Tra i girasoli anarchici - Here, there and everywhere Qui, là e in ogni dove

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PREFAZIONE

marco benazzi



Tra i girasoli anarchici Here, there and everywhere Qui, lĂ e in ogni dove

PREFAZIONE

marco benazzi

paolo domeniconi


Paolo Domeniconi Tra i girasoli anarchici - Here, there and everywhere / Qui, là e in ogni dove Progetto E-Editoriale a cura dello Staff Fanzinoteca d'Italia E-book auto-edito pubblicato marzo 2016 Tutti i diritti Copyright © riservati all’autore Supplemento a ‘Il Resto del Volontariato’ Registrato presso il Tribunale di Forlì n. 29/07 del 29/10/2007 Direttore Responsabile Gianluca Umiliacchi - Fanzinoteca d'Italia Edizioni, Forlì 2016 - Fanzine Italiane Aps

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Dedicato a tutti i battiti del mio cuore

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Ringrazio tutti quelli che hanno letto le pagine di questo romanzo dispensando critiche e consigli: Paola Medri, Tamara Mordenti, Marzia Persi, Maurizio Balestra, Marco Benazzi e Gianluca Umiliacchi. Ringrazio Gianluca per l’amicizia, la follia e le sue doti grafiche. Ringrazio Marco per la fin troppo affettuosa prefazione.

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Prefazione Un'antica leggenda narra della ninfa Clizia perdutamente innamorata di Apollo: quando il dio passava nel cielo trascinando con sé il sole, Clizia lo seguiva con sguardo sognante. Apollo tuttavia non era innamorato di lei e dopo nove giorni la trasformò in un girasole. Ecco perché il girasole rappresenta l’amore o, per meglio dire, l’amore non corrisposto. I girasoli anarchici sono i protagonisti di questo romanzo adolescenziale d'ambientazione romagnola e, come nella Guerriglia Gardening, termine coniato nel ‘73 da attivisti newyorkesi per inquadrare un’azione ambientalista non violenta ed anarchica, gli antieroi in questione partecipano attivamente alla lotta contro il degrado del mondo che li ospita, agendo contro l'incuria dell'immobilismo mentale cronico. Una storia in bianco e nero con una serie infinita di sfumature grigiastre dove l'anima perdente, istante dopo istante, si nutre di fierezza puntando al riscatto sociale, unica arma in suo possesso contro l'autodistruzione. L'anarchia citata nel titolo, porta il lettore a stendersi mentalmente sull'erba tenera di un prato per osservare le nuvole che, a poco a poco, prendono la forma dei nostri pensieri, cullate dolcemente da un vento caldo. Il microcosmo creato da Paolo Domeniconi, è popolato di ragazzi che rifiutano il ruolo di rispettabili, termine utilizzato impropriamente per categorie che tra gli altri includono politici e potenti. Preferiscono impugnare le armi da eterni paladini di cause perse e anche se uno solo di loro, da grande, imboccherà la strada del successo salendo a fatica i gradini della scala sociale fino a raggiungere i piani alti (quelli che solitamente sono a vantaggio di individui dediti a servire Mammona lasciando a Dio la misera offerta da elargire in occasione della funzione domenicale) lo farà sempre da perdente di successo, consapevole di essere una cellula anarchica (un girasole) che scardina il sistema dei Nobilis Homini dall'interno.

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Non è mai facile scrivere di un libro il cui autore è un amico di vecchia data, per “Tra i girasoli anarchici” non ho avuto alcuna esitazione perché mi ha ricordato che le persone faticano a comprendere che la felicità non è un dono gratuito, ma da conquistare.

Marco Benazzi

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Uno L’orologio con il cinturino rosso segnava le quattro del mattino. Era il quattordici giugno del 1974. La scuola appena terminata e una lunga estate nel destino. Seduti per terra in cima alla collina, Lonny e i suoi amici erano in attesa. Lontano, oltre la città, si insinuava nel cielo un leggero chiarore. La sera prima avevano preso la decisione dandosi appuntamento Là dove si Alza il Vento. Civetta aveva portato la ciambella, Stagno e il Gatto un po’ di frutta. Ghigo aveva trafugato delle ciliegie sottospirito. Erano usciti dalle loro camere in punta di piedi scivolando fuori di casa in silenzio per poi correre a perdifiato fino al luogo dell'appuntamento. L'idea era stata di Stagno. Il giovane sciamano del gruppo voleva stendere le braccia verso il sole nascente per assicurarsi la sua benevolenza. Lonny, il Rosso, Stagno, Zorro, il Gatto, Muriega, Civetta e Ghigo. Erano gli otto componenti di quella giovane banda. La zona precollinare disposta intorno a Campo Sud, il teatro delle loro scorribande. Il più piccolo aveva nove anni, il più grande doveva compierne undici. Davanti a loro una vita da mordere ad ogni passo. L’estate era il periodo di maggiore attività della banda. Vivevano quella stagione inseguendo spensierati le loro avventure. Spesso scimmiottavano le grandi epopee, conosciute davanti allo schermo della sala parrocchiale con l’incanto nello sguardo. Giocavano leggeri e sottili ignorando che da lì a poco sarebbe passato l'inverno. Un inverno che avrebbe strappato la vita di uno di quei piccoli eroi. Finalmente giunse il sole ad accendere la miccia del sogno. Si misero in piedi allargando le braccia. Non potevano sapere che avrebbero inseguito inutilmente quel sogno per tutta la vita.

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Laura si recava al cimitero tutti i martedì mattina. Aveva quasi settantanni e già da qualche anno abitava in una casa d’accoglienza fondata dal parroco di San Zaccaria. Aiutava il prete organizzando la cucina e svolgendo diverse altre mansioni. Ogni martedì, finito di riordinare il refettorio saliva in camera a prepararsi. Sopra una mensola c'erano delle fotografie. I ricordini dei suoi cari: le foto dei suoi genitori, di suo fratello Anselmo e di suo figlio Giorgio… Appesa alla parete trovava spazio una foto più grande in bianco e nero. Immortalava un gruppo di ragazzi. La foto, ingiallita, aveva oramai più di vent’anni. Risaliva a una lontana domenica di maggio. Si festeggiava il compleanno di Giorgio che tutti chiamavano Ghigo, vezzeggiativo col quale lo avevano ribattezzato fin da piccolo. Laura aveva preparato le tagliatelle al ragù e una torta alla frutta con panna e crema. Ghigo e i suoi amici, finito di mangiare, si erano messi in giardino a strimpellare le chitarre. Lei aveva preso in mano la macchina fotografica giocando al fotoreporter. Due anni dopo la morte di Ghigo, le capitò tra le mani quella fotocamera. Dall’immagine più bella ottenne un ingrandimento. Da sinistra verso destra la formazione: Zorro, con una lattina di birra in mano, Caterina che faceva la lingua mentre Lonny le toccava il sedere, Ghigo, che imitava Jerry Lewis, Stagno con quella faccia di chi è li per caso, il Rosso, con il suo sorriso da splendida canaglia con a fianco Alice, la sua ragazza quell’estate. Quando la sera Laura si preparava per dormire, scioglieva il concio dei capelli e mentre li spazzolava, spesso chiacchierava un po’ con quei ragazzi. La vita le aveva sottratto un frammento di cuore e ogni giorno doveva aggrapparsi a qualcosa per non cedere alla disperazione. All’insaputa dei protagonisti di quella fotografia, le cose stavano per cambiare. In qualche modo, anche se per poco, era di ritorno il colore... Il martedì che il destino aveva dato appuntamento alle loro emozioni,

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prima di uscire dalla sua stanza, Laura si sorprese ad immaginare cosa stessero facendo i ragazzi della foto in quel preciso momento…

Caterina si stava preparando da bere. I suoi grandi occhi nocciola sorridevano al piano di granito nero con venature rossastre mentre dalle sue labbra, disegnate sensualmente da un Michelangelo decisamente inspirato, usciva una vibrazione sottile, un motivetto che canticchiava tra sé: “why don’t we do it in the road...” La casa di Carlo aveva finestre grandi e luminose che si affacciavano sull’antica via che attraversava la città da est a ovest. Un aroma speziato pervadeva la stanza. Proveniva dai bastoncini d’incenso accesi sulla mensola accanto il televisore. Nell’aria musica rock anni sessanta. Caterina era appoggiata al mobiletto bar intenta a liberare dei cubetti di ghiaccio. D’improvviso avvertì l’uomo alle sue spalle. Il cuore ebbe un tuffo inatteso. Carlo le appoggiò lentamente una mano appena sopra i fianchi poi le sollevò la veste. Mentre una mano saliva a sfiorarle il seno l’altra la fece ruotare lentamente su sé stessa. La baciò sulle labbra, quindi le spinse la testa verso il basso costringendola ad inginocchiarsi. Caterina sapeva perfettamente cosa l’uomo desiderava e non aveva la minima intenzione di deluderlo. Dopo aver placato il proprio desiderio, Carlo la fece sdraiare sul morbido tappeto e percorse il suo corpo con le dita. Lo fece a lungo, senza fretta. Si prese tutto il tempo che voleva. Quando finalmente entrò in lei, Caterina avvertì un’intensa ondata di calore che la fece andare in uno stato di piacevolissima confusione. Si afferrò al bordo inferiore del divano e, mentre la danza dei corpi la lasciava senza fiato, cominciò a gemere di piacere. Più tardi, tornando a casa, la sua mente non venne neppure sfiorata dal benché minimo senso di colpa, i pensieri completamente impegnati a coccolare il ricordo degli attimi appena trascorsi.

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Tommaso stava per salire su un aereo diretto a Miami. Si trovava all’aeroporto internazionale El Alto di La Paz, in Bolivia, era in compagnia di don Alejandro Freitas, responsabile della missione di Santa Clara, situata proprio a metà tra la città di Santa Cruz e Cochabamba. Per tanti anni Tommaso aveva prestato servizio volontario come operatore sanitario dividendosi tra il centro grandi ustionati dell’ospedale di Cochabamba e la piccola infermeria della missione di don Alejandro. Il sacerdote lo osservò attentamente mentre sistemava il bagaglio a mano. Appariva molto diverso dal ragazzo sorridente e pieno di vita che aveva incontrato la prima volta vent’anni prima. Ora si trovava davanti ad un uomo magro, sui cinquant’anni, dall’aspetto malaticcio. Stava partendo, tornava in Europa per cercare di curare la terribile malattia che lui stesso aveva da poco diagnosticato. In appena cinque settimane la sua vita aveva subito una svolta repentina. Una svolta inaspettata per tutti tranne che per lui... Tommaso si era rivelato un medico generoso e capace, ma anche e soprattutto un uomo sensibile e premuroso. Una grave perdita per tutti. Il prete pensò dentro di sé che sarebbe stato costretto, suo malgrado, ad essere testimone dell’ennesima ingiustizia terrena. L’altoparlante chiamò i passeggeri al check-in. Don Alejandro salutò calorosamente l’amico medico e lo abbracciò. Poi lo seguì con lo sguardo mentre scompariva tra il via vai dei passeggeri che arrivavano e partivano nell’aeroporto della capitale boliviana.

Lorenzo era seduto sopra una panchina. Pochi minuti prima, apprendo la cassetta delle lettere, unitamente a bollette e spazzatura pubblicitaria aveva trovato la solita busta. Ora la stringeva tra le dita mentre osservava un punto lontano. Ogni volta che completava un romanzo ne spediva una copia ad alcune case editrici. Poi attendeva. Nella maggior parte dei casi non otteneva risposta. A volte riceveva una missiva contenente solo una breve dicitura.

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La prima volta aveva atteso con trepidazione. Sognava di essere convocato per discutere della pubblicazione. Finalmente giunse il primo riscontro. Una cartolina. Lo ringraziavano per essersi rivolto a loro, facevano notare le difficoltà economiche del momento e lo invitavano a continuare nello scrivere... Una stilettata sferrata con grazia e delicatezza. Dopo vent’anni e tredici romanzi, le tante sconfitte avevano minato profondamente la sua autostima. Oramai inviava i plichi dei propri manoscritti senza più la minima speranza. Continuava a farlo solo per un senso di rispetto che riteneva di avere nei confronti delle proprie creature. Mentre un sole a mezz’asta consolava le foglie dei tigli, aprì la lettera che teneva tra le mani. La lesse. Gli occhi, sottili fessure chiare, si strinsero appena un attimo. La ripiegò riponendola in tasca. Sarebbe finita insieme alle altre, nel cassetto dove andavano a morire le sue emozioni.

Stagno dipingeva. Tra tutti quelli immortalati nella vecchia foto, il più strano di tutti, il più folle e, per certi versi, anche il più vero, era sempre stato lui. Da qualche tempo abitava in una vecchia casa mezzo diroccata con annesso un capanno degli attrezzi che aveva trasformato nel proprio studio pittorico. Nel momento esatto in cui Laura sfiorava con lo sguardo sulla vecchia fotografia il volto semimbronciato di un giovane Stagno, a qualche chilometro di distanza la luce del tramonto lambiva il vecchio capanno con direzione sghemba. All’interno, un uomo ossuto e con lo sguardo attraversato da una vena di inquietante follia, era intento a dipingere una enorme tela con fare febbrile. Il soggetto appariva decisamente macabro: un corpo di uomo con la testa da demone si contorceva in una posa innaturale. La forza espressiva della pittura conferiva a quell’immagine un dinamismo decisamente angosciante. Attorno al collo di quell’essere metà terreno e metà infernale un cappio

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stringeva inverosimilmente una gola taurina. Era il suo modo di raccontare la realtà così come la percepiva, persuaso che la verità non risiedeva nel realismo ma nell’emozione che la tela sapeva trasmettere. Stagno si interruppe qualche istante e fece un paio di passi indietro per meglio osservare il proprio lavoro. Solo lui sapeva cosa rappresentava quel dipinto. In generale non amava spiegare, neppure ai suoi acquirenti, il significato recondito di ciò che, con tanta foga e tensione emotiva, faceva emergere dalle sue tele. Ma quella, in particolare, aveva un risvolto inconfessabile. Esprimeva l’essenza di una sua emozione che, volutamente, nascondeva. Dipingerla era anche un modo, forse disperato, per esorcizzarla. Il sole lo colpì sulla tempia come uno schiaffo. Odiava quando la luce giungeva da quella direzione perché lo disturbava creandogli delle false ombre. Diede una rapida e infastidita occhiata a quella luce inclinante che filtrava dal finestrone posto a ovest del fabbricato. La maledì istintivamente tra i denti, poi si avvicinò al cavalletto, lo spostò facendolo ruotare di qualche centimetro e tornò ad immergersi nella tela.

Alice sfogliava una rivista di moda. La più piccola di quella allegra brigata del tempo che fu, si trovava in un grande edificio direzionale di Milano. Lì era collocata la head-quarter di una multinazionale leader in campo farmaceutico. Il settore dedicato alla cosmesi era ubicato al quarto piano. Nella saletta d’attesa Alice attendeva di essere convocata dal suo direttore. Indossava un abito di cotone verde chiaro, dal taglio raffinato ed elegante. Ai piedi calzava un paio di scarpe nere con tacco vertiginoso. Quando fu invitata ad entrare, si alzò con involontaria seducente lentezza. L’incedere sicuro dimostrava in maniera lampante che l’uso di quei tacchi rappresentava per lei una condizione abituale. Il capo area, come al solito, rimase indifferente alla sua bellezza. La invitò a

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sedersi su una seggiola, probabilmente appositamente acquistata per la sua evidente scomodità. Voci di corridoio sostenevano che amasse farsi odiare… Per non smentire la sua fama di capo terribile, senza guardarla negli occhi neppure un’istante, la costrinse in pochi minuti ad accettare una destinazione a lei sgradita. Non ci fu il minimo spazio per sollevare obiezioni. Alice lavorava per quella ditta col compito di dimostratrice da più di un decennio. Era pienamente consapevole che, quando quell’omuncolo senza cuore, dal volto paonazzo ridicolmente incorniciato da una specie di lanugine rossastra, invitava il proprio sottoposto ad uscire dall’ufficio, non c’erano margini per cambiare le sue decisioni.

Diego aveva gli occhi chiusi. Nel fresco di una chiesetta romanica, il prete di campagna stava finendo di celebrare messa. Seduto in meditazione dopo aver dispensato l'eucarestia alle poche signore anziane che frequentavano la chiesa nei giorni feriali, ringraziava segretamente il suo Dio per i doni che generosamente offriva ogni giorno all’intero creato. Il prete si rialzò introducendo la preghiera finale, diede un paio di avvisi e impartì la benedizione. Conclusa la funzione si sfilò i paramenti e si diresse in canonica dove lo attendeva don Sergio, il vecchio parroco in pensione rimasto al suo fianco. “Vai in città?” gli chiese. “Si, accompagno Laura al cimitero poi devo fare un paio di commissioni. Hai bisogno di qualcosa?” Don Sergio scosse il capo. “No, era tanto per chiedere. Vuol dire che se ti cerca una delle tue tante donnine la consolerò io...” In quel momento apparve Laura. “Io sono pronta, Diego. Tu?” Il prete rispose con un cenno del capo poi aggiunse: “Un attimo che prendo le chiavi dell'auto. Non ti avvicinare troppo a don

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Sergio che oggi mi pare fin troppo arzillo”. Il vecchio prete sogghignò allargando le braccia. “Che vuoi, la carne è debole e l'uomo è uomo...” Laura finse una smorfia di disapprovazione poi seguì don Diego fuori dalla canonica. Insieme percorsero il vialetto che conduceva al parcheggio. A venti minuti di macchina dalla chiesetta, oltrepassata la città, un piccolo cimitero. Laura si avvicinò ad una lapide. Cambiò i fiori, diede una ripulita e baciò la foto. Don Diego, due passi più indietro, ad osservare la scena che ogni martedì si ripeteva da tanti anni.

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Due Luglio del ‘74 a Campo Sud. Nel cortile del condominio una donna sui sessantanni stava approntando una merenda a base di torta al cioccolato e limonata. Canticchiava un motivetto retrò mentre un gatto persiano la seguiva con lo sguardo. Era infastidito il felino da tutto quel trambusto, lui che avrebbe voluto godersi in santa pace la quiete e l’ombra. Poi arrivarono otto giovani tempeste armate di fucili ad elastici, dopo essere stati a caccia di lucertole lungo il fiume. Il Gatto, Muriega, Civetta, Asso, Lonny, Stagno, Zorro e Ghigo. Si presentarono nel cortile tutti sporchi e infangati. Tutti tranne Saverio che appariva lindo e pulito come se avesse appena fatto la doccia. Non a caso il soprannome che gi avevano appiccicato, il Gatto, gli calzava a pennello. Indossava un paio di pantaloni corti marroni, una camicia bianca a maniche corte e delle scarpe da barca. Aveva occhi grandi e seri ma sapeva scioglierli in sorrisi radiosi, soprattutto davanti ad una fetta di torta della nonna di Lorenzo. Sì perché la nonna Tea sapeva farli i dolci al cioccolato e pur di mangiarli, il Gatto sarebbe stato disposto persino a macchiarsela, la sua candida camicia di lino. “Che avete fatto di bello oggi pomeriggio, giovanotti? Quale roboante avventura avete inseguito?” A rispondere fu Pietro da lei stessa soprannominato Muriega dopo una scorpacciata di albicocche acerbe con conseguenti fenomeni intestinali: “Siamo stati alla Testa di Drago a caccia...” “Di rinoceronti?” domandò con fare canzonatorio la signora Dorotea. “Non ci sono rinoceronti vicino alla Testa di Drago!” Rispose serio Zorro. “Noo? Ma và?” lo prese in giro perfidamente Stagno. Quindi iniziarono ad abbuffarsi attorno al tavolo.

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Dorotea indugiò qualche istante ad osservarli mentre accarezzava la testa compiaciuta di Temistocle, il suo felide persiano. Muriega era biondiccio e lentigginoso, aveva una andatura a saltelli e una risata scoppiettante e contagiosa. Sicuramente il più furbo e mascalzone di tutta la nidiata, un ladro nato. Ne sapeva qualcosa Gildo, il proprietario del negozio di giocattoli giù al borghetto. Civetta doveva il suo nomignolo agli occhiali dalle lenti spesse che portava sul naso aquilino. Un tipo silenzioso e mite. Parlava poco anche perché, essendo balbuziente, non gli piaceva essere deriso. Era un bambino che aveva sofferto. I suoi amici lo sapevano senza che ne avessero mai parlato. Loro non lo deridevano, anzi, lo difendevano. Asso due giorni prima aveva tirato una palla di sterco nella schiena a uno stupidotto in Territorio Nemico, un certo Ceppo. Un gagio, grassone e stronzo. Ora avrebbe riso meno. Asso, quello che un giorno sarebbe diventato il Rosso, era un moro dagli occhi neri e le labbra grandi, con una grinta speciale che gli scorreva nelle vene da renderlo incosciente. Non pensava, faceva e, qualche volta ne pagava il conto perché suo padre non era un tenero, tutt’altro. Era vestito con una maglietta rossa e un paio di pantaloni bianchi, o almeno lo erano stati prima di scalare la montagna di argilla vicino al fiume. Nei piedi dei sandalacci di cuoio con le suole consumate dalle troppe frenate in bicicletta. Nello sguardo il vento... Lonny, era un bimbo timido e introverso, sempre nelle nuvole e dotato di fervida fantasia. Inventava storie che poi raccontava agli amici che lo ascoltavano in religioso silenzio, anzi coinvolti in uno stupore primigenio. Biondo, occhi verdi, andatura dinoccolata. Una pasta tenera nel cuore, che nella vita o lo avrebbe fatto volare o gli avrebbe trafitto l’anima. Stagno aveva capelli lunghi, mori e ribelli, come se non venissero mai pettinati e uno sguardo ricolmo di latente follia. Inventava nomi nuovi per i luoghi e per le cose.

