La lotta di classe ai tempi del Covid-19

la lotta di classe ai tempi del covid19

Un contributo della confederazione torinese

In prima battuta crediamo si possa ragionevolmente affermare che l’attuale crisi sanitaria con le conseguenze economiche e sociali in piena esplosione dimostri ampiamente il fallimento della struttura sociale nella quale siamo immersi nel garantire non solo alla popolazione mondiale (cosa che già non faceva precedentemente) ma anche alla popolazione dei paesi cosiddetti avanzati il livello minimo di sicurezza sociale e sanitaria che ne permetta la sopravvivenza. È evidente infatti che la trasformazione del terreno della sanità e della previdenza in uno spazio di costruzione del profitto, se da un lato segnala la necessità per i capitalisti di procurarsi sempre nuovi terreni di valorizzazione a causa della progressiva perdita di quest’ultima nei settori tradizionali, dall’altra ha determinato l’immissione del calcolo economico all’interno dello stesso campo della conservazione della vita. Da questo punto di vista sono interessanti le considerazioni svolte da alcuni autori che hanno considerato come l’economia altro non sia che uno dei settori della guerra. Una guerra che al netto delle opposte retoriche sulla globalizzazione, è ancora in modo determinante un affare degli stati nazionali. Il comportamento di Trump e Johnson, ma per restare a casa nostra del sindaco di Milano Sala o degli amministratori lombardi, e più in generale degli industriali italiani, è lampante da questo punto di vista. Il rifiuto fino all'ultimo di prendere misure serie sul contenimento del contagio è chiaramente dettato dal calcolo economico; non solo da quello grezzo ossia dal calcolo delle perdite derivato dalla chiusura temporanea delle attività, ma anche da quello prospettico ossia dal calcolo dei vantaggi derivanti dalla soppressione di una parte non così residuale della popolazione non più produttiva (gli anziani, gli immunodepressi, i lavoratori poveri in generale) e dal vantaggio relativo che avrebbero avuto le economie nazionali rimaste funzionanti rispetto economie costrette alla chiusura. Nel corso del tempo il diffondersi del contagio e la paura a questo collegata ha portato alla prevalenza di considerazioni politiche relative alla coesione sociale dei vari paesi rispetto a quelle direttamente economiche fatto, che spazza via da solo l’ipotesi fatta molte volte di una prevalenza assoluta dell’economico sul politico. Anche in un paese dove l’elemento politico è tradizionalmente debole fronte a quello economico non di meno abbiamo assistito a una qualche capacità di resistenza del governo di fronte alla potenza di fuoco di Confindustria e altre associazioni patronali. Ora si tratta di capire quale scenario sta iniziando a lasciarci dal punto di vista sociale la pandemia che stiamo attraversando, e soprattutto come collocare in modo prospettico gli interessi della nostra classe nel drammatico scenario economico e sociale che si sta componendo nel corso di queste settimane.

1 In primo luogo si tratta di partire dall’elemento sanitario che come più volte abbiamo denunciato si è dimostrato totalmente inadeguato alla salvaguardia della salute pubblica. Non saremo certo i primi a denunciare che i tagli alla sanità progressivamente sempre più alti nel corso di questo decennio abbiano causato il disastro attuale. A nostro avviso si tratta da un dato incontestato quello sul numero di posti letto per abitante: siamo passati dal 3,9 posti letto ogni 1000 abitanti del 2010 ai 3,2 del 2017. si tratta di un dato impietoso se rapportato alla media OCSE (4,7) e soprattutto al dato francese (6) e tedesco (8).

