotate sul giornale “Il Risorgimento” (a. XXV, n. 33 del 14 settembre 1900) dal giovane Antonio Galati, segretario del Comune di Novoli, le ha proposte Mario Rossi, e noi integralmente le riportiamo:
Da Novoli
Onoranze al defunto Re
Lunedì 27 agosto la nostra patriottica Novoli celebrò a tutte spese del Comune, solennissimi funerali per l’anima del Gran Re Umberto I. I negozi e gli uffici pubblici restarono chiusi fin dal mattino e su tutte le porte si attaccarono cartelli listati di nero con la scritta Lutto Nazionale. Con l’intervallo di un minuto furono sparati 101 colpi secchi. Il nostro solerte Sindaco il giorno precedente pubblicò il seguente manifesto, che venne affisso per le diverse strade: Municipio di Novoli, Cittadini, il pianto sincero che versate al ferale annunzio del più esecrando delitto del secolo fu la migliore e la più larga prova della vostra devozione e del vostro attaccamento verso la gloriosa Casa di Savoia. Un’altra manifestazione di lutto spetta ora a noi di compiere rendendo l’estremo tributo di rimpianto alla santa memoria del Re cavaliere, del Re prode, del Re leale. Rechiamoci quindi numerosi nel Sacro Tempio della Verità e là preghiamo Dio per la santa anima Sua e benediciamo le lagrime della prima Gentildonna d’Italia. L’eco delle vostre preghiere si ripercuota fervida intorno alle tombe del Pantheon ove risuonano i gemiti di trenta milioni di figli. Cittadini, La funebre cerimonia, alla quale v’invito d’intervenire numerosi, sarà celebrata lunedì 27 corrente e il corteo si formerà alle ore 7 e mezzo, nel Teatro Comunale, ove sarà commemorato il defunto Re d’Italia Umberto I. Novoli, dalla sede comunale, il 26 agosto 900
Il Sindaco Cav. A. Miglietta
Prima della cerimonia religiosa ebbe luogo la commemorazione civile nel nostro spazioso Teatro comunale, artisticamente parato a lutto con numerosi e ben disposti drappi di velluto nero e rosso e frangie d’oro. Nel mezzo del palcoscenico s’elevava grandioso, severo, elegante, il trono reale con sotto l’effige del compianto Sovrano, al comando del Brigadiere Galdi e dalle bandiere di diversi sodalizi. Intorno erano sparse numerose ed eleganti corone di metallo. Alle ore 7 e mezzo il Teatro era già zeppo di autorità civili e militari, d’invitati e di una folla immensa, che accorse spontanea a rendere l’ultimo tributo di gratitudine e di affetto al Re buono.
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Tutti indossavano l’abito di gala. Numerose anche le signore intervenute vestite di nero. Il tutto offriva un quadro veramente grandioso.
Parlò prima, commemorando il compianto sovrano, il nostro Sindaco Cav. Antonio Miglietta. Egli fu fecondissimo, e il suo discorso fu letto fra gli applausi del numerosissimo pubblico.
Alla fine l’oratore invitò tutti a gridare: Viva il Re e da migliaia di voci, tra il fragore dei battimani e fra il rintrono di grossi petardi gridò Viva il Re mentre la musica intuonava una marcia di occasione ed i militi presentavano le armi. Pronunciavano poscia forbiti discorsi, tratteggiando la vita del prode guerriero, i signori: Cav. Dott. Alfredo Longo, Genoveffa Milanese, Vincenzo De Matteis, Segretario comunale Antonio Galati ed Avv. Andrioli. Dopo la commemorazione civile i signori Luigi Mazzotta e Antonio Galati, ai quali era affidata la direzione di ogni cosa, distribuirono centinaia di copie della preghiere della regina, fatte stampare appositamente. Poscia sfilò il corteo per recarsi in chiesa. Fu uno spettacolo commovente e grandioso. Lungo il percorso, le vie Castello, Torrescianne e Moline erano affollatissime, anzi gremite addirittura. Ecco l’ordine tenuto: Gonfalone del Comune, Drappello delle Guardie Municipali in alta uniforme, tutte le cinque classi delle scuole femminili con bandiera, le cinque classi maschili, Guardie Daziare, Bandiera del circolo Filodrammatico, Circolo Umberto I, Uscieri Comunali, Direzione Daziaria, Esattoria, Ufficio Sanitario, Ufficio Postale e Telegrafico, Medici Condotti, Commissione Mandamentale delle imposte dirette con bandiera, Congregazione di Carità, Bandiera dell’Ufficio di Conciliazione, Giudice Conciliatore e personale dipendente, Corona delle Scuole Elementari, Corona del Circolo Filodrammatico, Corona del Municipio, Reali Carabinieri al comando del Brigadiere Galdi, un Ufficiale dell’esercito, Sindaco, Giunta e Consiglio Comunale col Segretario ed impiegati, Invitati speciali, Banda Cittadina, Popolo. Lungo il percorso si accesero grossi razzi tra il lucubre suono delle campane e le note meste del concerto musicale, che eseguì inappuntabilmente una marcia dal titolo: Morto il Re, Viva il Re, lavoro artisticamente pregevole del maestro sig. Giuseppe Mazzotta. La chiesa, come il teatro, era tutta parata a lutto, ed in mezzo si elevava un pomposo catafalco, opera pregevolissima del nostro bravo De Filippis.
In mezzo al grandioso tumulto fu collocata su cuscino di velluto la corona reale con lo scettro.
Ai lati del sarcofago e sulla porta del Tempio furono affisse le iscrizioni dettate dal Segretario Comunale Antonio Galati.
Per lo spazio sempre avaro, riportiamo soltanto quella attaccata sulla porta esterna:
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Pregate
Pel Nume della Patria Umberto I
Re leale, Re prode, Re cavaliere Gran guerriero a Villafranca eroe a Napoli, a Busca Generoso a Casamicciola Guardò in faccia la morte E si coprì di gloria Fu degno del padre Riverenti inchiniamoci
Rendevano gli onori ai lati del Catafalco i Reali Carabinieri e le Guardie del Comune. Anche le bandiere erano disposte intorno al sarcogago. La chiesa fu del pari affollatissima e sugli occhi di tutti io vidi passare delle lagrime. Dopo la cerimonia religiosa, al suono della marcia reale e fra lo sparo dei petardi, il corteo si recò sotto il Palazzo Comunale, ove si sciolse. Da questo signor Sindaco fu spedito il seguente telegramma:
Sua maestà Vittorio Emanuele Roma Giungano graditi vostra Maestà sentimenti devozione di questa cittadinanza, che riaffermano suo attaccamento verso gloriosa Dinastia, dopo solenne commemorazione civile assisté piangente esequie celebratesi anima compianto Sovrano. Pel Sindaco Longo
Le LL. MM: risposero: Sig. Sindaco Novoli
Sua Maestà il Re apprese con grato animo onoranze costì rese amatissima memoria Augusto padre suo.
Ringrazia V.S. affezionata cittadinanza e Segretario Galati per riconferma devozione Casa Savoia.
Il Ministro Ponzio Vaglia
Sig. Sindaco Novoli
Sua Maestà Regina Madre ringrazia di cuore codesta cittadinanza che partecipando con la più pia cerimonia suo immenso dolore le dava prova molto cara di affettuosa devozione.
Il Cav. D’Onore Giuccioli
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Un bravo di cuore al Consiglio tutto che interpretando il pensiero di questa patriottica cittadinanza deliberava solenni funerali al Re buono e leale. Meritava viva lode il Clero che celebrò gratuitamente in Chiesa i funerali e il Brigadiere dè RR. Carabinieri che si cooperò per la riuscita della cerimonia2
Tra fine Ottocento e i primi del Novecento, nonostante qualche progresso, a Novoli non pochi erano senza lavoro e tanti versavano in condizioni di estrema indigenza tanté che non pochi si rassegnarono ad emigrare nelle Americhe. Il paese tuttavia si dotava di nuovi servizi e strutture, come la ferrovia, di cui già si è detto, aumentava il commercio e lo sviluppo del settore edile. Due anni prima, nel 1905, la Civica Amministrazione novolese deliberò di sostituire i vecchi lampioni a petrolio con la luce elettrica, ma le cose come al solito andarono per le lunghe per cui solo nel 1929 fiochissime lampadine di 25 Watt illuminarono le principali vie del paese e questa luce, si fa per dire, restava spenta nelle serate di plenilunio. Si realizzava, intanto, l’Acquedotto Pugliese per il quale ogni comune doveva contribuire versando un canone annuale per far fronte alle ingenti spese, e Novoli sin dal 1907 dovette accollarsi questo onere, ma l’acqua giunse nel paese il 4 marzo 1928, indi furono installate le fontanine pubbliche, alcune scomparse ed altre in pessimo stato. Con l’acqua del Sele le malattie gastrointestinali e tifoidee diminuirono notevolmente, ma la gente continuava a servirsi dei pozzi fin dopo la metà del ‘900, cioè fino a quando ogni casa si allacciò alla rete idrica3.
Intorno al 1906 il sindaco Antonio Miglietta cercò di istituire a Novoli una Scuola di Enologia aperta a tutti i giovani di Puglia, non solo per dare prestigio e migliore sviluppo al settore vitivinicolo che nell’economia del paese era prevalente, ma anche per creare lavoro onde frenare l’esodo migratorio. Ma l’ambizioso progetto non si realizzò, sia perché lo Stato fu sordo a finanziarlo e così pure le provincie di Bari, di Foggia e di Terra d’Otranto che al tempo comprendeva gli attuali territori provinciali di Lecce, Brindisi e Taranto4 .
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Cit. da M. Ross, Per la morte di Umberto I, in “Sant’Antonio l’Artieri”, XXV, 17 gennaio 2001, pp. 14-16. Cfr., M. De Lucia, Agricoltura, industrie indotte e manifatturiere in Terra d’Otranto (1806-1906), Napoli 1999; F. Laudisa, Le dimensioni di una ”protesta silenziosa”. L’ emigrazione italiana in cento anni, Bari 1873. In appendice: I Salentini emigrati dal 1951 al 1971; Acquedotto del Sele per le Provincie di Foggia, Bari-Lecce. Progetto dell’ing. Francesco Campari, Avellino 1887; G. Piccinno, Novoli e l’Acquedotto Pugliese, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVIII, 17 luglio 2011, pp. 38-39.
3 Cfr., “Il Risorgimento”, 19 gennaio 1900; “La Provincia di Lecce”, 6 luglio 1906 e 10 luglio 1906.
4 Cfr., P. De Matteis, Tutti Presenti sull’Ara della Gloria, Monteroni 1998, pp. 29 segg.
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La Prima Guerra Mondiale
La prima guerra mondiale raggiunse Novoli come tanti altri centri italiani dove poco o niente si sentiva parlare di politica e si attendeva al duro lavoro quotidiano, incerto e per tanti versi mal remunerato, tant’è che un folto numero di Novolesi aveva preferito la triste via dell’emigrazione, verso le Americhe, alla precarietà della vita del paese e della provincia.
Novoli contribuì allo sforzo bellico e alla vittoria non sono con i suoi 102 morti a cui vanno aggiunti i tanti feriti, i mutilati e i prigionieri internati in campi fatti di stenti e di tante sofferenze, ma contribuì pure con sottoscrizioni in denaro, come quella del 1917 durante la quale si raccolse la non indifferente cifra di 300.000 lire.
Durante tutto il conflitto i novolesi inviarono pacchi con capi di vestiario ed altro, e quando giunsero 150 sfollati dalle zone di guerra la popolazione fece a gara per soccorrere questi poveri disgraziati che avevano perduto tutto, raccogliendo nel primo giorno del loro arrivo la somma di lire 1.000 e tanti indumenti, coperte e generi di prima necessità, ricoverandoli in locali di fortuna. In queste opere di solidarietà emerse il patriottismo dei Novolesi, e i concittadini cav. Antonio Galati, il prof. Ferruccio Guerrieri e Francesco Russo, tanti uomini ma soprattutto donne si distinsero per la larga generosità. Oltre alle tante iniziative di beneficienza, a Novoli anche il clero detto il suo contributo all’immane conflitto, non solo perché alcuni sacerdoti volontariamente chiesero di essere inviati sui vari fronti, in qualità di cappellani, onde assistere spiritualmente combattenti e feriti, ma nel paese, durante le omelie, altri sacerdoti testimoniarono il loro patriottismo oltre a illustrare le ragioni della guerra confortavano chi sapeva di aver perduto un proprio caro e coloro che trepidavano non avendo notizie dei propri figli e mariti nelle zone di guerra5.
Molti novolesi partirono per le trincee, combatterono e morirono su ogni fronte, in mare, ovunque, si affratellarono con le genti del nord-est d’Italia, dove si combattevano sanguinose battaglie. E con la fine della guerra tante le vedove e gli orfani al di là della gioia della vittoria e delle inevitabili retoriche restavano i problemi di sempre, anzi peggiorarono a Novoli come altrove dove le donne oltre ad accudire i figli e gli anziani tanto avevano supplito alla carenza di braccia lavorando nei campi e altrove. In coincidenza della fine della guerra anche a Novoli giunse una tremenda epidemia,
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Cfr., M De Marco, Libri, stampa tipografica e l’arte della legatoria a Lecce. Il legatore Vito Fiorino De Marco, Novoli 2011, pp. 36 segg.
la “Spagnola”, che falcidiò tanta gente. Morì giovanissima la mia nonna paterna Lucia Buttazzo di Nardò, lasciando orfani i due figlioletti, Mario e Vito Fiorino, quest’ultimo mio padre di appena un anno, a cui poco dopo sarebbe venuto a mancare il genitore, Angelo, di Squinzano, per i postumi dei gas asfissianti nelle trincee all’altopiano di Asiago. Il mio povero papà, dapprima accolto da una zia materna, Maria, fu poi adottato di fatto da un santuomo novolese, Giuseppe Mazzotta, cuoco presso il locale Convento dei PP. Passionisti, e dello zu Ciseppu (zio Giuseppe), così affettuosamente lo chiamava, sposò la nipote Rita, nata a Carmiano, mia madre, figlia del novolese Angelo Mazzotta e della nobildonna Enrica Montefusco di Carmiano. Mio padre ebbe residenza a Novoli, e qui ricevette l’amore e l’assistenza di due altri fratelli dello zio Giuseppe, Salvatore (lu zu Tore) e Costantina, che mi volle bene come ad un figlio6 .
Scusate questa digressione, ma non ne potevo fare a meno. Il rientro dei combattenti fu quello delle promesse mancate, della crisi agraria. Chi ritornò dall’inferno della guerra si rassegnò a vivere con l’atavica rassegnazione o fremeva con la rabbia impotente nel cuore, per le ingiustizie sociali, per un lavoro a giornata nei campi, sempre incerto, sempre scarsamente remunerato, conteso e sfruttato, angariato dalla piaga del caporalato. Lavoravano fino ad ammazzarsi di fatica uomini, donne e bambini, cresceva il proletariato, chi non si rassegnava al destino emigrava e pur oggi continua ad emigrare.
A Novoli, anche per la polverizzazione dei poderi agricoli, molti addetti al settore primario, anche per la disoccupazione sin dai primi del Novecento cominciarono ad abbandonare le campagne riversandosi in altre attività, soprattutto quella del commercio dei tessuti, tramontata pure questa ai giorni nostri. Indifferente alla situazione la locale borghesia e le civiche amministrazioni che si sono succedute.
A proposito te li marcanti Dino Levante ha opportunamente osservato che questi venditori di corredi e di biancheria nelle varie regioni d’Italia “provenienti da ceti contadini e non avendo conservato la cultura contadina del loro padri, avevano rinnegato le loro origini non creando, però, un’alternativa costruttiva adeguata. È mancata la forza di coesione, il mettere in discussione il proprio individualismo, l’orgoglio e le ataviche remore personalistiche. I pochi casi di esperienze associative sono ben presto falliti lasciando nel più completo abbandono le nuove generazioni che hanno ricominciato, come i loro padri, questa forma di commercio senza, purtroppo,
6 Cit. da D. Levante, Cosa tenere della storia degli ultimi cento anni di Novoli, in “Le fasciddre te la focara”, XXXVIII, 17 gennaio 2000, pp. 2-3.
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avere una cultura finanziaria ed economica alle spalle”. Al fenomeno te li marcanti, nota ancora il Levante, è intimamente connesso quella della cambiale, “perché l’importanza che essa ha avuto, specialmente negli anni del secondo dopoguerra, è determinante per la storia di Novoli. È stato, infatti, con essa che i commercianti, li marcanti, hanno costruito il loro successo purtroppo poi non ridistribuito, senza cioè ricaduta sul resto della collettività. Il fenomeno della cambiale di espresse essenzialmente negli anni ’50 e per tutti gli anni ’60 e questo “pagherò” nel gergo popolare assume le denominazioni di farfalla e di pumeta, ossia cometa, aquilone”7 .
Un’industria di distillazione a Novoli
Paese celebrato per la sua vitivinicoltura, oggi ahimé in crisi irreversibile per la carenza di contadini e per l’estirpazione dei vigneti, Novoli sin dai primi anni del secolo scorso, dopo la grande guerra, espresse un geniale e coraggioso concittadino, Giacomo De Luca, che pensò di realizzare nel paese la raccolta ed il commercio dei sottoprodotti della vinificazione da distillare e, quindi, per produrre alcool.
Dapprima in una piccola corte nei pressi della chiesa di S. Antonio e dal 1935 nella via Trepuzzi, al n. 35, il De Luca nella sua azienda lavorò le vinacce ricavandone alcool, ma la distilleria prese impulso nel secondo dopo guerra, tra il 1954-55, dotandosi via via di più moderne attrezzature ed esportando ovunque, in loco, in Italia e all’estero il distillato, necessario per la fabbricazione dei liquori e altro.
Il monumento ai Caduti
Novoli non dimenticò i suoi Caduti, alcuni decorati per il loro valore con medaglie di bronzo (8), d’argento (5), e con una Croce di guerra. Le celebrazioni in ricordo dei Caduti di Novoli si susseguirono, ma resta memorabile quella che si svolse il 26 dicembre 1924, allorché furono benedette le due campane della chiesa di S. Antonio, realizzate col bronzo di due mortai. Della cerimonia ne dette ampia testimonianza il giornale L’Ordine del 9 gennaio 1925, cronaca rintracciata dal Piergiuseppe De Matteis e che appresso riportiamo:
7 In P. De Matteis, Tutti presenti etc., op. cit., pp. 91-94.
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«Novoli,
30 dicembre 1924
La nostra cittadina con una celebrazione degna delle sue nobili tradizioni di fede e patriottismo ha voluto commemorare il giorno 28 dicembre u.s. i suoi 102 eroi caduti in guerra.
Con nobile e gentile pensiero si era stabilito che il giorno dell’inaugurazione delle lapidi commemorative si benedicessero anche due campane monumentali fuse col bronzo nemico concesso dal Ministero della Guerra per il Santuario di Sant’Antonio Abate patrono della città, e l’iniziativa non poteva essere più bella.
Si aprì la cerimonia con la S. Messa celebrata in suffragio dei Caduti dal Sac. Dott. Oronzo Madaro fratello di uno dei caduti, alla quale presero parte le madri, le vedove e gli orfani di guerra: prima della Comunione cui parteciparono più migliaia di concittadini lo stesso prof. Madaro pronunziò un magnifico fervorino di circostanza.
Seguì poscia la sfilata dell’imponente corteo tra due ali fittissime di popolo riverente e commosso.
Vi parteciparono il Municipio di Novoli, un veterano delle patrie battaglie sig. Luigi Ruggio insignito di decorazioni speciali per merito di guerra e per la sua eroica attività durante il colera; la Sezione combattenti e Mutilati, la Società di Mutuo Soccorso, l’Unione Operaia, il Direttorio Del Fascio e la Milizia, il Circolo Democratico “P. Verri”, la Società Cattolica, il Circolo Giovanile Cattolico, la Procura di Sant’Antonio Abate, tutte di Novoli con bandiera, l’on. Carlo Fumarola, il generale Sequi, il dott. Giuseppe Capozza da Casarano Presidente della Federazione Provinciale Combattenti, il cav. Sabatino presidente Associazione Mutilati di Lecce, il sig. Rocco Chillino di Lecce, il dott. Salvatore Buccarelli Presidente Sezione Combattenti di Lecce con larga rappresentanza di soci e bandiera, il capitano dei bersaglieri sig. Nicola Antonacci, il prof. Gava Presidente Sezione di Combattenti di Nardò con rappresentanza e bandiera, il sig. Attilio Campo Presidente Sezione Combattenti di Campi con rappresentanza e bandiera, i sig. rag. Giovani Ponzio, ing. Calabrese, avv. Bianco, dott. Calabrese, Francesco Del Prete, avv. Arcangelo Trevisi tutti di Campi, il sig. Laterza Presidente Sezione Combattenti di Salice con rappresentanza e bandiera, il sig. Angelo Simone Presidente Sezione Mutilati di Campi con rappresentanza e bandiera, il sig. Andresani Presidente Sezione Combattenti di Squinzano con rappresentanza e bandiera, la R. Direttrice Didattica di Novoli col Corpo Insegnante.
Il lungo ed ordinato corteo preceduto da magnifiche corone di fiori freschi e dalle bande di Carmiano e dell’Istituto Salesiano degli orfani di guerra di Corigliano d’Otranto, sotto la guida dei cerimonieri avv. Antonio Mazzotta e dott. Tobia Donno si snodò per oltre due ore per le vie principali della città pavesata di bandiere tricolori e fra il tintinnio allegro delle campane delle varie Chiese. Giunto il
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corteo sul piazzale della chiesa di Sant’Antonio il Rev.mo Parroco della Cattedrale di Lecce, Can. D. Francesco Petronelli, alla presenza di S. E. Rev.mo Mons. Gennaro Trama Vescovo di Lecce, dei Canonici D. Luigi Paladini, penitenziere della Cattedrale e D. Pasquale Micelli, Parroco di San Giovani Battista, dei Rev.mo Monsignori D. Francesco Greco e D. Oronzo Madaro e di tutto il Clero locale celebrava la S. Messa per i caduti su di un altare eretto nel centro della Chiesa a vista della autorità e del popolo Immenso; durante la celebrazione la banda degli orfani di guerra eseguiva vari inni patriottici.
Quindi su di un palco appositamente eretto, dove avevano preso posto tutte le autorità intervenute, l’avv. Arcangelo Trevisi presentato con belle parole dal Presidente della locale Sezione Combattenti sig. Giuseppe Tortelli, pronunziò una meravigliosa orazione che fu un inno alla Religione e alla Patria. L’avv. Leccisi, il cui discorso avremmo voluto riportare per intero fu salutato da un interminabile applauso».
Dopo il discorso ufficiale ebbe luogo la solenne benedizione delle due campane fatta da Sua Ecc. il vescovo mons. Gennaro Trama assistito dai canonici della Cattedrale8. Con l’occasione vennero scoperte, nella chiesa di S. Antonio Abate, appena si entra a destra, le due lastre marmoree ove sono elencati i Caduti novolesi nella Grande Guerra. Ecco i loro nomi e gradi: sold. Agrimi Luigi Salv. sold.. Agrimi Vincenzo sold. Cantore Sabato sold. Cantore Salvatore sold. Cardelli Antonio capor. Carlino Antonio sold. Carlino Pietro sold. Carlino Pompeo sold. Carozzo Vincenzo capor. Centonze Antonio sold. Centonze Giovanni sold. Centonze Giuseppe sold. Cosma Luigi sold. Cosma Pasquale sold. Cosma Vito sold. Croce Antonio sold Curto Giuseppe sold. Damiano Giusto sold. D’Elia Antonio sold. De Luca Costantino sold. De Luca Davide sold. De Luca Giuseppe sold. De Luca Paolino sold. De Luca Pasquale sold. De Luca Salvatore sold. De Matteis Franco sold. De Matteis Oronzo sold. De Paolis Antonio sold. De Pascalis Alfredo sold. De Pascalis Angelo capor. De Pascalis Oronzo sold. De Tommasi Oronzo sold. Epifani Donato sold. Filieri Arturo sold. Fina Angelo sold. Fiorato Armando sold. Franco Fiorentino tenente Greco Adolfo sold. Greco Antonio sold. Greco Francesco sergente Guerrieri Salvati sold. Indurli Fedele sold. Invidia Tommaso sold. Ippolito Cosimo tenente Ippolito Giuseppe cap. magg. Levante Salvi cap. magg. Ma-
8 Brevi notizie biografiche, luogo di morte e tante fotografie dei Caduti novolesi nella guerra 19151918, sono riportati da Id., pp. 37-72. L’autore riporta altrettanto l’elenco dei 10 invalidi e mutilati, pp. 7375, nonché l’elenco dei nominativi che è riuscito a reperire degli insigniti dell’Ordine di Vittorio Veneto, pp. 100-101, nonché ancora di quanti ha saputo internati nei campi di prigionia, pp. 77-90. Da quest’ultimo elenco manca tra gli altri mio zio Mario Antonio De Marco, tenuto prigioniero dagli Inglesi in Etiopia.
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Novoli: piazza Regina Margherita, vecchio monumento ai caduti.
daro Filippo sergente Mancino Santo capor. Martina Pompilio sold Mazzotta Antonio sold. Mazzotta Cosimo capor. Mazzotta Franco sold. Metrangolo Pasquale sold. Metrangolo Salvatore sold. Milli Giovanni carabin. Nerini Angelo cap. magg. Palomba Franco sold. Parlangeli Antonio capor. Parlangeli Cosimo sold. Parlangeli Gio. fu An. sold. Parlangeli Gio. fu Fr. sold. Parlangeli Giuseppe sold. Pellegrino Salvatore sold. Perrone Raffaele sold. Piccinno Salvatore sold. Pino Vito capor. Pogliani Edoardo sold. Prato Antonio sold. Quarta Oronzo capor. Quarta Santo sergente Ricciato Cosimo sold. Ricciato Giuseppe sold. Rizzo Giovanni sold. Romano Antonio sold. Rucco Biagio capor. Rucco Cosimo sold. Ruggio Giosaat sold. Scevola Antonio sold. Scolozzi Francesco sold. Solazzo Antonio sold. Solazzo Salvatore sold. Spada Giovanni sold. Spagnolo Antonio sold. Spagnolo Domenico sold. Spagnolo Salvatore sold. Spagnolo Vito sold. Tafuro Giacinto sold. Tarantini Pompeo sold. Teni Cosimo sold. Trevisi Angelo sold. Trevisi Giuseppe sold. Verrienti Giuseppe sold. Vetrugno Biagio sold. Vetrugno Costantino sold. Vetrugno Giovanni sold. Vetrugno Pietro sold. Zecca Antonio sold. Zecca Donato9 .
9 Cfr., A. Mangelli, La vita il Teatro etc., op. cit., pp. 83-147.
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Poi Novoli ebbe il suo monumento ai Caduti nella Grande Guerra, inaugurato il 4 novembre 1945, che fu collocato nella Piazza Regina Margherita, addossato al muro dello stabile che un tempo ospitò le Carceri e, affianco, il mercato del pesce, così come si vede in una fotografia d’epoca. Passarono gli anni e il paese mancava di un monumento ai Caduti degno di questo nome. Indi, finalmente, si decise di costruirne uno nuovo, così avvenne per iniziativa della locale Associazione Combattenti e Reduci che non disponendo di tutto il denaro necessario indisse una colletta e così la nuova struttura, sempre nella Piazza Regina Margherita, questa volta però a pochi passi dal Teatro Comunale, fu inaugurata il 7 novembre 1982. Per l’occasione, presenti le autorità cittadine ed un folto pubblico, furono consegnati i diplomi ai Cavalieri di Vittorio Veneto e il discorso commemorativo fu tenuto dal Grande Ufficiale Lucio Tuccari, Vice Presidente della Federazione Combattenti e Reduci di Terra d’Otranto.
Il nuovo monumento ai Caduti, dedicato però ai novolesi periti nel corso delle due guerre mondiali, era costituito da un basamento sul quale si innalzava una composizione marmorea di due figure, una delle quali, in piedi, potrebbe essere un militare o un partigiano. Essa regge con la mano destra la bandiera, mentre con la sinistra sostiene un caduto seminudo e inginocchiato, con il capo reclinato a destra. Nulla di artistico in questa composizione marmorea, alta all’incirca un metro e mezzo, che con il suo basamento fu rimossa nel 2007 in attesa di una nuova collocazione. Tale composizione venne acquistata dalla Ditta Lodovico Bertoni e Figli di Pietrasanta (Lucca), e a me pare che sia stata prodotta in serie. Finalmente il 16 giugno 2016 il nuovo monumento ai Caduti fu inaugurato nella piazza Stazione Ferroviaria, al centro di essa, in un rondò ad aiola, in mezzo al quale su di un rozzo basamento in pietra e cemento alto circa un metro e mezzo e di forma quadrangolare, è collocato il gruppo marmoreo. Polemicamente affermo che i Caduti novolesi avrebbero meritato di più.
Ritornando ora a qualche riflessione retrospettiva annotiamo che la situazione socio-economica e culturale di Novoli nell’anteguerra non era poi tanto malvagia, anche se restano irrisolti i soliti problemi di sempre. Giungevano nel paese tante compagnie teatrali e, un certo benessere economico ne consentiva l’ingaggio contando sulla frequenza degli spettacoli teatrali. I nostri vini e gli oli riscuotevano in tutta Italia prestigiosi premi e riconoscimenti. Nel 1910 si costituì una Società Cooperativa con la denominazione di Cassa Rurale e Prestiti. Due anni dopo il commerciante Francesco Chirizzi realizzò un grande stabilimento vinicolo con macchinari d’avanguardia. Nel 1914 la Ditta Gioele Manca e Figli inaugurò uno stabilimento per la
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produzione di mattoni in cemento, nonché di costruzioni edilizie in cemento armato. Da due anni funzionavano le scuole serali per combattere la piaga dell’analfabetismo degli adulti, ma le persone istruite si attivavano nelle attività culturali, come il Circolo Filodrammatico sorto nel 1910, il Circolo Democratico, il Circolo Pietro Verri e il Circolo Giovanni Pascoli.
Poi, con la guerra, l’interruzione di quasi tutte le attività che per la più parte scomparvero, e mentre gli uomini erano al fronte, donne, vecchi e bambini dovevano pensare a se stessi, tutti dovevano lavorare e stare nei campi per trarre sostentamento e per non trascurare le colture. Con la fine della guerra, nonostante tanti lutti e miserie, ritornò tuttavia la voglia di vivere, e a Novoli nel 1919 riprese l’attività del Circolo Filodrammatico e del Teatro, e mano a mano giunsero nel paese compagnie teatrali di prestigio che si alternarono sino all’inizio del secondo conflitto mondiale10 .
Tra il 1913 e il 1921 la popolazione novolese raggiunse circa le 6.700 unità, quasi 6.730 dieci anni dopo. In questi primi anni del Novecento quasi tutte le case, la stragrande maggioranza a pian terreno, ha il tetto in pietra, migliora l’arredamento domestico, i costumi si evolvono, migliorano in qualche modo l’alimentazione, la sanità e l’istruzione. Sempre tra tanta penuria finanziaria il Comune cerca di razionalizzare l’aspetto urbanistico e nel 1921 progettò il macello che, realizzato dall’ing. Serafino Busi, fu completato nel mese di maggio di due anni dopo e venne a costare 26.722 lire, compreso il costo del terreno per il quale si spesero 1.500 lire11.
Il Fascismo
L’esito vittorioso della prima guerra mondiale, deluse le aspettative delle classi meno abbienti che tanto avevano sperato nell’attuazione delle promesse tese ad instaurare in Italia la giustizia sociale. Com’è noto, all’indomani della grande guerra tutta la penisola fu attraversata da fenomeni e conflitti che opponevano la ricca ed arrogante borghesia ai diseredati, ai contadini e agli operai. La vita di trincea aveva prodotto, tra l’altro, la circolazione delle idee, tra i soldati maturarono consapevolezze sulla propria condizione e, poi, non dimentichiamo che la Rivoluzione d’ottobre in tante parti d’Europa generò ben presto organizzazioni politiche di sinistra pronte ad emulare quanto era accaduto in Russia.
10 A. C. N., Delibera Consiliare del 15 maggio 1923.
11 Cfr., O. Mazzotta, Novoli 186-1931, op. cit., pp. 49-50.
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In Italia sorse il partito comunista, nel clima arroventato del dopoguerra si enucleò anche un’altra formazione rivoluzionaria che paradossalmente si configurò prima di sinistra e, poi, di chiara natura conservatrice e reazionaria. Dagli ideali sansepolcristi si giunse subito al fascismo espressione degli interessi capitalistici, agrari e dei ceti medi. Nel centronord della penisola scorrazzavano le squadracce e i loro ras. La violenza fu meno cruenta nel meridione ove mancava una tradizione politica e intellettuale idonea o a contrapporsi al fascismo o a recepirlo criticamente.
La retorica del Regime non lesinò promesse e illusioni, la figura carismatica del Duce rassicurava i cattolici, i proprietari e quanti temevano il pericolo rosso. Mussolini veniva accreditato come potente e quasi taumaturgo dalla martellante propaganda. Soprattutto le genti meridionali elaborarono il bisogno della figura del padre-padrone, delegandogli ogni potere, ma anche ogni responsabilità. Da ciò emerse la disposizione per l’accettazione del fascismo corroborata dall’atavico costume conformistico, opportunistico, da calcoli e paure che denunciavano, però, la carenza di coscienza politica e sociale.
Novoli, tra il primo conflitto mondiale e il periodo fascista, oltre ai caduti, ai mutilati e agli invalidi, subì il flagello della “spagnola”, molti suoi figli erano emigrati soprattutto nelle Americhe e chi restò, eccezion fatta per le poche famiglie notabili, dovette sudare sangue per coltivare il proprio fazzoletto di terra o per sbarcare in lunario mendicando qualche giornata lavorativa nei campi.
Tante le famiglie numerose e misere, tanti gli stenti. Ci fu chi, more solito, salì sul carro del vincitore traendone benefici. Altri si pavoneggiavano nel ruolo di ducetti di paese, la gente sfilava, marciava, vestiva le uniformi del regime e, ovviamente, pure l’ignara infanzia veniva vestita da figlio della lupa, da balilla, da avanguardista e poi da giovane fascista. Pochi dissentirono apertamente al regime, alcuni scelsero il ruolo infame del delatore e il clero, quando non aderì con convinzione alle idee del Duce, prudentemente tacque e non ritenne di esporsi.
L’amico Mario Rossi, noto cultore delle memorie patrie, ha reperito una lettera inviata al Duce da una giovane novolese che tra fantasie e velleità denunciava però l’amara condizione sociale del paese e, in particolare, delle donne del luogo. Il manoscritto è assai eloquente ed evidenzia, purtroppo, quella filosofia della “raccomandazione” ancora dura a morire. Mio padre raccontava che un poveraccio di Novoli, disoccupato e con numerosa prole, confidando nella benevolenza di Mussolini, aveva deciso di recarsi a Roma in bicicletta per ottenere soltanto un lavoro. Costui non giunse mai nella
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capitale né fece ritorno a Novoli. Chissà come edove si era perduto e, verosimilmente, aveva concluso i suoi giorni. Si narra poi, ma ciò lo riferiamo col beneficio dell’inventario, che Mussolini sia giunto segretamente a Novoli o in qualche residenza dell’agno del paese. Si dice pure che Achille Starace procurasse proprio a Novoli la primizie della campagna da spedire al Duce, il quale pare fosse ghiotto delle mile nosce. Fantasie a parte, i Novolesi durante il fascismo non migliorarono la propria condizione sociale. Nel paese, all’indomani della Grande Guerra giunse l’energia elettrica, poi l’acquedotto pugliese (1925) e finalmente, durante il regime venne realizzato l’edificio scolastico, dotato di un’attrezzata palestra.
All’indomani del secondo conflitto mondiale, che registrò la scomparsa di 76 cittadini, tra caduti e dispersi, i novolesi a grande maggioranza votarono per la monarchia, poi si dettero amministrazioni democristiane che non seppero, come quelle che le seguirono, promuovere lo sviluppo sociale del paese che ancora vive in un disastroso torpore, in un’autolesionistica inerzia alimentata essenzialmente dall’individualismo e dalla preoccupazione di apparire anziché essere.
Certo anche a Novoli non mancarono i fanatici, ma complessivamente, per atavico costume la gente restò indifferente anche se all’apparenza si impegnava, ma era costretta a farlo, in tutte le organizzazioni e manifestazioni che voleva il Regime, dalla scuola ai circoli e alle categorie professionali. Nel paese non mancò qualche infame, spia della polizia politica, e di costoro non ne cito il nome non considerandoli novolesi. So che qualcuno di questi, ben conosciuto dagli anziani, pensò bene di andarsene dal paese trasferendosi in altri luoghi al fine di scongiurare inevitabili vendette.
Con il Fascismo, com’è noto, vennero esautorati i Consigli Comunali, l’ultimo dei quali si tenne a Novoli il 25 marzo 1926, sindaco Pietro Tarantini, mentre la Giunta si riunì per l’ultima volta il 20 marzo 1927. Indi subentrò il Podestà Vincenzo Sequi, generale in pensione, che ereditò un Comune in dissesto, carico di problemi vecchi e nuovi, con la gente spremuta da tasse e balzetti e in perenne malcontento. Ma il podestà Sequi non si preoccupò più di tanto, a Novoli era pressoché assente ed ecco perché, anche, nel paese nel 1931 scoppiò una pericolosa “rivoluzione”, che tuttavia non fu di natura politica, ossia antifascista, ma contro gli amministratori civici, essenzialmente contro il segretario comunale Antonio Galati e, in subordine, contro il Podestà Sequi, in un certo senso capri espiatori di un’amministrazione cialtrona e corrotta.
Come noto il Fascismo dette particolare attenzione al settore agricolo che volle modernizzare sviluppando l’irrigazione e creando delle borgate, al
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fine di migliorare i terreni e le colture. Erano i tempi della “battaglia del grano”, il Regime mirava all’autarchia e, a onor del vero ci riuscì. A proposito delle opere di miglioramento agrario nel territorio di Novoli-Villa Convento, Michele Mainardi tra l’altro così scrive: <<Il feudo di Novoli (col confinante di Convento) fu, in parte, coinvolto dalle azioni sussidiate di miglioria fondiaria. Le carte d’archivio ci parlano di tre domande accolte per aiuti nella fabbricazione di dimore coloniche e di una richiesta, anch’essa accettata, di piano per l’irrigazione.
In data 30 gennaio 1929, Tommaso Cazzatello presentò istanza, a mezzo della Cattedra ambulante di Agricoltura di Lecce, diretta ad ottenere il premio per la costruzione di due case in un fondo di sua proprietà denominato “Pezzo della Masseria Convento”. L’obbiettivo dichiarato era quello di voler operare la trasformazione del seminativo roccioso in frutteto consociato a vigneto ed ortaggi. Gli edifici colonici avrebbero assunto la seguente configurazione planimetrica: un ingresso, un granaio, una camera da letto, cucina e ritirata, stalla e rimessa (con copertura a terrazza, esclusi i locali per ricovero degli animali, che furono progettati con tetto con travature in legno e tegole marsigliesi). Il contributo dello Stato fu poi erogato (in base anche alla “legge Mussolini del 24 dicembre 1928, n. 1334) perché le opere rispondevano ai dettami della bonifica integrale, che agevolava l’intensivazione colturale. Lo stesso beneficiario pensò bene di riproporre (il 13 dicembre 1930) domanda per ricerca d’acqua in una contermine sua unità fondiaria. Si voleva così sussidiare lo scavo di un pozzo ordinario (sino alla profondità di 33 metri) per permettere l’irrigazione di poco più di 7 ettari di terreno (sempre in località “Convento”) da condurre a tabacco e piante ortensi, con vigna associata. Il proprietario leccese vide, in tal maniera, coronato il suo sogno di redenzione agraria. Coi soldi governativi riuscì anche a completare la imprescindibile struttura idraulica, che venne coronata con parapetti in pietra e colonne per il sostegno della carrucola e acconcio serbatoio. Un’altra premialità governativa ristorò, a tre anni dalla richiesta, il possessore novolese Giovanni De Pascalis che, il 24 febbraio 1929, produsse la sua brava documentazione per ottenere il contributo per l’erezione di una casa rurale composta di androne-rimessa, cucina e accessori e tre camere (ma due vennero espunte dall’Ufficio istruente in quanto ritenute esuberanti rispetto all’estensione del fondo). Nell’area denominata “Cornola” e “Tagliate”, nella chiusura a suolo prevalentemente calcareo, si tentò, allora, una policoltura ad uliveto consociato a vigneto, con tratti a tabacco e frutteto. Per mezzo di opere di dissodamento l’irrigazione già in essere consentì la redenzione agraria della porzione in oggetto, che, con l’abitazione per il
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colono (progettata dall’ingegnere Domenico Marrazzi), si dispose ad incrementare vieppiù le rese per ettaro.
Il decreto dell’Ispettorato Regionale per l’Agricoltura della Puglia (con sede in Bari), il 5 aprile 1932 accolse l’istanza dell’intraprendente proprietario, che si vide ridurre il contributo assegnato nella misura di lire 5000. Ma tanto bastò per porre lo stesso inizio a lavori di elevazione del fabbricato attesissimo. Col 20% della somma occorrente erogata, lo Stato dirigista contribuì a coronare la pianificazione agraria così a lungo tenuta a bagnomaria. La quarta domanda di sussidio nella spesa per l’esecuzione di opere di miglioramento fondiario nelle campagne novolesi ebbe come firmatarie le signore Clementina, Anna e Maria Martello (residenti in Lecce). Le tre sorelle, il 21 luglio 1935, inoltrarono l’incartamento al Ministero dell’Agricoltura per avere i benefici di legge (ai sensi del regio decreto 13 febbraio 1933, n. 215) per la costruzione di un fabbricato per abitazione colonica, dotato di stalla, locale per attrezzi agricoli, concimaia e deposito prodotti. Ma l’intento delle proprietarie del fondo di località “li Mancini” era più ambizioso. Si intendeva sopraelevare l’edificio rurale già in essere con due locali per mezzo di scala d’accesso.
Ciò avrebbe permesso al personale incaricato della sorveglianza e direzione dei lavori di risiedere comodamente.
L’Ufficio del Genio Civile di Lecce esaminò il tutto in linea tecnica e nulla trovò da obiettare nel merito. Venne ridefinito l’importo del progetto e lo si sussidiò nella percentuale del 25%, su una spesa complessiva sopportata di 70.000. Il 18 ottobre 1937 l’atto di collaudo mise la firma alla bella realizzazione portata avanti con il soccorso dei fondi governativi benemeriti. Fu così che le precauzioni del vigile ingegnere-dirigente, al tempo dell’istruzione della pratica (10 marzo 1936), trovarono la loro giusta applicazione, senza oneri aggiuntivi (e impropri) per lo Stato attento esaminatore.
La relazione tecnica del responsabile dell’Ispettorato Agrario Compartimentale di Bari conteneva il parere sull’attendibilità del preventivo: «… tenendo presente che, dovendosi, per Superiori disposizioni, adottare il sistema della liquidazione a misura, è necessario che gli eventuali aggiornamenti di importo sieno fatti in relazione ai prezzi unitari adottati e non globalmente»12.
