FARCORO 1-2025

Page 1


Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano-Romagnola Cori

Il cinquecentenario di Palestrina

Palestrina, la leggenda

Eseguire la Missa Papae Marcelli

Dalle cattedrali alle terapie intensive

A Casa di Palestrina

Bartolucci e il ‘primo Patriarca della Musica’

FARCORO

Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori Gennaio-Aprile 2025 Edizione online: www.farcoro.it Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - CN/BO

DIRETTRICE RESPONSABILE

Silvia Perucchetti direttore@farcoro.it

REDAZIONE

Luca Buzzavi lucabuzzavi@gmail.com

Francesca Canova francesca.canova@gmx.com

Michele Napolitano napolitano.mic@gmail.com

Alessio Romeo alessio.romeo.1992@tiscali.it

Matteo Unich matteounichconductor@aol.com

GRAFICA E IMPAGINAZIONE

Ufficio Comunicazione AERCO Valentina Micciancio webmaster@aerco.emr.it

STAMPA

Tipolitografia Tipocolor S.r.l. Parma

SEDE LEGALE

c/o AERCO - Via Barberia 9 - 40123 Bologna Contatti redazione: direttore@farcoro.it +39 0510067024

I contenuti della Rivista sono © Copyright 2009 AERCO-FARCORO, Via Barberia 9, Bologna - Italia. Salvo diversamente specificato (vedi in calce ad ogni articolo o altro contenuto della Rivista), tutto il materiale pubblicato su questa Rivista è protetto da copyright, dalle leggi sulla proprietà intellettuale e dalle disposizioni dei trattati internazionali; nessuna sua parte integrale o parziale può essere riprodotta sotto alcuna forma o con alcun mezzo senza autorizzazione scritta. Per informazioni su come ottenere l’autorizzazione alla riproduzione del materiale pubblicato, inviare una e-mail all’indirizzo: farcoro@aerco.it

IN COPERTINA

Veduta di Roma (Georg Braun e Franz Hogenberg, Civitates Orbis Terrarum vol. I, 45, Colonia, 1572) - particolare

Indice

Giovanni Pierluigi da Palestrina interpretato da Daniele Giuliani in un fotogramma del film Palestrina Princeps musicae di Georg Brintrup (© www.brintrup.com)

Editoriale

Buon compleanno, Palestrina! di Silvia Perucchetti

L’incontro tra Occidente e Oriente nella musica corale di Andrea Angelini

Storia

Il maestro della polifonia tra sacro e profano di Andrea Angelini

Palestrina, la leggenda di Silvia Perucchetti e Matteo Unich

Bartolucci e il ‘primo Patriarca della Musica’ di Rossella Vicentini

Analisi

La parola è melodia di dom Antonio di Marco OSB

Popolare

Il canto di tradizione orale: tra ricerca ed elaborazione di Michele Peguri

Didattica

Scegliere, eseguire, amare Palestrina con un coro giovanile femminile intervista a Raffaele Cifani a cura di Michele Napolitano

Tecnica

Rileggere la Missa Papae Marcelli

Intervista a Paolo Da Col a cura di Alessio Romeo e Silvia Perucchetti

Un coro per tutti

Dalle cattedrali alle terapie intensive di Francesco Rocco Rossi e Riccardo Colombo

Notizie

Un weekend a Palestrina di Mirco Tugnolo

A Casa di Palestrina a cura di Marco Gambini

Mai più senza... polifonia! di Silvia Fanti

Salotto

Alla corte del Principe della Musica di Lia Monguzzi e Andrea Caciagli

Buon compleanno, Palestrina!

Care lettrici e cari lettori, FarCoro si rinnova: sono particolarmente felice che la nuova veste grafica si inauguri proprio con questo numero, quasi integralmente dedicato a Giovanni Pierluigi da Palestrina nel festeggiare i 500 anni dalla nascita!

Partiremo da Oriente, con il saluto di Andrea Angelini di recente ospite del Petra Cantare International Choral Festival di Surabaya (Indonesia), che ci racconta di come la nostra polifonia rinascimentale sia amata e cantata anche da cori che vivono ai nostri antipodi; cercheremo poi di indagare i motivi per cui Palestrina sia diventato il ‘principe della musica’, e quanto ci sia di vero nelle leggende che da ormai più di 400 anni sono parte inscindibile della narrazione sul suo genio compositivo.

E a proposito di leggende, ecco l’approfondimento sull’opera lirica di Hans Pfitzner intitolata proprio Palestrina (1917), che eredita il mito di ‘salvatore della musica sacra’ contro le presunte minacce del Concilio di Trento, ove si sarebbe stati vicini all’abolizione della polifonia liturgica, poi scongiurate grazie alla bellezza e al perfetto equilibrio fra musica e parole della Missa Papae Marcelli, presunta prova che comprensibilità del testo sacro e contrappunto possano felicemente coesistere; ma questa non è solo la trama dell’opera: è anche la vulgata diffusa ancora oggi, un insieme di luoghi comuni ‘duri a morire’ che la musicologia ha da tempo messo in discussione e sconfessato, al di là di alcuni aspetti della vicenda storicamente comprovati. La celebre sapienza palestriniana nel forgiare la melodia è oggetto del contributo di dom Antonio di Marco, che ci farà immergere nelle tecniche di creazione melodica gregoriana e rinascimentale; l’articolo, articolato in puntate, ci accompagnerà anche nei prossimi numeri di questo anno palestriniano. Impossibile poi non dedicare spazio a Domenico Bartolucci, successore di Perosi nel ruolo di Direttore Perpetuo della Cappella Sistina (che resse dal 1956 al 1997), prestigiosa istituzione in cui Palestrina fu cantore per un breve periodo fra gennaio e luglio 1555; nella polifonia di Bartolucci emergono lo studio, l’assimilazione profonda e la genuina adorazione per l’opera di Palestrina: «la mia costante preoccupazione è di ridare al pubblico Palestrina nella sua anima», e «ho pensato sempre a Palestrina ed alla Sistina e poco a me stesso», così affermava.

Ringrazio la Fondazione Cardinale Domenico Bartolucci per aver messo a disposizione di FarCoro fotografie e partiture, delle quali pubblichiamo integralmente la bella Alma Redemptoris Mater, sperando che la sua produzione possa diffondersi ancora di più nel nostro repertorio corale.

La sezione ‘operativa’ delle nostre rubriche si concentra invece sull’esperienza di eseguire Palestina oggi, con due interviste a Paolo Da Col e Raffaele Cifani: entrambi ci raccontano del proprio lavoro di restituzione della Missa Papae Marcelli, il primo (interprete e musicologo che non ha bisogno di presentazioni) alla guida dell’ensemble Odhecaton; il secondo, attivo anche come didatta ed esperto di coralità giovanile e vocal pop, è invece arrivato al Benedictus della stessa messa dalla canzone Drones dei Muse (solo uno dei tanti esempi di recupero, rielaborazione e ‘parodia’, in senso rinascimentale, del classico e dell’antico da parte del rock inglese), per poi far appassionare definitivamente le giovani coriste del coro Enjoy a questo repertorio.

E ancora, di grande interesse la collaborazione avviata fra il Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra ed il reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale “Sacco” di Milano, al fine di esplorare l’impatto che la polifonia del Rinascimento può avere sui pazienti in cura nei reparti di terapia intensiva: ringrazio Francesco Rocco Rossi e Riccardo Colombo per metterci a parte

Ritratto di Palestrina, Lipsia, circa 1770 - Universitätsbibliothek Leipzig

dei primi esiti di questa sperimentazione.

Scopriremo poi la Casa del Palestrina (ora Museo e attivissima sede della Fondazione omonima), che ha appena ospitato una masterclass con concerto all’interno dei corsi di AERCO Choral Academy e pubblica il nuovo progetto dell’Edizione Nazionale delle opere del compositore (caratterizzata da più di una novità editoriale); suggella la rubrica il racconto di Silvia Fanti, una storia – nata in un corso AERCO e a cui sono affezionata in prima persona – di grande amore per la coralità e di continua scoperta nei confronti di un repertorio in effetti amatissimo dai cori amatoriali, ma che quasi mai viene approfondito in termini di lettura e conoscenza delle fonti originali.

E concludiamo ‘sul divano’ del nostro salotto con la recensione dell’attualmente unico film biografico dedicato al compositore: Palestrina Princeps Musicae di Georg Brintrup, interessante mediometraggio strutturato attraverso una serie di ‘interviste impossibili’ e che certamente vale la pena vedere. Buona lettura, buon ascolto e… buona visione!

L’incontro tra Occidente e Oriente nella musica corale

Un dialogo senza confini

di Andrea Angelini

Presidente di AERCO, direttore di Coro, docente al Conservatorio di Venezia

Nel mio recente viaggio in Indonesia ho avuto il privilegio di assistere a un fervente movimento compositivo nel mondo della musica corale. L’entusiasmo con cui i compositori locali esplorano e sviluppano nuove armonie è impressionante, e pur trattandosi di linguaggi molto distanti dalla nostra cultura musicale, le loro opere dimostrano una vitalità straordinaria. Le strutture ritmiche ostinate e l’uso sapiente delle dinamiche riflettono l’energia e la ricchezza espressiva di un Oriente che sta lasciando un segno

sempre più evidente in questa disciplina. Ma in un’epoca in cui la globalizzazione permea ogni aspetto della nostra esistenza, ci si può chiedere: come possono incontrarsi il mondo occidentale e quello orientale? E ancora, è giusto che la contaminazione culturale diventi sempre più intensa? La risposta a questi interrogativi non è univoca, ma la mia esperienza mi ha portato a considerare la fusione culturale non come una perdita, bensì come un arricchimento reciproco. Durante il mio soggiorno ho avuto l’occasione di ascoltare esecuzioni di Palestrina e Monteverdi da parte di cori indonesiani. Non ho percepito alcuna forzatura né ho mai pensato che quel repertorio fosse esclusiva prerogativa dell’Occidente. Al contrario, ho assistito a

un’interpretazione fresca e genuina, che, pur provenendo da un contesto culturale differente, risuonava con autenticità e rispetto verso la tradizione europea. Certo, il modo con cui questi cori affrontano la musica rinascimentale può lasciare perplessi per la spontaneità e la naturalezza con cui si accostano a un repertorio che per noi è frutto di un lungo percorso storico ed estetico. Tuttavia, questa apertura è sinonimo di educazione alla prassi e di un dialogo culturale che va oltre le barriere geografiche.

La musica, nella sua essenza più profonda, è un linguaggio universale. Imprigionare i tesori musicali entro confini rigidi significa privare l’umanità della possibilità di condividere bellezza e conoscenza. La musica corale, con la sua capacità di unire le voci in un’unica armonia, è un perfetto simbolo dell’incontro tra popoli e culture. Accogliere la diversità di interpretazione e lasciare che la musica viaggi liberamente significa contribuire alla sua evoluzione e diffusione. Dunque, la sfida non è solo quella di accettare che il nostro

patrimonio musicale possa essere eseguito in ogni angolo del mondo, ma di riconoscere il valore della reciprocità: così come Monteverdi risuona in Indonesia, le sonorità orientali possono entrare a far parte del nostro repertorio corale. In questa continua osmosi culturale, la musica dimostra ancora una volta di essere il mezzo più potente per abbattere i confini e creare ponti tra le diverse tradizioni del mondo.

Un momento delle premiazioni al Petra Cantare International Choral Festival (Surabaya, Indonesia, febbraio 2025)

Uno dei cori indonesiani in concorso al Petra Cantare International Choral Festival (Surabaya, Indonesia, febbraio 2025)

Il maestro della polifonia tra sacro e profano

Giovanni Pierluigi da Palestrina

di Andrea Angelini

Presidente di AERCO, direttore di Coro, docente al Conservatorio di Venezia

Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594) è considerato uno dei più grandi compositori di musica sacra del Rinascimento. La sua opera ha avuto un impatto duraturo sulla musica occidentale, consolidando le regole del contrappunto e la purezza della polifonia vocale. Tuttavia, dietro la figura austera del musicista, si celano anche alcuni aspetti curiosi e goliardici della sua vita.

Nato a Palestrina, un piccolo centro nei pressi di Roma, Giovanni Pierluigi iniziò la sua carriera come cantore nella Cappella Giulia in Vaticano.

La sua abilità musicale gli permise di ottenere il patrocinio del Papa Giulio III, che lo nominò Maestro di Cappella della Basilica di San Pietro. Tuttavia, la sua carriera ebbe alti e bassi, in parte a causa dei cambiamenti politici e religiosi che attraversavano la Chiesa. Fin dalla giovinezza, Palestrina mostrò un talento straordinario per la musica. La sua formazione musicale avvenne principalmente a Roma, dove entrò in contatto con i migliori maestri dell’epoca. A partire dal 1551, divenne maestro di cappella della Cappella Giulia, un incarico prestigioso che gli permise di affinare il suo stile compositivo. Uno degli episodi più significativi della sua carriera fu il breve licenziamento dal suo incarico sotto il pontificato di Papa Paolo IV, che imponeva

restrizioni severe sui musicisti sposati. Palestrina, essendo sposato, dovette lasciare il suo ruolo nella Cappella Sistina, ma trovò presto nuovi incarichi in importanti istituzioni romane, tra cui San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore.

Palestrina compose oltre cento messe, più di trecento mottetti e numerosi inni e madrigali sacri. La sua musica si caratterizza per la chiarezza del testo, il bilanciamento

delle voci e l’armonia perfetta, tanto che divenne il modello per la musica sacra cattolica. La leggenda narra che la sua Missa Papae Marcelli abbia salvato la musica polifonica dalla censura del Concilio di Trento, dimostrando che era possibile conciliare la polifonia con l’intelligibilità del testo liturgico. Oltre a questa composizione, Palestrina scrisse molte altre messe che si distinguevano per l’equilibrio tra melodia

S. Munster, Romanae urbis situs, quem hoc Christi anno 1549 habet (circa 1550-1559) particolare

Francobollo di Poste Italiane emesso nel 2025 in occasione del 500° anno dalla nascita

Storia

Palestrina e le Poste Italiane

Il 2 febbraio, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha emesso un francobollo commemorativo dedicato a Giovanni Pierluigi da Palestrina in occasione del quinto centenario della sua nascita. Il francobollo, del valore tariffario B (1,25 €), è stato realizzato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. mediante stampa in rotocalcografia su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva e arricchita con imbiancante ottico.

di Poste Italiane emesso nel 1975 in occasione del 450° anno dalla

Francobollo
nascita
Giovanni Pierluigi da Palestrina

Il bozzetto è stato curato dal Centro Filatelico dell’Officina Carte Valori e Produzioni Tradizionali dello stesso Istituto. L’immagine raffigurata riproduce un ritratto di profilo del compositore, un dipinto a olio su tela del 1566 di autore anonimo, appartenente alla Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina ed esposto nella Casa Museo a lui dedicata nella città di Palestrina. Il francobollo include inoltre le iscrizioni

“GIOVANNI PIERLUIGI

DA PALESTRINA”, “COMPOSITORE”, le date “1525-1594”, la scritta

“ITALIA” e l’indicazione della tariffa “B”.

Già in passato, il 27 giugno 1975, Poste Italiane aveva emesso un francobollo dal valore di 100 lire per celebrare il 450° anniversario della nascita del celebre compositore Il francobollo rappresenta il frontespizio della prima edizione del “Primo libro delle Messe”.

Frontespizio del Primo libro delle Messe di Palestrina (Roma, Dorico, 1554) in cui il compositore dona il volume a papa Giulio III (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek)

e armonia. La sua tecnica compositiva era caratterizzata da una fluidità melodica naturale e un’attenzione meticolosa alla fusione delle voci, evitando brusche dissonanze o eccessivi virtuosismi.

Nonostante la sua immagine di musicista devoto, Palestrina non fu sempre uomo austero e distante dalle leggerezze della vita. Si racconta che nei suoi primi anni di carriera, avesse un certo spirito goliardico

e che, come molti suoi contemporanei, partecipasse a incontri musicali informali in cui si sperimentavano melodie e testi ben lontani dalla severità della musica sacra. Si narra che amasse i giochi di parole musicali e che occasionalmente, nei primi anni di attività compositiva, si dilettasse nel comporre madrigali profani, anche se gran parte di questi lavori sono andati perduti o sono rimasti nell’ombra delle sue composizioni sacre (a differenza di alcuni madrigali pubblicati successivamente come Vestiva i colli, veri best seller dell’epoca). Inoltre, pare che non disdegnasse il buon vino e che avesse una predilezione per le feste di corte, dove la musica era spesso accompagnata da momenti di allegria e scherzi tra musicisti. Un episodio curioso racconta che durante una cena con altri compositori, Palestrina avesse improvvisato un madrigale su una filastrocca popolare, scatenando le risate e l’ammirazione dei presenti. Questo lato scherzoso non era insolito tra i musicisti dell’epoca, che spesso si sfidavano in gare di composizione estemporanea. Palestrina ebbe una vita familiare segnata da eventi drammatici.

Sposato con Lucrezia Gori, ebbe tre figli (Rodolfo, Angelo e Iginio), due dei quali morirono prematuramente a causa delle epidemie che colpirono Roma nel XVI secolo. Queste tragedie lo segnarono profondamente e si rifletterono in alcune delle sue composizioni più struggenti. Dopo la morte della moglie, considerò seriamente l’idea di prendere i voti sacerdotali, ma alla fine decise di risposarsi con una ricca vedova, Virginia Dormoli, la cui fortuna economica gli permise di vivere con maggiore agiatezza e di dedicarsi completamente alla composizione.

Dopo una lunga carriera al servizio di diverse istituzioni ecclesiastiche, Palestrina trascorse gli ultimi anni della sua vita a Roma, continuando a comporre fino alla sua morte nel 1594. La sua eredità musicale influenzò profondamente i compositori successivi, tra cui Bach e Mozart, che studiarono le sue opere per apprendere i segreti del perfetto contrappunto. Nel corso dei secoli, la sua figura è stata idealizzata come simbolo della purezza musicale, e ancora oggi le sue

Storia

composizioni vengono eseguite in concerto in tutto il mondo. Il suo stile divenne il modello di riferimento per la musica sacra, al punto che nei secoli successivi molti musicisti furono educati secondo le ‘regole di Palestrina’. La musica di Palestrina continua a essere studiata e analizzata dai musicologi e dai compositori. Il suo contributo alla teoria musicale e alla pratica del contrappunto è ancora oggi una pietra miliare per chiunque voglia approfondire la musica corale. La sua capacità di creare armonie perfette con un numero limitato di voci ha ispirato generazioni di compositori e continua a essere un punto di riferimento imprescindibile. Giovanni Pierluigi da Palestrina non fu solo il rigido innovatore della musica sacra che spesso si dipinge, ma anche un uomo con una sensibilità artistica viva, capace di apprezzare sia la profondità del sacro che la leggerezza del profano. Una figura che, con la sua musica, ha saputo toccare corde divine e umane allo stesso tempo. La sua eredità non è solo nella sua produzione musicale, ma anche nell’impatto che ha avuto sulla storia della musica, trasformando per sempre il modo in cui concepiamo l’arte polifonica.

Storia

Palestrina, la leggenda

Dalla nascita del mito (1607) all’opera lirica di Pfitzner (1917)

di Silvia Perucchetti direttrice di Farcoro

Palestrina ‘salvatore della polifonia’ e l’importanza di comprendere quello che si canta… e si ascolta

Il tema della comprensibilità del testo cantato è sempre stato centrale per tutto il corso del Rinascimento, un’epoca la cui l’estetica umanistica si legò indissolubilmente ai temi della retorica e dell’eloquenza, considerando le parole

Hans Pfitzner fotografato da Wanda von Debschitz-Kunowski, circa 1910

Palestrina, Gloria della Missa

Marcelli a 6 voci, 1567

(Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica)

capaci di muovere gli affetti dell’ascoltatore, e in particolare per la musica da chiesa, rivestimento armonico e veicolo del testo sacro. Tutti i teorici rinascimentali, in varia misura, raccomandano ai cantori di rispettare il testo senza modificare o deformare le vocali delle parole, qualunque sia la motivazione, consegnandoci un ricco e colorito elenco di deviazioni ed errori dei coristi che, spesso, ci ricordano con un sorriso la realtà odierna.