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Parlava a volte come un adulto ma non come un adulto qualsiasi. Lui, figlio di un rozzo contadino e di una donna che non aveva finito le scuole elementari sapeva parlare come un letterato. Un letterato pazzo, ovviamente Diego era un grande mattacchione. Lo chiamavano Zorro perché aveva lo stesso nome dell’alter-ego dell’eroe mascherato in onda la domenica pomeriggio nel televisore in bianco e nero della mamma di Giorgio. Unico televisore del circondario, unico canale televisivo, unico eroe. Che poi nella vita di eroi non ne avrebbero incontrati tanti, era un altro discorso. Zorro era un morettino riccioluto, occhi vispi e furbi. Faceva il gradasso nel gruppo ma in fondo era un tipo mite, un allegro compagno di giochi per tutti. Giorgio era un tipo strano, a modo suo forse ancora più originale di Stagno. Passava sempre il limite in tutto. A soli dieci anni aveva già accomulato ossa fratturate e punti di sutura più di quelli del gruppo messi insieme. Spericolato e incosciente era un pericolo costante per sé e per gli altri, soprattutto per Zorro che lo seguiva passo passo. Biondino, occhi chiari, sempre vestito da signorino ma con una rabbia accesa nel cuore che era una cattiva consigliera. Per fortuna stravedeva per Asso e il giovane capobanda lo teneva d’occhio mentre cercava di frenarlo. Ci provava ma non sempre ci riusciva. Tutti lo chiamavano Ghigo, il tornado. Dopo la merenda il gruppetto si incamminò verso il campo dei cachi, in cima alla collina. Sotto di loro la cava di argilla. Stagno aveva rinominato ogni luogo e utilizzando quei nomi in codice comunicavano tra loro. Il gruppo di case dove abitavano era diventato Campo Sud, il campo dei cachi il Bosco delle Anime, la parte più alta di quella collina Là dove si Alza il Vento, il masso posto di traverso al di sopra della cascatella artificiale lungo il fiume la Testa di Drago, e così via. Giunti sul margine della via Savio, iniziarono a guardarsi intorno con attenzione. Oltre la via era Territorio Nemico. Per fortunain giro non c’era nessuno della banda rivale. La guerriglia era all’ordine del giorno... Attraversarono la strada e s’infilarono nel giardino dei Conti Carletti.

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Era una vasta tenuta contornata da una siepealtissima. Da un piccolo pertugio vi si poteva scivolare dentro per poi trovarsi in un fitto boschetto di conifere ad alto fusto. La banda solitamente attraversava il boschetto per sbucare nel campo di mais di Galoz senza essere visti da nessuno. In realtà qualcuno che li vedeva c’era: la coppia di cani Bobtail che, quando li annusava nell’aria, si precipitava al loro inseguimento. Ma non c’era nulla da temere. Li inseguivano solo per fargli festa. In quell’occasione Zorro gli aveva portato una sorpresa. “Vi piace la torta della nonna Tea?” chiese ai due bestioni pelosi scodinzolanti mentre gli porgeva la torta al cioccolato. Loro parvero gradire. Poi li accompagnarono fino al buco nella siepe che confinava con il campo di mais e li salutarono mugolando qualche istante. Oltre la siepe il campo di mais. Oltre il campo, il fiume. Risalendo la costa sud del fiume giunsero nuovamente alla Testa di Drago e poi si inerpicarono lungo la riva fino a giungere alla Casa del Colore. La Casa del Colore, così rinominata da Stagno, era una vecchia stamberga abbandonata che in passato era stata impiegata per l’allevamento dei bachi da seta. Ora, in attesa dell’inevitabile cedimento strutturale, fungeva da rifugio naturale per piccoli animali, insetti, serpenti, ragni e scorpioni. La giovane banda andava spesso a caccia in quel luogo. Armati di fucili ad elastici, fionde e cerbottane rovistavano nei ruderi alla ricerca di una preda da inseguire. I risultati erano spesso deludenti ma il divertimento assicurato. Stagno l’aveva ribattezzata in quel modo per via di un recente spavento. Quella stessa primavera, nella loro prima escursione dell’anno in Territorio Nemico, erano giunti nei pressi di quel casolare e Ghigo aveva insistito per entrarvi. Un po' intimoriti dal sinistro cigolare della struttura si erano inoltrati al suo interno con passo tremante e cuore che batteva all’impazzata. Forzata la porta d’entrata osservarono in silenzio l’interno poi, con molta cautela iniziarono l’esplorazione.

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Stringendo forte in mano dei bastoni da usare per scostare le tante ragnatele ed, eventualmente, colpire un possibile quanto improbabile nemico pericoloso, si addentrarono in silenzio. Al piano di sopra c’era una porta socchiusa che rimandava un sinistro rumore dovuto al cigolio indotto dal vento. Asso, il più coraggioso del gruppo, si fece avanti brandendo il grosso bastone. Spinse l’uscio e... Un esplosione di colore invase il corridoio dove si trovavano i ragazzini. Centinaia di farfalle colorate presero il volo passandogli vicino in un volo radente, sfiorando loro le braccia, i volti, i capelli. Farfalle che poi avrebbero imparato a conoscerne il nome: Papilio Machaon, per gli amici il Macaone. Una grande farfalla gialla e nera con la coda blu e un pizzico di rosso a formare una coppia di falsi occhietti ad ali spiegate. Apertura alare di otto centimetri, volo alto e pochissima necessità di riposare divenne il loro grande avversario nella caccia agli imenotteri colorati. Quel giorno dipinse nel semibuio di quella catapecchia uno spettacolo della natura che quei piccoli amici non avrebbero mai dimenticato. Nei pressi della Casa del Colore c’era un vecchio e altissimo ciliegio. Gli otto amici si arrampicarono fino a circa metà tronco. Ognuno a cavalcioni di un ramo iniziarono a mangiare le ciliegie lasciate superstiti dai vari uccelletti. Stagno e Zorro iniziarono la gara a chi sputava il nocciolo più lontano presto imitati da tutti gli altri. L’obiettivo era quello di colpire le finestre della casupola. Ad ogni centro seguiva una piccola ovazione. Fu in quel clima di spudorata felicità che Stagno invitò i suoi sette amici a formulare un patto solenne di eterna amicizia. Asso, Civetta, il Gatto, Muriega, Ghigo, Stagno, Zorro e Lonny si presero per mano e, guardandosi negli occhi l’un con l’altro, i piedi a penzoloni nel vuoto, si scambiarono una promessa. Un voto di eterna amicizia. Fece loro da testimone un cielo azzurro così sottile da apparire, attraverso la fitta trama dei rami, un elegante abito di pizzo.

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Quarantanni dopo quella solenne promessa, Caterina stava provando un abito azzurro di pizzo che avrebbe dovuto indossare la domenica successiva per la cresima di Elisa, la minore dei suoi figli. Lorenzo fingeva di non guardarla, la testa abbassata sui compiti da correggere. Con la coda dell’occhio invece ne ammirava le sembianze e le movenze. La donna aveva quarantasei anni ma poteva benissimo dimostrarne dieci di meno. L’esuberanza e la gioia di vivere che aveva posseduto a vent'anni erano rimaste pressoché inalterate. Lei si guardò allo specchio con fare compiaciuto e, pensando a quello che avrebbe detto Massimo, sorrise maliziosamente. Massimo era proprio un bel tipo. Maschio quanto bastava e soprattutto mai sazio di lei. Caterina sentiva proprio il bisogno fisico di quell'uomo. Certo, con Carlo la situazione cambiava radicalmente perché lui sapeva parlare. Era affascinata da quell’individuo colto e intelligente. La stimolava e, grazie alla sua frequentazione, stava tornando a scrivere poesie. A letto i due uomini si comportavano molto diversamente. Massimo si esprimeva ginnicamente, quasi un atleta. La spogliava sulla porta di casa e poi la trascinava, baciandola e toccandola dappertutto, fino al letto o al divano dove consumavano in maniera quasi animalesca un rapido amplesso. Non durava mai più di dieci minuti, ma erano attimi travolgenti. Caterina provava un piacere così intenso che a volte le capitava di continuare ad avvertirlo tra le gambe anche per ore, con piccole contrazioni interne che andavano e venivano creando ondate di calore. Carlo, invece da uomo molto cerebrale, le sfiorava lentamente ogni millimetro di pelle, parlando tutto il tempo con voce bassa e sussurrata. Scendeva con le labbra tra le sue gambe dove indugiava a lungo, facendole salire il desiderio fino a renderlo irrefrenabile. Poi quando entrava dentro di lei si muoveva piano roteando lentamente il bacino. Sovente un'ora non bastava al loro piacere. Caterina si trovava in una condizione invidiabile per una donna: amata da

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due uomini così diversi tra loro eppure, ognuno capace di regalarle il piacere più intenso ad ogni appuntamento. Purtroppo si trattava di incontri fugaci. Caterina faceva l'amore con due uomini diversi, ma divideva il letto con un terzo uomo, suo marito, con il quale non aveva più rapporti sessuali da oltre un anno. Gli voleva bene, anzi probabilmente lo amava. Forse amava persino i suoi difetti, ma non lo desiderava più. Caterina era una donna passionale con una grande voglia di vivere e di sentirsi viva. Suo marito invece stava completando la propria metamorfosi da uomo a topo di biblioteca. Passava tutto il tempo a studiare e scrivere. Insegnava italiano e latino nel liceo classico dove si erano conosciuti. Come padre non poteva rimproverargli nulla ma come marito… Mai un'attenzione, mai un complimento, figuriamoci un regalo. Come amante poi, era sempre stato un disastro. Dopo tanti anni si muoveva ancora in modo impacciato e soprattutto monotono, privo di fantasia. Due anni prima lo aveva tradito con un bagnino. Un rude atto sessuale consumato in piedi dentro una cabina. Fu catartico. Non tanto per il piacere in sé, ben poco in realtà, ma perché le permise di comprendere la sua insoddisfazione e anche cosa desiderava nel profondo: più vita... Continuò a guardarsi allo specchio poi soddisfatta ripose il vestito. In bagno si accorse che aveva finito il profumo e decise di andare a comprarlo. Prima di uscire si rivolse al marito: “Lorenzo esco un attimo. Hai bisogno di qualcosa?” “Come, cosa?” Lorenzo stava scrivendo e, come al solito, non aveva percepito una sola parola. Caterina non trattenne una punta di fastidio nella voce. “Esco. Hai bisogno?” “No, no, vai pure”. Caterina uscì. Non sopportava quel tono di voce del tipo:

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“Fai quello che ti pare basta che stai zitta”. Alzò le spalle e, appena in strada, compose un numero di telefono. “Ciao amore, ciao. Dove sei?” La voce calda e accogliente che le rispose la mise subito di buon umore.

Lorenzo si tolse gli occhiali. Scostò la tenda e osservò per qualche istante sua moglie. Si rendeva perfettamente conto che la stava perdendo… Nel pomeriggio, come del resto faceva ogni giorno, scese nei giardini pubblici sotto casa. Cinquanta metri di cammino e, dietro la grande fontana, una panchina a quell'ora del pomeriggio quasi sempre libera. Si sedette e lasciò la mente libera di vagare nei meandri dei pensieri. Da ragazzo era stato un tipo piuttosto belloccio, con un fisico asciutto e aitante. I capelli biondi portati molto lunghi in segno di libertà avevano incorniciato un viso regolare con due occhi sottili verde chiaro. Ora il fisico si mostrava appesantito e i capelli diradati. Da quando aveva cominciato ad insegnare, nonostante le proteste di Caterina, li aveva accorciati. Gli era sembrato che fosse più decoroso. Gli occhi chiari si erano ulteriormente annacquati. Il tempo e le sue storie lo stavano invecchiando. Mentre se ne stava seduto giocava con la mente. Spesso partoriva idee per soggetti strampalati. Da quella sua postazione osservava le persone che transitavano davanti a lui e li trasformava nei protagonisti dei suoi racconti. Un tempo, tornando a casa, ne parlava a Caterina poi aveva smesso. Era stata quella volta che lei aveva replicato al suo racconto con un distratto: “Ma dai!” Poi era tornata a laccarsi le unghie sul divano accendendo il televisore. Lorenzo aveva tradotto quel “Ma dai!” con un: “Adesso non ti mettere a parlare delle tue elucubrazioni che non mi va. Le

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odio. Odio te e odio tutto il tempo che ho passato al tuo fianco!” Da quella volta aveva smesso di confidarsi con la moglie. Lorenzo controllò l'orario. Si stava facendo tardi. Caterina doveva già essere rincasata. I loro figli, per un motivo o per l’altro erano tutti fuori casa. Petra durante la settimana abitava a Bologna dato che frequentava i corsi universitari. Riccardo quella sera usciva con i compagni di classe. Elisa, la piccolina di casa, era in Francia con la scuola per quel progetto di scambio culturale che Caterina aveva tanto criticato. Così erano soli. Loro due. Un'ora o forse più. Si incamminò verso casa. Poi indugiò qualche istante. Fermo sul marciapiede, guardava la gente passare. La vita era davvero un attimo poi non restava altro che una sottile reminiscenza che si affacciava alla mente di chi restava in vita. Poi, il nulla. Cercò di pensare a coloro che contavano davvero per lui: i ragazzi, ovvio, sua madre d’accordo. Ma chi c'era in cima alla lista dei suoi pensieri più profondi? Non ebbe neppure bisogno di pensare alla risposta. Rientrò a casa allungando il tragitto per una commissione e poi suonò il campanello di casa. Gli rispose una voce scocciata: “Chi è?” “Sono io Caterina, sei in casa?” “No, sono in farmacia... Cretino! Perché non ti porti dietro le chiavi di casa invece di fare domande stupide?” La risposta acida di Caterina lo toccò nell'orgoglio. Per la prima volta nella sua vita, Lorenzo reagì nei confronti della moglie con decisione e personalità. “Non fare la stronza e apri che non ho voglia di storie!” Per tutta risposta venne concesso lo scatto al portone di ingresso. Mentre Lorenzo saliva le scale di casa, Caterina era rimasta in piedi nel soggiorno col citofono in mano, basita dalla controrisposta del marito. Appena lo vide entrare in casa gli chiese: “Qualcosa non va?”

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“Niente di che…” rispose, “Ti ho portato due cose”. Lei lo guardò stupita quasi avesse visto un marziano uscire nudo dal bagno. Lorenzo le stava porgendo un mazzo di rose rosse. “Sono bellissime caro… E l'altra cosa?” L'altra cosa era un ceffone sul volto. Beninteso uno schiaffo più sonoro che doloroso. Non voleva farle del male. Non ne sarebbe stato capace. Caterina rimase in piedi con il mazzo di rose in mano inebetita e stupefatta, incapace di replicare. Nemmeno un gemito. Lorenzo colse quell'attimo di anomala indecisione nella moglie e la prese per un braccio trascinandosela dietro in camera da letto. Lei, stupita e spaventata, cercò di opporre resistenza ma la risolutezza di lui ebbe la meglio. In camera la spogliò selvaggiamente come impossessato da un altro sé stesso. Dopo averla denudata, la prese con forza, quasi brutalmente, ma con il passare dei minuti, con maggiore tenerezza fino a coccolarla dolcemente. Mentre l’accarezzava piangeva in silenzio. Lei dapprima cercò di resistere a quella aggressione inaspettata poi, in qualche modo comprese, riuscendo nel difficile tentativo di lasciarsi andare. Fu la prima volta che provò un orgasmo tra le braccia di suo marito.

Era stato il suo ultimo volo. Tommaso ne era consapevole. Non che il pensiero di per sé lo rattristasse, però lo costringeva a tornare con la mente al suo primo volo. Quando nel febbraio del ‘92 salì su quell'aereo, parafrasando Bhertold Brecht, lungo la rotta del sud, Tommaso non si figurava minimamente tutto quello che sarebbe accaduto in vent’anni. Non avrebbe mai potuto neanche lontanamente immaginare tutti gli incontri, le amicizie, le lotte, le tragedie e le disperazioni. Era emozionato, quasi intimorito, certamente eccitato per ciò che stava per accadergli. Provava anche un sentimento di tristezza latente per via della sua storia d’amore appena conclusa. Il sapore di lei gli era rimasto sulle labbra e quel

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profumo di donna era penetrato così tanto profondamente sotto pelle da accompagnarlo per molti anni nelle sue notti insonni. Mancava ancora un'ora e poi sarebbe salito su un treno che lo avrebbe riportato nella sua città natale lasciandosi alle spalle la sua seconda vita. In Bolivia era approdato a ventotto anni ed ora, a quasi cinquantuno, rientrava a casa. Per la seconda volta nel corso della sua esistenza chiudeva la porta degli affetti e dei rapporti consolidati per approdare all'ignoto. A Cesena, in tutti quegli anni, era tornato solamente due volte per partecipare a delle esequie. La prima volta, neppure due mesi dopo la sua partenza, era morto Ghigo. L’anno successivo entrambi i suoi genitori. Oramai nulla in quella città rappresentava per lui la parola casa. Sì, c’erano i vecchi amici, con i quali aveva mantenuto un rapporto di corrispondenza, in particolar modo con Lorenzo. Sospirò. Nel paesino boliviano dov'era stato adottato e si era realizzato come uomo veniva considerato una figura importante, si potrebbe dire anche vitale. Andarsene per curarsi lo costringeva a provare una profonda tristezza ma anche un sentimento di inutilità e di vergogna. In ogni caso, col procedere della malattia, non sarebbe stato di aiuto più a nessuno. Questo lo capiva benissimo. Inoltre, i responsabili del progetto ospedaliero, già costretti ai salti mortali per fare quadrare i conti, erano stati molto chiari: doveva rientrare in Italia. Non potevano sobbarcarsi i costi delle cure che gli sarebbero state necessarie. Il regolamento non ammetteva eccezioni: erano accetti medici volontari solo se in stato di buona salute. Un cancro ai polmoni evidentemente non rientrava nel novero della sana e robusta costituzione. Si accese una sigaretta. Non avrebbe dovuto ma, oramai, una sigaretta in più o in meno non poteva cambiare le cose. Al terzo tiro però avvertì una fitta dolorosa che gli annebbiò per qualche istante la vista costringendolo a spegnere il mozzicone. Si alzò e con passo

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leggermente barcollante si diresse in stazione. Acquistò il biglietto e si sedette in attesa del convoglio che lo avrebbe condotto nella sua città natale. Il viaggio in treno lo aiutò a riprendere contatto con il suo paese. Oramai faticava nel parlare correttamente l'italiano e riusciva a pensare solo in spagnolo. Nel tempo, l’Italia era diventata semplicemente un ricordo, non un’opzione per un eventuale ritorno. Una signora cicciottella e chiacchierona lo intrattenne sino a Firenze disquisendo approfonditamente di vitali argomenti quali il tempo atmosferico o le trasmissioni televisive che si occupavano di cucina. Il tratto Firenze-Bologna invece, lo vide spettatore di una discussione piuttosto accesa tra lavoratori pendolari, alcuni pro ed altri contro l’ennesimo governo della crisi. La legge sui diritti civili delle coppie omosessuali faceva discutere. Tommaso non pensava ci fossero motivi validi per opporsi, per lui non esistevano uomini di prima e di seconda scelta. L'ultima tratta a scompartimento deserto la fece in compagnia dei suoi pensieri. Finalmente giunse a destinazione. Il sole scompariva all'orizzonte macchiando il cielo sopra i tetti di riflessi rossoviolacei. Fuori dalla stazione, in piedi appoggiato alla propria auto, un tipo alto un metro e novanta, sui cento chili, con i pochi capelli biondo cenere spettinati dal vento e un paio di occhi verdi lo stava aspettando. Due fessure sottili che quando lo videro si illuminarono. Lorenzo non vedeva di persona il suo amico fraterno da una vita. I due allargarono le braccia camminandosi incontro per poi richiuderle in un lungo abbraccio.

Due grandi alberi erano cresciuti nel retro della canonica. Guardandoli da est verso l’imbrunire si confondevano con l’orizzonte. Sembravano due uomini che allargavano le braccia camminandosi incontro per poi richiuderle in un lungo abbraccio. Quando poteva don Diego si metteva a sedere su una vecchia sedia e guardava da quell’angolazione le due piante. Spesso si commuoveva.