12 Cit. da M. Mainardi, Bonifica integrale in età fascista a Novoli e villa Convento, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVIII, 17 luglio 1911, pp. 30-31.
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Le proteste contadine tra il 1919 e il 1933
All’indomani della prima guerra mondiale in molte parti d’Italia, ma soprattutto al Sud, scoppiarono numerose rivolte contadine, causa la miseria e le promesse mancate da parte del Governo che, per incitare i soldati, dopo la rotta di Caporetto, aveva promesso la riforma agraria che doveva comprendere, tra l’altro, l’assegnazione delle terre incolte o insufficientemente coltivate da parte degli agrari. Nel settore agricolo i salari dei braccianti erano da fame e i piccoli coltivatori diretti erano oberati dalle tasse. In quel tempo anche in Italia aleggiava l’eco della rivoluzione comunista attuatasi in Russia, e non poche furono le formazioni social-comuniste che anelavano, armate, la rivoluzione poiché da parte sua lo Stato fu sordo ad ogni richiesta e l’incipiente Fascismo subito si dimostrò solidale con gli industriali e con gli agrari, che poco o nulla concessero ai lavoratori delle campagne, e cioè i contratti collettivi, il blocco dei fitti, la mezzadria e qualche terra incolta, provvedimenti che però ben presto in larga parte revocarono, spegnendo ogni protesta con le squadracce fasciste e con la forza pubblica che, spesso, faceva finta di non vedere.
Promesse mancate, generale miseria nella campagna, nonché i colpi di coda della fillossera e annate di scarso raccolto soprattutto nel settore viticolo, come quella del 1927, anche a Novoli peggiorarono la situazione, e tutti dovettero subire il fenomeno della deflazione. E proprio in quegli anni nel paese si cercava di diversificare la produzione vitivinicola, equilibrando la produzione di vino da taglio con quella di vini da pasto. Di fronte alle tante difficoltà del settore lo Stato si limitò soltanto ad abolire l’imposta sul vino nel settembre 1924, istituita cinque anni prima.
Il clima era rovente dappertutto e a Novoli il 12 febbraio 1931 scoppiò lo sciopero detto te la sciutìa carseddhra, ossia del giovedì grasso, causato principalmente oltre che dagli annosi problemi del settore agricolo anche dall’imminente scadenza delle tasse sul valore locativo e dell’utenza stradale. Ma la protesta aveva pure altre motivazioni addebitabili, non sappiamo vere fino a che punto, all’Amministrazione Comunale. Nel 1931 era Podestà di Novoli il Generale Sequi, di Lecce, e svolgeva le funzioni di segretario comunale Antonio Galati, il quale, si diceva, aveva il vizio del gioco e costui, per far fronte ai propri debiti, gravava di tasse i Novolesi che per due anni di seguito avevano avuto disastrosi raccolti. Così si diceva, così si insinuava, comunque quasi 2.000 novolesi si rivoltarono il 12 febbraio del 1913, si radunarono in Piazza Municipio gridando ostilmente contro il podestà e il segretario comunale, ma inneggiando contemporaneamente al Re e al Duce.
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Vinta la resistenza di tre Carabinieri e di due guardie civiche, invasero e devastarono l’esattoria ed il municipio, mentre un gruppo si dava da fare per cercare il Galati, il quale rocambolescamente riuscì a scappare. Nonostante l’interruzione delle linee telefoniche ben presto giunsero da Lecce e dai paesi vicini contingenti di Carabinieri che riuscirono a frenare la folla inferocita, la quale gridava morte per l’odiato segretario comunale. L’ordine pubblico venne ristabilito senza colpo ferire, ma oltre cinquanta novolesi vennero arrestati; la sentenza del Tribunale di Lecce, del 31 marzo 1931, riconobbe che il moto popolare era stato determinato dal malcontento suscitato dal Galati e che non era stato motivato da alcuna protesta contro il Fascismo. Gli arrestati furono condannati, perciò, a lievi pene, ma una considerazione emerge spontanea di fronte all’avvenimento. In un periodo così repressivo di ogni protesta popolare, che a Novoli aveva fatto cambiare il nome della Società Operaia in “Dopolavoro”, i Novolesi ebbero il coraggio di ribellarsi, sia pure senza alcuna motivazione politica, ad una ingiustizia perpetrata da chi si sentiva forte grazie al timore instaurato dal Regime13 .
A Novoli, come altrove, la disoccupazione bracciantile era arrivata alle stelle per i problemi stagionali, per le intemperie allorché non si lavorava, la miseria imperversava, l’esasperazione anche nel nostro paese era insostenibile, e quei contadini che cercavano di occupare le terre incolte o insufficientemente coltivate venivano respinti dai Carabinieri, come nel caso del settembre 1931 allorché alcuni braccianti novolesi tentarono di occupare le terre del Conte Balsamo.
L’anno successivo, il 2 aprile 1932, l’Esattoria comunale di Novoli ingiunse il pagamento di tasse arretrate relative ai bienni 1928-1929 e 1931-1932, pagabili in cinque rate di cui la prima scadeva il 10 aprile. Nuovamente gli animi si accesero, ma il Podestà Luigi Briganti riuscì a portare la calma promettendo che per alleviare la disoccupazione avrebbe sollecitato le Ferrovie Sud Est ad iniziare i lavori progettati per la stazione di Novoli, ma ciò non avvenne. Nell’inverno successivo la situazione nuovamente divenne incandescente per la crisi del settore vinicolo, per cui il 2 ottobre1933 i contadini novolesi protestarono perché i grossisti del luogo si rifiutarono di acquistare l’uva, mettendo in pratica la strategia, che ahimè ancora dura, di prender tempo perché in tal modo sarebbe crollato il prezzo del prodotto. I contadini chiesero la requisizione degli stabilimenti dei vinificatori per ammassare
13 Cit. da A. Pellegrino, Organizzazioni e movimenti contadini a Novoli degli anni Venti alla fine degli anni Trenta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XI, 18 luglio 2004, pp. 36-37; cfr., D. Levante, Novoli: 12 febbraio 1931. La manifestazione ostile, Lecce 1981.
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le uve e a tal punto giunse a Novoli il Cav. Luceri, Presidente dei Consorzi riuscendo a riportare la calma, ma nonostante il conferimento dell’uva in grande quantità, poiché la raccolta era stata alquanto ricca, il prodotto fu pagato miseramente.
“La politica di sostegno dei prezzi dei prodotti cerealicoli, realizzata con la creazione degli ammassi obbligatori nel 1936 (battaglia del grano) e la fissazione di un prezzo relativamente alto, produsse effetti sperequativi a vantaggio delle aziende capitalistiche favorite anche dal blocco dei fitti. Si venne a creare una situazione di privilegio per gli strati più elevati, di minore vantaggio per gli strati intermedi e decisamente negativa per la fascia inferiore: piccoli proprietari, coloni, mezzadri e braccianti. E appunto sulla fascia della piccola proprietà che gli affetti dell’autarchia si rivelarono particolarmente pesanti. Nessun beneficio trasse questa ultima categoria dall’istituzione degli ammassi e dai prezzi vantaggiosi stabiliti, perché la produzione ottenuta non andava al mercato, ma serviva per il sostentamento della propria famiglia. La piccola e piccolissima proprietà venne via via espulsa dal mercato e relegata nell’ambito dell’autoconsumo”.
Novoli in un Almanacco del 1933
Interrompiamo ora la narrazione delle vicende socio-politiche del Ventennio per riportare le notizie contenute da un Almanacco del 1933, ove si trova un quadro delle attività esercitate dai Novolesi, attività da cui sono esclusi i contadini, i disoccupati, etc. Ecco cosa si legge sul testo in parola:
NOVOLI
Abitanti: N. 7457
Altitudine: m. 37
Superficie: ha. 176. Dista dal capoluogo Lecce km. 11. Caratteristica della zona: È situato alle falde degli appennini, il suo territorio fertile produce in grande quantità vini ed oli, è curata anche la coltivazione del tabacco orientale di cui il paese ne fa grande smercio.
Fiere e mercati: Il 17 gennaio, terza domenica di luglio (bestiame, derrate varie).
Telegrafo: Telegrafo: aperto dalle 8-12 e dalle 15-19.
Uffici pubblici: Podestà: Briganti cav. Luigi
Forze armate: Comando stazione RR. CC.-M. V. S. N. comando Manipolo.
P. N. F.: Segretario Politico: Senior Luigi Briganti.
Organizzazioni Sindacali: Sindacato Agricolo; Sindacato Agricoltura; Delegazione
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Commercianti Fascisti-Sezione Artigiani.
Associazioni patriottiche: Associazione Nazionale Combattenti; Associazione Famiglie dei Caduti in Guerra pro Dalmazia; Bersaglieri in Congedo.
Circoli: Circolo Didattico; Circolo Nuova Novoli; Circolo Cacciatori; Società Operaria di Mutuo Soccorso; Circolo P. Verri; Circolo Democratico; Circolo Cittadino; Circolo Sportivo.
Biblioteche: Biblioteca Comunale.
Istituzioni benefiche: Ospedale Civile; Monte per doti; Asilo Infantile; Congregazione di Carità.
Bande musicali: Concerto Bandistico Popolare.
Agronomi: Guerrieri Cosimo; Mazzotta Americo; Cosma Gino.
Architetti: Mazzotta Cino.
Avvocati: Mazzotta Antonio; Savino Nicola; Guerrieri Luigi; D’agostino Antonio; Marrazzi Michele; Galati Antonio.
Enologi: Donno Nicola; Martini Ferdinando; Poti Antonio; Scippa Vincenzo.
Farmacisti: De Luca Raffaele; Marzo Amedeo.
Geometri: Metrangolo Francesco; Murra N.
Ingegneri: Centonze Giuseppe; De Marco E.; Cinto Mazzotta; Busi Serafino.
Maestri di musica: Mazzotta Giuseppe; Mazzotta Francesco; Grego Gino.
Medici: Mazzotta Guglielmo; Mazzotta Pio; Cosma Antonio; Mazzotta Giuseppe; Ricciato Paolo; Cosma Raffaele; De Luca Francesco.
Ostetriche: Rodriquez Concettina; Sebaste Giuseppa; Biagio Evelina; Sebaste Virginia.
Notai: Russo Tommaso; Andrioli Ant.
Veterinari: Carmelo De Marco; Foscarini Gius.
Acetilene: Franchini Luigi; Metrangolo Raffaele; Chiarolla Eligio.
Abiti confezionati: Lega Luciano; Toscano Mario; Scardia Antonio; Magis Bonaventura; D’elia Giuseppe.
Acque gassate: Romano Donato.
Agenzie d’affari: Invidia Fernando; Madaro Luigi.
Agenti di assicurazioni: Galati Antonio.
Agenzie agricole: Consorzio Agrario.
Agenzie giornalistiche: Toscano Marco.
Agrumi: Mazzotti Luigi.
Alberghi e trattorie: Bianco Carmelo; Dell’Atti Annunziata; Miglietta Lucia; Rodriquez Concetta; Rizzi Cesare; Chirizzi Giuseppe.
Apicultori: Russo Francesco.
Armaiuoli: De Pascalis Federico; Franchini Antonio.
Articoli casalinghi: D’Elia A.; Cosma Edoardo; Guerrieri Cosimo; De Luca Luigi.
Articoli per fumatori: Tassaro Marco.
Articoli Tecnici: Guerrieri Cosimo; D’Elia Andrea.
Automobili: Martini Ferdinando; Marrazzi Arturo; Marrazzi Francesco; Colla Luigi; Chiarella Eligio.
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Banche: Cassa Agraria; Banca Agricola; Cassa Rurale di Prestiti; Consorzio Manduria.
Berrettifici: D’Elia Pompilio; De Pascalis F.; Aquino Gaspare.
Bottai: Greco Guglielmo
Caffè-Liquori: Metrangolo Raffaele; Palomba Raffaele; Toscano Mario; Bar Americano; Bar Vervalone.
Cave: Russo Francesco.
Cereali: Murra Giovanni; Cosma Domenico.
Chincaglierie: Aquino Consiglio.
Cinematografi: Metrangelo; Greco.
Coloniali: Toscano Donato; D’agostino Antonio; Marzetto Giovanni; Costantini Paolo; Rizzo Cesare Miglietta Palma; De Tommasi Francesco.
Costruttori edili: D’agostino Francesco; Madano Ignazio; Guglielmi Giuseppe.
Distillerie: Metrangolo Raffaele; Saponaro Antonio; Ferrario Giulio; Maotini Ferdinando; Scippa Fratelli.
Elettricisti: Franzone F.; Chiarolla E.; Bardi Giorgio.
Fotografi: Giampietro Leonardo.
Generi diversi: Coop. Cattolica Agricola; Coop. Dei Combattenti succursale di quella di Campi; Coop. di Consumo fra Operai.
Laterizi: Manna Ercole.
Liquori: Metrangolo Raffaele; Tarantini Paolo; Martini Ferdinando.
Macellai: Ciccarese Francesco; Elia Aniello; Naccarato P.; Sebaste Francesco.
Macchine varie: Carella Alessandro; Savino Domenico; Aquino C.
Meccanici: Chiceralla Eligio; Francone Ferdinando.
Mediatori: Invidia F.; Micelli Antonio; Toscano Giovanni; Poti Antonio Santo; Madaro Ignazio.
Olio d’oliva: Madaro Ignazio; Cosma Donato succ. di Cosma G.; De Matteis dott. Luigi; Miglietta Ant. - Tarantini Pietro.
Oreficerie: Ponsio Cosimo.
Parrucchieri: Curto Oronzo; Putignano Graziano; Toscano Med. - Verardi Cosimo; Tasanti G. e figli; Tarantini Gulfiero e figlio.
Pollami: Franchini Antonio.
Pittori: Vernaleone Arturo.
Pizzicagnoli: D’agostino Giovanni; Miglietta Palma; Rizzo Cesare; Toscano Donato.
Prodotti chimici: Metrangolo Raffaele.
Sarti: Antonucci Silvio; D’Elia Cosimo; D’Elia Giuseppe; Florita Paolo; Grasso Giovanni; Magis Bonaventura; Toscano Marco; Verardi Cosimo.
Sellai: Massimo Santo; Friniato Giovanni.
Privative: Miglietta L.; Palombo Raffaele; Toscano Marco.
Tabacchicoltori: Chillino; Agraldi; Tarantini-Stoia; Mazzotta; Modaro; Coop. T. O.; Marrazzi; Franchini; Zagari.
Tappezzerie: Florita Domenico.
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Tessuti: Lorusso V.; Tortelli F. Scardia Pasquale; Parlangeli Raffaele.
Uve: Invidia; Mudore; Martini; Cosma; Donno.
Velocipedi e nolo: De Pascalis Federico; Pezzarossa G.; Mazzotta Francesco; Vermouth (fabbriche): Martini Ferdinando.
Vetrerie: Florita Dom. e C.
Vini: Cosma Donato; Cezzi Francesco; D’Agostino Saverio; Tarantini Pietro; Mazzotta Pio; Miglietta Antonio; Russo Francesco; Preste Angelo e C.; Madaro Ignazio Francesco; Centonze Francesco; Russo Tommaso; Mazzotta A.; Donato C.; Moreschi Luigi e C. Zolfo: Donno N.14.
Sport e hobby a Novoli
Com’è risaputo il Fascismo dette molta importanza allo sport di ogni genere, ritenendolo idoneo a fortificare il corpo e lo spirito guerriero della stirpe, almeno così si diceva; furono istituite colonie estive per i bambini, le madri venivano assistite dall’Opera Maternità e Infanzia per procreare figli sani per la Patria e ogni occasione era buona anche a Novoli per inneggiare alla grandezza del Duce, non so con quanta convinzione o per moda, e solo pochi a denti stretti e nell’ombra recriminavano seriamente contro il Regime.
Tuttavia già da tempo si erano diffusi la fotografia e il cinema, non sport ma hobby e passioni tanto amate dai novolesi. Già all’inizio del Novecento possedere una bicicletta veniva considerata una condizione distintiva, e con il velocipede si accorciavano i tempi e le distanze, si andava a lavoro, si facevano gare sportive, e pure in guerra vi erano reparti che si muovevano in bicicletta con apposito supporto per il fucile e con il porta bagagli sulla ruota posteriore. Qualcuno in quel tempo possedeva nel paese l’automobile o la moto, ma c’era il problema del rifornimento di carburante. E così, finalmente, nel 1928, dopo estenuanti pratiche burocratiche, nella Piazza ora Aldo Moro fu installato un distributore di benzina, a sinistra del Municipio. Due anni dopo un’altra pompa di carburante sorse in via Pendino, poi col tempo ne sorsero altre. Intanto si diffondeva l’apparecchio radiofonico, e il Comune si dotò di un altoparlante per diffondere la voce di Mussolini, ma già qualche privato se ne provvedeva e via via in tanti ebbero questo magico apparecchio, altro simbolo di distinzione sociale.
14 In Società Anonima, Guida di Puglia e Basilicata, Bari, Anno 1933 XI, II edizione, pp. 613-614.
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Il gioco del calcio e il campo sportivo
Anche la passione per il gioco del calcio ai primi del secolo scorso si diffuse a Novoli, dove non solo i giovani ne erano entusiasti. Sulle vicende del calcio novolese non poco ha scritto Dino Levante, dal quale riportiamo le notizie essenziali sull’argomento: “La prima squadra di calcio a Novoli fu organizzata da un gruppo di giovani appartenenti al Circolo Filodrammatico Giovanile presieduto da Biagio Palomba, che si interessava al teatro. L’ing. Busi, insieme a Nino Bruno era incaricato invece della guida tecnica dei giovani calciatori. Fu l’entusiasmo suscitato da un Giro d’Italia, che fece tappa a Lecce, a far nascere nei giovani sportivi novolesi l’idea della costituzione di una propria squadra di calcio, e così negli anni ’20 si costituì l’Unione Sportiva Novoli, alla quale durante il Fascismo fu cambiata la denominazione con quella di Unione Sportiva Achille Starace.
Il primo campo sportivo era uno spiazzo di terra battuta e una delle porte era disegnata su uno dei muretti di recinzione. Su quell’area, nel 1935, furono avviati lavori di erezione dell’attuale edificio di scuola elementare in via dei Caduti. Le partite si disputavano in quel campetto semi-agricolo, con ciuffi d’erba gramigna qua e là, con qualche sasso di troppo, spogliatoi di fortuna e spettatori che spesso si trovavano con i piedi nella fanghiglia. Un tiro più potente dei soliti mandava talvolta il pallone sui “taraletti” di tabacco esposti al sole sulle terrazze delle sparute case e spesso a rimetterci era il vetro della finestra. Così avversari dei giocatori furono pure gli abitanti della zona. Ma questi con gli anni si affezionarono ai calciatori, tanto da mettere a disposizione le loro stesse case che venivano usate come spogliatoi. Alcuni giovani atleti invece partivano da casa già in maglietta e pantaloncini.
Notevole fu in quegli anni pure la partecipazione femminile alla tifoseria. I calciatori non ricevevano alcun compenso tranne la preziosa divisa. E neanche tutti, perché parecchi si comperavano con i propri risparmi scarpe, parastinchi e cavigliere. Negli anni ’30 furono create altre due compagini di giocatori, l’”Aquila Nera” e l’”Intrepida”, che erano in pratica i vivai dai quali venivano prelevati i migliori da far giocare nella quadra principale.
Per diversi anni le fortune del Novoli si sono identificate con il dinamismo e la generosità dell’avvocato Giuseppe Valentini che ha saputo porre sulla giusta rotta il vascello rosso-blu”.
Durante la II guerra mondiale la squadra di calcio novolese conobbe qualche interruzione, ma si ricostituì nel 1942 e il 17 settembre 1943 essa si misurò con una formazione inglese di stanza a Brindisi, perdendo clamo-
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rosamente. È poi da ricordare che nel 1966 vi fu l’amichevole del Novoli col Milan, che vinse 9 a 2. Poi dal 1971 un lento e triste declino. Infine è bene ricordare che i colori sociali della maglia calcistica novolese sono il rosso e il blu a strisce verticali. Nel 1942, quando il torneo si chiamava Campionato di Propaganda, il Novoli risultò vincitore e contemporaneamente la squadra giovanile vinse il torneo minore. Dopo il 1946, anno in cui aderì alla FIGC, l’Unione Sportiva Novolese cambiò nuovamente denominazione in Associazione Sportiva “Toto Cezzi” Novoli”, in memoria del fratello del sig. Giovanni Cezzi, e ciò perché costui aveva donato nel 1945 una considerevole somma di denaro alla società calcistica novolese per la costruzione del campo sportivo sul terreno a suo tempo donato al Comune dal Conte Balsamo, per adibirlo ad uso del suddetto “campo”15. E così Novoli ebbe il campo sportivo che ancora appassiona la tifoseria locale.
L’asilo infantile Russo
Nonostante le roboanti promesse del Fascismo e l’attenzione che esso diceva di dedicare all’infanzia, soprattutto nei piccoli Comuni, come Novoli, per di più meridionali, non realizzò alcun asilo infantile, ma ciò dipese anche e soprattutto dalla classe politica dell’epoca, come al solito cialtrona e paga di apparire, contento ognuno di ritagliarsi un posto da ducetto. A Novoli non venne realizzato alcun asilo infantile pubblico sia per mancanza di sensibilità e di volontà, e sia perché come al solito il Comune era in bolletta.
Ancora una volta, grazie alla generosità dei filantropi novolesi, come più volte abbiamo visto, si cercò di venire incontro ai bisogni dell’infanzia, quella povera soprattutto, sostenendo così le madri che, impegnate nel lavoro dei campi, non potevano accudire i figli. E così un’altra benefattrice novolese, Vitina Russo (1855-1936) si costituì l’8 marzo 1834 presso il notaio Clodomiro Franco di Monteroni, dettando il testamento ove si legge che lasciava l’intero suo palazzo sito in via Pendino, con attigui magazzini, perché ivi fosse fondato un asilo infantile per i bambini poveri del paese, da intestare a suo padre Tommaso, notaio, e a suo fratello Francesco Russo. Vitina Russo lasciava inoltre il fondo denominato “Palmento” in agro di Carmiano e due appezzamenti del suo fondo denominato “Misia” in agro di Campi Salentina, beni inalienabili in perpetuo. L’Asilo, da erigersi in Ente
15 Cit. da D. Levante, “Quotidiano”, 6 marzo 1980, pp. 22-23; 7 giugno 1997, p. 21; 29 dicembre 2013, p. 18. A. C. N., Delibera del 14 novembre 1945.
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Morale, oltre ad accogliere i bambini poveri di Novoli, doveva essere retto e assistito preferibilmente dalle Suore d’Ivrea, come poi avvenne.
Espletate tutte le pratiche burocratiche, l’Asilo Russo fu attivo qualche anno dopo la II guerra mondiale, e per un anno fu da me frequentato, tuttavia per improrogabili restauri dello stabile, mai portati a termine, cessò la propria attività il 17 settembre 1969 e chiuse definitivamente il 5 luglio 1990 (16).
10) La II Guerra Mondiale.
Passati gli anni dell’euforia e delle illusioni tra fanfare e tanti discorsi retorici, marcette ed esercitazioni ginnico-sportive, la seconda guerra mondiale arrivò come una doccia fredda il 1° settembre 1939, ma già avvisaglie di non poco conto si erano avute con la guerra d’Etiopia (1935) e con la guerra civile di Spagna (1936), alla quale intervenne pure l’Italia.
Dopo un anno di non belligeranza Mussolini scese in guerra accanto alla Germania nazista il 10 giugno 1940, nonostante l’impreparazione morale e militare d’Italia. Intanto da alcuni anni tante famiglie italiane, comprese alcune novolesi, erano emigrate nelle Americhe, in Libia, conquistata dall’Italia in seguito alla guerra italo-turca (1911-1912), sistematicamente occupata nel 1923 e poi progressivamente colonizzata nel 1934; tanti emigrarono nell’Africa Orientale.
La seconda guerra mondiale per il Salento e il Meridione in genere non fu come la prima, si perché nella Grande Guerra gli scenari bellici si svolsero nel nord-est d’Italia, ma il secondo conflitto mondiale coinvolse tutto il Mediterraneo, e quindi pure il Sud e la Sicilia, e poi lo sviluppo dell’aviazione, le flotte e i sottomarini non lasciavano tranquillo nessuno. Anche nella provincia di Lecce vi furono distaccamenti tedeschi che, a quanto si sa, si comportarono correttamente fino all’8 settembre 1943, allorché l’Italia liberata firmò l’armistizio con gli Alleati. I Tedeschi gridarono al tradimento ma abbandonarono subito il Salento per non restare intrappolati in un cul de sac.
Intanto i cosiddetti Alleati avevano tormentato la provincia di Lecce con assidui bombardamenti, terrorizzando le popolazioni che all’udire il rombo degli aerei o esplosioni si rifugiavano in campagna, oppure negli scantinati e nei sottoscala, laddove ritenevano che le strutture murarie avrebbero resi-
16 Cfr., P. De Matteis, L’istruzione, etc., op. cit., pp. 110-113.
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stito a eventuali bombardamenti. Così raccontavano i miei vecchi ed altri, e si narra che a Novoli uno spezzone incendiario colpì una casa di campagna, poco lontana dalla stazione ferroviaria. Sempre a Novoli, ma dappertutto, vigeva il coprifuoco, dal tramonto in poi dovevano essere spente le luci nelle case e nelle strade. Ben presto vennero a mancare i generi alimentari e fioriva il contrabbando. Sutta alla Cupa si attendevano le patate che giungevano col treno dal basso Salento, vendute poi a caro prezzo dai contrabbandieri, sempre braccati dalle Forze dell’Ordine. Non è esagerato affermare che mancava tutto e si moriva di fame che non riuscivano ad affrontare le tessere annonarie.
Riuscivano a cavarsela meglio le famiglie che possedevano terra da coltivare, ancora una volta compito della donne, dei ragazzini e dei vecchi ma per impiegati e professionisti che non possedevano terra la situazione era tragica, costoro dovettero vendersi pure la camicia per un tozzo di pane, se tale poteva esser detto, poiché del grano non aveva neanche l’odore.
Per mancanza di denaro il Regime aveva promosso la raccolta dell’oro per la Patria, e tutti donarono quel che possedevano, essenzialmente le fedi nuziali. Per mancanza di materie prime si dovettero donare i metalli, dai ferri vecchi, alle ringhiere e perfino le pentole, i paesi erano spopolati avendo gli uomini su tanti fronti per combattere una guerra impari contro grandi potenze, in Grecia, in Jugoslavia, in Africa, in Russia, dappertutto, male armati, pur essi affamati, di cui i familiari non ricevevano notizie sulla loro sorte.
Con la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso, Hitler favorì la costituzione di uno Stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, anche allo scopo di ritardare per quanto possibile l’avanzata degli Alleati verso la Germania. Ciò ovviamente contrappose i combattenti fascisti della R. S. I. a quelli del Regno del Sud che stava ricostituendo l’esercito e ai partigiani libertari e antifascisti.
Fu, quindi, la guerra civile tra italiani, nella quale ebbe un ruolo straordinario la Resistenza, che anche al Sud ebbe i suoi militanti, ed alcuni Novolesi furono antifascisti, patrioti, partigiani e deportati nei campi di concentramento nazisti, dove qualcuno ci lasciò pure la vita.
Di questi novolesi che non vollero restare inermi in quei tragici giorni ne forniamo l’elenco:
Alzini Paride. Antifascista, Nato a Ostiano (CR) ma residente a Novoli.
Andrioli Antonio Giovanni. Partigiano.
Carrafa Teodoro Cosimo. Antifascista.
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Carrozzo Oronzo, di Vincenzo. Partigiano.
Curto Antonio, Patriota.
De Luca Raffaele, Partigiano.
Dell’atti Antonio Donato, Patriota.
Dell’atti Luigi Antonio Salvatore, Partigiano, ferito.
Dell’atti Salvatore, Deportato e deceduto nel lager.
Lezzi Antonio, Partigiano.
Lombardo Leonardo, Partigiano.
Magis Bonaventura, Antifascista.
Magis Italo Americo, Deportato nei lager.
Mazzotta Rosario, Partigiano.
Palomba Antonio, Patriota.
Pasquino Dolores, Partigiana. Nata da genitori novolesi ad East Rochest (New York).
Petrelli Salvatore di Raffaele, Partigiano caduto.
Pico Pasquale, Patriota.
Pino Giovanni, Antifascista.
Prato Pierino, Deportato e deceduto nel lager.
Putignano Carmine di Antonio, Partigiano caduto.
Quarta Santo, Deportato e deceduto nel lager.
Ricciato Salvatore, Antifascista.
Sanghez De Luna Salvatore, Partigiano.
Scardia Vincenzo, Antifascista.
Scrimieri Carmelo, Partigiano.
Scrimieri Carmine, Partigiano.
Vetrugno Salvatore, Partigiano17
Nel secondo conflitto mondiale caddero 76 Novolesi, ma tanti furono i mutilati e i feriti. A guerra finita due lapidi li ricordano nella Chiesa di S. Antonio Abate, lapidi marmoree che si leggono appena entrati nel Tempio, a sinistra, di fronte alle altre due che riportano i Caduti nella Grande Guerra. Eccone i nomi:
17 In Pati Luceri, Partigiani, Antifascisti e Deportati di Lecce e provincia, Castiglione di Lecce 2012, p. 77. Il testo, per ogni nominativo, contiene un breve ed esauriente, profilo biografico. Cfr., inoltre, Scuola Media Statale “F. Cezzi” - Novoli (Le), Novoli e … la seconda guerra mondiale. 1945-1995, Uomini, Fatti, Testimonianze, Immagini. Per non dimenticare, Vol. III, a cura degli alunni del Corso A e di altre classi, coordinati da Gigi Milli e da Vito Pellegrino, Novoli 1996; D. Levante, Novoli: contributo alla Resistenza, Novoli 2005.
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1945 1. Tenente Oliva Filomeno 2. Bruno Giovanni 3. Bruno Oronzo 4. Bongiorno Giovanni 5. Centonze Antimo Fu Francesco 6. Centonze Gaetano Fu Francesco 7. Centonze Giuseppe Fu Francesco 8. Centonze Francesco 9. Conte Costantino 10. Conte Ugo 11. Caione Alfredo 12. Dell’atti Salvatore 13. Damiano Domenico 14. De Pascalis Antonio 15. De Nigris Vito Santo 16. Denrico Emilio 17. De Luca Giuseppe 18. De Luca Angelo Raffaele 19. Franco Antonio 20. Franco Cosimo 21. Guerrieri Giovanni 22. Greco Tommaso 23. Godi Carmelo 24. Godi Luigi 25. Greco Antonio 26. Greco Antonio Fu Giovanni 27. Invidia Fioravante 28. Ingrosso Giuseppe 29. Ingrosso Raffaele 30. Yuliani Raffaele Erasmo 31. Ippolito Santo 32. Longo Donato Fu Pompilio 33. Longo Antonio 34. Marzo Giovanni 35. Marrazzi Italo 36. Mazzotta Oronzo 37. Metrangolo Gaetano
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elenco caduti e dispersi novolesi nella guerra 1940 -
38. Mele Pasquale 39. Milli Francesco Fu Antonio 40. Milli Francesco Fu Salvatore 41. Mele Biagio 42. Marò D’arpa Isidoro 43. Magis Italo 44. Mazzotta Antonio 45. Metrangolo Biagio 46. Nepitella Santo 47. Pati Oronzo 48. Potì Augusto 49. Potì Giuseppe 50. Pisanò Giuseppe 51. Poto Mario 52. Prato Pierino 53. Parlangeli Antonio 54. Putignano Carmine 55. Petrelli Salvatore 56. Quarta Luigi 57. Quarta Francesco Santo 58. Quarta Santo 59. Sozzo Provino 60. Sozzo Giuseppe 61. Spada Giovanni 62. Spada Gerardo 63. Spada Pierino 64. Santo Alfredo 65. Spagnolo Gilberto 66. Scardino Giovanni 67. Toma Giuseppe 68. Tamiano Salvatore 69. Toscano Antonio 70. Valzano Vincenzo 71. Valzano Cosimo 72. Valzano Salvatore 73. Valzano Giovanni 74. Vetrugno Antonio 75. Vetrugno Giuseppe 76. Greco Antonio Fu Luigi
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Servizi Pubblici
Novoli, nonostante gli impianti ancora da perfezionare, manca di una efficiente rete fognante, ha scarsa disponibilità idrica autonoma, nel senso che quasi tutti i pozzi sono stati chiusi. Nel 1961 ne erano restati 19 nell’abitato, 88 e 3 cisterne nel territorio comunale, poi di anno in anno sempre di meno. Con delibera del Consiglio Comunale, n.38 del 26 settembre 1952, veniva approvato il progetto dell’architetto Cino Mazzotta per la costruzione del Mercato coperto in Piazza Regina Margherita, sulla destra del Teatro Comunale. La spesa preventiva per la realizzazione dell’opera fu di L.14.000.000, tuttavia la cifra lievitò nel tempo poiché il primo lotto del mercato cittadino fu completato nel 1960 e solo quattro anni dopo si giunse alla definitiva sistemazione della costruzione, che circa cinque anni fa è stata riconvertita in spazio comunale destinato a manifestazioni culturali.
Da parte mia ho raccolto carte e informazioni, le ho ordinate cercando di dare al lavoro un filo logico, un canovaccio provvisorio, poiché spetta proprio ai giovani e a chi vorrà ricostruire meglio le vicende di Novoli che merita la restituzione della sua identità.
Con la caduta del Fascismo, nel 1943 a Novoli l’amministrazione comunale fu gestita dal Commissario Prefettizio Riccardo Russo e nella stessa carica gli subentrò Romeo Franchini poi, nell’anno successivo si formò un’amministrazione provvisoria fatta da cittadini di diverso colore politico che elessero, sia pur per breve tempo, Domenico Marrazzi.
Tuttavia consideriamo primo sindaco di Novoli Romeo Franchini che, regolarmente eletto nel 1946 nel novembre dello stesso anno rassegnò le dimissioni causa la litigiosità dei componenti l’amministrazione civica, e non solo, per cui il 5 novembre del 1946 gli subentrò il Commissario Prefettizio Pasquale De Caro, ma la crisi rientrò ben presto poiché il 10 dicembre successivo il Franchini fu di nuovo sindaco, e ciò fino al 1951, lasciando un buon ricordo di sé.
Le civiche amministrazioni del secondo dopoguerra non hanno certo brillato per la migliorare la vita del paese, che quasi sempre è divenuto ingovernabile data la litigiosità dei politici, spesso qualunquisti, per nulla preoccupati di realizzare il bene del comune. E così i problemi si sono aggiunti ad altri problemi, hanno trionfato i personalismi, la lentocrazia se non proprio il menefreghismo, l’apparire anziché l’essere, roba, insomma, di ordinaria novolesità. Devo purtroppo dare ragione al compianto amico Raffaele De Matteis (1923-2014) il quale tra l’altro scriveva che “Novoli non ha raggiunto, a settant’anni dalla fine della guerra, l’espansione, il rin-
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novamento, e i livelli di benessere dei paesi limitrofi”. Fatta eccezione per “pochissimi momenti di eccellenza, tanti di decadenza di un paese che col tempo aveva assunto il ruolo di carro trainante per la sua qualità di sviluppo e di vita di ogni campo rispetto ai paesi limitrofi” (18).
Sarebbe lungo e tedioso annoverare ciò che manca a Novoli, occorrerebbe a tal proposito un altro libro, e ciò che dovrebbe preliminarmente cambiare è la mentalità del luogo, mentalità che spesso qua e là ho stigmatizzato, e pure in questo libro.
Nel paese non si contano le geremiadi espresse dalla gente, che lamenta l’inefficienza e spesso la mancanza dei servizi, e le brutture vanno dalle tante strade disastrate, la mancanza del verde pubblico e di una efficiente rete fognante.
Che dire di più, per amor di patria pongo un velo pietoso sulle tante inefficienze del paese, condizionato purtroppo da tanti retaggi, e si spera soltanto nelle giovani generazioni, alle quali si affidano le speranze per un paese diverso, per un avvenire migliore, certo e dignitoso.
18 Cit. da R. De Matteis, Una storia croccante, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XI, 18 luglio 2004, pp. 38-39.
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Novoli Sacra
Il clero e la Chiesa di S. Andrea Apostolo
Incerta e controversa è la data di fondazione della Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo, ma essa dovrebbe risalire intorno alla seconda metà del Cinquecento, allorché il paese contava all’incirca mille anime che l’angusta ed antica parrocchia di S. Maria di Costantinopoli, oggi chiesa dell’Immacolata, non era ormai in grado di contenere.
Probabilmente la chiesa venne realizzata nell’area di un precedente luogo di culto bizantino, considerato il fatto che il territorio ove poi sorse Novoli aveva ospitato una comunità iconodula, attestata non solo dalle devozioni cultuali di rito orientale, quali quelle di S. Antonio Abate, S. Nicola, S. Biagio, S. Stefano, S. Andrea, ma anche dalle residue testimonianze pervenuteci, rappresentate dagli affreschi esistenti nella chiesa dell’Immacolata, ossia dalla primitiva parrocchia di Novoli. Questo tempio testimonia il culto mariano a Novoli, culto introdotto intorno al IX secolo d.C., all’epoca delle persecuzioni iconoclaste.
Voluta da Filippo II Mattei, con il concorso del popolo, come dice l’Infantino, sorse “dove anticamente vi era la cappella di S. Andrea, ed oggi nella medesima Chiesa si vede un altare eretto in onore di questo medesimo Santo...”1 . Tuttavia nei registri parrocchiali la chiesa fu sempre detta “della terra (paese) di Santa Maria de Novis”, e soltanto a partire dal 19 aprile 1908, nel Registro dei Battezzati, è citata con titolo di S.Andrea e in quello dei Matrimoni e dei Morti rispettivamente il 7 settembre 1929 e il 22 settembre dello stesso anno2 . Prima di dettagliare specificatamente sulla Matrice novolese, riteniamo utile e necessario soffermarci sulle condizioni del clero tra Medioevo e Rinascimento, epoche in cui sacerdoti e religiosi, ovunque,erano numerosissimi, e non perché vi fossero tante vocazioni ma essenzialmente per sfuggire la miseria e per operare un salto sociale, per se stessi e per le proprie famiglie. Invano nel tempo gli Stati cercarono di arginare questo fenomeno, la popolazione ecclesiastica restava sempre e comunque assai elevata, e la stragrande maggioranza dei sacerdoti era alquanto ignorante e di censurabile moralità, non ultimo il costume di avere amanti, costume a cui non si sottrassero tanti Papi, Cardinali e Vescovi e che, in maniera più o meno discreta continua pur
1 Cit. da G.C. Infantino, Lecce Sacra, Lecce 1634, ora a cura di M. De Marco, Gallipoli 1988, p. 56.
2 In A. C. M. di Novoli.
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oggi. Il malcostume ecclesiastico, gli scandalosi comportamenti, il commercio delle cariche ecclesiastiche e delle indulgenze, la simonia nei suoi vari aspetti, l’attaccamento ai beni temporali e così via generarono; com’è noto, la Riforma protestante che contestò tali abusi, ma essa ben presto, però, assunse caratteri politici. A onor del vero va detto che proprio nel XVI-XVII secolo emersero tanti veri uomini di Dio che tentarono, spesso riuscendovi, di rinnovare la Chiesa Cattolica, ancora in difficoltà per realizzare il messaggio evangelico.
I rapporti tra gli Stati e la Chiesa Cattolica non sono stati mai facili, anzi. Se nell’età di mezzo vi furono notevoli scontri per affermare dall’una e dall’altra parte la propria priorità, con la nascita dello Stato assoluto e via via sempre più laico le cose cambiarono, anzi i vari regni vollero esercitare il controllo del potere temporale della Chiesa alla quale, pur riconoscendo una limitata autonomia, veniva imposto l’obbligo di osservare le leggi dello Stato. E così mano a mano si logorò l’alleanza tra il trono e l’altare, vennero meno i privilegi e si ricorse ai Concordati che tutto sommato, ridimensionati gli antichi privilegi del clero, riservano pur oggi ad esso, come si suol dire, trattamenti di favore. Con il Concordato del 1818 tra la S. Sede e il Regno di Napoli la legislazione in fatto di ecclesiastici divenne più rigorosa, poiché l’aspirante sacerdote era obbligato a tre anni di praticantato nella parrocchia onde dimostrare attitudine al sacerdozio per vocazione e comportamenti non censurabili. Alla fine del triennio di noviziato il parroco rilasciava una dichiarazione, diciamo di buona condotta, indispensabile per conseguire l’ordinazione sacerdotale, ma si è notato che tali attestati erano di natura piuttosto generica, quasi copie conformi.
Ma l’iter dell’aspirante sacerdote non finiva qui, anzi doveva superare l’ostacolo più difficile, quello di avere una dote di almeno 50 Ducati annui di rendita derivanti da beni immobili, e per questo problema, estraneo alle famiglie benestanti, i poveri dovevano fare salti mortali, spesso non riuscendovi. Questa norma fu imposta per evitare che i sacerdoti fossero costretti ad elemosinare o a esercitare attività ritenute ignobili, lesive della dignità sacerdotale. Ecco perché a volte vi furono rarissime deroghe, ecco perché nel 1823 il Capitolo novolese integrò, per la metà, i 50 ducati richiesti, e talvolta a tal proposito intervennero il Comune e il Vescovo o per svecchiare il clero locale o perché mancava il prete a Villa Convento, dove nessun sacerdote novolese era disposto a trasferirsi (3).
È documentato che le antiche e facoltose famiglie novolesi espressero un
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Cfr., B. Pellegrino, Terra e clero nel Mezzogiorno. Il reclutamento sacerdotale a Lecce dalla Restaurazione all’Unità, Lecce 1976, pp. 78-81; M. Rosa, Clero e società nell’Italia moderna, Bari 1992; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Milano 1988.
altissimo numero di sacerdoti nel XVII secolo, e ciò perché il prete godeva di particolari immunità e privilegi. Nel 1746 il clero novolese raggiunse ben 38 unità su una popolazione di circa 2000 abitanti, annoverando tra le sue fila anche rappresentati dei ceti più umili i quali, però, non riescono a raggiungere l’arcipretura che nel 1885, togliendo questa esclusività ai rampolli delle famiglie più agiate del paese, tra le quali spicca quella dei Mazzotta per aver dato alla chiesa novolese ben nove arcipreti. Altre famiglie che dettero sacerdoti e arcipreti furono i Greco, i De Luca, i Dell’Atti e gli Spagnolo4. I sacerdoti novolesi erano gerarchicamente organizzati nel Capitolo, ove al primo posto vi era l’arciprete che era pure il parroco. Il Capitolo di Novoli possedeva cospicui beni immobili, costituiti dai lasciti dei benefattori e dai legati dei fedeli. Il patrimonio della parrocchia di S. Andrea Apostolo, l’unica del paese fino a quando nel 1930 fu elevata a tale dignità la chiesa di S. Antonio Abate, si arricchì notevolmente nel tempo, tuttavia esso veniva amministrato con equanimità tra i componenti del Capitolo, nelle seguenti misure: dei legati si fruiva di parti uguali, mentre per i beni immobili le rendite venivano assegnate, con il sistema della rotazione triennale, ai sacerdoti. Nel primo caso il parroco divideva come gli altri, nel secondo, invece, fruiva di una parte doppia. I preti indisciplinati, oltre alla censura, subivano la privazione temporanea delle rendite. Con l’unità d’Italia si giunse all’incameramento dei beni ecclesiastici. Il clero novolese l’8 luglio 1869 perdette quasi ogni suo bene che fu venduto all’asta5 .