Dal 2010 al 2017 è crollato il numero delle strutture ospedaliere del 14,2%, passate da 1165 ospedali 1000 e soprattutto il numero complessivo dei posti letto che sono stati tagliati del 30% tra il 2000 e il 2020. se la spesa pubblica corrente in termini nominali risulta cresciuta, in termini reali la spesa complessiva è diminuita di circa 26 MLD un taglio pari al 12% tra il livello di spesa del 2009 e quello del 2018 che si traduce in termini pro capite di un t5aglio di circa 400 euro ad abitante. Se poi prendiamo in esame gli investimenti pubblici in sanità cioè l’acquisto da parte dello stato di strutture e macchinari il decremento della spesa è addirittura più radicale si passa dai 6,1 MLD del 2009 ai 3,4 del 2018, ossia il 44% di spesa inmeno dato ancora più sconvolgente se isoliamo l’investimento nel solo comparto ospedaliero passato da 3 MLD a 1,3 MLD (56% in meno). Si riesce cosi a capire il devastante fallimento della struttura sanitaria e in particolare di quella ospedaliera di fronte all’esplosione dell’epidemia. Dobbiamo inoltre tenere conto del dato di invecchiamento della popolazione che avrebbe al contrario dovuto portare ad un aumento degli investimenti nella sanità e dovrebbe anche essere considerato che l’evoluzione tecnologica continua del settore comporta necessariamente un aumento dei finanziamenti nel tempo pena il ritrovarsi (come ci siamo effettivamente ritrovai) con una struttura sanitaria complessiva non all’altezza dei tempi e bisognosa di manutenzione straordinaria. Il dato più spaventoso riguarda poi la carenza sempre più preoccupante di personale infermieristico (meno 36.000 unità) e medico (meno 8.000 unità). Il risultato è stato che nel 2017 all’Italia rispetto all’aggregato dell’Unione Europea 15 mancavano 1.435.000 addetti per raggiungere il tasso di occupazione degli altri paesi. Dal punto di vista della comparazione della spesa sanitaria a livello europeo l’Italia spende il 6,8% del PIL (era il 7,4 nel 2009) contro l’8,1% della Francia (era l’8% nel 2009) e il 7,2 della Germania (era il 7,0% nel 2009). Le conclusioni che non si possono che trarre da questa breve rassegna di dati è’ che la decimazione degli ospedali è stata provocata dall’austerità che ha ridotto posti letto e personale medico, il che da solo permette di rispondere alla retorica domanda “perché in Francia e Germania si muore meno che in Italia?”.

Questa decimazione non è stata pagata da tutti come vuole la retorica dominante su “la livella” che il virus rappresenterebbe, ma è stata pagata in modo esponenziale dalle classi popolari e salariate in generale tra cui si conta la quasi totalità di morti e dal settore medico, infermieristico e assistenziale che ha visto un numero incredibilmente alto di caduti tra i suoi esponenti. Dal nostro punto di vista non si tratta di richiedere qualche assunzione in più ma di pretendere una netta inversione di tendenza nella spesa pubblica nel settore sanitario, spesa che non può effettuarsi ancora una volta a debito, rischiando così di mettere a rischio la vita degli esponenti più giovani della nostra classe ma imponendo una forma di redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso ottenendo che le grandi fortune debbano finanziare la salute pubblica e sottraendo al profitto privato l’intero settore della salute, riorganizzando il settore sanitario in modo tale da garantire l’accesso universale a queste risorse, accesso che può essere permesso solo dalla ripubblicizzazione dell’intero settore. Per sua natura infatti il settore privato sanitario non può che rincorrere quel tipo di spesa sanitaria che garantisce un profitto immediato e non può ragionare nei termini di spesa sociale. Questo tipo di spesa non può che essere una spesa di tipo pubblico che abbiamo come proprio riferimento la salute della popolazione e non il pareggio dei conti tra le spese e i ricavi. Da questo punto di vista è emblematico il fallimento del sistema sanitario della Lombardia, per anni citato come esempio virtuoso grazie alla commistione di sanità pubblica e sanità privata. Alla prova dei fatti è il sistema che ha funzionato peggio in tutto il Paese e che ha garantito il maggior numero di morti per Covid-19 sull’intero territorio nazionale. La cancellazione dell’esperimento lombardo deve essere la prima preoccupazione di chiunque abbia a cuore la salute di tutti gli abitanti di questo paese.