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Il giorno che prese la decisione di allargare la canonica per trasformarla in una casa di accoglienza, decise anche di trovare un nome appropriato. Voleva che rappresentasse i due grandi doni che Dio aveva fatto all’umanità: la pietà e la libertà. Per don Diego la pietà era perfettamente compiuta nell’accoglienza mentre la libertà dai gigli del campo, rappresentazione, a suo dire, della generosità dell’altissimo. Quando fu inaugurata, appese una targa in marmo scolpita da lui stesso su cui era scritto: Liberi Tutti. “La libertà di essere semplicemente e soltanto quello che si è...” spiegava quando gli venivano richieste delucidazioni, “...è un dono di Dio e non può e non deve essere negato a nessuno”. Così negli ultimi dieci anni il parroco di San Zaccaria, paesello di poche anime ai margini della città, aveva accolto nella sua casa tutti coloro che si erano presentati alla sua porta. Fino a che c'era posto, fino a che si poteva, senza guardare chi fosse o che faccia o che storia avesse alle spalle e neppure a quale religione appartenesse. Don Diego in gioventù non era certo stato uno stinco di santo e la sua conversione, avvenuta piuttosto tardivamente, lo testimoniava. Non per questo la sua fede era meno sincera e solida. Amava ricordare la celebre frase attribuita a Sant’Agostino: “Signore dammi la castità, ma non subito…” Le signore anziane che frequentavano il rosario serale ridevano sempre di gusto quando la citava. Forse avrebbero riso meno se avessero potuto vedere il loro giovane parroco quando faceva il rockettaro, fumava spinelli, beveva come una spugna, cambiava una donna ogni sera e non disdiceva l'uso di acidi e di eroina. Non proprio uno stinco di santo... Poi c’era stato il cambio di direzione. Nella Band originale i cinque fondatori erano stati Lorenzo, Tommaso, Ghigo, Stagno e appunto Diego, da tutti meglio conosciuto con il soprannome di Zorro. Grazie alla musica si erano aperte molte porte e loro,

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in quei giorni spudorati, non si fecero mancare nulla, in particolare Ghigo e Zorro che andavano sempre a braccetto. Tutte le bravate e le stupidaggini, droghe comprese, le fecero insieme. Mentre Lorenzo e Tommaso si allontanavano dalla Band e Stagno faceva quello che nessuno si sarebbe mai aspettato, ovvero sposarsi e mettere su famiglia, Ghigo e Zorro scendevano lentamente insieme per la strada che li avrebbe condotti al loro inferno personale. Come avrebbe poi detto più volte dal pulpito don Diego: “L'inferno non è, come in molti ne sono persuasi, quello descritto da Dante con i diavoli, i forconi e le fiamme perenni, ma un luogo della mente umana dove c'è spazio soltanto per la disperazione”. Una sera di ventidue anni prima, tornando da una serata in cui era andata in scena quella che in definitiva sarebbe stata l'ultima performance della mitica e oramai decadente Band, fatti e strafatti di alcool ed eroina, andarono a sbattere con la loro auto contro un vecchio platano. Fine della festa. La vecchia Ford Escort terminò la sua corsa completamente distrutta. Nel giro di pochi giorni venne trasformata in un esaedro. Il platano invece non se la cavò male. Del resto stava là da tempo ed esercitò il suo diritto di usucapione sul territorio che occupava da quando era un giovane virgulto. Zorro guidava con la mente avvolta nei fumi dell’alcool e dagli effetti di chissà quante molecole acide. Forse si addormentò, forse si sentì male, forse incontrò il destino. Quei momenti non li ricordava. Buio assoluto. Si svegliò quattro giorni dopo in terapia intensiva. Frattura del bacino, del femore destro, della clavicola sinistra, esplosione della milza, perforazione di un polmone, trauma cranico. Appena fu abbastanza lucido si informò su come stava Ghigo. Ghigo non stava più… Con Ghigo quella notte era morto anche Zorro. Rimaneva solamente Diego e, a fargli compagnia, i demoni generati dal senso di colpa. I primi mesi fu preda di una grande depressione. Non parlava, mangiava a

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stento, andava in palestra di malavoglia e i fisioterapisti non riuscivano a farlo reagire. Sembrava che niente e nessuno potesse lenire la sua angoscia ma poi, un giorno, mentre faceva rieducazione nella palestra dell'ospedale, conobbe don Sergio Bargiggia. Si trattava di un vecchio prete che come lui stava facendo ginnastica riabilitativa per una brutta frattura dell’anca. Era caduto dalle scale per evitare di disperdere le ostie consacrate che teneva in mano. Un prete pazzoide e spiritoso, vecchio fuori ma giovane dentro. Poco a poco riuscì nell’impresa di contagiare quel ragazzo triste. L'amicizia con don Sergio permise a Diego di uscire dal tunnel di disperazione in cui era precipitato. Uscito dall’ospedale Diego iniziò a frequentare la parrocchia di San Zaccaria dove il vecchio don Bargiggia officiava. Un angelo e un demone, un vecchio e un giovane. Diego scoprì con piacere che, in fondo, tutta quella differenza tra loro non c’era. Dall’amicizia alla conversione ci volle poco. Diego cominciò un percorso personale che lo condusse a diventare prete. Il suo primo incarico, manco a dirlo, fu quello di cappellano a San Zaccaria. Quando don Bargiggia presentò le dimissioni al vescovo per motivi di salute e raggiunti limiti di età, don Diego divenne parroco. Automaticamente don Sergio fu il primo ospite della casa di accoglienza Liberi Tutti. Tutte le mattine alle sei e mezza officiava ancora messa. Certe mattine le sue condizioni erano tali che si faceva fatica a capire cosa dicesse ma, tanto, le quattro fedelissime vecchiette lo intuivano perfettamente. Mentre stava pensando a tutto questo don Diego fu chiamato da Antonio: “Don, vieni a vedere. Cosa te ne pare?” Antonio, giunto lì quattro anni prima, rappresentava, per il parroco, una vera e propria manna caduta dal cielo. Aveva le mani d'oro e sapeva aggiustare ogni cosa. Nel giro di poco tempo era diventato il suo braccio destro. Di lui Diego sapeva poco o nulla. Era un uomo. Un uomo buono e mite, sempre disponibile. Al prete bastava. Un

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giorno, chissà, forse avrebbe raccolto la sua storia. Antonio aveva appena terminato di intonacare la navata, dopo aver ripreso le crepe che la attraversavano. “È fantastico! Quando si potrà iniziare a dipingerci sopra?” Antonio si strofinò le mani nei pantaloni. “Io aspetterei una decina di giorni, così sarà bello asciutto”. Don Diego si trattenne a stento da mettersi a saltare di gioia tra le panche. Non vedeva l'ora di iniziare. Aveva già fatto fare da Stagno tutti i bozzetti dell’affresco: un giorno del giudizio gioioso e glorioso con il rosso e l’arancione accesi come colori predominanti. Don Sergio aveva detto che era un progetto bellissimo. Del resto, prima del restauro, la navata aveva un disegno a finte colonne piuttosto tetro. Ora, complici le infiltrazioni dal tetto, diventava possibile rinnovare la chiesa rallegrandola un po'. Don Diego batté la mano sulla spalla di Antonio e si avviò verso la canonica. Antonio dapprima si massaggiò la folta barba grigia poi terminò il proprio lavoro sistemando tutti gli attrezzi. In canonica il prete incontrò Franchino. Era molto allarmato: “Dondiè, Dondiè, a telefono, amico tuo…” Il prete sollevò il ricevitore. “Pronto? Pronto? Ma se non c’è nessuno…” Franchino fece una faccia di rimprovero. “Non ora, ora… Prima!” Don Diego sorrise. “Prima quando? Vabbè, non importa. Ti ricordi chi era?” “Sì, certo! Era al telefono” concluse tutto soddisfatto Franchino. Rassegnato il parroco di San Zaccaria fece per salire le scale. “Ma non vu, vuoi sapere chi era?” Don Diego si girò, si sedette sul primo gradino e attese che Franchino, il

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giovane Down che occupava l’ufficio della canonica come ospite diurno, gli dicesse chi aveva chiamato. “Lo, Lorenzo…” Il prete si diede una manata sulla fronte. “Lorenzo, accidenti…” Guardò l’orologio. “Un quarto alle sei, doppio accidenti!” Così dicendo corse su per le scale. In questo modo si perse la faccia sconsolata di Franchino che mormorava sottovoce tra sé: “Cidenti, cidenti…”

La macchina di Lorenzo era una Punto tutta scassata. Si muoveva veloce nel traffico prendendo la direzione della periferia. Le case si diradavano e al loro posto apparivano i campi coltivati e i casolari di campagna. “Dove sarebbe questa Chiesa?” domandò Tommaso ad un Lorenzo stranamente silenzioso. “A San Zaccaria...” San Zaccaria, un paese a dieci minuti di macchina dalla città, appisolato lungo la strada provinciale che raccorda Cesena a Ravenna, antica via romana ormai spodestata dalla bretella a quattro corsie che si dipana parallelamente poco più a sud. Il paese compare all'improvviso dopo una curva a gomito coperta da una fila di alberi. Le case costruite negli anni cinquanta conservano quasi tutte le pitture originali anche se scrostate e smangiucchiate dagli eventi atmosferici. Lungo la stretta strada che conduce alla chiesa si possono ancora ammirare strani anacronismi come una vecchia pompa di benzina, di quelle in cui il distributore di carburante sembra più simile a un vecchio frigorifero con il pedale in basso per favorirne l’apertura. Qualche vecchio seduto qua e

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là in rassegnato silenzio completano il quadro. Arrivati davanti al sagrato, Tommaso e Lorenzo scesero dall’auto e si incamminarono lungo un viale cosparso di ghiaia. A metà percorso il primo incontro: un albero piantato da don Diego dieci anni prima. Un platano. Un segno. Per ricordarsi ad ogni passaggio la resurrezione dell’anima. I due giunsero alla porta della canonica. Lorenzo suonò il campanello e apparve loro Franchino con la consueta agitazione che svanì quando l’ebbe riconosciuto. Gli fece strada e li condusse attraverso una porticina nel fresco silenzio della chiesetta profumata d’incenso. Don Diego era intento a sistemare i fiori posti intorno all'altare maggiore coadiuvato con lo sguardo da Luisa. Era una giovane donna cui mancava un venerdì e forse anche un giovedì, ma seguiva pedissequamente le istruzioni del parroco che venerava. Il suo problema consisteva in un assoluto distacco dalla realtà per cui in passato molti avevano approfittato di lei. La conseguenza principale si era concretizzata in un ragazzino di nove anni che aveva chiamato col nome del suo attore preferito. Il piccolo Kevin era l’ospite più amato di Liberi Tutti. Il prete alzò lo sguardo. Non si vedevano dal funerale dei genitori di Tommaso. A incontrarsi per strada non si sarebbero mai riconosciuti. L’esile batterista cappellone con il volto perennemente imbronciato e la voce impastata era scomparso. Un prete di campagna leggermente al di sopra del peso forma con i capelli grigi cortissimi e un volto accogliente e votato al sorriso aveva preso il suo posto. Non più abiti stravaganti e colorati ma un collarino bianco con tanto di croce puntata sul petto. Dall’altra parte, l'uomo in piedi tra la colonna e il corpulento Lorenzo non era più il ragazzone aitante e riccioluto che aveva conosciuto ma un signore di mezza età, magrissimo, incanutito e con una folta barba sale pepe. Tutto vestito di blu, con quei sandali ai piedi poteva tranquillamente essere

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scambiato per un frate. Ma quando gli sguardi si incrociarono, non ebbero bisogno di tante presentazioni. Si riconobbero al volo. Erano gli stessi sguardi sfidatisi nel campo di Galoz quella sera che i piccoli indiani si riunirono per celebrare il patto di sangue. Gli stessi sguardi che si accordarono nella cantina di Ghigo dove, nell'estate del ‘78, cinque ragazzotti decisero di costituire una Rock Band. Iniziava l'epopea dei The Inattentive Colored. Don Diego attraversò la navata in due salti e abbracciò l’amico. Tommaso contraccambiò anche se con meno energia. Era esausto. L’amico se ne rese conto. “Vieni, ti mostro la tua camera dove potrai riposare e rinfrescarti un po'. Le chiacchiere le faremo più tardi”. Prese in carico il borsone di Tommaso e fece strada, con Franchino che li osservava sfilare in rigoroso silenzio. Ci metteva sempre un po’ a prendere confidenza con i nuovi arrivati. Salirono le strette scale a gradoni che conducevano al secondo piano della canonica. In fondo al corridoio, il bagno con doccia e servizi. Sulla sinistra, le finestre che si affacciano sul cortile e, a destra, sei porte che introducevano ognuna ad una piccola stanza. Erano locali spartani, con un letto, un armadio, una sedia, un tavolino e un lavabo con sopra uno specchio. Di fronte alla porta una finestra ad oblò che guardava sul sagrato. “È piccola ma è a tua disposizione per tutto il tempo che vorrai”. “Allora non sarà per molto.” pensò tra sé Tommaso che però rispose: “Grazie Zorro, voglio dire, don Diego”. “Va bene anche Zorro, chiamami come ti viene. Non farti una cattiva impressione perché mi vedi vestito da prete. Questa mattina è passato il vicario generale e non potevo farmi trovare vestito con jeans e maglietta. Adesso riposati un po'. Ci vediamo più tardi”.

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“Ok”. Lorenzo e Diego ridiscesero le scale. Lorenzo doveva tornare in città. Il prete lo accompagnò fino alla macchina così ne approfittò per sincerarsi della condizioni di salute di Tommaso. “È messo male come sembra?” Lorenzo sospirò con fare rassegnato. “A quanto pare...” “In che modo potrei rendermi utile?” “Francamente non saprei... Lunedì lo accompagno da un medico pneumologo per un consulto. Poi ne sapremo di più… Ascolta Diego…” la voce di Lorenzo tradì un certo nervosismo, “...avrei bisogno di una cortesia”. “Se posso volentieri. Di cosa si tratta?” Stava imbrunendo. Il sole era appena scomparso dietro i tetti delle case. La luce bassa regalava ombre lunghe e distorte. “Ho un problema con Caterina...” il prete fece un cenno di assenso con il capo, invitando Lorenzo a continuare. “Ecco, non è molto complicato da raccontare, il giocattolo si è rotto ed io sto cercando di rimettere insieme i pezzi. Temo però di non farcela da solo. Avevo pensato di invitarti a cena una sera, magari potevi parlarle. Mi dispiace metterti in mezzo ma...” L'amico lo interruppe. “Va tutto bene, vengo volentieri. Mercoledì può andare?” “Sì, certo... Grazie Diego, io...” “Lascia stare. Ora vai a casa e cerca di stare sereno”. “Va bene, grazie ancora, ciao”. Il prete lo salutò con la mano, poi fece ritorno in canonica. Lorenzo entrò in auto e si diresse verso casa. Dalla finestra ad oblò Tommaso aveva osservato la scena. Poi si era lasciato cadere nel letto. Era stanco. Si disse: “Chiudo gli occhi solo un istante poi mi do una rinfrescata...” invece si addormentò di colpo.

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Il giorno dopo Diego e Tommaso salirono in collina. Andavano a far visita ad un vecchio amico che ora abitava in perfetta solitudine in una casa colonica sistemata alla meglio. Tommaso avvertiva l’urgenza del tempo. Voleva incontrare i vecchi amici prima che fosse troppo tardi, nel caso la malattia decidesse di avanzare velocemente. Oltre a Diego e a Lorenzo, c’era un altro amico che doveva a tutti i costi abbracciare. Per la follia, la poesia e l’anima che avevano in comune. Diego e Tommaso partirono in auto da San Zaccaria nel primo pomeriggio, raggiunsero Cesena in un batter d’occhio e poi s’inerpicarono lungo la salita che fiancheggiava il monastero dei frati cappuccini. La strada ad un certo punto incontrava un bivio. Sulla destra continuava il nastro d'asfalto mentre a sinistra, superato di pochi metri l'incrocio, il bitume lasciava il passo ad uno stretto corridoio cosparso di sassolini bianchi. La strada sterrata scendeva, poi si impennava nuovamente e percorreva un monticello. Superato il dosso, altri cinquanta metri e la strada si spegneva. Non c'era un cancello né una recinzione. Una casa di mattoni costruita a cavallo tra le due guerre osservava sbilenca il panorama desolato. Appariva disabitata e, in effetti, per certi versi lo era. La Panda di don Diego si fermò sul ciglio della strada. I due amici rimasero in silenzio qualche istante. Non si sentiva nulla se non un intenso cicalio ed il canto intermittente di qualche uccelletto. Don Diego sorrise a Tommaso. “Starà dormendo, seguimi”. I due attraversarono una decina di metri di erba alta fino al petto per poi raggiungere l'uscio di casa. La porta semi aperta, a giudicare lo stato dei cardini, non si sarebbe neppure potuta chiudere ed era già un miracolo rimanesse in piedi. La stessa cosa valeva per tutti gli altri infissi. Evitando di bussare per il timore che la porta abbandonasse la parete, don Diego entrò nella penombra del corridoio e diede voce. “Stagno, Stagno!”

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Una voce proveniente dall’alto fece di rimando: “Sono di sopra, arciprete dei miei stivali, sali pure”. La casa, all'interno era arredata con vecchi mobili. In contrasto con il suo aspetto esterno, appariva sorprendentemente in ordine e pulita. Sul tavolo del soggiorno un grande mazzo di lavanda sprigionava un intenso aroma dolciastro. Sulla mensola del camino tra le vecchie foto non c’era traccia di polvere. Stagno, a quanto sembrava, nonostante i suoi squilibri riusciva nell’intento di non bivaccare nel lerciume. Una scala a chiocciola in legno conduceva al piano di sopra dove trovava spazio un letto di legno piuttosto sbilenco. “Non appoggiarti al settimo scalino altrimenti viene giù tutto” suggerì il prete che conosceva il potenziale trabocchetto. Quando Tommaso e Stagno si trovarono faccia a faccia non si riconobbero. Tommaso partiva dal vantaggio di conoscere l’identità del proprio antagonista mentre Stagno non ne aveva la minima idea. “Sei un amico del pretonzolo? Piacere, Stefano” disse Stagno allungando una mano pressocchè scheletrica. In effetti era magrissimo: le guance scavate, gli occhi infossati. Le braccia nude erano pelle e ossa. Portava i capelli molto lunghi raccolti in uno strano concio alla giapponese da cui però sfuggivano molti ciuffi ribelli. La sua magrezza era proporzionata alla follia artistica. A volte mentre era intento a dipingere poteva lasciare che scorressero intere giornate senza mangiare e senza dormire, almeno fino a quando la tela non veniva terminata. Contraccambiando la stretta pronunciò il proprio nome. “Tommaso...” Stagno, che aveva usato il suo nome di battesimo, lo scrutò più attentamente. Gli sguardi, come entrando in un tunnel, precipitarono dentro le iridi dell'altro in un profondo pozzo dei ricordi. Seguì un abbraccio forte e prolungato. Entrambi erano commossi, così don Diego fece una battuta per sdrammatizzare il momento:

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“La prossima volta dimmelo che devo portarmi il macete per venirti a trovare che mi organizzo a dovere”. Stagno sorrise. “Non devi avercela con i fili d’erba. Sono innocui e poi rappresentano la vita meglio di qualunque altra cosa”. Don Diego attese la spiegazione. Il suo amico pittore era precipitato nel profondo della propria anima e da lì estraeva pensieri speciali. Infatti Stagno guardò dapprima i suoi amici fissandoli bene negli occhi poi iniziò: “Vedete, la vita è di per sé, nella sua intima essenza, una condizione precaria e i fili d'erba ne sono pienamente consapevoli. Sono sottili e privi di difesa. Eppure hanno una profondità assoluta dovuta proprio alla loro intrinseca collocazione e non potrebbe essere in altro modo”. In principio Tommaso fece fatica a seguire quei ragionamenti semi vaneggianti mentre don Diego fu rapito da quelle parole. Stagno continuò: “I fili d'erba avvertono il senso della vita meglio di noi e sapete perché?” Tommaso rispose quasi ridendo. “No, davvero non saprei”. Allora Stagno lo prese sottobraccio e lo condusse alla finestra, “Guardali…” fece una piccola pausa a sottolineare le parole che stava per pronunciare, “...sfiorano il cielo ma conoscono la terra...” In quell'istante Tommaso comprese. Anche lui altro non era che un filo d'erba. Solo, fragile e precario. Aveva sfiorato il cielo senza mai volare ed ora, avrebbe conosciuto per sempre la terra. Don Diego si accorse che Tommaso era stato fin troppo colpito dal pensiero filosofico di Stagno così decise di cambiare discorso: “Allora non hai un bicchiere di vino da offrire ai tuoi amici assettati?” Stagno sorrise nuovamente e li invitò a seguirli in cucina. Nella frescura di quel tinello odoroso di muffa versò loro del vino rosso brillante e schiumoso. “È lambrusco...” sottolineò l’amico con quella sua voce che tradiva sempre un tono ironico, “...a me il sangiovese fa cagare…”

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Prese dalla credenza una ciambella la tagliò a fettine e la posò sul tavolo. A Stagno non mancava nulla. Nonostante fosse magrissimo aveva la credenza ben fornita e il frigorifero sempre pieno. Senza contare la pulizia della casa al suo interno. Tommaso si stava chiedendo come fosse possibile. Stagno intuendo quel pensiero gli rivelò il segreto: “Dietro casa c'è un sentiero che scende verso una casa colonica. Ci abita Clara. È la mia morosa… Viene su tutte le mattine, da una ripulita, mi porta da mangiare, si prende la sua dose di uccello e poi torna a casa sua...” Questa volta il sorriso di Stagno si allargò grottescamente mostrando una lunga fila di denti ingialliti dalla nicotina. Clara era una vedova piuttosto benestante e non le costava foraggiarlo di cibo. Lui, quando vendeva un quadro, pagate le spese, le dava qualcosa. Siccome ultimamente vendeva abbastanza, aveva quasi appianato il suo debito. Era un dare e avere a saldo zero che Stagno preferiva. Clara e Stagno si erano conosciuti due anni prima nell'Osteria del Vento, un locale tre chilometri più a valle. Lei stava cenando con una amica e vide quel tipo con una tela in mano che parlava con il proprietario. Chissà cosa poté attrarla di quell'uomo così magro e dall’aria stralunata. Forse perché il suo povero marito era un obeso in giacca e cravatta... Si avvicinò per guardare la tela e ne venne rapita. Lo considerò subito un quadro bellissimo. Il suo entusiasmo fu tale che Stagno, invece di persistere nel proposito di tentare di venderlo all'oste, ne fece omaggio alla donna. Poi chiacchierando scoprirono di essere vicini di casa. Quando Clara si rese conto che Stagno era a piedi, si offrì di accompagnarlo con la sua auto. Salutò l’amica e si avviarono. Giunti al rudere Stagno fece il galante: “Vuoi entrare ad assaggiare un bicchiere di vino novello?” Lei entrò, ma assaggiò qualcos'altro… “Altrimenti qui sarebbe un gran casino” e rise. Dopo quella veloce merenda Stagno condusse gli amici sul retro della casa.