2) Storia e architettura.
Sia pur succintamente abbiamo riferito alcune condizioni e norme che regolavano il clero novolese, di cui qualcos’altro diremo in seguito traendo il tutto dalla consultazione delle S. Visite che, inoltre, via via ci danno notizie sull’evoluzione delle strutture della Matrice, che iniziata a costruire, come si è detto, verosimilmente nella seconda metà del Cinquecento, dopo non pochi interventi fu terminata più o meno come la vediamo oggi, nel 1765.
Il 14 ottobre 1768 il Vescovo Alfonso Sozy-Carafa effettuò la sua quinta S. Visita a Novoli presso la Chiesa Parrocchiale e le Cappelle dell’Immacolata, S. Biagio, del Salvatore, di S. Vito, di S. Antonio Abate, di S. Stefano e della Vergine di Costantinopoli. Indi visitò pure le Cappelle rurali dell’Immaco-
4 Cfr., F. De Luca, op. cit., pp. 57 sgg.
5 Cfr., E.M. Ramondini, op. cit., pp. 24-29.
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lata, di Ognissanti e di S. Lucia. Al tempo Novoli contava 27 sacerdoti, 1 diacono, 8 chierici e due novizi.
A proposito della Chiesa Parrocchiale il Presule riferisce che il SS. Sacramento era custodito nella Cappella del SS. Signore nostro Gesù Cristo flagellato, raffigurato presente il popolo e Ponzio Pilato. Il Ciborio era di pietra scolpita e aveva due pissidi d’argento. Il Fonte Battesimale era provvisto di due vasche d’argento e, sopra di esso, vi era il quadro raffigurante S. Giovanni che battezza Gesù. Ci dice poi che l’Olio degli Infermi era custodito in un armadietto posto affianco all’altare maggiore, in cornu Evangelii, in un vaso d’argento.
Complessivamente il Vescovo trova in ordine la Matrice, tuttavia ordina di dotare di candelabri gli altari e di apporre su di essi una tela cerata, in particolare su quelli di S. Vito e dello Spirito Santo. Trova decentemente munita della sacra suppellettile la Sacrestia.
A croce latina e ad una sola navata, con cappelle laterali, la chiesa misurava in lunghezza circa m. 27, in larghezza circa m. 7, e il transetto si sviluppava per circa 17 metri. All’incrocio dei due bracci del transetto, sul tetto in origine a capriate lignee e coperto da un incannizzato con embrici, una volta realizzato il tetto di pietra si costruì la cupola. Sempre in antico, e comunque fino al XIX secolo allorché le leggi napoleoniche imposero la realizzazione dei cimiteri fuori dall’abitato, si seppelliva nelle chiese con le consuete collocazioni, ossia nei pressi del fonte battesimale venivano sepolti i bambini, gli adulti nella navata centrale e dietro il maggiore altare i sacerdoti. Come al solito le famiglie più in vista del paese realizzavano altari alla base dei quali avevano la propria sepoltura, per diritto di patronato. Era obbligatorio dotare l’altare con il quadro del santo a cui era dedicato, e di pregevoli dipinti si dota la Matrice novolese, che ora sul soffitto costituito da un’unica volta unghiata, in una cornice mistilinea, si illustra con la raffigurazione del martirio di S. Andrea, opera del pittore Vittorio Colletta (1866-1947) di Salice, realizzata nel 1925. All’incrocio della navata e il transetto si innesta la cupola e il lucernario. Con il concorso dei signori del luogo, del Comune e delle offerte dei fedeli, mano a mano il Tempio novolese si arricchì anche dei sacri arredi, tra i quali l’Organo donato nel 1658 dal conte Giuseppe Antonio Mattei. Osservando i muri esterni del sacro edificio, restaurato e abbellito all’interno dal parroco Francesco de Tommasi negli anni Sessanta del secolo scorso, si possono notare antiche finestre chiuse e modificate di gusto romanico attardatosi a Novoli come altrove. A proposito dei restauri di cui ora si è detto, un’iscrizione posta all’ingresso della chiesa dice che essa fu “ampliata, restaurata, ornata di marmi, inaugurata il 30 novembre
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1969 dal Vescovo di Lecce Mons. Minerva, parroco don Francesco De Tommasi, progettista dei lavori l’arch. Cino Mazzotta”. L’ampliamento riguardò tutta la zona absidale con l’arretramento dell’altare maggiore e del presbiterio che venne messo in comunicazione con le due cappelle laterali dell’abside. Verosimilmente la volta della primitiva chiesa dovette essere a spiovente con capriate lignee e tegole, così come ci appare raffigurata in uno dei riquadri in affresco che ancora si conservano in quadri separati nella sagrestia della chiesa dell’Immacolata. Di discreto valore artistico è la chiesa di S. Andrea Apostolo che viene menzionata nella S. Visita del 1653, epoca in cui il tempio già assumeva l’attuale aspetto. Il verbale della visita pastorale include anche l’inventario dei beni della chiesa e del Capitolo. Tale inventario porta la data del 1639, epoca in cui la Chiesa Matrice possedeva 273 alberi di olivo, due chiusure di ulivi, 7 tomoli e 16 stoppelli di terre “fattizze”. I beni erano dislocati in varie località, come a Torrescianne vicino alla chiesa di S. Antonio, a “La battaja”, vicino alla chiesa di S. Stefano, sulla via di Lecce, prima della frazione di Villa Convento. Il Capitolo possedeva horte 5 di vigneto nel feudo di Novule, horte 1 di vigneto a “La Padula”, terra donata da Scipione Antonio Ingrosso, 24 tomoli di terra “fattizza” sulla via di Veglie, un tomolo e mezzo sulla via di Lecce e 2 tomoli nel suffeudo di Carmiano, entrambi seminativi, donati da Luigi Antonio Ingrosso. Possedeva ancora una casa a piano terra di tre camere, atrio e giardino, una bottega in piazza (entrambe donate da Luigi Antonio Ingrosso) e una casa sulla via per Salice, di cui non si conosce il donatore.
Ricchi e numerosi erano i censi, il loro ammontare complessivo era di 828 ducati annui: i Ruggio, i Mazzotta, i Greco, gli Spagnolo, i Ricciato, i De Luca erano stati generosi, ma più di tutti lo fu Donato Mazzotta con 134 ducati, seguito da Scipione Melelli e Pietro Verri con 113 ducati.
Per riferire le vicende della Chiesa Matrice di Novoli ci stiamo avvalendo anche di quanto ci ha tramandato in dattiloscritto Mons. Paolo Pellegrino (1904-1970), integrando o emendando il testo laddove necessario, testo che si conserva nell’archivio della parrocchia novolese, preziosissimo per la narrazione puntuale e rigorosa, e che con l’occasione di questo libro lo offriamo alla generale fruizione.
“Com’è noto, dice Mons. Paolo Pellegrino, la prima Chiesa Matrice di Novoli fu la chiesetta di S. Mariae Matris Domini (oggi dell’Immacolata) com’è attestato nella S. Visita di Mons. Luigi Pappacoda nel 1653. Divenuta questa chiesa troppo angusta col crescere della popolazione, Filippo II Mattei, signore di Novoli, decise di costruire una nuova parrocchiale in un terreno attiguo al suo palazzo. Nella prima S. Visita del Vescovo Mons. Lu-
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igi Pappacoda, del 1653, che è la più remota delle S. Visite che si conservino nell’Archivio parrocchiale di Novoli, la Chiesa Matrice di Novoli risulta già, con volta di pietra, sorretta dagli archi interni degli altari dell’unica navata, con la cupola e i bracci a croce latina, dedicata all’ Apostolo S. Andrea, di cui erano devoti i Signori Mattei. Da questo tempo in poi, attraverso le S. Visite si possono seguire le trasformazioni che la Chiesa ha subito fino alla forma attuale. Merita un particolareggiato riferimento il complesso delle quattro Sante Visite di Mons. Luigi Pappacoda dal 1653 al 1680.
Il corpo della Chiesa è ben disposto, con una sola navata e in forma di croce latina con cupola. Le pareti sono ben disposte e anche il tetto su fornice. Il pavimento è in cemento; ma si lamenta che gli orifizi delle tombe siano mal tenuti e rendono ineguale il pavimento. Vi sono quattro porte: una grande all’ingresso principale, le altre laterali, delle quali una si chiude all’esterno con doppia chiave (una per l’Arciprete e l’altra per il Sagrestano), le altre dalla parte interna della Chiesa. Vi sono quattro confessionali, il pulpito di legno in cornu Evangelii, con scala di legno, fissa. Il Campanile ad arco è dietro l’altare del Rosario (alla parte opposta a quella dove si trova l’attuale campanile a torre) e vi si accede dall’interno della chiesa: ha due campane. Non vi è organo, ma è in costruzione la cantoria (nelle S. Visite successive di dice che la Cantoria di recente costruita con l’organo collocato sotto l’arco grande a sinistra e vi si accede con una scala di legno).
Il Coro è posto dietro l’altare Maggiore e intercomunica con due sagrestie da una parte e dall’altra, ben dotate di scaffali per il Clero e di stipi per gli arredamenti sacri.
Gli Altari sono tredici col seguente ordine:
1. L’altare maggiore, situato al centro sotto l’arco grande di fondo della cupola, in pietra leccese, sormontato, extra Tabernaculum, dalla grande statua in pietra di S. Andrea (che fu poi retrocessa sul muro di fondo del coro, dopo la chiusura dell’unico grande finestrone e ad arco rotondo che illuminava il coro, nel 1897), con balaustra in pietra bene scolpita. Quest’altare, al principio del ‘700, quando ai Mattei successero nel feudo di Novoli i Carignano, fu ricostruito in pietra leccese da Felice Carignano, con due gradini artisticamente decorati e indorati, con due angeli sul tabernacolo e due ai due lati estremi dell’altare settecentesco che fu sostituito da quello in marmo attuale verso il 1925 a spese del Sac. D. Giuseppe De Matteis. Nel Tabernacolo dell’altare Maggiore si conserva il SS. Sacramento.
2. L’altare di S. Antonio di Padova, con immagine in tela, sotto l’arco che fu poi sfondato per la cappella di S. Oronzo.
3. L’altare del SS. Sacramento (dove attualmente c’è al porta che immet-
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te in piazza Regina Margherita). Fu costruito a devozione del Comune. Vi era collocata la Confraternita del SS. Sacramento che provvedeva al culto del SS. Sacramento e relativi paramenti, al viatico che si portava sempre in forma pubblica e solenne, alla processioni del Corpus Domini, alle funzioni della Settimana Santa, all’esposizione solenne e processione che si facevano nella III domenica dopo la conventuale nell’interno della Chiesa e, per tutto il 700, anche fuori, intorno alla Chiesa. Sull’altare vi era una grande pittura in tela raffigurante il mistero della Cena, sormontata da un grande baldacchino in legno che serviva per l’esposizione solenne del SS. giovedì e venerdì Santo. La Confraternita aveva nei pressi di quest’altare tre tombe per i Confratelli. Procedendo oltre, sotto l’arco su cui poggia attualmente il Campanile, vi era una porta che dava sul cimitero, che poi era la grande tomba-ossario, cui si accedeva per mezzo di tre gradini.
4. L’altare della Cena del Signore (sotto l’arco dove ora è l’altare di S. Francesco di Paola). Vi era una tela raffigurante la Cena di Gesù con gli Apostoli. L’altare era di patronato della famiglia Spagnolo e le due tombe vicine erano riservate ai membri di quella famiglia.
5. L’altare dell’Assunzione di Maria con tela (della famiglia Greco che aveva lì presso la sua tomba).
6. L’altare della Natività di Maria, detto anche di S. Anna, con tela dipinta (della famiglia Giampietro).
7. L’altare della Madonna del Carmine con quadro in tela dipinta (della famiglia Guerrieri che aveva la sua tomba vicino).
8. L’altare di S. Oronzo (privilegiato) traslato dalla Chiesa di S. Antonio col permesso di Mons. Pappacoda, costruito con le offerte dei fedeli. L’immagine in tela era posta sub quodam vacuo in parete.
9. L’altare di S. Carlo (troppo trascurato).
10. L’altare dell’Annunziazione di Maria, eretto dalla famiglia De Luca. L’icona dipinta era posta sotto l’arco.
11. L’altare dell’Immacolata, eretto dalla famiglia Mazzotta, con tela dipinta.
12. L’altare dello Spirito Santo con l’icona dipinta sub arcu (delle famiglie D’Agostino e Caputo).
13. L’altare del S. Rosario con una tela grande al centro raffigurante la Madonna con S. Domenico e S. Caterina, e due tele laterali di eccellete fattura raffiguranti i 15 misteri del Rosario. Vi è eretta la Confraternita del Rosario aggregata all’Arciconfraternita di Roma ut ex diplomate suo, datum Romae 20-12-1581 (o 1631, come si legge nelle SS. Visite successive). La Confraternita provvedeva alle spese per la celebrazione di una Messa il
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venerdì, per la novena di Natale e per la festa solenne del Rosario la prima domenica di ottobre.
14. L’altare della Passione, detto anche di S. Donato, perché la pittura in tela raffigurava Gesù Cristo che porta la Croce e ai lati S. Donato e S. Eligio.
Questo è il ricco materiale che si può ricavare da documenti così autorevoli come sono le SS. Visite di mons. Pappacoda che sono le prime nella serie di SS. Visite conservate nell’archivio parrocchiale di Novoli. Ne risulta una Chiesa Matrice di S. Andrea che ancora manca della torre campanaria, dei due capelloni all’ingresso della navata grande, delle due cappelle ai lati del coro, di una comoda sagrestia e di qualche secondario cambiamento: ma nella struttura essenziale di croce latina con cupola, sorretta da piloni architettonicamente maestosi, la Chiesa Matrice di oggi si riconosce già; e, sopratutto, commuove l’intensità della vita religiosa che si esprime attraverso il culto di ogni altare, due dei quali affidati a due rigogliose Confraternite: del SS. Sacramento e del Rosario che facevano a gara nel promuovere la devozione a Gesù e a Maria. Sotto il pavimento della Chiesa erano distribuite le tombe gentilizie; sotto il coro era la tomba dei sacerdoti; intorno alla Chiesa, del lato occidentale, e dietro la chiesa, si estendeva il cimitero: tutto un complesso di rilievi storici che stanno a testimoniare l’intenso ritmo di vita religiosa che s’irradiava su Novoli dalla Chiesa Matrice di allora. Gli allargamenti e le novità costruttive non tardarono a venire. Dalla S. Visita di Mons. Fabrizio Pignatelli del 1703 risultano i seguenti mutamenti: il Campanile addossato alla Chiesa dal lato occidentale, in forma di torre a tre ripiani, senza cupoletta terminale; i due cappelloni ai lati del corpo in seguito allo sfondamento dei sotto archi dove c’erano gli altari di S. Antonio di Padova e di S. Donato o della Passione (le rispettive tele furono rimosse, e quella di S. Antonio di Padova prese posto dove c’era la tela di S. Oronzo vicino al Battistero della Chiesa, e la tela di S. Oronzo fu rifatta sul quadro del Coppola, a devozione dell’Arciprete De Matteis, perché l’antica si era assai logorata). Il Cappellone a sinistra dell’altare Maggiore fu dedicato a S. Oronzo e sotto l’altare fu esposta la statua in legno di Gesù Morto per cui fu introdotta la pia pratica dei venerdì a sera con preghiere e meditazione sulla Passione; il Cappellone a destra fu dedicato alla Madonna del suffragio che sostituì il culto della Madonna del Carmine. Sull’altare fu apposta una pregevole tela della Madonna del Suffragio e in alto, in una lunetta sovrastante l’altare barocco, l’icona dell’Eterno Padre. A quest’altare fu aggregata la Confraternita della Buona Morte, con celebrazione di una messa cantata ogni lunedì in suffragio delle anime del Purgatorio. Contemporaneamente al Campanile e ai due cappelloni anzidetti, fu co-
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struita la nuova grande sagrestia dietro l’altare del Rosario dalla quale si saliva, per mezzo di una scaletta, sull’Organo. Dalla S. Visita di Mons. Sozy Carafa del 1750, risulta poi il più importante allungamento e allargamento della Chiesa. Furono abbattuti i quattro altari all’ingresso del Tempio, vicino al Battistero, fu rotta anche la volta e furono creati due nuovi cappelloni: quello a destra, entrando, fu dedicato al SS. Sacramento, con altare in marmo donato dai duchi Carignani e una grande tela di Gesù legato alla colonna. Pertanto fu demolito il preesistente altare del SS. Sacramento e al suo posto fu aperta l’attuale porta d’ingresso da Piazza Regina Margherita; il cappellone di sinistra fu dedicato a S. Anna e alla Natività di Maria.
Ormai la Chiesa Matrice di oggi è quasi al completo. Fu ampliata nel 1833 è già nel 1829 fruì della nuova scalinata, in selce, che conduce al sagrato, in sostituzione di quella antica in pietra leccese, ormai rovinatissisma.
Sulla sinistra della facciata, in posizione arretrata, ecco la torre campanaria della seconda metà del Settecento, di forma quadrangolare e a tre ordini scanditi da linee marcapiano e con tre fornici per lato. La costruzione si presenta interrotta ed è priva di cupolino. Il campanile con le sue due belle campane, la grande di 1200 libbre, la piccola di 900, furono poi fuse per realizzare cannoni durante la dominazione napoleonica. Rifatte le campane, queste ebbero la benedizione di Mons. Caputo, Vescovo di Lecce, una domenica di ottobre del 1818. Evidentemente non soddisfatti, i Novolesi vollero migliori campane, e così con delibere comunali n. 28 del 7 marzo e n.40 del 15 novembre 1956 si ebbero le attuali campane della Matrice, decorate con oro e argento, grazie allo stanziamento di 170.000 lire da parte della Civica Amministrazione per la loro rifusione. Tuttavia nella seconda metà del XVIII secolo la facciata della Matrice non è ancora definita, perché sulla volta della porta maggiore si conserva ancora il vecchio orologio con la campanella e il quadrante indicanti le ore, orologio che poi sarebbe passato sul palazzo comunale di nuova costruzione. Il portale, complessivamente, è però quello di oggi: al di sopra c’è il simulacro lapideo della Vergine tra due angioletti oranti pure in pietra. L’architrave che regge la statua della Madonna è sorretta da due semi colonne poggianti su due alti plinti ed esse, con capitello corinzio, nella decorazione recano un’aquila con le ali spiegate, motivo che ricorre nello stemma dei Mattei. Più su, in asse, si apre un finestrone mistilineo la cui vetrata è decorata da una Croce, indi la linea marcapiano oltre la quale appare il timpano, con volte alle estremità, sopra le quali poggiano due statue di angeli. Per la costruzione del timpano, realizzato nella seconda metà del Settecento, si dovette spostare l’orologio di cui si è detto.
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La definitiva sistemazione della Chiesa Matrice, come la mia generazione l’ha trovata all’esterno e all’interno, grosso modo si è avuta nella seconda metà dell’Ottocento. Verso il 1875, abbattuto il palco di legno, fu costruita in pietra su due colonne la nuova tribuna dell’organo sull’ingresso principale, ci si provvide di un Organo nuovo mentre il vecchio, restaurato, fu traslato nella Chiesa di S. Antonio Abate.
Nel 1896-97 fu rifatto il pavimento con mattoni in cemento, fu distrutta la cantoria vecchia e al di sotto fu allocato il pergamo che stava in cornu Evangelii, il SS. Sacramento fu trasportato all’altare maggiore e il cappellone a destra entrando nella Chiesa fu dedicato al S. Cuore con statua in cartapesta, la vecchia scala che dalla sagrestia dava all’Organo fu adattata per salire sulle terrazze della Chiesa e la vecchia scala che dal Suffragio dava sul campanile fu spezzata perché l’unico finestrone centrale del coro fu chiuso, per collocarvi la statua di S. Andrea che sormontava ancora l’altare maggiore. Conseguentemente furono aperte le due finestre ai lati della statua. Così si giunse alla Chiesa Matrice di S. Andrea di oggi che peraltro ha subito recentemente un’altra modifica attraverso lo sfondamento del sotto arco dell’altare dedicato allo Spirito Santo e la costruzione del nuovo cappellone del SS. Sacramento dove c’era la bella e grande sagrestia. Attualmente sono in corso importanti allargamenti e restauri: il coro è stato spinto indietro e ricostruito ex novo, su progetto dell’architetto Cino Mazzotta, in forma circolare con 5 lesene a tutto sesto. Anche l’altare sarà spinto indietro, perché con due archi di nuova costruzione il vecchio coro intercomunica con i due cappelloni di S. Oronzo e del Suffragio che perciò vengono ad allargare la Chiesa.
In una memoria storica come questa sulle vicende della Chiesa Matrice non è inutile un elenco delle pitture in tela, talvolta pregevoli, che tuttora esistono in Chiesa o accantonate o manomesse, da quando l’arciprete Greco preferì sostituire le tele degli altari con bassorilievi in cartapesta.
Eccone l’elenco:
1. Pittura in tela di S. Oronzo, copia del Coppola (sull’altare omonimo).
2. Gesù legato alla colonna che fu rimossa dall’altare del S. Cuore quando nel 1900 vi fu esposta la statua in cartapesta del Manzo.
3. S. Francesco di Paola, di buon pennello, sull’altare omonimo. Sui muri laterali di questo altare sono esposti due quadri ovali di S. Antonio di Padova e di S. Giuseppe da Copertino.
4. S. Giovanni Bergamans, del pittore Stano.
5. S. Lazzaro e S. Andrea d’Avellino, provenienti forse da antichi altari. (I due quadri ovali si trovano a fianco dell’organo).
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6. La SS. Annunziata (sopra il cornicione).
7. S. Anna o della Natività della Madonna, di buon pennello, sull’altare omonimo. Nel cappellone di S. Anna si conservano due statue in legno veneziano di S. Anna e di S. Francesco di Paola.
8. L’Immacolata (sul cornicione).
9. Discesa dello Spirito Santo su Maria Vergine e gli Apostoli (sul cornicione).
10. La Madonna del Rosario (sul cornicione). Due quadri molto pregevoli dei misteri del Rosario, ai lati dell’altare del Rosario.
11. Due grandi tele sulle due porte laterali raffiguranti rispettivamente il Cenacolo e Gesù che sulla montagna predica alle turbe. Sembrano del Diso, ma forse sono anche più antiche e par bene che appartenessero al Sac. D. Tommaso Guerrieri che nel 1689 legò al clero di Novoli tutti i suoi beni e fra questi 24 tele, tra cui alcune grandi (testamento presso il notaio Gaetano Giordano di Campi, del giugno 1689).
12. Nella vecchia sagrestia, dove dall’arc. Mons. Madaro è stato costruito l’attuale cappellone del SS.- si conservano le piccole tele di S. Carlo Borromeo, di S. Alfonso, dell’Ecce homo e qualche altra.
13. Tela di Cristo Morto che fa da paliotto nella settimana maggiore.
14. La Madonna del Suffragio sull’altare omonimo, con quadretto in alto dell’Eterno Padre.
15. Quadro in tela di S. Vito (in alto sul cornicione).
È augurabile che alcune di queste pregevoli tele, debitamente restaurate, riprendano il posto che la pietà dei nostri Padri aveva loro assegnato”6. Termina qui la narrazione del dotto sacerdote novolese don Paolo Pellegrino che, come si è detto, abbiano preferito utilizzare per renderla nota, almeno in parte a chi la ignorava. Per concludere questo paragrafo annotiamo che eretta con conci tufacei, verosimilmente provenienti dalle cave di Villa Convento, all’esterno sempre a vista, ossia privi di intonaco, la Matrice esprime nel prospetto linee sobrie ed essenziali. Essa è ad un solo ordine sormontato da un timpano, e vi si accede avendo salito quattro lunghi e larghi gradini, da un sobrio portale, più volte rimaneggiato, incorniciato, come si è detto da due semi colonne con capitello corinzio.
6 Cit. da P. Pelllegrino, Storia di Novoli. Memorie. Il testo, dattiloscritto, si trova presso la parrocchia di S. Andrea Apostolo di Novoli. Si compone di 21 pagine ed è datato 6 agosto 1960. Fu realizzato in collaborazione con Romeo Franchini, don Emanuele Ricciato, don Gennaro D’Elia e don Vito Miglietta, sul clero novolese e sulla Chiesa Recettizia di Novoli già prima, nel 1940, aveva scritto don Emanuele Ricciato, di cui ci è giunto il manoscritto che ora è posseduto dall’amico Mario Rossi di Novoli, il quale ce ne ha fornito la copia dattiloscritta di 33 pagine.
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Il prospetto oggi, ma nel passato appariva diversamente, è scandito da quattro paraste con capitello di tipo ionico, indi oltre l’agettante linea marcapiano, si innalza il timpano. Complessivamente il sacro edificio appare di sobria e severa linea che riecheggia lo stile rinascimentale, scarsi infatti sono gli elementi barocchi che troviamo invece presenti negli altari più antichi.
Entrati nella chiesa, nella prima cappella a sinistra, sopra il settecentesco altare appare la tela della Natività della Vergine, opera che non pochi assegnano al pennello dell’artista gallipolino Giovanni Andrea Coppola (15971659)7. Sempre in questa cappella, a destra, si trova il fonte battesimale che guarda una cartapesta raffigurante il Battesimo di Gesù.
Sull’altro lato della navata, a destra, ecco la cappella con l’altare in marmo dedicato al Sacro Cuore di Gesù e, ancora, accanto a questa prima cappella di destra si trova un piccolo vano con l’altare dedicato a Gesù Crocifisso.
Ritornando sul lato di sinistra della navata via via incontreremo l’altare dell’Annunciazione, con quadro in cartapesta, indi l’altare con una discreta tela raffigurante la Sacra Famiglia, poi l’altare con la tela, del XVIII secolo, raffigurante S. Francesco di Paola. Riportatici sul lato di destra, incontriamo un altare con il dipinto della Vergine Immacolata, indi il cappellone del Sacramento e l’altare della Madonna del Rosario con i Misteri raffigurati su due tele, una per lato del cappellone. Nel transetto, sulle pareti, ecco due tele raffigurati La moltiplicazione dei pani e dei pesci e L’ultima cena. Sempre sul transetto si aprono due absidi che comunicano con il presbiterio. Nell’abside di destra è allocato l’altare della Madonna del Carmine, con due colonne tortili decorate con putti, tralci di vite, melograni e grappoli d’uva, recante l’iscrizione latina che appresso riporteremo con relativa traduzione. Al centro appare il dipinto, del XVIII secolo, raffigurante la Vergine del Carmine. Nell’abside di sinistra, rifatta negli anni ‘60 del ‘900, troveremo l’altare sul quale campeggia il quadro dell’Addolorata, mentre in basso è collocata la statua lignea del Cristo Morto.
La chiesa, sistemata con gusto, si dota di un novecentesco organo realizzato dalla Ditta Inzoli di Crema nel 1962, che è allocato sul retrospetto. Entrando nella Sagrestia e locali attigui troveremo altre opere d’arte di artisti del luogo, opere sulle quali emerge la raffigurazione del Cristo Morto, di cui non si conosce l’autore. Rammentiamo che gli ultimi restauri della Matrice novolese si devono a quel prestigioso architetto che fu Cino Giuseppe Mazzotta 8 .
7 Cfr., L. Galantes, Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma 1993, p. 64.
8 Cfr., M. Mazzotta (a cura di), Cino Giuseppe Mazzotta (1896-1978). Vita e opere, Novoli 1999; Cfr., inoltre, W. Mazzotta, Novoli, emergenze storico-artistiche, Campi Salentina, 2003, pp. 3-9.
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Cronotassi degli arcipreti-parroci e gli economi curati della chiesa di s. Andrea apostolo
1. Rev. D. DOMENICO DE ATTI, arciprete 1571-1588
2. “ “ ANTONIO DE LUCA, arciprete 1588-1608
3. “ “ DOMENICO ARNESANO, economocurato 1608-1609
4. “ “ LUDOVICO GRECO, arciprete 1609-1636
5. “ “ LUCA GRECO, arciprete 1636-1639
6. “ “ INNOCENZO GRECO, arciprete 1639-1663
7. “ “ PIETRO PERULLI, arciprete 1663-1670
8. “ “ FRANCESCO ANT. MAZZOTTA, arciprete 1670-1685
9. “ “ PIETRO GRECO, arciprete 1685-1709
10. “ “ ORONZO MAZZOTTA, arciprete 1709-1738
11. “ “ IGNAZIO MAZZOTTA, economocurato 1738
12. “ “ BENEDETTO MAZZOTTA, economocurato 1738-1739
13. “ “ IGNAZIO MAZZOTTA, arciprete 1739-1757
14. “ “ PIETRO ANT. GIORDANO, economocurato 1757
15. ” “ PIETRO MAZZOTTA, arciprete 1757-1793
16. “ “ PASQUALE TARANTINI, arciprete 1793-1820
17. “ “ DOMENICO MAZZOTTA, economocurato 1820-1821
18. “ “ DOMENICO MAZZOTTA, arciprete 1821-1831
19. “ “ GIUSEPPE SPAGNOLO, economocurato 1831-1843
20. “ “ GIUSEPPE SPAGNOLO, arciprete 1843-1855
21. “ “ ORONZO DE MATTEIS, economocurato 1855-1875
22. “ “ ORONZO DE MATTEIS, arciprete 1875-1897
23. “ “ PASQUALE DE MATTEIS, economocurato 1897-1898
24. “ “ FRANCESCO SAVERIO GRECO, arciprete 1898-1934
25. “ “ EMANUELE RICCIATO, economocurato 1934-1936 26. “ “ ORONZO MADARO, arciprete 1936-1954
27. “ “ FRANCESCO DE TOMMASI, arciprete 1954-1985
28. “ “ IPPOLITO GERARDO, arciprete 1986-1999 29. “ “ DE PASCALI FLAVIO, arciprete 1999-2007 30. “ “ VETRUGNO COSIMO, arciprete 2007 vivente.
Le iscrizioni latine
Testo: domus mea domus orationis est
Traduzione: La mia casa è la casa della preghiera.
Collocazione: Sulla cupola della navata centrale.
Note: L’epigrafe è dipinta entro una cornice lobata pure dipinta.
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Testo: deiparae virgini pro animis igne purgatorio expiandis noventium pietas posuit. a(nno) d(omini) mdcciv
Traduzione: Alla Vergine Madre di Dio per le anime che devono espiare nel fuoco del Purgatorio le loro colpe pose la pietà dei Novolesi nell’anno del Signore 1704.
Collocazione: Sopra l’altare della Madonna delle Anime Sante.
Testo: pro nobis crucifixus
Traduzione: (Fu) crocifisso per noi.
Collocazione: Sopra la statua di Gesù Crocifisso. Note: L’epigrafe appare su di una lastra di marmo arancione lobata. Poggiante su di una lastra di marmo grigio pure lobato.
Testo: santificavit nos per lavacrum regenerationis
Traduzione: Ci santificò con il battesimo della rigenerazione. Collocazione: Sopra il battistero. Note: L’epigrafe appare come la precedente.
Testo: archip(resbiter) orontius madaro praelatus domesticus funditus extruxit a(nno) d(omini) mcml
Traduzione: L’arciprete Oronzo Madaro, prelato domestico (del Papa) fece costruire completamente nell’anno del signore 1950.
Collocazione: Cappellone del Santissimo.
Le Confraternite della Parrocchia
Principalmente dalle Sante Visite si apprende quali Confraternite esistettero a Novoli ed ancora esistono, e alla ricostruzione delle vicende di questi pii sodalizi provvedé Mons. Carmine Maci (1917-2005) di Campi Salentina, illustre e dotto sacerdote, nonché mio affettuoso amico, il quale a tal proposito pubblicò testi specifici, da cui attingiamo.
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“Piccole realtà ecclesiali, diffuse in tutta Italia, le Confraternite sono associazioni modeste e per molti aspetti ancora misteriose, in cui la tradizione religiosa si confonde con lo spirito corporativo delle diverse fasce del popolo di Dio.
Antiche aggregazioni laicali, le Confraternite hanno preceduto di secoli gli odierni movimenti e associazioni, ed esse pur essendo superate, possono essere riproposte pur oggi come luoghi di aggregazione e di impegno laicale, che consentono a tanti di sentirsi attivi nell’apostolato cristiano. Ovviamente occorre la rivitalizzazione di questi sodalizi, adeguandosi alla nuove esigenze della Chiesa e della società tutta, diventando momento qualificante della vita ecclesiale di oggi”9.
Certo, è questo l’auspicio, ma la validità religiosa delle Confraternite dipende dalla cura che ad esse dedicano i sacerdoti, ossia i Padri Spirituali, poiché altrimenti esse, come quasi sempre accade, si configurano come una sorta di agenzia funeraria dato che nelle loro cappelle cimiteriali garantiscono la sepoltura dei propri aderenti, i confratelli, i quali ad una certa età uomini e donne aderiscono ai pii sodalizi, ma non più come in passato, per essere certi di una dignitosa sepoltura. Nelle cappelle delle Confraternite, ovviamente pagando, anche coloro che non hanno mai aderito possono essere ospitati da morti per interessamento dei parenti che, volendo e pagando, possono rinnovare per la sepoltura, fino a quando i resti del defunto saranno sistemati in un loculetto-ossario invece di essere destinati all’Ossario comune. Tali preoccupazioni, tuttavia, non toccano i tanti che, potendo, realizzano proprie cappelle familiari.
A Novoli, come altrove, allorché qualcuno si iscrive ad una Confraternita si dice “ca s’ha ssittatu fratellu”, ma ciò ha pure un altro significato più prosaico e ironico, volendo dire che ormai chi ha deciso di iscriversi ad una Confraternita è persona consapevole di avere scarsa aspettativa di vita, oppure perché data l’età avanzata si preoccupa per l’adilà, essendosene dimenticato precedentemente.
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Confraternita del SS. Sacramento
Le Sante Visite del 1627-28, del 1640 e dell’ottobre 1754 riportano l’esistenza della Confraternita del SS. Sacramento che cessò di esistere tra il 1754 e il 1767.
9 Cit. da C. Maci, Le Confraternite della Città e della Diocesi di Lecce, Fasano 1991, pp. 84-87.
10 Cit. da mons. C.F. Ruppi, Presentazione, in C. Maci, op. cit., pp. 7-8.
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- Confraternita di Maria SS. del Rosario
Fondata prima del 20 dicembre 1581, in quella data fu aggregata all’Arciconfraternita di Roma. Fu attiva all’Altare del SS. Sacramento e nel 1746 era già estinta.
- Confraternita della Buona Morte
Questa Confraternita ebbe vita piuttosto breve poiché, sorta intorno al 1746, e aggregata all’Altare di S. Maria del Carmine, si estinse dopo il 1792.
La Chiesa dell’Immacolata
Il tempio originario risale al X secolo circa e fu dedicato alla Theotokos, ossia alla Madre del Figlio di Dio, in latino detta Deipara o Mater Domini. All’epoca l’area era occupata oggi da Novoli era ricoperta da un immenso bosco, facente parte della “Foresta di Lecce”, mentre il sito non molto lontano da S. Nicola era intensamente coltivato ed esisteva ivi un nucleo abitato gravitante intorno ad una “Grancia” bizantina dipendente da S. Maria di Cerrate.
Nella parte boscata del territorio novolese sorgeva una cripta lauritica, nucleo primitivo della chiesa oggi detta dell’Immacolata. Intorno a questa cripta gravitavano diverse cellette ipogee, ognuna dedicata al santo che l’eremita venerava. C’erano la cella dedicata a Sant’Andrea (oggi Chiesa Matrice), alla Madonna allattante (oggi chiesa di S. Oronzo) a S. Stefano (oggi chiesa di S. Giuseppe), al Crocefisso (andata perduta), a S. Antonio Abate (attuale tempio con la stessa denominazione) e a S. Giovanni, distrutta e anticamente allocata nell’omonima via del paese. Nel periodo bizantino la chiesa fu a tre navate, quella centrale con l’altare maggiore e il coro, mentre nelle navate laterali sostavano i fedeli per assistere alle sacre funzioni.
Col trascorrere dei secoli e con la stratificazione di diversi stili e culti, la Chiesa dell’Immacolata ha subìto molti rimaneggiamenti, sicché oggi della sua struttura originaria, forse risalente al XIV-XV secolo, esiste soltanto la navata centrale. La S. Visita effettuata il 18 maggio 1640 dal Vescovo di Lecce Mons. Luigi Pappacoda ci offre le prime notizie sulla Chiesa dell’Immacolata che, all’epoca, sicuramente conservava l’originario ambiente ipogeo al quale è sicuro che fino al 1745 si accedeva tramite sette scalini. Poi tale ambiente fu adibito a sepoltura dei defunti, di cui alcune tombe emersero con i restauri del 1988.
Se negli atti ufficiali, e cioè fino al 1768, il tempio risultava dedicato alla
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Mater Domini, nella tradizione popolare sin dal XVII sec. appare invece intitolato alla Madonna Immacolata in quanto, come attesta il Vescovo Pappacoda, la chiesetta ospitata già la Congregazione omonima.
Tutti coloro che hanno scritto di questo tempio hanno sempre sostenuto e sostengono che la cripta originaria fosse dedicata alla Vergine Hodegitria, ossia a Colei che indica la retta via. Però, confortato dal parere di alcuni studiosi di iconografia mariana greco-ortodossi, sono giunto alla conclusione che l’antica cripta ipogea sia stata dedicata alla Vergine Theotokos, la Madre di dio, in latino Mater Domini, che fu l’antica denominazione della chiesa, in seguito intitolata alla Madonna Immacolata, come già detto.
A sostegno di questa mia interpretazione chiamo in causa l’affresco bizantineggiante della Vergine con Bambino, scoperto nel 1925 insieme a quello che dovrebbe raffigurare L’ospitalità di Abramo. I due affreschi, coevi, facevano parte di un unico blocco murario che anticamente, quando ancora la chiesa era a tre navate, doveva essere posto a sinistra dell’altare che, demolito, rivelò le due raffigurazioni per secoli ignorate dai Novolesi. In antico, pertanto la raffigurazione della Vergine col Bambino prospettava nella navata centrale, mentre l’altro affresco, ossia la cosiddetta Ospitalità di Abramo, essendo realizzato sul retro del blocco murario, appariva nella navata sinistra. Questi superstiti affreschi sono i meglio conservati del ciclo pittorico della Chiesa dell’Immacolata e, ritornando a considerare sulla originaria denominazione della cripta sulla quale poi venne costruita la chiesa, ritengo che l’affresco raffigurante la Vergine con Bambino rappresenti la Theotokos e non, invece, l’Hodegitria.
A onor del vero gli studiosi di iconografia mariana non sempre concordano nell’identificare e, quindi, nel distinguere le due tipologie rappresentative. L’Hodegitria, quasi sempre, appare col Bambino sul braccio sinistro e, in alto, con due angeli. Gesù, poi, regge in mano il cartiglio della nuova Legge. Nella raffigurazione della Theotokos, invece, sia gli angeli e sia il cartiglio sono assenti, e ai lati del capo della Vergine appare sempre l’acronimo esegetico in lettere greche: MR θV ( MÈTER TEOU YIOY), ossia la Madre del Figlio di Dio.
Nel 1791 la chiesa possedeva una campana con l’immagine della Vergine Immacolata in rilievo e nel luglio 1865, in seguito ai restauri dell’altare maggiore, nella chiesetta novolese venne scoperto un affresco raffigurante la Vergine con Bambino tra scene allegoriche. Il dipinto, assai rovinato, recava la data del 1618, e venne attribuito al cappuccino frate Lorenzo, in quel tempo attivo a Novoli, ma di questa icona oggi nulla resta.
Tali dipinti apparivano ai lati dell’immagine testé citata ed essi, nono-
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stante i danni irreversibili, raffiguravano rispettivamente, a sinistra, un angelo in volo che da due recipienti versava acqua su di una casa che bruciava in un centro abitato, da cui scacciava i diavoli. In basso si scorgeva un frate francescano. Sul lato destro dell’icona distrutta appariva un frate su di una barca e con Turchi in mezzo al mare. Più giù forse lo stesso frate condannato all’impalatura, ma il palo appariva miracolosamente spezzato. La scena si concludeva, in basso, con la raffigurazione delle anime del Purgatorio.
Queste quattro scene, ed è appena il caso di notarlo, testimoniano la paura collettiva delle genti di Terra d’Otranto che tra XV e XVIII secolo conobbero la recrudescenza delle incursioni turche e piratesche, soprattutto dopo il sacco d’Otranto (1480), allorquando non vi fu luogo della penisola salentina al sicuro delle scorrerie islamiche. Le difese militari erano insufficienti e, poi, gli incursori agivano di sorpresa e subito si dileguavano dopo aver razziato e fatti tanti prigionieri. Le inermi popolazioni meridionali più che alle difese si affidavano ai santi, ai miracoli, e a tal proposito mia zia Maria Costantina Mazzotta narrava che S. Antonio Abate, in epoca imprecisata, avrebbe salvato Novoli dai Turchi, riducendoli in cenere11 .
E quasi cenere è restata dei quattro affreschi testé citati. A questo punto cosa dire, quante recriminazioni potrebbero esser fatte? L’inclemenza del tempo e l’incuria degli uomini hanno pressoché distrutto testimonianze pittoriche che, sia pur modeste, appartengono all’identità novolese.
Nel 1925 questo tempio fu portato da due a tre arcate, il vecchio altare fu demolito e nella circostanza venne alla luce l’immagine della Madonna Theotokos che altri ritennero come si è detto dell’Hodegidria, e che a sua volta aveva occultato un affresco nella parte posteriore. La chiesa, più volte restaurata, possiede l’abside semicircolare con due nicchie ove si trovano statue di santi. La balaustra in marmo bicromo separa il presbiterio dal restante ambiente scandito da due campate con volte a crociera. Nella prima campata, in alto sulla parete destra, si trova un antico organo a doppio mantice. Da una porticina nella parete destra del presbiterio si accede nella sacrestia che nel 1746 fu realizzata dalla Confraternita dell’Immacolata. Nel 1988 venne realizzato il pavimento di pietra di Trani.
Il prospetto, monocuspidale, originariamente era di conci tufacei a vista, poi è stato intonacato. Sul modesto portale di ingresso si apre un oculo con
11 Cfr., G. Marciano, op. cit.; V. Pellegrino, La chiesa dell’Immacolata, in “La cucchiara”, I, 2, Novoli 1963; D. Levante, Una chiesa nata con Novoli. Descrizione dell’arch. Riccardo Mola nel provvedimento di tutela della chiesa dell’Immacolata, in “Quotidiano”, Lecce, 7 luglio 1980; Gruppo Di Studio Alessandro Mattei, La chiesa di Materdomini, oggi dell’Immacolata, in “Spazio C.R.S.E.C., Novoli, giugno 1981.