La vocalità della polifonia in chiesa

Innazitutto, l’ampiezza dell’aula liturgica da riempire di suono –all’opposto degli ambienti in cui

si faceva musica da camera –portava probabilmente i cantori impegnati nella polifonia (che non sempre erano numerosi come in un coro odierno, non superando spesso la decina) a sacrificare la comprensibilità del testo aprendo la bocca e modificando le vocali, allo scopo di cantare ‘a piena voce’. Fra le testimonianze al riguardo, nel 1592 Ludovico Zacconi conferma la prassi in uso nelle cappelle sacre e pubbliche di «cantar sì forte, che più forte cantar non possa»: una sorta di abitudine professionale del cantore da cappella biasimata dal teorico poiché poteva condurre a eccessi poco gradevoli:

«Si guardi ancora, di non seguitare quel sì (da buoni) biasmato stile, di cantar sì forte che più forte cantar non possa: parendoli forse che il ben cantare consista nel gridare, e non si avede che egli stanca le voci senza alcun profitto, e fa ridere gli vicini e chi passa per quelle contrade. [...] molti [invece] imparano di cantare per cantar piano e nelle cammere, ove s’abborisce il gridar forte, e non sono dalla necessità astretti a cantar nelle chiese o nelle capelle ove cantano i cantori stipendiati»1

Dopotutto, alle voci da cappella era richiesta la maggior potenza possibile, in quanto era preferibile pagare pochi cantori che cantassero forte anziché

1. Zacconi, Ludovico. Prattica di musica utile et necessaria si al compositore per comporre i canti suoi regolatamente, si anco al cantore per assicurarsi in tutte le cose cantabili. Divisa in quattro libri, Venezia, Girolamo Polo, 1592, c. 52v.

molti che cantassero piano. Da qui altre testimonianze aspramente critiche, come quella di Zarlino: «sopra il tutto (acciocché le parole della cantilena siano intese) [i cantori] debbono guardarsi da uno errore che si ritrova appresso molti, cioè di non mutar le lettere vocali delle parole come sarebbe dire, proferire A in luogo di E, ne I in luogo di O, overo U in luogo di una delle nominate: ma debbono proferirle secondo la loro vera pronuntia. [...] udimo alle volte alcuni sgridacchiare (non dirò cantare) con voci molto sgarbate, e co atti e modi tanto contraffatti che veramente parino simie, alcuna canzone, e dire come sarebbe Aspra cara, e salvaggia e croda vaglia, quando doverebbero dire: Aspro core, e selvaggio, e cruda voglia: chi non riderebbe? Anzi (per dir meglio) chi non andrebbe in colera udendo una cosa così contraffatta, tanto brutta, e tanto horrida?»2

Zarlino, dunque, ci racconta di una abitudine ben diffusa che portava a cantare vocali sbagliate o deformate rispetto a quelle corrette, penalizzando

Hermann Finck, frontespizio del trattato Practica musica, 1556, che mostra i cantori della polifonia misti a strumenti musicali
2. Zarlino, Gioseffo. Le Istitutioni harmoniche, Venezia, [Pietro da Fino], 1558, terza parte, cap. 45, p. 204.

così la comprensione del testo (‘sgridacchiando’ senza garbo e somigliando a delle ‘scimmie’); una pratica in realtà non sempre motivata dal voler cantar forte, ma anche dal tentativo – non ignoto al giorno d’oggi – di intonare propedeuticamente una vocale il suo suono è da correggere con un’altra, più semplice o meglio impostata; così infatti ci racconta Vicentino:

«Et per fare maggiore intonazione alcuni pigliano un’altra vocale et in cambio della vocale I pigliano la lettera O overo la U; come fanno alcuni frati che nel coro cantando i canti fermi, acciò che la voce sia più intonante, apreno assai la bocca perché l’accento della lettera A e della vocale O è molto comodo alla bocca aperta per far più grand’intonazione, et sempre sopra ogn’altra sorte de vocali pronunziano le due vocali

A et O»3

E pensare che già Conrad von Zabern nel 14744 si lamentava di un «Dominus vobiscum, oremus» che diventava «dominos vabiscom, aremus»! Se potessimo tornare indietro nel tempo, molto probabilmente in una chiesa del Rinascimento non

ascolteremmo un suono dolce, contenuto e cristallino, bensì voci piene, sonore e ‘forti’, in grado di riempire sufficientemente lo spazio architettonico della chiesa – e che non a caso venivano spesso raddoppiate o sostituite in caso di necessità (o nelle occasioni festive o più solenni) da strumenti a fiato molto sonori, detti da ‘alta cappella’ (trombe e tromboni, bombarde, cornetti).

Le critiche degli ascoltatori dell’epoca

Innumerevoli sono poi le raccomandazioni di trattatisti, compositori, uomini di chiesa

3. Vicentino, Nicola. L’antica musica ridotta alla moderna prattica, Roma, Antonio Barre, 1555, libro IV, cap. XXIX, f. 86.

4. Von Zabern, Conrad. De modo bene cantandi choralem cantum in multitudine personarum, Mainz, Peter Schöffer, 1474, p. 61.

Palestrina, Missarum liber secundus, 1567, contenente la Missa Papae Marcelli - Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica

Locandina dell’opera Palestrina di Pfitzner rappresentata al Prinzregententheater di Monaco di Baviera nell’agosto 1919 sotto la direzione del compositore

e concili ecumenici affinché non sia la polifonia tout court ad oscurare la comprensione del testo esagerando con intrecci contrappuntistici troppo elaborati; e a loro volta i cantori non dovevano vanificare la chiarezza di un impianto omoritmico - o comunque non troppo complesso - con eccessive ornamentazioni (una prassi che, per quanto fosse molto diffusa ed esplicitamente apprezzata nel campo della musica profana, era ben praticata anche nelle cappelle musicali, tanto da spingere diversi contemporanei a lamentarsene quando abusata). Numerose furono le critiche di chi si trovava ad ascoltare musica sacra senza riuscire a distinguerne il testo, da Erasmo da Rotterdam («La musica sacra moderna è scritta in modo che l’assemblea non può sentire una sola parola»), a Savonarola («non s’intende cosa che dichino. Lasciate andare e’ canti figurati [i.e. il canto polifonico], e cantate e’ canti fermi [i.e. il canto piano, o ‘gregoriano’] ordinati dalla Chiesa»), a testimoni come lo storico e grammatico olandese Matthaeus Herbenus («Cosa mi importa, quindi, delle tue rifrazioni di voci, quando gorgheggi così che non posso

discernere né una parola, né una sillaba, né il valore della composizione?»)5

Un altro aspetto importante era quello di rispettare la corretta accentuazione della lingua: Biagio Rossetto, ad esempio, nel suo Libellus de rudimentis musices (1529)6 fornisce indicazioni molto interessanti sull’esecuzione corretta del canto piano, spiegando come accorciare la durata di certe note (anche se notate graficamente uguali alle altre) quando corrispondono a sillabe brevi, e facendo invece l’opposto per le sillabe accentate.

Ma oltre al ritmo anche il fraseggio musicale deve rispecchiare le pause, l’articolazione sintattica e la punteggiatura del testo cantato, suddividendo la melodia in modo coerente e segnalando la struttura del testo con note più lunghe sulle sillabe finali; il teorico fa quindi vari esempi, marcati con i giudizi «bene» e «male», dei punti giusti e sbagliati in cui fare cadenza o fermarsi per suddividere un versetto:

«Bene: In habitatione sancta. Coram ipso ministravi. Male: In habitatione. Sancta cora[m]. Ipso ministravi», un esempio che richiama

5. Per queste citazioni e la questione in generale cfr. Bertoglio, Chiara. La musica e le riforme del Cinquecento, Torino, Claudiana, 2020, pp. 110 e seguenti.

6.

de rudimentis musices, Verona, Stefano Nicolini da Sabbio & fratelli, 1529.

Rossetto, Biagio. Blasii Rossetti veronensis Libellus

La statua “A

Giovanni Pierluigi da Palestrina principe della musica” a Palestrina (RM) - foto di Mirco Tugnolo

Storia

alla memoria errori diffusi nei cori odierni, come respiri posizionati nei punti sbagliati del verso O simile di Sòlima ai fati del Va’ pensiero verdiano (che così all’ascolto diviene l’incomprensibile ‘O simile di soli mai fati’), spezzando le parole e rendendo ancora più ardua la comprensione del significato non solo da parte del pubblico, ma anche dei coristi stessi.

Ancora, altri abusi lamentati sono l’inserimento indebito di consonanti nasali per spezzare una vocale su cui si fa un melisma, un errore che si può ascrivere ai cantori d’Oltralpe (Alleluia che viene cantato «A-aan-an-an-an-le-lu-u-u-um-umum-ia», Domino che diventa «Do-o-o-on-on-on-on-mi-no», Deo e salve cantati «Deon» e «san nalve»).

I cantori poi si ‘perdevano’ sillabe (Domine labia mea aperies che diventava «Domi- labia me-peries») e lettere intermedie («aiutorium» invece del corretto

Eroe sul palcoscenico: Palestrina di Hans Pfitzner (1917)

di Matteo Unich direttore di coro

Ebbene, sì: sul nostro principe della musica, Giovanni Pierluigi di Sante, detto il Palestrina, è stata scritta anche un’opera lirica.

A misurarsi con l’arduo cimento, un compositore (tedesco, ma nato in Russia) di nome Hans Pfitzner (1869-1949), e il titolo del lavoro è – con ardito volo di fantasia –Palestrina.

La vicenda prende

adiutorium), o aggiungevano la consonante finale di una parola alla vocale successiva (da requiem aeternam a «requiem meternam»), e lettere intermedie con funzione eufonica («allelugia»). Conrad von Zabern riporta un’altra curiosa abitudine che credo non sia del tutto estranea ai cori odierni: quella di aspirare vocali che non presentano alcuna h iniziale o intermedia, trasformando le e di Kyrie eleison in un «he-hehe», come chi porta «pecore al pascolo».

Miti e falsi storici: il presunto intervento di Palestrina

Proprio attorno al tema della comprensibilità delle parole celebri sono divenuti alcuni aneddoti avvenuti nel corso del Concilio di Trento (1545-1563), sinodo indetto dalla Chiesa di Roma in reazione alle istanze di rinnovamento protestanti e in cui si discusse diffusamente anche di musica, destinati ad evolvere e ad alimentare miti e falsi storici, ampiamente smentiti dalla musicologia più attenta ma che tuttora persistono nella cultura corale comune.

Innanzitutto, la (vera) proposta di bandire la polifonia dalla liturgia

a favore di un esclusivo ritorno al canto piano, avanzata durante una delle sessioni di discussione del Concilio per difendere l’intelligibilità del testo cantato: l’incredibile mozione, propugnata dai legati papali Giovanni Morone e Bernardo Navagero nel 1563, provocò l’immediata reazione dell’imperatore Ferdinando I, che si schierò in difesa della polifonia e del «dono divino della musica». In secondo luogo, la vera e propria ‘favola’ secondo cui Giovanni Pierluigi da Palestrina sia intervenuto nel dibattito portando ad esempio virtuoso la sua Missa Papae Marcelli, ‘salvando’ così la polifonia liturgica che, per quanto venisse generalmente considerata l’anticipazione terrena dell’armonia del Paradiso, come abbiamo visto evidentemente non era immune da difetti esecutivi che – insieme all’intreccio contrappuntistico – contribuivano ad oscurarne la declamazione testuale.

Il mito del ‘Palestrina salvatore’ nasce già anticamente, in un trattato di Agostino Agazzari (Del sonare sopra il basso con tutti gli strumenti, 1607), e si diffuse verso l’inizio dell’Ottocento grazie a Giuseppe Baini, primo importante biografo di Palestrina, nonché grazie all’opera lirica

Palestrina di Hans Pfitzner (1917), in cui il compositore veste i panni dell’umile eroe ispirato da Dio e dalle anime di antichi polifonisti.

Palestrina, all’epoca maestro della Cappella Giulia, ebbe effettivamente un importante ruolo all’interno del Concilio, in quanto fu incaricato di intraprendere insieme ad Annibale Zoilo una revisione approfondita del repertorio ‘gregoriano’, poi rimasta incompiuta. Nulla si sa invece della presunta esecuzione della Missa Papae Marcelli durante il sinodo al fine di verificarne l’intelligibilità delle parole, né se la Messa sia stata davvero eseguita nel famoso incontro organizzato da Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, ed il cardinale Vitellozzo Vitelli a casa di quest’ultimo il 28 aprile 1565, in cui vennero convocati i cantori papali perché cantassero alcune messe polifoniche al fine di capire se la musica fosse ‘intelligibile’ (incontro che il Baini descrisse indebitamente come organizzato proprio per ascoltare la Papae Marcelli, originando così il falso storico). E non è neppure certo se sia proprio questa la messa inviata anni prima da papa Marcello II all’erudito ed ecclesiastico Bernardino

Storia

spunto da un aneddoto che tutti i musicisti conoscono, per averne sentito parlare nei corsi di storia della musica: il Concilio di Trento, nel reagire alla Riforma protestante, avrebbe avuto in animo di abolire completamente la polifonia liturgica, visto che Lutero aveva fatto del canto corale uno dei capisaldi della sua opera di contrasto alla Chiesa Cattolica.

Allo scopo di evitare questa sciagura, Palestrina avrebbe composto una Messa dalla musica così paradisiaca (e dovrebbe trattarsi della celebre Missa Papae Marcelli) che i Padri conciliari avrebbero dimesso il loro proposito.

Su questa trama Hans Pfitzner scrisse un libretto in tre atti che poi musicò e, essendo un post-wagneriano, ne fece un lavoro di dimensioni notevoli. Il sottotitolo è “leggenda musicale”, suppongo per sottolineare l’assunto non suffragato da prove dell’aneddoto stesso. La prima esecuzione dell’opera, composta tra il 1912 e il 1915, ebbe luogo a Monaco di Baviera il 12 giugno 1917 sotto la direzione d’orchestra di Bruno Walter.

Se la trama è esile occorre rimpolparla in qualche modo, ed ecco quindi fiorire una pletora di personaggi. Oltre al protagonista Palestrina, vi sono il Papa dell’epoca (Pio IV), numerosi cardinali, vescovi assortiti, il figlio di Palestrina, un suo allievo, e financo l’apparizione di Lucrezia, moglie defunta dello stesso polifonista. Nello scorrere il corposo elenco mi sono imbattuto in due nomi che mi hanno strappato un sorriso: il vescovo di Imola, che è la mia diocesi di appartenenza, e il Conte Luna, pressoché omonimo di un personaggio di ben altra fama, tra i protagonisti de Il Trovatore di Giuseppe Verdi.

Cirillo, uno dei protagonisti delle discussioni conciliari, a riprova della possibilità di una polifonia che soddisfacesse contemporaneamente ideali di comprensibilità e bellezza (la messa, secondo il musicologo Jeppesen, è verosimilmente databile al 1562-1563 e Marcello II morì nel 1555).

Lo stesso compositore nella prefazione della raccolta che contiene la Papae Marcelli tiene a sottolineare come lo stile adottato in questo II libro (pubblicato nel 1567) fosse ‘nuovo’ («novo modorum genere»), e la messa è esplicitamente intitolata in omaggio al pontefice che nel 1555, dopo aver ascoltato uno degli uffici liturgici del Venerdì Santo, aveva dimostrato attenzione per la tematica della comprensibilità del testo convocando i suoi cantori e rimproverandoli per aver cantato in modo troppo festoso nei giorni della passione di Cristo, e raccomandando loro di pronunciare il testo in modo efficace e adeguato al significato. Eppure, non solo la messa è impostata per 6 voci e non 4 (un organico complesso, che è all’origine di successive riduzioni a 4 parti pubblicate fino al tardo ‘800), ma presenta vasti episodi di intricata struttura imitativa, nonostante Palestrina ricorra effettivamente anche ad una diffusa omoritmia soprattutto fra Gloria e Credo

Il CD Deutsche Grammophon

(scelta, tuttavia, condivisa e molto comune).

Cosa avvenne veramente al Concilio?

L’indagine sul reale peso che il Concilio di Trento ebbe effettivamente sullo stile compositivo dell’epoca, ormai condotta attentamente da numerosi studiosi, deve quindi necessariamente tener conto dell’effettivo dibattito che si ebbe sui temi in questione: il malcontento per l’abitudine di impiegare melodie o modelli nati originariamente con testi profani all’interno di composizioni sacre; la politestualità e la mancata

intelligibilità del testo cantato per i motivi sopra riportati; il problema del testo liturgico che veniva omesso nelle esecuzioni in alternatim con l’organo; la sostituzione di testi dell’Ordinario con musiche su testi opzionali; e così via. Ma, al contempo, bisogna considerare quali furono le reali disposizioni finali e ufficiali del Concilio: queste, infatti, contengono solo richiami generici alla dignità della musica sacra, e non accolsero affatto il passo tanto spesso citato «ut verba ab omnibus percipi possint» (‘affinché tutti possano distinguere le parole’), che faceva parte del testo preliminare ma che non entrò nel decreto finale

del 17 settembre 1562. Un tema ancora diverso è poi come i singoli vescovi recepirono le direttive ufficiali, talvolta beneficiando anche dei dibattiti precedenti, e contribuendo così a promuovere l’adozione di stili compositivi più omoritmici in certe aree geografiche richiamando espressamente l’autorità del Concilio di Trento (anche se, di fatto, la questione dell’intelligibilità non trovò posto nelle disposizioni finali7). Ne è celebre esempio proprio Carlo Borromeo, che aveva a cuore il tema e richiedeva ai propri maestri di cappella l’impiego dello «stile intelligibile» (fra questi, nel 1570 Vincenzo Ruffo fu autore di messe per la liturgia milanese esplicitamente composte in questo stile ‘tridentino’).

7. «le discontinuità tecnico-compositive fra la produzione pre- e post-tridentina sono raramente dovute direttamente al concilio, le cui direttive si innestarono sulle tendenze musicali dell’epoca, che forse addirittura ne furono in parte responsabili. [...] le partiture post-tridentine che si auto qualificano come «conformi alle indicazioni del Concilio» somigliano più a delle affermazioni di ortodossia posteriori che a sforzi deliberati per adattare lo stile alle presunte direttive. L’atmosfera posttridentina sembrava perciò legittimare i compositori a invocare l’autorità del concilio come garante delle loro scelte stilistiche, corrispondenti più all’estetica musicale e culturale coeva che a richieste specifiche del clero», Bertoglio p. 280.

La trama8 dell’opera

Atto I. 1563: si stanno concludendo i lavori del Concilio di Trento. In casa di Palestrina, a Roma, il giovane Silla è ansioso di partire per Firenze, verso gli orizzonti inesplorati del canto solistico, e non si sente più attratto dalle antiche polifonie. Mentre fa ascoltare a Ighino una sua composizione, entra Palestrina con il cardinale Borromeo: quest’ultimo deplora le note lascive che disonorano la casa dell’anziano musicista. Usciti i due giovani, supplica Palestrina di scrivere una messa, con cui testimoniare davanti ai padri conciliari la dignità artistica e spirituale del patrimonio polifonico, che molti di loro vorrebbero condannare alle fiamme. Palestrina però ricusa il contributo, con una fermezza che fa adirare Borromeo; rimasto solo, il compositore sfoga il suo dolore per la rottura dell’amicizia con il cardinale e deplora l’angosciosa solitudine cui l’uomo è condannato, l’inutile affannarsi che non produce alcun frutto. Intorno a lui risplendono però nove apparizioni, anime di antichi polifonisti venute a sollecitargli la creazione di un capolavoro con cui possa adempiere alla sua missione terrena; un coro di angeli suggerisce al vecchio maestro l’idea per la messa richiesta, e quando Silla e Ighino entrano nella stanza il mattino dopo, trovano Palestrina addormentato e lo scrittoio cosparso di fogli ormai completati.