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Nel capanno trovava spazio il suo studio da artista avvolto in una atmosfera perennemente in bilico tra il surreale e l’agreste. La destinazione iniziale doveva essere stata quella di un ricovero per macchine agricole. Si trattava di un grande ambiente diviso in due parti da una scaffalatura. Una miriade di barattoli di vernice ammonticchiati uno sopra l’altro senza una logica apparente sporgevano dalle mensole. Entrando, sulla destra, dietro la scaffalatura, c'era un altro divisorio. Da una parte il deposito delle tele finite o abbandonate a metà e dall’altra la falegnameria dove Stagno avrebbe dovuto confezionarsi le tele. In realtà gliele costruiva un vecchio amico in città dato che Stagno aveva molti talenti ma non era portato per le cose pratiche. Alcune tele erano appese, in particolare quelle di più grande dimensione. Tra queste spiccava la rappresentazione di uno strano essere dall'aspetto indecifrabile. Pareva cambiare le proprie sembianze a seconda della linea prospettica con la quale lo si guardava. I rossi accesi e i verdi brillanti la facevano da padrone. A sinistra dell'entrata invece, lo studio vero e proprio. Era stata una scelta obbligata. Si trattava dell’unica parte del capannone fornito di illuminazione naturale grazie ad una coppia di finestre alte e contrapposte. Vi erano due postazioni di lavoro. Una, in basso, dove Stagno dipingeva in piedi con le tele appoggiate contro la parete. Più sopra, salendo tre gradoni, una specie di soppalco accoglieva le tele più grandi che venivano dipinte a terra. Con delle funi le issava per controllare il lavoro poi le riabbassava. In quel periodo stava dipingendo una grande tela, circa tre metri per quattro, che aveva come soggetto una spiaggia sotto un cielo tempestoso. Appariva così realistico che a Tommaso venne quasi voglia di gettarsi in quell'acqua salata verde-blu. Non c'erano sedie, soltanto una vecchia poltrona in cui Stagno ogni tanto indugiava per osservare le sue opere. Nell'aria un forte odore di vernice misto a qualcosa all'apparenza indecifrabile. “Ma questo strano odore che cos’è?” chiese Tommaso avvertendo

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un’aroma indefinito nell’aria. “Da quanto tempo non ti fai una canna?” replicò serio Stagno per poi scoppiare subito dopo in una fragorosa risata. Stagno, al secolo Stefano Agnoletti, era sempre stato un tipo strano, fatto tutto a modo suo. Da bambino trascorreva ore e ore seduto a gambe incrociate sopra un vecchio pozzo. A chi gli chiedeva che facesse lì sopra, rispondeva che parlava con gli Dei del Vento. Da ragazzo aveva imparato a suonare la chitarra e, dato che se la cavava piuttosto bene, venne assoldato nella Band. Ma non era mai stato un tipo col quale chiacchierare banalmente dei soliti argomenti che si usavano tra ragazzi del tipo donne, calcio e motori. No, lui vaneggiava sempre strani discorsi portando gli altri su territori sconosciuti. Disquisiva degli elementi della natura: l’aria, l'acqua, la terra e tutti gli esseri viventi. Un animista puro… Nella tarda adolescenza avevano tutti fatto uso di droghe, specialmente marijuana ed eroina, ma mentre gli altri cercavano lo sballo fine a se stesso, lui voleva aprire la mente ai quesiti dell'universo. Dopo il liceo artistico frequentò l'accademia delle belle arti poi, però, per molti anni fece neghittosamente l'operaio edile. Nell’autunno del novantatrè si era dovuto sposare in tutta fretta con Tiziana. Arrivava la cicogna... Stagno e Tiziana ebbero due figli maschi: Dino e Vincenzo. Sembrava che tutto procedesse lungo il corso di una vita normale. Ma non era felice. Si era adattato a una vita non sua e più passavano i giorni e più ne avvertiva il peso. Inevitabilmente scoppiò. Un giorno di sei anni prima, a quarant’anni suonati, si licenziò dal lavoro, disse a sua moglie di essersi rotto il cazzo di quella vita merdosa e che voleva fare il pittore. Per tornare a respirare... Avrebbe comprato un casolare in collina e si sarebbero trasferiti tutti lì. Ma sua moglie coltivava già da qualche anno una relazione clandestina con il suo capo ufficio. Un tipo di Ancona tutto buone maniere e sorrisi. Stagno

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ovviamente non si era accorto di nulla. “Cosa vuoi fare? Il pittore? Sai cosa ti dico: ma va a farti fottere, imbecille!” prese la porta e uscì sbattendola. Stagno pensava si trattasse della incazzatura del momento. Non era così. Nel giro di pochi mesi, lei e i bambini si trasferirono nelle Marche con il signor capo ufficio. A quanto ne sapeva, stavano facendo anche la bella vita. Vedeva i ragazzi molto raramente ma, a modo suo, li amava moltissimo. Loro, pur rimanendo spesso sconcertati da quel padre che dire strano era poco, sembrava lo contraccambiassero. Non lo dava a vedere ma stare lontano dai suoi ragazzi lo faceva soffrire. Una sofferenza che per qualche tipo di empatia, riconobbe negli occhi del suo vecchio amico. Stagno guardò Tommaso e gli porse un sorriso che era quasi un abbraccio. Per Tommaso fu naturale ricordare quella volta che stavano giocando a buio, uno stupido gioco notturno simile a nascondino, nella vigna di suo padre. Sorprese Stagno che parlottava con un grappolo d’uva. “Cosa stai facendo?” “Lo sto interrogando sul significato dell’universo. Per la verità è un po’ vago nelle risposte, ma insistendo…” e gli sorrise. Lo stesso dolce ironico sorriso con il quale Stagno lo stava guardando in quell’istante. Era un sorriso che accoglieva. “Tu, invece, cosa racconti? Chissà quante avventure avrai vissuto laggiù?” Di preciso, quel laggiù, non sapeva bene dove fosse, perciò era stato generico. D'altronde Stagno aveva sempre vissuto in una bolla di latente follia. Anche quando si era impegnato, nel tentativo poi abortito, di una vita normale, ovvero una casa, una famiglia e un lavoro riconosciuto come tale. Quella sua alienazione recondita non gli consentiva di ricordare con precisione dove fosse andato a cacciarsi il suo amico in tutti quegli anni. “Perché non ti fermi qui da me qualche giorno? Ti farebbe bene, qui puoi sentirti vicino all'universo. Devo aggiungere, per onor di completezza, che

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della figa qua non c’è neppure l’odore...” Tommaso ricambiò la gentilezza dell’amico con un sorriso dolce amaro. Stagno non era cambiato per niente. Era sì più vecchio, più magro e con lo sguardo, se possibile, ancora più folle di quando erano ragazzi, ma il suo mondo era rimasto il medesimo. Miscelava argomenti seri e profondi con le facezie non dando la possibilità a chi lo ascoltava di capire quale dei due argomenti trascinava l’altro. “Lascia stare la figa...” replicò sorridendo Tommaso, “...avventure ne avrei da raccontare... Ti sarebbe piaciuta quella natura, come dici tu laggiù. Lì avresti davvero avvertito l'universo… Ma non mi posso fermare da te, devo fare un tentativo, probabilmente inutile, di salvarmi la pellaccia. In ogni caso tornerò a trovarti. Mi ha fatto comunque molto piacere constatare che la normalità non ti ha contagiato”. Si guardarono, poi chissà perché si misero a ridere. Cominciarono a raccontarsi gli episodi più divertenti della loro infanzia e della loro giovinezza. Ognuno rammentava alcune istantanee. Mentre Stagno parlava con quel suo modo paradossale e divertente, Tommaso tornò con la mente a una sera d’estate. Avevano risalito la sponda del fiume inoltrandosi nel campo di mais di Ernesto, il vecchio Galoz…

Erano quasi le sei di sera, il sole era ancora alto nel campo di mais. Otto piccoli indiani vi entrarono dal lato che costeggiava la riva del fiume. Era meglio non farsi sorprendere da Galoz, il proprietario del campo, che vigilava sulle sue terre armato di una vecchia spingarda caricata a sale. Nei primi anni settanta, i confini della città erano ben diversi da quelli attuali. La periferia iniziava appena oltrepassato il fiume dove piccoli borghi di case apparivano circondati da ampie zone di terra coltivata. Nei pressi di Campo Sud, che era un piccolo podere dove trovavano spazio diverse specie di alberi da frutta, c'era un minuscolo nucleo abitativo composto da una specie di condominio e tre casette singole.

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La prima casa che s’incontrava lungo la strada sterrata era un edificio basso con il tetto spiovente circondata da un giardino ben curato. Aveva la facciata bianca e le persiane verde bandiera ed era abitata da Laura e Ghigo. Sul lato opposto della strada, c’era una villetta di recente costruzione circondata da pini e abeti. Lì abitava Tommaso con la sua famiglia. Poco più avanti c’era una vecchia casa colonica che cadeva letteralmente a pezzi. Veniva utilizzata dal padre di Stagno come stalla e attrezzaia. Il babbo di Stagno era il mezzadro di quel podere ma la sua famiglia, da qualche anno, abitava nella palazzina sorta dietro casa di Laura. Il condominio era composto da sei appartamenti. All'ultimo piano abitava Stagno e condivideva il pianerottolo con una coppia originaria di Ravenna, lui bancario e lei casalinga. Al primo piano abitava la famiglia di Zorro e, nell’appartamento a fianco, i nonni di Lonny. A piano terra abitavano Marco Civetta e suo fratello Martino. L'ultimo appartamento era occupato dalla famiglia di Pablo, un neo quattordicenne che fino all’anno precedente scorazzava per quei prati con gli altri. Ora era diventato grande... Lonny abitava in centro città ma, a causa degli impegni lavorativi dei suoi genitori, lui e Francesca, sua sorella, vivevano praticamente con i nonni. Fu naturale così che i bambini di quel piccolo borgo isolato stringessero amicizia. Nell’estate del ‘74 la giovane banda era composta da Stagno, il Gatto, Zorro, Muriega, Lonny, Ghigo, il Rosso e Civetta. A questi qualche volta si aggiungeva il fratellino di Civetta da tutti chiamato Titin e’ Sumar. In un religioso silenzio interrotto solo dalla fruscio delle foglie, gli otto amici raggiunsero il centro del campo di di mais. Galoz era un tipo burbero e scostante, quasi sempre alticcio e con il grilletto facile ma, talora, capace di essere accogliente e cordiale invitando i piccoli rompiscatole a merenda per raccontargli aneddoti, rigorosamente in dialetto stretto. Quella sera, però, non avevano voglia di parlare con quel vecchio ubriacone. Tommaso e Lorenzo avevano preso una solenne

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decisione e la cerimonia doveva avere come testimoni solo gli amici più intimi. Poche ore prima Tommaso, durante l'attacco degli indiani al fortino, aveva salvato Lorenzo dalle grinfie di Marino il capo della banda rivale. I due volevano giurarsi eterna amicizia. Stagno aveva sottratto a suo padre una lametta e, sotto lo sguardo attento e un po' intimorito degli altri aveva provocato dei piccoli tagli nei polsi dei due amici. Quindi, presi i polsi, li aveva strofinati uno sull’altro. Stagno era lo sciamano di quel piccolo gruppo di indiani e, da quel giorno, Tommaso era divenuto il loro valoroso capo. Nel campo di mais, si consumò un patto di sangue, promessa di amicizia eterna tra Lorenzo e Tommaso. Patto che nella vita seguente non sarebbe mai stato disatteso. Gli otto amici poi, rispettando il silenzio imposto dallo sciamano, fecero ritorno al borgo di case dove abitavano.

Tommaso si ridestò da quel sogno ad occhi aperti proprio mentre don Diego stava rammentando a Stagno che era il momento di incominciare l’affresco della navata. Il pittore si dichiarò pronto. Avrebbe iniziato la settimana entrante. “Ti prendo in parola, allora…” “Guarda pretonzolo che sono sì il folle sulla collina, ma sono anche un uomo di parola, ricordatelo bene” e poi lo baciò rumorosamente sulla fronte. Quando la macchina di don Diego riprese la strada del ritorno, cominciava a fare sera. Tommaso osservava in silenzio quello spicchio di sole che scompariva lentamente dietro la collina. Non sapeva spiegarsi il motivo ma dentro di sé si sentì pervadere da una sensazione di profonda armonia. Una sorta di pace silenziosa assolutamente inaspettata. Quantomeno per uno come lui, prossimo alla fine eppure con ancora tante tracce sospese.

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Tre Settembre del ‘74 a Campo Sud. Deve essere un giorno molto speciale, c’è una grande trepidazione. Rumore di passi frettolosi e scrosci di risate cristalline autentiche nell’aria frizzantina. Odore di ribes e di ciliegio, la luce saltella tra le spighe d’orate, poi d’un tratto il silenzio: parla Asso, il capobanda: “Tu Stagno monti di guardia adesso, tra un’ora ti vengo a dare il cambio. Se i Banditi escono, ti butti giù alla tirondella così ci avvisi. Vai!” “Subito intrepido capo!” “Scemo… Pietro, fammi vedere la fune che hai portato, hum, dovrebbe andare bene. E le torce?” “Ci doveva pensare Saverio, ah, eccolo che arriva”. Il Gatto sopraggiunse con le torce prese nel capanno del suo vecchio. “Allora adesso che ci siamo tutti ascoltate bene... Io, Stagno, Ghigo e Muriega, saliamo sul tetto, assicuriamo la fune alla base del camino e ci caliamo dal lucernaio. Voialtri fate il palo alle due porte. Se ritornano i Banditi fate un bel fischio e poi tutti di gran carriera al rifugio”. Poi avvertirono una voce. Stagno stava venendo giù dalla collina con una velocità da morte certa sulla sua biciclettina da cross, senza parafanghi, senza freni e con ben pochi raggi residui, nel frattempo ululava di lontano: “Sono usciti, i Banditi sono usciti, presto andiamo!” “Ok ragazzi, Muriega tu fai coppia con Stagno che all’altro matto ci penso io e, mi raccomando, tenete le palline fredde!” Asso, Ghigo, Stagno, Muriega, il Gatto, Zorro, Civetta e Lonny. Il loro obiettivo del giorno: entrare nel Covo dei Banditi. Che i tipi che ci trafficavano attorno non fossero mascalzoni, per la verità neppure d’aspetto, e che di banditi non ve n’era manco l’ombra, forse non costituiva una faccenda così sostanziale. Non lo era per bambini che vivevano di spazi aperti e fantasia.

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I quattro coraggiosi, attraverso il tetto, sbucarono nel silenzio polveroso del Covo dei Banditi. Convinti di incontrare mostri, orchi e fantasmi d’ogni tipo, vagarono circospetti illuminando il semibuio con le loro torce. Avventurosi eroi nella tana del drago... All’epoca, oltre la via Romea la campagna si allargava a vista d’occhio senza incontrare altro che casupole da contadino. A poche centinaia di metri dal cimitero della frazione di Tipano era sorto un grande capannone adibito al ricovero di quelle nuove e mostruose macchine usate per trebbiare. I giovani eroi avevano curiosato spesso le manovre di costruzione, osservando con stupore la rapidità degli operai ad erigere una struttura così grande. Presto nelle loro menti immaginifiche si era fatto largo l’idea di andarvi a ficcare il naso dentro. E quale avventura sarebbe stata senza un nemico da sconfiggere? “Sono dei Banditi...” affermò Stagno, il loro sciamano bambino, “...e quello è il loro covo”. “Dobbiamo andare là dentro...” aggiunse Ghigo, “...e fargli capire che non abbiamo paura di loro”. Una volta dentro, accertatisi che il luogo fosse vacante, Asso e Muriega aprirono due barattoli di vernice che si erano portati dietro. Versarono la vernice nel centro della piazzola libera da veicoli disegnando un grande cerchio. Era la loro firma. Una delle tante stramberie di Stagno consisteva nel risalire la collina d’argilla fino al Bosco delle Anime e dipingere dei cerchi con la vernice rossa sopra le pietre piatte che dimoravano lassù. Essendo Stagno lo sciamano del gruppo, adottarono quel semplice simbolo come loro segno distintivo. Avevano appena finito di completare quella traccia rossastra quando udirono un fischio prolungato. Era il Gatto. Il segnale di pericolo. Probabilmente dovendo sistemare qualcosa per l’indomani, quella sera, dopo l’orario di chiusura, due operai fecero ritorno al capannone. “Cavolo, Asso, stanno fischiando!”

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“Merda! I Banditi, via, via!” Qualcosa come una mandria di bisonti evase dal capanno e quasi si scoppò nel calarsi in fretta e furia dal tetto per correre di filato al rifugio segreto: un albero zoppo dietro il campo di granoturco, con le fronde basse e, tutt’intorno, alti cespugli. Rimasero in silenzio a lungo nel timore di una rappresaglia. Ma nessuno li inseguì. I due Banditi si accorsero del trambusto e videro benissimo i ragazzetti correre nei campi. Aprirono la porta e notarono la firma sul pavimento. “Un Cerchio Rosso? E che significa?” “E io che ne so? Sono solo degli stupidi ragazzini...”

Dei bambini correvano nei pressi della stazione. Alice lì guardò intenerita poi prese la valigia e si diresse verso la porta. Il treno stava decelerando e presto sarebbe giunto a destinazione. La stazione aveva piccoli lampioni a sfera che nella nebbia crepuscolare assumevano sembianze umane. Alice trascinava la sua valigia maledicendo i tacchi dieci e la gonna aderente a tubo. Scendere i gradini del sottopassaggio si rivelò un'impresa. Gentleman in giro, neanche a parlarne. “Quando li cerchi non ci sono mai...” pensò alzando le spalle. Rassegnata, trainò il suo roller fino al piazzale quindi si incamminò verso i taxi. Un conducente parlottava con un nord africano gesticolando. Alice intuì che cercava inutilmente di fornirgli delle indicazioni stradali. Un altro tassista teneva la mano sinistra a sostenere la testa, il gomito che puntellava sul finestrino. Pareva dormisse. “Scusi è libero?” L'uomo girò il capo al rallentatore poi, scosso dall'avvenenza della donna, si liberò in un attimo del suo inattivo torpore. “Prego certo! Dove desidera andare?”

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“Dove desidero andare? Altrove!” si disse mentalmente Alice ma rispose diversamente: “All'hotel Romagna”. Il tassista la guardò dapprima indeciso poi con sincerità le confidò: “Guardi che è solo ad un chilometro da qui…” Alice ne era consapevole, ma il problema non stava nella distanza. “Il fatto è che con queste scarpe non ce la posso fare…” sospirò indicando all’uomo i trampoli che aveva ai piedi. Il tassista parve più impressionato dalla gambe ma non fece commenti. Scese dall'auto, prese la valigia di Alice sistemandola nel portabagagli, le aprì cavallerescamente la portiera e poi risalì al posto di guida. Girò la chiave nel cruscotto, mise in moto e partì alla volta dell’albergo. La radio trasmetteva un programma di musica anni sessanta. ...and if somebody loved me like she do me... Alice appoggiò la testa al finestrino e guardò la città. Quanti anni erano trascorsi da quel giorno di novembre? Una vita… Tutto era cambiato tanto che a stento le riusciva di orientarsi. ...it’s a love that has no past… Il tragitto in auto fu forzatamente breve e la voce del conducente interruppe il suo rimuginare: “Eccoci qua, siamo arrivati”. Alice pagò la corsa e si accinse ad entrare nell'albergo. Altri scalini, altra fatica, nessun portiere, nessun gentleman. La hall dell'albergo appariva raccolta. Una carta da parati rosso scuro resa ancor più cupa da una illuminazione fin troppo fioca la mise a disagio. Amava la luce e gli spazi aperti. Il mare...

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L'addetto alla reception era un tipo di poche parole, formale e privo di muscolatura mimica. La registrò e, consegnandole la tessera magnetica col numero di camera, con una vocetta che sembrava quasi un falsetto, le diede brevi istruzioni sulla colazione. Alice entrò in ascensore. Quando le porte scorrevoli si aprirono in corrispondenza del terzo piano dell’albergo, la sensazione di disagio aumentò perchè il corridoio, le parve ancora più cupo dell’androne. Quasi intimorita entrò rapidamente in camera chiudendosi la porta alle spalle. Accese tutte le luci e poi, guardandosi intorno, sul suo volto apparve una smorfia di delusione. Si rincuorò pensando tra sé: “È solo una settimana poi si va via. Posso farcela… Sì, posso farcela”. La camera era arredata similmente ad altre centinaia di stanze che aveva suo malgrado abitato provvisoriamente in quel suo perenne vagabondare per le città italiane. Faceva la dimostratrice di una nota marca di cosmetici. Per motivi di lavoro, dal lunedì al sabato di ogni settimana, da oramai dieci anni, cambiava città albergo volti e voci. Generalmente partiva in treno la domenica sera per presentarsi puntuale nella profumeria di turno il lunedì mattina. Poi cominciava una settimana di chiacchiere inutili con le clienti, le commesse e le gerenti. Il sabato sera salutava sorridente dandosi appuntamento a mesi o anni più avanti. Chiusa alle sue spalle la porta del negozio entrava in una sorta di ritiro spirituale rigenerante e per un giorno quasi non parlava. Quel giorno alla settimana tornava ad abitare in casa dei suoi genitori. I suoi fratelli erano sposati e vivevano fuori casa. Con i genitori di Alice abitava anche suo figlio Simone, nato ventidue anni prima. Pensando a Simone, prese in mano il telefono cellulare e lo chiamò: “Che stai facendo?” “Sto inventando un nuovo sistema per riempire di botte i curiosi…” fu la replica del figlio che con tono ironico aggiunse: “...c'è qualche maschietto di

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tuo gradimento in albergo? Perché, sai, non dovrei dirtelo io, ma alla tua età è il momento di sparare le ultime cartucce…” “Scemo, quando torno faccio un nodo in quella tua linguaccia!” la voce aveva un tono di divertita minaccia, “Tutto a posto da quelle parti?” “Stai tranquilla, è tutto sotto controllo. Ciao, buonanotte”. “Notte scimmiotto, ciao…” Appoggiò il telefono e si recò in bagno con un lieve sorriso sulle labbra. Fece una doccia per togliersi di dosso quel penetrante olezzo di treno. Miscuglio di odori umani frammisti ad erosioni metalliche, grasso e detergenti da due soldi. Avvolta in un soffice telo si avvicinò alla finestra osservando la città. Guardava le luci che le balenavano davanti agli occhi ma nello sguardo aveva un’altro orizzonte. Lo stesso luogo in un altro tempo... Aveva sempre cercato di non tornare a Cesena e per tanti anni era riuscita nell’intento. Purtroppo la ditta per cui lavorava, in quell’occasione era stata irremovibile, obbligandola a cedere. Dentro di sè era convinta che fosse un errore. Sapeva che le sarebbe costato. Alice si buttò sul letto e senza capire il perché o forse conoscendolo fin troppo bene, si lasciò andare ad un silenzioso singhiozzare. Nonostante fosse preparata, recalcitrante fu sopraffatta dai ricordi. Quella canzone ascoltata nel taxi le risuonava nella mente. ...It’s a love that lasts forever…

L'estate del ‘91 fu memorabile. Forse non assurse agli onori della cronaca del genere umano ma rappresentò per un gruppo di giovani amici universitari che popolavano la spiaggia del Bagno 65 un periodo di spensieratezza piena di episodi che cementarono la loro amicizia. La vera anima del gruppo era Caterina, una ventenne esuberante e propositiva. A lei furono debitori dell’ideazione di tante strampalate fesserie

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di quei giorni tra le quali spiccò la muratura artigianale dell'ingresso principale della chiesa dedicata a San Giovanni battista il cui parroco, don Arrigo Severi, essendo il famoso protagonista della rivolta del lumacone, era sovente bersaglio degli scherzi di quei giovani. Nottetempo, armati di mattoni e cemento, ersero un muro alto quasi due metri tra uno sghignazzo e l'altro. I giornali locali riempirono poi pagine e pagine per diversi giorni descrivendo il misfatto e inseguendo piste fasulle per l’individuazione dei profanatori. L’elenco delle loro birichinate era lunghissimo così come quello delle nuove coppie che sbocciavano ogni estate. In effetti, d’estate, complici il tempo libero, il caldo e i giovani corpi esposti al sole, nascono da sempre i nuovi amori. Quell'estate non se la sentì di screditare la propria tradizione. A meta giugno Caterina aveva presentato al gruppo di amici sua cugina Alice. Abitava a Mantova e avrebbe trascorso i mesi estivi ospite in casa sua. Aveva diciotto anni. Una biondina, carnagione olivastra e pelle di seta con tutte le sue cosettine al posto giusto. Non impiegò più di un istante per scardinare gli equilibri consolidati del gruppo. In poche parole tutti i maschietti ci provarono ma con scarsi risultati, per non dire deludenti, dato che lasciò tutti i pretendenti con un pugno di mosche. Per la verità non si erano sciolti tutti al suo arrivo, infatti Lorenzo e Tommaso erano apparsi poco interessati. Lorenzo studiava lettere moderne ed era da tempo il fidanzato di Caterina. Un bel tipo con la testa perennemente tra le nuvole. Probabilmente non si accorse neppure della nuova arrivata e del trambusto che aveva provocato la sua entrata nel gruppo di amici. Tommaso, invece, pur accorgendosi della bellezza di Alice che, per la verità, non l’aveva affatto lasciato indifferente, non era però il tipo da lasciarsi coinvolgere facilmente da una ragazza. Era sempre stato il più bello e il più corteggiato del gruppo, pertanto aveva acquisito una sorta di inclinazione ad attendere che fossero le ragazze a fare la prima mossa. C’era anche un altro motivo: Tommaso inseguiva un sogno, quasi una vocazione, che guidava ogni sua scelta e decisione. Aveva ventisette anni e

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stava laureandosi in medicina. Il suo intento era quello, appena ottenuto il diploma di laurea, di partire per il Sudamerica, presso una missione di padri giuseppini in Bolivia, per dedicarsi ai bisognosi indigenti. Aveva già espletato le varie formalità, come le visite mediche e i corsi di addestramento e di lingua. A febbraio sarebbe partito per due anni di servizio civile internazionale. Quell’estate studiava molto e si concedeva agli amici raramente. Lui e Lorenzo si vedevano tutte le mattine. Leggevano insieme i giornali, facevano due chiacchiere poi tornavano entrambi allo studio. La loro amicizia era nata vent’anni prima. Si erano conosciuti in un campo di grano mentre, in compagnia di un gruppetto di ragazzetti scalmanati, davano la caccia a una farfalla gialla e blù. Avrebbero avuto in comune una vita di avventure, giochi e passioni, dalla collezione dei tappini di bottiglia alla raccolta delle figurine Panini, passando per lo spiare da un foro artigianale creato nel muro della camera di Stagno che confinava con l’appartamento di una coppia originaria di Ravenna. Il marito cinquantenne tutti i venerdì sera giocava a carte nel bar mentre la mogliettina di molti anni più giovane rimaneva sola a casa. Da quel buco impararono le prime mosse della danza amorosa da una coppia di adulti, fatalmente adulteri. Fu proprio in una di quelle sbirciatine clandestine che nacque la leggenda del lumacone di don Arrigo… Il prete in questione era famoso in città per essere sempre stato uno che correva dietro le sottane. Fama, per inciso, niente affatto immeritata. Quella sera a casa di Stagno i tre giovani guardoni ebbero la prova concreta delle arti amatorie di don Arrigo e di come, l'arto maschile per eccellenza, se opportunamente lavorato da labbra femminili, da quello che all'apparenza sembrava un lumacone pendulo, poteva trasformarsi in qualcosa d'altro… Con l’arrivo dell’adolescenza, rimasti affascinati dalla musica, avevano imparato a strimpellare la chitarra e poi, dopo qualche tentativo andato a vuoto, erano riusciti a fondare una Band come i loro beniamini, i Beatles.