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cornice-modanata. Il cornicione lievemente agettante ha in alto una piccola croce. Sul lato di destra del tempio vi è un locale ove alloggia il custode, mentre alle spalle sorge la sagrestia, realizzata dalla Confraternita dell’Immacolata, nel 1746.
L’attuale prospetto sostituisce quello più antico che aveva lo stesso portale, però sormontato da una finestra cieca. La facciata, poi, terminava in alto con un cornicione ondulato, una croce lapidea al centro e due pigne, pure in pietra, ai lati esterni. La chiesa possiede ottimi arredi sacri, come alcuni frammenti della Santa Croce, un reliquiario metallico con reliquie della Vergine e di Santa Agnese, un reliquiario d’argento, poi una statua della Madonna con testa e mani lignee, quattro angioletti in cartapesta, un Gesù Bambino in piedi e un altro in una culla, entrambi in cartapesta, un quadro ad olio raffigurante il Perdono d’Assisi e, infine una statua in cartapesta di S. Francesco d’Assisi. La chiesa possiede poi un quadro della Mater Domini sito dietro l’altare maggiore, alla cui destra un affresco raffigura l’Annunciazione desunta forse dai Vangeli apocrifi di Giacomo e dello pseudo Matteo. La Vergine e l’angelo appaiono raffigurati dietro ad un desco, sopra il quale poggiano la brocca, il fuso con filo rosso e l’agnello, simbolo del sacrificio di Gesù.
Nella chiesa è ancora attiva un’antica Confraternita, quella di Maria SS. Immacolata, in origine “Congregazione secondo le regole dei Gesuiti”, in seguito “Confraternita della Beata Vergine”. Di tale pio sodalizio si hanno notizie sin dal 18 maggio 1640, ed esso ricevette il Regio Assenso il 30 maggio 176712.
Il 26 aprile 1980 il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali ha dichiarato che la Chiesa dell’Immacolata, di proprietà dell’omonima Confraternita, è sottoposta a vincolo a norma della Legge 1° giugno 1939, n. 1089, art. 1o .
12 Cit. da C. Maci, op. cit., p. 85.
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Altre antichità
Al tempo del monachesimo lauritico il territorio di Novoli appariva come una sorta di tabaide popolata da calogeri greci. In esso sorgevano tre laure: quella di S. Nicola, quella sita nel luogo in cui poi doveva sorgere Novoli e quella di Monte d’Oro. Evidentemente le tre antiche chiese di cui parla il Marciano possono essere considerate come altre costruzioni esistenti in diversi punti del territorio, forse cellette trasformate poi in cappelle per consentire il culto alla gente sparsa nei campi.
San Nicola fu senza dubbio una laura oltre che una cappella dipendente, come si è detto, dal monastero di S. Maria di Cerrate e divenne poi, sempre secondo il Marciano, il nucleo del villaggio circostante. In tale territorio un centro mistico vi fu anche nel feudo di Villa Convento, ove esiste ancora oggi una celletta dell’alto medioevo. La laura della Masseria della Corte, una grande caverna sotterranea adibita in seguito alla conservazione della biada e delle paglie, e l’altra nel fondo dominato “Cerasini”, che nell’età di mezzo dovette certamente ospitare una comunità monastica.
Chiesa della Madonna del Pane
Il culto Mariano importato nel Salento dall’Oriente dagli asceti e dai monaci brasiliani generò la speciale devozione per Maria (Iperdulìa) nella sue diverse espressioni: come Theotokos (Madre di Dio), Hodegitria (Colei che indica la retta via), Nicòpoia (Vincitrice delle battaglie) e Filousa (Amorevole). La Madonna di Costantinopoli con in braccio il Bambino era conosciuta nel Salento già prima del X secolo, ed era nata nel sito di Novoli, allora minuscolo casale, a cui come si è detto avrebbe dato il nome.
Nel 1707 Novoli era poco più di un villaggio con circa 1800 abitanti, di cui 28 sacerdoti, 35 chierici, 1 diacono, 1 suddiacono e 50 monache bizzoche. In quel tempo esisteva una misera e cadente cappelletta, sulla via per Veglie, chiamata la Cuneddhra, all’interno della quale si trovava effigiata la Madonna di Costantinopoli, sotto la quale i tanti devoti facevano ardere una lampada con olio. Di fronte al tempietto, e precisamente nel sito che ancora oggi vien detto della Nicchina, su di un muretto era dipinta l’immagine della Vergine, oggetto di venerazione di coloni e viandanti. Si sa che un devoto alla Madonna di Costantinopoli il 6 agosto 1696, tal Santo Prato, con testamento redatto da don Pietro Greco, arciprete di Novoli, il 20 giugno 1685, istituì un legato di 30 Ducati a favore della cappelletta della Madonna di Costantinopoli, e forse vi furono altri atti di generosità devozionale.
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Ma la storia del culto mariano a Novoli ebbe ulteriore forza e vigore in occasione di un evento, nel 1707, così come racconta la tradizione orale, priva tuttavia di coevi documenti, laici ed ecclesiastici, secondo la quale in quell’anno un morbo avrebbe funestato il paese, dove però per miracolo della Vergine sarebbe cessato. A onor del vero, comunque, va detto che il Registro dei Morti di quell’anno non riporta alcuna recrudescenza della mortalità che si attestava a 29 decessi, quindi nella media degli anni precedenti e di quelli che seguirono, e ciò appare molto strano, sicché tanto ha dato la stura a molti dubbi, polemiche e negazioni dell’evento “miracoloso”.
La narrazione inerente il pane miracoloso della Vergine, che appresso sarà riportata, corse oralmente per circa centocinquanta anni, fino a quando nel 1859 don Vincenzo Tarantini ne diffuse la versione scritta con il seguente titolo: Relazione della miracolosa comparsa di Maria SS. di Costantinopoli, testo privo di qualsivoglia validità storica perché riporta soltanto il “si dice” senza la minima verifica. Ed ecco cosa si legge nella suddetta Relazione: ‹‹Volgea l’anno 1707 della nostra redenzione, allorché a Novoli, ameno
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e mediocre villaggio della Diocesi di Lecce, fu attaccato da una fierissima e mortale epidemia, talché la strage era spaventosa. Quando in tempo di sì terribile calamità e di si ferale gastigo del Signore, conduceasi in campagna lungo la via che mena a Veglie, piccolo casale della Diocesi di Brindisi, e nella qual via oggi è sita la cappella della B. Vergine di Costantinopoli, una certa donna di bassa condizione, semplicissima e di nullo intendimento, chiamata Giovanna, la quale giunta in un luogo poco distante dall’abitato, dove in una nicchia eravi effigiata Maria SS. di Costantinopoli, le comparve una Matrona di bianche e splendide vesti, sopra ogni umano vedere bellissima e in portamento da Regina, la quale, facendosi innanzi alla detta Giovanna, le presentò un pane imponendole di consegnarlo al R.ndo Arciprete di Novoli (di nome Pietro Greco sacerdote scienziato e di vita santissima) acciò dispensato lo avesse agl’ infermi tutti, giacché in quel pane era racchiuso il farmaco salutare di quelle vittime di una morte certa e di vantaggio le soggiunse, ch’Ella voleva eleggersi Novoli per la sua sede di Protezione, e che per tal motivo le fosse eretta una chiesa (e le additò il luogo) dedicata alla Vergine maria SS. di Costantinopoli.
L’ottimo sig. Arciprete intesa avendo dalla Giovanna cotanto prodigiosa relazione, avuto il pane, e temendo di qualche illusione, inviò novellamente la Giovanna alla comparsale Signora, onde apparar da Lei medesima l’Ave Maria, sapendo benissimo il suddetto Arciprete, che comecché la Giovanna sprovvista fosse di ogni rudimento di nostra angusta evedenza, ed anco incapace quasi ad apprendere, stante la sua piccola mente ed ignoranza, così stato sarebbe moralmente impossibile potere apparare anche l’Ave Maria. Ritornata la buona donna nel medesimo luogo, le si presentò la stessa Matrona, a cui la Giovanna espose quanto l’Arciprete imposto le aveva, ed ebbene in risposta di essere stata buona a scuola, ed aver udito un buon maestro, e che perciò ritornasse al medesimo per soddisfare a quanto lui chiesto si fosse. Per lo ché subito ritornata, non solo recitò con speditezza somma l’Ave Maria, ma si bene fecesi conoscere fornita di cognizioni altissime della Cristiana Religione, a tal che tutti stupironsi della grazia, della chiarezza della facilità colla quale dichiarava a tutti la miracolosa apparizione di Maria SS. di Costantinopoli.
L’Arciprete ondunque stimando autentico il miracolo, e di motivi sufficienti bastevolmente ricolmo alla credenza, coll’intervento del clero e del Popolo che gli equivale divotamente, dispensò per famiglie il Pane di Maria agl’inferi ed morienti tutti, narrando pubblicamente l’accaduto e le misericordi di Dio e della Vergine di Costantinopoli, accendendogli alla fede ed alla speranza di una subita guarigione. Non appena dagl’infermi si saggia-
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va quel pane prodigioso che si vedea tosto l’effetto: guariti perfettamente e all’istante si alzavano dal letto della morte per benedire colle lagrime di una filiale riconoscenza la Madre dolcissima che loro protetti avea.
Divulgatosi frattanto un si strano ed augustissimo Miracolo per vicini e lontani territori, crebbe a tal segno la divozione verso la Beatissima Vergine, che dalle spontanee offerte dei Fedeli subito Le si edificò la Chiesa cui Ella medesima disegnò alla Giovanna. Nell’altare della Vergine si conserva oggi la stessa immagine esposta prima sulla pubblica via, venerata con divota frequenza dai Novolesi, alla quale da ogni parte venivano ossessi e storpi e ciechi ed altri di qualunque malore aggravati, i quali avanti appena nella Chiesetta della Sacrosanta Protettrice, ottenevano la biasimata salute, e fra questi per pregio dell’opera sarà d’uomo riferirne parecchi. Un Mastro Muratore Novolese era ossesso, talché facea paura a chiunque sia, gridando orribilmente notte e giorno per le strade; a questo fu applicato l’olio della lampada di Maria, e tosto fu liberato da quella tenebrosa invasione. Un Sacerdote di Putignano era storpio in modo che invece di camminare dovea essere portato: fu questi infervorato a ricorrere alla Vergine di Costantinopoli, ed essendo stato recato in Novoli, non appena pervenne nella Chiesa di Lei, che tantosto sanato affanno andò da se a prostrarsi all’altare di nostra grand Donna.
Un altro Prete Leccese soffriva un malore tristissimo in una gamba, talché erasi in tutto guasta ed infradiciata, e per comun consentimento dè Medici dovevasi a lui troncare. Questi fatto consapevole degli strepitosi prodigi che in Novoli la Beata Vergine operava, tosto pieno di fidanza si fé portare nella Chiesa di Lei, dove giunto ed applicatosi l’olio Benedetto, con stupore degli astanti, si vide cadere l’osso fradicio, e camminare liberamente.
Per questi ed altri prodigi la sua Chiesetta fu donata di varie elargizioni simboliche ai veri miracoli, di che compiacquesi far mostra stupenda la Madre del Signore Iddio.
Pienamente credesi che il miracolo del Pane siasi rinnovellato anche in Novoli stesso, ed eccone l’esposizione.
Sul finire del 1780, e per più mesi del 1781, un mortifero malore serpeggiava per tutto il territorio: questa infermità attaccava i polmoni e gl’infiammava, e poiché veniva con dolore di fianco a togliere il respiro dal petto degl’infermi, li menava inevitabilmente alla morte. Era chiamata Pleuropesipnemonia. Ogni umano mezzo era divenuto inutile all’uopo, l’arte per nulla giovava, la scienza medica erasi affatto sanarvita, e trovavasi inefficace ad arrestare le continue morti, di cui veniva funestata questa infelice contrada. Perduta adunque ogni naturale speranza, si volle con voto unanime, ricorrere al valevole patrocinio di Maria Costantinopolitana. Sicché coll’intervento del Clero e con un frequente concorso di popolo celebrasi solennemente
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L’apparizione di Maria SS. del Pane alla Giovanna (1822. Disegno di Giovanni Grassi inciso da Filippo Morghen)
la S. Messa (la quale cosa anche oggidì pratica si da quel popolo divoto in qualche loro pubblico bisogno) nella Cappella di Lei e poscia benedicesi il pane. Dopo ciò eseguito, di dispensò a tutte le famiglie ed infermi il Pane Benedetto. Videsi sensibilmente cessare l’infermità desolante, e in modo che dopo pochissimi giorni non restò vestigio alcuno di essa, attribuendoli tutta alla potentissima intercessione e patrocinio di Maria SS.a.
Viva è la fiducia che i Novolesi nutrono verso il Pane di Maria Benedetto nelle circostanze o pubbliche o provate loro da un qualche Sacerdote dopo celebrata la S. Messa; e certo è dal fatto, che mai ricorrendo a questo salutevol mezzo non avessero esperimentato grandi effetti. E veramente grandioso e manifesto fu il prodigio che la SS. Madre di Costantinopoli degnossi apparire a prò del diletto suo popolo di Novoli nell’anno 1855; quando per due mesi circa il Colera spaziando per moltissimi luoghi della Provincia, invadendo e portando con spavento la distruzione in terre e villaggi vicinissimi al nostro, non osò infestare, Salice, Campi, Carmiano, Squinzano, Monteroni, Arnesano, Veglie, Guagnano, postigli quali a cinque o quattro miglia; e quali a due e ad un solo miglio (per tacere di Oria, Torre S. Susanna, ed altri siti a mediocri distanze); solo Novoli, che già, con un Triduo pubblico aveva ricorso alla sua Protrettrice ed erasi munito del prezioso scudo del Pane Benedetto, rimase libero e sgombro da ogni malore, ed in guisa sono che con sorpresa dei professori di medicina, neppure infermità croniche ebbero luogo in quei tristissimi mesi; onde che gli abitanti dei paesi aggrediti non solo vicini a noi m’anche lontanissimi venivano a chiedere il Pane Benedetto di Maria SS. di Costantinopoli come sicuro mezzo per essere liberati dalla mortale infermità.
I Novolesi grati per la protezione siffatta manifestata loro da Maria SS. con tali svariati prodigi, in ogni anno fin dalla miracolosa apparizione di Lei commemorarono con pomposa Festa quel giorno memorando, allorché in mezzo al generale squallore per la micidiale epidemia scese Ella medesima per darci il farmaco salutare, il Pane; tal divota e riconoscente solennità è stata praticata senza niuna interruzione in cui altre pompe un Sacerdote è invitato a parlare con apposito sermone sul miracolo del 1707 e sulla continua protezione di Maria SS. di Costantinopoli”13 .
Nessun prete novolese, e tantomeno la Curia Vescovile, nulla eccepirono
13 In E. Rossi (Roiss), La Madonna con il Pane in mano, Colognola ai Colli, 1993, pp. 55-60. La Relazione di don Vincenzo Trantini, sollecitata da mons. Nicola Caputo giunto a Novoli in S. Visita l’9 ottobre 1853, è riportata negli Atti della stessa con il numero 267. Il presule si meravigliava come nella S. Visita precedente la chiesa non era ancora detta della Madonna del Pane. Per cui volle saperne di più. Si aggiunge poi che l’arciprete don Oronzo De Matteis nel 1893 scrisse la Memoria storica della duplice apparizione della madonna, avendo chiaramente attinto dalla Relazione di don Vincenzo Trantini.
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sulla “Relazione” di don Vincenzo Tarantini, tutti tacquero e così pure i vari Vescovi che, anzi, già avevano assecondato e assecondano il culto della Madonna del Pane. Mancava al tempo, e fino alla seconda metà del Novecento, qualcuno tra i laici interessato alle vicende municipali di Novoli, per cui il clero, come per suo antico costume, quasi sempre mistificava in tema di miracoli, tanto cari alla credulità popolare. Accadde però che nel 1993 il novolese Enzo Rossi Roiss pubblicò un testo, La Madonna con il pane in mano, il quale per primo confutò la veridicità storica del “miracolo” del 1707, e in ciò fu seguito timidamente da un prete sui generis, don Oronzo Mazzotta (Novoli, 1919-2014), che pur aveva la pretesa di essere uno storiografo infallibile. Enzo Rossi Roiss nel giugno 1993 scrisse al Vicario Generale della Curia Arcivescovile di Lecce la seguente lettera:
AL VICARIO GENERALE
Curia Arcivescovile di Lecce Bologna, 5 giugno 1993 Rif. Prot. n. 42/93
Preso atto che dal 6 maggio 1974 una Autorità Vaticana ha disapprovato ufficialmente l’apparizione della Madonna del pane in mano a una novolese, pur approvando il festeggiamento della Madonna perché considerato (considerabile) “congruo” teologicamente e liturgicamente, alle Autorità Sacerdotali Novolesi pongo queste domande, tramite la Curia
Fino al 1974 da chi è risultato “approvato” il culto e il festeggiamento della Madonna del Pane a Novoli?
Sono stati informati nel frattempo (e in qualche modo) i Novolesi i che i festeggiamenti “mariani” locali riguardano soltanto il culto della Madonna e non la sua “apparizione col pane in mano alla “villanella idiota” Giovanna, che tanti panegirici ha fatto sacrificare e pronunciare durante tre secoli?
Con i miei ossequi. Roiss
Ecco la risposta:
Prot. n. 42/93 Lecce, 31 maggio 1993
Al sign. Enzo Rossi Roiss
CURIA ARCIVESCOVILE LECCE
In merito alla sua del 25 gennaio c.a. mi premuto informarla che nel Calendario
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liturgico Diocesano, approvato dalla S. Congregazione per il Culto divino il 6 maggio 1974, è inclusa la Solennità della “B. V. Maria del Pane”, titolare della Chiesa Maria SS. del Pane in Novoli, al sabato precedente la 3 domenica di luglio; precisando che l’approvazione ecclesiastica concerne la congruità teologico-liturgica del titolo, non invece le circostanze storiche originarie. Distinti ossequi
Il Vicario Generale Mons.FrancescMannarini14 .
Quindi per l’autorità ecclesiastica il “miracolo” del 1707 non avvenne. Ritorniamo ora alla storia, quella vera, considerando che don Pietro Greco e il sindaco del tempo credettero, o vollero credere all’evento “miracoloso” e così tutti gli altri li seguirono. A questo punto va detto che nella Santa Visita del 19 giugno 1719, a Novoli, non si fa cenno alcuno sull’apparizione della Madonna alla Giovanna e, nell’occasione, visitarono la Chiesa di Novoli due delegati del Vescovo Michele Pignatelli, il tesoriere Orazio Tafuro e il canonico della Cattedrale di Lecce Andrea Sirsi, i quali trovarono tutto in regola (29). Nello stesso anno il sindaco di Novoli, anche a nome della gente, chiese al presule leccese di poter ingrandire la cappelluccia della Vergine di Costantinopoli, e il Pignatelli esaudì senza indugi questa petizione, e così o fu ricostruita ex novo oppure fu ingrandita la chiesa già detta della Madonna del Pane, per cui ai lavori concorsero non solo i Novolesi ma anche la gente dei paesi vicini. Accanto alla chiesa, poiché il paese manca a di pubblici alloggi, si fabbricarono tre grandi stanze per ospitare i forestieri.
Certo, l’antica chiesetta era in pessime condizioni, ma annoverava tanti devoti, come si è detto, per cui la necessità di ampliarla era divenuta ormai indispensabile a causa dell’accrescimento del culto dovuto al “miracolo” del 1707. Nella S. Visita del 1746, 19-31 ottobre, Mons. Sersale descrive la Chiesa della Vergine di Costantinopoli, oggi della Madonna del Pane. Il tempio distava 200 passi dall’abitato, era lungo 53 cubiti, largo 24, le braccia del transetto raggiungevano la misura di 49 cubiti. Sulle pareti si aprivano 16 finestre, parte con grate di pietra e parte con vetrate. Nella parte inferiore del coro vi era il presbiterio munito di cancellata di ferro. Il tetto era coperto di tegole, e la chiesa possedeva un campanile con una campana di 100 libbre, fusa con le elemosine dei fedeli. Possedeva tre altari, e su quello maggiore, in una cornice di pietra, scolpita con arte, c’era l’antica immagine
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In Archivio Mario Rossi.
della Vergine della cuneddhra protetta da un vetro e da un velo ceruleo. Sullo stesso altare, anch’esso in pietra leccese, vi apparivano scolpiti due angeli reggenti cornucopie. Gli altri due altari uno dedicato a Sant’Agostino, magistralmente effigiato intorno agli anni trenta del secolo scorso dal p. Raffaello Pantaloni (1888-1952), francescano dell’Ordine di frati minori al quale verosimilmente commissionò l’opera, olio su legno, il dotto sacerdote novolese Emanuele Ricciato, al tempo rettore della chiesa della Madonna del Pane e dal 1932 al 1967 direttore spirituale del Terzo Ordine Francescano che a Novoli aveva sede nella chiesa dell’Immacolata. Il secondo altare era dedicato a S. Marco e possedeva un quadro del titolare, ad olio come il primo, opera di artista ignoto del Settecento. Verosimilmente con le larghe offerte raccolte dai fedeli, ma anche con il concorso della Civica Amministrazione, la chiesa della Madonna del Pane fu ingrandita nella seconda metà del Settecento, o forse fu rifatta completamente, conservandosi pressoché inalterata fino ai nostri giorni, a tre navate, con il tetto in pietra realizzato intorno al 1770 a spese del Comune. È bene ricordare che la chiesa di cui si sta parlando in antico fu detta della Beata Vergine di Costantinopoli, ma a partire dalla S. Visita del 1853 di Mons. Caputo, per la prima volta si annota che il popolo la indicava col titolo di Madonna del Pane, e così via via il tempio novolese perdette l’antica denominazione15 .
La Vergine del Pane, con S. Antonio Abate protettrice di Novoli, si festeggia la terza domenica di luglio, ma questa ricorrenza dai Novolesi, ma non solo, è meno sentita e partecipata rispetto a quella del Santo eremita, causa l’estate per la gente che è al mare, e poi perché a livello civile mancano particolari attrazioni come quella della fòcara. L’antica statua della Vergine del Pane andò distrutta a causa di un incendio il 26 aprile 1929, generato da un cero acceso, incendio che arrecò pure danni al sacro edificio. Il simulacro della Vergine, però, venne subito rifatto dal noto cartapestaio leccese Luigi Guacci, e così il 1° luglio 1930 Novoli ebbe la statua della sua protettrice, simulacro che fu collocato in un’edicola monumentale, ricca di marmi di ogni genere e di finissime sculture; fu anche restaurata la chiesa e fu rifornita di nuovi arredi16. Il miracolo della Madonna del Pane è stato mediocremente raffigurato da qualche pittore locale, ma inconfutabilmente spetta a Filippo Morghen l’aver realizzato nel 1822, con tecnica incisoria, la celeberrima scena ove si vede la Madonna che porge il pane miracoloso alla Giovanna e
15 ACAL, Sante Visite, b.35, fasc. 196, ff. 34v-36r.
16 Id., b. 30, fasc. 141, f. 89r. Un’analisi accurata del quadro che raffigura S. Agostino è stata effettuata da D. Levante: Il dipinto di “Sant’Agostino vescovo di Ippona”, all’interno della chiesa di Maria SS.ma del Pane, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIV, 15 luglio 2007, pp. 80-81.
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sullo sfondo il campanile della chiesa matrice del paese. Il celebre incisore per realizzare quest’opera, si servì del disegno del pittore salentino Giovanni Grassi.
Il tempio di cui stiamo parlando sorge sull’attuale Via Veglie, e al di là della strada, di fronte alla chiesa, in un piccolo guardino sorge il settecentesco pozzo realizzato con la colletta delle elemosine, conosciuto come lu puzzu te la Matonna, dal quale per oltre due secoli è stata attinta l’acqua. Caduto nel dimenticatoio, ignorato e trascurato, questo pezzo sembra esser risorto a nuova vita, poiché nel 2016 grazie all’attuale parroco dell’antistante tempio mariano, don Luigi Lezzi e ad un gruppo di ditte Novolesi, offertesi gratuitamente, è stato riqualificato lo spazio intorno ad esso, finalmente libero e in bella mostra di sé.
Il pozzo te la Matonna, per tanto tempo abbandonato e in disuso, risente dell’inclemenza del tempo e dell’incuria degli uomini. Sopra il puteale, alle stremità dell’ovale oblungo, si innalzano due colonnine con basamento a capitello, raccordate da un’architrave, con iscrizione latina che ci è giunta incompleta, indi un elegante e decorato fastigio con volute.
Ad est del suddetto pozzo vi era pure una casa a piano terra, tra alberi d’olivo, con cucina, forno a stella, nonché la suppellettile necessaria per l’abitazione dei due custodi della chiesa. In questa casa abitava pure una pia donna che teneva in ordine la chiesa, la quale possedeva un orto di vigne in località “Padula”, donato da don Gaetano Mazzotta, cantore. Essa possedeva molti lasciti e legati, tra i quali quello di Santo Prato con l’obbligo di celebrare la Messa anche nei giorni festivi, un censo di 30 ducati, istituito nel 1695 da don Pietro Greco. Altri legati provenivano da diversi fedeli (32). La chiesa, attualmente, si presenta a croce latina con tre navate; le due laterali hanno due campate con volta a crociera e non posseggono altari. Sui muri appaiono, incorniciati, alcuni quadri che raffigurano soggetti sacri. Nel transetto di sinistra appare la statua della Madonna del Pane con l’altare marmoreo entro la Cappella dedicata alla Vergine e al Crocifisso. Sull’altare maggiore fa bella mostra di sé una magnifica pala d’altare, alta circa 6 metri e larga m.2,5, che Tonio Calabrese così egregiamente descrive: “Essa rappresenta una nuvola, scolpita su pietra, circondata da dodici angeli bianchi con rifiniture in oro, che nel loro giro vorticoso sembrano sostenere l’antica e sempre venerata immagine della cuneddhra raffigurante, appunto, la Theotokos, la Vergine Maria che sorregge il Bambin Gesù benedicente. L’affresco, di autore ignoto, ma ben conservato, è racchiuso in una cornice intarsiata con oro zecchino e decorata all’interno da quaranta stelle in argento. In alto è disposta una corona auri fregiata, sormontata dal
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globo con croce, mentre la base, in pietra riccamente decorata con motivi floreali e volute, presenta tre angeli: uno al centro e due ai lati che sembrano sorreggere due cornucopie; altri due putti sono disposti lateralmente e più in basso. Lungo le due colonne laterali sono disposte due lampade votive in argento donate dalla famiglia Cezzi in memoria del compianto Salvatore (Toto Cezzi).
Una delle primissime descrizioni documentate dell’artistica pala, unica nel suo genere un provincia, è quella fatta da Donato Gallarano agli inizi degli anni ‘60 del ‘900. La monumentale ed artistica pala era ubicata in avanti, dice sempre Tonio Calabrese, (precisamente dove oggi trova posto la mensa) e costituiva un unico altare su cui veniva celebrata la Santa Messa; divisa dall’assemblea da una balaustra in ferro, era circondata da una raggiera illuminata. Successivamente, anche in virtù delle nuove disposizioni liturgiche conciliari le quali stabilivano che il sacerdote dovesse celebrare non più con le spalle rivolte all’assemblea, ma coram populo (di fronte al popolo), furono intrapresi lavori di ristrutturazione nel corso dei quali fu ampliato l’altare maggiore, addossando l’artistica pala d’altare al muro del presbiterio abbellito a sua volta con tessere di mosaico in oro”17. Ampio, piatto e semplicissimo è il prospetto della chiesa che mostra a vista, quindi senza intonaco, i conci tufacei con i quali fu costruita senza decorazioni, eccezion fatta per l’unica porta di ingresso a cui si accede avendo superato tre gradini he la separano dal Iano stradale. Tale porta negli stipiti e nell’architrave possiede interessanti motivi decorativi geometrici e floreali. Sopra l’architrave, in asse con la porta di ingresso, si apre un finestrone finemente incorniciato, indi più su appare un semplice è piatto timpano mistilineo.
Ma l’opera che segna una svolta considerevole nella storia del Santuario della Madonna del Pane e la Casa della Carità, adiacente al tempio, destinata ad accogliervi i vecchi Novolesi e quanti altri desiderano ivi ritirarsi.
17 Cit. da T. Calabrese, L’artistica pala d’altare nella Chiesa di Maria SS. Ma del Pane, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XV, 20 luglio 2008, pp. 4-5. Molti autori si sono occupati del miracolo della M adonna del Pane e della Sua chiesa a Novoli. Da parte nostra riportiamo la bibliografia più significativa, e cioè: AA. VV., Novoli 1707, una storia, una fede. Numero speciale in occasione dell’erezione a parrocchia della Chiesa della M adonna del Pane, Novoli 1982; A. Mangeli, Sant’Antonio Abate e Maria SS.ma del pane etc., op. cit.; V. Pellegrino, Operazone Giovanna, Novoli 1984; E. Rossi (Roiss), La M adonna con il pane in mano, Bologna 1993; G. Spagnolo, Testimonianze iconografiche sul culto della madonna del Pane di Novoli, in “La Giuanna moscia”, numero unico, Novoli 1986; W. Mazzotta, op. cit., pp. 27-29; S. Epifani, La chiesa della madonna di Costantinopoli a Novoli, nella relazione della visita pastorale di mons. Scipione Sersale del 1746, in “Lu Furgularu”, IX, 17 gennaio 2014, pp. 6-9; A. Ianne, Dalla “cuneddha” al Santuario, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVI, 19 luglio 2009, p. 2.
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L’iniziativa di creare a Novoli un asilo-ricovero per l’assistenza materiale e spirituale agli anziani del Comune, inabili al lavoro, si deve in origine a pochi generosi: la signora Anna D’Agostino, ved. Parlangeli, la signorina Vitina Donno, il comm. Giovanni Cezzi e mons. Oronzo Madaro.
Grazie ai mezzi quasi esclusivi di costoro e di altri filantropi, tra i quali il signor Cosimo Madaro e la signorina Giuseppina Dell’Acqua, ebbe inizio nel 1940 la costruzione dell’edificio, essendo progettista e direttore dei lavori l’architetto novolese Cino Mazzotta. I lavori, dopo qualche anno, quando i fabbricati erano stati ultimati solo allo stato grezzo, compresa la copertura sino al parapetto, furono ripresi nel 1946 a cura di un comitato, costituitosi il consenso degli iniziatori, con a capo Francesco Ferrario. Il 12 luglio 1952, sette giorni prima della celebrazione della festa della Madonna del Pane, la Casa della Carità iniziava ufficialmente la sua attività, tuttavia già dal 19 marzo dello stesso anno aveva accolto i suoi primi ospiti, ed ora tre le sue mura vivono gli anziani del paese amorevolmente curati dalle suore di S. Maria della Mercede. A sinistra della Chiesa della Madonna del Pane, su di un basamento lapideo, in un piccolo spazio quadrato, antistante l’ingresso laterale della Casa della Carità, è posto il gruppo scultore o, in marmo bianco, raffigurante la Madonna e la Giovanna secondo la consueta iconografia. L’opera, inaugurata il 22 giugno 1986, fu realizzata a devozione della signora Clara Gravinese.
La chiesa della Madonna del Pane, eretta in Vicaria dipendente della Matrice il 24.9.1979, in Vicaria Autonoma il 17.12.1980, in Parrocchia il 22.11.1981, fu inaugurata l’11.2.1982.
- Custodi: fra’ Vito Stefanelli, Cesario Potì e Saverio Ingrosso.
- Rettori: Sac. Francesco Murra, 1897-1922; Sac. Pasquale De Matteis , 19221934; Sac. Emanuele Ricciato, 1934-1953; Sac. Gioacchino Rizzo, 1953-1980.
- Parroci: Sac. Cosimo Vetrugno, 11.2.1982-14.8.1995; Sac. Mario Vetrugno, 15.8.1995-8.9.2003; Sac. Giuseppe Spedicato, 8.9.2003-23.9.2014; Sac. Luigi Lezzi, 25.9.2015-continua
- Confraternita della Madonna del Pane e S. Luigi: fondata il 21 ottobre 1937, con decreto di Mons. Alberto Costa, nella chiesa di S. Vito, è attiva nella Chiesa di S. Luigi o Madonna del Pane e S. Luigi.
Iscrizioni latine:
Testo: s(anctus) augustinus ep(iscopus) doct(or)
Traduzione: Sant’ Agostino Vescovo e dottore (della Chiesa). Collocazione: Quadro che raffigura S. Agostino. Navata destra. Nota: Il dipinto fu realizzato dal P. Raffaello Pantaloni, o.f.m. nella prima metà del Novecento.
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Testo: (quia) est cor no (feci)isti nos strum donec ad te et requiescat (i)nqvietum in te Traduzione: Poiché ci hai creati per te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in te (S. Agostino, Confessioni, 1,11).
Collocazione: Quadro che raffigura S. Agostino. Libro che il Santo regge con le mani. Navata destra.
Testo: ave verum corpus natum de maria virgine Traduzione: Salve o vero uomo nato da Maria Vergine. Collocazione: Tabernacolo del Santissimo.
Testo: o mater per quam superum venit omnis ab aula gratia tu nobis quae potes affer opem.
Traduzione: O Madre per merito della quale giunse dalla corte celeste ogni grazia, tu che puoi, dacci aiuto.
Collocazione: Nicchia della Titolare.
Testo: aediculam hanc dira incendii vi penitus excisam cives novenses aere collato splendidiorem magnificentioremque extruxerunt in perenne erga suam patronam devoti gratique animi monumentum. a(nno) r(estitutae) s(alutis) mcmxxx. kal(endis) iuliis.
Traduzione: Questa edicola completamente distrutta dalla furia tremenda di un incendio i Novolesi, grazie ad una raccolta di denaro, ricostruirono più splendida e solenne in perenne testimonianza dell’animo grato e devoto alla propria Patrona. Nell’anno della restituita salvezza 1930, 1° luglio.
Collocazione: Base marmorea su cui poggia la statua della Titolare.
Testo: panem coeli dedit eisa
Traduzione: loro donò il pane del cielo.
Collocazione: Chiesa di Maria SS. Del Pane. Base marmorea dell’altare maggiore. Sulla via per Veglie, di fronte alla Chiesa della Madonna del Pane, si incontra un artistico pozzo che si assegna al sec. XVIII, all’epoca in cui venne eretto il tempio Mariano.
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Testo: putei huis elemosinis effossi crepidinem...
Traduzione: Di questo pozzo scavato con la colletta delle elemosine, il puteale fu realizzato su commissione di...
Collocazione: Sull’architrave che regge il fastigio.
Note: Il pozzo possiede incompleta l’epigrafe, poiché mancano il nome del committente e la data di realizzazione che, evidentemente dovevano comparire sulla parte retrostante dell’architrave, ove non si riscontra più alcuna traccia di scrittura.
I PP . Passionisti a Novoli. La Chiesa E il Convento
- Il monumento a San Paolo della Croce Sulla via per Campi Salentina, a destra, in un incrocio stradale, poco prima di giungere al Convento dei PP. Passionisti, sorge il monumento dedicato a San Paolo della Croce (1694-1775), fondatore della Congregazione dei Chierici Scalzi della Santa Croce e della Passione di Nostro signore Gesù Cristo. Un titolo così lungo venne quasi subito semplificato dal popolo cristiano che colse nel nome di Passionisti il carattere e l’essenza della nuova Istituzione.
Il monumento, progettato dal novolese architetto Cino Mazzotta, possiede una struttura parallepipiedale che, a circa mezza altezza, contiene una nicchie adeguata per ospitare la statura del Santo, realizzata in marmo da un autore ignoto. Semplice nelle linee sia pure nella massività della struttura, il monumento fu inaugurato il 6 maggio del 1948.
Il monumento, sfregiato da alcuni vandali, perdette la Croce col Crocifisso, nonché la mano del Santo. Queste parti vennero rifatte dallo scultore Salvatore Spedicato.
- I PP. Passionisti a Novoli
Chi si reca a Novoli in devoto pellegrinaggio alla chiesa della Madonna del Pane può osservare una Croce-ricordo, nei pressi del Tempio, sul cui basamento in marmo può leggere questa iscrizione: A ricordo della prima missione dei PP. Passionisti a Novoli dal 7 al 21-3-1875.
Alla Quaresima del 1875, dunque, risale la prima venuta dei PP. Passionisti a Novoli, chiamati dall’arciprete D. Oronzo De Matteis per predicarvi la Santa Missione. Tra i missionari (tre sacerdoti e un fratello laico) vi era, in qualità di superiore, P. Francesco Saverio dell’Addolorata, compagno di
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noviziato e di studio di S. Gabriele dell’Addolorata. Il P. Francesco Saverio ritornò a Novoli, con due altri Passionisti, nella Quaresima del 1883 per una nuova missione: questa seconda predicazione rinsaldò l’affetto dei Novolesi verso i Passionisti, per i quali poi si dette avvio alla costruzione dell’attuale convento, che è sito sulla via per Campi Salentina.
- La Chiesa e il Convento L’Arciprete Oronzo De Matteis donò un suo giardinetto sulla via per Campi e la prima pietra della fabbrica fu posta l’8 dicembre 1887, benedetta solennemente dal P. Anselmo, Passionista, che era giunto a Novoli per predicare in occasione della festa dell’Immacolata Concezione. Purtroppo la costruzione del convento subì varie soste, a causa di notevoli difficoltà economiche. Tuttavia una nuova Missione, predicata nella Quaresima del 1894 (4-19 marzo), stimolò la ripresa dei lavori che, all’epoca, comprendevano per intero soltanto il reparto prospiciente sulla via maestra. In quell’anno furano posti gli infissi delle porte e delle finestre, fu allestita la povera suppellettile delle celle, furono adattate alcune stanze al pian terreno per la Chiesa. I Passionisti erano giunti a Novoli nel 1894, in occasione delle celebrazioni del Secondo Centenario della nascita del Santo
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Fondatore S. Paolo della Croce. La Missione era guidata dal predicatore P. Marcello, da Roma.
La chiesetta, con un solo altare, fu benedetta solennemente dal Sac. D. Pasquale De Matteis. Compiuto il sacro rito della benedizione, il vegliardo arciprete D. Oronzo De Matteis, commosso sino alle lacrime, sciolse il suo antico voto celebrandovi la prima S. Messa.
La notte del 7 luglio 1894, all’insaputa del popolo, giunsero i PP. Passionisti a prendere possesso del ritiro. La famiglia era composta da cinque religiosi: il P. Serafino, superiore, P. Marcello, P. Timoteo, i fratelli Paolino e Sisto.
In seguitò si completò il convento e si costruì la grande chiesa che cominciò a sorgere nello stile neogotico. Essa è ad un unica navata con presbiterio e produce immediatamente una gradevole impressione per la serena solidità e bellezza delle volte, per la sapiente distribuzione dei pilastri polistili, addossati ai muri maestri e sporgenti notevolmente da essi, in modo da formare, col gioco delle semicolonne a fascio che si diramano e si congiungono armonicamente, tre arcate per lato di rilevanti proporzioni, che offrono l’illusione delle navate laterali.
Probabilmente il piano generale della Chiesa doveva avere in origine un’abside poligonale che non fu costruita per esigenze di carattere economico, ma essa è accennata in modo evidente da due ricchissimi ed eleganti pilastri polistili, che separano dal corpo della Chiesa il posto riservato all’altare maggiore. Alla costruzione della Chiesa dei PP. Passionisti ha legato il suo nome uno dei più valenti ingegneri della terra salentina, il novolese Francesco Parlangeli, che a Novoli ha dato anche il palazzo Cosma, varie tombe gentilizie nel locale cimitero ed alcuni stabilimenti industriali.
La scelta dello stile neo-gotico per la Chiesa dei PP. Passionisti si inscrive nella tendenza dell’architettura italiana degli ultimi decenni dell’Ottocento, che imitava lo stile degli edifici dei liberi comuni del 1300: erano quelli gli anni in cui si andava completando, tra l’altro, la facciata di S. Croce in Firenze, secondo il disegno del Matas e ognuno può riscontrare la non casuale rassomiglianza che corre tra la parte centrale del tempio fiorentino e la facciata della Chiesa dei PP. Passionisti in Novoli, la cui cronologia è la seguente:
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- 1887: inizio delle fondamenta;
- 1889: costruzione del basamento fuori terra per tutto il perimetro;
- 1895: ripresa dei lavori fino all’altezza di m.6;
- 1896: completamento dei capitelli e delle colonne;
- 1898: completamento dell’abside, della sagrestia, del coro e della volta della grande navata;
- 1902: completamento della facciata;
- 1909: costruzione del campanile.
E diamo, intanto, uno sguardo alla facciata, che ci sorprende per l’armonia generale della costruzione e per la compostezza delle proporzioni: essa è inquadrata da pilastri proporzionalmente distribuiti e, sebbene manchi delle guglie terminali e della frangia merlata sul coronamento, pure è un gioiello di arte gotica per la serena bellezza del portale, sormontato da regolare timpano con guglie perfettamente eseguite, e per l’armonioso finestrone circolare ornato di membrature e intrecci di archi polilobati.
Quanto si lati della Chiesa, degno di nota ci sembra l’accuratezza o parametro murario appoggiato abilmente al fianco settentrionale con funzioni statiche e ricavato da grandi archi gotici, coronati da ampi rosoni che danno una linea veramente nuova e coniugano la statica all’estica nel ritmo dei piloni abilmente distribuiti.
Il campanile, però, non rispecchia fedelmente la volontà dell’ingegnere Parlangeli, poiché ragioni finanziarie indussero a notevoli riduzioni nelle forme e nelle proporzioni. Perciò ha la base di partenza sulla terrazza del convento e, dopo un piano leggermente rastremato, possiede un altro piano dalle caratteristiche forme gotiche, coronate da una piramide sormontata da un’alta croce di ferro e circondata, sul cornicione, da una gronda e da una ringhiera che da un’altezza di circa trenta metri permette un’ampia visuale circostante.
Nell’interno della Chiesa, dedicata al Cuore Immacolato di Maria, interamente completata con il campanile nel 1909, e consacrata dal vescovo di Lecce Gennaro Trama il 26 agosto di quell’anno, attraggono l’attenzione i grandi altorilievi e le statue in cartapesta del Cav. Manzo di Lecce, di cui parleremo appresso. Al di sopra della porta d’ingresso c’è il magnifico organo della ditta Inzoli di Cremona.
Infine merita un cenno la Croce monumentale, eretta dirimpetto alla Chiesa nel 1934, a ricordo del XIX centenario della Redenzione. Il disegno e l’adattamento dell’insieme furono curati dall’architetto novolese Cino Mazzotta.
La chiesa, come dicevamo, è ad un unica navata (le campate più il Presbiterio). Misura m.26.10 di lunghezza ed è larga m.11,00 compresi i 2 altari laterali, oltre il maggiore.