Atto II. Trento. I cardinali discutono animatamente, gli uni decisi a chiudere celermente i lavori del Concilio, gli altri (soprattutto gli spagnoli, più intransigenti) altrettanto irremovibili nell’esigere l’esame rigoroso di tutti gli articoli. Morone apre la seduta, ma si vede ben presto costretto ad aggiornarla, visto l’inasprirsi dei contrasti fra i vari partiti; i servitori spagnoli si fanno incontro minacciosi a quelli italiani e tedeschi, per vendicare l’affronto patito dai loro padroni: nasce una rissa generale, drasticamente interrotta dall’arrivo del cardinale Madruscht, che ordina di sparare sui litiganti e di condurre i superstiti al patibolo.

Atto III. In casa di Palestrina. Il compositore è stato incarcerato da Borromeo, il giorno successivo il loro colloquio, per cercare di ottenere da lui, con la forza, ciò che non si era ottenuto con le preghiere. Mentre il maestro sonnecchia, i padri conciliari stanno ascoltando (così ci informa Ighino) la nuova creazione, da cui dipende il futuro della tradizione polifonica sacra; ben presto giungono i primi cantori a rendere omaggio al musicista, che si alza poi per ricevere il papa in persona, venuto a benedirlo. Piangendo, Borromeo invoca il perdono dell’amico ingiustamente angariato, ma questi lo abbraccia affettuosamente; l’opera si chiude sul quadretto di Palestrina seduto all’organo, immerso profondamente nei suoi pensieri, indifferente ai clamori osannanti che salgono dalla strada.

8. Trama tratta da Dizionario dell’Opera, a cura di Piero Gelli, caporedattori M. Mattarozzi e M. Porzio, Milano, Baldini & Castoldi, 1996.

Ascolta l’opera nell’incisione del 1973 (Gedda, Fassbaender, Fisher-Dieskau, Prey, Chor des Bayerischen Rundfunks, Tölzer Knabenchor, SymphonieOrchester des Bayerischen Runfuks, Rafael Kubelik direttore)

Bibliografia

Fagiolo, Enzo. Domenico Bartolucci e la musica sacra del Novecento, Padova, Armelin, 2009

Garbini, Luigi. Breve storia della musica sacra. Dal canto sinagogale a Stockhausen, Milano, Il Saggiatore, 2012 (I ed. 2005)

Grout, Donald Jay. Storia della musica in Occidente, Milano, Feltrinelli, 2022 (I ed. 1984)

Porfiri, Aurelio. Un grande futuro alle spalle, Hong Kong, Chorabooks, 2022

Bartolucci e il ‘primo Patriarca della Musica’

di Rossella Vicentini compositrice e ricercatrice

Cosa hanno in comune i due compositori e musicisti Giovanni Pierluigi da Palestrina e Mons. Domenico Bartolucci? La domanda appare legittima e sensata ma, al tempo stesso, la risposta si trova facilmente. Per individuare diversi elementi che legano i due compositori a distanza di secoli, è sufficiente infatti mettere a confronto la produzione compositiva e la biografia di entrambi. A questo proposito basti pensare che nel 1947, al termine dell’esecuzione del poema sacro Baptisma di Bartolucci (nell’Aula Magna del PIMS – Pontificio Istituto per la Musica Sacra), Mons. Frediani, presente all’esecuzione e prefetto della Cappella Liberiana di S. Maria Maggiore a Roma, propose al giovane compositore di assumerne la direzione: questo ruolo era appartenuto

Storia

Fondazione Cardinale Domenico Bartolucci

Incisione realizzata da Lorenzo Vaccari su disegno di Stefano Du Pérac raffigurante la Cappella Sistina, 1578. In basso a destra si vede la tribuna riservata ai cantori (Albertina Museum, Vienna) - particolare

Bartolucci alla guida della Cappella Sistina (per concessione della Fondazione Cardinale Domenico Bartolucci)

Domenico

a Palestrina secoli prima. Successivamente Bartolucci fu nominato Direttore Perpetuo della prestigiosa Cappella Sistina (dal 1956 al 1997) da Pio XII (fu nominato a soli 39 anni, dopo la morte di Perosi), luogo determinante dal punto di vista musicale anche per il compositore cinquecentesco. Il fine di Bartolucci fu quello di riformare inizialmente il coro presente e di compiere la missione di evangelizzazione attraverso i tanti appuntamenti corali che vedevano lui stesso e i cantori proporsi musicalmente non solo durante le liturgie, ma anche attraverso concerti in Italia e in tutto il mondo. Nei programmi era difficile che mancasse un brano proprio di Palestrina, tanto che alle volte lo stesso Bartolucci affermò che «io ho pensato sempre a Palestrina ed alla Sistina e poco a me stesso», frase in linea con

lo spirito di dedizione al ruolo che ricopriva e che testimoniava l’importanza e l’influenza che ebbe il compositore cinquecentesco per Bartolucci, e l’ammirazione da lui nutrita per l’illustre predecessore. Proprio riguardo all’ultimo aspetto citato, questa ‘influenza’ si può ben notare anche attraverso il confronto e l’analisi di brani composti sullo stesso testo - da entrambi - a secoli di distanza. I pezzi presi in esame sono stati Alma Redemptoris Mater1, Ave Maria e Ave regina coelorum. È stato possibile reperire le partiture per metterle a confronto grazie al sito della Fondazione Bartolucci, nel quale sono presenti diverse opere del Maestro e che a tutt’oggi

1.La partitura integrale del brano è pubblicata in calce a questo articolo per concessione della Fondazione Cardinale Domenico Bartolucci.

Palestrina, l’incipit di Alma Redemptoris Mater a 8 voci in 2 cori (trascrizione di Pothárn Imre)

si occupa di diffondere la sua musica. Dal confronto di queste opere emerge che, a seconda della funzione alla quale doveva assolvere un determinato brano musicale, in Bartolucci possiamo trovare un’evoluzione del linguaggio musicale e un rimandare al tempo stesso allo stile palestriniano. Si tratta di caratteristiche di scrittura musicale che rappresentano una sorta di fil rouge con il passato, rivestite di una sonorità più novecentesca e che testimoniano come Bartolucci abbia voluto ispirarsi e inserirsi nella tradizione della cosiddetta ‘Scuola romana’.

A questo proposito è anche importante sottolineare due ulteriori elementi in comune tra Palestrina e Bartolucci, legati a quanto esposto sopra: un melodiare le parole del testo sacro in modo che queste vengano messe in risalto e siano sempre in primo piano rispetto alla musica, e il fatto che entrambi non persero mai di vista la necessità di comunicare con il pubblico, rappresentando una spiritualità sentita (ognuno secondo il proprio periodo storico di appartenenza).

Se leggiamo alcuni degli scritti dello stesso Bartolucci, riflettendo sul periodo del Concilio di Trento e sulla composizione della Missa Papae Marcelli, il Maestro affermò che Palestrina «già scriveva con quella chiarezza e aderenza al testo come voleva il Concilio di Trento» e ancora che «ci ha insegnato che la musica è un’intima e viva penetrazione del testo, una commossa sua interpretazione, un’umanissima partecipazione del sentimento del compositore e del cantore verso chi ascolta: sentimento adeguato al concetto delle parole; rispettandone esattamente la prosodia, l’accentuazione e la dinamica, nel variare delle singole frasi, a seconda del loro contenuto, in una grande varietà di accenti e, in una, sia pur difficile, unità di costruzione musicale! Questo ci ha insegnato Palestrina!».

Domenico

Bartolucci (per concessione della Fondazione

Cardinale

Domenico Bartolucci)

Se si confrontano musicalmente i brani di Bartolucci e di Palestrina, come non riuscire a ritrovare anche secoli dopo la stessa attenzione del primo dei due compositori per l’elemento fondante del testo da musicare, ovvero la parola? In entrambi è sicuramente comune la volontà di servire il testo attraverso

composizioni la cui bellezza non fosse l’esaltazione della tecnica contrappuntistica ma «lo spirito che l’animava dentro», in modo da far emergere e da amplificare ulteriormente il significato del testo stesso. Entrambi i compositori hanno vissuto in periodi particolarmente importanti e delicati relativi alla storia della musica sacra (Palestrina visse il periodo del Concilio di Trento mentre Bartolucci quello del Concilio Vaticano II) e, attraverso le loro opere, a tutt’oggi testimoniano la loro risposta alle necessità e alle sollecitazioni musicali vissute nell’ambito del sacro dei rispettivi periodi storici.

Se ritorniamo invece ad aspetti più biografici che riguardano Bartolucci, non si può non citare la sua formazione musicale: studiò con due maestri particolarmente legati al linguaggio palestriniano e modale che furono prima il M° Casimiri e poi il M° Pizzetti a Roma. Il primo era un profondo conoscitore e promotore dell’opera omnia palestriniana oltre che del canto gregoriano, mentre il secondo era un compositore nonché attento studioso dei modi della musica antica e delle sequenze gregoriane. Questi elementi furono talmente tanto assorbiti e assimilati da Bartolucci

Storia

come musicista (più o meno consapevolmente) che riuscì a trasferirli nelle sue composizioni e nella direzione del Coro della Cappella Sistina ogniqualvolta venivano proposti brani di Palestrina, sia in concerto che durante le celebrazioni liturgiche. Come affermò il Maestro Bartolucci «la mia costante preoccupazione, è di ridare al pubblico Palestrina nella sua anima».

L’influenza dei suoi studi si può rintracciare anche analizzando da un punto di vista più tecnico e strettamente musicale diversi altri brani composti dallo stesso Bartolucci tanto da poter individuare, anche in questo

caso, una sorta di sintesi della ‘Scuola romana’ in termini di cantabilità, attenzione al testo sacro e aderenza della musica alla ritualità (in caso di brani destinati alla liturgia).

A conclusione di quanto sopra esposto, la profonda ammirazione di Mons. Bartolucci per Palestrina è ampiamente documentata dai suoi scritti così come dai programmi di sala, che dimostrano l’importanza che ebbe il compositore cinquecentesco nella missione di evangelizzazione del Coro della Cappella Sistina. È doveroso quindi proporre a questo punto un’ultima citazione - sempre di Bartolucci - che rappresenta la motivazione del titolo di questo scritto, rafforzando ulteriormente i concetti esposti, ovvero che «Palestrina è certamente uno dei più grandi musicisti. Io lo definisco il primo Patriarca della Musica, poi verrà l’altro, pure grandissimo, che è Bach».

Alma Redemptoris Mater

La parola è melodia

Costruzione melodica gregoriana e palestriniana a confronto

di dom Antonio di Marco OSB

Lo scopo di questo articolo è ricercare, se ve ne sono, i punti di contatto fra la logica compositiva del canto gregoriano e quella della melodia palestriniana. Non ci occuperemo, quindi, delle composizioni su temi gregoriani, quanto piuttosto della tecnica compositiva del Palestrina a prescindere dall’originalità dei temi, cercando di dimostrarne i criteri in riferimento alla lezione del canto piano. Dopo una presentazione delle caratteristiche della melodia gregoriana, nel prossimo numero di FarCoro procederemo – tramite un’analisi puramente dimostrativa – alla ricerca di tali caratteristiche nel comporre palestriniano, onde apprezzare continuità e novità nell’utilizzo dei criteri. Prima di iniziare qualsiasi tipo di impostazione teorica è bene chiarire ulteriormente i limiti di questo lavoro, che si focalizza su repertorio vocale-corale: tutte le evidenze che risulteranno, deriveranno, quindi, dal dato imprescindibile della parola, dal testo che tanto il canto gregoriano quanto le composizioni di Palestrina (messe, inni, mottetti e madrigali) hanno alla base. Questa consapevolezza è dirimente perché, ovviamente, quanto qui verrà analizzato e mostrato potrà trovare una sua bontà d’utilizzo nella scrittura anche dei moderni compositori soprattutto nel repertorio vocale, pur non disdegnando un’applicazione più ampia, con le dovute ricomprensioni.

Palestrina, Sicut cervus, parte del tenor (Venezia, Scotto, 1588) - particolare

Gli elementi strutturali della costruzione melodica gregoriana

«Il canto gregoriano è un testo […] legato indissolubilmente ad una melodia. Dal testo […] il compositore trae l’ispirazione della melodia, sottoponendola al ritmo della parola e alle leggi del genere melodico e della modalità delle forme1».

Il canto gregoriano è prosodia testuale espansa da una melodia, che contiene in sé sia l’elemento sonoro che quello ritmico; di un ritmo, però, che non possiamo paragonare alla nozione di tempo cui siamo abituati, quanto piuttosto ad un sistema di gerarchie temporali anzitutto tra lettere, sillabe, parole, frasi ed elementi neumatici2. La costruzione della melodia gregoriana, dunque, seppur originale, non può prescindere dal grandissimo vincolo testuale, che le impone determinate movenze e ritmi in base a sillabe (toniche), parole, frasi e periodi:

«La melodia gregoriana, nella sua formazione originaria, non fa altro che assecondare docilmente la naturale struttura della parola latina nonché le esigenze di una corretta declamazione, nasce e si sviluppa in un determinato testo, da cui assume le qualità grammaticali e fonetiche. La

melodia gregoriana è la forma sonora stessa della parola, incardinata nella declamazione di un discorso, dove l’elevazione o l’abbassamento della voce sono rispettivamente riconoscibili nei momenti di tensione e distensione della frase parlata»3

Simbiosi verbale-melodica

Dunque, per comprendere la costruzione della melodia gregoriana il necessario punto di partenza consiste nell’analisi generale e accurata della prosodia del testo latino; uno studio capillare, anche se forse oggi un po’ desueto4, dei fenomeni acustici riferibili ad un testo in tutte le sue componenti (dalla più piccola: la lettera, alla più grande: il periodo) è stato condotto negli anni ’50 del ‘900 dal p. Pellegrino Ernetti e raccolto prima nel suo Trattato generale di canto gregoriano5 e poi in un articolo dal Passalacqua dal titolo La teoria ritmica delle onde melodiche6 - articolo che, insieme al Trattato di Ernetti, è molto interessante anche per le tavole grafiche inserite, che permettono di visualizzare il comportamento acustico delle onde sonore rispetto al testo e al canto gregoriano (oscillografia) e dimostrano la logicità delle teorie dell’autore, disegnando gli archi sonori non solo su ogni sillaba, ma anche su ogni parola e ogni frase:

Due affermazioni, in tal senso, ci sembrano particolarmente significative; si tratta delle definizioni cui Ernetti giunge al termine del lavoro, e riguardano l’una il ritmo7 verbale e l’altra il ritmo melodico:

«Il ritmo verbale è il fluire di onde melodiche più o meno ampie, le quali salgono sulla sillaba tonica e discendono sulle atone. […] Il ritmo (melodico) è il fluire ordinato di onde melodiche, ciascuna delle quali si apre sull’arsi e si chiude sulla tesi»8

Analisi

L’introito Puer natus est nobis

Comprendiamo che, in questa visione, la melodia gregoriana consiste nell’organizzazione sonora della melodicità insita in una parola: più nello specifico, possiamo asserire che, nell’economia di una parola, la sillaba tonica avrà caratteristiche melodiche (tenderà a salire, creando un apice), durata (sarà più lunga) ed intensità (sarà più sonora, recando in sé l’accento) maggiori rispetto alle sillabe atone, sia precedenti che seguenti, che risulteranno meno apicali, più brevi e meno forti9; tale forma elementare di ritmo va, naturalmente, applicata poi espandendola a contesti sempre maggiori: dalla parola al sintagma, dal sintagma alla frase, dalla frase al periodo, dal periodo all’intero brano; in tal modo avremo archi melodici sovrapponibili ed includibili tutti nell’unico grande arco che comprende l’intero brano. Questo arco10, come la nozione di ritmo, include in sé non soltanto il movimento melodico, ma anche gli elementi agogico e dinamico che, ovviamente, procedono di pari passo: «Non esiste relazione da slancio a posa tra due sillabe ovvero tra due note, se simultaneamente non sussistano le tre qualità fisico-acustiche: melodicità, durata e intensità, in grado maggiore sulla prima, ed in grado minore sulla seconda nota o sillaba»11

Estetica ed esegetica

Il testo da cui dipende il canto gregoriano non è un testo qualsiasi, ma Parola di Dio; come tale, il contesto del suo utilizzo ne condiziona fortemente la forma. Un primo condizionamento riguarda la sfera pratica della forma richiesta nel particolare momento liturgico cui è destinato: la celebrazione della Messa non è quella dell’Ufficio, un introito non è un alleluia, un responsorio non è un’antifona.

Tre sono le forme cui possiamo ricondurre il repertorio gregoriano: quella antifonica (un’antifona viene intercalata da versetti), quella responsoriale (che contiene una risposta e quindi un dialogo), quella diretta (di seguito senza ripetizioni); ognuna di esse è dirimente nella costruzione estetica12 della melodia che deve essere subito associata ai tre stili sillabico (ad ogni sillaba corrisponde un suono), semi-ornato (ad ogni sillaba corrisponde un gruppo neumatico di pochi suoni) e ornato (ad ogni sillaba corrisponde un gruppo neumatico di molti suoni).

A tale prima classificazione di forma e stile bisogna aggiungere il concetto di logica formulare:

«Se per forma intendiamo il modo con cui il testo si comunica in ambito liturgico, per formula possiamo intendere

1. A. Turco, Iniziazione al canto gregoriano, Città del Vaticano, LEV, 2016, p. 81 (Didattica e saggistica 1, collana del PIMS). Cfr. anche: L. Augustoni, Parola e neuma. Dati fondamentali per l’interpretazione gregoriana, in L’interpretazione del canto gregoriano oggi. Atti del Convegno Internazionale di Canto Gregoriano, Arezzo, 26-27 agosto 1983, a cura di D. Cieri, Roma, Pro Musica Studium, 1984, p. 22: «Prima ancora dei segni paleografici va rispettato l’altro essenziale fondamento dell’interpretazione gregoriana: il testo. Difatti esso si unisce in simbiosi con la melodia. Nel gregoriano il testo esiste nella sua funzione rituale soltanto melodicamente modulato e le melodie non possono vivere senza il testo: molti segni paleografici, come per es. quelli liquescenti, non hanno ragione d’essere se non per il loro stretto legame col testo». Le attestazioni dell’imprescindibilità della diade testo-melodia in merito alla composizione gregoriana sono infinite: abbiamo citato queste due solo a mo’ d’esempio per rappresentarle, in qualche modo, tutte.