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Lorenzo scriveva canzoni con testi molto particolari. Tommaso, oltre a cantarle, le arrangiava conferendo loro uno stile rockeggiante. Facevano parte del gruppo altri tre folli: Ghigo, il bassista, Stagno, la chitarra solista e Zorro il batterista. Si fecero chiamare i The Inattentive Colored e per qualche anno, riuscirono anche ad avere un certo successo nelle serate estive. Poi, crescendo, poco alla volta, Lorenzo e Tommaso persero interesse per quel loro grande amore adolescenziale. Continuarono a partecipare alle iniziative della Band, ma sempre con minore passione e, talvolta dando persino buca ad eventi importanti fino a che, in maniera morbida e senza perdere l’amicizia, vennero sostituiti da altri componenti. Capitava ancora di suonare nella Band, ma solamente in sporadiche jam session improvvisate dove cantavano le vecchie hit. Ormai Tommaso era completamente coinvolto nel suo progetto a breve scadenza che contemplava la laurea e il viaggio in Bolivia mentre Lorenzo impiegava molto del suo tempo libero in una nuova follia: stava scrivendo il suo primo romanzo. Mentre il gruppo di amici capeggiato dalla vulcanica figura di Caterina trascorreva le giornate al mare e le serate negli affollati locali della riviera, loro due si dedicavano ad altro aggregandosi agli amici piuttosto sporadicamente. Poi, a metà luglio, si festeggiò il ventitrèesimo compleanno di Caterina. Lorenzo, contraddicendo il moto inerziale che lo contraddistingueva, organizzò una festa in spiaggia in onore della sua bella con tutti gli amici. Dopo cena fece perimetrare un fazzoletto di spiaggia con torce e candele colorate. Bibite e cibarie erano sistemate su un tavolaccio posizionato sul bagnasciuga. Quando arrivò la festeggiata, la Band, in versione acustica, cominciò a suonare All my loving dei Beatles. Non mancava nessuno. C'era Stagno con Tiziana, la sua morosa storica, Ghigo con una strana tipa del genere troietta, raccattata chissà dove e Zorro, inusualmente single che, in assenza della batteria, percuoteva due latte di benzina. C'erano tutti gli amici di Caterina compresa Alice. Verso le dieci Tommaso, assente giustificato, fece il suo ingresso trionfale con la torta.

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Mangiarono il dolce poi continuarono a cantare e ballare fino al mattino. Verso le sei i superstiti si fiondarono in pasticceria, dalla Clotilde, famoso luogo di ritrovo per i giovani mattinieri che si davano appuntamento lì per mangiare i bomboloni caldi e rifarsi gli occhi ammirando il seno audace della giovane pasticcera. Ad un certo punto Caterina si accorse della mancanza di Alice. Stava per preoccuparsi, ma Lorenzo la tranquillizzò. Alice e Tommaso erano attratti da ben altro piuttosto che dai bomboloni della bella Clotilde. Fu così che ebbe inizio quella che sarebbe passata alla storia come la più travolgente storia d'amore di quell'estate, tra la bella e sofisticata Alice e l’inquieto cantante dei The Inattentive Colored. Alice prolungò la sua permanenza in riviera mentre Tommaso si concesse qualche strappo allo studio e ai preparativi per la Bolivia. Lei sapeva che Tommaso a febbraio sarebbe partito ma, e qui dimostrò tutta la sua giovane e femminile ingenuità, era convinta che, grazie a quel loro amore così intenso, sarebbe riuscita a fargli cambiare idea. A niente valsero l'irremovibilità di lui sull'argomento o i consigli di Caterina. Con l’autunno Alice trovò impiego in una profumeria della sua città e i due innamorati cominciarono a vedersi solo la Domenica sobbarcandosi lunghi e noiosi viaggi in treno. Settimana dopo settimana l’ostinazione di Tommaso e l'insistenza di Alice minarono quel giovane amore. La mattina di febbraio che Tommaso partì per il Sudamerica con un volo da Fiumicino, all’aeroporto, per salutarlo, c’erano Stagno, Ghigo, Zorro, Lonny e Caterina. Di Alice nessuna traccia. ...Nobody ever loved me like she does…

Tommaso canticchiava con la mente quella canzone. Era in macchina con Lorenzo e stava raggiungendo l’ospedale dove si sarebbe sottoposto ad una visita specialistica.

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Un medico che andava da un altro medico… Tommaso aggrottò la fronte al pensiero. Tanto era fin troppo consapevole di quello che gli stava accadendo e, inoltre, gente in grado di fare miracoli non ce n’era in giro. Ricordava bene quel giorno a Cochabamba quando, osservando le proprie lastre del torace appese al diafanoscopio, si era sentito mancare. Il mondo era esploso in mille frammenti e tutti i sogni, i progetti, le grandi scommesse sul futuro scivolate nel nulla. Poi la sua abitudine a razionalizzare gli eventi aveva preso il sopravvento. Quella sera stessa fece una lunga passeggiata fino al punto più alto della collina sopra la cittadina dove prestava servizio. Si sedette e pregò un Dio che non amava tanto, di dargli la forza di portare il peso di quella condanna a morte, con la maggiore dignità possibile. Aveva sempre mal giudicato chi non la sapeva conservare in vista del grande salto. Ora temeva che gli capitasse la stessa cosa. Lorenzo cercava di distrarlo raccontandogli le cose più strane ma lui fingeva solamente di ascoltarlo. Sentiva di essergli grato per essersi offerto di accompagnarlo ma, nello stesso tempo, avrebbe preferito poter rimanere solo con i suoi pensieri. Il traffico caotico del capoluogo di provincia divenne una piacevole distrazione. Si divertì alle imprecazioni di Lorenzo ai semafori o alle sue invettive contro gli altri automobilisti. Finalmente giunsero all'ospedale. Il primario del reparto di chirurgia toracica, un omino piccolo, pelato, con una barbetta caprina e canuta, aveva un atteggiamento dimesso, con le spalle un po' ricurve e la faccia stanca. Tommaso osservò lo studio mentre il primario leggeva i referti e studiava la TAC al computer. La camera piccola e poco illuminata. La scrivania di metallo debordante di scartoffie. Intorno, le attrezzature di una stanza per prime visite. Nell'aria un odore insistente di ipoclorito di sodio. L’ometto alzò lo sguardo incontrando gli occhi di Tommaso. “È molto grande ma appare circoscritto al polmone sinistro. Devo essere

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franco con te, sei un collega e quindi conosci queste cose quanto me. La chirurgia è molto invasiva e non può essere considerata risolutiva. Il rischio di recidiva è elevato, senza contare la menomazione in termini di deficit respiratorio. Non va poi sottovalutato il problema relativo alla capacità polmonare del lato sinistro. Hai fumato troppo e nonostante tu abbia appena cinquant’anni, hai un enfisema avanzato”. S’interruppe un istante togliendosi gli occhiali per massaggiarsi il naso con un gesto probabilmente abituale. “In ogni caso non vedo alternative”. Prese un’agenda e massaggiandosi il mento la sfogliò. “Il primo posto utile sarebbe tra quattro mesi ma, a giudicare dallo stato di avanzamento del tuo tumore, ti ridurrebbe le possibilità al minimo. Però, tra venti giorni si è creato un buco nella mia agenda”. Il medico esitò un istante. “Dovevo operare un ragazzo. Faceva il carrozziere. Dico dovevo, perché ho avuto la notizia poche ore fa che è deceduto”. Tommaso chiuse gli occhi pensando: “Mors tua vita mea...” “Devi dirmi adesso se vuoi prendere il suo posto perché tra cinque minuti non sarà più libero. Ho decine di persone in lista d’attesa...” Tommaso allargò le braccia dicendo soltanto: “Va bene. Proviamo”. Il dottor Belcuore si alzò, gli strinse la mano poi chiamò un suo collaboratore per affidargli Tommaso che uscì dall’ospedale con il foglio di ricovero e l'elenco del materiale necessario per il periodo post-operatorio. Si avviò lentamente verso il parcheggio. Lorenzo lo stava aspettando in fondo al vialetto che conduceva fuori dall’ospedale. “Allora? Che ti ha detto Belcuore”. Tommaso spiegò a Lorenzo come stavano le cose e quali erano le sue sensazioni. Discussero della cosa per tutto il viaggio fino a che non giunsero

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alla parrocchia di don Diego. “Grazie per la compagnia e le chiacchiere, sei un vero amico”. Lorenzo si schermì: “Non ho fatto nulla, ci vediamo domani pomeriggio che vengo a farti un saluto. Ora vado che devo scappare. Ciao”. Tommaso seguì con lo sguardo la macchina di Lorenzo fino all'incrocio poi la perdette di vista. Si girò e con una certa stanchezza camminò fino alla canonica, entrò e salì in camera. Si spogliò lasciandosi cadere sul letto. Guardò per qualche istante il soffitto di quella piccola camera poi abbracciò il cuscino e cominciò a singhiozzare. Quando aveva tredici anni fu mandato in collegio a Pesaro. C'era stato il crack finanziario del padre. Ricordava bene l'angoscia e il senso di abbandono di quei giorni. Tutte le sere, quando chiudevano la luce della camerata, lui abbracciava il cuscino e piangeva in silenzio la sua disperazione. Trentadue anni dopo, una disperazione diversa aveva richiamato quelle lacrime. Trascorsa un’ora decise di scuotersi. Andò in bagno, si fece una doccia e tornò in camera per vestirsi. Fu in quel momento che notò lo scatolone appoggiato sulla scrivania. Rammentò che il giorno prima Diego gli aveva detto qualcosa al riguardo. Era rimasto nell'appartamento dove vivevano in affitto i suoi genitori. Il proprietario, venendo a conoscenza del suo ritorno, glielo aveva fatto recapitare. Forse, avendolo conservato, conteneva qualcosa di importante... ...I guess nobody ever really done me… Di nuovo quella canzone gli risuonava nella mente. Tommaso aveva vissuto una infanzia splendida in compagnia di un nutrito gruppo di scavezzacollo. Qualche volta aveva chiesto un fratellino ai suoi genitori senza mai riuscire ad interpretare l'espressione rattristata che ogni

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volta la sua richiesta provocava nei loro volti. Suo padre, industriale del tessile, era del 1915 e sua madre era solo due anni più giovane. Persone benestanti con, alle spalle, una vita piena di soddisfazioni. Si erano sposati poco prima che iniziasse il secondo conflitto mondiale però avevano atteso più di vent'anni per diventare genitori. Quando faceva la richiesta di un fratello, i suoi erano dei sessantenni. Non aveva molti parenti perché i fratelli di sua madre erano tutti morti in guerra. L’unica sorella di suo padre, la zia Mirella, era deceduta qualche anno prima che Tommaso partisse per la Bolivia. La scatola di cartone... Solo documenti tra cui le sue pagelle delle scuole elementari, il diploma di maturità e una serie di protocolli che gli risultavano incomprensibili. Ripose mestamente il tutto nella scatola. Sperava forse di trovarvi qualche ricordo dei suoi genitori, un indizio di affetto da tenersi accanto fino alla fine del viaggio. Dopo circa un anno che Tommaso era in Bolivia, giunse, al termine di un iter lunghissimo, la sentenza definitiva di condanna da parte del tribunale per la vicenda del fallimento che aveva travolto suo padre qualche anno prima. Fu la goccia che, fatalmente, fece traboccare il vaso. Il padre di Tommaso, quasi ottantenne, ebbe un moto di follia. Uccise la moglie con un colpo di pistola, la stessa che, pochi istanti dopo, si rivolse contro. Tommaso fece ritorno in Italia per partecipare al funerale. In poche settimane espletò le varie formalità, salutò gli amici e tornò in Bolivia dove prolungò il suo impegno. Quei due vecchietti che lo avevano tanto ostacolato nella sua avventura non avrebbero più avuto niente da ridire. Il rapporto con suo padre era sempre stato un po' freddo. Tommaso lo attribuiva al fatto che fosse un uomo molto impegnato, abituato a prendere decisioni e a comandare. Quel suo gesto finale non lo aveva stupito. Mentre disteso sul letto ripensava alla sua giovinezza e alle cose fatte e non fatte con i propri genitori, il cervello accese una spia rossa.

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Si trattava di una parola. Quante gocce di pioggia ci sono dentro una parola? Quante verità nascoste s’infrangono in una parola? Cosa significava? In quale contesto l’aveva letta? Si alzò di scatto prese in mano quelle scartoffie e le rilesse con maggiore attenzione. Poi le lasciò cadere per terra. E la parola che aveva cercato? Era una parola sottile, dal significato tagliente, affilata come la lama del bisturi che lo stava aspettando: Adottato… Quella notte ebbe le stigmati dell’insonnia per Tommaso. Forse, sapendolo, lo avrebbe consolato il pensiero di non essere l’unico ad avere difficoltà a riposare.

Un tonfo seguito da urletti e gridolini. Svegliata bruscamente, Alice fu costretta suo malgrado a trascorrere buona parte della nottata sveglia e oppressa da pensieri fastidiosi. Non erano ancora le tre del mattino. Si era girata dall'altra parte del letto, sistemando diversamente il cuscino per tentare di riprendere sonno. Ma in quel momento i rumori che provenivano dalla stanza accanto erano diventati inequivocabili. Dall'altra parte della parete stavano scopando e anche con un certo ritmo. Alice odiava quei momenti quando in albergo era costretta, suo malgrado a sciropparsi l’amplesso del vicino di turno. L'ultima volta che aveva fatto l'amore risaliva a tre anni prima, al tempo della sua relazione con un tipo conosciuto durante una cena aziendale. Non era stato un granchè, né la relazione né tanto meno il sesso... Mentre tentava di scacciare quel pensiero, nella stanza accanto il ritmo andò accelerando con l'accompagnamento sonoro del cigolio del letto e di

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alcuni versi animaleschi. Attese con rabbia il termine del rapporto sessuale. Finalmente fece ritorno la quiete. Alice diede inizio ad un valzer di movimenti e cambi di posizione nel vano tentativo di riprendere sonno. Sapeva che era inutile. Fatalmente dovette assecondare il flusso dei pensieri. Quando Simone aveva due anni ebbe una storia con un ragazzo di Ferrara. Era un tipo simpatico e belloccio con la battuta sempre pronta ma, a letto, una totale delusione. Dopo avere fatto l'amore, si addormentava pesantemente. Stessa sorte ebbero le due storie successive. Brave persone, carine, ma tutte prive di quel qualcosa. Riusciva a raggiungere il piacere solo se mentre faceva l'amore pensava ad un altro. L'altro aveva un nome e si chiamava Tommaso. La verità, disarmante, in fondo era piuttosto semplice. Nonostante fossero trascorsi vent'anni il ricordo dei momenti di intimità con Tommaso rimaneva per lei indelebile. Tommaso sapeva cosa fare e, soprattutto quando farlo. Inoltre aveva quel modo appassionato e affamato di baciarla tra le gambe che nessuno aveva saputo eguagliare. Quando pensava a quei momenti si bagnava. Odiava che accadesse ma non poteva farci nulla. Era fuori dal controllo della sua razionalità. Per anni, nella sua mente lo aveva odiato, mentre il suo corpo e il suo cuore lo avevano rimpianto. Ora, a distanza di anni, non sapeva più cosa provava per lui, ma che il suo corpo continuasse a desiderarlo era un dato di fatto. Vinta da quel pensiero, chiuse gli occhi, allargò le cosce e lasciò che le sue mani andassero libere a raccoglierle il piacere.

Mentre Alice riusciva faticosamente a riprendere sonno, un anziano sacerdote si svegliava dolorante e in preda ad uno stato febbrile. Quella mattina verso le cinque e mezza schiacciò il pulsante che teneva sul comodino. Dopo pochi istanti don Diego si affacciò nella sua camera.

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“Che succede?” La voce era flebile e faticava ad uscire. Gli fece cenno di avvicinarsi. “Oggi non me la sento di alzarmi. Diresti tu la messa delle sei e trenta? Però non toccare il culo all’Elvira che se no si offende… Sai, lei è abituata al mio tocco leggero e vellutato”. Diego sorrise. Toccò la fronte del vecchio parroco. Scottava. “Va bene, ci penso io. Ora vado a prenderti qualcosa”. Don Diego gli versò un bicchiere d'acqua poi uscì. Don Bargiggia rappresentava in tutto e per tutto il classico uomo del sud. Nativo di torre San Giovanni, aveva compiuto gli studi seminaristici a Bari per poi fare ritorno a Lecce, dove aveva trascorso una ventina di anni con diversi incarichi apostolici. Nei primi anni novanta venne coinvolto in uno scandalo a sfondo sessuale. Lo accusavano di molestare e approfittare dei ragazzini maschi che frequentavano la parrocchia. Non ci fu un risvolto penale solamente perché la curia mise tutto a tacere pagando le famiglie coinvolte. Il vescovo, nell'ultimo colloquio, spiegò a don Bargiggia il motivo del suo allontanamento a nord. Il parroco avrebbe voluto difendersi, magari dimostrando la sua innocenza con quella sua smodata passione per il gentil sesso, ma capì che non era argomento per il vescovo. Si rassegnò ad emigrare a Bari oppure a Foggia. “No, don Bargiggia, non mi ha capito. Non ho detto più a nord. Ho detto a nord e quando dico nord intendo proprio nord...” Un nord che significava lontano. Lontano dalla sua terra, dai suoi profumi, dal caldo torrido e dal vento. Fu così che con le poche cose che possedeva un innocente pretonzolo nord africano approdò in Romagna. Nonostante quella dura prova non perdette la sua forza d’animo e la sua allegria. Dopo pochi mesi gli venne dato un incarico: parroco di San Zaccaria, paesello di poche anime tutte piuttosto vetuste. Lì aveva trascorso gli ultimi vent’anni. Ora la vita cominciava a strattonare, il suo motore si

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inceppava spesso, restando senza carburante. Uscito dalla camera di don Sergio, Diego chiamò Antonio che, non si capiva bene come, a qualunque ora del giorno e della notte era sempre sveglio e già vestito. Antonio aveva appena compiuto sessantanni ma a prima vista, vuoi per la barba bianca, vuoi per il suo atteggiamento introverso, quasi scontroso, appariva molto più vecchio. In realtà possedeva ancora l’energia e la forza fisica di un quarantenne. Si organizzarono per la giornata e, mentre don Diego si apprestava a dire messa alle solite cinque, sei vecchierelle, Antonio faceva da infermiere a don Bargiggia. Verso le dieci arrivò il medico. Visitò il vecchio prete poi si fermò in cucina a parlare con don Diego. “Si tratta solo di una virosi. Niente di più. I polmoni sono liberi e il cuore sta benone. È chiaro, data l'età è tutto più complicato ma mica ha perso smalto… Sai, indovina un pò: mi ha chiesto se lo mettevo in sesto per questa sera che doveva andare a fare quattro salti. E mi ha fatto l'occhiolino. Che tipo…” Don Diego si lasciò andare in una breve risatina. Congedato il dottore risalì in camera da don Bargiggia. “Come va?” Il vecchio sollevò una mano come a dire: “Come vuoi che vada...” Con un filo di voce disse: “Siediti”. Aveva voglia di compagnia. “Sai a cosa stavo pensando? Mi è venuto in mente un episodio di quando ero bambino. Stavo giocando in cortile con il mio cane preferito che avevo chiamato Genio perché era un po' tontolone, quando sentii una voce. Una voce lontana ma non in lontananza perché la sentivo dentro di me. Mi chiamava. Diceva il mio nome e mi chiedeva di seguirla”. Don Sergio fece una pausa, “Mi ricordo che lo raccontai a mia madre...”