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Nella Chiesa dei PP. Passionisti dal 17 dicembre 1931 è attiva la Confraternita della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo e, usciti dal Tempio, a sinistra dello spiazzo antistante troveremo la Grotta votiva, ovviamente artificiale, realizzata nel 1955 e dedicata alla Madonna di Lourdes, mentre sulla destra, attiguo alla Chiesa, si trova il Convento dei Reverendi Patri, che posseggono una rinomata biblioteca.
Le Cartapeste della Chiesa dei PP. Passionisti a Novoli
La Chiesa del Convento dei PP. Passionisti di Novoli è soprattuto illustra da statue e rilievi in cartapesta realizzati da Giuseppe Manzo (Lecce, 18491942), uno dei più rinomati artisti salentini, la cui produzione raggiunse vette di alto prestigio. Senza revoca in dubbio si può dire che le Cartapeste che illustrano la Chiesa dei PP. Pasisonisti di Novoli costituiscano un fondamentale punto di riferimento non solo della produzione di Giuseppe Manzo ma anche, e soprattutto, della statuaria sacra ove l’arte della cartapesta ha offerto il meglio di sé.
Nelle statue del Manzo nulla di manierato, nulla di esagerato, ma una perfetta precisione in tutto, dalla modellatura alla linea, all’atteggiamento, al gusto, ma più che tutto all’espressione che vitalizza e manifesta il carattere e la vita. Quando dava l’espressione ai volti egli si appartava ed entrava quasi in estasi. Ciò faceva non perché era geloso dell’arte, ma poiché aveva bisogno di isolarsi, di entrare in sintonia con lo spirito che il tema e il simulacro dovevano manifestare.
Dietro il maggiore altare campeggia un’opera di grandi proporzioni (m.7 x 4) raffigurante il Sacro Cuore di Maria. È questa, senza dubbio, l’opera più impegnativa realizzata dal Manzo per la Chiesa del Convento passionista novolese, dove tra le altre statue in cartapesta brillano quella del Crocefisso, alta cm. 75, di Gesù risorto, alta cm.150, S. Gabriele dell’Addolorata alta cm.170, il Presepe, ma illustrano il Tempio non solo le suddette opere del Manzo, ma anche altre statue in cartapesta prodotte da Antonio Malecore, Raffaele Carretta e l’ Ecce Homo di autore ignoto.
Le Missioni passionistiche a Novoli
In memoria delle Missioni effettuate a Novoli, i PP. Passionisti hanno lasciato segni inequivocabili, ossia le Croci-ricordo, di cui la prima si trova nei pressi della Chiesa della Madonna del Pane, per commemorare la Missione del 1875, la seconda sulla via perché conduce a Lecce, in memoria della Missione del 1894, e la terza, infine, sul monumento dedicato a S. Paolo della Croce, all’inizio di via Gramsci, in ricordo della Missione del 1934.
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Le iscrizioni latine
Testo: jesu xpi (christi) passio Traduzione: La passione di Gesù Cristo. Collocazione: Chiesa del Cuore Immacolato di Maria. Convento dei PP. Passionisti. Nell’orbita del portale della Chiesa. Note: L’epigrafe è contenuta da un cuore sormontato dalla croce. Si tratta del simbolo dei PP. Passionisti. Il monogramma fu inventato da S. Bernardino da Siena.
Testo: d(eo) (o)ptimo m(aximo) templum. hoc exstructum et. ornatum novensium. sumptibus. ac. donariis immaculato. cordi. deiparae. virginis dicatum. consecratumque. fuit a r(everendissi)mo antistite. lycien(se) ianuario trama auxilium praesentibus f(rancisco). di. costanzo. ep(iscop)o monopolis et i(anuario)gigante. ep(iscop)o himeriae magna. piorum. gratulatione anno. domini. mcmvi pridie. idus. augusti
Traduzione: A Dio Ottimo Massimo. Questo tempio costruito e ornato con le spese e coi doni votivi dei Novolesi, dedicato al Cuore Immacolato della Vergine Maria Madre di Dio, fu consacrato dal reverendissimo Vescovo di Lecce Gennaro Trama grazie al contributo di Francesco Di Costanzo Vescovo di Monopoli e Gennaro Gigante Vescovo di Imeria con grande gioia dei fedeli. Nell’anno del Signore 1906. 12 agosto.
Collocazione: Chiesa del Cuore Immacolato di Maria. Convento dei PP. Passionisti. Lato sinistro dell’ingresso.
Testo: christi vexillum popule amplexare novensis crux tibi praesidium crux tibi certa salus
Traduzione: Abbraccia o popolo novolese il vessillo di Cristo, la croce (sia) per te difesa, la croce (sia) per te sicura salvezza.
Collocazione: In alto sopra la statua del Santo.
Note: L’epigrafe è firmata dal Vescovo di Lecce Mons. T. Alberto Costa, e si trova sull’architrave dell’edicola che ospita la statua di S. Paolo della Croce.
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La chiesa di S. Antonio Abate
Fiumi di inchiostro gli studiosi novolesi hanno impiegato per narrare le vicende e la simbologia legata al Santo eremita e qui, non potendo esporre tutte le interpretazioni, rimandiamo alla nota bibliografica acché gli interessati possano saperne abbondantemente. S. Antonio Abate è stato ritenuto da epoca assai antica, risalente comunque al Medioevo, e precisamente al tempo in cui dalle parti nostre dominava Bisanzio, uno dei santi protettori di Novoli insieme alla Madonna di Costantinopoli. La chiesa a Lui dedicata verosimilmente sorse sulla cripta, già menzionata, dedicata proprio al Santo eremita egiziano, ma non conosciamo quando si eresse l’originario tempietto, forse realizzato in epoca normanna. Tuttavia l’originario sacellum appare già menzionato in atti notarili del XVI secolo e poi nelle più antiche S. Visite. La chiesetta sorgeva isolata, sino alla fine del Seicento, in aperta campagna, nel mezzo di un terreno di una quindicina di are, di proprietà della stessa chiesa. Tale zona fu poi venduta al Comune per suoli edificatori verso il 1880 ed il ricavato fu impiegato per la costruzione del Teatro Comunale. La prima Visita pastorale di Mons. Luigi Pappacoda registra il 18 maggio 1640 la ricognizione canonica della chiesetta di S. Antonio Abate (14) con una notazione abbastanza significativa “olim sacellum”. Quello che era solo un tempietto stava per diventare una vera e propria chiesa. Pappacoda vi trova due altari, ma senza suppellettile e quelle poche che c’erano non erano decorose. Vi era un affresco del Santo ma mancava il soffitto, per cui le messe dovute ad Antonia Perrone, Giovanni Perrone e ad Antonio Bernabò venivano celebrate nella Chiesa Matrice. Il cappellano, in quel tempo, era don Antonio Ricciato, eletto dai Mattei. L’avevano preceduto nella carica Marcello Castelluccio e Antonio Longo.
L’altare di S. Biagio era adorno di una bella immagine offerta dall’Università col patto che sarebbe stata trasferita nella cappella intitolata al Santo non appena essa fosse stata costruita. La chiesa di Campi, su una casa di Domenico Mazzotta, abitata da Giovanni Giordano, e su di una casa in via Pendino. Anche se non si può confermarel’opinionedell’Arditi(15)secondocuiiltempiettorisaliva al tempo delle Crociate e più esattamente ai Cavalieri Costantiniani, riteniamo che la chiesetta votiva al Santo Eremita, come pure la devozione verso di Lui, siano da collocare ai primordi della comunità ecclesiale di Novoli, dove è certa l’esistenza del culto bizantino.
L’impulso decisivo alla devozione antoniana, a Novoli, si verificò nel XVII secolo. Nella S. Visita del 8 maggio 1640 il Vescovo Pappacoda attestava che il “sacellum”, ossia l’antica chiesetta era stata demolita e che nella sua area stava sorgendo un nuovo tempio. Il presule riferisce poi che i lavori
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venivano finanziati con le elemosine dei fedeli. Successivamente, quindici anni dopo, il Pappacoda in S. Visita ci dice che presso la chiesa antoniana “durante l’anno confluiscono molti devoti che offrono elemosine per messe votive”. Ciò, ovviamente, attesta che in quel tempo era già notevole la devozione per il Santo Eremita. Nel 1651 la nuova chiesa appare ormai rifinita all’interno, configurandosi ad unica navata e misurando la lunghezza circa m. 20 e circa m. 8 in larghezza (16). Sempre dalle S. Visite apprendiamo che nel 1662 il tempio appare ormai terminato e tre anni dopo, il 20 gennaio 1664, le autorità civiche deliberarono di eleggere Protettore di Novoli S. Antonio Abate e, due giorni dopo il clero novolese prese analoga decisione. Il 22 gennaio, sempre nel 1664, Mons. Pappacoda concesse il rescritto con cui si dichiarava Protettore di Novoli S. Antonio Abate.
Sulla elezione di S. Antonio Abate a Patrono di Novoli ci illumina un importantissimo studio di Pietro De Leo che nel 1971 pubblicò i documenti relativi a tal proposito. Sia il Comune che il Clero novolesi avevano inoltrato, come si è detto, una specifica petizione al Vescovo Luigi Pappacoda acché il Santo Eremita divenisse Protettore di Novoli in quanto elargitore di molte grazie e poi perché il paese mancava di un Santo Patrono. A sua volta il Presule leccese doveva inoltrare tale richiesta alla Sacra Congregazione dei Riti, tuttavia ci è ignoto se egli lo abbia fatto o se la Congregazione non volle dare risposta alcuna. Certo è, però, che il 2 giugno 1737 il popolo, i civici amministratori e il clero novolesi ritornarono alla carica, ben 73 anni dopo, chiedendo alla Congregazione romana il consenso di eleggere S. Antonio Abate Protettore principale del luogo. Questa volta la risposta fu rapida, poiché la Sacra Congregazione dei Riti dette il suo assenso con decreto del 3 agosto 1737 che divenne esecutivo venti giorni dopo. Da allora, come nel solco della tradizione, S. Antonio Abate si festeggia il 17 gennaio.
Alla fine del XVII secolo la chiesa, a crociera e ad una cola navata, aveva ancora l’altare di S. Biagio, con il quadro che lo raffigurava. Ovviamente non mancava il quadro raffigurante il Santo eremita presso l’altare maggiore, dove per ogni lato si apriva una porticina e nel transetto si innalzava la cupola. Dietro il maggiore altare vi era il coro, chiuso da porte e che fungeva da sacrestia. Munito di due piccole campane sistemate in alto, a sinistra nel prospetto, in un piccolo campanile a vela, il tempio antoniano possedeva tre finestre vetrate e tre entrate, ossia il portale e due porte laterali. Nel 1668 le suddette campane furono spostate dalla parte sinistra a quella di destra del prospetto, ed ivi restarono fino alla costruzione del campanile, nella prima metà del Novecento.
Nel 1951 la chiesa si dotava dell’altare di S. Oronzo, raffigurato in un de-
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cente dipinto, e tale altare era sito in curnu epistulae. Scarsi e miseri erano gli arredi sacri di questa chiesa, che nell’arco di un secolo, nel 1746, arricchisce il maggiore altare con le statue lapidee di S. Giuseppe e di S. Vito, poste sulle portelle laterali. Sulla parete dietro l’altare, in alto, campeggia l’affresco raffigurante S. Antonio Abate, e attorno a questo dipinto appaiono vari ornamenti precedentemente citati. Nella prima metà del Settecento se ne erano aggiunti altri, ossia quelli dedicati a S. Nicola di Mira, a S. Rosa da Lima, a S. Lorenzo, al Signore, alla Beata Vergine delle Grazie tra S. Lazzaro e S. Francesco d’Assisi; infine l’altare di Gesù sulla Croce. La Chiesa di S. Antonio Abate veniva amministrata da un Priore ecclesiastico, da un Procuratore ecclesiastico e da un Procuratore laico, annualmente eletti il 31 dicembre, giorno della festa di S. Silvestro. I due amministratori uscenti proponevano i loro successori, ma altri due venivano proposti dall’Arciprete. Priore e Procuratore avevano il compito di raccogliere le elemosine e le offerte che venivano impiegate per la necessità della chiesa, che ben presto ebbe bisogno di restauri, e proprio per questo nel 1688 il Vescovo Michele Pignatelli ordinò che per la festa non si spendessero più di dieci ducati, destinando il resto delle offerte alle necessità della chiesa. Evidentemente i Novolesi fecero orecchio da mercante agli ordini del Pignatelli se nel 1766 il presule del tempo, Mons. Alfonso Sozy-Carafa sospese due cappelle del tempio antoniano perché sprovviste di suppelletti ed altro. La chiesa, poi, si trovava quasi distrutta e le porte della stessa erano tutte vecchie.
Prima dei lavori di restauro, effettuati per iniziativa del Sindaco Domenico Tarantini con un preventivo di spese di 120 ducati, il tempio antoniano appare così descritto. Sulla facciata c’era un affresco di S. Antonio Abate, sulla porta del coro vi erano poste due statue in piedi, una di S. Giuseppe e l’altra di S. Vito, oltre a quella lignea del Santo Eremita, posta in curnu evangelii, usata per le processioni. La chiesa appariva in precarie condizioni e le pareti minacciavano di rovinare. Solo l’altare della Vergine delle Grazie risultava restaurato e perciò ammesso al culto.
Il tetto è però di pietra e misura 100 piedi di lunghezza per 30 di larghezza. Davanti alla porta principale appariva uno spiazzo, in cui si accedeva tramite cinque gradini che pure conducevano alla porta occidentale. Tale spiazzo godeva della solita immunità ecclesiastica.
L’entrata alla parte orientale della chiesa, provvista di acquasantiera, era costituita da un vano ricavato nella parete, dalla quale si giungeva al cubicolo. Vicino al tempio un altro vano era adibito a stalla per l’asino dell’eremita che abitava nel cubicolo e custodiva la chiesa stessa. In tale ambiente
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era allevato un porcellino che i cittadini nutrivano e che per antica tradizione, durante i giorni di festa del santo patrono, si vendeva all’asta. Su di un arco della sagrestia il visitatore poteva scorgere appesa una campana di circa 100 libbre.
A spese del popolo fu pure ricavato il pozzo adiacente alla chiesa, pozzo ceduto in affitto per una certa somma annua (nel 1680 carlini 15, nel 1746 per tre ducati) che veniva devoluta a beneficio della stessa chiesa.
‹‹l’Arcivescovo di Napoli, il Cardinale Antonio Sarsale, nella sua qualità di Preposito Generale dell’Abbazia di S. Antonio fuori Porta Capuana e Amministratore Generale di tutti i benefici ecclesiastici intitolati a S. Antonio Abate nel Regno delle due Sicilie, l’8 luglio 1766 nominò Rettore della Cappella di S. Antonio in Novoli e amministratore dei beni ad essa connessi don Pasquale Marasco di Lecce. La chiesa rientrava nell’ambito delle “Commende”, cioè abbazie, chiese, benefici, etc., che venivano affidati a determinanti Ordini, come quello degli Ospedalieri Antoniani, il Costantiniano e il Gerosolimitano.
La nomina, però, era condizionata dal pagamento di un canone annuo di tre carlini in segno di proprietà, superiorità e dominio dello stesso Amministratore, e della presentazione di un atto notarle dei beni immobili e mobili da depositare in Napoli nella Cancelleria dell’Amministratore Generale.
Il Marasco giunse a Novoli insieme al notaio Nicola Baccone il 4 settembre 1766 per prendere possesso della Cappella di S. Antonio, il notaio redasse l’inventario in cui tra l’altro si legge che nella chiesa se vi sono l’altare maggiore, l’altare del Crocifisso a destro dell’ingresso, l’altare di S. Maria del Latte, gli altari di S. Lorenzo e S. Nicola e infine l’altare dedicato ai Sant’Ignazio e Francesco Saverio.
L’altare maggiore e quello del Crocifisso sono ornati ciascuno con sei ostensori inargentati e con candelieri grandi in argento. Gli altari di S. Maria del Latte, di S. Lorenzo e dei santi Ignazio e Francesco Saverio sono ornati con vasi di fiori e candelieri verdi con profili indorati oppure inargentati. L’altare di S. Nicola è spoglio.
La suppellettile è abbastanza modesta, cioè cinque scabelli di tavola, un calice di argento indorato e tre parametri per la messa.
Vi è una campana di bronzo sopra detta chiesa. Un pozzo di acqua dietro detta chiesa che al presente si affitta per ducati otto, ed in passato si affittava per ducati quindici circa. ( In altro atto notarile del 1770 si dice che il pozzo di acqua dolce ‹‹ogn’anno ed affittato al più offerente››).
Vi è un orto circa di vigne attaccato a detto pozzo. L’Università di detta terra contribuisce a detta chiesa in ogni anno con carlini trenta per la festivi-
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tà di S. Antonio. Il Sac. D. Pietro Antonio Giordano legatario di alcuni beni stabili iure patronatus della sua casa e famiglia porta il peso di celebrare in detta chiesa una messa in ogni giorno festivo dell’anno, e li beni consistono in territori, vigneti e Giardino››.
Attaccate alla chiesa vi sono due stanzette dove abita l’eremita che ne è il custode. Infine il notaio descrive le precarie condizioni della chiesa di cui abbiamo già parlato.
All’atto di possesso del Marasco si oppose D. Pietro Antonio Giordano che si rifiutò di consegnare la lista dei beni stabili, facendo presente che ‹‹in detta Cappella non vi sono stati mai ab immemorabili detti Rettori… e che tutti quei legati non sono accollati a detta Cappella, ma solo vogliono la celebrazione delle Messe nella medesima Cappella››.
Nonostante l’opposizione del Giordano la chiesa passò sotto la giurisdizione dell’arcivescovo di Napoli.
Mons. Salvatore Spinelli nelle S. Visite del 1792 e 1795 non visita la chiesa ‹‹perché appartiene all’equestre ordine costantiniano… a tenore dei reali ordini››.
Ma non apparteneva all’ordine Antoniano? Non si può pensare che l’estensore del verbale abbia scambiato inavvertitamente Antoniano con Costantiniano, perché Giacomo Ardini nel 1879 scrive: ‹‹… la chiesa di S. Antonio Abate si pare appartenuta ai Cavalieri Costantiniani, perché scolpito nel prospetto l’emblema di quell’ordine insigne…››.
Speriamo di venire in possesso di altri documenti per risolvere il problema. Comunque dopo il Concordato del 1816, con circolare del Segretario di Stato del 6 ottobre 1819 tutte le Commende Antoniane e Costantiniane vacanti tornarono sotto la giurisdizione delle Amministrazioni diocesane.
Così fu pure per la chiesa di S. Antonio, probabilmente rimasta vacante dopo la morte del Marasco, perché nel 1822 era già tornata sotto la giurisdizione del vescovo di Lecce Mons. Nicola Caputo che così la descrive:‹‹… la cappella di S. Antonio si può dire una chiesa grande, tutta coverta a lamia con la cupola ben fatta; è tutta ornata e indorata in molte parti…››. Nell’arco di due secoli nella chiesa si eressero tanti altari che, però nel tempo in buona parte hanno cambiato denominazione. Il maggiore altare giunse da Napoli per volontà del Duca Felice Carignani, mentre tal Antonuccio Chillino donò la statua di cartapesta di Sant’Antonio Abate, andata poi distrutta in un incendio scoppiato la sera del 18 febbraio 1899. Attualmente, la statua del Santo, in legno e proveniente da Venezia, è conservata in un artistico omonimo cappellone, in fondo alla navata sinistra, opera dell’ing. Francesco Parlangeli.
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Nel 1833 la chiesa ebbe due altri altari, in marmo, e intanto veniva modificata e ingrandita, per ultimo nel 1867 ad opera del sacerdote novolese don Vincenzo Tarantini (1812-1875), insigne letterato e patriota che le dette l’attuale forma, a tre navate, con cupola e prospetto sobriamente neoclassico, nel cui timpano nel 1860, allorchè fu distrutto in seguito ad una manifestazione politica, era scolpito lo stemma dell’Ordine Costantiniano. E a tal proposito ricordiamo che dalla S. Visita del 23 maggio 1729, di Mons. Salvatore Spinelli, risulta che la chiesa non fu visitata perché appartenente al detto Ordine Equestre, che la possedette fino al 1822.
Allorquando negli anni trenta dell’Ottocento venne a mancare il Priore, la chiesa per molto tempo versò in uno stato di indecenza e di abbandono, molti altari furono sospesi, e così vennero effettuati nuovi restauri che, iniziati nel 1871, terminarono nel 1885 e a tali lavori contribuirono finanziariamente i fedeli facoltosi e la Congrega dell’Addolorata.
Il 27 luglio 1924, con un tripudio di folla e di religiosi, giunsero a Novoli, da Tricarico, le reliquie di S. Antonio Abate, per merito essenzialmente di don Giovanni Madaro (1889-1967), meglio conosciuto come papa Giuanninu che, con altri due sacerdoti novolesi, si era recato nella cittadina lucana per chiedere la reliquia del Santo eremita, ora custodita in un reliquario d’argento posto nel cappellone del Santo.
Circa la storia delle reliquie, sul loro culto, commercio e imposture sono state e vengono diffuse tante pubblicazioni, e delle reliquie antoniane a Novoli non pochi, preti compresi, hanno avanzato ragionevoli dubbi, giungendo a conclusioni sbrigative negandone, quindi, l’autenticità.
Dell’argomento se ne occupò da par suo l’amico Ferdinando Seclì (19452013), tra l’altro autentico uomo di fede e diacono, il quale pubblicò una interessante riflessione che integralmente riportiamo:
‹‹Ci sono temi, nella storia dei secoli cristiano, sui quali sprecano gli interrogativi, a volte apprezzabili molto spesso polemici. Temi che oggi diremmo “sensibili”, capaci cioè di attrarre consensi e dissensi, di provocare reazioni e sviluppare critiche e certezze, ma quasi mai indifferenza se non nel segno, appunto, del dissenso estremo.
È il caso delle “reliquie”. Attorno a queste testimonianze tangibili di persone venerate che per esse rivivono nel cuore dei semplici e che i fedeli toutcourt hanno sempre ornato di sentimenti schietti, fioriscono ancora oggi curiosità contrastanti.
Le “reliquie” che Novoli ospita in questi giorni di ricorrenza dell’anno del Signore 2006 sarebbero, come è noto, quelle del nostro amato patrono Sant’Antonio Abate, provenienti dalla Francia. Si tratta di un evento straor-
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dinario, anche se Novoli era già in possesso di reliquie del Santo da ormai ottantadue anni. Una reliquia in più, una reliquia in meno… Eppure, come si diceva, i sussurri tendono a diventare grida.
C’è dunque chi allungherà mani ossequiose quasi a carpire idealmente lo spirito del Taumaturgo che abitò un quei sacri “resti”, e chi invece allungherà il passo per sviare da sé perfino un accostamento accidentale.
Ma allora, questi “resti” sono o non sono quelli veri del santo eremita? Quella “cosa” custodita e ostesa con tanto paludamento sarà davvero un osso, un nervo, il brandello di una salma eccellente di milleseicentocinquant’anni fa’, proiettato dalle valli dell’alto Egitto ad una chiesa di Novoliprovincia di Lecce?
E se anche lo fosse, avrebbe ancora un senso per la fede dei cristiani di oggi, dopo cinque secoli di cultura protestante, un lungo processo di disincanto ideologico e l’avvento dell’era del secolarismo?
Queste domande, legittime sebbene non nuove, meritano risposte articolate e serene, più che un semplice articolo slegato dai doverono contesti.
Tuttavia proverò a sintetizzare almeno uno degli aspetti più interessanti dell’argomento.
E cioè. È degno e giusto, opportuno, necessario, sensato, tributare culto ai resti mortali, veri o presunti, di un santo?
Che ne direbbe Antonio il Grande?
Nella sua “Vita Antonii” ai paragrafi 90 e 91, Atanasio riporta il suo famoso rifiuto dell’Abbà di prestarsi dopo morte alle usanze funebri egiziane. Nell’ultima visita resa ai monaci “che abitavano nella parte esterna della montagna” l’eremita alla veneranda età di centocinque anni e sentendosi prossimo alla fine, tenne un memorabile discorso contro le pratiche imbalsamatorie.
“I fratelli insistevano perché restasse da loro e lì morisse- ci comunica il biografo- ma Antonio non accettò per diversi motivi che lasciò capire pur senza dirli. Il motivo principale era che gli Egiziani, quando muore un uomo virtuoso e specialmente quando muoiono i santi martiri, amano dare sepoltura ai loro corpi avvolgendoli in lenzuoli di lino e non li nascondono sotto terra, ma li dispongono su dei lettucci e li conservarono nelle loro case. Credono, in questa maniera, di onorare quelli che sono morti. Antonio aveva spesso pregato i vescovi di ammonire il popolo circa quest’uso e aveva dissuaso i laici e ammonito le donne dicendo che quest’usanza non era né lecita, né santa”.
La motivazione che Antonio apporta per osservare questo suo rifiuto, pur lasciandosi capire da sé, viene poi chiaramente espressa dall’eremita
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con un riferimento a Cristo stesso: “i corpi dei patriarchi e dei profeti sono conservati ancora oggi nei sepolcri, e lo stesso corpo del Signore fu deposto in un sepolcro…”.
E dunque non era né degno, né giusto che un semplice “uomo virtuoso”, anche se fosse santo, si dovesse preporre al Signore in una sorta di auto-eternazione di marca pagana. “Che cosa c’è, infatti di più grande e di più santo- argomenta anche l’eremita- del corpo del Signore?”
Atanasio, che si suppone essere stato presente al discorso di Antonio, commenta di suo, specificando che l’Abbà “con queste parole dimostrava che quelli i quali, dopo la morte, non nascondono i corpi dei defunti, anche se. Fossero santi, trasgrediscono la legge”.
Una posizione, come si vede, molto rigida. E destinata a tutti, non soltanto ai discepoli della Tabaide. Infatti Atanasio non tralascia di ricordare che “molti, dopo averlo sentito, si decisero a seppellire sotto terra i loro morti e ringraziavano il Signore per aver ricevuto sapiente insegnamento”.
Ma Antonio, che conosceva bene il cuore umano, non fidandosi dell’apparente assenso, e continuando a temere che, una volta morto, il “sapiente insegnamento” venisse disatteso, nonostante che i fratelli insistessero a volerlo trattenere da loro, “salutò i monaci e si affrettò a partire. Entrò nella parte interna della montagna, là dove abitava di solito…” e ripeté il discorso ai suoi due compagni più intimi, Amathas e Macario: “Se mi volete bene e mi ricordate come un padre, non permettete che il mio corpo sia portato in Egitto perché non accada che sia messo in qualche casa. È per questo motivo che sono rientrato sulla montagna e sono venuto qui. Sapete anche come cercavo sempre di persuadere quelli che così facevano e come li ammonivo a desistere da quest’uso. Seppellite voi il mio corpo e nascondetelo sotto terra e custodite in voi la mia parola perché nessuno, tranne voi soli, conosca il luogo dove è deposto il mio corpo”.
Al successivo paragrafo Atanasio spende solo due righe per concludere l’avvenuto. Antonio morì serenamente “sdraiato con il volto lieto, e così spirò e si unì ai suoi padri. I due compagni, secondo l’ordine ricevuto, lo avvolsero in un lenzuolo e lo seppellirono nascondendo il suo corpo sotto terra.
Nessuno fino ad oggi sa dove sia nascosto, tranne questi due monaci”.
Nessuno, dice Atanasio. Nemmeno lui, che era vescovo compagno e biografo di Antonio, ha dunque potuto prender parte al segreto della sepoltura dell’Abbà. Atanasio dovette accontentarsi di riavere il mantello che molti anni prima aveva regalato all’eremita, e che riebbe solo per espressa volontà del morente:” Dividetevi le mie vesti, al vescovo Atanasio date la mia pelle
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di pecora e il mantello su cui mi stendevo: me l’aveva dato nuovo e io l’ho consumato…”
Antonio volle morire nell’assoluta nudità materiale, come Gesù. Quel suo “dividetevi le mie vesti” richiama fin troppo palesemente l’evangelico “si divisero poi le sue vesti…” (Lc 23,34). E nel contempo, quel lasciare-affidare la sua unica eredità realizza in qualche modo il paradigma profetico della scomparsa di Elia che “salì nel turbine verso il cielo…” lasciando il proprio mantello al discepolo Eliseo (2Re 2,11-14).
Eredità spirituale e missionaria, dunque, destinata però a tradursi ugualmente in ciò che Antonio stesso aveva paventato, quasi presago della suggestione in un certo modo feticista che perfino quei poveri “resti” (detti poi “reliquie” dal verbo “reliquere” che è “lasciare, abbandonare”) avrebbero esercitato sui suoi contemporanei.
E lo stesso Atanasio non ritiene di far mistero dell’utilizzo che ne ebbe. Il mantello e la pelle di pecora, infatti, passarono di mano in mano, distribuiti e onorati come oggetti inestimabili. “Ognuno di quelli che hanno ricevuto la pelle di pecora del beato Antonio e il suo mantello consumato, lo custodisce come un grande tesoro”- ci tiene a far sapere. Sembra di vederli ancora oggi, i buoni fedeli egiziani di 1650 anni fa, mentre custodiscono e venerano, passandoli di casa in casa, parti del mantello del “beato Antonio” quasi vedessero e toccassero in quella stoffa consunta il corpo reale e vivente dell’eremita. “Quando guardano queste vesticonferma Atanasio- è come se vedessero Antonio, e quando le indossano è come se portassero con gioia i suoi insegnamenti”. Le preoccupazioni del padre eremita sul possibile utilizzo dei suoi poveri resti, che considerava tanto “illecito” da provocarne ripetuti “ammonimenti” ai fedeli e appelli agli stessi vescovi, non erano comunque legate ad una mera ipotesi. Antonio era perfettamente conscio sia del clamore che la sua fama aveva suscitato nel suo mondo, in Egitto al di là del mare, sia del rischio che qualche affarista potesse contare proprio su quella fama e quindi, posto mortem, sulle sue spoglie per imbastire una sorta di business- ante litteram. Infatti, come ci ricorda la Bibliotheca Sanctorum, correvano voci su un tale, un certo Pergamo, che per il solo fatto di aver meritato menzione deve essere realmente esistito. Nel mio “Antonio l’eremita” riporto il brano che lo riguarda. “L’Egitto aveva per il suoi saggi, come la Grecia per i filosofi, una tradizionale venerazione, al punto che i libri sapienziali attribuiti ai saggi acquistavano una indiscussa sacralità. Se la reputazione di un saggio durava molto a lungo addirittura venivano eretti santuari in suo nome, come se si trattasse di un semi-dio. Dopo la morte, prima che il cadavere si decom-
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ponesse, si ricorreva all’imbalsamazione perché per un’antica credenza lo spirito separato sarebbe ritornato a occupare il suo vecchio involucro. Così un certo Pergamo, mercante egiziano, s’era proposto di trasportare il corpo di Antonio, dopo la morte, nella sua proprietà, per edificarvi un tempio e organizzarvi il culto”. Non stupisce, quindi, l’insistenza dell’Abbà circa la segretezza della sepoltura affidata solo ed esclusivamente ai suoi due discepoli più cari e più vicini.
Quindi Antonio è morto e sepolto, e “nessuno fino ad oggi- ci ripete Atanasio- sa dove sia nascosto”. A questo punto scatta il “giallo” della presunta traslazione, che conta almeno tre versioni, come ci ricorda Antonio Politi in un suo interessante articolo apparso su “Sant’Antoni e l’Artieri” di qualche tempo fa’. Nell’anno 529, riporta la prima versione- cioè a distanza di 173 anni dalla morte dell’Abbà e dunque dalla sua sepoltura- viene fuori che qualcuno, “scoperta” la tomba e i resti del Grande, li trasferisca “… nello stesso giorno” alla città di Alessandria. La seconda versione va oltre: da Alessandria i “resti” sarebbero passati a Costantinopoli e da lì alla città di Vienne nel Delfinato. La terza versione conferma sostanzialmente gli eventi predetti, solo che li dà per avvenuti tra il 1050 e il 1200, tracciando così per le povere “reliquie” una scia storica di quasi un millennio!
Che cosa successe, allora? I due “cari e vicini” discepoli di Antonio avrebbero tradito le ultime volontà del venerato maestro rivelando il luogo della sepoltura? E il sepolcro violato sarebbe stato tenuto segreto per quasi due secoli, prima che esplodesse la notizia del “ritrovamento” e la conseguenza traslazione? Oppure molto più sbrigativamente qualcuno avrebbe beneficiato di mistiche “rivelazioni” per centrare la mitica fossa dalla quale trafugare e diffondere un pugno di misere particole sfatte?
Don Giuseppe Spedicato, nel suo “Sant’Antonio abate- Storia, tradizione e culto a Novoli”, ne fa riferimento. “Verso il 561- scrive- sotto l’imperatore Giustiniano fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione. Le reliquie furono portate ad Alessandria nella chiesa di S. Giovanni Battista, verso il 635 in occasione dell’invasione araba dell’Egitto furono rilevate e portate a Costantinopoli. Da qui, nel XI sec., passarono alla Motte-SaintDidier in Francia, recate da un crociato al suo ritorno dalla Terra Santa. La chiesa costruita per accoglierle fu consacrata dal papa Callisto II nel 1119. In seguito nel 1491 furono traslate a S. Julien presso Arles”.
Ah riecco i crociati! Tutto ciò che di religiosamente preziosa esisteva a Costantinopoli passò all’Occidente grazie ai crociati, specie a quelli della IV crociata: il sacro lenzuolo della Sindone che si trova a Torino, la casa di Nazareth che si trova a Loreto, e poi icone e reliquie in incommensurabile quantità.
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Ora, dopo altri mille anni, da Arles le reliquie sono a Novoli.
Evento storico, verrebbe da dire, anche se Novoli aveva già reliquie del Santo, giunte da Tricarico il 27 luglio del 1924, quale dono dell’arcivescovo locale mons. Delle Nocche e su espressa richiesta di tre sacerdoti novolesi. “Come mai quei frammenti ossei si trovassero a Tricarico- commenta don Oronzo Mazzotta nel suo “Novoli 1806/1931”- solo Dio lo sa”.
Nemmeno Gilberto Spagnolo, che pure a quest’ultima vicenda ha dedicato un interessante studio, svela il rapporto logico-logistico fra Arles di Bocche-del-Rodano in Francia e Tricarico di Basilicata in Italia.
Ma quale di tutti queste storie sembra più suffragabile? E perché? Gli interrogativi, come si vede, prolificano, e il discorso potrebbe spingersi molto avanti, travalicando la dimensione di questo semplice contributo. Probabilmente se ne parlerà meglio in seguito e altrove. Qui e ora invece, molto più sinteticamente mi preme concludere sfiorando il nocciolo della questione, quali che siano le ricerche o le sorprese future. La Chiesa distingue fra “reliquie” e “reliquie insigni”, riservando specie a queste ultime la stessa dignità di culto che viene riconosciuta e tributata dalla tradizione e dal sentimento dei fedeli, del sensus fidelium, senza comunque che esse stesse costituiscano elementi di verità dogmatica. In ordine alla Santa Casa di Loreto, per esempio, nel primo documento pontificio che risale al 1507, papa Giulio II definisce la costruzione come “casa della Santa Famiglia” secondo la pia credenza (“ ut pie creditum et fama est”).
Il Codice di Diritto Canonico al canone 1190 contempla che “le reliquie insigni, ed anche quelle che sono onorate con grande venerazione popolare…” non possono essere sottratte o trasferite se non con l’assenso della Sede Apostolica.
Ciò significa, come è giusto che sia, che il culto delle antiche reliquie costituisce un fatto di pura fede, a prescindere da osservazioni scientifiche e da attestazioni storico-archeologiche.
Non è necessario, per la venerazione dei fedeli, che la reliquia insigne venga osservata da riscontri oggettivi, anche perché essi stessi non di tradurrebbero comunque né in prova assoluta né in autentico mezzo di confermazione nella fede.
La Sindone è creduta il lenzuolo che avvolse il corpo di Gesù Cristo, e per noi questo basta, anche se dovesse sopraggiungere l’ennesima (falsa) smentita, tipo quella cantonata da Carbonio 14 che qualche decennio fa’ provocò tanto inutile rumore specie in ambienti estranei alla Chiesa Cattolica.
La fede si alimenta si significati, non di materiali significanti. Per questo motivo l’immagine sacra è venerata, perché significa ciò che rappresenta, e
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non di certo perché la carta o il gesso o il legno di cui è fatta abbiano in sé requisiti di ontologica sacralità.
Lo stesso dicasi per tanti fenomeni mistici, visioni o apparizioni, che certa scienza si ostina a voler vivisezionare per poi strombazzare ai quattro venti la fallibilità della prova sperimentale e quindi della verità conoscibile. Ma questo è un altro discorso››.
Riflessioni illuminanti, quelle di Fernando Seclì, che con serenità e ragionevolezza argomenta su temi assai delicati inerenti il culto delle reliquie e delle immagini sacre. Fatta questa necessaria digressione ritorniamo ora alla novolese chiesa di S. Antonio Abate, che nella prima metà del Novecento possedeva sei altari di marmo, eccetto quello del Rosario che costituisce il monumento ai caduti in guerra.
Poi durante il suo parrocato don Gennaro D’Elia ne “costruì un altro ove un tempo vi fu l’ingresso per la sacrestia. Sempre negli anni Venti del secolo scorso il pavimento fu dotato di mattoni gialli e tre balaustre in marmo, con cancelletti in ghisa, davano l’accesso all’altare maggiore e ai due cappelloni laterali.
Sempre Don Gennaro rimosse i mattoni e la balaustra dell’altare maggiore”. Intorno al 1924 “… Due conchiglie finemente scolpite furono incastonate nei pilastri a destra e a sinistra dell’ingresso e fu realizzato l’artistico Battistero, … in ultimo fu restaurata la statua del Santo alla quale fu sostituito il bastone di legno con uno d’argento”.
La chiesa, complessivamente, è ben decorata, la cupola è affrescata con episodi della vita di S. Antonio, ed essa all’incrocio del transetto, poggia su di un tamburo con finestrelle. La chiesa non ha tele di alcuna epoca, tuttavia sul finire del 1977 l’interno fu dipinto, in maniera discutibile, dal triestino Luciano Bartoli, che nella sacrestia raffigurò alcune scene della vita del Santo eremita.
Di buona fattura è invece, il portale d’ingresso della chiesa antoniana. Esso, del 1976, è opera dell’artista pesarese Paolo Lani, ormai naturalizzato leccese, e consta di 20 formelle sbalzate e casellate sul rame, hanno vario formato e illustrano la storia dei SS. Patroni di Novoli, nonché allegorie agricole e religiose.
Giunti all’esterno, noteremo che quattro gradini separano il sagrato dal piano stradale, e osserviamo che la chiesa ha tre entrate, la principale al centro e le altre due, arretrate, ai lati. Il prospetto è di chiara ispirazione neoclassica ed è scandito da otto paraste con capitello dorico, indi in asse al portale un finestrone incrociato e, nell’architrave, l’iscrizione dedicatoria divo antonio abbati (A Sant’Antonio Abate). Poi il timpano triangolare,
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con al centro l’orologio donato nel 1930 dal Rettore della Confraternita don Carlo Pellegrino. Più su, infine, su di un sostegno metallico, appaiono cinque campanule segna ore.
Finalmente nel 1937 la Chiesa ebbe la sua torre campanaria che svetta in posizione arretrata, sul lato sinistro del sacro edificio. L’opera, in cemento armato rivestito di carparo, fu progettata dall’arch. Cino Mazzotta il quale la realizzò nello stile “razionale” collegato all’impianto architettonico dell’edificio, articolandola in quattro ordini per ogni lato fornito di fornici e, infine, il cupolino.
Ritornando all’interno della chiesa noteremo l’altare maggiore in marmo, con basso postergale e due angioletti policromi in cartapesta, realizzati nella seconda metà del secolo scorso. Poi, alle spalle dell’altare si scorge l’alta e luminosa vetrata con l’effige di S. Antonio, ai cui lati appaiono immagini di Santi e scene della vita di Cristo. Alta opera di notevole valore è il pulpito in legno realizzato da Vincenzo Guerrieri (1886-1970), fine intagliatore e decoratore, che restaurò anche l’attuale statua lignea di S. Antonio Abate. La chiesa, dotata di un nuovo Organo una quindicina di anni fa, al suo esterno, a ridosso del lato destro, prima dell’ingresso in sacrestia, sulla via O. Parlangeli, possiede il Calvario inaugurato il 7 marzo 1924.
Il Tempio antoniano novolese fu eretto a Parrocchia con Bolla Vescovile del 28 giugno 1930 da Mons. Alberto Costa, Vescovo di Lecce, e come tale fu inaugurata il 7 giugno 1931. Di questa parrocchia ecco la cronotassi dei parroci:
-Mons. Oronzo Madaro dal 7.6.1931 al 14.10.1935. Vicario- economo dal 20.12.1935 al 1.2.1940.
-Sac. Francesco De Tommasi, dal 21.6.1940 al 25.3.1954.
-Sac. Gennaro D’Elia , Vicario-Economo dal 16.101954 al 30.4.1956. Parroco dal 16.12.1956 all’11.10.1982.
-Sac. Franco Frassanito, Vicario adjutore dall’1.10.1976 al 30.9.1982. Parroco dall’11.10.1982 al 15.8.2000
-Sac. Giuseppe Spedicato, dall’8.9.2000 al 23.9.2014.
-Sac. Luigi Lezzi, dal 25.9.2014 continua.
Nella Chiesa di Sant’Antonio Abate è incardinata la Confraternita del SS. Nome di Gesù e di Maria Addolorata, fondata nel 1826. Ricevette il Regio assenso il 3 gennaio 1859. È ancora attiva.
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Le iscrizioni latine
Testo:
DIVO ANTONIO ABBATI
Traduzione: A Sant’Antonio Abate.
Collocazione: Chiesa di S. Antonio Abate, sull’architrave del prospetto.
Testo: a(nno) d(omini) mcmxxii rectore re(vere)ndo d. ioanne madaro templum hoc divo antonio abati dicatum fidelium muneribus dilectionis ergo ac fidei in monimentum europaei belli periculis victis novensium pietas erga suum tutelaremin melius restituit altare maius marmoreum pridie kalendas ianuarias mcmxxiii ill(ustrissi)mus ac rev(erendissi)mus d. ianuarius trama lyciensis episcopus solemni ritu et populi exultatione consecravit.
Traduzione: Nell’anno del Signore 1922, sotto la guida del reverendo don Giovanni Madaro, questo tempio, dedicato a Sant’Antonio Abate, con i donativi dei fedeli a ricordo dell’amore e della fede per i pericoli scongiurati durante la guerra in Europa, la fede dei Novolesi verso il loro protettore restaurò migliorandolo. L’altare maggiore in marmo il 31 dicembre 1923 l’illustrissimo e reverendissimo don Gennaro Trama Vescovo di Lecce consacrò con rito solenne e fu fra l’esultanza del popolo.
Collocazione: Chiesa di S. Antonio Abate. Lato destro dell’ingresso.