2 In secondo luogo si tratta di avanzare un programma di sostegno al reddito delle residenti e dei residenti di questo paese. Fino ad adesso il governo s è principalmente preoccupato dei evitare il tracollo del sistema industriale, finanziando ampliamene il sistema delle imprese. La preoccupazione sulla tenuta del sistema industriale del Paese da un lato è perfettamente comprensibile, anche perché il tracollo del sistema delle imprese ovviamente porterebbe a conseguenze drammatiche sulla vita di milioni di lavoratrici e lavoratori.

In secondo luogo si tratta di avanzare un programma di sostegno al reddito delle residenti e dei residenti di questo paese. Fino ad adesso il governo s è principalmente preoccupato dei evitare il tracollo del sistema industriale, finanziando ampliamene il sistema delle imprese. La preoccupazione sulla tenuta del sistema industriale del Paese da un lato è perfettamente comprensibile, anche perché il tracollo del sistema delle imprese ovviamente porterebbe a conseguenze drammatiche sulla vita di milioni di lavoratrici e lavoratori. Il fatto però che a queste imprese non venga posto alcuna condizione è per l’ottenimento di finanziamenti e garanzie comporta una loro assoluta libertà di movimento sul piano imprenditoriale che rischia di avere come principale conseguenza una riduzione ulteriore dei posti di lavoro a causa della necessaria modernizzazione che dovrà essere messa in campo per recuperare il terreno è perduto nelle settimane del lockdown e una parallela intensificazione dei carichi e dei ritmi lavorativi.In altre parole rischiamo di avere un sistema industriale modernizzato a spesa pubblica e in prospettiva a spese di tutti noi a causa dell’aumento del debito che non porterà alla salvaguardia dei posti di lavoro ma a un progressiva intensificazione dello sfruttamento di lavoratrici e lavoratori e ad una loro riduzione in termini numerici assoluti. Ora tutto questo è necessario dare una risposta complessiva, che non può che articolarsi su quattro elementi:

1

Una redistribuzione del lavoro ottenibile imponendo una settimana lavorativa nettamente inferiore; la nostra vecchia proposta della riduzione a 32 ore della settimana lavorativa rischia di essere fin moderata in una situazione come questa. Dovremmo addirittura ipotizzare una riduzione a 24 ore a parità di salario ottenendo anche un investimento pubblico protratto negli anni per garantire la transizione.

2

Un investimento straordinario per garantire la sicurezza sui posti di lavoro, sicurezza che oggi appare un’evidente necessità ai più ma che non è mai stata perseguita seriamente. Il fatto stesso che arrivino a noi come ad altre O.S. continue denunce della mancata realizzazione delle misure minime di sicurezza previsti dai decreti governativi da parte delle imprese, la dice lunga sulle effettive intenzioni del sistema industriale di adeguare la sicurezza alle effettive esigenze di lavoratrici e lavoratori.

3

Va pensato un piano straordinario di emersione del lavoro nero, grigio o a pallini che sia che costituisce una parte straordinariamente rilevante della produzione nel nostro Paese. Quando parliamo di lavoro nero non ci riferiamo esclusivamente ai caso macroscopici come quelli relativi al lavoro agricolo, ma a tutto un sistema di lavoro solo parzialmente riconosciuto come avviene in larga parte nei servizi e all’interno della stessa industria.

4

Costruzione di uno strumento universale di sostegno al reddito per disoccupati, sottoccupati, false Partite IVA e Partite Iva a basso reddito, lavoratori saltuari e lavoratori a chiamata e collaborazioni di vario genere.