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Al pensiero fece una espressione dolceamara. “La mia mamma era una donna speciale. Mi disse di non dire niente a nessuno, che mi avrebbero preso in giro, considerandomi un po' tocco”. Don Bargiggia prese la mano di Diego tra le sue. “Io sono stato zitto, ma non ho smesso di seguire quella voce. È per questo che non mi sono mai sposato. Sai cosa mi diceva sempre quella voce?” Don Diego lo immaginava ma lasciò al vecchio il gusto di ripetere quella frase sentita dalle sue labbra più volte. “Diceva: fidarsi è bene non fidanzarsi è meglio...” Sorrisero entrambi nel silenzio di quella cameretta spoglia dove le cose di una vita riempivano a malapena un cassetto dell’armadio. “La verità, Diego, è che, avendo sempre seguito quella voce, ora che è giunto il mio momento, io non ho paura”. Don Diego gli dimostrò di aver capito muovendo il capo e sorridendo. “Ora non ti affaticare. A proposito, per tua informazione, anche se non ne hai timore, è mio obbligo farti presente che, al contrario di quello che dici, non è ancora arrivato il tempo di lasciarmi qua da solo. Adesso riposa, io torno tra un po'”. Il vecchio ricambiò il sorriso e chiuse gli occhi. Don Diego chiuse la porta alle sue spalle senza fare rumore. Aveva gli occhi lucidi. Lorenzo giunse a San Zaccaria nel primo pomeriggio. Un'idea insopportabile lo stava devastando da giorni. Voleva parlarne con Diego. A San Zaccaria c'era il silenzio del deserto, neppure Franchino a vigilare in canonica. Dietro alla chiesa, nel cortile della parrocchia, sdraiato sul ghiaino c'era il piccolo Kevin. Lorenzo si avvicinò. “Ciao ometto, hai visto don Diego?” Senza alzare neppure la testa il piccolo rispose: “È andato via con Tommaso non so dove”. Lorenzo ci rimase male. Certo, avrebbe potuto telefonare, ma l'idea era

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salita improvvisa e impellente non lasciandogli il tempo di ragionare. “Cosa sono quelli?” domandò al bambino. “Sono origami...” rispose asciutto Kevin, “...me li ha insegnati Tommaso”. “Oh, lo so cosa sono...” Lorenzo era un patito di quegli accartocciamenti di carta, “...mi chiedevo solo cosa rappresentassero…” Ma Kevin non lo degnò di nessuna risposta allora Lorenzo si avvicinò e vide che erano dei girasoli. “Se vuoi posso insegnarti a farne altri…” Finalmente Kevin apparve interessato. “Sai fare i gabbiani?” “Certamente”. Quella risposta fu finalmente capace di evocare un po’ di entusiasmo nel piccolo. Si alzò e corse a prendere dei fogli colorati che consegnò a Lorenzo. “Allora vediamo un po'”. Lorenzo si sedette per terra e cominciò a modellare la carta. Uno, due, tre gabbiani. “Vanno bene?” “Forti!” disse il piccolo che cominciò a muoverli nell'aria per farli volare. Un volo di carta... E ritornava l’idea a punzecchiare la mente. “Sai perché mi piacciono i gabbiani?” gli chiese Kevin. “No, dimmelo tu” rispose Lorenzo. “Perché loro possono volare via lontano”. Poi lo sguardo del piccolo si adombrò. Guardandosi negli occhi si compresero al volo. Quarant'anni di differenza ma la stessa idea nello sguardo. Fu in quel momento che sopraggiunsero don Diego e Tommaso. “Ciao Gigante...” lo salutò Tommaso, “...cosa ci fai qua?” “Sono venuto a giocare con Kevin. Per la verità volevo parlare con Diego ma ora non ne ho più bisogno”. Seduto a gambe incrociate guardava verso l'alto i due amici. Gli sfuggì un

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sorriso carico di tristezza, poi fece una carezza a Kevin e si alzò. “Stai bene?” gli chiese don Diego. “No...” rispose asciutto Lorenzo, “...ma almeno ho capito”. “Cosa avresti capito?” gli domandò Tommaso. “Il segreto dei gabbiani…” così dicendo, Lorenzo diede un buffetto sulla guancia a Tommaso, salutò la compagnia e tornò alla propria auto. Mentre guidava verso casa, la strada provinciale con il suo intercalare di campi coltivati, casupole da contadino, filari di uva, alberi da frutta e alberi secolari, lo costrinse a ritornare con la mente nel tempo, a quel sè stesso bambino, a quella sua matura ingenuità. Si chiese: “Quando è stato che ho cominciato a perdere l'idea del volo?” La risposta la conosceva. Quando si rinuncia al sogno si perde anche la possibilità di alzarsi in volo. Lorenzo era stato un bambino taciturno e introverso, dedito ai sogni ad occhi aperti. Quelle caratteristiche lo avevano accompagnato nella adolescenza e smussando qualche angolo, si era trovato cucite sulla pelle anche da adulto. Sotto casa dei suoi nonni, verso valle c'era un grande campo di grano così tanto ampio che ci si poteva perdere dentro. Spesso Lorenzo vi si addentrava quando il grano era ormai prossimo alla mietitura. Si spingeva nella zona più centrale del campo per sedersi tra le spighe. Una volta accovacciato nessuno poteva più vederlo e lui si sentiva rassicurato da quell'isolamento all'aria aperta. Sentiva l’odore della campagna e osservava il brulicare degli insetti tutto intorno a sè. Quando alzava la testa verso il cielo, si lasciava accarezzare dalla felicità della volta terrestre. Gli azzurri e i grigi si davano il cambio in una danza talora frenetica, altre volte così lenta da fermare il respiro. Gli mancavano quei momenti e quella mente così ingenua e spensierata capace di partorire i sogni più strampalati e, soprattutto, di credervi. Ma ciò di cui sentiva maggiormente la mancanza era il sogno.

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L'aveva quasi afferrato, sfiorato con le dita poi, non sapeva esattamente come, quando e perché, gli era sfuggito. Per quanto lo avesse inseguito, ogni giorno che passava lo aveva visto allontanare, fino a perderlo per sempre. Lorenzo parcheggiò l'auto lungo la strada, si coprì il volto con le mani e, nonostante avesse tentato ostinatamente di non farlo, pianse amaramente. Caterina scese le scale, fece per salire in macchina, ma l’auto non c'era. “Il Cretino...” pensò, “...eppure glielo avevo detto che mi serviva”. Fece un numero di telefono. “Dove sei?” la voce era astiosa e risentita. “Sto arrivando” rispose Lorenzo. “Allora sbrigati a portare il tuo culo qui, che ho fretta”. “Arrivo” si asciugò le lacrime e partì. Tra i denti lasciò sibilare una frase: “Vita di merda…” Giunto a casa, Lorenzo consegnò l'auto ad un’indispettita Caterina. Lo sguardo di commiserazione della moglie lo ferì nel profondo. Invece di salire in casa attraversò la strada ed entrò nel bar tabaccheria posto nell'angolo dell'incrocio. Entrando si scontrò spalla a spalla con un fighetto ignorante, i capelli lunghi, gli occhialini da intellettuale e un'aria snob da fare schifo. “Ehi, attento a dove guardi stupido bisonte!” La voce era gracchiante. Avrà pesato cinquanta chili, alto forse un metro e settanta, forse meno. Lorenzo lì per lì, avesse assecondato il suo istinto, gli avrebbe mollato un ceffone, ma si trattenne. Il fighetto venne graziato dalla indole mite del gigante e dalla propria corporatura. Solo che ebbe voglia di insistere: “Sì, ti conviene fare finta di nulla, idiota!” Questa volta lo sguardo di Lorenzo dovette essere più duro, perché il tipo fece un passo indietro. Ma Lorenzo disse solamente: “Ti conviene camminare rasente il muro, Ciccino, altrimenti potresti volare via al primo soffio di vento”.

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Quindi entrò nel bar e cominciò a bere. Verso mezzanotte squillò il telefono di casa. Caterina si alzò dal letto e raggiunse il soggiorno. “Pronto?” “Scusi signora, ma qui c'è suo marito completamente ubriaco e non riesco proprio a convincerlo di tornarsene a casa”. “Arrivo subito”. Caterina indossò una tuta e raggiunse rapidamente il locale. Si chiese da quanti anni Lorenzo non beveva. In effetti conosceva la risposta... Nell'istante che lo vide seduto al tavolino con la testa tra le mani, avvertì per la prima volta un senso di colpa. Si sedette al suo fianco e disse: “Che ne dici di tornare a casa?” Lu,i con lo sguardo perso nei fumi dell'alcool, biascicò solo quattro parole: “Cosa ci vengo a fare se tu non mi ami più?” Caterina socchiuse gli occhi, poi si fece forza. “Ne parliamo domani mattina smaltita la sbronza, adesso alzati e vieni a casa, io certo non posso prenderti su di peso”. Poi lo tirò dolcemente. Come un cagnolino ubbidiente si fece trascinare al guinzaglio. Si abbandonò pesantemente sul divano di casa abbandonandosi ad un sonno profondo e roncopatico. Il giorno dopo si risvegliò con un tremendo mal di testa. Caterina, pronta ad uscire, era una favola vestita di marrone con le spalle scoperte. Lui invece si sentiva uno straccio. Lei si sedette sul tavolino di fronte al divano e gli sorrise. Lorenzo non ricordava da quanto tempo la moglie non gli sorrideva. “Stai poco bene?” “No perché?” “Mi sorridi, quindi ho pensato tu fossi ammalata…” Caterina sorrise di nuovo. Lo baciò sulla fronte e si alzò.

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“Devo andare a lavorare e anche tu. Tra un'ora hai lezione. Datti una sistemata che sei impresentabile così... Ciao”. Lorenzo rimase lì sul divano instupidito. Portò una mano sulla fronte a sfiorare quel bacio. Era una sensazione piacevole che faceva contrasto con il forte mal di testa regalatogli dal Gin-tonic. Quando si era ubriacato l'ultima volta? Da giovane aveva fatto diverse sbornie colossali. In compagnia dei soliti amici ci aveva dato dentro, specialmente con Zorro e Ghigo, perché a Stagno l'alcool non piaceva troppo dato che non lo aiutava a vaneggiare quanto facessero gli Acidi e il Rosso era sempre stato parco nell'uso di alcool e droghe. L'ultima vera, grassa bevuta era stata la settimana prima della partenza di Tommaso per il servizio civile missionario. Ricordava bene quella serata… Nel pomeriggio aveva ricevuto l'ennesima telefonata preoccupata da parte di Laura. Non sapeva più come arginare la deriva autolesionistica del figlio e temeva facesse una brutta fine. Lorenzo tentò di rassicurarla. Le promise che, dato che quella sera uscivano tutti insieme, avrebbe provato a parlargli. Chiusa la telefonata si rese conto di aver pronunciato soltanto delle parole inutili, giusto per confortarla. Ghigo non ascoltava nessuno, solo la sua indole maledetta. Purtroppo pochi mesi dopo le preoccupazioni di Laura ebbero una terribile conferma. Si ritrovarono verso le nove di sera a Porto Vento, una bettola sulla via del mare vicino allo stadio, dove Zorro aveva i suoi loschi giri per procurarsi il fumo. Bevettero la prima birra al bancone. Quando loro cinque si ritrovavano, nel giro di pochi minuti incominciavano a sghignazzare e a sparare cazzate. In fondo decisamente diversi l'uno dall'altro ma uniti dai primi passi del mattino, si capivano al volo. Molto spesso non c'era bisogno di intavolare discorsi, bastava uno sguardo o una piega del sorriso. Quella notte anche il Rosso si lasciò andare a qualche bicchiere di troppo e

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così si ritrovarono verso le cinque del mattino completamente ubriachi in una discoteca di Riccione. Stagno, l'unico ancora abbastanza lucido, provò a raccoglierli per riportarli a casa. Il Rosso era sdraiato su un divanetto che tirava in una canna mentre Zorro si era addormentato con la testa appoggiata sul tavolino e le braccia a penzoloni. Stagno gli diede uno scrollone e lo rimise in piedi, prese Tommaso per un braccio e trascinò entrambi all’aria aperta poi rientrò nel locale a cercare gli altri due. Ghigo era in bagno in fase di accoppiamento. “Quando hai finito la fase godereccia raggiungici nel parcheggio. Ti aspettiamo in macchina”. Ghigo rispose con un grugnito che Stagno interpretò come un suono di assenso. Quindi cercò Lorenzo. “Dove cazzo sarà finito il gigante...” Lo vide in mezzo alla pista completamente nudo che imitava John Travolta. Stagno non poté mai più perdonarsi per il resto dei suoi giorni di non avere avuto a sua disposizione una macchina fotografica. “Ehi, bello, dove hai messo i vestiti?” “Boh?” Stagno si guardò intorno ma degli abiti di Lonny non c'era traccia. Lo prese per mano e se lo tirò dietro nudo come un verme. Ghigo era già rientrato in auto e si era messo al posto di guida. “No, bello mio, tu non sei proprio in grado di guidare, spostati!” Malvolentieri Ghigo saltò nel sedile a fianco. Stagno fece per fare entrare l'uomo nudo in macchina ma Lonny si era volatilizzato. Si guardò intorno e vide che correva come un pazzo sulla statale. Salito in macchina mise in moto e lo raggiunse. Lonny dibatteva le braccia. Dal finestrino Stagno gli gridò: “Lonny, cazzo fai?” “Sono un Condor, sono un Condor! Sto per decollare!”

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Stagno scese dall'auto, prese il Condor per un’ala e lo costrinse ad entrare in auto. Lonny protestò a lungo: “Dovevo volare, stavo per alzarmi in volo!” “No, Coglionazzo, stavi soltanto per essere investito! Ora mettiti bello a cuccia e fatti una bella dormita”. “E i vestiti?” chiese il babbo di Lorenzo rivolgendosi a Stagno impegnato nel disperato tentativo di non scoppiargli in faccia con una risata fragorosa. “Non saprei, Riccardo, io me lo sono trovato così”. Il babbo di Lorenzo sorrise indulgente. “Vabbè Stefano, grazie per averlo riportato a casa tutto intero. Vieni bel culetto che si va a nanna”. Poi vomitò anche l'anima. Quella sera aveva bevuto di tutto e di più. Dopo c'era stato l’incidente di Zorro e Ghigo. Nessuno di loro si era più ubriacato. Lorenzo si alzò dal divano e barcollando raggiunse il bagno. Si considerò nel riflesso del vetro. I capelli straniti, le borse sotto gli occhi. Si lavò la faccia con acqua gelida. Tornò a guardarsi e, parlando al suo alter ego nello specchio, disse con tono fortemente ironico che conteneva una venatura di auto disapprovazione: “Buongiorno Professore!” Quel pomeriggio, Caterina si trovò alle prese con una piccola empasse domestica. La sua lavatrice ultimamente terminava il bucato scordandosi di eseguire la centrifuga. Era un elettrodomestico stupido e testardo. Da tempo pensava di cambiarla ma, per un motivo o per un altro, aveva sempre rimandato l’acquisto. Caterina tentennò qualche istante poi, presa da un moto di profonda rassegnazione, tolse i panni inzuppati, li mise in una cesta e portò il suo contenuto gocciolante dentro la vasca dove si mise a strizzarli uno per uno. Lo squillo del telefono le consentì di interrompere quel compito ingrato.

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“Pronto?” Dall'altro capo del telefono le rispose la figlia. “Mamma, ciao! Ho preso trenta!” Petra stava frequentando il secondo anno del corso di laurea in scienze veterinarie a Bologna. Caterina desiderava che i suoi figli si potessero realizzare nella vita facendo ciò per cui sentivano di essere portati. Rispose alla figlia con entusiasmo: “Bene Stellina! Un altro tassello del sogno lo hai portato a casa! E adesso, cosa fai? Resti ancora a Bologna?” “No! Torno a casa, Mamma...” rispose la figlia, “...sono stanca morta, voglio infilarmi nel letto e dormire per due giorni interi! Il Babbo è in casa?” “No, è uscito...” Caterina si accorse che la sua voce, mentre parlava del marito, aveva una sfumatura insolitamente dolce, “...chiamalo sul cellulare, avrà sicuramente piacere di sentire la notizia da te”. “Va bene, allora lo faccio subito. In ogni caso credo che sarò a casa verso le sei, Trenitalia permettendo…” Terminata la telefonata Caterina tornò in bagno dove la stava aspettando l’ingrato compito di spremitura. Mentre stendeva i panni pensava al fatto che Petra le assomigliava molto. Aperta, solare, determinata. Sperò che niente e nessuno le avrebbe mai tarpato le ali. Non aggiunse: “Come è successo a me...” solo perché era implicito nel ragionamento.

Si era laureata a pieni voti in archeologia. A fine aprile partiva una spedizione italo tedesca in Giordania e il professore con cui aveva redatto la tesi di laurea era il responsabile della spedizione. Si fece coraggio e chiese di potervi partecipare. Lui ne fu ben contento. Mancava sempre forza lavoro giovane e preparata negli scavi. Lorenzo non solo non si oppose ma anzi la incoraggiò e così, esauriti i preparativi, si aggregò alla spedizione italiana che prese il volo da Roma per Amman con destinazione finale le rovine della città di Petra.

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Le cose tra Caterina e Lorenzo non andavano male ma neppure troppo bene. Stavano insieme già da tanto tempo. Lei così esuberante e piena di vita, lui, a neanche trent’anni, rappresentava già l'archetipo del pantofolaio perfetto tutto lavoro, casa, libri e televisione. Quando facevano l'amore non provava niente di speciale. Lei avrebbe voluto altro, ma non osava chiederlo e così restava sempre insoddisfatta. Però gli voleva bene e sapeva che Lorenzo aveva un dono speciale: sapeva capire la sua anima. Era il motivo per il quale era rimasta con lui, nello stesso tempo era felice di partire. Aveva bisogno di riflettere sul loro rapporto e la distanza l’avrebbe favorita nel ponderare bene le cose. Petra, il cui nome semitico, Reqem, ovvero La Variopinta, faceva riferimento alle sue facciate intagliate nella roccia rosa, era una antica città abbandonata intorno all’ottavo secolo in seguito alla decadenza dei commerci e alle catastrofi naturali. Il complesso archeologico si trovava a circa duecentocinquanta chilometri da Amman, in un bacino tra le montagne ad est del Wadi Araba. Quei giorni furono particolarmente belli e intensi. Stava facendo le cose che più gli piacevano ma dopo poche settimane il destino le impose una svolta inaspettata. Mentre lavorava Caterina ebbe un mancamento. Soccorsa e condotta in un luogo fresco si riprese piuttosto rapidamente ma il medico della spedizione la volle portare ad Amman per accertamenti. Fu in quel modo che scoprì di essere in dolce attesa. Con la nascita della figlia, Caterina disse addio all’archeologia sul campo e divenne insegnante di ruolo in una scuola media. Non proprio il sogno… Caterina allontanò quei pensieri. Si era fatto tardi e aveva un appuntamento. Ripose la cesta dei panni e corse a prepararsi.

C'era un sole velato. Faceva comunque abbastanza caldo per pranzare all'aperto seduti a un tavolino di un bar. Il centro storico chiuso al traffico faceva sì che solo poche

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persone si aggirassero per le vie del centro. Alice leggeva distrattamente il giornale in attesa della cugina perennemente e da sempre in ritardo. Si erano sentiti per telefono la sera prima e Caterina le era sembrata meno esuberante del solito. Alice lo aveva attribuito all’età. Non poteva restare un vulcano tutta la vita... Non fece tempo a leggere un articolo scritto alla memoria di Ferruccio Benzoni, un poeta di Cesenatico, quando irruppe Caterina. Non si vedevano di persona da quasi tre anni. Si abbracciarono e si baciarono sorridendosi. Caterina le apparve in forma smagliante. Era sempre stata una bella ragazza magra e proporzionata con un paio di occhi neri profondi e vivaci. Però non aveva la minima cura nel vestirsi e portava i lunghi capelli neri disposti alla rinfusa o raccolti in ciocche anarcoidi. Se la ritrovò, invece, infilata in uno splendido vestitino giallo che le stava a pennello e disegnava le sue curve femminili in maniera perfetta. Le spalline, appositamente lasciate scendere sulle braccia le donavano un tocco di fascino provocante. Nei piedi al posto delle solite ballerine o di un paio di scarpe da tennis, calzava due decolletè marroni, lucide, tacco dodici sulle quali camminava in maniera disinvolta. I capelli poi, erano davvero sorprendenti. Un taglio corto asimmetrico modernissimo. Dimostrava dieci anni di meno. “Cate, che sorpresa, stai d'incanto! Che ti è successo?” Caterina si schermì. “Oh, non ci fare caso! Mi sono inghingherata per non farti sfigurare...” In effetti Alice era sempre stata molto accurata nel vestire, cavalcando le varie tendenze della moda. Nemmeno nei vari periodi di depressione e smarrimento, dove sarebbe stato più facile non badare all'abbigliamento, si era lasciata andare. Quel modo di vestirsi raccontava di lei più di tante parole, era a tutti gli effetti una seconda pelle. Le due cugine si sedettero. Alice accavallò le gambe con fare involontariamente civettuolo sporgendosi verso la cugina.

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“Allora, ci sono novità?” Intuito femminile. Ovvia evidenza. Caterina era cambiata. Quel suo modo di vestire lasciava trapelare un cambiamento più intimo e profondo. “È così tanto lampante?” aveva risposto con una domanda dal tono insolitamente serio. Alice comprese al volo che la cugina aveva bisogno di parlare. E infatti iniziò il racconto. Della situazione densa di rinunce che era stata crescere tre figli. Certamente un grande dono, ma anche e soprattutto un’immensa fatica. Tante privazioni personali e poche soddisfazioni. Del fatto che avere accanto un uomo triste e silenzioso non fosse mai stato un grande conforto. Di come iniziare a tradirlo due anni prima le fosse divenuto talmente facile da essere incomprensibile perfino a lei. Fino alla novità finale di un uomo ferito che, in un ultimo disperato tentativo di riprendersi la moglie, fa la cosa esatta da fare proprio nell'attimo giusto. Lei, che pensava di lasciarlo, si trovava nel turbinio dei pensieri. Venti minuti senza prendere fiato. “Cosa ne pensi?” La domanda di Caterina apparteneva al genere di quelle che chiedevano una risposta vera. Alice da sempre odiava il chiacchiericcio tutto femminile ricolmo di frasi fatte, falso stupore, complimenti inutili e varie amenità. Aveva subìto le malelingue difendendo con il silenzio la propria dignità. “Se chiedi un consiglio, devo confessarti candidamente che hai scelto la persona meno indicata. Posso dirti quello che penso, ma non so quanto possa esserti d'aiuto…” Caterina la guardò sorridendo. Le mani le tremavano leggermente. Le labbra erano appena piegate in una smorfia d’attesa. Sussurrò: “Spara…” Alice ricambiò lo sguardo.