Testo: a(d) p(erpetuam) r(ei) m(memoriam) ill(ustrissi)mus ac rev(erendissi)mus albertus costa ep(isco)pus lyciensis novam paroeciam sub titulo s(ancti) antoni abbatis a piissima d(omi)na vincentia cagnazzo capelluti munifica stipe ditatam universo plaudente populo erexit et rev(erendissi)mum orontium madaro prelatum dom(esticum) primum parochum renuntiavit ac instituit a(nno) d(omini) vii idus iunias mcmxxxi
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Traduzione: A perenne memoria dell’avvenimento. L’illustrissimo e reverendissimo Alberto Costa, vescovo di Lecce, una nuova parrocchia, intitolata a Sant’Antonio Abate, offerta con generosa donazione della devotissima signora Vincenza Cagnazzo Capelluti, con plauso unanime del popolo fece costruire e dichiarò e nominò primo parroco il reverendissimo Oronzo Madaro prelato domestico (del Papa). Nell’anno del Signore 1931, 6 giugno.
Collocazione: Chiesa di Sant’Antonio abate. Lato sinistro dell’ingresso.
Testo: regina pacis ora pro nobis
Traduzione: Regina della pace prega per noi.
Collocazione: Chiesa di Sant’Antonio Abate, navata sinistra, sopra la nicchia dell’altare della Madonna del Rosario.
Testo: hanc aedem curialem divo antonio abbati t utelari maiorum pietate et amore dicatam aere publico privatisque largitionibus nova amplioris tholi turrisque sacrae molitione restitutam ac festo cultu exornatam franciscus minerva lycensium antistes solemni ritu ante lustratamconsecravit non(is) jan(uaris) 1955 ad p(erpetuam) r(ei) m(emoriam) par(ocus) januarius d’elia hunc lapidem posuit.
Traduzione: Questo tempo curiale, consacrato dalla pietà e dall’amore degli antenati ad Antonio Abate Protettore, restaurato con denaro pubblico e donazioni private e abbellito con la nuova costruzione di una cupola più grande e di un camapnile e celebrato con culto festivo, Francesco Minerva Vescovo di Lecce con rito solenne consacrò dopo averlo benedetto il 5 gennaio 1955. A perpetua memoria dell’avvenimento. Il Parroco Gennaro D’Elia pose questa lapide.
Collocazione: Chiesa di S. Antonio Abate. Sul muro retrostante l’altare maggiore.
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Testo: nulla sapientia sine fide
Traduzione: Nessuna sapienza senza la fede.
Collocazione: Chiesa di S. Antonio Abate. Zona retrostante l’altare maggiore.
Note: L’epigrafe è dipinta sotto uno scudo raffigurante una croce in campo azzurro, che irradia luce sul mondo. Fu lo stemma del Vescovo Mons. Francesco Minerva.
La Chiesa di San Salvatore, oggi di S. Oronzo
Nel 1602 il conte Filippo II Mattei, sull’antica cripta bizantina di S. Salvatore, fece costruire la chiesetta dedicata a (San) Salvatore e (Santa) Maria delle Grazie, così come attesta la S. Visita del 1646. Questo originale Tempietto, sito a pochi metri dalla Parrocchiale e dalla Casa Comunale, oggi è comunemente detto di S. Oronzo, verosimilmente per l’esistenza ivi della Confraternita di S. Oronzo Vescovo e Martire e S. Francesco di Paola che, fondata nel 1883 presso la chiesa di San Vito, fu poi traslata nella Chiesa di San Salvatore.
In questa antica cappella anticamente esisteva a favore del cappellano don Alessandro Guerrieri un beneficio istituito con bolla del Vescovo Mons. Spina, dal settembre 1602. Consisteva nella rendita di due tomoli di terra in contrada “Pozzo Nuovo”, donati dal conte Filippo II Mattei e da Martino Spagnolo con l’obbligo di preghiere in suffragio dei fondatori defunti.
La Chiesa, nei primi del XVII secolo, possedeva un affresco della Beata Vergine, ormai screpolato e scolorito, protetto da una grata di legno e con qualche scultura. Possedeva ancora il battistero a due porte, e la chiave del sacro edificio era custodita da Bartolomeo Greco al quale si ingiunse di tenere aperta la Chiesa secondo le prescrizioni in vigore nel tempo.
Nella prima S. Visita il Vescovo dispose di acquistare un Crocefisso che mancava, e ordinò di rifare l’affresco. Nel 1642, poiché gli ordini del presule non erano stati eseguiti, si minacciò la sospensione a divinis e la revoca del beneficio. Questa seconda visita Pastorale ci informa che poi sulla fatiscente immagine della Vergine vi era la statua in pietra del Salvatore e che davanti alla porta del tempio esisteva uno spiazzo selciato che godeva da tempo antichissimo del diritto dell’immunità ecclesiastica, confermata dal signore di Novoli. L’immunità ecclesiastica, lo rammentiamo, era un’antica usanza medioevale, secondo la quale colui che si trovava nell’area stabilità, non poteva essere carcerato né poteva subire alcuna violenza, poiché la Chiesa ne
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garantiva la protezione e l’incolumità. Nel 1648 troviamo che a sopportare gli oneri della chiesa era don Giuseppe Antonio, figlio di Filippo II Mattei che aveva costruito il nuovo tempio. Restando al 1648, nella S. Visita di Mons. Pappacoda vien detto che la cappella era di patronato della famiglia Mattei “senza alcuna dote e peso, in essa si celebra soltanto per devozione dell’illustrissimo Giuseppe Antonio Mattei, figlio del fondatore”. Nel 1714 la chiesa fu acquistata con il feudo dai Carignani e sotto il loro patronato è rimasta. Ritornando alla S. Visita di Mons. Pappacoda apprendiamo che “l’immagine della Beata Vergine è oggetto di molta devozione, è dipinta sul muro ed è ornata di pietre scolpite ed è munita di un cancello di legno elegantemente lavorato. Il corpo della cappella è ben disposto in forma ottagonale, coperta da una volta della stessa forma e ben costruita. La parete, con colonne convenientemente disposte in ogni angolo... Dal 1653 al 1657 la chiesetta restò interdetta al culto perché sprovvista di arredi sacri e poi perché necessitava di restauri.
Come riferisce il Pappacoda il tempietto possedeva l’inconsueta pianta ottagonale, che è rimasta inalterata; va detto che questa tipologia strutturale ci richiama Castel del Monte, del XIII secolo, e per quanto attiene le chiese nel Salento troviamo la Chiesa Nuova di Tricase, quella dei Capuccini a Galatina e quella di S. Maria delle Grazie a Francavilla Fontana, tutte degli inizi del XVII secolo.
Non è qui peregrino offrire al lettore qualche notizia sulla simbologia del numero 8, che definisce le braccia di Visnù, i Guardiani dello spazio, la forma di Shiva, i petali del loto, fiore simbolo della purezza, il numero del Nuovo Testamento. Secondo il Pike (Morals and dogma) il numero 8 è composto dai numeri sacri 3 e 5, è l’ ogdoado , primo cubo di un numero pari, sacro nella filosofia pitagorica. L’ ogdoado degli Gnostici aveva 8 stelle, rappresentanti le 8 Cabirie di Samotracia, gli 8 principi fenici ed egizi, gli 8 di Senocrate, gli 8 angoli del cubo. L’8 simboleggia la perfezione, ed il suo simbolo rappresenta il perpetuo e regolare corso dell’Universo. È anche il simbolo della solidità e della creazione.
Ho ritenuto di fare questa digressione poiché non credo causale la struttura ottagonale della chiesetta di S. Oronzo, supponendo che l’ignoto architetto che la realizzò, o chi la volle, fosse persona edotta in misteriosofia, nella scienza kabbalistica, e di tale persone fu ricco il Rinascimento italiano che ebbe cara l’iniziazione ai grandi misteri.
Ritornando ad osservare l’esterno della chiesetta di S. Oronzo, noteremo che sa fu realizzata con conci tufacei lasciati a vista ed è ad un solo ordine, mostrando agli spigoli dell’ottavo semplici paraste. Possiede un solo mode-
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sto ingresso, con un’iscrizione latina sull’architrave, iscrizione che appresso riporteremo, sopra la quale in un piccolo timpano, al centro, appare una croce lapidea. Ai lati del portale, in alto, si aprono due monofore con vetrate policrome. Ancora oggi, aguzzando la vista, sul lato destro del portale si scorgono i segni di una meridiana, chissà da quanto priva dello gnomone, opera che per tradizione si assegna al frate cappuccino Lorenzo da Novoli, vissuto nel XVII secolo.
Percorsi tre gradini entriamo ora nella minuscola chiesa, anzi cappella, di S. Oronzo, ove subito noteremo l’elegante volta a raggiera e l’unico altare con l’immagine racchiusa in una cornice raggiata della Vergine, tra due colonne tortili e assai decorate, di chiara impronta barocca. Certo, a ben notare, l’affresco mostra evidenti i segni del tempo e sicuramente delle diverse rimaneggiature che le hanno fatto perdere l’aspetto originario, che solo un paziente e accurato restauro forse potrebbe restituire. Al di sopra della cornice, ai lati dell’icona, due angioletti lapidei reggono una corona che è in asse col capo della Vergine e, per quanto riguarda l’altare questo risale al 1704, allorché lo volle Alessandro III Mattei, com’è attestato in epigrafe retta da due putti, che di seguito riporterò come sempre con la traduzione. Più su, sopra i capitelli delle colonne tortili, appaiono gli stemmi dei Mattei e tra questi, al centro, si innalza la statua del Cristo fanciullo nella tipologia del Salvatore del mondo, recando nella mano sinistra il globo, in atto benedicente con la destra e poggiando il piede destro sulle teste di tre angioletti. “Gli otto lati della fabbrica-nota W. Mazzotta- sono definiti da colonne dall’alto fusto con capitelli compositi che in alcuni casi restano sospesi senza l’ausilio della colonna sottostante. Su uno dei lati è il monogramma dei Gesuiti racchiuso da una cornice a volute incrociate con elementi vegetali. La sua presenza può essere giustificata dall’amicizia che la famiglia Mattei aveva con il gesuita Padre Bernardino Realino, la cui presenza a Novoli è varie volte documentata. Sul lato sinistro una nicchia degli anni Trenta (del secolo scorso) accoglie la statua di cartapesta di S. Oronzo”.
Le iscrizioni latine
Testo: hoc sacellum salvatori et mariae (gra)tiarum... dicatum
Traduzione: Questa cappella (è) dedicata al Salvatore e a Maria della Grazie.
Collocazione: L’epigrafe, sormontata da una croce, apre al centro dell’architrave della porta d’ingresso della chiesetta.
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Testo: servatori et tibi gratiarum virgini matri aram hanc alexander mattei erexit a(nno) d(omini) 1704.
Traduzione: Al Salvatore e a te Vergine Madre di grazie questo altare eresse Alessandro Mattei nell’anno del Signore 1704.
Collocazione: Chiesa di Sant’Oronzo, altare della Vergine.
Testo: JHS, ossia
JESUS HOMINUM SALVATOR
Traduzione: Gesù Salvatore degli uomini
Collocazione: Il monogramma appare su uno dei lati interni della chiesa.
La chiesa di San Vito e di Sant’Eligio
Sulla via Moline, angolo via S. Vito, nel 1707 don Antonio Francesco Mazzotta, a proprie spese, costruì la cappella gentilizia di S. Vito e di S. Eligio, lunga m.5,80 e larga m.4,22. Nella stessa circostanza il Mazzotta fondò un Monte di Pietà dotato di un capitale di 90 ducati con la cui rendita veniva assegnata a sorteggio la dote a due ragazze abbandonate del paese. Il sorteggio veniva effettuato nella chiesetta nel giorno in cui ricorreva la festa di S. Vito.
Semplice e senza alcuna pretesa è il prospetto di questo sacro edificio, che possiede una sola entrata sopra la quale appare, in asse, un finestrone cieco.
L’interno mostra una modesta acquasantiera lapidea, come pure lapideo è l’unico altare sopra il quale un dipinto ad olio raffigura S. Vito tra S. Eligio e S. Francesco di Paola. Ai lati dell’altare, che possiede un tabernacolo ligneo, dipinto, ci sono le tombe della famiglia Mazzotta e Giordano. Un tempo, come attesta la Visita Pastorale di Mons. Gennaro Trama, effettuata nel 1911 (42), la disposizione dei sacri arredi era diversa, comunque oggi dove c’era la statua lapidea di S. Michele Arcangelo e gli stemmi, pure in pietra, dei Mazzotta e dei Giordano, ora sistemati in sagrestia, appare sopra l’altare un dipinto del novolese E. Guerrieri raffigurante Cristo Latore di Pace.
Sulle pareti laterali nicchie di legno contengono le statue in cartapesta della Madonna del Rosario è quella di S. Luigi, compatrono con la Madonna del Pane dell’omonima confraternita, come si è detto fondata il 21 ottobre del 1937 nella chiesa di S. Vito con decreto di Mons. Alberto Costa, ma ora attiva nella chiesa della Madonna del Pane e S. Luigi.
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La Chiesa di S. Biagio
La struttura originaria di questa chiesa, che sorge nella via Pendino, risale al 1645 circa e fu costruita a devozione di don Pietro Spagnolo, Cantore della Chiesa Madre e con le offerte dei fedeli (44). Si trattava di una minuscola cappella che due secoli dopo versava in precarie condizioni soprattutto per l’umidità, tant’è che ivi non si effettuavano più i sacri riti. Dato l’abbandono, nel 1863 il primo sindaco di Novoli Francesco di Paola Perrone propose di realizzare nel sito della cappella la scuola elementare maschile, ma il progetto non andò a compimento anche perché prevalse l’idea di ristrutturare e ampliare la chiesetta acquistando a tal fine locali attigui, come poi avvenne.
Nel 1886 i sacerdoti Luigi Francioso e Salvatore De Matteis decisero di ampliare e ricostruire a proprie spese a cappella, ma i lavori si potrassero sino agli inizi del secolo scorso, e la Civica Amministrazione non mancò di erogare suoi contributi nel 1904. Circa quindici anni prima don Pasquale De Matteis aveva donato una casa contigua al tempio destinandola a sagrestia.
I sacerdoti Luigi Francioso, Salvatore Parlangeli e Pasquale De Matteis promossero l’installazione nella chiesa di una nuova confraternita che volevano intitolare al SS. Cuore di Maria. Subito, però, sorse il problema poiché nella Matrice già esisteva una Confraternita con tale denominazione, per cui l’autorità ecclesiastica, nella persona del Vicario capitolare, non concesse l’approvazione constatando, giustamente, che nel paese non potevano esserci due confraternite con lo stesso titolo. I tre sacerdoti su menzionati, allora, decisero di intitolare la nuova Confraternita a Maria SS.ma dei Fiori che, fondata il 3 luglio 1868 nella chiesa di S. Biagio, dove tuttora è attiva, fu aggregata all’Arciconfraternita del Cuore di Maria esistente a Roma dopo il 13 luglio 1868 (46).Ancora una volta il Vicario capitolare dovette intervenire su sollecitazione del Sindaco di Novoli Pietro Longo, poiché la Confraternita di Maria SS.ma dei Fiori voleva una propria statua della Vergine in tutto e per tutto identica a iella già esistente nella Matrice, per cui la risposta fu negativa, e ciò per non cadere nel ridicolo, ma si trovò una soluzione salomonica disponendo che la statua fosse una, quella della Matrice, e che venisse usata all’occasione dalle due congreghe. Ancora nel 1868 la chiesa di S. Biagio non era stata terminata, per cui la Confraternita della Madonna dei Fiori fu ospitata nella cappella gentilizia della famiglia Tarantini, quella della Madonna del Buon Consiglio, pure sulla via Pendino, in attesa del compimento dei lavori della Chiesa di San Biagio Ormai realizzata come complessivamente la troviamo, la Chiesa di S. Biagio venne descritta dalla S. Visita effettuata nel 1921 dal Vescovo di Lec-
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ce Mons. Gennaro Trama. L’interno del sacro edificio appariva alquanto modesto, con un solo altare e con pochi sacri arredi, tra i quali non poteva mancare la statua di S. Biagio, che qualche anno dopo venne restaurata dal cartapestaio De Lucrezi di Lecce. Di cartapesta sono pure i quattro angeli e la statuetta di Gesù Bambino. Di notevole valore artistico è la grande pala d’altare, opera del gallipolino Giulio Pagliano (1882-1932), raffigurante S. Biagio e S. Vito che, inginocchiati, rivolgono oranti lo sguardo verso l’alto dove la Vergine è tra due angeli che le porgono fiori. Sullo sfondo del dipinto appare un centro abitato, sicuramente Novoli. Di dignitosa fattura è il quadro della Madonna del Rosario. Il prospetto di questa chiesa riecheggia alcuni motivi neoclassici. Esso è scandito da quattro paraste con semplice capitello, al sobrio portale si accede salendo tre gradini e sopra di esso si apre un finestrone circolare indi, più su, si scorge il modesto fastigio.
La Chiesa di S. Stefano, oggi di S. Giuseppe
Sulla via G. Guerrieri sorge la Chiesa di S. Stefano, oggi di S. Giuseppe, eretta agli inizi del XVII secolo probabilmente sull’area di una chiesa più antica ove in epoca bizantina vi era la cripta dedicata al Santo Protomartire, S. Stefano, appunto. In origine, però, la chiesa come altri sacri edifici novolesi ebbe il tetto a canne,come fu trovato dalla S. Visita del 1640, ma due anni dopo ebbe una copertura più sicura e decente, ossia a capriate lignee, cannizzu ed embrici. Ancora nel 1640 la chiesa possedeva affreschi bizantini o bizantineggiati di cui oggi nulla resta. Possedeva due altari, uno dedicato a S. Stefano e l’altro alla Vergine.
Verso la metà del XVIII secolo la chiesa si dotò di un nuovo altare che fu dedicato a S. Giuseppe, ma col trascorrere del tempo furono necessarie alcune opere di restauro e, nell’occasione, oltre alle offerte dei fedeli, il Comune contribuì con 95 ducati. La seicentesca chiesa di S. Stefano era piuttosto piccola misurando appena 37 palmi in lunghezza e 17 in larghezza, per cui si decise di ingrandirla, sicché favorevoli la Curia e la Civica Amministrazione nel 1866 vennero demoliti i due suddetti altari posti ai lai dell’ingresso, indi se ne realizzò uno soltanto dedicato alla Vergine delle Grazie, ai cui lati erano posti i quadri di S. Giuseppe e del Crocefisso.
Altri interventi, ancora, per la Chiesa di S. Stefano che nel 1880 venne ampliata dalla Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte, fondata nel 1869, in origine nella Chiesa di S. Maria delle Grazie e, pochi anni dopo nella Chiesa di S. Stefano, ora S. Giuseppe, ove attualmente è attiva. Un fe-
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dele donò il suolo per la costruzione della sagrestia e il Comune offrì quello necessario per ampliare la costruzione sul davanti, con delibera del 3 aprile 1881. Era il 7 giugno 1885 allorché Mons. Zola, Vescovo di Lecce, giunse a Novoli in S. Visita e, con l’occasione, benedisse la chiesa ormai ultimata e la dedicò a S. Giuseppe, titolo con il quale oggi tutti la conoscono.
L’interno della chiesa è ben arredato, vi è solo un altare in marmo, sormontato da una statua in cartapesta della Vergine col Bambino. Il tempio, poi, possiede la statua di S. Giuseppe col Bambino e quella del Crocefisso, pure in cartapesta. L’ambiente è ben curato anche perché la chiesa annovera assidue presenze. All’esterno la chiesa si presenta a due ordini e riecheggia il gusto neoclassico.
Sia il primo e sia il secondo ordine, separati da una aggettante linea marcapiano, sono scanditi da quattro paraste, quelle del pian terreno con capitello di tipo dorico, quelle più su con capitello ionico. All’inizio del secondo ordine, in asse col sobrio portale, si apre un finestrone, e sulla trabeazione, al centro, si innalza il fastigio a volute.
Ritornando al primo ordine, ai lati del portale a cui si accede avendo percorsi tre gradini, due finte nicche ospitano, a destra, l’immagine di S. Giuseppe col Bambino in braccio, a sinistra la Madonna essa pure col Bambino in braccio, opere in ceramica policroma donate alla chiesa nel 1964.
La Cappella della Vergine del Buon Consiglio
Sulla via Pendino, nella corte pubblica che verso la fine dell’Ottocento fu detta del Buon Consiglio, nel 1842 la nobildonna Marianna Tarantini fece costruire la cappella gentilizia che volle dedicare alla Vergine del Buon Consiglio. Tre anni dopo il sacro edificio, munito di dote, venne aperto al culto e, al tempo, possedeva e possiede oltre al maggiore altare, quello di S. Lucia e quello di S. Paolo, nonché il pulpito e la tribuna riservata ai Tarantini per assistere ai sacri riti.
La Tarantini istituì un legato cin la rendita di 8 ducati e 99 grani, scaturenti dai fondi “Valentini” e “Maria Piccinna”, e tale legato riguardava tutti gli eredi in linea maschile, con l’obbligo di festeggiare la Vergine del Buon Consiglio con una novena e una solenne messa cantata il 26 aprile di ogni anno.
Questa elegante cappella, donata al novolese dott. Pasquale Guerrieri nel 2002 dall’ultima discendente dei Tarantini, donna Maria Teresa (1915-2002), oggi appare restituita all’originario splendore grazie agli accurati restauri
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effettuati dal dott. Guerrieri. Il prospetto di questa cappella è di indubbio gusto neoclassico, è in antis con due colonne lisce con capitello dorico, mentre la centro due pilastri lo delimitano ai lati. Sopra la trabeazione che poggia sulle colonne e i pilastri appare l’iscrizione latina dedicatoria, che ora si riporta, indi il timpano triangolare con al centro un oculo.
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Testo: sacellum hoc s(anctis)s(imae) mariae virgini de bono consiglio dicatum a(nno) d(omini) mdcccxlii suo aere construxit maria anna tarantini
Traduzione: Questa chiesetta, dedicata alla SS. Vergine del Buon Consiglio, Maria Anna Tarantini costruì a proprie spese nell’anno del Signore 1842.
Percorsi tre gradini si accede all’interno della cappella dal sobrio ingresso, ed ecco l’unica navata con pavimento maiolicato dove oltre l’antico maggiore altare con la tela della Vergine del Buon Consiglio, troveremo anche i coevi altari dedicati a S. Lucia, con al centro il quadro raffigurante la titolare e quello dedicato a S. Paolo che, in basso a destra, reca il nome del committente. Nella sagrestia fa bella mostra di sé un’acquasantiera in pietra leccese. “Sul cadere del 1800 – annota E. M. Raimondini – allorché l’autorità ecclesiastica prescrisse che tutti i fedeli avessero libero accesso nelle cappelle costruite dai privati, la maggior parte dei proprietari le abbandonarono e quasi tutti questi singolari edifici, ma non la cappella del Buon Consiglio, andarono in rovina. Nacque allora la moda delgli oratori che, per essere costruiti all’interno di case private, erano riservati esclusivamente ai fondatori e ai loro familiari e amici. A Novoli se ne costruirono ben 14, tre dei quali in ville fuori dall’abitato”.
Palazzo baronale, Oratorio di S. Maria della Pietà
Di questo oratorio se ne ha la descrzione nel 1652, e probabilmente venne realizzato da Giuseppe Antonio Mattei, all’epoca Conte di Novoli. Dell’antica cappella-oratorio il tempo ha fatto scempio, ed oggi in una stanza del palazzo baronale resta l’altare a ridosso di una nicchia nella quale un dipinto raffigura Gesù Crocifisso tra le braccia di Sua Madre. Nel 1659 il Conte Paolo Bonaventura ottenne che si celebrasse la messa tutti i giorni, eccetto le feste solenni.
Per avere un’idea di come si presentava l’oratorio del palazzo baronale di Novoli riportiamo quanto dice Mons. Pappacoda nella sua Visita Pastorale del 1652: “(L’oratorio) è all’interno del palazzo di Giuseppe Antonio Mattei, illustrissimo conte di Palmariggi e di questa città. Il suo altare è sotto il titolo di Santa Maria della Pietà con una bella icona dipinta su tela. Raffigurante l’immagine del Santissimo Crocefisso e degli altri misteri della Passione del Signore. Il corpo della cappella è di dieci palmi di lunghezza e altrettanti di
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larghezza, il tetto a volta è elegantemente costruito. Il pavimento è di mattoni dipinti e colorati, la porta corrisponde all’atrio, vicino alla scala maggiore del palazzo”.
Chiesetta della Madonna di Fatima
Tra il 1962 e il 1965, in coincidenza con la durata del Concilio Vaticano II, venne costruita dal cav. Donato Romano, noto imprenditore edile novolese, la chiesetta dedicata alla Madonna di Fatima, che sorge tra via XXV luglio e via XXIV maggio. Altri filantropi del paese contribuirono per l’arredo di questo tempio ad unica navata e con un solo altare.
Interessante è il prospetto della costruzione dove è esaltata la verticalità anche per il gioco dei pilastri, del portale nella cui cornice che si prolunga oltre l’architrave appare l’immagine della Vergine. Più su, nelle tre monofore, altrettante campane, una della quali fusa nel 1630, proveniente da Lecce, da una cappella della signora Giuseppina Damiano D’Agostino che la donò alla chiesetta.
I pilastri scandiscono tutto il perimetro dell’edificio, i cui lati si dotano di tre finestre per parte, caratteristiche perché richiamano le grate, dietro le quali un tempo le claustrali assistevano alle sacre funzioni. Infine sullo spigolo del lato destro della chiesa si erge una bella statua marmorea di S. Antonio da Padova.
La chiesa, ad unica navata e con un solo altare, possiede le seguenti iscrizioni latine:
Testo: deiparae virgini quam concil(ium) vatic(anum) ii matrem ecclesiae consalutavit dicatum
Traduzione: (Questo tempio) è dedicato alla Vergine Madre di Dio che il Concilio Vaticano II acclamò Madre della Chiesa.
Collocazione: Prospetto.
Testo: ioannis xxiii mcmlxiii concilium oecumenicum vaticanum secondum paulus vi.
Traduzione: Giovanni XXIII-1963 Concilio Vaticano II Paolo VI.
Collocazione: Retrospetto, sotto la balaustra. Tale balaustra è dotat di
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busti in bassorilievo, alquanto stilizzati, di vescovi e cardinali. Nota: L’iscrizione ricorda il periodo in cui si svolse il Concilio Vaticano II e il Papa che lo volle, ossia Giovanni XXIII e quello che lo concluse, ovvero Paolo VI.
La Chiesa e il Convento dei Domenicani a Villa Convento
Il Convento dei PP. Domenicani, con l’annessa Chiesa di S. Onofrio, a Villa Convento, sorsero per volontà di Filippo I Mattei nel 1551, il quale affidò ai PP. Domenicani il complesso monastico che nel 1652 fu soppresso dal Papa Innocenzo X, insieme a tutti i piccoli conventi dell’Ordine dei Predicatori esistenti nel Regno di Napoli, ma fu riaperto due anni dopo e fu operante fino alla definitiva soppressione degli Ordini religiosi decretata il 7 agosto 1809 con relativo incameramento di tutti i beni da parte del demanio.
La storia di questo convento, dedicato a S. Maria delle Grazie, non fu certamente serena, abbe alti e bassi, e poi pochi erano i religiosi che l’abitavano. Nel 1680 la chiesa è chiusa, la biblioteca è dispersa, mancavano i sacri arredi, scarseggiava il cibo, poi nella metà del XVIII secolo la famiglia De Pandis acquistò la chiesa facendone la propria cappella, povera però di suppellettili, arredi e paramenti. La S. Visita del 18 giugno 1665 fatta da Mons. Giuseppe Mondolfo su delega del Vescovo Pappacoda, descrive per la prima volta il Convento dei Domenicani nel feudo “parvulo” di Novoli. Va detto che prima del 1665 come tutti i conventi quello di S. Maria delle Grazie non era sottoposto all’autorità episcopale, per cui la S. Visita di Mons. Mondolfo costituisce la prima fonte, da cui si apprende che ivi si celebrano le messe per i benefattori Filippo Mattei, Diana Magliola, Matteo Spinelli, Margherita Trigliana, Luigi Antonio Alepi, Maria Dell’Atti e Paolo Cassati. La Chiesa aveva sei altari oltre quello maggiore, tutti di pietra e forniti di suppellettili, dedicati a S. Maria del Rosario, alla Beata Vergine, a S. Maria di Costantinopoli, a S. Onofrio, al Nome di Gesù e a S. Giacinto. Solo le immagini della Vergine del Rosario e di S. Giacinto erano quadri su tela, altre immagini apparivano affrescate. La navata è unica, due erano le finestre, una delle quali con grata di pietra. Il coro possedeva scanni di legno ben intagliati, vi erano poi due confessionali e il fonte battesimale. Sul maggiore altare apparivano scolpiti su pietra quattro angeli.
Il Convento dei PP. Predicatori di Villa Convento, all’epoca, si dotava di alcune terre, tre case e un capitale censo di quasi 700 ducati, per una rendita lorda di circa 142 ducati. Passano circa novanta anni allorché Mons. Sersale
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nel 1746 si reca in S. Visita a Villa Convento, così riferendoci sul complesso monastico: È rettore del Convento il P. Domenico Creta da Lequile. La chiesa ha sei altari oltre il maggiore e una cappella del SS. Sacramento. Ecco a chi erano dedicati gli altari: al S. Rosario in cornu Evangelii, col dipinto su tela; a S. Maria ad Nives con affresco; alla Beata Vergine di Costantinopoli con affresco; a S. Onofrio in cornu Epistulae con dipinto su tela; alla Circoncisione con dipinto su tela.
Alla sagrestia si accede dal coro che è dietro l’altare maggiore. Il pavimento è in pietra, le finestre della navata sono cinque ed una nella cappella. Sono chiuse da grate di pietra o di legno. La chiesa ha una sola porta verso l’esterno, da un’altra si accede al Convento, nel quale una scala di pietra porta al dormitorio che ha sedici celle.
Il refettorio ha comodi scanni fissati al muro e dà su due giardini adorni di meli, susini, aranci e viti. Il campanile regge due campane. Davanti alla porta della chiesa, contro l’altare maggiore c’è un’arca fissata al muro, sulla quale si ricorda che è sempre sacra l’immunità ecclesiastica. Nella chiesa, infine, vi sono due confessionali e l’acquasantiera in pietra, in essa si celebrano 140 messe all’anno per i benefattori.
Dinanzi alla chiesa vi era il cimitero e all’interno la tomba dei Mattei, dove poi fu realizzata la cappella di S. Onofrio. Nel 1751 la chiesa aveva bisogno dei restauri poiché pioveva non poco dal tetto, e a ciò provvide a proprie spese un muratore di Carmiano, tal Nicola, il quale con larga generosità rifornì di vivande ed altro il Convento ove letteralmente si faceva la fame. All’epoca ricopriva la carica di Vicario il P. Domenico Andras.
Non essendoci né monaci né sacerdoti che a Villa Convento avessero cura della popolazione sotto il profilo spirituale, il Vescovo di Lecce Mons. Gennaro Trama il 19 agosto 1922 presso la chiesa dell’ex Convento dei Domenicani eresse la Parrocchia dei Maria SS. De Buon Consiglio, che fu civilmente riconosciuta nel 1929. Il 9 luglio1923 nominava parroco don Giuseppe De Luca. La baronessa Luisa delle Ratta provvide alla congrua donando il podere denominato “Pizzo” e Vincenzo de Pandis donò alla nuova parrocchia l’antica Chiesa di S. Onofrio, di cui era proprietario (57).
La chiesa di Villa Convento, oggi decorosamente arredata, è in buono stato di conservazione; è a un solo ordine e il suo prospetto è scandito agli estremi da due paraste con capitello corinzio. Si evidenzia, per eleganza artistico-decorativa, l’ampio portale che si apre tra due semicolonne scanalate con capitelli corinzio e basamenti decorati; l’architrave pur essa decorata come quanto detto con gusto barocco, ha sopra di essa il timpano arcuato ma vuoto all’interno; più su un ampio finestrone circolare. Il prospetto,
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inoltre, è intersecato in orizzontale da due modanature, una a circa un terzo di altezza del portale, l’altra appare sopra il timpano.
Cronotassi dei parroci della parrocchia “S. Maria del Buon Consiglio” in Villa Convento:
1. DE LUCA don GIUSEPPE dal 9 luglio al 22 marzo 1959
2. MIGLIETTA don VITO. Economo curato dal 26 marzo 1959 al 1 febbraio 1960; parroco dal 2 febbraio 1960 al 20 settembre 1974
3. PALOMBA don COSTANTINO dal 1 novembre 1975 al 9 settembre 2000
4. PEZZUTO don MARIO dal 10 settembre 2000 al 25 agosto 2003
5. SPAGNOLO don BRUNO COSIMO dal 26 agosto 2003 al 29 ottobre 2013
6. MAZZOTTA don MASSIMILIANO amministratore dal 30 ottobre 2013 al 26 ottobre 2014; parroco dal 27 ottobre 2014 ad oggi.
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Le cappelle extraurbane
Fu merito del compianto amico Enzo Maria Ramondini (1919-1982) aver dato inizio allo studio delle vicende storico-artistiche novolesi, pubblicando il saggio Novoli di Lecce. Fatti e misfatti dalle origini ad oggi, nel 1977. Ragioni diverse, soprattutto di natura esistenziale, distolsero il Raimondini dal pubblicare altro, tuttavia prima della sua morte immatura affidò al comune amico prof. Gilberto Spagnolo le schede manoscritte riguardanti la sintetica catalogazione delle cappelle suburbane di Novoli.
Nel 1988 Gilberto Spagnolo pubblicò tali schede su “lu Lampiune” (IV, n,2, agosto 1988, pp. 75-82), la rivista da me diretta, corredando tali schede di un’ampia introduzione e di note. “Ad ogni scheda- scriveva lo Spagnolo- corrisponde una “cappella” e contiene tutta una serie di notizie su di essa, ricavate (grazie alle varie ricerche che facemmo a suo tempo presso l’archivio della curia arcivescovile di Lecce) dalle Sante Visite che sono indicate distinte per anno sotto la denominazione della cappella stessa, ma prive del nome del vescovo che le effettuò. Ad eccezione di quella esistente nel palazzo ducale, tutte le altre sono cappelle private costruite per devozione fuori l’abitato. Non si tratta quindi di un vero e proprio saggio, ma la “catalogazione” del Ramondini è ugualmente di una certa importanza in quanto fornisce, nonostante la suddetta e positiva ricchezza delle ricerche storiografiche sul sito di Novoli, diversi particolari inediti su un aspetto non meno significativo della intensa e sincera religiosità del popolo novolese.
Riproponiamo, pertanto, integrandola tuttavia laddove occorra, la suddetta “catalogazione” del Ramondini:
Cappella della Beata Vergine Assunta S. V. 1822-1830.
Risulta costruita, nel 1808, da Don Gennaro Mellone. Nel 1822 era stata ereditata da D. Vincenzo Mellone. Il tetto era a volta, il pavimento alla Veneziana. Dopo il 1830 non se ne parla più.
Cappella di Santa Lucia S. V. 1746.1754-1765-1792-1822-1880-1885-1897-1904-1911.
È stata eretta a spese del Rev. Pietro Greco di Lecce che se ne è riservato, con i discendenti, il patrocinio con atto 25 agosto 1638 o 27 agosto 1628. Ha un legato m.15 orti di vigneto alberato. Legatari del 1746 sono Pasquale dell’Abbate e sua moglie, leccesi. Ha un solo altare, con la statua della Santa in pietra variamente colorata. È piccola ma ha pavimento di pietra,
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tre finestre con inferriate e vetri, due porte, con campana e confessionale. Si celebra la festa del 13 dic. con grande concorso di popolo. La proprietà è stata trasferita a un tal Giuseppe (cognome illeggibile) per not. Giu. Maria Quarta del 1.4.1692. La campana pesa 50 libbre. Nel 1822 apparteneva a Giuseppe Vetrugno. Tra il 1880 e il 1885 va in rovina. La proprietaria Vita Quarta è invitata ad eseguire le ripazioni necessarie. Nel 1892 non essendo stato raccolto l’invito è sospesa dai riti. Nel 1904 è elencata tra le cappelle pubbliche e nel 1911 non si fanno osservazioni. Il giardino S. Lucia è in v. di Salice, Case Sparse n.7. Nel 1962 è di Chiara De Simone.
A quanto detto dal Ramondini si aggiunge che la Cappella di S. Lucia alcuni anni fa è stata completamente devastata da barbari anche in cerca della “acchiatura”; sono stati trafugati i sacri arredi e le opere d’arte, il tutto ora è ridotto ad un rudere poiché nessuno ha vigilato né si preoccupa di recuperare il salvabile, né la Chiesa né il Comune di Novoli, né altri. A questa cappella Angelo De Pascalis ha dedicato pagine appassionate che, per il loro valore storico, di seguito riportiamo:
«Teatro di misfatto è stata la seicentesca Cappella dedicata a Santa Lucia, ubicata sulla via per Salice Salentino a poco meno di un chilometro dall’abitato di Novoli. Questa Cappella, edificata all’interno di un comprensorio assai vasto ed unito ad una grande costruzione era, non solo per la sua ampiezza, ma soprattutto per la sua raffinata composizione interna, la più pregevole tra le altre cinque ancora esistenti nel feudo di Novoli, tutte (tranne la cappella dedicata a San Nicola sulla via per Veglie) comprese all’interno di antiche villette nobiliari tra Novoli e Villa Convento.
Il suo splendore aveva vinto il tempo, infatti sino a pochi anni or sono, nonostante in stato di abbandono, era ancora possibile osservarne l’incantevole armonia di strutture e colori, ma purtroppo non ha resistito alla ferocia di empie mani che hanno colpito la parte centrale di quel meraviglioso scenario: l’altare. Era proprio l’altare, con la statua della Santa titolare della Cappella, l’autentico gioiello, loquace espressione dell’arte barocca e del virtuosissimo degli antichi scalpellini.
Entrando in quella chiesetta era l’altare nel suo insieme che, per la sua posizione centrale alla porta d’ingresso, e in particolare modo per la sua raffinata eleganza, rapiva subito lo sguardo del visitatore portandolo, con la sua fattura slanciata, sino alla volta in cui si perdeva tra i vivi colori (ancora visibili in originale) e i mirabili effetti di chiaroscuro, provocati dalle tre aperture superiori (poste sulle due pareti laterali e su quella frontale all’altare), per ritrovarsi concentrato nel rodono centrale.
Quell’altare, dunque, slanciato sino la volta sembrava voler testimoniare
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quell’unione tra terra e cielo, tra Dio e l’uomo che si rinnova sulla mensa. E questa, per renderla degna dell’eccelso sacrifico, era stata formata, nella sua semplice compostezza, da un piano modanato sorretto da parastine angolari convesse verso l’alto a guisa di un capitello, mentre la centro del paliotto, inserita in un rosone con ornati, presentava una croce con motivi floreali stilizzati.
Del resto del tabernacolo ligneo, avendo come base la mensa, si elevavano sue gradini sino alla nicchia (dove vi era la statua in pietra policroma della Santa) racchiusa in una cornice tipicamente barocca.
All’interno della nicchia, nella parte superiore, vi era una grande conchiglia dai colori delicati che faceva da corona alla Santa e richiamava per la forma le due acquasantiere poste all’ingresso della chiesa, rispettivamente una a destra e l’altra a sinistra.
Ai lati della nicchia, partendo dal piano mensa, si levavano due motivi ornamentali spiraliformi che dilatavano la superficie e orientavano lo sguardo del visitatore verso l’alto dove era sormontata da un ricco fregio formato da una testa di angelo con ali e due rosette.
Al di sopra di questo, quasi a coronamento, si notavano due ricche volute con ornati e al centro era posta la statua in pietra di San Pietro apostolo ai cui piedi vi era una piccola conchiglia con un’epigrafe. Una scenografia che per eleganza, raffinatezza e vitalità di colori infondeva gioia e serenità nell’animo dell’osservatore comune e dava all’ appassionato di arte e di storia la possibilità di leggere e ricostruire attraverso quelle “pietre” ben lavorate, la religiosità, l’economia e l’arte, quindi i sentimenti, le usanze e le tecniche che nel passato avevano caratterizzato in parte la vita di Novoli.
Ora, invece chi entra in quella Cappella si trova davanti un desolante cumulo di macerie per cui indignazione e malinconia pervadono il suo animo. Quei pezzi di pietra, sparpagliati sul pavimento pare che gridino giustizia verso i vandali demolitori e con tono severo dicano ai proprietari, per la loro negligenza e gli addetti alla custodia, al recupero e alla valorizzazione dei monumenti per la loro indifferenza: Vergogna! Insomma quelle “pietre” con l’autorità che è stata loro conferita dalla compostezza precedente e per il valore storico-artistico e sacro in passato custodito sono oggi un severo monito per la nostra società che travolta da uno sfrenato desiderio di possesso, proprio di una cultura materialistico-consumistica, dimostra di aver perduto, quasi completamente, i valori morali, etici e religiosi, anima di ogni società civile, senza i quali si rischia di perdere la propria storia e di conseguenza il vero senso della propria esistenza».
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Cappella di Maria SS. Della Porta S.V. 1885.
Fu costruita da D. Antonio Indino, canonico della cattedrale di Lecce. Era usata dagli eredi. Giardino Indino è alla via di Lecce, case sparse n. 17° proprietaria nel 1962 di Laura Chillino.
Cappella di Tutti i Santi S.V. 1765-1768-1792-1822-1830-1885-1904-1911-1921.
Nel 1768 appartiene alla Famiglia Vergori. Fu costruita dal Rev. D. Pasquale Vergori, canonico della cattedrale di Lecce in un suo giardino a un miglio e mezzo di Novoli. Passò a D. Marianna Cattani. Nel 1830 era di D. Luigi Cosma, nel 1885 di D. Giuseppe Cosma. Nel 1904 passa a Donna Maria del Prete di Copertino ed è in stato di completo abbandono. Nel 1911 è completamente restaurata e riccamente dotata di paramenti e arredi. Nel 1921 appartiene alla famiglia Maresca. È sulla via per Convento, a sinistra.
Le immagini erano dipinte su tela con cornici di pietra ben lavorate. Aveva sacrestia e campana.
Cappella della SS. Concezione S.V. 1746-1754-1765-1768-1792-1822-1830-1885-1904-1911.
Fu eretta dai coniugi Gaetano Cardamone di Lucera e Lucrezia Pagano nella loro villa al Feudo con un legato di 36 orti di vigneto con alberi e una casa con stanze e accessori al piano terreno e al primo piano. Col diritto ereditario di eleggere il cappellano. Ereditata dal figlio Nicola e dalla figlia di questo fu data in enfiteusi con giardino a D. Pasquale Santoro di Lecce che nominò cappellano D. Oronzo Scardia di Carmiano.