Nell’insieme degli strumenti di cosiddetta ammortizzazione sociale spicca da sempre nel nostro Paese l’assenza assoluta di modalità che garantiscano un reddito dignitoso a chi viene espulso dal ciclo produttivo, a chi non riesce nemmeno ad entrarci o a chi ci entra in modo surrettizio. Si tratta di cercare di costruire un fronte di pressione il più unitario possibile contro le classi dominanti cercando un’alleanza possibile evitando di consegnare questo settore di popolazione direttamente nelle mani delle destre sovraniste o di possibili rigurgiti fascisti. Uno strumento universale di questo genere dovrebbe chiaramente essere progressivo e quindi assicurare un maggior sostegno a chi ha un reddito minore e dovrebbe garantire complessivamente un reddito di almeno 1.200 euro ad ogni lavoratore o lavoratrice.È evidente che l’insieme di queste misure che pretendiamo come misure adatte a configurare una fuori uscita socialmente avanzata e non regressiva dalla doppia crisi che stiamo vivendo non possa che essere finanziato con delle forme di prelievo straordinario sulla ricchezza da un lato e con una generale riconfigurazione del sistema fiscale, con modalità di forte progressività e di innalzamento del prelievo sui patrimoni, sulle rendite e sugli investimenti non produttivi di ricchezza sociale: in altre parole si tratta anche qui di mettere mano a una forte redistribuzione del reddito invertendo la direzione di questi anni e trasferendo risorse dai settori più ricchi della popolazione verso i settori di lavoro salariato e dei ceti medi impoveriti.

3 In terzo luogo è necessario affrontare la questione del finanziamento di queste misure. Da un lato il ricorso agli strumenti europei di sostegno alle economie nazionali sembra essere una strada difficile da battere soprattutto dopo il mini compromesso tra l’UE-15 degli scorsi giorni.La strada verso l’assunzione di un debito comune da parte di tutti i Paesi dell’Euro non è evidentemente una strada facilmente percorribile, considerando soprattutto i differenziali nei prelievi fiscali tra le varie economie. Detto in soldoni è evidente che un Paese come L’Olanda si oppone radicalmente a qualsiasi prospettiva di questo genere dal momento che ha tutto l’interesse a conservare un sistema fiscale particolarmente premiale per le imprese. Dietro alle stucchevoli giustificazioni di tipo culturale, quali l’eredità calvinista che premia la frugalità e la capacità imprenditoriale come principali valori, ci sono interessi ben concreti sul terreno fiscale che rimandano direttamente allo spazio europeo come a uno spazio di guerra tra economie nazionali e non a uno spazio di collaborazione come vorrebbe la retorica dominate.

Al di là della difficile percorribilità di questa strada però resta da chiedersi se la strada di un sempre maggiore indebitamento sia la cosa migliore per le classi lavoratrici di questo Paese. In realtà noi crediamo che un maggiore indebitamente prepari semplicemente la via per una rinnovata austerity che calerebbe come un maglio sui redditi delle classi lavoratrici, se non oggi stesso, in un domani molto vicino.Noi crediamo che per affrontare questa questione sia necessario in primo luogo sciogliere il nodo dell’ingiustizia fiscale all’interno del Paese.Ad oggi in Italia esiste un sistema di imposte sui redditi articolato su tre pilastri:1. imposta sul reddito delle persone fisiche;2. imposta sul reddito delle società;3. imposta sui redditi finanziari.Proviamo ad analizzare come funzionano. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, l’IRPEF, colpisce i redditi da lavoro dipendente ed autonomo, le imprese individuali e le società di persone: la distinzione di reddito è articolata in cinque diverse aliquote dal 23% al 43% per fasce di reddito crescenti, non si distingue quindi tra il reddito da lavoro e il reddito da capitale. Quando venne pensato questo sistema (1974) il sistema era a 32 aliquote con una gradazione progressiva molto forte, si andava dal 10% al 72%.La gradazione progressiva era molto forte e riusciva a cogliere una forbice di redditi tale che la distinzione per quantità riproduceva anche la distinzione per tipologie di reddito: in che senso? Nel senso che i redditi più alti sono quasi sempre redditi di capitale di vario genere, oppure redditi di figure manageriali che per loro natura costituiscono una quota di reddito di figure centrali nel processo di accumulazione capitalistica. In questo modo venivano tassati in modo rilevante anche i redditi da capitale.Nell’IRPEF attuale con 5 aliquote l’aliquota del 43%, cioè la più alta, viene pagata da tutti i redditi sopra i 75.000 euro lordi. 75.000 euro sono senza dubbio un reddito che permette un alto livello di benessere, ma che non è minimamente paragonabile a cifre nettamente superiori. Quindi ad oggi un lavoratore dipendente molto ben pagato o un libero professionista benestante dal punto di vista fiscale sono comparati al reddito da capitale dei rentier milionari. Non è esattamente un esempio di progressività e non permette la distinzione tra redditi da lavoro e redditi da capitale.Il secondo pilastro è l’imposta sulle società che teoricamente colpisce fondamentalmente le società di capitali. La riforma del 1974 prevedeva il pagamento dell’IRPEG, un’imposta separata non progressiva, di fatto una Flat-tax che permetteva già allora alle società più ricche di pagare proporzionalmente meno rispetto a quelle più piccole. A partire dal 2004 è stato abolito il sistema del credito di imposta, questo permetteva che gli azionisti di queste società dovessero pagare l’IRPEF sulle entrate derivanti da questo tipo di reddito, ovviamente potevano scontare la parte già pagata dalla società sugli utili e questo permetteva di recuperare la progressività inizialmente perduta.