2. Cfr. A. Corno-G. Merli, La melodia gregoriana, in Alla scuola del canto gregoriano. Studi in forma di manuale, a cura di F. Rampi, Parma, Musidora, 2015, p. 305: «Altri aspetti concorrono all’evoluzione della melodia e quindi della modalità, intesa

ogni struttura compositiva, di dimensioni estremamente variabili, fondata sul principio dell’allusione. […] Il concetto di formula si basa sulla constatazione oggettiva di un procedimento melodico-ritmico ripetuto tante volte e allo stesso modo con testi diversi. […] La formula non è un dato melodico astratto a cui aderiscono testi diversi, bensì un procedimento per mezzo del quale testi diversi risuonano allo stesso modo»13

Questa affermazione sulla logica formulare conduce il discorso ad una domanda di senso: perché testi diversi dovrebbero risuonare allo stesso modo? Entra qui in gioco il concetto di esegesi; la melodia gregoriana, infatti, lungi dal voler soltanto amplificare la prosodia naturale della parola e del testo cui si riferisce, ne intende anche spiegare il significato a più livelli. Un primo livello può riguardare l’area semantica o il senso sotteso della parola di riferimento: un esempio di entrambi i movimenti è riscontrabile nel communio Jerusalem surge (Graduale Triplex 20), dove il verbo surge (‘alzati’) corrisponde all’apice di un moto ascendente, mentre il sintagma quæ veniet tibi (‘che verrà a te’), avendo in sé l’idea della discesa del Verbo eterno nell’incarnazione, corrisponde a un episodio melodico discendente.

Ancora, la melodia gregoriana può evocare, quasi come una onomatopea, il significato della parola cui si riferisce: è il caso delle 7 repercussiones concentriche sul verbo dixit (cfr. l’introito Tibi dixit, Graduale Triplex 88), in cui l’atto del parlare è evocato dalla ripetizione dei suoni sulla corda di recita:

come modo di procedere di una forma sonora che realizza le qualità grammaticali e semantiche del testo. Uno di questi aspetti viene identificato con il carattere melodico dell’accento latino. In tale direzione si muove Paolo Ferretti quando, nella sua Estetica gregoriana, afferma che tra la struttura della melodia gregoriana e gli accenti grammaticali del testo latino esiste un intimo rapporto di dipendenza».

3. Ivi, pp. 305-306.

4. Bisogna riconoscere che questo studio, basato su registrazioni soggettive di brani gregoriani, risente della interpretazione dei cantori. Se il problema si pone in misura minore riguardo al genere sillabico, i generi neumatico e melismatico risultano, oggi, parecchio problematici: gli studi paleografici, infatti, hanno potuto dimostrare la tensione dinamica interna dei singoli neumi, che nel contributo dell’Ernetti, ancora sconosciuta, è del tutto disattesa.

5. P. M. Ernetti, Canto gregoriano. Trattato generale ad uso dei seminari ed istituti religiosi, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1960-1964.

Il communio Jerusalem surge (Graduale Triplex 20)

L’introito Tibi dixit (Graduale Triplex 88)

Un secondo livello, di natura più interpretativa, riguarda l’enfatizzazione di specifiche parole all’interno di una frase, ritenute più importanti a livello teologico14; tipici in questo senso sono due processi: anzitutto l’ornamentazione melismatica e l’innalzamento melodico (apice) del termine importante; in secondo luogo la dilatazione dei valori che lo interessano per mezzo di scritture non corsive (episemi, liquescenze, neumi di conduzione, neumatica complessa, etc…). Si veda ad esempio il trattamento dei termini obœdiens e crucis nel graduale Christus factus est (Graduale Triplex 148):

Christus factus est (Graduale Triplex 148).

Un terzo livello, più allegorico, può invece tessere una fitta rete di rimandi tramite il ribadirsi di formule e ambiti modali15 ad esempio, una stessa formula unisce il communio Scapulis suis (Graduale Triplex 77) della I Domenica di Quaresima, il responsorio Ingrediente Domino (Graduale Triplex 143) della Domenica delle Palme e il communio Pascha nostrum (Graduale Triplex 199) del giorno di Pasqua: la formula, identica nella melodia e nel ritmo (financo nei nomi delle note), si trova rispettivamente su circumdabit te, su palmarum e su immolatus est:

Formule melodiche dal communio Scapulis suis, il responsorio Ingrediente Domino e il communio Pascha nostrum (Graduale Triplex 77, 143, 199)

Questa concordanza non è casuale e ha un fortissimo rimando cristologico: colui che è circondato dalla protezione del Padre, e che quindi è Figlio di Dio, è lo stesso che è stato immolato e ha così ottenuto la palma del martirio. La palma, nella simbologia semitica, era considerata simbolo di rinascita: si credeva infatti che morisse per fruttificare e poi rinascesse dai frutti. L’allusione alla morte del Cristo e alla sua risurrezione è lampante. La composizione e l’organizzazione del repertorio gregoriano non sembra esser frutto di episodi isolati e indipendenti, quanto piuttosto di un progetto unitario e teologicamente concepito, in cui nulla è stato lasciato al caso.

Continua sul prossimo numero

6. C. Passalacqua, La teoria ritmica delle onde melodiche, «Jucunda laudatio», 1-4 (1963), pp. 14-25, 76-79, 138-144, 204208. A partire da queste considerazioni è stato possibile superare l’allora in voga ritmicità solesmense, dimostrata infondata (cfr. in particolare le pp. 207208).

7. La nozione di ritmo, in questo caso, è ancora differente rispetto alla nostra: in essa, infatti, si condensano non solo l’aspetto puramente temporale, ma anche quello melodico e agogico (melodicità, intensità e quantità).

8. Passalacqua, La teoria ritmica delle onde melodiche, p. 16.

9. Passalacqua, La teoria ritmica delle onde melodiche, pp. 138-139. Questo processo verrà poi chiamato da Turco verbo-modalità: «La parola contribuisce alla determinazione del modo e della griglia modale di un canto, tramite l’elemento costitutivo dell’unità verbale, la sillaba finale. Nella relazione “accento-finale”, applicata alla parola latina, l’accento della parola è essenzialmente acuto, e il canto gregoriano non fa che tradurre questa elevazione sulle corde modali saltuarie. Se, ad esempio, una parola è proclamata su una corda, l’accento canta oltre la modalità su un grado ornamentale, ed il ritorno alla corda modale avviene sulla sillaba finale, cadenza della parola, dando l’impressione di una risoluzione, di un ritorno all’equilibrio, dopo lo slancio melodico dell’accento», in A. Turco, Il neuma e il modo. Le incidenze verbo-modali sulla notazione neumatica, Città del Vaticano, LEV, 2018, p. 257 (Didattica e saggistica 2).

10. È bene notare che, sebbene nella grande maggioranza dei casi l’apice melodico sia verso l’acuto, è possibile che l’arco sia rovesciato e l’apice melodico sia verso il grave, specialmente in riferimento a termini singoli (cfr. l’introito Spiritus Domini, Graduale Triplex 252: la parola terrarum).

11. P. M. Ernetti, Canto gregoriano. Trattato generale, vol. 2: Ritmica: contrappunto verbale-melodico, simbiosi verbale-melodica, VeneziaRoma, Istituto per la collaborazione culturale, 1961, pp. 102-103.

12. F. Rampi-A. De Lillo, Nella mente del notatore. Semiologia gregoriana a ritroso, Città del Vaticano, LEV, 2019 (Didattica e saggistica 3), p. 30 e seguenti.

13. F. Rampi-A. De Lillo, Nella mente del notatore, pp. 47-49

14. Cf. F. Rampi-A. De Lillo, Nella mente del notatore, p. 55.

15. Si pensi alla stranezza del modo (deuterus plagalis) dell’introito Resurrexi (Graduale Triplex 196) del giorno di Pasqua: una modalità associata al pianto e al lutto che presta il suo ambito sonoro ad un testo pieno di potenza e gioia. In realtà questo ambito modale è proprio di tutta la Settimana Santa (tutti gli introiti sono in deuterus) e culmina nell’introito Nos autem (Graduale Triplex 162) della Missa in cœna Domini del Giovedì Santo. Anche qui il rimando teologico e cristologico è chiaro: colui che è risorto è lo stesso che ha subito la passione e la morte in croce, non si dà l’una senza le altre.

Il canto di tradizione orale: tra ricerca ed elaborazione

Convegno organizzato dal Coro Stelutis di Bologna

di Michele Peguri docente di Direzione e Composizione corale presso il Conservatorio F. Venezze di Rovigo

Domenica 20 ottobre 2024, presso la prestigiosa sede del Coro Stelutis - “Tiz” di Bologna, si è svolto il convegno Il canto di tradizione orale: tra ricerca ed elaborazione; l’evento si è sviluppato all’interno del progetto “Cantar storie” con il contributo di Regione Emilia Romagna,

Il Coro Stelutis diretto da Silvia Vacchi

AERCO e Feniarco.

Il convegno è stato articolato in due parti: nella mattina tre noti musicisti hanno tenuto delle relazioni riguardo temi significativi inerenti al tema della giornata. Ogni relatore, con esempi musicali, slide, ascolti e spiegazioni, ha delineato la propria esperienza secondo diverse tipologie progettuali ed artistiche. La seconda sezione della giornata, intercalata da un brunch di qualità, si è sviluppata in una forma di tavola rotonda dove, grazie al ruolo di mediatore assunto dal maestro Pier Paolo Scattolin è stato possibile avviare un dialogo ricco di interesse tra i relatori e gli ospiti intervenuti al convegno. Aspetto importante è risultato la varietà degli intervenuti al convegno: coristi, maestri, amatori, compositori hanno proposto nelle varie conversazioni punti di vista assai differenziati. Dopo il saluto ai convenuti, da parte della Presidente Nicoletta Puglioli e della maestra del coro Stelutis Silvia Vacchi, seguiti dal referente AERCO Pierpaolo Fabretti, il maestro Daniele Venturi ha introdotto la propria relazione titolata Il coro ricorda: settant’anni di evoluzione del canto di ispirazione popolare. Con documentazione di efficace chiarezza, sono stati esposti alcuni canti del mondo della coralità del 1900, questi in gran parte derivati dal repertorio del coro SAT. La spiegazione

ha documentato le peculiarità “evolutive” dell’elaborazione del canto di tradizione orale. La relazione del maestro Venturi si è concentrata in modo particolare sui procedimenti armonico - compositivi che il decorso temporale di circa un secolo ha gradualmente arricchito: tipologie di consonanze e dissonanze, note pedale, modulazioni, utilizzo delle voci, procedimenti ritmici, ovvero tutto ciò che sta alla base del linguaggio compositivo è stato motivo di un’indagine particolarmente dettagliata. Il lavoro analitico ha quindi evidenziato le modalità di tecnica compositiva, formale e ritmica che sono state utilizzate per dare rilievo ai termini, esclamazioni o ai cosiddetti “affetti” più significativi dei brani. L’ampia lettura di brani,

Giorgio Vacchi, Composizioni per coro misto e femminile, 2021

Polare

da L. Pigarelli a L. Berio, passando per A. Pedrotti, R. Dionisi, A.B. Michelangeli, G. Vacchi ha pertanto posto in rilievo non solo i costrutti più abituali dell’armonizzazione in direzione del cosiddetto “popolare”, ma pure le specificità utilizzate dei singoli compositori. Il denominatore comune che infine è risultato è stata la generale trasparenza che permea il comporre in tale ambito. Nella qualità di un’immagine, il brano popolare è una rappresentazione sonora di un evento o di una narrazione che si concentra molto sull’essenza della quotidianità del nostro passato culturale: ovvero la simbolizzazione della concretezza dei fatti (e dei riti) con cui la persona “figlia” di un mondo sostanzialmente rurale, si relazionava.

La relazione del maestro Luigi Di Tullio si è basata su un progetto di rilievo nazionale da egli ideato e curato in collaborazione con l’etnomusicologo Domenico Di Virgilio: Nuovi canti della terra d’Abruzzo. Questo è il titolo di un importante pubblicazione cartacea contenente scritti, saggi, partiture, cd, e tutto ciò che è stato motivo e soprattutto un risultato di ricerca. Alla specificità compositiva del Maestro Daniele Venturi si è pertanto affiancata una relazione che descrive un articolato lavoro portato a compimento in circa due anni.

Tale programmazione ha posto più punti costitutivi come premesse:

1) l’individuazione del repertorio; 2) l’elaborazione; 3) la realizzazione esecutiva e registrazione.

Queste condizioni sono poi state sviluppate per dare rilievo e coinvolgimento di numerose realtà: i musicologi in prima fase, i compositori e poi i cori.

Tutto ciò, benché partito dalla terra abruzzese, ha assunto gradualmente e spontaneamente uno sviluppo e coinvolgimento praticamente nazionale.

Nell’ampia relazione del maestro Di Tullio si sono espressi i passaggi temporali che, dall’avvio si sono estesi man mano fino, al raggiungimento della concretezza realizzativa, ovvero come un’efficace “rete” costitutiva ha determinato un

rilievo consistente di ogni figura partecipante.

Lo spettatore presente alla conferenza ha qui colto dapprima con quali criteri è stata fatta la scelta dei canti abruzzesi da elaborare (questo grazie ad un lavoro di etnomusicologia); successivamente è venuto a conoscenza di quali compositori dapprima abruzzesi, ma poi di ogni zona d’Italia si sono interessati alla proposta di elaborazione.

Il passaggio successivo ha posto gli stessi compositori in relazione con i cori atti ad eseguire e registrare queste nuove “composizioni”. Tale momento ha assunto rilievo in quanto il compositore-elaboratore, nella propria libertà compositiva ha

Un momento del convegno presso la sede del Coro Stelutis

dovuto dare proporzionalità creativa rispetto all’esecutore (coro) per il quale ha composto ovvero: organico, voci pari, miste o solisti, quantità esecutori, etc... Ciò ha fatto emergere una grande varietà di modalità creative.

Una singolarità segnalata è stata il coinvolgimento compositivo di una classe di alunni di un liceo e la conseguente realizzazione della medesima classe di studenti di uno dei brani elaborati.

Lo spessore di questo progetto ha avuto poi una rilevante risonanza mediatica grazie a decine di occasioni di presentazione, di riproposte esecutive dei brani realizzati, di riconoscimenti giornalistici

sia cartacei, televisivi e anche filmografici di tutto ciò.

Le caratteristiche dei citati interventi hanno palesato l’ampiezza e la grande ricchezza di argomenti che emergono ponendo l’attenzione a ciò che può essere un brano tradizionale e alla sua possibile elaborazione. A completamento di ciò, uno di tali aspetti su cui si è concentrata la relazione del maestro Mario Lanaro è stata la grande duttilità che, a prescindere dall’esattezza semantica, può assumere la dicitura di canto proveniente dalla tradizione orale. Questa è stata una interessante occasione per concentrare l’interesse su termini e vocaboli

Siam prigionieri (Siberia, 19141918) nella trascrizione di Renato Dionisi

frequentemente adoperati e che necessitano di riflessione.

Il maestro Lanaro richiama l’attenzione sul termine popolare il cui significato è una forma di passpartout adoperato ovunque e quindi soggetto ad una serie di interpretazioni che possono deviare l’esatta etimologia del termine; l’esempio di brano popolare è associabile ad un brano da un canto di derivazione orale poi elaborato in diversi modi (ossia armonizzato omoritmicamente, trattato contrappuntisticamente o con procedimenti singolari), oppure (popolare) può essere attribuito ad una canzone (anche di musica leggera) divenuta popolare, ovvero così incisiva nel successo che si è diffusa “tra tutta la gente”. Considerando che popolare è un enunciato che significa “per il popolo”, o “dal popolo”, emerge che il termine ha, di fatto, e nel tempo, acquisito una genericità contenitiva che oggi è bene non banalizzare. Per dare esplicazione a questo principio il maestro Lanaro ha presentato numerose slide dove la distorsione del termine tocca punti estremi: antologie di partiture, raccolte, ma anche rassegne corali etc.; in taluni

periodi, soprattutto quando l’etnomusicologia doveva ancora avviarsi in modo importante, il termine popolare ha accomunato brani di montagna, lirici, gregoriani, ma anche del repertorio barocco inglese (Haendel)...

La conclusione è quindi l’utilità di un procedimento sensato, per attribuire ad un prodotto musicale di tale tipologia, una denominazione che sia ricavata in modo accorto. Come esempio: l’origine, la trascrizione, l’idea elaborativa, l’organico etc., sono tutti elementi che costituiscono le informazioni per individuare il termine più pertinente con il quale si vuole classificare un pezzo musicale. In altre parole, la categoria di un brano elaborato, ri-armonizzato, strumentato, è bene che risulti come prodotto conclusivo dei procedimenti tecnico/musicale dai quali esso è generato.

In tal modo si creano più tipologie che probabilmente non contraddicono l’ambito di derivazione (canto tradizionale), ma che precisano con meno superficialità l’essenza ultima derivante. Nel pomeriggio il pubblico e i maestri relatori hanno avuto l’opportunità di attivare una conversazione

mediata dal maestro Pier Paolo Scattolin. Le numerose premesse emerse dalle relazioni mattutine, sono state motivo di quesiti, considerazioni e approfondimenti scaturiti da più punti di vista. Dal titolo del convegno (Il canto di tradizione orale: tra ricerca ed elaborazione) diversi punti hanno richiamato l’attenzione. Da parte di chi si occupa del lavoro elaborativo-compositivo, s’è voluto esplorare la diversità dei passaggi che dall’autenticità del canto recuperato (ovvero trasmesso, tramandato o anche ereditato), giunge a un prodotto che elaborato, riarmonizzato o anche ri-composto, si configura come una attributo di “aggiornata originalità”; tale disamina ha evidenziato che la moltitudine di possibili riproposte di tracce musicali remote è una significativa occasione con più caratteristiche; se ne elencano le più evidenti:

- il recupero di qualche cosa a rischio d’oblio; - una sua riproposta

positivamente contingente della rielaborazione, questo (come già accennato) secondo il contesto (solistico, corale, strumentale

Popolare

o entrambi) e anche scolastico, concertistico. Tutto ciò dipendente anche dallo stile e la tecnica scelti per l’elaborazione (classico, folkloristico, polifonico, pop, e quindi tonale, modale, cromatico, aleatorio, con e senza strumenti etc.)

In questo tipo di osservazione il richiamo di capolavori derivati da musica passata e ricomposta da autori come Bartok, Tosti, ma anche Zandonai, Wolf-Ferrari, Brahms, Dvořák e altri) ha rilevato che la relazione artistica tra input ispiratore e compositore finale può risultare un’alleanza con esiti di grande qualità. Come già segnalato dall’intervento del maestro Di

Tullio, un importante punto derivato dalla citata osservazione è stato il rapporto che può rivelarsi necessario tra il compositore che vuol elaborare qualcosa di preesistente e lo strumento-esecutore che dovrà realizzarlo concretamente. Anche per questo punto le variabili sono numerose, ma l’attenzione a chi dovrà eseguire il prodotto compositivo è condizione per dare misura e quindi qualità e caratteristiche precise al lavoro elaborativo. In questa situazione quindi il compositore non può contenere il proprio ruolo entro il fare, ma deve considerare il fare per (qui lo strumento-coro). Tale attenzione, se accurata, oltre alla tipologia compositiva, avrà altri aspetti. L’elaborazione da una linea musicale che presenta l’entità di una derivazione originaria, e quindi spesso tramandata oralmente (e che nella sua naturale e mutevole fisiologia può essere già lontana dalla sua nascita), è pertinente motivo di almeno due valutazioni. In senso temporale, la prima è quella di constatarne con attenzione la natura, le caratteristiche, le

Giorgio Vacchi a Canazei, 1956

possibili curiosità o interrogativi che una oculata analisi è bene evidenzi. Tutto ciò con più punti di attenzione: ambito geografico, linguaggio utilizzato, argomento, simbologia espressa e poi, natura musicale, forma, caratteristiche e peculiarità. L’etnomusicologia qui assume un ruolo primario. Questo passaggio, già esaminato nelle relazioni dei tre maestri, sottolinea che, quanto più il brano è lontano dalla nostra consapevolezza/conoscenza, tanto più richiede un’attenta valutazione in direzione della sua comprensione. Ciò evidenzierà alcune prerogative potenzialmente utili per la sua elaborazione. Non basta perciò l’onomatopea o il simbolismo già evidenti in molto repertorio; qui l’approfondimento ha un’autentica funzione di indagine “dentro la musica” che fornirà efficaci e possibili direzioni rielaborative.