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“Io penso che tu debba fare la cosa che ti fa sentire meglio. Penso anche che la mossa di Lorenzo non debba portarti a rinunciare ai tuoi propositi. In ogni caso puoi prendere tempo. Rifletterci sopra. Hai atteso vent’anni, puoi aspettare ancora qualche settimana, no?” Le parole di Alice toccarono Caterina nei punti giusti. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di liberarsi di quel peso. Iniziò a piangere. Le due cugine si abbracciarono e rimasero in quella posizione qualche istante. Poi Caterina si fece forza. Preso un fazzoletto di carta dalla borsetta, si asciugò le lacrime e riportò il sorriso sulle labbra. “Vieni a cena da me questa sera ti prego. Non dirmi di no. Ci sono tutti e tre i mostri e poi viene don Diego…” “Don chi?” Alice non conosceva preti, né provava per loro alcun tipo di simpatia. “Ti ricordi di Zorro?” “Certo” rispose lei. “È diventato prete”. Alice si ricordava perfettamente di Zorro. Il batterista della band. Un tipo stralunato, con i capelli lunghi e sempre mezzo ubriaco. Non fu entusiasta della proposta. Dato che però Caterina aveva il bisogno di un suo appoggio, si convinse. Pensò dentro di sè: “A cena un amico del marito, per giunta prete? Bene, a cena una cugina della moglie, per giunta zoccola…” Consapevole che quella era la fama che si portava appresso. Si accordarono per la serata e si salutarono con un bacio. Poi Alice si incamminò in direzione della profumeria presso la quale lavorava quella settimana. I pochi presenti sulla strada seguirono la sua camminata finché non svoltò l'angolo. Non si poteva certo dire fosse una donna che passava inosservata.

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Quattro A San Vittore c’è un piccolo cimitero. Lì sono seppelliti Ghigo e il Gatto. Saverio, il fratello maggiore di Stagno, era morto nell’inverno del settantaquattro all’età di undici anni. Un paio di volte l’anno Stagno lo andava a trovare, se non era troppo fuori di testa, se il tempo lo permetteva, se non era dilaniato dalla malinconia. Tanto Saverio era sempre lì. “Dove vuoi che vada...” Come si entrava, sulla destra, c’era la tomba di famiglia che faceva angolo. Stagno si avvicinava sempre in punta di piedi, faceva un sorriso di saluto poi, con la mente, si allontanava dal tempo e dalla realtà. “Ciao Savy, Lo sai chi ho visto oggi? Don Arrigo, quel vecchio invornito! Si è invecchiato… Non l’avevo riconosciuto. Si è tutto incartapecorito che sembra una castagna secca. Avrà trentacinque anni più di noi e si vede. Pensa, era tutto vestito di nero con la tonaca che strisciava per terra, tutta impolverata. Secondo me è sempre la stessa che indossa da una vita. È tutto gobbo. Cammina appoggiato alla bicicletta e striscia. Sembra una di quelle lumache di fiume, grosse e nere che mettevamo nella borsetta della nostra vicina di casa… Bhe, a proposito della Lisella e di don Arrigo… Ti ricordi quando spiavamo dal buco nel muro quello che succedeva nella camera da letto della Lisella? All’epoca il lumacone, don Arrigo ce l’aveva tra le gambe e la Lisella se lo lavorava con le labbra… Mi ricordo che la cosa mi faceva abbastanza schifo, ma ero un bambino… Adesso che sono più stagionato ho magari capito perché quel pretonzolo era così contento… Bene, si è fatta l’ora, ti saluto, ci vediamo...” Il cielo era già viola. Mentre usciva dal cimitero Stagno incrociò lo sguardo con un vecchio prete che stava entrando. Assomigliava a don Arrigo ma era un altro. Era forse più pulito e meno curvo. L’aspetto generale però era quello di uno incarognitosi nella vita.

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Il prete, ravvisando quella che per lui era una grave mancanza, fermò Stagno trattenendolo per un braccio e poi, indignato, iniziò a catechizzarlo. “Chi ti ha insegnato l’educazione? Possibile che esci dal cimitero senza salutare il Signore?” “Ma se non c’è nessuno!” rispose Stagno già pregustando l’attimo di follia in fase embrionale che si stava palesando. “Mi prendi in giro? Guarda che l’inferno è pieno di gente come te, che non porta rispetto al Signore. Oh, dico, mi stai ascoltando?” Ovviamente quel sacerdote non aveva la minima idea di chi fosse il suo antagonista. Non sapeva quanto fossero distanti i loro mondi e quanto Stagno andasse a nozze in quelle discussioni. “Sì, sì. Ho sentito, mi chiedevo come fa lei a sapere chi c’è e chi non c’è laggiù all’inferno. Mi piacerebbe consultare le sue fonti. Non tanto per l’inferno, ma perché ho parecchie cose da chiedere all’amministratore generale del creato”. “Basta che leggi la bibbia! E farai meno lo spiritoso quando sarai davanti a San Pietro. Mi piacerebbe proprio vederti” replicò risentito il prete. “Mi dispiace, signor Arciprete, ma dovete prendere il numero. La lista di quelli che mi vogliono vedere dall’altra parte è già bella lunga”. “Non fare il finto tonto che tanto con me non attacca! Bisogna che impari le buone maniere! E ti devi segnare quando entri o esci dal cimitero!” Negli occhi spiritati di Stagno si accese una scintilla luciferina. Lesto, lesto, assestò il colpo di grazia: “Ma se è per questo, state pure tranquillo. Non ci devo neppure pensare, lo faccio spontaneamente: tutte le volte che entro qui dentro, mi tocco!” Così, con un mezzo sorriso, si rimise a camminare verso la collina lasciando l’anziano sacerdote, un poco inebetito, ad incarognirsi sempre più. Mentre faceva ritorno verso casa, Stagno rimuginò tra sè e giunse alla conclusione che quel vecchio, al contrario del buon don Arrigo, con grande probabilità non aveva mai conosciuto le dolci labbra della Lisella.

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Alice si svegliò di soprassalto, il fischio del treno nella testa. Ma non si trovava in stazione. Si guardò intorno. Nella stanza semibuia riconobbe l'ambiente impersonale della camera d'albergo. Il treno continuava a fischiare. Si girò sul lato destro, allungò una mano e spense la sveglia. Aveva dormito poco e male. La cena le era rimasta indigesta per molti motivi. Soprattutto uno. Venire a conoscenza che Tommaso era in Italia e che era gravemente ammalato le provocò un grande turbamento. Fin dall’inizio sapeva che tornare a Cesena sarebbe stato doloroso. Ma se solo avesse potuto immaginare quanto, avrebbe fatto in modo di trovarsi a miglia di distanza. Mentre verso mezzanotte usciva da quella casa, la cugina si era prodigata in mille scuse. Lei aveva finto di non essere scossa e anche in macchina, accompagnata fino all'albergo dall'amico prete, si era mostrata serena e disinvolta. Solo quando era rimasta sola in quella camera spoglia, aveva concesso alle sue emozioni di liberare un pianto prolungato e silenzioso. Come poteva accadere, si chiese, che dopo due decenni fosse ancora innamorata di quell'uomo da soffrirne così tanto? C’era materia per un bravo psicanalista. Era stata lei a mettere la parola fine, giudicando Tommaso un egoista. Nella sua decisione di partire lei ci trovava l’implicita ammissione che fosse un uomo incapace di amare. Poi l’egoista per vent’anni aveva curato dei poveri diavoli, in condizioni precarie, senza guadagnare soldi o riconoscimenti tornando in Italia con un cancro che lo consumava da dentro. E lei? Che gli aveva nascosto un figlio, che non si era presentata al funerale dei suoi genitori, negando un padre all'essere che più diceva di amare... Come ribadito da don Diego la sera prima, l'amore poteva spostare le montagne. Se preso dal verso sbagliato però, chiamava in causa sentimenti malevoli e l’immobilismo dell’anima. Mentre lo ascoltava avvertiva distintamente la netta sensazione di un lacerante senso di colpa.

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Il giorno dopo era giovedì. Pioveva. Gli piaceva l'espressione acqua a catinelle. Rendeva l'idea. Di per sè le piaceva anche la pioggia, ma contrastava con il suo modo di vestire. Mentre Alice si preparava per uscire si convinse che non aveva alternative: doveva farlo. Per tutta la mattina vi rimuginò sopra. Dopo aver pranzato svogliatamente in un ristorante vicino alla profumeria, telefonò a suo figlio. “Ciao, tutto bene oggi? Cosa stai facendo?” “Tutto bene. Ho appena finito di mangiare e adesso mi metto sul divano con il nonno a guardare il giro”. “Vedi di non guardare troppa televisione che quest’anno hai la maturità”. Alice era preoccupata. Simone aveva ventidue anni e il suo percorso scolastico non era stato particolarmente brillante. Aveva ripetuto la seconda, la terza e l’anno successivo era stato costretto a riparare tre materie. “Stai serena Mà che questa volta lo prendo il diploma. Ora ti saluto altrimenti mi perdo la partenza. Ciao!” “Ciao...” Mentre Alice rientrava in albergo per farsi una doccia e cambiarsi, Simone raggiungeva il nonno sul divano. Giro d’Italia. Prova a cronometro. Simone e suo nonno davanti al teleschermo. Tra i due sessanta anni di differenza. “Nonno, posso farti una domanda?” Il nonno lo guardò con fare interrogativo. Solitamente il ragazzo non era così serioso nel tono della voce. “Chiedi pure…” “Tu, mio padre, lo hai mai conosciuto?” Dalla finestra filtrava un sole arancione che illuminava la vecchia libreria creando strani riflessi rossastri sul piatto di argenteria posato in verticale. Il vecchio osservava quei riflessi. Non aveva fretta di replicare eppure la risposta poteva essere molto semplice, sarebbe bastato un semplice no. Ma si rendeva conto che il ragazzo meritava qualcosa di più. In fondo era

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preparato. Sapeva che prima poi quella domanda sarebbe arrivata. “No, ma ho parlato con lui per telefono una volta…” La risposta era una di quelle che innescano altre domande. “Forse, Nonno, è il caso che mi racconti come stanno le cose”. Lo sguardo si strinse in un sospiro. Poi un respiro profondo e la mano sul telecomando spense il televisore. “Al diavolo il giro… Vieni, usciamo”. Simone non s’informò sul dove. Uscirono di casa. L'aria di primavera li avvolse tenue, riscaldava le vecchie ossa e accendeva i giovani pensieri. “Camminiamo. Ho promesso a tua mamma che non avrei mai iniziato io a raccontarti come stavano le cose ma anche che ti avrei detto la verità se tu me l'avessi mai chiesta. Quando vent'anni fa tua madre ci rivelò di essere incinta e anche che aveva rotto con il suo ragazzo, aggiunse che non avrebbe mai abortito. Io allora, con grande sofferenza, le chiesi di pensarci bene, ma lei non ebbe esitazioni. Tuo padre era in Sudamerica, in un luogo sperduto, praticamente irrintracciabile. Tua madre non ha mai più voluto parlare di questa faccenda ma io, segretamente, mi sono informato. Quell’anno Alice trascorse l’estate in casa di mio fratello, lo zio Giacomo. Ti ricordi dello zio Giacomo?” Simone sorrise al pensiero del vecchio zio. Un omaccione corpulento con la barba sempre incolta e la testa completamente rasata. Era un tipo molto divertente e a Simone piaceva stare ad ascoltare le sue storielle in dialetto. Era morto sei anni prima. Con i nonni Simone andava a trovare gli zii regolarmente ogni due o tre mesi. Alice non li accompagnava mai. “Sì, mi ricordo bene lo zio… La mamma non veniva mai con noi...” Il ragazzo ci stava arrivando. Demetrio comprese che il nipote cominciava ad inquadrare la vicenda. “Quell’estate che tua madre fu ospite a casa di mio fratello conobbe tuo padre. A quanto ho saputo doveva essere un bravo ragazzo, un tipo studioso che si stava laureando in medicina. Tu ancora non conosci bene le donne…”

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“Cosa vuoi dire?” chiese ridendo Simone. “Vedi, a loro non piace interpretare un ruolo diverso da quello della protagonista in una storia d’amore. È stata tua madre a rompere con tuo padre, per quello che ne so, lui ignora perfino che tu esista”. Un'altra breve pausa. Servì al vecchio per studiare il volto del ragazzo che appariva incuriosito ma sereno, quindi continuò. “Tuo padre dopo la laurea partì per il Sudamerica, di preciso per dove non saprei. Sarebbe dovuto rimanere là per circa due anni. Fece ritorno a casa solo due volte. Nel primo caso per via di un terribile incidente d’auto accorso ai suoi amici, uno dei quali perse la vita e poi, l’anno dopo, per seppellire i suoi genitori. Credo sia stata una disgrazia. Io non conosco i particolari della vicenda, so soltanto che morirono entrambi i tuoi nonni paterni. In quell’occasione cercò di ricontattare tua madre. Tu non avevi ancora compiuto un anno…” Il racconto del nonno assomigliava al suo respiro da ex forte fumatore enfisematoso. Procedeva a piccoli tratti, quasi saltellando tra un'affanno e l’altro, come per prendere fiato. “Devi sapere che la mamma aveva chiesto a sua cugina Caterina di dire che se n’era andata in Francia con un ragazzo. Si trattava di una stupidaggine, una balla seminata ad arte per ottenere due obiettivi, quello di non essere più cercata da tuo padre e quello di consegnargli un pungolo fastidioso da portarsi con sè”. Altra pausa, altra occhiata svagata al cielo terso. “Costrinse me e tua nonna a giurarle che se qualcuno la cercava e diceva di chiamarsi Tommaso, gli avremmo dovuto dire che era in Francia, che sarebbe tornata il mese dopo e che non sapevamo neppure come rintracciarla. Di dire che avrebbe richiamato lei…” Altra pausa, questa volta più lunga. Il nonno si guardò le mani. Tremavano più del solito. Il ragazzo approfittò del break. “Quindi mio padre si chiamava Tommaso… Ha telefonato, vero?”

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“Già… Presi io quella chiamata”. Il nonno si prese qualche istante per ordinare le idee. “Fu una breve conversazione. Chissà perché mi aspettavo una voce diversa, magari indisponente non so… Probabilmente me lo auguravo, sarebbe stato più facile…” Quante volte aveva ripassato mentalmente quella conversazione… “Pronto?” “Pronto, buongiorno, mi chiamo Tommaso, cercavo Alice…” A parlare, una voce giovane, educata, appena esitante “Alice è in Francia, è partita ieri… Devo lasciare detto qualcosa?” Demetrio si trovava a sua volta in forte imbarazzo. “In Francia… E quando torna?” Aveva chiesto la voce con un tono di dolore accennato. “Di preciso non lo so, mia moglie mi ha detto che starà via circa un mese. È andata a fare visita a quel suo ragazzo francese…” Ecco la stilettata. Seguì una pausa, sottile e maledetta. “Ho capito… Io… No, lasci perdere e scusi il disturbo. Buona giornata”. “Devo… Devo lasciare detto qualcosa?” Demetrio era stato indeciso se mantenere viva la conversazione. “No… Se vuole le può dire che ho chiamato e che tra due giorni riparto per il Sudamerica…” “Allora buon viaggio”. “Sì, grazie…” In bilico tra il tradire la fiducia della figlia e dare un'occasione al proprio nipote di crescere con un padre, aveva ceduto al volere di Alice. “Quella sera raccontai a tua madre della telefonata. Con sarcasmo disse:

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Ce ne ha messo a svegliarsi… Troppo tardi! Argomento chiuso”. Ancora una pausa. “In ogni caso tuo padre, per quello che ne so non ha più messo piede in Italia da quella volta”. Ogni tanto i giorni passano in rassegna il tempo. Succede perché i nodi prima o poi vanno sciolti e se non si sciolgono in tempo c’è il rischio che rimangano stretti per sempre. “Sai potevo non dirti nulla. Ci ho pensato. Immagino che ora dentro di te ci sia un po' di confusione… Ho anche preso in considerazione il fatto che dovevi conoscere la verità, che ne avevi il diritto”. Il ragazzo sorrise delicatamente a suo nonno. “Ho sempre avvertito che c'era qualcosa che non andava nel racconto della mamma. Frasi sbagliate, sguardi assenti e quel qualcosa che non so spiegare… Certo, lei ha dedicato tutta la vita a crescermi ma… Il fatto è, Nonno, che io mi sono sempre sentito incompleto. Devo trovarlo, guardarlo negli occhi. Dici che sbaglio?” Il nonno allargò le braccia. “Non lo so, ma è quello che farei anch’io…” Il pomeriggio declinava verso l’ora di cena e sorprese un vecchio e suo nipote in un lungo abbraccio.

Il tassista fermò il veicolo davanti alla chiesetta romanica. “Eccoci qua, siamo arrivati” la comunicazione arrivava da una voce gutturale quasi sporcata dalle troppe sigarette consumate nelle lunghe attese tra un cliente e l'altro. “Ci dovrei mettere mezzora, può aspettarmi?” L'uomo fece cenno di sì con la testa, scese dall'auto e si accese una sigaretta, l'ultima del pacchetto. Erano le sei del pomeriggio e per la fine del turno avrebbe sicuramente terminato anche il secondo. Il pensiero lo infastidì

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per un attimo poi scrollò le spalle e si gustò la sua dose di nicotina. Alice si avviò lungo il breve vialetto che conduceva al sagrato della chiesa. In mattinata era piovuto e l'aria odorava di foglie umide misto ad un aroma dolciastro proveniente da qualche albero fiorito. Alice non s’intendeva di piante però riconobbe quel profumo. Sapeva di giorni spensierati e felici. Aveva cercato di vestirsi semplicemente, che per lei comportava comunque un tacco alto, una camicetta azzurra e una gonna grigia. Un leggero trucco sul viso e una spilla preziosa le conferivano un aspetto elegante e sofisticato. Suonò il campanello della canonica. Quando Franchino apri la porta e vide quella donna così bella tentò di dire qualcosa, aprì la bocca ma non fu letteralmente capace di emettere alcun suono. Alice gli sorrise e disse: “Ciao, mi chiamo Alice e cercavo Tommaso. Sai dov’è?” Don Diego giunse in soccorso del povero Franchino. Accarezzandogli la testa gli spiegò: “Alice è un’amica. Non stare sulla porta e lasciala entrare”. Poi si rivolse ad Alice: “Vieni che ti accompagno in camera sua”. Salirono le scale. “Tutto a posto?” La donna, con un rapido movimento della testa, tentò di manifestare che andava tutto bene, ma si vedeva invece che non era per niente serena. Allora don Diego cercò di tranquillizzarla: “Iniziate a parlare e vedrai che tutto andrà per il verso giusto”. Alice lo ringraziò con lo sguardo. Giunti davanti alla porta della camera di Tommaso il prete bussò e chiese: “Tommaso sei in camera? Si può?” Una voce esile e calda lì invitò ad entrare. “C’è una persona che è venuta a farti un saluto”.

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Tommaso stava seduto sul letto intento a scrivere le proprie riflessioni su un taccuino come faceva ogni giorno. Da quando era rientrato in Italia, affidava i propri pensieri a dei fogli di carta, forse per esorcizzare le proprie paure. Alzò la testa con fare distratto, quel modo di fare che Alice ricordava perfettamente, come fosse ieri. Certo l'aspetto attuale non le sembrò in nessun modo pertinente con quello che rammentava. Il ragazzo prestante e bello da far paura, con il quale la sua immaginazione aiutava il proprio corpo a raggiungere il piacere, era svanito. Davanti a lei un uomo di mezza età, magrissimo e spento. Vestiva come un frate e come un frate portava la barba. Avesse avuto un saio marrone ed una chierica non ci sarebbe stato niente da ridire. Lui si alzò stancamente, le offrì la mano e parlò con una voce sottilissima: “Ci conosciamo?” osservandola meglio i suoi occhi cambiarono intensità, “Sì, ci conosciamo...” Alice appariva, ai suoi occhi, ancora più bella che nel ricordo. Per anni l'aveva sognata poi, d'un tratto, come per magia, se n’era andata via. Inghiottita dal flusso del tempo aveva smesso di torturargli i pensieri. Ritrovarsela davanti così all'improvviso fu quanto meno inaspettato. Don Diego fece loro la delicatezza di lasciarli soli. Come la porta si chiuse, Alice fece un passo verso di lui. Ci fu un istante di silenzio e, probabilmente di forte imbarazzo da parte di entrambi. Poi, con risolutezza, lo abbracciò forte iniziando a singhiozzare. Lui la strinse dolcemente accarezzandole i capelli. Riconobbe il suo odore. Sapeva di pioggia, ribes e arance candite. Passato il primo momento Alice si ricompose. Ruppero il ghiaccio chiacchierando, raccontandosi le vite reciproche. Ad un certo punto Alice si accorse dell'orario e scattò in piedi. “Oh, mio Dio, il tassista! Scusami un attimo...” Fece per correre fuori, ma giù per le scale incontrò don Diego. “Se è per il taxi, tranquillizzati. Ho pagato la corsa e quando avrete finito ti

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riporto io in città”. Alice lo baciò sulla guancia e fece ritorno in camera. Più tardi fu riaccompagnata in albergo da don Diego. Venti minuti dopo Tommaso scese in cortile. Antonio era come al solito intento a lavorare. Stava accatastando dei vecchi mattoni. Come lo vide fece una faccia stupita. “E la barba?” “Una signora mi ha consigliato di tagliarla. Tu come mi vedi?” Antonio non poté evitare di lasciarsi andare in una risatina. “Con o senza peli non ti illudere: non sei il mio tipo…” Sorrisero entrambi. La notte stava arrivando. Tommaso si chiese se Alice sarebbe tornata a frequentare i suoi sogni.