Nel 2004 l’imposta societaria, che nel 1974 arrivata al 50%, è stata portata al 37%. In più in quell’anno è stata introdotta l’IRES al poste dell’IRPEG. Da un lato è vero che il socio non scala più l’imposta societaria dalla propria dichiarazione dei redditi e deve pagare sulla propria IRPEF i dividenti intascati, ma lo fa non più sulla base delle aliquote progressive dell’IRPEF, ma con il sistema della cedolare secca. In realtà un’altra Flat-tax fissata per tutti al 20% e, per quanto alzata al 26% nel 2014, nettamente inferiore alle quote IRPEF più elevate.A partire dal 2004 quindi i redditi dei soci delle società di capitale sono stati completamente sottratti alla progressività dell’imposta e pagano una Flat-tax, che dal 2014 è del 26%.L’IRES dal 2004 ha avuto una diminuzione sempre più sensibile, scendendo dal 37% al 24% sotto il governo Renzi. A questa Flat-tax effettiva applicata ai redditi di impresa bisogna aggiungere la presenza nella legislazione fiscale italiana di un’altra cedolare secca sulle rendite immobiliari (affitti), che colpisce al 21% i redditi effettivi.In buona sostanza un’enorme massa di redditi da capitale non rientra nel modo più assoluto nella progressività delle imposte, esenzione che è particolarmente acuita da queste aliquote agevolate che configurano un trattamento privilegiato dal punto di vista fiscale per i dividendi, le plusvalenza azionarie, gli interessi sui titoli e gli affitti di immobili.In buona sostanza se vogliamo affrontare la questione del finanziamento interno di quelle che oggi si pongono come necessità assolute di sopravvivenza per la nostra classe, è necessario concentrare l’attenzione sul meccanismo della redistribuzione fiscale, che oggi favorisce oltre ogni limite la distribuzione dal basso verso l’alto della ricchezza.Una particolare attenzione va posta anche a quel mondo multiforme di neo precariato che si articola tra forme di lavoro autonomo, spesso discontinuo, che da un lato non gode di nessun residuo dei diritti ancora riconosciuti al lavoro dipendente e dall’altra “gode” di redditi sufficientemente bassi da non avere avuto alcun vantaggio dalle riforme volte a favorire i redditi di impresa.Se da un lato le proposte di finanziamento delle riforme necessarie tramite un’imposta patrimoniale straordinaria del 10% sulla parte più ricca della società sono assolutamente comprensibili come finanziamento d’emergenza di una situazione devastante come quella in cui ci siamo trovati, nell’attuale configurazione fiscale rischiano di essere un pannicello caldo. Accanto alla proposta di una patrimoniale che dovrebbe comunque mantenere delle forme di progressività e che dovrebbe colpire maggiormente i grandi patrimoni costruiti in questi anni soprattutto grazie al basso costo del lavoro e alle contro-riforme fiscali, noi riteniamo sia necessario ottenere una riforma strutturale dell’imposizione fiscale volta a colpire in modo permanente le classi proprietarie uscendo dallo schema ingannevole e fin troppo facile della lotta tra classi salariate e ceto medio.