La cappella misura m. 8x6 pavimento alla veneziana. Ha una porta, una finestra, la campana e un altare, convenientemente dotata e arredata. Vi si celebra la messa cantata il giorno dell’Immacolata e in quello dei Santi. Nel 1768 è detta Cappella dell’Immacolata in feudo Cardamone. Nel 1792 si precisa che il legato fu rogato da not. Andrea Tarantino di Nocera dè Pagani res. a Lecce. Oltre al quadro della R. V. Maria, c’erano quella di S. Teresa e di S. Gaetano, olii su tela. Il tetto era a volta, la campana pesava 200 lib. Enfiteuta era D. Oronzo della Ratta. Nel 1830 giardino e cappella passarono agli eredi di Nicola Paladini. Nel 1885 è in decadenza, invasa dall’umido, senza arredi e suppellettili che i Paladini custodiscono a Lecce. Nel 1904 è interdetta dal rito per lo stato in cui è tenuta dai De Simone-Paladini. Nessuna osservazione nel 1911.
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Cappella di S. Antonio di Padova S.V. 1746-1754-1792
Sorge nel giardino di proprietà del Mag. Paolino Gustapane che l’ha eretta a sue spese e dei vicini. Nel 1754 è in abbandono, spoglia d’ogni cosa e il tetto minaccia rovina. Simili condizioni nel 1792. Poi non se ne parla più. Aveva altare di cemento, l’immagine del Santo dipinta su tela, il tetto a cannizzi, campanile con campana, una porta e una finestra.
Cappella S. Giovanni Battista S.V. 1660-1746-1754-1792
L’aveva costruita D. Giovanni Greco in un giardino di sua proprietà (test. not. Donato M. Brunetti del 9.5.1634). Nel 1746 era beneficiario Quintino Greco da Trepuzzi ma da tempo era in rovina e senza suppellettili. Tra il 1754 e il 1792 andò totalmente diruta.
Cappella di S. Croce S.V. 1640-1746-1750-1754-1882.
Eretta da D. Domenico Guerrieri. Vi si celebrava la messa nei giorni festivi. Nel 1746 è fatiscente e le messe per cui vi è legato si celebrano nella Matrice.
Dista un miglio dall’abitato. Nel 1750 è priva di suppellettili e cadente. Nel 1754 sospesa dai riti. Nel 1882 completamente diruta.
Cappella di S. Donato S.V. 1660-1746-1750-1754-1792-1882.
Eretta da Don Domenico Mazzotta a un miglio e mezzo dall’abitato. Ha un legato di 50 ducati per 14 messe l’anno a favore del Capitolo (test. per not. Gio. Tommaso Caputo 15 Aprile 1666). Nel 1746 ha bisogno di restauri totali, nel 1750 è priva di suppellettili e in rovina. Nel 1754 è sospesa dai riti perché completamente diruta. La campana di 40 libre custodita altrove. Nel 1822 non esisteva più.
Cappella di S. Nicola S.V. 1640-1648-1746-1792-1880-1885-1904-1911-1921.
Nel 1640, giudicata antichissima, è “più stalla che chiesa”. Nel 1746 si dice che sorge nell’antico feudo di Furziano e che è stata ricostruita da D. Giovanni Mazzotta che vi celebra la messa nei giorni festivi. Il notaio Pietro Mazzotta ha istituito un legato di quattro messe all’anno. Nel 1792 a D. Pio è succeduto D. Domenico. Nel 1880 i paramenti sono custoditi a Novoli
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nella chiesa di S. Vito che è dei Mazzotta. Nel 1880 la favola del Marciano è trascritta per la prima volta nel verbale della S. Visita di Mons. Luigi Zola. La cappella che guarda ad Oriente ha sull’altare un affresco di S. Nicola. Nel 1904 è in decadenza perché è molto umida. Nel 1911 e nel 1921 non si muovono osservazioni. Tra gli anni Venti e gli anni Quaranta se ne occupò D. Annina D’Agostino-Parlangeli che vi faceva celebrare la messa e i festivi d’estate e d’autunno. Dopo la sua morte minacciava rovina. È stata recentissimamente restaurata da Oronzo Quarta.
Il prof Oronzo Madaro conferma la circostanza del ritrovamento nel feudo Carlino di grandi quantità di ossa umane che furono inumate al cimitero. Nello stesso feudo è facile il ritrovamento di detriti fittili di vario impasto, forma e cottura. Una statua di pietra che è abbandonata in una casa dei dintorni potrebbe provenire dalla chiesa. Tanto ci riferisce il Raimondini. Da parte nostra si aggiunge che dal febbraio 1993 iniziarono i lavori di restauro di questa cappella che nell’anno successivo venne riaperta al pubblico. Fu recuperato il seicentesco affresco di S. Nicola, e i tanti lavori
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vennero effettuati con le collette dei fedeli e soprattutto col denaro del sig. Cosimo Dell’Atti. La chiesetta venne rifornita delle sacre suppellettili, di banchi, candelieri e della statura in cartapesta raffigurante S. Nicola, opera del leccese Antonio Malecore. Semplice è il prospetto di questa chiesetta che è ristrutturata a capanna. Al centro del prospetto si apre l’ingresso e, sopra, in asse, un oculo; più su si legge l’epigrafe del 1863, che riportiamo. La cappella di S. Nicola possiede un piccolo campanile a vela e all’interno un unico ambiente che si presta ad un solo altare.
Testo: vetustum hoc sacellum s(ancto) nicolao ep(iscopo) sacratum diu(n)que desertum finitimi restauravere fideles a(nno) d(omini) mdccclxiii
Traduzione: Questa antica cappella consacrata a San Nicola vescovo e per lungo tempo abbandonata, i fedeli circonvicini restaurarono nell’anno del Signore 1863.
Collocazione: Sull’architrave della chiesetta
Cappella della Pietà S.V. 1660-1754-1885.
È nel castello. Era un altare sovrastato da una nicchia nella quale una Madonna sorregge tra le braccia il corpo di un Gesù Crocifisso. (Ovviamente questa cappella non è suburbana).
Cappella di S. Vito S.V. 1885-1904-1911-1922.
Nella Villa Pisanelli-Contrada Chiga (1904). Nel 1904 è interdetta sino a quando non sarà rimosso il ritratto di donna sconosciuta che vi è esposto. Nessuna obiezione nelle S. V. successive. Apparteneva ai sigg. Capelluti-Gioia. È alle case sparse di Via Lecce o al 41-42 o al 53.
Sacerdoti e religiosi da ricordare
- GENNARO ANTONIO D’ELIA (1909-1990) fu ordinato sacerdote nel 1931. Laureato in Sacra Teologia nel 1936 e tre anni dopo in lettere classiche, insegnò queste discipline nei licei classici di Galatina e di Lecce. Fu docente presso il Seminario di Molfetta e dal 1944 al 1945 insegnò Storia Comparata delle lingue classiche presso l’Università di Bari, avendo
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come suo assistente Oronzo Parlangeli. Prefetto di camerata del Seminario Vescovile di Lecce, nel 1935 della Collegiata di Campi, rinunciandovi due anni dopo per dedicarsi all’insegnamento, nel contempo ricoprì prestigiose cariche ecclesiastiche. Persona coltissima, don Gennaro mai trascurò i suoi impegni sacerdotali e il 1° marzo 1956 divenne parroco della chiesa di S. Antonio Abate.
- FRANCESCO DE TOMMASI (1911-1985) fu ordinato sacerdote nel 1934. Dal 1940 al 1954 fu parroco del Santuario di S. Antonio Abate, indi dal 1954 e fino alla morte fu arciprete parroco della Matrice novolese. Autentico uomo di Dio ricoprì impegnative cariche religiose rivolte al sociale. Durante il primo conflitto mondiale si prodigò per assistere i profughi che giungevano a Novoli.
- ORONZO MAZZOTTA (1919-2014) fu ordinato sacerdote nel 1942, indi si laureò in lettere e filosofia e si dedicò all’insegnamento che svolse presso gli istituti superiori. Se come sacerdote non ha lasciato consistenti tracce di sé, tuttavia brillò nel campo culturale, negli studi multidisciplinari, nelle composizioni dialettali e negli scritti di attualità. Vasta e qualificata fu la sua produzione di saggi, articoli e libri.
- GIUSEPPE METRANGOLO (1927-2014) fu ordinato sacerdote nel 1952 e per i seguenti nove anni fu direttore spirituale del Seminario di Lecce. Ricoprì diverse cariche ecclesiastiche e fu arciprete a Lequile dal 1962 al 1993, indi dal 1993 al 2006 fu parroco della Basilica di S. Croce, a Lecce, poi fu rettore della Chiesa di S. Maria della Grazia, pure a Lecce. Don Giuseppe fu persona integerrima, discreta, umile, mai prese confidenza con se stesso eppure possedeva una vastissima cultura e si scherniva senza infingimenti allorché gli venivano riconosciuti i suoi meriti. Fu sacerdote esemplare, quindi autentico uomo di Dio, sempre disponibile, generoso e comprensivo.
- FRANCESCO PELLEGRINO (1901-1979) fu ordinato sacerdote nel 1924. Fu fondatore e Padre Spirituale del Terz’Ordine Carmelitano nella Parrocchia di S. Antonio Abate. Fu rettore della chiesetta di Maria SS.ma Immacolata e Padre Spirituale dell’omonima Confraternita, e sempre a Novoli di adoperò per i restauri e l’ampliamento della più antica chiesa del paese, soprattutto per promuovere il culto alla Madonna di cui era particolarmente devoto. Fu direttore delle Figlie di Maria e Cappellano delle Suore d’Ivrea presso il locale Istituto Tarantini. Tra il 1951 e il 1959,
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sotto la presidenza del fratello Mons. Paolo, il Nostro insegnò musica presso il Seminario e nel Duomo di Lecce diresse il Coro di S. Cecilia costituito dai pueri cantores nelle celebrazioni eucaristiche solenni. Poi insegnò musica presso l’Istituto Magistrale “P. Siciliani” di Lecce, ma nel contempo componeva pregevoli Inni Eucaristici e Mariani. Il 23 giugno 1927 mons. Francesco (Ciccio) Pellegrino conseguì il Diploma di Canto Gregoriano presso la Pontificia Scuola di Musica Sacra a Roma e il 30 giugno 1929 presso la stessa scuola conseguì il Magistero in Composizione di Musica Sacra. Tante le opere musicali che don Ciccio ci ha lasciate, tra le quali spiccano l’Inno alla Madonna per il secondo Congresso Mariano della Diocesi di Lecce nel 1954, la musica dell’Inno Eucaristico, Inno Ufficiale del Congresso Eucaristico Nazionale tenutosi a Lecce nel 1956 e le musiche per la Messa del Concilio Vaticano II.
- PAOLO PELLEGRINO (1904-1970) fu ordinato sacerdote nel 1927. Per molti anni insegnò presso il Seminario Regionale di Molfetta, poi fu docente di Materie Letterarie presso l’Istituto Magistrale “P. Siciliani” di Lecce. Cappellano del Papa fin dal 9 dicembre 1965, fu anche Cappellano della Confraternita di S. Oronzo, a Novoli, dove pure ricoprì la carica di Vicario foraneo dal 3 dicembre 1954. Fu pure preside del Seminario diocesano presso il quale, ancora, fu Prefetto degli studi e docente di Lingua e Letteratura Italiana. Fu, inoltre, Cameriere Segreto del Papa. Persona rigorosa ma sempre aperta al colloquio, si interessò delle memorie storiche novolesi e compose pure poesie. Nell’immediato dopo guerra fu consigliere comunale di Novoli, e fu fratello di suo Mons. Francesco (Ciccio) Pellgrino.
- EMANUALE RICCIATO ( 1886-1974) fu ordinato sacerdote nel 1909. Dottore in Lettere e Filosofia, si laureò presso l’Università di Napoli il 16 dicembre 1915. Fu il primo sacerdote novolese che intraprese gli studi universitari. Dotato di una vasta cultura, don Emanuele Ricciato educò una folta schiera di novolesi, insegnò lettere e teologia nella Scuola dei Padri Passionisti di Novoli dove sin dalla fondazione del Convento vi era una scuola per i futuri sacerdoti passionisti. Insieme ai suoi quattro fratelli: Giuseppe, Antonio, Paolo e Francesco partecipò come combattente e cappellano alla prima guerra mondiale. Rettore della novolese chiesa della Madonna di Costantinopoli, detta del Pane, fu poi economo curato della chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo, dopo la morte dell’arciprete Francesco Saverio Greco dal 26 febbraio 1934 al 14 ottobre 1935. Insegnò Lettere presso il R. Liceo-Ginnasio “G. Palmieri” di Lecce e dires-
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se il Terz’Ordine Francescano. Dal 1922 al 1935 fece parte del Consiglio Amministrazione dell’Asilo “Tarantini” come tesoriere e, alla morte del presidente, mons. Francesco Greco nel febbraio del 1934, fu anche Economo Curato di tale ente per alcuni anni. Scrisse: L’istruzione primaria in Novoli dai primi del secolo XIX ai nostri giorni, Lecce, 1958.
- GIOACCHINO ORONZO RIZZO (1906-1980) fu ordinato sacerdote nel 1932. Subentrò a don Emanuele Ricciato nel ruolo di Rettore del Santuario della Madonna del Pane, incarico che tenne per mezzo secolo. Don Gioacchino, detto familiarmente “Papa Giuacchinu”, volle la costruzione della Casa di Carità iniziata nel 1940, con asilo-ospizio per anziani abbandonati e poveri. Questa casa, diretta dalle Suore Mercedarie entrò in funzione il 29 marzo 1952. Ma don Gioacchino, oltre che sensibile nei confronti dei derelitti e dei sofferenti, si interessò pure di politica e a Novoli svolse un ruolo di primo piano nel Partito dell’Uomo Qualunque, fondato da G. Giannini.Ancora a lui si deve la costruzione dell’edificio per le opere parrocchiali, attualmente sede dell’Azione Cattolica Maria SS. del Pane, e di tre classi di scuola materna. Fu don Gioacchino che fece costruire l’Istituto “Vitina Donno”, persona esemplare e munifica, destinato alle fanciulle e diretto dalle Suore Mercedarie. Qui, all’inizio, ebbe sede la scuola media di Novoli. Per queste opere di indiscusso valore sociale ed educativo don Gioacchino ci mise del proprio, divenne operario mai curandosi delle fatiche e delle intemperie.
- ALESSANDRO SPAGNOLO (1919-1990) fu ordinato sacerdote nel 1942, indi si laureò in Lettere ed insegnò queste discipline nel Seminario di Lecce. Persona disponibile nei confronti di tutti, fu particolarmente sensibile nei riguardi dei bisognosi, si spese in attività sociali. Dedito allo studio, pubblicò diverse opere e collaborò pure con diversi giornali e riviste. Rettore della Chiesa di S. Vito, in Novoli, divenne membro del Consiglio Diocesano per l’emigrazione e, ancora a Novoli, fu Padre spirituale della Confraternita di Maria SS. del Pane e di S. Luigi. Indi fu Cappellano Provinciale della Comunità Braccianti, Consigliere Ecclesiastico Provinciale della Federazione Nazionale Coltivatori Diretti dal 1950 al 1953. Ancora, fu delegato Diocesano dell’O.N.A.R.M.O dal 1950, quindi Consulente Ecclesiastico del Segretariato Attività Sociali, di Delegato Regionale per il Salento della Pontificia Opera Assistenza. Fu Preside agli studi del Seminario diocesano nel 1984, Vicario episcopale per la Pastorale Sociale del Lavoro il 13 ottobre 1998. Fondò e diresse la Scuola di Servizi Sociali, in Lecce.
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- FRANCESCO TARANTINI (1925-2012) fu ordinato sacerdote nel 1948 e, laureatosi in Filosofia, insegnò questa disciplina, indi fu preside presso i Licei Classici “G. Palmieri” e “Virgilio” di Lecce. Collaborò con diversi giornali e riviste, scrisse pure poesie, collaborò col Centro Ecumenico S. Nicola di Bari e molto importanti furono le sue comunicazioni nei convegni nazionali della Società Filosofica Italiana e dell’Associazione di Cultura Classica. Scrisse saggi filosofici su Popper, Maritain, Vailati, Lazzarini, etc., nonché testi di argomento teologico. Ottimo e appassionato predicatore, don Francesco ebbe cultura assai vasta e nel 1994 ebbe la rettoria della Chiesa di Cristo Re a Lecce, e a lui si deve il culto della mistica polacca S. Faustina Kowasca. Donò tutti i suoi beni ai Gesuiti onde realizzassero il suo progetto di una Fondazione da affidare alle Suore della Misericordia.
Passionisti novolesi
- Fr. PAOLO DELL’ADDOLORATA (Giovanni Rizzo, 1890-1916).
- Confr., DIOMEDE DI SANT’ANTONIO (Antonio Ippolito, 1898-1918).
- P. LEONARDO DI S. GABRIELE ( Salvatore Potì, 1917-1950).
- Fr. BARTOLOMEO DI GESU’ (Roberto Rizzo, 1874-1955). - Fr. PIETRO DEL CUORE DI MARIA (Giovanni Vetrugno, 1891-1966).
- P. MARCELLO DELL’ANNUNZIATA (Francesco Spagnolo, 1902-1972). Fu il più illustre Passionista di coloro che finora abbiamo citato. Coltissimo, scrisse diversi saggi di argomento religioso e condusse vita esemplare. - P. FULGENZIO DI GESU’ BAMBINO (Cosimo Scardia, 1908-1974). - P. AMEDEO DI MARIA IMMACOLATA (Antonio Tarantini, 1910-1983). - Fr. SERAFINO DELLA PASSIONE (Oronzo Bergamo, 1919-2004). - P. ANTONIO DI GESU’ CROCEFISSO (Antonio Curto, 1951-vivente). - P. FERNANDO DELL’IMMACOLATA (Iginio Elia, 1939-vivente). Per saperne di più cfr. C. Turrisi, op. cit., pp. 77-81.
Comunità religiose
- Suore Mercedarie, Scuola materna ed elementare “Vitina Donno”, Via Lecce, 4.
- Istituto Secolare Ancelle Mater Misericordiae, presso Maria Manca, via G. B. Longo, 52.
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Dal secondo dopoguerra ad oggi
All’indomani del secondo conflitto mondiale furono indette le consultazioni elettorali per eleggere l’Assemblea Costituente e per il referendum istituzionale, monarchia o repubblica, che si tenne il 2 giugno 1946. Per la circostanza tutta l’Italia si mobilitò e tanti lo fecero con entusiasmo anche perché non si votava dal 1924, quindi da ben 22 anni. Ovunque, anche nei centri più insignificanti, si accesero le passioni politiche, dappertutto comizi e polemiche, non pochi scontri e ci scappò pure qualche morto. Questa volta erano chiamati alle urne anche i militari e le donne, per la prima volta, ma costoro già si erano espressi per le elezioni amministrative svoltesi nella primavera del 1946.
In tutto il meridione d’Italia, fatta qualche rarissima eccezione, col referendum istituzionale prevalse la scelta monarchica, e a Novoli soltanto 381 elettori si espressero per la repubblica e ben 4.215 per la monarchia. Ma vediamo ora in dettaglio come si votò a Novoli: ‹‹Lista N° 1 Movimento Democratico Monarchico Italiano voti 188 – Lista N° 2 Unione Democratica Nazionale voti 373 – Lista N° 3 Blocco Nazionale Libertà voti 1234 – Lista N° 4 Partito Repubblicano Italiano voti 35 – Lista N° 5 Partito Comunista voti 15 – Lista N° 6 Partito della Democrazia Cristiana voti 1849 – Lista N° 7 Partito Cristiano Sociale voti 31 – Lista N° 8 Partito Socialista Italiano voti 285 – Lista N° 9 Movimento Unionista Italiano voti 29 – Lista N° 10 Partito d’Azione voti 19. Dal che si deduce che perfino un parte degli elettori dei Partiti sicuramente repubblicani votò per la dinastia sabauda››1 .
Alle urne si recarono circa 24 milioni di Italiani che, a livello nazionale, diedero circa 12.700.000 voti alla repubblica e circa 10.700.000 alla monarchia, e così tramontava dopo 86 anni il regno sabaudo. Certo, ed occorre rammentarlo, non pochi contestarono anche violentemente, l’esito della consultazione referendaria accusando i partiti della Resistenza di aver effettuato brogli a favore della scelta repubblicana, ma ormai si era cambiato e non credo che oggi nessuno abbia interesse a recriminare e a verificare, sempre che sia possibile, come effettivamente siano andate le cose.
A Novoli, e non poteva essere diversamente, non si rimpianse più di tanto la caduta della monarchia, tant’è che ben presto si salì sul carro del vinci-
1 In F. Laudisa, op. cit., p.76-79.
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tore, e data la base ignorante i preti ci guazzarono al pari dei clericali e dei conservatori, per cui il paese si dette subito amministrazioni democristiane, con tanti ex fascisti, all’insegna del più viscerale anticomunismo voluto dalla Chiesa e dagli Americani. Si susseguirono civiche amministrazioni che poco si interessarono del paese, che solo alla fine degli anni Settanta conobbero la crisi per il rafforzarsi dei partiti della sinistra, ma che oggi si sono omologate all’andazzo in voga, con un’alta disaffezione alla politica e al voto. Il paese, nella seconda metà del secolo scorso, pur restando a prevalente economia agricola, registrò via via una crescente diminuzione degli addetti al settore primario, alcuni emigrarono nel Nord Italia, in Svizzera, in Francia, in Germania, etc., altri si riversarono nel terziario, divenendo commercianti di tessuti, attività che però da alcuni anni è stata completamente dismessa. Intanto cresceva il numero dei professionisti e degli studenti, delle ragazze soprattutto, ma oggi vuoi per la crisi generale e sia perché è alto il numero dei diplomati e dei laureati, alla notevole disoccupazione manuale si è aggiunta quella altrettanto numerosa della disoccupazione intellettuale, per cui a Novoli pare proprio che non vi siano sbocchi lavorativi mentre nei paesi circonvicini pur tra tante difficoltà le cose vanno meglio.
Di fronte a questa situazione il paese da circa quarant’anni continua a depauperarsi delle sue più giovani energie, tanti continuano ad emigrare, nel Nord Italia essenzialmente, il che ha lasciato, sia pure con oscillazioni, pressoché costante la diminuzione della popolazione rispetto al naturale incremento.
Grazie alla scuola primaria e secondaria di analfabeti a Novoli non ce ne stanno più, eccetto qualche decrepito anziano, ma ciò non vuol dire che nel paese ci siano persone sufficientemente colte se si eccettuano laureati e professionisti, già perché nonostante i mezzi di comunicazione serpeggia l’analfabetismo di ritorno, anche perché si legge poco e non si è avvezzi ad acquistare libri.
Da statistiche rilevate nel decennio 1960-1980, già da me riportate nella prima edizione di questo libro (1980), così scrivevo:
‹‹Relativamente al grado di istruzione, i laureati, nel 1961, erano 109 e, nel 1971, 142. Si è passati dall’1,26% al 1,72%. La percentuale provinciale, nel 1971, era dell’1,42%. I diplomati, dal 1961 al 1971, sono passati da 244 a 456, ossia dal 2,82% al 5,64%. I forniti di licenza media, nel 1971, erano 824, pari a 9,99%. La media provinciale è del 10,94%. Tutti forniti di titolo di studio nel paese, nel 1971, erano 4.292, pari cioè al 52,45%. Gli analfabeti sono passati da1.433 a 919. Di questi 206 sono in età inferiore ai 45 anni, ossia il 22,44%. La media provinciale degli analfabeti inferiore a
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45 anni è del 25,69%. Il totale della popolazione attiva, nel 1971, era di 3.259 unità, così distribuita: 703 in agricoltura, 1.374 nell’industria e commercio, 922 in altre attività. La popolazione assente per motivi di lavoro, nel 1971 era di 259 (195 uomini e 64 donne) unità all’estero e 100 (72 uomini e 28 donne) in altri comuni. La percentuale degli assenti per motivi di lavoro dal paese di Novoli è una delle più alte dei centri vicini a Lecce. È dell’11,01%. Le famiglie residenti secondo il ramo di attività sono passate: in agricoltura, dal 48,86%; nell’industria e commercio, dal 21,31% al 26,15% e nelle altre attività dal 29,78% al 41%.
Si registra quindi, un forte incremento del settore terziario, che è poi quello scarsamente produttivo. A tal proposito le medie provinciali sono del 38,96% per l’agricoltura, del 28,41% per l’industria e commercio e del 32,61% per le altre attività. Il numero delle famiglie in condizione non professionale è salito dal 36,67% al 45,28%.
L’agricoltura novolese registra 843 aziende di cui 545 (il 66,65%) fino ad un ettaro e solo una oltre i cinquanta. 699 unità agricole sono coltivate a vigneto, 269 a olivo, 30 ad agrumi e 17 a piantagioni fruttifere. Per quanto riguarda il valore fondiario dei terreni, il paese è tra quelli di prima categoria. È invece nella seconda categoria per quanto riguarda il numero e la consistenza degli impianti industriali (mobili, macchine agricole, ricami e tessuti). Per l’edilizia è nella terza. Per il commercio è tra quelli che hanno scarsissima attività produttiva. Molte sono le persone a Novoli occupate nel commercio, ma pochi gli impianti significativi, ossia con un numero di addetti non inferiore a 10. Novoli registra, ancora il 25% di persone pensionate, ossia nella terza categoria.
Per quanto riguarda le abitazioni, nel 1971 risultavano 45 famiglie coabitanti, il 32,03% dei nuclei familiari alloggiava in affitto. Sempre nel 1971 risultavano senza allacciamento idrico 574 abitazioni, pari al 22,99%. Avevano l’acqua all’interno dell’abitazione solo il 70,43%, aveva il gabinetto interno solo il 70,03%.
Questo un quadro più o meno aggiornato sul paese fino al 1971, epoca in cui risulta chiara la flessione degli addetti nel settore agricolo, che, però, si andava sempre più modernizzando e meccanizzando. Inoltre mentre nel passato ognuno trasformava vino e olio per conto proprio, la mentalità individualistica stava per fortuna, cedendo il posto all’organizzazione cooperativistica, tant’è che a Novoli operavano due cantine sociali. Le varie riforme agrarie non hanno frenato l’esodo dal settore primario, che risulta assai senilizzato, e l’assegnazione di terra ai contadini, a Novoli come in altri centri della provincia di Lecce, non ha sortì alcun effetto positivo, in
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quanto l’iniziativa non fu politicamente ed economicamente sorretta. E poi la scuola non ha saputo legarsi nel paese, come altrove nel Salento, ad una politica del territorio, tenendo conto delle risorse e delle vocazioni ambientali. Essa continua a sfornare disoccupati che certamente non considerano e non possono considerare la prospettiva di un ritorno nei campi.
Il paese, nonostante gli impianti ancora da perfezionare, manca di una rete fognante, ha scarsa disponibilità idrica autonoma, nel senso cioè che molti pozzi sono stati chiusi. Nel 1961 Novoli contava ancora 19 pozzi nell’abitato, 88 pozzi e 3 cisterne nel territorio del Comune (case sparse di via Lecce, via Veglie, via Campi, via Salice, via Capua e via Trepuzzi).
Con delibera del Consiglio Comunale, n. 38 del 26 settembre 1952, veniva approvato il progetto dell’architetto Cino Mazzotta per la costruzione del mercato coperto in piazza Regina Margherita. La spesa preventiva per la realizzazione dell’opera fu di L. 14.000.000, tuttavia la cifra lievitò nel tempo poiché il primo lotto del mercato cittadino fu completato nel 1960 e solo quattro anni dopo si giunse alla definitiva sistemazione della costruzione2 .
Il 27 ottobre del 1957 veniva inaugurata la Casa del Fanciullo, in via S. Antonio, sull’area di un vecchio frantoio donato dalle sorelle Marietta e Rosaria Graziuso alla parrocchia S. Antonio Abate, acchè si edificasse una sede ricreativa per i ragazzi. A ricordo dell’avvenimento fu posta la seguente epigrafe in marmo all’ingresso della Casa del Fanciullo, in via S. Antonio: ‹‹Pietà filiale e zelo divino verso l’infanzia mossero il nobile cuore di MARIETTA e ROSARIA GRAZIUSO a donare in suffragio dei genitori dott. NICOLA e FRANCESCA GRAZIUSO questo suolo dove sorgeva un vecchio frantoio. Il parroco Gennaro D’Elia, che su progetto dell’Arch. Cino Mazzotta ricostruì dalle fondamenta questa CASA del FANCIULLO inaugurata da S. Ecc. Mons. Francesco Minerva il 27 X 1957 con animo grato e devoto a perpetuo ricordo pose››.
Nel 1978 veniva ristrutturata la sede delle Suore di S. Antonio da Padova, sempre sulla via S. Antonio, accanto alla Casa del Fanciullo, che si denominò Istituto Educativo Assistenziale Femminile S. Antonio da Padova, dove sono ospitate le fanciulle bisognose di Novoli e di altri centri vicini, le quali ricevono un’educazione d’istituto e poi frequentano all’esterno le scuole statali. L’istituto religioso fu fondato il 28 gennaio 1905 su di un suo-
2 Cit. da A. Spagnolo, Novoli in cifre, in “Paise Miu”, 1, 2, Novoli, dicembre 1977, pp. 1-3; V. Pati, Le lotte contadine dell’Arneo al principio degli anni ’50, in “Rassegna Salentina”, III, 3, 1978, pp. 37-50.
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lo di proprietà del dott. Nicola Graziuso che ne fece dono alle Suore Antoniane. Nel 1961 ancora un’altra benefattrice novolese, Vitina Donno (18891972), inaugurò l’Istituto Femminile che porta il suo nome, nella via don Francesco De Tommasi, n. 4, affidandolo alle Suore Mercedarie. Generosa e altruista, Vitina Donno ebbe a cuore l’infanzia abbandonata e in questa sua missione, tale la riteneva, le furono accanto ottimi consiglieri spirituali, tra i quali don Ciccio (Francesco) De Tommasi e don Gioacchino Rizzo. Tutti i suoi beni Vitina Donno nel 1957 li donò per il suo benemerito Istituto, dedito specialmente ai bambini difficili e a rischio3 .
A Novoli, intanto, operava l’impresa edile di Santo Romano e figli, di cui il cav. Donato, (Novoli 22/1/1899 – 8/12/1980) ne prese le redini e ne allargò gli interessi in molte attività non solo collaterali. Il cav. Donato Romano, impresario, agricoltore, bibliofilo, realizzò nel corso della sua lunga e operosa esistenza un’attività poliedrica, inventiva, anticipatrice di tempi e tecniche che lo premiarono con ambiti riconoscimenti in campo nazionale.
A titolo di cronaca elenchiamo le opere più notevoli realizzate a Novoli dal cav. Romano: 1) ampliamento della stazione ferroviaria (1924); costruzione della chiesetta della Confraternita di S. Biagio, dell’Addolorata e di S. Giuseppe nel cimitero (1924); ampliamento della grande distilleria dello stabilimento vinicolo sito sulla via per Campi, della ditta Mareschi di Brescia (1926); Sede della Società Operaia di M.S. in piazza Regina Margherita (1928); grande magazzino per la lavorazione dei tabacchi, della ditta Rizzo e Franco in via Trepuzzi (1930); costruzione dello stabilimento vinicolo in via Trepuzzi, della ditta Lorusso di Bergamo (1930); ampliamento e ammodernamento dello stabilimento vinicolo Dante Lomassi di Milano e relativo raccordo ferroviario (1932); campo sportivo, progetto, direzione e suolo ottenuto per mezzo del cav. Donato Romano del Conte Balsamo (1932); costruzione stabilimento vinicolo ed impianto sfruttamento delle vinacce e relativo raccordo ferroviario ed alloggi direzionali. Ditta Enrico Comerio e fratelli di Busto Arsizio (1932) primo edificio scolastico sorto a Novoli (1935); nuova facciata ed ampliamento del vecchio cimitero (1947); ricostruzione della chiesa parrocchiale nello stile del XIV secolo a Villa Convento (1940); costruzione della chiesetta rionale Madonna di Fatima (1960); costruzione del cinema-teatro Roma (1962).
Queste non sono tutte le opere realizzate a Novoli dal cav. Donato Romano, mio affettuoso amico, al quale, tra gli altri, va riconosciuto il merito
3 Cfr., M. De Marco, Novolesi, op. cit., p. 56.
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di aver contribuito allo sviluppo urbanistico ed economico del paese4. Intanto qualcosa si muoveva a Novoli tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso. Anche nel paese arrivò l’eco della contestazione, che tutto sommato scimmiottava quanto accadeva altrove, senza lasciar traccia tra la gente come al solito abulica e in stragrande maggioranza clericale e incapace di confrontarsi con nuove idee, onde far uscire il luogo dall’atavico fatalismo e indifferentismo. A Novoli, insomma, è mancata e manca una cultura laica e politica, e il nuovo, se così può esser detto, arriva di riflesso non riuscendo però a scalfire più di tanto una mentalità chiusa e restia a qualsivoglia consapevole e costruttivo cambiamento. Si evidenzia, pertanto, una morale farisaica, del predicare bene e razzolare male, tanta ipocrisia, insomma, stati di essere che si appagano dall’apparire anziché dall’essere.
Ritornando alle attività emerse a Novoli nella seconda metà del secolo scorso ricordiamo il perdurare e l’affinarsi delle attività teatrali che riprendono nel 1958 nell’ambito di associazioni culturali sorte in ambito cattolico, quali il Gruppo Teatrale “La Fòcara”, il Gruppo Amici del Teatro, il Gruppo Teatrale Acli Enars, il Gruppo Acli U.S. Sant’Antonio, il Centro Italiano Femminile, l’Azione Cattolica Maria SS. Del Pane, il Centro di Cultura Vincenzo Tarantini, per la più parte scomparsi, troppi sodalizi però per un paese come Novoli, dove ognuno è incapace di associarsi durevolmente e, pertanto, mira sempre e comunque a ritagliarsi il proprio orticello. A onor del vero la produzione è stata cospicua e anche di valore, soprattutto quella dialettale, e tra gli autori, tanti invero, mi piace ricordare Fernando Sebaste, Vito Pellegrino e Mario Teni. Data l’indisponibilità del Teatro Comunale, le esibizioni si svolsero presso i locali, poi adibiti a Cinema, nel 1961, della Parrocchia di S. Andrea Apostolo, nel Cine Teatro Roma, sulla via per Trepuzzi, inaugurato nel 1964 ma oggi chiuso, nel Teatrino della Madonna del Pane,inauguratodopol’elevazionedellachiesaaparrocchia,nel1987. Il 24 giugno 1992, grazie al giudice Donato Palazzo e a Mario De Marco, venne inaugurata a Novoli, con sede nell’attuale piazza Aldo Moro, già Municipio, sede posta a disposizione dal Comune, la Sezione novolese della Società di Storia Patria per la Puglia, intitolata a Oronzo Parlangeli. Vennero realizzate poche manifestazioni, mostre e conferenze, venne diffusa una pubblicazione miscellanea a spese di tre soci, tuttavia questo prestigioso sodalizio durò stancamente per una quindicina d’anni, ma poi Mario De Marco, ossia lo scrivente, che per tutto quel periodo lo diresse, privo di qualsiasi collabora-
4 Id., pp. 152-153.
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zione, se non proprio boicottato dai tanti individualismi e rivalità tra i soci, fu costretto a scioglierlo. Nell’apatica atmosfera culturale di Novoli, dove pochissimi si attivavano concretamente, nel 1986 Dino Levante dette vita ad una benemerita iniziativa, fondando e dirigendo la Biblioteca Minima che annovera tanti volumi di pregio, di storia patria soprattutto. Questa singolare istituzione che ha gravato e grava sull’impegno anche economico di Dino Levante, ha pubblicato non pochi testi, pure di autori novolesi, ed essa ha sede nel Vico dei Mazzotti, n. 35/B.
Sindaci e Podestà
SINDACI
1585-86 Pompilio Dell’Atti 1624-25 Stefano Spagnolo 1630-31 Domenico Spagnolo 1634-35 Domenico Ricciato 1641-42 Francesco Giampietro 1648-49 Valentino Mazzotta 1649-50 Pietro Rizzato 1650-51 Antonio Ruggio 1651-52 Giuseppe Giampietro 1652-54 Giuseppe Saraceno 1654-56 Giuseppe Longo 1656-57 Valentino Mazzotta 1658-59 Domenico Saracino 1662-63 Leonardo Longo 1663-64 Andrea Ricciato 1671-72 Domenico Saracino 1672-73 Gioacchino Ruggio 1676-77 Francesco Greco 1679-80 Giovanni Lorenzo Ruggio 1680-81 Giovanni Donato De Luca 1685-86 Isidoro Mangeli 1688-89 Angelo Longo 1689-90 Gioacchino Ruggio 1696-97 Domenico Ricciato
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1697-98 Giuseppe Scardia
1703-04 Giuseppe Donato Agrimi 1711-12 Oronzo Greco 1713-14 Giuseppe Spagnolo 1715-16 Nicola Mazzotta 1716-17 Mauro Ippolito 1719-20 Pietro Mazzotta 1723-24 Giuseppe Donato Agrimi 1724-25 Angelo Simmini 1729-30 Valentino Mazzotta 1735-36 Saverio Guerriero 1736-37 Lorenzo Ruggio 1737-38 Angelo Dell’Atti 1740-41 Leonardo Longo 1742-43 Ignazio Ruggio 1743-44 Martino Dell’Atti 1745-46 Carlo Giordano 1747-48 Nicola Mazzotta 1750-51 Domenico Mazzotta 1751-52 Luca Miglietta 1754-55 Carlo Giordano 1760-61 Francesco Ricciato 1762-63 Carlo Giordano 1767-68 Gabriele D’Agostino 1769-70 Domenico Tarantini 1771-72 Giuseppe Mazzotta 1774-75 Giuseppe Maria Vetrugno 1776-77 Pasquale Giordano 1777-78 Liberato Mazzotta 1784-87 Salvatore Bidetta 1787-88 Pietro Longo 1791-92 Eligio Naccarato 1793-94 Domenico Vetrugno 1794-95 Giosuè Russo 1796-97 Pasquale Longo 1798-99 Giovanni Tarantini 1804-05 Luigi Scardia 1808 Giuseppe Lillo. Nel mese di febbraio Cosimo Degli Atti. 1809 Cosimo Degli Atti. A marzo Giuseppe Nicola Tarantini.
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1810-11 Giuseppe Nicola Tarantini
1812-13 Cosimo Degli Atti 1814 Pasquale Longo 1815-21 Giuseppe Andrioli. Nel settembre 1821 Salvatore Guerra. 1822-23 Salvatore Guerra. Nel maggio 1823 Leonardo Giampietro. 1823-24 Leonardo Giampietro. Nel settembre 1824 Giuseppe N. Tarantini. 1825-29 Giuseppe Nicola Tarantini. Nel luglio 1829 Giovanni Guerrieri. 1829-31 Giovanni Guerrieri
1832-36 Gregorio Barci
1837-39 Pasquale Plantera
1840-42 Leonardo Giampietro 1843-45 Gregorio Barci 1846-52 Samuele Ruggio. Nel maggio 1852 Pasquale Plantera. 1852-54 Pasquale Plantera 1855-58 Samuele Ruggio 1859-60 Giosuè Russo 1861-64 Francesco Di Paola Perrone. Nell’ottobre 1864 Pietro Longo. 1864-69 Pietro Longo 1870-72 Tommaso Russo 1872-83 Pietro Longo 1884-89 Raffaele Tarantini 1890-93 Alfredo Longo 1894-95 Tommaso Russo 1896-1915 Antonio Miglietta 1916-19 Francesco Russo 1920-26 Pietro Tarantini
PODESTÁ
1927-30 Vincenzo Sequi 1931 Francesco Magi, Commissario prefettizio. LuigiBriganti, Podestà. 1932-41 Luigi Briganti 1942-43 Riccardo Russo, Commissario Prefettizio. Romeo Franchini, Commissario prefettizio
SINDACI
1944-45 Domenico Marrazzi 1946 Romeo Franchini. Dal 5 novembre dello stesso anno Pasquale De Carlo è Commissario prefettizio. Dal 10 dicembre è di nuovo sindaco Romeo Franchini.
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1947-51 Romeo Franchini. Dal 21 luglio 1951 è Sindaco Domenico Marrazzi.
1952-56 Domenico Marrazzi. Dal 21 luglio 1956 è Sindaco Ferruccio Madaro.
1957-73 Ferruccio Madaro. Dal 25 maggio 1973 è Commissario prefettizio Giacomo Taveri, fino al 31 dicembre 1974. 1975 Ferruccio Madaro. Dal 19 giugno di quest’anno è Sindaco Edoardo De Tommasi.
1976 Edoardo De Tommasi
1977-78 Ferruccio Madaro. Il 20 maggio
1978 viene eletto Sindaco Raffaele Linciano che è dimissionario il 4 gennaio 1979.
1979 Antonio Sozzo, al quale subentra dal 17 luglio di quest’anno all’8 gennaio 1980 Renato Cupri, Commissario prefettizio.
1980 Assuntino Ruggio 1981 Salvatore Vetrugno 1982 Carlo Schilardi, Commissario prefettizio. 1983 Assuntino Ruggio 1988 Fiorino Greco 1993 Ugo Quarta
1994 Adriana Giarratana, giugno-ottobre, Commissaria straordinaria. 1994 Antonio Prato
1996 Nicola Prete, Commissario straordinario.
1996 Mario Miglietta, Commissario straordinario. 1996 Antonio Marciante 1999 Ugo Quarta 2004 Vincenzo Calignano, Commissario straordinario
2005-15 Oscar Marzo Vetrugno 2015 Gianmaria Greco.
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Secc. XX e XXI. Novolesi da ricordare
Erminio Giulio Caputo (1921-2004), laureato in Economia e Commercio, fu segretario comunale a Campi Bisenzio e a Iesi, indi divenne Direttore della Ripartizione di Ragioneria presso il Comune di Lecce. Sposato nel 1952 con Vincenzina Mogavero, da costei ebbe la figlia Lidia.
Apprezzato poeta in vernacolo leccese, si ispirò a tematiche esistenziali e religiose, nonché alla propria terra. Scrisse tra l’altro le raccolte poetiche La fòcara, Marisci senza sule, etc. La sua Opera omnia è stata pubblicata nel 2001.
Vladimiro Chirienti (1908-1995), mio prozio, povero e onesto muratore, sapeva appena leggere e scrivere, ma fu dotato di straordinaria intelligenza ed estro artistico. Ebbe personalità poliedrica e amava recitare e si esibì alla maniera cabarettistica al termine di film e spettacoli, eccellendo nel repertorio napoletano. Sposò Francesca Bottazzo dalla quale ebbe sette figli. La consorte era sorella della mia nonna paterna Concetta Maria Bottazzo. Antonio Cosma (1862-1933), medico chirurgo, esercitò a Corigliano d’Otranto e poi a Novoli. Filantropo, con altri concittadini istituì nel suo paese le cucine economiche, e nel 1904 tanto si prodigò nell’affrontare l’epidemia di vaiolo. In qualità di ufficiale medico partecipò alla prima guerra mondiale. Fu consigliere e assessore comunale, giudice conciliatore, fu presidente dell’Opera Maternità e Infanzia ed ebbe altre prestigiose cariche. Fascista della prima ora, fu medico della M.V.S.N. Sposò Chiarina De Donatis di Carpignano, dalla quale ebbe sei figli.