La seconda riflessione è inerente al tipo di prodotto possibile, qualora si desideri attivare l’elaborazione. Per questo punto le soluzioni non sono circoscrivibili. Benché ciò, rimane aperta l’idea che il ricomporre su uno pseudo “cantus firmus” porta a una molteplicità di soluzioni compositive, spesso motivate, ma positivamente subordinate, dallo strumento che dovrà realizzarle.

Queste generali considerazioni danno un contorno piuttosto

interessante per chi ama il comporre su canto tramandato. Egli si pone in un ideale “presente” tra “passato” (il canto raccolto) e “futuro” (la sua elaborazione), e non essendo un momento “liberamente” creativo, ovvero su foglio bianco, emergeranno pertinenti ipotesi elaborative da valutare, da modificare, da adattare, o da escludere secondo un fine che porrà in rapporto sinergico almeno tre aspetti: la memoria, la sua ri-elaborazione, il sound dato dallo strumento finale.

Si può quindi riassumere considerando che incontri come quello svolto presso la sede dello Stelutis sono opportunità nelle quali, oltre che porre più opinioni a confronto, emergono alcuni princìpi meritevoli di una continuità di lavoro riguardo il canto erede dalla tradizione orale. Come prima cosa è evidente la “ricerca” come condizione generale e come esclusione di ogni forma di banalizzazione, rischio di tutto ciò che si designa frequentemente sotto il termine popolare.

Parlando poi di musica realizzata e il suo risultato tangibile, ossia il suono risultante, l’altro oggetto di attenzione è l’ente che caratterizza la specificità di un corpo musicale, dalla sua scrittura alla sua esecuzione, ovvero il “timbro”. Essendo la qualità che designa, di fatto e in assoluto, ogni evento

musicale, esso rappresenta un parametro molto significativo e ricco di singolarità proprio nell’interessante idea di trasformazione in cui un canto, da eredità culturale rifiorisce nel presente.

La melodia popolare L’homme armé notata nel Mellon Chansonnier (circa 1470) e riutilizzata da molti compositori rinascimentali come cantus firmus di messe polifoniche

Concorso

Il Festival Corale CORINFESTA nasce nel 2015 per iniziativa della Fondazione C. G. Andreoli di Mirandola (MO). Fin da subito si è articolato in due giornate che si tengono nel modernissimo Auditorium Levi Montalcini a Mirandola: una primaverile dedicata ai cori scolastici, l’altra autunnale dedicata ai cori artistici.

A partire dal 2017 la Fondazione Andreoli ha sottoscritto una partnership con AERCO ampliando il Festival con il Concorso Internazionale di Composizione i cui brani vincitori vengono inclusi nei repertori delle serate del Festival Corale, durante le quali avvengono le premiére dei brani stessi.

Direzione Artistica:

Andrea Angelini

Luca Buzzavi

Partecipa anche tu!

Sono aperte le iscrizioni fino al 31/08/2005

Scegliere, eseguire, amare Palestrina con un coro giovanile femminile

Intervista

a Raffaele

Cifani, direttore di coro, pianista, didatta, formatore, e arrangiatore vocal pop

a cura di Michele Napolitano

Direttore di Coro, Docente di Direzione e Composizione Corale presso il Conservatorio Frescobaldi di Ferrara

Innanzitutto, molto piacere di conoscerti. Avresti voglia di raccontare ai nostri lettori qual è la tua formazione musicale e con quali realtà corali svolgi prevalentemente la tua attività di direttore di coro?

Oltre ai titoli accademici conseguiti in Pianoforte e Direzione di coro, la mia vera formazione musicale, quella decisiva, si è compiuta attraverso corsi, seminari e masterclass, oltre e soprattutto ai molti anni di tirocinio svolti in affiancamento a maestri che ho avuto la fortuna di vedere lavorare “sul campo”, con l’opportunità di carpire le tecniche e gli approcci messi in atto con realtà corali soprattutto scolastiche e giovanili.

A quel punto è stato del tutto naturale intraprendere la strada proprio della coralità giovanile, che mi vede ora alla guida di due cori associativi e tre scolastici in altrettanti Licei di Varese e Saronno, che fanno parte, questi ultimi, di Coralmente, rete nata per diffondere la musica corale nelle scuole del territorio.

Raffaele Cifani

Come sappiamo, la scelta del repertorio è uno degli aspetti spesso più delicati per un direttore di coro, in particolare quando si ha a che fare con delle voci giovanili. Quali sono i criteri che adotti nella scelta dei brani con i cori che dirigi?

Pietro Paolini, Il concerto (circa 1620-1630)

La scelta del repertorio è davvero decisiva perché rappresenta l’aspetto che più di ogni altro determina l’appeal e il successo di un progetto corale, soprattutto per coloro che si approcciano per la prima volta al canto.

Il criterio che ho sempre seguito è quello di proporre un repertorio formativo, eterogeneo e stilisticamente vario, scegliendo brani che spaziano dalla polifonia al vocal pop, passando per il gospel e la world music; con il duplice obiettivo di fornire un’offerta didattica completa e di intercettare i gusti e le attitudini di una larga platea di potenziali coristi.

In particolare il vocal pop, che frequento assiduamente essendo anche arrangiatore di questo genere musicale, oltre ad essere estremamente attrattivo per i coristi in età giovanile in

quanto molto vicino al loro background musicale, possiede la caratteristica di articolarsi quasi esclusivamente nella “zona del parlato”, tessitura entro la quale risulta molto agevole cantare per le voci giovanili che, essendo in formazione, non hanno ancora un’estensione così sviluppata da permettere di gestire range troppo estesi, soprattutto nella zona acuta.

“Se poi si ha l’accortezza di scegliere arrangiamenti particolarmente ricchi dal punto di vista compositivo, dove sono presenti tecniche compositive di derivazione colta come le imitazioni o alcune figure retoriche, si ottiene anche l’obiettivo di rendere il pop spendibile nella preparazione dei giovani ad affrontare con maggior consapevolezza la polifonia, dove queste tecniche abbondano.”

Come sei arrivato alla scelta del Benedictus della Papae Marcelli di Palestrina e per quale dei tuoi gruppi lo hai pensato?

Didattica

Frequentando molto il repertorio pop, nel 2016 notai che il brano

Drones contenuto nel nuovo album dei Muse, non era altro che il Benedictus della Missa Papae Marcelli, cantato con un testo diverso dal sapore distopico e apocalittico. Questa singolare operazione, che rientra in pieno nello stile eclettico e visionario del celebre gruppo rock inglese, ha destato la mia curiosità suggerendomi l’idea di utilizzare questo brano come

ponte di collegamento tra il pop e la polifonia, costruendo un programma tematico che partiva dal Benedictus di Palestrina e terminava proprio con Drones Era l’occasione perfetta per proporre al Coro femminile Enjoy, che fino ad allora aveva lavorato prevalentemente sul repertorio pop, il primo brano polifonico, oltretutto caratterizzato da una tessitura comoda per un approccio che doveva essere propedeutico.

Come hai gestito il fatto che l’organico di quel brano è pensato anche per voci più gravi rispetto a quelle che avevi a disposizione? Hai avuto bisogno di fare trasposizioni?

Come hai fatto a capire quale sarebbe stata la trasposizione più adatta per le voci a cui stavi proponendo questo studio?

Come sempre quando si ha a che fare con il repertorio antico, ho interrogato le fonti più vicine possibile

all’originale, dalle quali emerge che il brano è scritto in ‘chiavette alte’ (chiavi di sol, mezzosoprano e contralto, ossia una combinazione di chiavi acute).

A quel punto, nonostante anticamente tale combinazione di chiavi fornisse ai cantori un segnale indiretto di necessaria trasposizione una terza o una quarta sotto, mi è parso naturale eseguirlo con un coro femminile

“così come scritto”, senza necessità di operare alcuna trasposizione (se non un abbassamento di un semitono per garantire maggior agio nel registro acuto); in forza del fatto che all’epoca, non esistendo il concetto di intonazione fissa che abbiamo oggi, c’era una grande libertà nell’adattare l’altezza dei brani agli organici che si avevano a disposizione.

Raffaele Cifani

Il Coro Enjoy diretto da Raffaele Cifani

Donne e uomini nella polifonia sacra del Rinascimento

Nel Rinascimento la polifonia liturgica era eseguita solo da cantori uomini: le parti di contralto erano cantate da uomini con voci naturali chiare (tenori acuti che sfruttavano le risonanze di testa), oppure da falsettisti e pueri (o da una combinazione di queste tipologie vocali); il soprano era assegnato normalmente ai fanciulli, talvolta raddoppiati o sostituiti da falsettisti, e solo nel tardo ‘500 iniziò a diffondersi, soprattutto a Roma, l’impiego dei castrati. Le chiavi assegnate alle varie voci per indicarne la tessitura richiesta erano solitamente quelle standard o ‘naturali’ (chiavi di do nelle posizioni di soprano, contralto e tenore; chiave di fa nella posizione del basso); tuttavia, alcuni brani potevano essere scritti nelle cosiddette ‘chiavette’, un termine che identifica una combinazione di voci con ‘chiavi trasportate’ alte (violino, mezzosoprano, contralto e tenore o baritono), molto diffuse fra i compositori italiani del ‘500. Vedere un brano impostato con queste chiavi acute implicava per l’esecutore un trasporto sottinteso, da realizzare all’impronta scegliendo un tono decisamente più basso (solitamente una terza, quarta o una quinta sotto), sia che si cantasse a cappella, sia in presenza di uno strumento da tasto d’accompagnamento (il cui strumentista era ben abituato a questi trasporti estemporanei).

Queste tessiture alte erano invece perfettamente congeniali in quei luoghi dove i cantori erano unicamente donne, ossia i conventi; in quel caso le suore per eseguire polifonia avevano più opzioni: scegliere brani notati in ‘chiavette’ ed eseguirli senza trasportare, sceglierne altri in chiavi standard ma sostituire il basso o tutte le parti troppo gravi con strumenti, oppure trasportare le voci problematiche un’ottava sopra (contrappunto permettendo).

Come hanno accolto la proposta le tue coriste, abituate a cantare generi musicali spesso così lontani dalla musica antica?

Non ti nascondo che inizialmente c’è stata una certa reticenza, più per mancanza di abitudine a frequentare questo linguaggio che per ostilità verso la musica antica.

Poi però, con l’andare del tempo e via via che si è sedimentata in loro la bellezza del linguaggio polifonico antico, anche grazie allo studio di altri brani simili, è accaduto ciò che capita sempre con tutti i cori che preparo quando passano dal pop alla polifonia: le coriste stesse hanno cominciato a chiedermi di ampliare sempre più il repertorio polifonico rispetto a quello pop dal quale avevano iniziato.

E questa è in assoluto una delle più grandi soddisfazioni che ricevo nello svolgere il lavoro di direttore di coro, perché significa che quell’approccio “morbido” e graduale alla coralità impostato sul pop di cui parlavo all’inizio, funziona davvero.

Dal punto di vista didattico, quali strategie hai adottato nel montare il brano anche dal punto di vista della vocalità? Quali sono state le difficoltà incontrate e come le hai affrontate?

L’impatto con questo nuovo linguaggio è stato tutt’altro che indolore, soprattutto relativamente alla capacità di orientarsi ritmicamente all’interno dell’intreccio polifonico, al gestire l’intonazione, all’abituarsi ad una maggiore tenuta di fiato sulle lunghe frasi legate.

Tutte difficoltà che sono state affrontate soprattutto grazie ad un percorso di vocalità attivato in parallelo alle prove di repertorio, che ha permesso di risolvere gran parte di queste problematiche, facendo anche crescere moltissimo il coro nei brani già studiati e in quelli affrontati successivamente.

Tra le altre strategie adottate nel montare il brano si è poi rivelato utilissimo l’utilizzo del metronomo, strumento didattico spesso “demonizzato” in ambito corale (soprattutto se utilizzato nel repertorio “classico”), ma che a mio avviso è determinante per instaurare nel coro una solida consapevolezza ritmica, che nel caso del Benedictus ha permesso di risolvere la difficoltà di muoversi con disinvoltura all’interno delle naturali oscillazioni agogiche insite nello stile polifonico antico.

Vista l’esperienza che tu e le tue coriste avete avuto nello studiare questo brano, pensi che anche in futuro avrete modo di affrontare

altri brani di polifonia rinascimentale? Perché?

Dopo il Benedictus abbiamo già affrontato altri brani rinascimentali e certamente proseguiremo su questa strada, perché sono convinto che la vera crescita di un coro, dal punto di vista vocale e musicale, sia possibile solo affrontando questo repertorio; anche per quei cori che, per scelta, decidono di dedicarsi solo a generi non “classici”, come ad esempio il pop. Nella mia personale esperienza con il Coro Enjoy, la crescita maturata nel repertorio pop non sarebbe mai stata possibile senza l’introduzione del percorso dedicato alla polifonia, in particolare rinascimentale, che ancora oggi rappresenta l’altra metà dell’anima del coro.

Ascolta! Il Coro Enjoy esegue il Benedictus della Missa Papae Marcelli di Palestrina

Rileggere la Missa Papae Marcelli

Intervista a Paolo Da Col, cantante e direttore dell’Ensemble

Odhecaton

a cura di Alessio Romeo e Silvia Perucchetti Indipendentemente dall’aneddotica, la Missa Papae Marcelli continua ad essere percepita come un unicum all’interno della vasta produzione compositiva palestriniana. È così? E se sì, perché a suo parere?

Vi sono compositori di fama che in realtà sono conosciuti ai più per una manciata di composizioni, a dispetto dell’enorme loro produzione, e tra questi vi è Palestrina: una messa tra oltre un centinaio giunte sino a noi, pochi favoriti mottetti tra quasi cinquecento. Il mito della Missa Papae Marcelli, eletta a strumento salvifico della polifonia sacra già nel primo Seicento, ha certo alimentato la sua fortuna, ma si tratta davvero di un capolavoro dalle qualità singolari. È una messa

monumentale, dall’organico di sei voci, ulteriormente ampliato nell’Agnus Dei II a sette voci in una fonte manoscritta del 1565 (il Codex Capellae Sixtinae 22), precedente dunque l’edizione del 1567 del Missarum Liber secundus; e appare nuova anche nel materiale tematico, che non deriva come avveniva più di consueto dal canto piano, né da composizioni preesistenti, benché molti vi abbiano cercato invano gli elementi che l’avevano ispirata. Lo stesso Palestrina, dichiarando

L’Ensemble Odhecaton diretto da Paolo Da Col a Bakonybél, 2023

Tecnica

Palestrina, inizio del Credo della Missa Beata Dei genitrix (manoscritto, circa 1595-1596Monaco, Bayerische Staatsbibliothek)particolare

nella prefazione dell’edizione d’aver creato una “nuova maniera” («novo modorum genere»), era consapevole della novità e dell’attenzione maggiore al trattamento della parola che vi si realizzava. Quest’anno studiamo ed eseguiamo un’altra messa di Palestrina a sei voci che le compare accanto in quel codice del 1565, forse utilizzato in quell’anno in un’audizione cardinalizia per valutare, secondo la volontà degli alti prelati, se le parole potevano essere bene intese («si verba intelligerentur»), la Missa Illumina oculos meos, su un mottetto di Andreas de Silva. Oltre ad aver rilevato che si tratta di un ulteriore capolavoro, vi ho trovato molte affinità con la Papae Marcelli: in particolare una scrittura che ricorre (nelle parti dal testo più esteso, il Gloria e il Credo) a procedimenti sincronici (le diverse linee vocali pronunciano assieme le stesse parole), grazie anche alla divisione delle sei voci in due semicori che esalta la declamazione e la chiara e intelligibile pronuncia del testo. Molte altre messe di Palestrina meriterebbero analoga fortuna.

In quali circostanze è nato il progetto di incidere la Missa Papae Marcelli?

Il progetto è nato dalla volontà di cimentarci con un’opera che molti prima di noi avevano eseguito e che quindi ci avrebbe imposto il confronto con una folta tradizione. Ma abbiamo in realtà voluto in qualche modo abbandonare la memoria di quanto già avevamo ascoltato, cercando di trarre profitto dalle caratteristiche vocali di un gruppo che voleva

Tecnica

ricreare, a partire dall’organico maschile, una situazione sonora affine a quella del tempo di Palestrina, pur sempre nella consapevolezza dell’impossibilità di ricreare un suono “originale”.

Quali sono i principali nodi interpretativi da sciogliere per chiunque affronti quest’opera?

Sono molti gli aspetti esecutivi da affrontare. Innanzitutto la scelta dell’organico, che abbiamo voluto ben folto (20 cantori), in modo che si avvicinasse a quello a pieno organico della cappella pontificia, che negli anni 1510 – 1586 annoverò tra i 20 e i 36

cantori. Contare su un organico di tre o quattro cantanti per voce permette un’articolazione più varia delle dinamiche, ovvero di alleggerire in qualche parte l’insieme riducendo di un cantante la sezione, così come potrebbe analogamente avvenire in un’esecuzione organistica ove si tolga un registro.

Altro elemento è la scelta del tactus, che dev’essere valutato sia sulla base di elementi teorici, sia su quelli pratici: ad esempio il tactus alla breve, da rapportare al tempo di Palestrina al tactus alla semibreve, secondo una prassi pragmaticamente confermata dalla valutazione della distribuzione dei fiati e

La Missa Papae Marcelli di Palestrina incisa da Odhecaton con la direzione di Paolo Da Col nel 2010

dalla effettiva cantabilità delle figurazioni più agili. Altri aspetti riguardano le opportune scelte relative all’accidentazione e alla più agevole sottoposizione del testo alla musica, che soprattutto nelle parti più melismatiche (Kyrie, Sanctus, Agnus Dei) sono affidate all’esperienza degli esecutori, in quanto riportate in modo molto succinto nelle fonti.

Come vi siete regolati relativamente al problema delle ‘chiavette’?

In generale tendo a non parlare di “chiavette”, termine coniato

a fine Settecento per cercare di definire quella che era stata sino ad allora una prassi corrente. In termini concreti, accadeva spesso che il compositore nella scrittura trasponesse il modo di una composizione da un tono a un altro mutandone le chiavi, mentre agli esecutori spettava il compito di rendere cantabili e suonabili le parti, valutando

Paolo Da Col (foto di Marco Caselli)

nell’esecuzione opportunità ed entità del trasporto. È quello che noi abbiamo fatto, trasportando alla quarta bassa, ma è quello che si praticava di norma quando il compositore presentava una certa combinazione di chiavi, ponendo ad esempio la parte del canto in chiave di sol o di violino, che era, come scriveva Adriano Banchieri, «più per gli stromenti, che per le voci». Gli ambiti vocali che si sono configurati col trasporto corrispondono alla sede naturale e più comoda per l’emissione delle tessiture vocali maschili, corrispondenti alle attitudini della nostra formazione vocale. Va osservato che l’esecuzione “come sta”, senza trasposizioni e naturalmente con le voci femminili, colloca le voci di tenore e basso in una tessitura estrema e scomoda, almeno nel contesto polifonico, e perciò conduce molte formazioni a operare un trasporto nel grave, seppure di minore entità.

A livello esecutivointerpretativo, che differenza c’è tra un’esecuzione della Missa in concerto e in sala di registrazione?

Ogni esecuzione vocale polifonica è l’esito di un lavoro di preparazione e di consuetudine reciproca tra i cantanti, che può garantire correttezza e qualità d’assieme. Ma è anche frutto di una particolare combinazione di umori, di sensazioni legate al momento. Con il pubblico, questa componente emotiva è ancor più presente, perché si crea un vivo rapporto di reciproca corrispondenza, che nessuna esecuzione registrata, se non dal vivo, può riprodurre. Lo abbiamo vissuto con evidenza durante il tempo delle chiusure per la pandemia, nelle fredde esecuzioni diffuse nel web senza pubblico.