Crediamo quindi che debba essere restaurata una forte progressività dell’imposizione fiscale sulle persone fisiche, in modo da colpire effettivamente i redditi più alti e non quelli dei lavoratori dipendenti e del ceto medio e l’imposizione della stessa logica di progressività anche sui redditi da capitale, di impresa e da rendita di vario genere. Si tratta di colpire pesantemente gli interessi del blocco proprietario che in questi decenni si è avvantaggiato in modo sempre maggiore delle contro-riforme fiscali.La strutturazione dell’imposizione fiscale disegna infatti il tipo di società che viene costruita ed è evidente che in Italia a partire dagli anni 80 si è andato costruendo una società disegnata sulla base degli interessi della rendita, sia essa industriale, finanziaria o immobiliare.Per noi è chiaro che su questo terreno si gioca un livello di scontro decisivo per disegnare la tipologia di Paese che verrà. L’Italia dal punto di vista fiscale è un parco giochi per i possessori di rendite e per i ceti proprietari, il che spiega anche i due fenomeni più evidenti dal punto di vista economico che colpiscono il paese: .la sostanziale assenza di crescita produttiva, da un lato, e la strutturale diminuzione continua del monte salari progressivo all’interno della distribuzione del reddito nazionale, dall’altro. Una parte notevole dello scontro di classe passa oggi su questo terreno che troppo poco abbiamo praticato a causa dei suoi tecnicismi e delle evidente difficoltà di intervenire su queste tematiche.Per le lavoratrici e i lavoratori di questo Paese è evidente che qualsiasi affidamento alle istituzioni è strutturalmente inutile quando non dannoso. Il problema è far politica direttamente come classe ed essere capaci di individuare anche gli obiettivi immediati da praticare nel quadro di una costruzione di una formazione sociale completamente differente da quella del capitalismo insieme liberista, nello slogan, e assistita dallo stato, dal punto di vista pratico, che abbiamo vissuto in questi anni.

4 L’insieme di proposte e di terreni di scontro che proponiamo nel documento cerca di disegnare un’alternativa complessiva alle modalità di gestione del rapporto tra le classi oggi dominante.Siamo i primi a renderci conto delle difficoltà che un programma di questo genere presenta, soprattutto pensando ad un futuro immediato nel quale la diffusione di lavoro instabile precario, fluttuante rende nettamente più difficile l’azione di classe.Proprio in momenti come questi però deve emergere la capacità di un’Organizzazione come la nostra di costruire il più vasto consento tra lavoratrici e lavoratori su un programma di azione che non si limiti a semplici slogan ma che sappia individuare una strada da percorrere.

Ovviamente il perseguimento di questi obiettivi pone la necessità della costruzione dei rapporti di forza tra le classi completamente differenti da quelli attuali. Purtroppo la chiarezza e la lucidità sono armi necessarie, ma non sufficienti, alla costruzione di una massa critica adatta ad ottenere risultati tangibili.Siamo infatti coscienti che le nostre proposte romperebbero completamente il modello di accumulazione attuale e che praticarle come se fossero semplici proposte di riforma è assolutamente impensabile. Questo non ci esime dal individuare gli obiettivi e a provare a praticarli senza facili scorciatoie di tipo tradizionale. A nostro avviso la discussione tra di noi dovrebbe centrarsi soprattutto su quest'ultimo punto: quali sono gli strumenti del nostro agire che possano permetterci di muoverci in questa direzione.

Sicuramente il lavoro sindacale di categoria è destinato a rimanere importante anche nella fase che si sta aprendo, ma questo sicuramente non può bastare.Stiamo infatti assistendo all’espansione sempre più marcata di un lavoro fluttuante ed instabile, che oggi riusciamo per lo più ad intercettare nella forma vertenziale, proprio nella capacità di dirigere questa massa di lavoro esterno alle categorie tradizionali crediamo vada incentrato una parte consistente del nostro sforzo.Ci servono luoghi di aggregazione e di organizzazione che non sostituiscono, ma che aumentino, la nostra capacità di penetrazione nella società civile proletaria.Su questo siamo in mare aperto e dobbiamo imparare a navigare in modo che il viaggio dei prossimi anni sia fruttuoso e non residuale.