Raffaele De Matteis (1923-2014), docente di lettere classiche, insegnò presso la Scuola Media di Novoli e presso l’Istituto Magistrale di Lecce. Sposò Ilva Madaro dalla quale ebbe due figlie. Assessore alla Pubblica Istruzione per più anni, fu socio fondatore del locale Circolo Professionisti e dell’Associazione culturale “La Fòcara”, fu appassionato di storia patria e di arte, e si distinse per la sua produzione pittorica.
Bruno Epifani (1936-1994), docente di lettere, insegnò nella provincia di Brindisi, in Egitto e in Spagna, si occupò di ragazzi problematici. Sposò Maria Rosaria Savoia dalla quale ebbe due figlie. Poeta di notevole spessore, fu ispirato da tematiche sociali ed esistenziali, nonché dall’amore per la propria terra, sulla scia di Vittorio Bodini. Scrisse due raccolte di poesie: Epistolario Salentino e Una terra d’origine.
Giovanni Gigante, detto Vanni, (1936-2011), abbandonati gli studi di ingegneria si interessò di pubblicità collaborando con diversi organi di in-
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formazione, a stampa e radiotelevisivi locali e nazionali. Professionista rigoroso, ebbe il Premio “Lecce fiore all’occhiello” conferitogli dalla Società Pubblicitaria Italiana. Fu mio grande amico.
Eugenio Guerrieri (1874-1957), fisico, astronomo e matematico, insegnò tali discipline e fu primo astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte. Si interessò pure di Meteorologia. Dalla moglie Olga ebbe quattro figli. Era fratello dei proff. Giovanni e Ferruccio Francesco di cui appresso dirò. Vastissima fu la sua produzione scientifica, oltre 70 titoli, inventariati da Gilberto Spagnolo e che io ho riportato nel mio libro Novolesi.
Francesco Ferruccio Guerrieri (1872-1934), fratello del precedente, insegnò lettere classiche a Cava dei Tirreni e a Lecce, dove fu preside presso il R. Istituto Tecnico. Apprezzato studioso di storia patria, fece parte della “Brigata leccese degli amici dei monumenti”, ed ebbe al suo attivo non poche pubblicazioni. Collaborò con la rivista “Rassegna Pugliese” e con il settimanale “Il Tallone d’Italia”.
Giovanni Guerrieri (1871-1918), fratello dei due precedenti, sposò Caterina Macrì. Insigne storico del medioevo pugliese e meridionale, insegnò lettere classiche a Cava dei Tirreni e presso il Liceo “G. Palmieri” di Lecce. Dal 1898, e fino alla morte, diresse il Museo “S. Castromediano” di Lecce. Insegnò pure a Senigallia e a Maglie. Al pari dei suoi due fratelli, testè riportati, ebbe al suo attivo molte pubblicazioni, di notevole spessore scientifico. Vincenzo Guerrieri (1886-1970), artista ed appassionato d’arte, fu intagliatore del legno e soprattutto decoratore con l’oro zecchino, arte in cui eccelse; fu pure virtuoso della tecnica dell’argento dorato. Le opere sue si trovano in tanti centri, tra i quali Manduria, Francavilla Fontana e ovviamente a Novoli ove si possono ammirare il Pulpito della Chiesa di S. Antonio Abate e il Crocefisso nella cappella di S. Giuseppe. La figlia Elisabetta ha seguito le sue orme producendo pure ottime pitture.
Luigi Madaro (1897-1948), laureato in Lettere, da ufficiale partecipò alla prima guerra mondiale ma, fatto prigioniero, fu internato in Ungheria. Specializzato in Paleografia e Diplomatica, nonché Archivistica, insegnò a Napoli. Nel 1923 divenne Direttore della Biblioteca Comunale di Alessandria e del Museo e Pinacoteca annessi. Nel 1927 divenne Bibliotecario – Direttore della Biblioteca Civica di Torino e, intanto, ebbe notorietà in Italia e all’estero. Sposò Letizia Fralich dalla quale ebbe tre figli. Vasta fu la sua produzione scientifica, ma egli si occupò pure di novelle e poesie, ma mai si interessò del Meridione d’Italia, del Salento e, quindi, di Novoli. Alfredo Mangeli (1932-2006), causa i problemi economici della sua famiglia non riuscì a conseguire la maturità magistrale, ma con caparbietà si dette una formazione
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di tutto rispetto dopo aver svolto diverse attività lavorative in Svizzera e in Germania. Contrassegnato dall’ordine, dalla misura e dalla disciplina, restò sempre fascista e mai fu disposto a omologarsi al comune andazzo. Di rara intelligenza e sensibilità, fu mio affettuoso amico. Produsse poesie in lingua italiana e in vernacolo, pubblicò alcune biografie di novolesi e note di storia e di costume di Novoli.
Cino Giuseppe Mazzotta (1896-1978), agrimensore prima e architetto poi , partecipò alla prima guerra mondiale venendo decorato con Medaglia d’Argento e con Croce al Valore Militare. Tra il 1925 e il 1930 lo troviamo a Roma come assistente nella realizzazione di Villa Glori e di varie abitazioni di privati. In questo periodo si accosta al Cinema e al Teatro come scenografo, e intanto emerge come pittore – grafico, sceneggiatore e, soprattutto come rinomato architetto, esprimendosi tra razionalismo e classicismo, con opere sparse in tante parti d’Italia e soprattutto nel Salento. Sposò Anna Righetti dalla quale ebbe tre figli.
Giuseppe Mazzotta (1848-1927), sposò Beatrice Mieli dalla quale ebbe cinque figli, tra cui Pasquale Raffaele che fu valente musicista, noto soprattutto in Argentina dove si era trasferito.
Maestro elementare, istruì tante generazioni di novolesi, nel paese era meglio conosciuto come don Pippinu Capibanda per il complesso bandistico che dirigeva. Eccelse come suonatore di bombardino, “arrangiava” tanti pezzi di musica classica, e compose alcuni inni di ispirazione religiosa.
Biagio Metrangolo (1914-2000), insegnante di Lettere, fu preside incaricato presso le Scuole Medie Statali di Porto Cesareo e di Copertino. Latinista, era assai appassionato di teatro, e ciò lo indusse a scrivere drammi di carattere sacro, nonché adattamenti scenici di opere classiche.
Antonietta Milanese (1871-1962), insegnate elementare, insegnò a Ginosa e a Novoli. Per i suoi alti meriti professionali le fu conferita la Medaglia d’Argento e la Medaglia di Bronzo per l’attività svolta a vantaggio dell’Opera Nazionale Balilla, essendo convinta fascista. Aderì poi all’Azione Cattolica e fece parte del Gruppo parrocchiale S. Rita e del Terz’Ordine francescano.
Francesco Parlangeli (1863-1916), ingegnere soprattutto del Genio Ferroviario, vinse diversi premi in vari concorsi di architettura e di progetti ferroviari. L’opera sua fu molto apprezzata all’estero e l’Accademia di Francia lo volle socio. Consigliere Provinciale, si prodigò per la realizzazione del tronco ferroviario Lecce Francavilla Fontana con diramazione Novoli-Nardò. Fu membro della Congregazione di Carità e tutta la provincia di Terra d’Otranto fu disseminata delle sue opere. A Novoli progettò il Convento e
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la chiesa dei PP. Passionisti, il Palazzo Cosma e varie cappelle funerarie nel locale cimitero, nonché alcuni stabilimenti industriali. Sempre a Novoli eseguì i restauri delle Chiese di S. Antonio Abate e di San Biagio e nella Chiesa dei PP. Scolopi a Campi. Sposò Annina D’Agostino dalla quale ebbe la figlia Rita.
Oronzo Parlangeli (1923-1969), si laureò in Lettere a Milano, dove fu allievo di Vittore Pisani, il più illustre indoeuropeista dei nostri tempi. Insegnò presso le Università di Bari, Milano, Messina e fu sempre presente in tutti i congressi nazionali e internazionali di linguistica. Autentico scienziato nel campo della Glottologia, della Filologia Classica e Dialettologia, fu membro di prestigiosi sodalizi nazionali e internazionali. Vasta fu la produzione scientifica di Oronzo Parlangeli, ma il suo nome è legato soprattutto al progetto di una “Carta dei dialetti italiani”, e in particolare si interessò delle lingue prelatine nel Salento. Nel 1956 sposò Chiara Verardi dalla quale ebbe tre figli, e purtroppo la sua preziosa esistenza si spense per un incidente automobilistico presso Magliano Sabina. Un profilo completo di questo illustre concittadino si trova nel mio Novolesi e nelle pubblicazioni di D. Palazzo e P. Salamac.
Albino Quarta (1921-2009), si laureò in Lettere dopo il secondo conflitto mondiale, di ritorno dal campo di concentramento in cui lo avevano rinchiuso i Tedeschi, avendolo fatto prigioniero. Fu preside della Scuola Media Statale di Carmiano distinguendosi per le scelte pedagogiche e didattiche. Buon glottologo, ebbe al suo attivo diverse pubblicazioni.
Enzo Maria Ramondini (1919-1982), avvocato, si dedicò al giornalismo e a Roma fondò l’agenzia di stampa ESSE 3 e lavorò come esperto di turismo e di problemi del Mezzogiorno, collaborando con diversi giornali e riviste.
Si interessò delle vicende novolesi pubblicando il libriccino Novoli di Lecce a cui seguì un altro libretto intitolato L’Arneo. Fondò il numero unico La Fòcara emulata poi da altri giornali editi per le feste patronali.
Amico mio fraterno, Enzo Maria Ramondini fu il fondatore del M.S.I. a Lecce, ma ben presto abbandonò la politica per dedicarsi ai suoi studi. Ancora a Novoli fondò il Gruppo di Studio “Alessandro Mattei”. Sposò Maria Palomba, dalla quale non ebbe figli. Fernando Sebaste (1928-2007), maestro elementare, insegnò a Porto Cesareo, a Campi Salentina e a Novoli. Persona brillante e dotata di vasta cultura, mi fu sempre amico e sostenitore. Fu poeta, narratore e pure interessato alla storia patria. Fu stretto collaboratore di Oronzo Parlangeli e pubblicò diversi articoli sui giornali e riviste novolesi. Fu appassionato di teatro e spesso si esibì come attore. Sposò Teresa Palomba dalla quale ebbe tre figli.
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Salvatore (Totò) Vetrugno (1923-1985), splendida figura di uomo, di amministratore e di politico, possedeva il diploma magistrale. Si spese sempre per gli altri e fu instancabile sostenitore della dignità e dei diritti dei lavoratori. Iscritto al Partito Comunista, organizzò cooperative di produzione in tutto il Salento e fu conteso dal suo partito in diverse parti d’Italia.
Sempre impegnato nelle lotte contadine, nel 1975 fu eletto Consigliere Provinciale. Tre anni dopo fu chiamato a Roma per dirigere il settore nazionale della Lega delle Cooperative. Ma qualche anno dopo, nel 1980, i Novolesi lo richiamarono a casa per presiedere la prima giunta di sinistra del paese, ma la cialtroneria di tanti gli impedì di portare a termine il suo programma politico. L’anno successivo, però fu ampiamente suffragato divenendo Sindaco di Novoli.
Gregorio Vetrugno (1920-2001), insegnante nelle scuole elementari di Novoli prima e, in seguito nella scuola media inferiore di Leverano, Veglie e Porto Cesareo. Col grado di Capitano Gregorio partecipò alla seconda Guerra mondiale, indi si laureò in Lettere presso l’Università Cattolica di Milano nel 1949, nel 1955 contrasse matrimonio con Ada Marzo dalla quale ebbe tre figli. Appassionato di musica e teatro, predilesse la poesia e pubblicò, quindi, cinque raccolte di versi e di racconti, ottenendo premi e riconoscimenti. Nel 1981 ha pubblicato tutti i suoi lavori in un unico volume dal titolo La stagione dell’uomo, da me presentato, già suo alunno nella scuola elementare. Educatore di tante generazioni di Novolesi, Gregorio Vetrugno, cattolicissimo, mi fu sempre affettuoso amico.
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Il culto, le feste
La festa della Madonna del Pane
Il culto straordinario (Iperdulìa) della Madonna, come quello di S. Antonio Abate è assai antico e rimonta, per quanto attiene Novoli alle origini del paese stesso. Certo è che in origine Patrona di Novoli fu la Madonna di Costantinopoli e solo nel XVII secolo fu associato il Santo eremita.
Prima di procedere oltre mi preme premettere ed evidenziare che, ahimè, oggi a Novoli come altrove, la religiosità si è ridotta al lumicino e che le ricorrenze patronali vengono attese ed organizzate essenzialmente per le attrazioni profane, spesso le più astruse, trascurando gli aspetti devozionali e, quindi, di fede e di culto.
Non sembri ozioso ripetere che l’originaria insegna civica di Novoli fu proprio quella che raffigurava la Madonna di Costantinopoli e che da tempo immemorabile le abitazioni urbane, lungo le strade e crocicchi, in campagna, si trovavano disseminate edicole votive, nicchie e cuneddhre, dedicate essenzialmente alla Madonna e anche ad altri Santi del culto bizantino, come S. Antonio Abate. Di edicole votive non se ne realizzano più, quelle antiche sono andate distrutte, e a Novoli ne restano soltanto 14, relativamente recenti, realizzate tra il XIX e il XX secolo, per la più parte in precarie condizioni, causa le ingiurie del tempo e il disinteresse degli uomini. Tali edicole votive si trovano nella via Moline (due), via G. B. Longo (due), via Roma, via Pace, via A. Gramsci, via Libertà, vico Mazzotti, via S. Giovanni, via G. Brunetti, nella piazza F. Russo, nella piazza Regina Margherita e nella via Giovanni XXIII1 .
Sempre restando nell’ambito della devozione popolare soprattutto nel passato non vi era casa, bottega o altro locale che non esponesse un quadro o immagini a stampa della Vergine, di S. Antonio Abate o di altro santo a cui si era devoti, come S. Antonio da Padova e i Santi Cosimo e Damiano (i Santi Medici), la gente cercava e conservava le immagini dei santini (figurine). Ricordo
1 Cfr., R.G. Franco, Le “cuneddhre mariane”, in “La Giuanna noscia”, II, 19 luglio 1987; I segni del sacro. Nicchie e tavole votive per Antonio l’Eremita, a cura di M. Rossi, Galatina 2015; I. Danesi, Edicole sacre nel territorio. Aspetti di storia e religiosità nel lughese, Bologna 2011; E. Paglira – L. Scorrano, I Santi, la casa, la famiglia. Edicole sacre a Gallipoli e dintorni, Gallipoli 1998; A. Vecchi, Il culto delle immagini nelle stampe popolari, Firenze 1968; F. Vetrano, A proposito di una vetusta icona della Madonna del Pane trafugata, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XX, 21 luglio 2013, pp. 4-5.
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poi che ancora fino a sessanta anni fa alloché un bambino se un adulto scampava ad una malattia o ad altro, indossava l’abito del santo a cui si era chiesto il miracolo, quindi un ex voto a volte raffigurato in un dipinto. Per ottenere la grazia la gente si recava a piedi, magari nudi, in lontani santuari, oppure camminando in ginocchio fino alla chiesa. Ricordo, ancora, che allorquando si costruiva una casa o si restaurava, la famiglia o realizzava un’edicola votiva oppure inseriva in una fessura dell’architrave della porta d’ingresso una immaginetta del santo a cui era devota per propiziarsene la protezione. Ciò a parer mio costituiva un residuo dell’usanza apotropaica in voga nella Grecia e nella Roma antiche, ma oggi nulla di tutto ciò.
Ritornando al culto della Vergine, di cui già abbiamo riferito le diverse antiche denominazioni nel paese, va pure detto che il nome di Novoli è collegabile alle sue origini, al culto e alla medioevale chiesa della Vergine, quindi a S. Maria de Nove.
Ciò rammentato, è fuor di dubbio che tutto cambiò con il miracolo vero o presunto del 1707, cambiò nel senso che la Vergine di Costantinopoli, sebbene non subito, ricevette dal popolo la nuova denominazione di Madonna del Pane, sicchè con tale titolo via via venne onorata, festeggiata solennemente dalla chiesa novolese, sebbene oggi in tono minore a livello profano perché la ricorrenza cade in estate, da tempo immemorabile nella terza domenica di luglio, mese in cui adesso si reca al mare o altrove ed anche perché mancano specifiche attrazioni profane, come la fòcara di S. Antonio, Conpatrono di Novoli.
Non pochi si chiedono quando fu istituita la festa della Madonna del Pane, erede della ricorrenza con l’antico titolo di Madonna di Costantinopoli, ma a tal proposito a tuttoggi non si può dare una risposta per mancanza di documenti. Di festa della Madonna del Pane, detta la “Conella” si ha notizia dalla S. Visita di Mons. Alfonso Sozy-Carafa nel 1754, il quale tra l’altro ci dice che “la festività della Vergine di Costantinopoli ricorre nella terza domenica di luglio con grande partecipazione di fedeli che portano processionalmente per il paese la statua della Madonna. In tale occasione è concessa l’indulgenza plenaria a chi visita la cappella”2. Quindi allorché nel passato la fede e il culto erano tuttaltra cosa, prevalevano i festeggiamenti religiosi con la partecipazione pressoché totale della popolazione. Non si sa da quando a Novoli vige ancora l’usanza di traslare nei giorni di festa la statua della Vergine del Pane nella Chiesa Matrice, usanza adottata forse per dare maggiore risalto, in antico, alle celebrazioni, allorquando l’attuale
2 In F. De Luca, La diocesi etc., op. cit., p. 131.
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chiesa e parrocchia della Madonna era solo una periferica cappella.
Certo, col passare del tempo tante cose sono cambiate nell’organizzazione della festa, per esempio dalla metà dell’Ottocento non viene più effettuata la cavalcata di cui riferisce il Marciano3, e alle modestissime luminarie di una volta, candele, torce e poi a petrolio e a carburio, nel secolo scorso si affermarono le “parature” a corrente elettrica, sempre più alte e sofisticate, indi giunsero i concerti bandistici anche quelli più prestigiosi, quindi i fuochi d’artificio. La festa della Madonna ovviamente fu celebrata in tono assai minore, e soltanto a livello religioso, durante le due guerre mondiali del Novecento, ma ritornata la pace, soprattutto nel secondo dopoguerra, la festa esplose diremmo in termini reattivi alle paure ed alle privazioni del periodo bellico.
La gente aveva la voglia di vivere, di gioire, tante le luminarie, i concerti e i fuochi d’artificio, nonché il ritorno di una sentita religiosità. Nei tre giorni di festa le famiglie non consumavano piatti tipici come per la ricorrenza di S. Antonio, ma la gente non si faceva mancare lo “spumone”, un gelato realizzato con arte dai baristi novolesi, e la gente affollava i tavolini all’aperto, gironzolava nella piazza Regina Margherita tra le bancarelle che esponevano dolciumi, nocelline, biancheria e utensili per la casa e la campagna. Una sorta di fiera, quindi, e non mancavano i giocattoli per i bambini, confezionati in legno e altri materiali nel tempo a disposizione degli artigiani, non pochi quelli di Novoli. La festa, ancora, costituiva l’occasione per fare lunghe passeggiate per le vie principali del paese, occasione per le ragazze di farsi notare e, magari, di combinare qualche fidanzamento. A Novoli, poi, giungevano tanti forestieri, tanti commercianti, venivano pubblicati numeri unici, di breve durata, di argomento culturale e umoristico. Oggi, grazie al dott. Piergiuseppe De Matteis dal 1990 per la ricorrenza si pubblica il numero unico Lu Puzzu te la Matonna, rivista culturale di prestigio.
- Cenni sulla vita di S. Antonio Abate
Nato a Quena, villaggio presso Eracleopoli nel Medio Egitto nel 251 o 252 d.C., sarebbe morto ultracentenario intorno al 356 d.C. nel deserto presso il Mar Morto. S. Atanasio, Vescovo di Alessandria, che ne scrisse in greco la vita4 verso il 370, lo definisce fondatore dell’ascetismo. Rimasto orfano a 18
3 Cfr., G. Marciano, op. cit., p. 471.
4 Cfr. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio nel deserto. Detti e lettere, tr. it., Milano 2005.
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anni, distribuì ai poveri tutti i suoi beni e si ritirò presso un’antica tomba, poi in un castello abbandonato oltre il Nilo, presso Afroditopoli, per circa 20 anni; ivi gli si unirono discepoli che presto costituirono una vasta schiera di eremiti di cui Antonio, che intanto veniva tormentato dal demonio con molte tentazioni, fu padre e maestro.
Durante la persecuzione dell’imperatore Massimino Daia (310) venne ad Alessandria per confortare e soccorrere i cristiani. Ritornata la pace, Antonio si ritirò in più stretto isolamento nel deserto presso il Mar Rosso, instancabilmente tormentato dal diavolo, e qui giunse S. Atanasio (335) che lo volle ad Alessandria per combattere gli eretici ariani, molti dei quali furono da lui stesso ricondotti alla fede. Ritornato nel suo eremo visse ancora 20 anni, ma prima di morire, onde evitare ogni idolatria, si fece promettere dai suoi discepoli più vicini a lui che non avrebbero mai rivelato il luogo della sua sepoltura.
Secondo la leggenda, la tomba sarebbe stata scoperta nel 565, ed i suoi resti furono portati ad Alessandria, poi a Costantinopoli (635) e quindi in Francia (IX-X secolo), a S. Didierde la Motte, e finalmente a S. Julien di Arles (1491), dove sono tuttora conservati. Sempre secondo la leggenda frammenti ossei del Santo eremita in epoca più recente giunsero a Tricarico e da qui, come si è detto, qualche reliquia ossea venne donata a Novoli nel 1924.
La figura di Antonio, già grande per la sua ascesi personale, assume un’enorme importanza per l’influsso che ebbe sulla vita eremitica, costituendo comunità che vivevano una vita simile, con pratiche comuni, ma senza una regola determinata. La devozione attribuitagli divenne presto molto popolare; si faceva ricorso a lui contro le epidemie e le pestilenze, specialmente contro l’Herpes Zoster, detto “fuoco di S. Antonio” che, se non curato, spesso porta pure alla morte.
Nell’iconografia Antonio viene rappresentato come un vecchio dalla lunga barba bianca e con un ampio saio. Porta il bastone degli eremiti a forma di T (detta Croce egizia di Sant’Antonio) ed un campanello che, come pure il porco raffigurato nei suoi pressi, ricorda taluni privilegi medioevali concessi all’Ordine degli Antoniani, ora scomparso. Antonio è protettore degli animali domestici, ed il giorno della sua festa, il 17 gennaio, ha luogo la benedizione degli animali, che in varie città, come a Novoli, assume aspetti tradizionali particolari. Nella vigilia di tale festa in molte località, e Novoli è la più nota nel mondo, vengono accesi i falò di Sant’Antonio e di cui ancora non pochi conservano qualche tizzone o la cenere propiziatoria.
La cosiddetta Regola non è certamente la sua; delle 20 lettere, tramandateci in due raccolte, sette sembrano autentiche mentre le altre sarebbero
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del suo discepolo Ammonas. Ma l’importanza di Antonio, una delle più grandi figure dell’ascetismo antico, è nell’avere appunto inaugurato il tipo di vita semi – anacoretico, di cui le laure orientali, diffusesi anche nel nostro Salento, e quindi anche a Novoli, e taluni tipi di vita eremitica occidentale, possono ritenersi la continuazione5
Queste, in estrema sintesi, le notizie riguardanti S. Antonio Abate, ma tanti, veramente tanti, continuano ad approfondire i simboli e i significati del culto antoniano, specialmente a Novoli, sicché per chi vorrà saperne di più potrà orientarsi consultando la nota bibliografica6 .
La festa di S. Antonio Abate
Antico quanto il culto della Madonna, si è detto, è quello di S. Antonio Abate diffusosi in epoca bizantina. Delle vicende della chiesa del Santo Eremita, a Novoli, abbiamo già detto, e in questo tempio come attesta la S. Visita del 1680, fatta dai canonici leccesi Baglivo e Pagliara, esisteva una statua del Santo Egiziano “assai antica e venerata, dorata, posta tra due colonne in un incavo murale (tr. it.)”, statua che poi andò distrutta.
Voluto Compatrono di Novoli dalla Civica Amministrazione il 20 gennaio 1664, volontà assecondata con proprio rescritto due giorni dopo dal Vescovo Mons. Pappacoda, il culto antoniano da allora prese forza e vigore divenendo ben presto la festa più attesa del paese, anche e soprattutto per la fòcara, dell’origine della quale nessuno sa quando ebbe inizio tale tradizione. La festa, che da sempre si svolge il 16, vigilia, il 17 e il 18 gennaio, oggi più che mai attira un sacco di forestieri, invero più per le attrazioni folkloristiche che per devozione al Santo, ha indotto e induce tanti appassionati studiosi novolesi a scrivere sul significato del culto antoniano, dei
5 Cfr. Voce Antonio, abate, in “Bibliotheca Sanctorum”, Roma, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, 1962, pp. 106-136.
6 Cfr., AA. VV., “Sant’Antonio Abate e il fuoco della santità”, Atti del Convegno di Studi (Novoli, 12-13 gennaio 2007), a cura di D. Levante, Novoli 2008; G. Spagnolo, Il fuoco sacro. Tradizioni e culto di Sant’Antonio Abate a Novoli e nel Salento, Trepuzzi (Lecce) 2004; L. Fanelli, Il tau, il fuoco, il maiale. I Canonici regolari di sant’Antonio Abate tra assistenza e devozione, Spoleto 2006; G. Spedicato, Sant’Antonio Abate. Storia, tradizione e culto a Novoli, Novoli 2002; A. Mangeli, Sant’Antonio Abate etc., op. cit.; A. Politi, C’era una volta Novoli. Religiosità popolare, Novoli 2000; Id., Dei Santi protettori di Novoli. Qualche riflessione su memoria popolare, documento e iconografia, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, XVII, Novoli 17 gennaio 1993, pp. 3-4 e 17-18; P. De Leo, op.cit.; G. Spagnolo, A Novoli S. Antonio Abate giunse da Tricarico, in “lu Lampiune”, IV, n. 3, dicembre 1988, pp. 215-232.
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suoi simboli e, ovviamente sulla fòcara, ed essi anche in questa occasione, millantando ognuno la propria priorità, non mancano di accapigliarsi. La caratteristica precipua della festa di S. Antonio Abate era e resta la fòcara (falò) e nel passato lu ntunieddhru (maialino), tradizione da oltre mezzo secolo scomparsa, indi quella te lu cuccu te sant’Antoni che ebbe vita effimera. Sull’onda dell’amarcord propongo ora quanto nel 1938 scrisse Giuseppe Palumbo (Calimera, 1889 - Lecce, 1959), prestigiosissimo fotografo e saggista, da me conosciuto e biografato anche per essere intimo della mia famiglia e poi perché possedeva una propria abitazione nella via Salvatore Mazzotta (Poste ecchie), a pochi metri da casa mia, dove più volte durante l’anno soggiornava. Egli, che aveva sposato la novolese Luisa Giampietro, è sepolto a Novoli nella cappelli dei Giampietro (7). Il saggio che ora si propone gia nel 2007 è stato diffuso da Gilberto Spagnolo (8), ed ora insieme lo leggiamo per sapere cosa succedeva a Novoli in occasione della festa di S. Antonio Abate circa 80 anni fa: ‹‹La provincia di Lecce, tenace conservatrice delle vecchie tradizioni, un po’ per naturale tendenza degli abitatori, un po’ per la speciale sua posizione geografica, vanta più di ogni altro territorio della patria usanze particolari e ricche di folclore. Un motivo folcloristico fra i più tipici è la costumanza, assai diffusa nei villaggi, di accendere dei grossi falò, denominati nel vernacolo locale “fòcare”, in onore di Sant’Antonio Abate, patrono del fuoco e del bestiame, la sera del 16 di gennaio, giorno che precede la festività del solitario anacoreta della Tebaide. Ma il falò più notevole è quello che si accende a Novoli, ridente comune a circa 10 chilometri dal capoluogo, conosciuto in Puglia anche per l’abbondante e pregiato prodotto del suo territorio viticolo. Per la buona riuscita della manifestazione, che costituisce la principale ricorrenza festiva paesana e che apre il ciclo delle annuali sagre salentine, siede quivi permanentemente un comitato, il quale si assume il compito di raccogliere i mezzi - in danaro o natura - per assicurare alla festa la più solenne riuscita. Perciò le domeniche si chiede ai contadini in piazza un piccolo obolo, mentre durante il periodo delle raccolte estive, e specialmente durante la grande e ricca vendemmia, vari incaricati vanno in giro per la campagna a domandare ai proprietari un po’ di prodotto per poi convertirlo in danaro mediante la vendita. Per assicurare più cospicui proventi, si usa procedere spesso all’allevamento e all’ingrasso di un maialino (lu ntunieddhru), il quale sarà poi messo in lotteria per essere sorteggiato il giorno della festa. Il maiale nella storia del Santo ha tale significazione da costituire un inscindibile attributo della iconografia di quest’ultimo, come ci è ben noto. L’allevamento e l’ingrasso del suino è affidato esclusivamente al
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popolo. Si vede perciò il quadrupede, condotto da un ragazzo, andare giornalmente in giro per le case del paese a divorare i resti del desinare di ogni famiglia, o quant’altro ad esso si compiacciono di dare, in gloria a Sant’Antonio, le devote e generose comari. Ma il più utile e significativo tributo per la sacra ricorrenza è la legna secca. La raccolta di questa si inizia a data fissa il 17 dicembre, cioè proprio un mese prima del giorno dedicato al Patrono. Per far sì che il falò venga su immenso, veramente monumentale, vi concorrono largamente i proprietari, grossi e piccoli, offrendo gli alberi rinsecchiti o malandati dei propri poderi, e specialmente poi le “sarmènte”, cioè i tralci ricavati dalla recente potatura del vigneto. Ogni “trainiere” del luogo ha poi l’obbligo di mettere a disposizione del comitato il proprio carretto pel trasporto di almeno un carico di legna dalla campagna al paese, anzi, più esattamente, alla piazza che è davanti alla chiesa - santuario dedicata a Sant’Antonio. È così che quello spazio quasi triangolare assume sin dalla fine di dicembre l’aspetto di un disordinato deposito di tronchi e di fascine; il che impedisce addirittura il transito dei veicoli e lo consente appena ai pedoni; è così che durante la prima settimana di gennaio l’affluenza della legna si intensifica più che mai con un frequente arrivo di carri; talvolta anche provenienti da lontani paesi, quale devoto omaggio di agricoltori e di “massari” al Taumaturgo, che protegge dagli incendi le aie piene di ricolto e dai malanni gli animali collaboratori dell’uomo nella coltivazione dei campi.
Il primo giorno della novena, con lo sparo di un petardo, ha inizio la fabbricazione del falò. Vi vengono adibiti operai specializzatisi nella faccenda attraverso il ripetersi dell’incarico; i quali, tracciata con un gran circolo la base della costruzione, avranno cura che il cumulo venga su via via, e termini, nella forma conica più perfetta; anche perché le irregolarità nei contorni sarebbero oggetto di critiche sfavorevoli e di dileggi all’indirizzo degli artefici da parte di una discreta radunata di popolo, che è continua spettatrice del lavoro. Per la legna necessaria a completare la immensa catasta si procede, fra l’altro, sempre ad acquisti presso i paesi finitimi.
Quando l’opera è finalmente compiuta, una scarica di mortaretti ne dà l’avviso al villaggio; e la mattina del 16 gennaio il falò appare, non solo magnifico nella perfezione della linea e veramente colossale nelle dimensioni oltrepassando con la sua cima financo il coronamento del santuario vicino, ma anche decorato torno torno ai fianchi da festoni di carta colorata, da bandierine e, in alto, da un fastoso vessillino.
È quella della vigilia una giornata di generale tripudio a Novoli: sparo di petardi di buon mattino, concerti di banda in giro per ogni strada più tardi, solenni funzioni in chiesa, fiera presso il falò di baracche e di “ban-
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carelle” con sopra gli oggetti più svariati (dolciumi, giocattoli, indumenti, masserizie); e poi, tutt’intorno, una folla che riesce a muoversi a fatica. Nel pomeriggio ha luogo la benedizione del bestiame da stalla e da cortile, raccolto tutto in un determinato angolo dell’abitato, e quindi, la “ntorciata”, gran processione con preti, confraternite, banda e con un codazzo di fedeli recanti grossi ceri votivi accesi, “ntorce”, dietro la statua del Santo. Quando la processione torna dal suo giro è quasi scuro e davanti alla icona viene acceso, prima che si rientri nel tempio, un interminabile, fragoroso fuoco d’artificio. Terminata poi la celebrazione serale in chiesa, al suono della marcia reale e dell’inno fascista e con l’intervento delle autorità locali espressamente richieste (podestà, segretario politico e comandante della stazione dei carabinieri), si dà fuoco al falò, onore che compete al presidente del comitato dei festeggiamenti.
L’accensione del falò viene facilitata con abbondanti preventivi getti di petrolio sui tralci non perfettamente secchi e qualche volta, bagnati dalla pioggia. E in tal guisa l’immensa catasta piglia a poco a poco fuoco da ogni parte, fino ad incendiarsi tutta, fino a trasformarsi in una specie di montagna incandescente, che manda alte nel cielo scuro le sue immense lingue di fiamma. È uno spettacolo visibile anche da molto lontano, meraviglioso e spaventevole nello stesso tempo; il quale tiene tutt’intorno attratta una folla di paesani e di forestieri per ore, fasciando uomini e cose di bagliori insoliti e di un calore, che, per vero, non dispiace nella fredda sera.
Ma il resto della serata è trascorsa dai paesani attorno ad una tavola ben fornita di vivande, così come s’usa alla vigilia del Santo Natale. Il dì successivo – vera e propria ricorrenza della festività del venerando Abate, come è risaputo – sono escluse dalla mensa di ogni buon novolese le carni e i latticini, omaggio evidente alla vita di astinenze e di rinunzie del festeggiato. Si mangia, per antica tradizione, strettamente di magro e sono specialmente di rito gnocchetti di semola con pesce di Torre Cesarea o di Gallipoli e le verdure; si consumano anche dolci casalinghi costituiti da sfere e da sfoglie di pasta frittellata passata nel miele bollente, e si innaffia di tanto in tanto ogni cosa col celebrato moscato di produzione locale. E in questo giorno, e talvolta per qualche altro dei successivi, il sacro falò è ancor vivo lì sulla piazza della seconda parrocchia locale, mentre tutt’intorno ad esso è un affaccendarsi di donnette intente a prendere per loro e per i propri familiari un po’ di brace: reliquia particolarmente cara al culto del santo Eremita››. Tanto accadeva a Novoli, dove nel 1946 il Cav. Donato Romano inventò lu cuccu te Sant’Antoni, una bottiglia votiva da riempire di vino, piuttosto panciuta che nella denominazione si ispirava addirittura alla banda musi-
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cale te lu cuccu, contrapposta a quella te lu sangunazzu di cui già si è detto. Il Cav. Romano, tifoso della banda te lu cuccu, riferisce Gilberto Spagnolo (10), ‹‹Pensò bene anche di scolpire (era un bravo scalpellino) le effigi del Santo e lo stemma civico, ovvero i simboli della devozione della sua famiglia e dei Novolesi verso il Santo del fuoco e dell’eccellente vino che si ottiene dalle uve “del suo ubertoso territorio”. Il cavaliere, Enzo Natale e il compianto Tonino Parlangeli, “re delle feste” per il nostro Santo che facevano parte del comitato, ordinarono i Cucchi a Grottaglie, presso un vecchio figulo che disponeva di un malmesso tornio a pedali. Dopo pochi giorni, la boccetta che fu commissionata in un numero non rilevante di esemplari, era già pronta per essere esposta, distribuita in omaggio e piena di vino a tutti i Novolesi, sulle bancarelle predisposte in via S. Antonio, sotto il palazzo di Tonino detto l’americano o vicino a casa Graziuso7 Giuseppe Palumbo, in suo saggio su la “Figulina vinaria nel Leccese” così la decrive: “Ha forma ovoide con le due facce opposte spianate ed angoli smussati, base raccorciata con bordino, collo corto con lieve slabbratura, turacciolo a pomello pure di creta. È alta 24 centimetri misura alla pancia la circonferenza di 43 centimetri, capacità di un litro; non ha asole. Presenta colorazione in verde-scuro ottenuta con pigmento ad olio di lino e biacca e reca in rilievo sulla faccia anteriore la effigie a stampo del mite anacoreta della Tebaide contornata dalla seguente iscrizione: “A devozione di S. Antonio Abate”, e sulla faccia posteriore, pure in rilievo, l’emblema civico di Novoli (scudo con tralcio di vite carico di tre grappoli sormontato dalla corona comunale) con più in alto la scritta “Omaggio” ed al di sotto della stella “Novoli”. Per una maggiore dignità del pezzo la figura è colorata d’argento, mentre lo stemma e le iscrizioni sono dipinte con vernice dorata. “La bottiglia, oltre che nel 1947 (fu ideata invece nel 1946), venne distribuita piena del buon vino locale ai più generosi ed autorevoli oratori, a viemmeglio richiamate su di essi i favori del venerato Taumaturgo” anche nel 1950. L’unico inconveniente che si presentò fu che il vino, poiché i “cucchi” non erano stati internamente smaltati, tendeva purtroppo a inacidirsi››8. Oggi di ‘nturciate, di ‘ntunieddhri e di cucchi resta soltanto la memoria, e rari sono i madonnari, ossia i pittori di strada che con gessetti, sull’asfalto o su pannelli di cartone o di legno, di-
7 Cfr., M. De Marco, Giuseppe Palumbo, fotografo e studioso del fenomeno megalitico salentino, Novoli 2010; Id., Novolesi, op. cit., pp. 126-129.
8 Le vicende te lu cuccu, narrate da Palumbo, sono state riportate da G. Spagnolo nell’articolo della nota succitata e poi da me in Giuseppe Palumbo etc., op. cit., pp. 33-34. Il Palumbo pubblicò il suo saggio Figulina vinaria nel leccese, nella Rivista “La Ceramica”, IX, Milano 9 settembre 1953, p. 3.
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pingono a volte con originalità la figura del santo. Restano ancora i palloni aerostatici e i fragorosi fuochi d’artificio, qualcuno fa benedire gli animali, cani e gatti soprattutto. Ci si aggiorna, insomma, e S. Antonio comunque non lesina la sua protezione ai Novolesi, i quali rispettano le tradizioni della ricorrenza, forse anche per superstizione popolare. Si tramanda, infatti, che S. Antonio sia piuttosto permaloso con chi non lo rispetta. A tal proposito si racconta di quel contadino che, avendo rifiutato l’obolo a S. Antonio, ebbe bruciata la stalla, o di quel sarto miscredente che ebbe bruciati gli abiti che stava confezionando.
Nel passato qualcuno apponeva sulla statua del Santo un orologio d’oro e si distribuiva una sua immaginetta e i cosiddetti “panini di Sant’Antonio”, ritenuti miracolosi per le bestie, alle quali venivano fatti mangiare quando erano ammalate. Il prete si recava nelle stalle per benedire gli animali, e in queste stalle gli allevatori esponevano l’immagine del Santo.
Per il dono dell’orologio la gente affibiò a S. Antonio l’epiteto di tirlusciaru, ma durante la festa, che richiamava emigranti novolesi e tanti forestieri, non mancavano gli ufàni, ossia coloro che esibivano le loro offerte in denaro poggiando con calma e con ostentazione le banconote sul cuscino ai piedi della statua del Santo, e si trattava delle vecchie banconote di enormi dimensioni, soprattutto le 10.000 lire.
Ieri come oggi la fòcara si identifica con la festa del Santo, ma qualche anno fa, volendo strafare, il falò è stato caricato di orpelli di pessimo gusto, generando polemiche a non finire. Ad appiccare il fuoco alla fòcara è ancora una persona di “riguardo”, e dobbiamo rammentare che nel falò novolese convergono molti comportamenti rituali, come la raccolta della legna, residuo di antiche questue della vigilia, dove l’offerta stava a significare un atto riparatorio e di conciliazione del peccatore. C’è poi la raccolta dei tizzoni per riscaldarsi nelle fredde giornate di gennaio (si alimentava la brasciera = bracere) e, ancora, avviene la raccolta della cenere “benedetta”, che anch’io da piccino ho preso quando mi appressavo al falò ormai spento, condotto ivi dalla zia materna Maria Costantina Mazzotta. Oggi non manca chi vende in… bustine la cenere del falò di S. Antonio, cenere che viene esposta durante il maltempo per scongiurare disastri. Va detto che la fòcara novolese nella sua forma classica è conica, ma i suoi costruttori si sono ingegnati a realizzarla, certamente con originalità, a più cuspidi, piramidale, oppure con in mezzo una galleria. La fòcara, per antica tradizione, viene costruita da esperti pignunai, ossia da contadini costruttori di covoni, e il loro nome in vernacolo significa coloro che realizzano la forma della “pigna”. Per secoli la fòcara venne realizzata nel piazzale antistante la chiesa del Santo Eremita, e lì io ho fatto in tempo a vederla, ma
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nell’estate del 1949 venne asfaltata la piazzetta per cui la fòcara venne spostata per il 1950 nel giardinetto circolare della Piazza Gaetano Brunetti, poi intitolata a Salvatore (Totò) Vetrugno, già sindaco di Novoli.
La novità, per ragioni diverse, non piacque a tanti novolesi, ma questo spostamento in uno spazio più ampio permise di realizzare fòcare più grandi e più alte, anche oltre i 25 metri. Nel 1996 poi, per ragioni di sicurezza dell’abitato circostante, nuovamente la fòcara venne trasferita, questa volta nell’ampio spazio della Piazza Tito Schipa, a distanza di sicurezza dalle abitazioni e tale piazza, alla periferia del paese, ospita ogni mercoledì il mercato settimanale. Nel “giardinetto” dell’ex Piazza Gaetano Brunetti ora si innalza una statua in bronzo di S. Antonio Abate, alta m. 2,20 e poggiante su di un basamento lapideo di m. 1,80, vera opera d’arte realizzata dal prestigioso artista novolese, di fama nazionale, Sergio Sebaste, che fuse l’opera sua a Dossobuono di Verona. La statua, voluta da alcuni devoti a S. Antonio Abate, venne inaugurata il 30 dicembre 2011. Dalla fine del secondo dopoguerra in occasione della festa di Sant’Antonio vengono pubblicati numeri unici di argomento umoristico, che annoverano pure articoli di politica, di costume e di storia locale. Alcuni di questi numeri unici, come La fòcara, Sant’Antoni nuesciu, Lu puercu, Noi, Sant’Antoni e la fòcara arde hanno avuto vita effimera e, quindi non si pubblicano più,ma ben resistono Sant’Antoni e l’Artieri, Le fasciddre te la fòcara e Lu Furgularu.
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INDICE
Prefazione
Il sito e i primi insediamenti
Le origini di Novoli
L’età moderna C’era una volta Il Regno di Napoli. Carlo III di Borbone e il Catasto Onciario di Novoli
Masserie, ville e casini
Il Risorgimento
Tra Ottovento e Novecento
Il Novecento novolese Novoli Sacra
Dal secondo dopoguerra ad oggi
Il Culto, le feste
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