A livello testuale si è appoggiato a un’edizione moderna o c’è stato anche un lavoro di controllo sulle fonti antiche?

Non ci siamo avvalsi di edizioni moderne, anche perché quando l’abbiamo registrata non era ancora disponibile l’edizione “definitiva” delle opera omnia del Missarum Liber secundus di Francesco Luisi. Siamo ripartiti dalle citate prime fonti disponibili, ovvero l’edizione del 1567 e il codice sistino per l’Agnus Dei II, che per la sua ricca struttura contrappuntistica (un canone a tre parti) e per la sua densità armonica non abbiamo voluto tralasciare, anche se sarebbe certo stato possibile applicare alla veste musicale del primo Agnus Dei il secondo testo («dona nobis pacem»), come l’edizione a stampa prevede. Le scelte delle alterazioni cromatiche accidentali e la sottoposizione del testo si devono dunque alle nostre scelte, che sono affidate anche all’esperienza dei cantanti che compongono il nostro gruppo. Palestrina, Kyrie della Missa Papae Marcelli a 6 voci, 1567 (Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica)

Un coro per tutti

Dalle cattedrali alle terapie intensive

La musica sacra come strumento di guarigione

Una sessione di analisi dello stress cardiovascolare

di Francesco Rocco Rossi professore incaricato di Semiografia della polifonia rinascimentale e di Storia della musica al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra di Milano e Riccardo Colombo dirigente medico membro dello staff del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale “Sacco” di Milano

Il progetto

Il Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra (PIAMS) ha avviato una collaborazione con il reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Universitario “Luigi Sacco” di Milano, diretto dal dott. Emanuele Catena. L’obiettivo di questa partnership è esplorare l’impatto che la musica polifonica sacra può avere nel ridurre lo stress cardiovascolare dei pazienti ricoverati in terapia intensiva.

La musicoterapia appare come uno strumento prezioso in diversi ambiti medici, in particolare nella cura di popolazioni vulnerabili, dove ha dimostrato effetti significativi sul benessere mentale, emotivo e fisiologico1. Infatti, le unità di terapia intensiva sono ambienti stressanti per i pazienti che sono spesso esposti a disturbi acustici (ad esempio gli allarmi dei dispositivi medicali), procedure invasive e una mancanza di privacy, fattori che possono esacerbare sentimenti di ansia e confusione, specialmente nei pazienti con condizioni di

1. Cervellin, 2011; Dain, 2015; Gutiérrez, 2015; Teut, 2014. Cfr. la bibliografia estesa al termine dell’articolo.

2. Mofredj, 2016, Golino, 2023; Hasegawa, 2020; Mata Ferro, 2023; Meghani, 2017.

3. Khan, 2018.

4. Chlan, 2013.

5. Hole, 2015.

salute fragili. L’ansia può influire negativamente sulla ripresa del paziente prolungando i tempi di recupero. La musicoterapia può contribuire a mascherare i suoni disturbanti e creare un ambiente più rilassante, aiutando a ridurre l’ansia e i livelli di stress cardiovascolare, come dimostrato dalla riduzione della frequenza cardiaca, senza ricorrere all’impiego di farmaci ansiolitici2. Inoltre, interventi musicali della durata di 2030 minuti hanno dimostrato la capacità di ridurre il dolore nei pazienti adulti in terapia intensiva che erano in grado di riferire autonomamente la propria percezione del dolore3 Pertanto, la musicoterapia può fungere da complemento ai trattamenti farmacologici, riducendo potenzialmente le dosi necessarie per il controllo del dolore e dell’ansia4

Ascoltare musica implica generalmente un processo cognitivo, che può essere influenzato dall’esperienza individuale e dalla consapevolezza di sé. In un’analisi sistematica di 73 studi clinici randomizzati, la musicoterapia applicata nel periodo perioperatorio (preoperatorio e/o intraoperatorio e/o postoperatorio) di interventi di chirurgia di varia tipologia, ha ridotto significativamente il dolore postoperatorio, l’ansia e l’uso di analgesici, e ha

Johannes de Ketham, Fasciculus medicine. Similitudo complexionum & elementorum (Venezia, Giovanni & Gregorio De Gregori, 1500)

aumentato la soddisfazione dei pazienti anche in quelli sottoposti ad anestesia generale5. Da queste considerazioni, vi sono i presupposti per ritenere che la musicoterapia possa avere una funzione favorevole sull’omeostasi fisiologica dei pazienti anche quando sono sedati, indipendentemente dall’elaborazione cosciente dell’ascolto musicale. In altri termini, la musica potrebbe avere un ruolo “terapeutico” per le sue proprietà intrinseche e gli effetti sull’attività del sistema nervoso autonomico. Infatti, i nuclei cocleari sono contigui ai nuclei del nervo vago e vi sono strette interazioni funzionali tra il nucleo del tratto solitario, il centro generatore del respiro e le

Un coro per tutti

Bibliografia

G. G. Berntson, J. T. Cacioppo, K. S. Quigley (1993), Respiratory sinus arrhythmia: autonomic origins, physiological mechanisms, and psychophysiological implications, «Psychophysiology», 30/2, pp. 183-196.

A. Brandolini (1498), De humanae vitae conditione et toleranda corporis aegritudine, Basilea, 1498.

A. M. Busse Berger (2008), The evolution of rhythmic notation, in The Cambridge History of Western Music Theory, a cura di T. Christensen, Cambridge: Cambridge University Press, 2008, pp. 628-656.

Aurelio Lippo Brandolini, De humanae vitae conditione, & toleranda corporis aegritudine, Basilea, 1541

Riccardo Colombo e Francesco Rocco Rossi durante una sessione di analisi dello stress cardiovascolare

vie efferenti simpatiche6 Purtroppo, i dati presenti in letteratura non forniscono risposte complete poiché sono estremamente variabili le caratteristiche della musica utilizzata, la durata e il timing del trattamento. Al fine di indagare l’ipotesi di un effetto terapeutico intrinseco alla musica sullo stress cardiovascolare abbiamo deciso di progettare una sperimentazione su circa 100 pazienti “critici”, sedati e ventilati in terapia intensiva, esposti a musica rinascimentale con caratteristiche intrinseche definite. L’analisi dello stress cardiovascolare verrà condotto in modo totalmente non invasivo (senza la necessità di prelievi o esami ulteriori rispetto a quelli standard) attraverso l’analisi integrata della variabilità del battito cardiaco, della pressione sanguigna e del respiro. La prima fase del progetto si è focalizzata sulla creazione di un team di esperti, composto sia da professionisti del settore medico che da studiosi di musicologia:

6. Berntson, 1993.

oltre al dott. Emanuele Catena, i dottori Riccardo Colombo, Beatrice Borghi, Elisa Ballone, Davide Ottolina e Antonio Castelli del reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale Sacco e Francesco Rocco Rossi per il PIAMS. Per avviare la sperimentazione, è stato fondamentale selezionare un repertorio musicale specifico. Considerando il focus accademico dell’Istituto Pontificio (musica sacra), abbiamo scelto di concentrarci sulla musica polifonica sacra del XVI secolo, in particolare su due compositori fortemente rappresentativi del periodo: Giovanni Pierluigi da Palestrina e Carlo Gesualdo da Venosa. Le loro scelte stilistiche, così diverse, sono sembrate ideali per osservare come differenti approcci musicali possano influire sui pazienti.

Da un lato il ‘contrappunto palestriniano’ si distingue per la sua ariosità, la chiarezza e l’equilibrio, mentre dall’altro la polifonia gesualdiana, più spigolosa e talvolta volutamente e aspramente drammatica, si contrappone in modo deciso

a quella di Palestrina. Ciò ci ha permesso di sperimentare due approcci compositivi che ci si aspetta possano generare effetti fisiologici differenti nei soggetti coinvolti.

È importante sottolineare che questa ricerca non intende osservare reazioni soggettive, come sensazioni di calma o ansia, ma si concentra su parametri misurabili e monitorati attraverso le tecniche standard di rilevazione in uso nelle terapie intensive. In questo modo, i risultati saranno oggettivi e scientificamente validi.

Ma – ci siamo chiesti – una sperimentazione di questo tipo che utilizza la musica rinascimentale, può considerarsi in qualche misura ‘agganciata’ a una qualsivoglia dimensione storica della musicoterapia?

O, in altre parole, l’idea che la musica rinascimentale possa avere una qualche influenza sul benessere psicofisico è un’idea solo moderna o trova riscontri nel passato?

A tal proposito può giovare un veloce excursus dall’antichità greco-romana al Rinascimento.

La musica come terapia dall’antichità al Rinascimento

L’idea che la musica potesse essere una fonte di benessere era profondamente radicata nella cultura del mondo antico. La prima e più nota applicazione del suo valore terapeutico in ambito psicologico ci porta

nell’antica Grecia (teoria dell’ethos musicale) dove particolari melodie chiamate nomoi furono classificate in base agli effetti che producevano:

diastaltiche (eccitatorio), esicastiche (calmante) e sistaltiche (deprimente). Questo legame tra musica ed ethos risale a prima di Pitagora (VI secolo a.C.) e successivamente venne ripreso anche nella Repubblica di Platone e nell’Etica Nicomachea di Aristotele7

Dal mondo classico antico queste teorie musicali si diffusero nell’Occidente latino grazie alle riflessioni di molti pensatori cristiani fra cui

Severino Boezio (ca. 480-524) e, in particolare, il suo trattato De institutione musica. Va ricordato che, a quell’epoca, la musica (ars musica) era una delle quattro discipline del quadrivium (insieme ad aritmetica, geometria e astronomia) e, quindi, era una delle quattro applicazioni possibili della matematica. Per questa ragione (semplificando al massimo), la musica veniva indagata perlopiù per quel che riguardava le sue proporzioni (nel ritmo e nella sostanza sonora) che si riteneva potessero avere un effetto benefico sull’essere umano.

Nel De institutione musica Boezio riprese la famosa tripartizione della musica in Musica mundana, Musica humana e Musica instrumentalis. La mundana era generata dalle sfere celesti che, muovendosi

secondo rigorose relazioni numeriche, producevano un suono talmente perfetto da non essere udibile dall’orecchio umano; la musica humana, invece, era un’emanazione di quella mundana e risuonava nelle relazioni armoniose tra i componenti psichici e fisici dell’uomo; anch’essa era impercettibile all’orecchio. Infine, il livello più basso della classificazione boeziana, la musica instrumentalis, denotava la dimensione sensibile; una vera e propria esperienza sonora, quindi completamente udibile, ma parecchio lontana dall’astratta perfezione delle due categorie superiori. Da Boezio questa concezione della musica arrivò fino al Medioevo e un altro step importante della riflessione musicoterapica fu il pensiero musicale del filosofo e medico Pietro d’Abano (1250-1316): nel Conciliator (1303) egli creò una sottocategoria della musica humana chiamata musica organica o musica pulsuale, focalizzata principalmente sul battito del polso.

Secondo lui il battito era organizzato con tre schemi ritmici ben ritmici (uno nei bambini, il secondo negli adulti e il terzo negli anziani) che di fatto coincidevano con tre degli schemi ritmici (detti

‘modi’) che governavano la polifonia dell’epoca secondo il sistema ritmico-modale illustrato dal teorico Johannes de Garlandia (attivo dal 12701300) nel suo De mensurabili musica8. Pietro d’Abano aveva quindi a disposizione un ampio repertorio di musica che, in caso di problemi, gli permetteva di regolare il battito arterioso. Il passo successivo ci conduce

G. Cervellin, G. Lippi (2011), From music-beat to heartbeat: a journey in the complex interactions between music, brain and heart, «European Journal of Internal Medicine», 22/4, pp. 371-374.

L. L. Chlan, C. R. Weinert, A. Heiderscheit, M. F. Tracy, D. J. Skaar, J. L. Guttormson, K. Savik (2013), Effects of patientdirected music intervention on anxiety and sedative exposure in critically ill patients receiving mechanical ventilatory support: a randomized clinical trial, «JAMA, the Journal of the American Medical Association», 309/22, pp. 2335-2344.

A. S. Dain, E. H. Bradley, R. Hurzeler, M. D. Aldridge (2015), Massage, Music, and Art Therapy in Hospice: Results of a National Survey, «J Pain Symptom Manage», 49/6, pp. 1035-1041.

7. Rocconi, 2004, pp. 77-89.

8. Busse Berger, 2008, pp. 628-631.

alle teorie neoplatoniche di Marsilio Ficino (1433-1499).

Partendo dall’idea della musica mundana, nel suo De vita coelitus comparanda (il terzo libro di De vita libri tres) innanzitutto Ficino associò i diversi tipi di musica a ciascun pianeta e poi ogni pianeta (e quindi ogni tipo di musica selezionata) a una particolare regione del corpo umano. Questa, di fatto, non era altro che una particolare applicazione della cosiddetta melothesia

(ossia cioè la corrispondenza tra le varie parti del corpo umano e lo zodiaco) che, sin dall’antichità, aveva tracciato legami precisi tra medicina e astrologia.

Questi principi (qui estremamente riassunti) furono i fondamenti filosofici più importanti per la costruzione del pensiero sulla musicoterapia nel Medioevo.

Melothesia, in Joannes de Ketham, Fasciculus medicine ... tractans de anothomia et diversis infirmitatibus, et corporis humani: cui annectuntur multi alii tractatus per diversos excellentissimos doctores compositi. Necnon

Anothomia Mundini, Venezia, de Gregoriis, 1513, c. a7re

Musica e medicina nei trattati rinascimentali

Ma queste riflessioni non furono limitate alla riflessione filosofica e permearono anche quella musicale, lasciando tracce in alcuni trattati che, sebbene molto lacunose e frammentarie, rivelano l’idea che la musica avesse potenziale terapeutico non solo per la psiche, ma anche per il corpo.

Nella sua Summa, il teorico musicale Johannes de Muris (XIV secolo) dichiarò, infatti, che «La musica è medicina e compie miracoli; attraverso la musica si curano le malattie, specialmente quelle generate dalla melanconia e dalla tristezza: mediante la musica si impedisce che qualcuno cada nell’abisso della disperazione e del dolore9». A ben guardare il corpus di trattati musicali tra il XIII e il XV secolo

J. de Muris, Summa (1784), in Scriptores ecclesiastici de musica sacra potissimum, 3 vols., a cura di M. Gerbert, St. Blaise: Typis SanBlasianis, (reprint ed., Hildesheim, Olms, 1963), 3: 190-248.

A. J. Golino, R. Leone, A. Gollenberg, A. Gillam, K. Toone, Y. Samahon, A. Meadows (2023), Receptive Music Therapy for Patients Receiving Mechanical Ventilation in the Intensive Care Unit, «American Journal of Critical Care», 32/2, pp. 109-115.

E. O. F. Gutiérrez, V. A. T. Camarena (2015), Music therapy in generalized anxiety disorder, «The Arts in Psychotherapy», 44, pp. 19-24.

Y. Hasegawa, M. Hoshiyama (2020), Effect of environmental music on autonomic function in infants in intensive and growing care units,

è molto ricco di affermazioni che praticamente si sovrappongono a questa e che giunsero fino al Rinascimento: nel XV secolo Johannes Tinctoris (ca. 1435-1511), uno dei teorici musicali più importanti dell’epoca, nel De inventione et usu musice dichiarò a chiare lettere che la musica guariva i malati e confermò questa affermazione inserendo il valore terapeutico fra i venti effetti della musica elencati nell’Effectus complexus musice (Seay, 1975–78). Particolarmente interessante (e un po’ più eloquente) è, invece, la riflessione dello spagnolo Bartolomé Ramos de Pareja (ca. 1440-1522), che andò oltre questi lapidari precetti e fornì dettagli musicali più specifici nel suo Musica Practica

(1482); egli imperniò la sua dottrina musicoterapica sulle quattro coppie di modi in uso all’epoca:

1) dorico-ipodorico (protus); 2) frigio-ipofrigio (deuterus); 3) lidio-ipolidio (tritus); 4) misolidio-ipomisolidio (tetrardus).

Collegò ciascuna coppia a uno dei quattro umori – protus / flemma, deuterus / bile gialla, tritus / sangue e tetrardus / bile nera – assegnando, quindi, alla musica di un particolare modo un effetto positivo sull’umore associato.

Merita una menzione anche il musicista Aurelio Brandolini (ca. 1454-1497), che nel De humanae vitae conditione et toleranda corporis aegritudine (1498), un trattato sulle malattie e le possibili guarigioni, tra i vari rimedi terapeutici suggerisce l’ascolto di musica sia vocale sia strumentale (Brandolini, 1498, p. 104).

Ma, al di là di queste indicazioni teoriche, la musica veniva realmente utilizzata come strumento per migliorare il benessere fisico? Pare proprio di sì!

Nel Medioevo e nel primo Rinascimento (fino a circa il 1450) venivano confezionati piccoli libri che afferivano alla particolare tipologia del tacuinum sanitatis, sorta di vademecum per il benessere personale. Essi contenevano brevi precetti sulle proprietà medicinali di varie sostanze e… non solo sostanze! Alcune prescrizioni sono, infatti, dedicate alla musica ritenuta in grado di conferire buona salute soprattutto se praticata in prima persona: si consiglia, infatti di cantare (cantare), organare cantum vel pulsare (cantare e suonare) e cantare et balare (cantare e ballare). Di tanto in tanto, poi, emergono interessanti testimonianze sull’uso terapeutico della musica in documenti di vario genere. Per esempio, da due lettere di Ascanio Maria Sforza (1455-1505) del 1497 apprendiamo che per lui la pratica esecutiva era una vera e propria panacea.

Fin qui ci siamo limitati a pochissime citazioni

9. Tradotto dal latino; De Muris, 1784, p. 196.

ritenute particolarmente significative. In realtà la ricerca ha dato (e continua a dare) un numero decisamente ‘importante’ di testimonianze in tal senso. Purtroppo, però, a parte le poche indicazioni fornite da Ramos de Pareja, non siamo in grado di risalire a quale musica (o a quale genere) venisse usata per i vari disturbi fisici o psichici. Ma se a tutt’oggi non siamo in grado di dare una risposta a questo interrogativo basandoci su fonti documentarie, possiamo ‘aggirare l’ostacolo’ analizzando la questione sul fronte prettamente medico, e per questo riteniamo di grande interesse un approccio ai fondamenti scientifici della pratica musicoterapica.

La collaborazione tra il PIAMS e il reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale “Luigi Sacco”, al di là dei risultati sul fronte prettamente medico, potrà, quindi almeno iniziare a disegnare l’identikit delle tipologie musicali ‘virtuose’ sotto il profilo musicoterapico individuandone i gesti melodici, ritmici e armonico-contrappuntistici più efficaci.

Ma per questo, dobbiamo aspettare i risultati della sperimentazione.

«Journal of Neonatal-Perinatal Medicine», 1373, pp. 395-401.

J. Hole, M. Hirsch, E. Ball, C. Meads (2015), Music as an aid for postoperative recovery in adults: a systematic review and meta-analysis, «Lancet», 386, pp.1659-1671.

S. H. Khan, M. Kitsis, D. Golovyan, S. Wang, L. L. Chlan, M. Boustani, B. A. Khan (2018), Effects of music intervention on inflammatory markers in critically ill and post-operative patients: A systematic review of the literature, «Heart & Lung», 47/5, 489-496.

M. Mata Ferro, A. Falco Pegueroles, R. Fernandez Lorenzo, M. A. Saz Roy, O. Rodriguez Forner, C. M. Estrada Jurado, A. Bosch Alcaraz (2023), The effect of a live music therapy intervention on critically ill paediatric patients in the intensive care unit: A quasi-experimental pretest-posttest study, «Australian Critical Care», 36/6, pp. 967-973.

N. Meghani, M. F. Tracy, N. N. Hadidi, R. Lindquist (2017), Part I: The Effects of Music for the Symptom Management of Anxiety, Pain, and Insomnia in Critically Ill Patients: An Integrative Review of Current Literature, «Dimensions of Critical Care Nursing», 36/4, pp. 234-243.

A. Mofredj, S. Alaya, K. Tassaioust, H. Bahloul, A. Mrabet (2016), Music therapy, a review of the potential therapeutic benefits for the critically ill, «Journal of Critical Care», 35, pp. 195-199.

E. Rocconi (2004), Mousikè téchne. La musica nel mondo greco, Milano, I.S.U. Università Cattolica, 2004.

A. Seay (1975-78), Johannis Tinctoris Opera theoretica, 3 vols., Corpus scriptorum de musica 22, Rome, American Institute of Musicology, 2: pp. 165-77.

M. Teut, C. Dietrich, B. Deutz, N. Mittring, C. M. Witt (2014), Perceived outcomes of music therapy with Body Tambura in end of life care - a qualitative pilot study, «BMC Palliative Care», 1371, p. 18.

Ascolta la 25° puntata - “Palestrina in corsia: guarire con la musica del Rinascimento”. Alessio Romeo dialoga con Francesco Rocco Rossi

Gli allievi della AERCO Academy

‘a casa’ del

Princeps Musicae

Un weekend a Palestrina

di Mirco Tugnolo

Direttore Generale AERCO

Il fine settimana del 21 e 22 febbraio 2025 ha visto la città di Palestrina trasformarsi in un vibrante centro di attività corali, grazie all’iniziativa dell’AERCO Choral Academy e alla collaborazione con i cori Musicanova ed Eos. Questo evento ha offerto un’esperienza unica sia per i partecipanti che per il pubblico, celebrando la ricca tradizione musicale della regione e l’eredità del celebre compositore rinascimentale Giovanni Pierluigi da Palestrina.

L’AERCO Choral Academy e la sua missione

L’Accademia Corale AERCO è dedicata alla formazione di direttori di coro, cantori e appassionati di musica corale. Offre corsi annuali e triennali in direzione di coro, canto gregoriano e formazione per coristi. L’obiettivo

Notizie

Gli allievi dell’AERCO Choral Academy e i cori Musicanova ed Eos si esibiscono in concerto nella Cattedrale di Palestrina
Gli allievi dell’AERCO
Choral Academy e i cori Musicanova ed Eos
ospiti della Casa di Giovanni Pierluigi da Palestrina

principale è fornire competenze e conoscenze approfondite nel campo della musica corale, promuovendo al contempo la diffusione della tradizione corale italiana.

Il weekend è stato organizzato come parte del percorso formativo dell’Accademia. Gli allievi hanno partecipato a

lezioni intensive che hanno coperto vari aspetti della direzione corale e dell’interpretazione del repertorio rinascimentale. Queste sessioni sono state arricchite dalla presenza del docente titolare di Tecnica della Direzione presso l’Academy, M° Fabrizio Barchi, coadiuvato dal M° Daniele Sconosciuto (anch’egli docente presso l’Accademia), e dalla possibilità di lavorare direttamente con cori di alto livello, come il Musicanova ed Eos.

Gli allievi dell’AERCO Choral Academy Il coro Musicanova

La masterclass su Pierluigi

da Palestrina

Uno degli elementi centrali del fine settimana è stata la masterclass intitolata “Pierluigi da Palestrina e il suo tempo”. Questa sessione ha offerto ai partecipanti l’opportunità di approfondire lo stile compositivo del maestro rinascimentale, esplorando le caratteristiche distintive della sua polifonia e comprendendo il contesto storico e culturale in cui ha operato. La masterclass ha sottolineato l’importanza di un’interpretazione storicamente informata, fornendo strumenti pratici per eseguire la musica di Palestrina con autenticità e sensibilità.

Il concerto nella Cattedrale di Sant’Agapito

Il culmine del weekend è stato il concerto serale del 22 febbraio, tenutosi nella maestosa Cattedrale di Sant’Agapito a Palestrina. L’evento ha visto l’esibizione del Coro Musicanova e del Coro Femminile Eos, entrambi diretti dal Maestro Fabrizio Barchi. Il programma del concerto ha incluso una selezione di brani polifonici che hanno spaziato dal Rinascimento ai giorni nostri, offrendo al pubblico un viaggio musicale attraverso i secoli. Un aspetto distintivo di questo evento è stata la sinergia tra i cori professionisti e gli allievi dell’AERCO Choral Academy.

Gli studenti Cristina Del Tin, Cecilia Bassani, Federico Murero, Ekaterina Ponchak, Germano Boschesi, Consuelo Avoledo, Maura Zoni, Elisabetta Gianfrancesco, Mariassunta Pepe e Vinicio Lulli, hanno avuto l’opportunità di dirigere queste formazioni pluripremiate, mettendo in pratica le competenze acquisite durante le sessioni formative. Questa collaborazione ha arricchito l’esperienza educativa degli allievi, permettendo loro di confrontarsi con standard esecutivi elevati e di apprendere direttamente da cantori esperti.

La scelta del repertorio

Il repertorio selezionato per il concerto ha riflettuto una

Notizie

profonda connessione con la tradizione musicale di Palestrina: oltre a eseguire opere del compositore omonimo, i cori hanno presentato brani di altri autori rinascimentali, evidenziando l’evoluzione della polifonia sacra. La scelta dei pezzi ha permesso di mettere in luce le peculiarità stilistiche di ciascun compositore, offrendo al pubblico una panoramica delle diverse sfumature della musica corale attraverso i secoli.

La Cattedrale di Sant’Agapito non è stata solo un semplice luogo di esibizione, ma ha svolto un ruolo fondamentale nell’esperienza complessiva del concerto. La sua architettura e l’acustica naturale hanno amplificato la bellezza delle esecuzioni corali, creando un’atmosfera suggestiva che ha avvolto gli spettatori. Eseguire musica rinascimentale in un contesto storico così significativo ha aggiunto profondità e autenticità all’evento, rendendolo

un’esperienza memorabile sia per i performer che per il pubblico.

Il ruolo della Fondazione

Giovanni Pierluigi da Palestrina

La Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina ha svolto un ruolo cruciale nell’organizzazione e nel successo dell’evento. Ospitando gli allievi dell’Accademia e facilitando le attività del weekend, la Fondazione ha dimostrato il suo impegno nel promuovere la cultura musicale e nel preservare l’eredità del celebre compositore. La collaborazione con l’AERCO Choral Academy e i cori partecipanti ha evidenziato l’importanza di sinergie tra

istituzioni culturali per la realizzazione di progetti di alto valore artistico. Un grazie particolare va quindi rivolto al Presidente della Fondazione, il Dott. Marco Angelini, il quale ha collaborato fattivamente (insieme al suo prezioso staff) alla realizzazione di questa due giorni di musica corale. Il weekend corale a Palestrina ha rappresentato un esempio luminoso di come la collaborazione tra istituzioni educative, cori professionisti e fondazioni culturali possa dar vita a eventi di grande rilevanza artistica e formativa. Attraverso masterclass, sessioni formative e performance pubbliche, l’AERCO Choral Academy, insieme ai cori Musicanova ed Eos sapientemente preparati

Il coro Eos

dal M° Barchi, ha celebrato la ricca tradizione corale italiana, offrendo al contempo opportunità di crescita e apprendimento per le nuove generazioni di musicisti.

A Casa di Palestrina

Dal museo alla biblioteca, dai concerti all’attività musicologica, al grande progetto dell’Edizione nazionale delle opere del compositore

Notizie

a cura di Marco Gambini

Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina

Giovanni Pierluigi da Palestrina ritratto da anonimo nel 1566, esposto nella Casa Museo del compositore (foto di Matteo Pellegrini)

La Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina viene costituita il 31 gennaio 1973, presso lo studio del notaio romano Intersimone, dall’on. Angela Maria Cingolani, il prof. Antonio De Angelis, il prof. Lino Bianchi, il dott. Luigi Farina, il grand. uff. Giuseppe Lulli, il grand. uff. Pietro Giovannini, il dott. Luigi Puliti e dall’Accademia Internazionale Giovanni Pierluigi da Palestrina. Nel documento si scrive che la Fondazione ha lo scopo di valorizzare la figura e l’opera del Compositore nell’ambito vivo della sua città originaria, Palestrina. Per raggiungere tali fini si propone un ambizioso progetto: la raccolta e schedatura di quanto il Palestrina ha lasciato pubblicato o manoscritto e di quanto sul Palestrina è stato stampato; di promuovere la pubblicazione dell’intero corpus originario dell’opera palestriniana; di realizzare o favorire l’esecuzione dell’intera opera pierluigiana unitamente ad altre opere coeve; di diffondere e valorizzare a mezzo di conferenze, congressi, studi, concorsi e ogni altra forma di aggiornamento culturale la figura e l’opera del Palestrina, sia in senso lato che specialistico; di promuovere la ricostruzione e l’utilizzo della casa natale del Palestrina, come sede della Fondazione e delle sue attività.

Notizie

La Fondazione ha potuto godere nel proprio seno dell’opera di personalità illuminate, che hanno a essa dedicato quelle energie artistiche e operative necessarie per conferirle un assetto istituzionale di grande respiro.

Ne testimoniano i riconoscimenti avuti da molte università italiane ed europee con cui l’istituzione mantiene proficui scambi, le accademie e le fondazioni e le associazioni musicali e artistiche consorelle.

Per la conoscenza e la diffusione della musica del Palestrina, della polifonia in genere e, soprattutto, per un esatto impiego e approfondimento della vocalità antica, la Fondazione

ha promosso, a Palestrina e in Italia, centinaia di concerti, con complessi di alta qualificazione e professionalità e con cori amatoriali provenienti da tutto il mondo, valorizzando al massimo questo genere di iniziative, preziose per la vita musicale e sociale. Corsi e seminari di musicologia e sulle arti vocali hanno rappresentato la base didattica di un vasto panorama di iniziative che hanno toccato scuole, associazioni, enti concertistici e il mondo della cultura in genere. Specialisti di tutto il mondo sono stati chiamati a Palestrina e a Roma a riferire sulle più recenti scoperte relative allo stile del Compositore e dei musicisti a lui contemporanei, alle fonti e all’esegesi storiografica. Tre congressi (1975, 1986 e 1994) dedicati al Palestrina e l’Europa, convegni dedicati all’eredità barocca dello stile palestriniano (Convegno su Francesco Foggia, 1988; Convegno su Ruggero Giovannelli, 1992 e Convegno su Orazio Benevoli, 2019) hanno catalizzato, oltre il mondo degli specialisti, anche la più giovane musicologia italiana uscita dalle università e dai conservatori del nostro paese. A questi appuntamenti si sono aggiunte le giornate di

La Casa natale del Pierluigi a Palestrina, oggi sede della Fondazione

studio dedicate ai Protagonisti e capolavori della Scuola Romana (2002), Palestrina e Orlando di Lasso (2008) e Dante e la musica del suo tempo: filosofia e musicologia a confronto (2021, in collaborazione con l’IBIMUS, Istituto di Bibliografia Musicale, di Roma).

I frutti del lavoro congressuale, come anche quello, cospicuo e prezioso, delle ricerche bibliografico-musicali sulle fonti palestriniane (è in atto il censimento completo dei manoscritti e delle edizioni a stampa esistenti nelle biblioteche pubbliche e private e il materiale raccolto è a disposizione di studiosi e cultori nell’archivio della Fondazione su supporti magnetici, cartacei e digitali) si possono cogliere nel qualificato settore editoriale della Fondazione, un catalogo ricco di monografie e atti di rilievo scientifico prestigioso. I trentotto titoli finora pubblicati sono suddivisi in collane tematiche: Atti di Convegno; Riproduzioni anastatiche delle fonti palestriniane a stampa e manoscritte; Musica e musicisti nel Lazio; Storia della Cappella Musicale Pontificia e I quaderni della Biblioteca Pierluigi.

L’assetto istituzionale della Fondazione si è consolidato con l’assegnazione nel 1994 - da parte dello Stato - della Casa Natale del Compositore,

La

finalmente restaurata e resa accessibile al pubblico. Da allora, la struttura è stata arredata e attrezzata come Casa-Museo e Centro studi. L’edificio si sviluppa su tre livelli: al piano terra vengono ospitati una mostra bio-iconografica e il bookshop, al piano primo i visitatori possono ammirare due ritratti cinquecenteschi del Compositore - uno datato 1566 e acquistato nel maggio 2024 e l’altro dono della famiglia Barberini - parti di basso di mottetti palestriniani stampati a Venezia tra il 1594 e il 1603, il clavicembalo utilizzato da Lino Bianchi, stampe e incisioni ottocentesche e moderne a tema musicale.

Il terzo piano ospitata una importante biblioteca musicologica specializzata, annoverante diverse centinaia di edizioni del Cinque, Sei e Settecento, oltre a più di diecimila volumi di cultura musicale, che contribuisce a connotare la Fondazione come punto di riferimento, a livello non solo regionale, per gli studi e la ricerca musicali in genere, anche

Un grande, innovativo progetto editoriale: l’Edizione nazionale delle opere di Palestrina

Prevista in 40 volumi, pubblicati con la frequenza di uno o due l’anno, la nuova edizione critica delle opere di Palestrina riprende e innova l’impresa dell’edizione completa iniziata nel 1939 da Raffaele Casimiri (poi proseguita da Jeppesen, Virgili e Bianchi), il cui l’ultimo volume (n. 35), dedicato a composizioni sparse

di Silvia Perucchetti

per l’inserimento nel Servizio Bibliotecario Nazionale e la catalogazione dei titoli in OPAC. La Casa-Museo è tenuta aperta per sei giorni a settimana.

La Fondazione si è fatta promotrice dell’istituzione di un Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Cinquecentenario della Nascita di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Il Ministero della Cultura, con il DM n. 86 del 28 febbraio 2024, ha istituto il Comitato Nazionale per l’importante ricorrenza: alla presidenza dello stesso è stato nominato il dott. Marco Angelini, presidente della Fondazione Palestrina, e componenti sono personalità rappresentative sia del mondo musicale che delle professioni, accomunati dalla passione e dallo studio dell’opera del Palestrina. La direzione artistica delle attività è coordinata dal prof. Giancarlo Rostirolla, il prof. Johann Herczog, la prof.ssa Cecilia Campa e il M° Maurizio Sebastianelli, che hanno fatto propri indicazioni e suggerimenti degli altri autorevoli componenti del Comitato per la stesura del programma di iniziative, dai concerti ai convegni, dai corsi alle mostre, che si svolgeranno nell’anno palestriniano.

latine, italiane e non vocali, ha visto la luce nel 1999 a cura di Bianchi e Rostirolla; non si trattava comunque della prima iniziativa di questo tipo: l’idea di trascrivere criticamente e pubblicare tutte le sue composizioni si era già concretizzata nell’Opera omnia Ioannis Petraloysii Praenestini curata da Franz Xaver Haberl e pubblicata da Breitkopf & Härtel fra 1862 e 1907.

La nuova Edizione nazionale rappresenta una grande novità nel panorama degli opera omnia dei compositori: ogni volume è infatti pubblicato in due tomi che contengono due differenti versioni della trascrizione, moderna e semidiplomatica. L’edizione moderna è in partitura, con le chiavi antiche tradotte in quelle moderne, adottando le abituali consuetudini di indicazione della musica ficta (alterazioni desunte al di sopra della nota in corpo minore, alterazioni presenti nelle fonti accolte a testo a fianco della nota; segnalazione di ligaturae ed episodi in color; segnalazione, tramite parentesi quadre, del testo cantato ricostruito in quanto abbreviato nella fonte originale). A questa si aggiunge l’edizione semidiplomatica, vera novità del progetto, che «compie un primo passo decisivo verso le esigenze del moderno esecutore, nel rispetto assoluto della semiografia originale»: la forma grafica delle note è quella antica (notazione mensurale bianca), le indicazioni di mensura sono quelle originali, le voci sono sì sistemate in partitura, permettendo così di analizzare agevolmente l’intreccio a tavolino, ma si evita di spartire la musica in caselle di battuta, presentando la linea melodica Mensurstrich come l’avrebbe letta il cantore antico; alcuni interventi editoriali, oltre alla disposizione in partitura, tuttavia ci sono (da qui il prefisso semi-), e consistono nello scioglimento delle note in ligatura,

Notizie

nella correzione di errori (da cui nessuna fonte, antica o moderna, è immune), negli interventi di musica ficta e nella distribuzione delle sillabe del testo secondo grafia e norme normalizzate; ma l’aspetto notazionale è quello antico.

In aggiunta a ciò, vi sono allegati i fascicoli che contengono l’edizione anastatica della fonte antica principale (di solito l’editio princeps, ossia la prima edizione a stampa dell’opera), a libro corale o in libri parte, anch’essa una novità di rilievo rispetto alle edizioni critiche del passato.

Di grande importanza sono poi le indicazioni sul tactus da adottare che Francesco Luisi fornisce nell’introduzione al primo volume, questione tutt’altro che semplice dato che la polifonia sacra di quest’epoca spesso mostra, con apparente incoerenza (e spesso anche all’interno della stessa raccolta di un solo compositore), brani predominati da valori larghi sotto il C tagliato, altri con valori neri sotto la stessa mensura, altri ancora a valori lunghi ma sotto C, e altri ancora in note negre sotto C – una variegata casistica che sembra sia da mettere in relazione alla sempre più diffusa teoria degli ‘affetti’, impiegando i segni di tempo come mezzo per interpretare simbolicamente il contenuto del testo cantato piuttosto che per indicare con coerenza il battito alla breve o alla semibreve. Da qui, dunque, la necessità di differenziare le indicazioni di tempo dell’edizione moderna e di servirsi di semi-battute tratteggiate per dividere l’apparente tactus alla breve prescritto dal C tagliato quando si ritiene realistica invece la battuta alla semibreve, permettendo così all’esecutore di entrare nel vivo del dibattito musicologico sulla prassi esecutiva e guidandolo nelle possibili soluzioni.

Ascolta la 26° puntata

“I custodi del princeps musicae”. Alessio Romeo dialoga con Johann Herczog

Il frontespizio del Missarum liber primus di Palestrina (1554)

L’Edizione nazionale delle opere di Palestrina: la veste grafica della coperta

Scopri la Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina Vicolo Pierluigi, 3 - Palestrina (RM) Tel. 06 9538083 fond.palestrina@tiscali.it

L’edizione semidiplomatica

L’edizione moderna
L’edizione in facsimile

Notizie

Mai più senza... polifonia!

Il corso AERCO dedicato al Rinascimento

e la sua formula innovativa, dalla pandemia a oggi

Gli allievi del corso

“La

di Silvia Fanti corista

Il 2020, anno della pandemia, fu un annus horribilis per i cori: tutti furono costretti a sospendere l’attività e parecchi non sono, purtroppo, mai più riusciti a riprenderla. Alla fine dell’anno mi trovavo in uno stato di profonda “prostrazione musicale”, una vera e propria crisi di astinenza dalla musica, dopo oltre 30 anni di pratica in cori amatoriali dal vasto repertorio sacro di ogni epoca, dal gregoriano al contemporaneo. Una (benedetta) sera mi imbattei in un post di AERCO che pubblicizzava un

polifonia rinascimentale in coro” in visita alla Biblioteca Estense di Modena

corso online e in presenza, in sicurezza: “La polifonia rinascimentale in coro, teoria e pratica: dalle fonti antiche al cantar insieme”. Dopo due minuti e due click mi ero già iscritta: sarà stata la crisi di astinenza musicale, sarà che cantando i capolavori di quei compositori mi ero sempre chiesta come “funzionasse” ai loro tempi la pratica corale, sarà che, per motivi familiari, sono cresciuta a pane e libri: di corali manoscritti e volumi di musica a stampa ne avevo già visti tanti, senza capire fino in fondo… insomma, con grande entusiasmo e immensa curiosità iniziai a seguire il corso. Mi si è, letteralmente, aperto un mondo e da allora non ho più smesso. Il corso si è ripetuto annualmente, ora sono già al quinto anno e non riesco a immaginare un futuro senza il mio amato corso di polifonia. Crea dipendenza!

Il corso è tenuto da Silvia Perucchetti, musicologa esperta, disponibilissima e, soprattutto, entusiasta di ciò che insegna. Ogni incontro è un tassello in più per aiutare a comporre il grande mosaico della musica rinascimentale. Tutti gli aspetti del “far musica” sono considerati: il posizionamento fisico dei cantori nel contesto dell’esecuzione musicale tramite l’esame dell’iconografia, dalla quale si ottengono anche spunti di organologia, la produzione della musica a stampa e le tecniche tipografiche, la lettura dalle fonti, che ho trovato sorprendentemente facile, tutto sommato, una volta acquisiti alcuni principii di base. Molto intrigante il cercare di spogliarsi delle nostre nozioni musicali, frutto di un’esperienza plurisecolare post rinascimentale, e di porsi di fronte alle fonti con la mentalità dei cantori di allora

- che pure avevano competenze e capacità oggi assolutamente rarissime - dimenticando le moderne concezioni di tempo e tonalità e accettando che non tutto ciò che deve essere eseguito debba per forza essere scritto, dato che all’epoca venivano considerati ovvî alcuni concetti che oggi non lo sono.

Negli incontri online si affronta la parte teorica, con l’uso di slide che sono poi messe a disposizione dei partecipanti, così come la registrazione di tutte le lezioni. In ogni momento si possono porre domande in assoluta libertà e ciò consente di soddisfare tutte le curiosità dei partecipanti che, in parte, sono affezionati frequentatori da anni; molti altri se ne sono aggiunti ogni anno, grazie anche alla possibilità di usufruire dei contenuti tramite la piattaforma Sofia per insegnanti. Il taglio divulgativo, ma tecnicamente serio, permette la partecipazione non solo di musicisti e direttori di coro ma anche di amatori con conoscenze teoriche più o meno avanzate. Trovo la scelta di condurre una parte del corso online particolarmente indovinata, poiché consente la partecipazione anche a persone che vivono al di fuori dei confini regionali e addirittura nazionali. Notevoli gli innumerevoli spunti bibliografici forniti da Silvia, che è anche esperta catalogatrice di fondi librari e musicali ed è sempre a disposizione per chiarire dubbi, correggere trascrizioni e commentare esecuzioni: il corso ha, infatti, un approccio laboratoriale che permette, a chi lo desidera, di misurarsi nella trascrizione di brani dalla notazione antica e di porre quesiti anche particolarmente specialistici.

Notizie

Gli allievi del corso “La polifonia rinascimentale in coro” in visita alla Biblioteca Estense di Modena

Il Musices liber primus di Diego Ortiz (1565) conservato nell’Archivio Storico Diocesano di Modena-Nonantola e il manoscritto α.F.9.9. (circa 1496) conservato nella Biblioteca Estense di Modena (foto di Marcello Romani. Su concessione del Ministero della CulturaGallerie Estensi, Biblioteca Estense Universitaria)

Le lezioni in presenza, concentrate in alcuni weekend, sono l’occasione per mettere in pratica quanto appreso, favorendo gli scambi di esperienze interpersonali e il nascere di nuove amicizie grazie anche ai momenti conviviali che, trovandosi a Parma, sono di livello! Due giorni intensivi spesi a cantare, cantare, cantare: in gruppo davanti a un badalone, battendosi il tempo con la mano sulla spalla, leggendo dalle fonti, interrogandosi sul significato di ogni segno, cercando la giusta interpretazione tramite la sperimentazione di varie soluzioni, dirigendo a turno, il tutto preceduto da esercizi

per la cura della vocalità e dell’intonazione, che non fanno mai male…

Quasi tutti gli anni, al termine del corso, sono state organizzate “gite” altamente istruttive e congegnate appositamente per farci – se possibile –innamorare ancora di più della materia. Un anno siamo stati a Bologna, a visitare la collezione Tagliavini di antichi strumenti a tastiera; abbiamo visitato privatamente gli organi di San Petronio, dove abbiamo cantato al monumentale badalone, e il Museo internazionale e Biblioteca della Musica, dove è conservato il primo libro musicale a stampa.

La prima strofa dell’inno Conditor alme siderum di Palestrina con gli appunti del corso “La polifonia rinascimentale in coro”

Un altro anno abbiamo visitato il duomo di Parma e il complesso di San Giovanni Evangelista, con la sua grande sala affrescata e i libri corali esposti; abbiamo anche cantato nella splendida sacrestia antica. Ancora, a Modena, abbiamo visitato l’Archivio diocesano e cantato davanti al libro corale originale la Salve Regina di Ortiz… dopo secoli quelle pagine

hanno nuovamente risuonato! L’emozione è continuata alla Biblioteca Estense di Modena, che ci ha dischiuso i suoi tesori permettendoci di ammirare lo splendido volumetto manoscritto e finemente illustrato di Beatrice d’Este (il famoso manoscritto alfa.F.9.9, databile al 1495 circa) dal quale abbiamo cantato uno strambotto trattato a lezione. Distaccarci è stato davvero difficile! L’anno passato, al termine del corso, è stato organizzato un piccolo concerto nella chiesa parmense di S. Uldarico, nell’ambito di Voci nei Chiostri, dove abbiamo avuto la possibilità di eseguire ciò che avevamo imparato davanti a un folto pubblico entusiasta. Infine, una piccola rappresentanza degli allievi del corso ha accompagnato Silvia alla gremitissima presentazione del volume Voci e vocalità nella cultura occidentale, una raccolta di saggi edita da Armando, del quale è coautrice, al Museo della Musica di Bologna. In quell’occasione sono stati eseguiti alcuni brani tratti da fonti conservate nel Museo, alla presenza di musicologi di fama internazionale.

Che dire? “Mai più senza” sarebbe poco originale… ma quando mi sorprendo a fischiettare quella villanella che mi martella nella mente, quando mi faccio rapire da un libro corale esposto in un museo e provo a

L’offerta formativa di AERCO

L’Accademia AERCO, istituita nel 2019, è un centro di formazione d’eccellenza per la direzione e il canto corale. Nell’anno accademico 2024-2025 l’Accademia continua a offrire un percorso triennale per direttori di coro, corsi di aggiornamento per coristi e la Scuola Permanente di Canto Gregoriano; le lezioni si svolgono nei fine settimana presso La Casa della Musica di Parma, in accordo con l’Amministrazione Comunale. Grazie alla presenza di docenti esperti, l’Accademia offre un percorso completo che si rivolge a direttori, cantori, compositori e insegnanti, strutturato e qualificato per migliorare la pratica corale e approfondire la tradizione musicale: l’anno in corso ha coinvolto, ad esempio, docenti quali Tullio Visioli (esperto nella coralità infantile) e Martino Faggiani (maestro del Coro del Teatro Regio di Parma); Tecnica della direzione e Repertorio corale sono stati affidati a Fabrizio Barchi, Vocalità e consapevolezza a Marta Guassardo, mentre Daniele Sconosciuto ha curato Lettura della partitura e Lettura cantata.

Oltre all’Accademia è vasta e vivace anche l’offerta formativa promossa dalle Delegazioni provinciali: ogni provincia ha infatti attivato un proprio corso di alfabetizzazione musicale per coristi (Il coro studia!), a cui si aggiungono varie altre occasioni di approfondimento, come i corsi di vocal pop (a Modena), il corso Il coro ricorda (dedicato al canto popolare), e il corso di polifonia rinascimentale incentrato sulla lettura dalle fonti originali a cura di Silvia Perucchetti.

canticchiare – sommessamente eh, perché l’errore è dietro l’angolo! – per vedere “come suona”, quando capisco che, anche musicalmente, sono il frutto di ciò che mi ha preceduto e sento in me la gioia di riuscire a trasmettere a chi mi ascolta anche solo una minima parte di ciò che sto provando… allora sì che mi si è spalancato un mondo, un immenso e affascinante mondo, che senza i click di quella (benedetta) sera in piena pandemia, che mi hanno

letteralmente cambiato la vita, probabilmente non avrei mai conosciuto. Grazie AERCO, grazie Silvia per aver reso possibile tutto ciò!

Per informazioni dettagliate su programmi, docenti e modalità di iscrizione, visita il sito ufficiale dell’Accademia AERCO!

Alla corte del Principe della Musica

Vita e opere di Giovanni Pierluigi

da Palestrina nel film Palestrina

Princeps musicae di Georg Brintrup

di Lia Monguzzi fotografa e videomaker

e Andrea Caciagli regista e giornalista culturale

consulenza musicale di Alessio Romeo

Sulla vita e sulle opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina, tra i massimi compositori di musica sacra e profana del Cinquecento italiano, esiste una grande quantità di testi monografici e di raccolte delle sue composizioni musicali (la sua opera omnia fu pubblicata in venti volumi già a cavallo tra Cinque e Seicento), eppure soltanto il regista tedesco Georg Brintrup ha voluto dedicare

al musicista italiano un film. Palestrina – Princeps musicae, girato nel territorio de L’Aquila poche settimane prima del terremoto del 2009, mira a ricomporre i frammenti di una narrazione lunga secoli e dare volto e corpo alle ragioni per cui Palestrina fu definito “principe della musica”, finendo per influenzare celebri compositori della propria epoca e delle epoche che sarebbero venute.

Palestrina è l’unico compositore rinascimentale di cui si sia tramandata ininterrottamente memoria. Lo si è sempre cantato, anche nel Settecento e nell’Ottocento, fatto che ha contribuito ad alimentare sul suo conto una vera e propria mitologia del tutto ignara del fatto che il XVI secolo era stato caratterizzato dall’attività

SCHEDA DEL FILM

Palestrina Princeps musicae di Georg Brintrup

Italia, 2009, 52’, HD, colore

Produzione: Brintrup

Filmproduktion / Lichtspiel

Entertainment GmbH / ZDF / ARTE

Regia e montaggio: Georg Brintrup

Sceneggiatura:

Georg Brintrup, Mario Di Desidero

Fotografia: Benny

Hasenclever, Paolo Scarfò, Piergiorgio Mangiarotti, Oliver Kochs, Jorge Alvis

Interpreti: Domenico Galasso, Stefano

Oppedisano, Claudio Marchione, Renato Scarpa, Achille Brugnini, Remo Remotti, Giorgio Colangeli, Pasquale di Filippo, Franco Nero, Daniele Giuliani, Bartolomeo Giusti, Patrizia Bellezza, Francesca

Catenacci, Jobst Grapow

Direzione musicale: Flavio Colusso (direttore), Donatella Casa (direzione coro di voci bianche)

Cori: Ensemble

Seicentonovecento, Cappella Musicale di San Giacomo, Coro di Voci

bianche “J. J. Winckelmann”

Palestrina - Princeps musicae. Locandina del film (© www.brintrup.com)

di maestri molto diversi ma altrettanto grandi come l’inglese William Byrd o il fiammingo Orlando di Lasso che, come il film di Brintrup racconta, condivideva con Palestrina l’entusiasmo per le composizioni profane. Riprendendo la tradizione tradizione polifonica franco-fiamminga ma anche spagnola (Morales fu un esempio assai rilevante per il compositore), Palestrina selezionò con cura gli aspetti del linguaggio musicale del suo tempo che trovava più congeniali in una sintesi estremamente controllata e originale, evitando gli eccessi drammatici o la scrittura cromatica che sempre più connotavano l’opera dei suoi contemporanei. La sua concezione si potrebbe paragonare a quella del Petrarca che, nel suo stile di scrittura in volgare, seleziona soltanto un bagaglio lessicale molto specifico. Così Palestrina, anziché prendere tutti gli elementi possibili della musica del suo tempo, li seleziona e distilla, creando uno stile proprio dal carattere quasi metafisico, attraverso cui riesce a raggiungere vette di equilibrio e perfezione altissime.

Nel raccontarne la storia, Brintrup imposta la struttura narrativa del suo film sul montaggio alternato che intreccia una parte di mockumentary – le interviste fittizie ad amici e avversari

del Palestrina, interpretati da attori che danno loro voce sullo schermo – ad una parte contemporanea che segue la giornata del maestro di cappella Flavio Colusso e del suo coro intento ad interpretare le opere del compositore rinascimentale sullo sfondo della Roma odierna. Il regista, in un certo senso, tenta di ricostruire in forma visiva una polifonia che restituisce la ricerca musicale dello stesso Palestrina. I contemporanei del maestro cinquecentesco sono portati in scena da volti di spicco come Remo Remotti che interpreta Filippo Neri, fondatore dei Padri dell’Oratorio; Renato Scarpa nella parte di Monsignor Cotta, segretario della Cappella Papale e antagonista del Palestrina; Giorgio Colangeli e Franco Nero rispettivamente nei panni di Leonardo Barré e Domenico Ferrabosco, ex-cantanti della Cappella Papale. Fa da collante alle vicende narrate il giovane Iginio, ultimogenito del Palestrina interpretato

con efficacia da Domenico Galasso. Non manca la parte di ricostruzione storica che rende partecipe lo spettatore delle vicende di vita del Palestrina, talvolta turbolente e segnate da profondi cambiamenti, sia sul piano lavorativo e artistico sia sul piano personale.

La scelta di far parlare gli attori direttamente in macchina attraverso la forma dell’intervista in costume risulta un’idea interessante, ma la volontà del regista di avvicinare lo spettatore ai personaggi riesce tuttavia soltanto parzialmente, complice una fotografia senza chiaroscuri poco in grado di restituire le atmosfere rinascimentali che racconta. Inoltre, se nel 2009 le riprese video si confacevano agli standard televisivi dell’epoca, le stesse immagini riviste oggi non sembrano aver retto al passaggio del tempo, vittime del rapido avanzamento delle tecniche digitali al cui confronto la qualità visiva di

Gioacchino interpretato da Achille Brugnini in un fotogramma del film Palestrina

Princeps musicae di Georg Brintrup (© www.brintrup. com)

Salotto

questo lungometraggio risulta piuttosto obsoleta. Anche la scelta delle transizioni e della scomposizione visiva di alcune inquadrature, così come del ralenti e degli effetti visivi in 3D utilizzati per alcune sequenze, non sembra particolarmente efficace agli occhi dello spettatore contemporaneo.

Per le ambientazioni abitate dai personaggi, Georg Brintrup sceglie alcuni luoghi di cui Palestrina – Princeps musicae si fa testimonianza artistica. Ne sono un esempio due inquadrature che mostrano la Chiesa della Madonna del Lago a Santo Stefano di Sessanio (AQ) in due momenti vicini ma decisamente differenti: prima e dopo il terremoto de L’Aquila del 2009. Sfruttando i risultati delle scosse a scopi filmici, Brintrup decide di mettere in relazione il crollo dovuto al sisma con il tormento interiore di Palestrina e con i conflitti che imperversavano nella Roma del XVI secolo. In questo modo, oltre alla rappresentazione di momenti dimenticati della vita di Palestrina, il film è anche l’ultima documentazione visiva esistente di luoghi e opere d’arte aquilani perduti per sempre, come gli affreschi nel coro del Monastero della Beata Antonia e nella stanza quadrata del Palazzo Branconio.

Il regista tedesco sceglie di girare la parte del presente in bianco e nero, in contrapposizione alle interviste fittizie e alle ricostruzioni storiche messe in scena a colori. Il passato è dunque più vivido che mai, è presente visivamente più del presente stesso che mette invece in primo piano il suono e la ricchezza musicale delle opere che il coro interpreta. Così, nello svolgersi del lungometraggio, possiamo ascoltare le composizioni del Palestrina e apprezzarne l’espressione musicale ancor più della loro genesi storica che viene invece scarsamente indagata. Il film, infatti, per quanto godibile, da un lato presuppone già la conoscenza delle composizioni e di gran parte degli aspetti culturali del contesto in cui operò Palestrina, così da essere

La tonsura in un fotogramma del film Palestrina Princeps musicae di Georg Brintrup (© www.brintrup.com)

insufficiente a propositi divulgativi, dall’altro risulta carente per i suoi conoscitori a causa della presenza di banalizzazioni concettuali e di uno scarso grado di approfondimento. Rimane quindi ambigua la fisionomia del destinatario.

Non mancano poi alcune scelte musicologicamente discutibili. Nel film, ad esempio, viene riportato come veritiero il mito secondo cui l’esecuzione della Missa Papae Marcelli durante il Concilio di Trento avrebbe ‘salvato’ la musica polifonica dalla sua abolizione. La prima attestazione dell’avvenimento risale al 1607, vari anni dopo la morte di Palestrina, in uno scritto di Agostino Agazzari, ma tale vicenda si è rivelata tuttavia priva di fondatezza documentaria, come gli studi musicologici hanno oramai da tempo acclarato. Allo stesso modo, Palestrina – Princeps musicae insiste più volte sull’emancipazione del suono dalla parola, sostenendo che Palestrina abbia ‘liberato la musica’ dalla sua subordinazione al testo: un’affermazione altrettanto inesatta. Fin dal Duecento la scrittura polifonica aveva messo in primo piano la complessità di scrittura musicale, certe volte anche a discapito della comprensione testuale – al punto che Monteverdi ad esempio propugnerà la sua seconda prattica, incentrata sulla subordinazione della musica ai significati del testo, proprio in opposizione alla prima prattica dell’epoca precedente.

Nonostante queste imprecisioni storiche, una nota di merito va però ad una particolare accuratezza ricostruttiva: in una scena, è mostrato Palestrina al lavoro compositivo con l’ausilio di un liuto. Si tratta di una verità storica non scontata, dal momento che solo relativamente di recente gli studi musicologici hanno messo in luce questo aspetto della pratica compositiva.

Nell’approfondire la figura del Palestrina, il film riesce poi nel proposito di far conoscere al pubblico gli aspetti privati della sua vita, esplorando i conflitti intimi nascosti dietro alla sua grandezza artistica (le ambizioni musicali a cavallo tra sacro e profano,

Giovanni Pierluigi da Palestrina interpretato da Bartolomeo Giusti in un fotogramma del film (© www.brintrup.com)

la connessione con Roma e con la corte papale, le complicate rivalità) così come con la fede (il percorso per il conferimento degli ordini sacri poi non perseguito). Le parole di Iginio sono il tramite per entrare nei nodi sentimentali e familiari della vita di suo padre: il grande amore per la prima moglie Lucrezia, sposata nel 1547 e scomparsa prematuramente dopo trentatré anni di matrimonio, il dolore per la perdita del fratello Silla e dei figli Ridolfo e Angelo, morti a causa dell’epidemia di peste tra il 1572 e il 1575; senza tralasciare una nota di ironia nel raccontare il suo attaccamento al denaro, forse alla base della rinuncia ai voti per convolare a nozze con la ricca vedova romana Virginia Dormoli. Il secondo matrimonio rivela infatti la sua costante ricerca di una tranquillità economica come via d’accesso verso una serenità esistenziale che la sola fama non sembrava potergli garantire. In questo modo, la figura dell’osannato “principe della musica”, che ancora oggi svetta nel centro della città di Palestrina con il profilo marmoreo scolpito dal fiorentino Arnaldo Zocchi, scende dal proprio piedistallo per acquisire una tridimensionalità e fragilità del tutto umane.

Scopri e guarda il film

March 28 - April 1, 2026 | Lucca, Italy

PARMA, 21-23 NOVEMBRE 2025

Con il patrocinio di:

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.