Stagno annaspava alle prese con un demone. Il combattimento durava da ore e pareva non conoscere fine dato che i duellanti non vacillavano minimamente. La follia di Stagno si manifestava come uno stato febbrile che lo rendeva delirante e invasato. Le sue tele rappresentavano la sua anima più di ogni altra cosa. Se la follia accennava a diminuire, in pochi minuti perdeva ogni interesse per ciò che stava facendo. Una tela priva dell'entusiasmo del suo autore non ha forza. Di questo Stagno, nonostante la sua pazzia latente, era assolutamente consapevole. Se accadeva, metteva la tela da parte. A volte veniva preso da una rabbia cieca. In quei casi distruggeva con furia animalesca tela e telaio con pugni calci e punteruoli fino ad annientarla. In genere poi finiva sopraffatto da uno stato depressivo che lo conduceva in quel luogo della mente dove da tempo coltivava i pensieri più foschi. Ma il demone con una lingua di fuoco lunghissima e orribile che stava prendendo forma assecondava perfettamente la sua follia. Non c'era dubbio

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che in quei momenti il suo stato d'animo rasentasse la felicità. Ci vollero ancora sei ore di duro combattimento. Infine si allontanò dal suo lavoro qualche metro. Si sedette su una vecchia poltrona di pelle accendendosi una sigaretta. Aveva raccattato quella poltrona nei pressi di un cassonetto dell'immondizia. Forse impietositosi vedendola lì abbandonata o, più facilmente, essendone sprovvisto. Se l’era trascinata fino a casa legandola con una fune, quasi fosse un mulo riottoso. La chiamava La Contemplativa. Mentre aspirava avidamente la sua sigaretta, rimase per qualche minuto in osservazione del suo lavoro. Poi d'un tratto si mise a piangere. Di gioia…

La differenza tra la casa di Clara e quella di Stagno era semplicemente mostruosa. Entrambe case coloniche praticamente coeve ma una era una spelonca che, a guardarla da fuori veniva da chiedersi come facesse a stare in piedi, mentre quella di Clara era un gioiellino. Lei e suo marito l'avevano fatta ristrutturare prima di andarci ad abitare. Le vecchie finestre erano state sostituite da ampie vetrate, l'esterno intonacato e dipinto, il tetto rifatto. Attorno a casa, il giardino trasformato in roseto donava al fabbricato un tocco di nobiltà. All'interno erano stati rifatti completamente gli impianti, modificati i vani, sostituite le pavimentazioni. Clara la teneva pulita e in ordine, linda e fresca come fosse rinnovata da poco. Invece erano già trascorsi dieci anni dalla morte di suo marito. Francesco, il più grande dei suoi figli, all’epoca aveva quattro anni mentre la piccola Serena neppure due. Rimasta vedova con due bambini ancora molto piccoli, Clara non si era persa d'animo. Economicamente autosufficiente grazie alle proprietà ereditate dal marito, lei doveva solo farle fruttare al meglio gestendo gli affitti e gli investimenti. Essendo poi una donna semplice e di poche pretese aveva imparato a raccogliere quello che la vita le dava senza chiedere altro. Per anni si era

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dedicata esclusivamente ai suoi figli. Non aveva mai cercato un uomo su cui appoggiare le proprie fatiche e si era concessa soltanto qualche rara uscita con alcune delle sue vecchie amiche. L'incontro con Stagno, classica combine del destino, improvvisa e inaspettata, era stato un regalo. La sera che si erano conosciuti Clara festeggiava i suoi trentasette anni con un’amica e non pensava che da lì a poco si sarebbe innamorata di un artista stralunato e folle. Un uomo che conosceva il modo di farle raggiungere il piacere fisico e nello stesso tempo di confonderle l’anima. Forse lui non la amava altrettanto, anzi ne era certa. Ma si trattava comunque di un uomo unico nel suo essere di lato al vivere, impossibile da classificare e altrettanto difficile da gestire. Clara non ci aveva provato. Le briciole che otteneva da Stagno erano sempre molto di più di ciò che avrebbe potuto raccogliere con qualsiasi altro uomo. Rifletteva su queste cose mentre saliva lo stradello che conduceva a casa di Stagno. Lo vide e sorrise tra sè. Stagno era là, nudo come la natura lo aveva generato, in piedi su una trave di metallo. Un equilibrista sul precipizio della propria mente con le braccia aperte e gli occhi chiusi. Clara si avvicinò silenziosamente fino a trovarsi a pochi centimetri da lui. Le labbra all’altezza della sua appendice amorosa… “Ciao uomo, posso dissetarmi alla tua fontana?”

Tommaso si svegliò tutto dolorante. Cercando di reagire si diede una veloce rinfrescata. Acqua fredda sul viso. Una nuova giornata da affrontare con vecchi fardelli. Si vestì e scese le scale. Nello specchio all’entrata vide la sua immagine riflessa che gli sorrideva ma non riproduceva esattamente lui. O meglio, lo trasfigurava in un sè stesso più giovane di oltre vent’anni. Fu questione di un attimo. Una frazione di tempo infinitesima e surreale.

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Per quel piccolo istante gli occhi della mente gli fecero vedere allo specchio non quell’uomo malato e dallo sguardo rassegnato nel quale si era trasformato, ma il suo alter ego, giovane, vitale e sorridente. Il ragazzo partito per la Bolivia con tutta la giovane energia di chi è persuaso che si possa sovvertire le ingiustizie che affliggono il mondo. Il mondo era cambiato, in effetti, ma in peggio… Uscì in cortile e incontrò don Diego. Stava parlando con Antonio. “Diego, hai un attimo?” Il prete lo accolse con il solito cordialissimo sorriso: “Che succede, hai bisogno di qualcosa?” Tommaso tentennò qualche istante poi fece la sua richiesta. “Dove posso trovare una chitarra?” Stagno era con Civetta quando ricevette la telefonata di don Diego. “Ciao Stagno, ti disturbo?” “Che cazzo di domanda è? Gli amici non si disturbano mai, al massimo gli si rompe le palle... Hai bisogno?” Don Diego sospirò brevemente. Con Stagno non era mai possibile intavolare un qualsivoglia discorso che lui subito trovava il modo di polemizzarci sopra. “Sì, avrei bisogno. Non è che da qualche parte hai una chitarra decente?” Stagno ci pensò su un attimo. “Fammi pensare... Ma che devi farci? Non è meglio farlo con una bambola gonfiabile? Non fraintendermi, non vorrei che tu potessi farti male”. “Non è per me, somaro! Serve al Rosso...” Sentendo nominare Tommaso, Stagno smise i panni del giullare. “A casa ne ho una acustica, ma non è elettrificata, va bene ugualmente?” “Aspetta che sento...” don Diego si rivolse a Tommaso, “...dice che ne ha una acustica ma non è microfonata, può andare?” Tommaso gli fece cenno di sì.

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“Allora va bene, quando posso venirla a prendere?” “Sono qua da Marchino, ma tra un paio d’ore sarò a casa”. Nel frattempo Civetta fece un segno con la mano. “Scusa un attimo pretonzolo. Dimmi Marchino...” “C’è il Rosso al telefono?” “No, ma deve essere lì nelle vicinanze”. “Te lo fai passare per favore che vorrei salutarlo?” Stagno si fece passare Tommaso. “Indovina chi vuole salutarti...” Poi passò il cellulare nelle mani di Marco. “Rosso?” la voce era emozionata e meno balbettante del solito. “Ciao Marchino, come stai?” “Stò come posso, un giorno alla volta... Tu?” Marco era completamente ignaro della situazione di salute di Tommaso. “Anch’io sto come si può...” Si scambiarono qualche breve convenevole poi si salutarono con la promessa di trovarsi per bere qualcosa insieme quanto prima. Dopo essersi accordato con don Diego per il ritiro della chitarra, Stagno si recò con Civetta in falegnameria. Civetta conduceva una vita semplice e silenziosa. In pratica lavorava dalla mattina alla sera in officina e poi, giunto a casa sprofondava nel divano. La sua vita sociale era inesistente. L’unico che ogni tanto lo coinvolgeva era appunto Stagno. Marco gli era molto affezionato e lo aiutava quando poteva assecondando le sue follie. In particolare lo aiutava concretamente nel costruire le sue tele. Siccome Stagno era incapace di applicarsi a un qualcosa di metodico, costruiva i telai delle sue tele nell’officina di Civetta. In realtà, mentre Stagno gli girava intorno sparando cazzate, Marco li assemblava, li caricava sul furgone e glieli portava fino al capanno in collina.

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Nei primi tempi, quando Stagno non aveva neppure i soldi per mangiare, Civetta non solo gli costruiva i telai per le tele ma pagava di sua tasca anche i materiali che servivano per assemblarli. Più di una volta gli aveva dato i soldi per comprarsi i colori. Insomma, Civetta per quanto era stato nelle sue possibilità aveva aiutato Stagno ad onorare la sua follia. Probabilmente lo aveva fatto perchè erano amici fin da bambini ma, soprattutto perchè Stagno era il fratello del Gatto. Saverio era stato l’amico del cuore di Marco. Quando morì una parte di lui scomparve per sempre. In falegnameria Stagno comprò dei listelli di legno, li caricò con l’aiuto di Marco sul furgone e si diressero in officina. Poi si congedò dall’amico. “Grazie Marchino, ci vediamo la prossima. Ciao”. “Ciao Stefano. A presto”. Civetta era rimasto l’unico al mondo che chiamava Stagno con il suo nome di battesimo. Il pittore folle sorrise per l’ennesima volta ascoltando il proprio nome poi raggiunse la fermata della corriera. Un’ora dopo stava trafficando nella stanza del casino. Una sorta di danger room dove Stagno accalcava tutto quello che gli passava per la mente, da cose necessarie a roba da gettare. Finalmente trovò quello che cercava. Gli diede una ripulita e l’accordò. Una Fender dodici corde compagna di tante serate... La ripose soddisfatto nella sua custodia e disse a bassa voce: “Questa sera tra le mani del Rosso farai un figurone...”

Tommaso giunse all’osteria verso le dieci di sera. Fuori dominava un buio stupendo. Da dentro proveniva un basso vociare. A quell’ora c'erano pochi tavoli i cui occupanti avevano oramai tutti finito di cenare. Al termine della sala, un piccolo palco che di tanto in tanto ospitava spettacoli improvvisati in dialetto. Qualche volta, personaggi strampalati che si definivano poeti, lo calcavano per declamare i loro versi. Tommaso tolse la chitarra dalla custodia, prese una sedia e salì sul palco.

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Alzò la mano per salutare gli astanti e prese la parola: “Salve. Un tempo con la mia Band venivamo a suonare quassù. Ora la Band non esiste più. Io sono stato via molti anni e, ecco, mi è venuta voglia di cantare alcune vecchie canzoni ma... Il fatto è che cantare da solo nella mia stanza mi faceva sentire ridicolo quindi, spero di non disturbarvi troppo”. Un timido applauso lo invitò a cominciare. Le dita iniziarono lentamente a pizzicare le corde. Tommaso cantò una decina di canzoni. Lente, struggenti, profonde. Ovviamente niente più Rock e niente più Roll, della voce graffiante di un tempo appena un sottile ricordo. Il fiato usciva a fatica. L’antico mestiere gli permise di confezionarlo in un abito decente, non un vestito da festa, però passabile. Gli spettatori non si mossero dalle seggiole. Quando si alzò ringraziandoli per la pazienza, gli dedicarono un rumoroso applauso. Tommaso li ringraziò ritroso poi ripose la chitarra nella custodia e fece per andare. L’oste, un omone rubizzo con due baffoni incolti lo avvicinò. “Io mi ricordo di voi altri, sai? Eravate bravi. Come mai avete smesso?” Tommaso fu laconico nella sua risposta. “Temo sia stata la vita”. Poi lo salutò incamminandosi nella notte. L’omone lo seguì con lo sguardo fino a quando Tommaso non venne inghiottito dal nulla. Si girò e rientrando nell’osteria ripetè tra sè: “Già, la vita…” Camminando verso San Zaccaria nel buio della strada collinare perso nei suoi pensieri, ebbe un soprassalto allorquando, transitando nei pressi di un cancello venne sorpreso da un feroce latrare di un cane dobermann. Per sua fortuna si trovava al di là del cancello. “Vaffanculo, cane di merda!” gli gridò con fare liberatorio in virtù dello spavento patito. Poi, alzando lo sguardo vide le fronde di un ciliegio. Un sorriso gli comparve sulle labbra.

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Ogni anno andavano a rubare le ciliegie. Avevano iniziato quando erano dei mocciosetti e avevano mantenuto la tradizione anche da ragazzi, fino alla morte di Ghigo. Poi era passata a tutti la voglia di scimmiottare i loro sè stessi bambini. Non è che si trattasse mai di un furto vero e proprio. Non riempivano i sacchetti. Si abbarbicavano sopra qualche ramo e ne mangiavano un po’. Era più che altro il gusto della sfida, del mettersi in gioco. Per sentirsi vivi. Ogni volta si cercava un albero diverso da saccheggiare, ogni volta in un luogo meno accessibile. Vinceva il più ardito, quello con i nervi saldi ed il maggior grado d’imprudenza. Nei primi di giugno dell’ottantadue, Ghigo propose di entrare nel giardino del dottor D’altri che mostrava un ciliegio rigoglioso. Ma gli altri non erano affatto persuasi di farlo. “Siete solo degli stupidi bambocci, dei conigli, chiunque lo potrebbe fare!” “Chiunque con un po’ di cervello non lo farebbe!” “Dai, Rosso! Non tirarti indietro anche tu!” “Ghigo, dico, sei scemo? Con tutti i ciliegi che ci sono in giro, vuoi salire proprio su quello? Se si sveglia Pilù è un casino!” Gli unici due disposti ad affrontare il pericolo erano stati Ghigo e Zorro. Due aitanti ragazzoni, cui non faceva difetto né il coraggio né tantomeno quel pizzico di sana incoscienza utile a portare a buon fine ogni impresa degna di nota. In comune avevano molte cose, tra cui un sesto senso particolare per cacciarsi nei guai. Per cercare di farli desistere, gli altri si allontanarono, ma i due, intestarditisi, procedettero nell’intento. Alle undici di una notte di luna nuova, nera come la tonaca di un prete, scavalcarono il cancello e si arrampicarono. “Ghigo…” “Ottime queste ciliegie!” “Ehm, Ghigo…”

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“Beh?” “Guarda un po’ giù…” “Uh, oh!” Eh, sì! C’era proprio Pilù, il fiero dobermann. Quel figlio d’un cane non abbaiò, né ringhiò. S’acquattò sotto l’albero, naso all’insù e lì rimase per tutta la nottata fino all’arrivo del suo padrone, l'indomani. Il dottor D’altri era un tipo di spirito. Non si alterò minimamente anzi, a stento trattenne le risate mentre aiutava i due baldi giovani a ridiscendere dalla pianta con tutte le membra intorpidite ed anchilosate. Fuori dal cancello c’era la banda che li aspettava. “Erano buone le ciliegie?” “Fottiti, Stagno!”

Tommaso sorrise al cagnaccio e riprese il suo cammino. Il giorno dopo, si incontrò con Lorenzo per fare due chiacchiere. Colse l’occasione per raccontargli le sensazioni della notte prima. Poi, ad un certo punto, gli venne spontaneo fargli una domanda: “Hai scritto qualche canzone negli ultimi tempi?” Lorenzo guardò Tommaso quasi stupito da quella domanda. “In effetti no” rispose asciutto. Poi, come pentito di quella replica quasi astiosa, raccontò le sue sensazioni: “La musica non mi coinvolge più. Mi fa sentire anacronistico”. “In che senso?” Lorenzo sospirò allargando le braccia sconsolato. Possibile che neppure Tommaso comprendesse quella semplice verità? “Il fatto è che ogni età ha le sue emozioni. Suonare la chitarra e canticchiare tra me le mie canzoni mi fa sentire ridicolo, così ho smesso. Fossi un musicista famoso avrebbe senso, ma così è solo deprimente”. Tommaso comprese quel ragionamento ed anche il senso di frustrazione

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che si nascondeva tra quelle parole. “Capisco cosa vuoi dire, ma non c’è nulla di male ad essere ciò che si è”. Alle parole di Tommaso, Lorenzo replicò quasi stancamente: “È ovvio che non c’è nulla di male se si riesce a farlo con leggerezza, ma io non ci riesco. Vengo regolarmente sopraffatto dal pensiero di quello che poteva essere e non è stato”. Lorenzo continuò a parlare fissando un punto lontano, come se volesse raccontare la sua verità non solo al suo amico ma al mondo intero. “La leggerezza è un dono del quale sono sempre stato carente ma oramai ne sono completamente sprovvisto. Ti ricordi quel tizio che ci ha sgraffignato la nostra canzone?” Tommaso ebbe un gesto istintivo, alzando la mano all’indietro. “Ancora quella vecchia storia? Non vedo cosa c’entra. E poi, come ti ho detto mille volte, la musica non era identica e le parole completamente diverse. Spero tu non ti offenda nel sentirtelo dire ma il suo pezzo era decisamente migliore del nostro”. “Lo so, lo so... Ma non è questo il punto. A parte il fatto che la musica era identica, scambiando soltanto un fa con un re minore... Comunque lo ammetto, il mio testo era infantile mentre il suo era perfettamente in linea con quello che la gente voleva ascoltare. Ha sempre scritto canzoni furbe. È bravo, non v’è dubbio”. Lorenzo sorrise a Tommaso poi gli disse: “Ma non volevo parlare di questo. Sono andato a un suo concerto”. “Cosa?” esclamò incredulo Tommaso. “E come ti è venuta in mente questa pensatina?” “Per la verità non è stata mia l’idea. Sai, con Caterina da tempo le cose non vanno... Cinque anni fa le hanno regalato due biglietti per quel concerto ed io non me la sono sentita di sottrarmi. Mi sono detto che non c’era nulla di male, che in fondo poteva essere un’occasione di svago per entrambi...” “Hai fatto bene, tanto quella vecchia storia non aveva più senso...”

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“Ho fatto bene un cazzo!” replicò Lorenzo con la voce nettamente alterata. “E guarda che non è per la vicenda di quella stupida canzone! Me ne sbatto il cazzo se ce l’ha rubata!” “E allora?” gli chiese Tommaso che non capiva. “Allora? Cristo, ma lo sai quanta gente c’era in quello stadio? Sessantamila persone, la maggioranza dei quali erano giovani ubriachi. Hanno cantato sguaiatamente tutto il tempo saltando sul posto come ultras di calcio. Non sono riuscito ad ascoltare neppure un brano. Manco sul palco ci fossero i Beatles”. “Evidentemente per quei ragazzi era bello così...” suggerì Tommaso con semplicità non riuscendo ad afferrare il punto. “Certo, lo so e non c’è niente di male in questo. L’unica nota stonata ero io...” La voce di Lorenzo aveva assunto una tonalitò amara, “...quei ragazzi che cantavano e ballavano possedevano la leggerezza che io non ho. Se ti trovi a casa seduto sul tuo divano intento a leggere un libro non te ne accorgi, ma lì, solo tra tanti, è come ricevere uno schiaffo. Mi sono sentito così tanto vecchio, così solo... Ho dovuto compiere uno sforzo sovraumano per non mettermi a piangere”. Lo sguardo di Lorenzo si inumidì, ma fu solo per un attimo. “Quello lì ha un talento incredibile. Sa entrare in sintonia con le emozioni della gente, la stessa che guarda le televisioni di Berlusconi, che trascorre il suo tempo nei bar o in spiaggia e che, probabilmente non ha mai letto un libro, però compra i dischi, va al cinema e in discoteca”. La pausa successiva anticipò di un nulla la conclusione del ragionamento che Lorenzo, con tanta fatica, svelava all’amico. “Io quel talento non ce l’ho mai avuto. Non sono in grado di sintonizzarmi con quel tipo di persone. Purtoppo non ho neppure la capacità di emozionare quell’altra parte, più piccola numericamente, che legge i libri. In buona sostanza, alla fine, devo evincere che non ho nessun talento. Sono uno stupido sognatore che nelle mani si ritrova solo un pugno di mosche...”

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Tommaso prese l’amico sottobraccio e lo indusse a camminare con lui. “Sai, io credo che tu invece abbia un talento enorme ed è così grande che gli altri non riescono a comprenderlo. Penso anche che non ci hai mai creduto neppure tu fino in fondo. Però ho una notizia per te: io ho sempre pensato che quella canzone che ci hanno sottratto furbescamente era molto più vera nella sua prima versione. Lo riconosco, in alcuni suoi tratti era piuttosto ingenua, però era vera”. Tommaso fece una pausa poi concluse: “A proposito della leggerezza... È difficile a volte, nella vita, sapere essere leggeri, ma questo non ci rende peggiori. Siamo fatti così, noialtri. Scendiamo nelle profondità delle pieghe dell’esistenza, non scappiamo davanti alle domande più insidiose, non ci sottraiamo alle verità, anche le più scomode. Dopo di che rimane difficile essere superficiali, leggeri...”

Lorenzo ripensava a quelle parole mentre andava da sua madre. Quasi ogni giorno, in genere dopo pranzo, si recava da lei per accertarsi che non avesse bisogno di qualcosa. Era la scusa per trascorrere una mezzora in sua compagnia. Dapprima scese in garage. Riccardo stava dando la patente per il motore. Lorenzo gli aveva promesso che avrebbe messo la sua vecchia vespa in condizione di affrontare nuovamente il traffico stradale. Dentro al garage c'era una miriade di scatoloni impilati. Il padre di Lorenzo era stato un uomo meticoloso e non aveva buttato via mai nulla. All'esterno di ogni scatola c'era scritta la descrizione minuziosa del contenuto. Suo babbo era morto da tempo ma lui non aveva ancora trovato il coraggio di guardare tra quelle cose. Gli sembrava di profanarle. In fondo al garage c'era un motore coperto da una tela cerata. Lorenzo si avvicinò e la scoprì. Erano trascorsi dieci anni da quando l'aveva seppellita lì sotto. Non aveva molto tempo per usarla, tra gli impegni scolastici, tre figli piccoli e la sua follia dello scrivere. In più ci si era messo lo Stato abolendo la

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vendita di miscela nei distributori di benzina. La sua vespa PX 125 rosso corsa fece capolino da sotto il tendone. Lorenzo tornò con la mente a quell'estate trascorsa a raccogliere frutta per racimolare i soldi. Ottocentomila lire. Lo ricordava bene. La parte restante l’aveva aggiunta suo padre. Ma che soddisfazione il primo giro per strada. Pensava di essere un Dio. Mentre guidava gli ridevano perfino le scarpe. Lorenzo chiuse la porta del garage e risalì le scale. La casa nel centro storico aveva le persiane rosa. Le conferivano quel tocco di frivolezza tipica della donna che vi abitava. L'interno era arredato sobriamente ma con classe. La mobilia era riconducibile alla metà degli anni sessanta. Mobili di design divenuti col passare degli anni demodè per poi tornare alla ribalta nella rivisitazione attuale. Per Marta erano semplicemente quelli con cui aveva arredato casa dopo il matrimonio. Spesso prendeva in mano gli album delle foto e ripassava, come in un film, la sua vita. Le sembrava che fosse appena ieri che correva a piedi nudi sull'erba del prato andando incontro al padre che tornava dal lavoro. Gli saltava in braccio e lo riempiva di baci. Ricordava di essere stata una bimba biondissima e magrolina. Sua madre le acconciava i capelli con trecce stravaganti e le ritagliava dei vestitini color indaco tutti infiocchettati. Una bimba da cartolina. Ora era una vecchia che si ostinava a vestirsi con gli abiti comprati nella sua giovinezza. Portava i capelli sempre ben pettinati come fosse appena uscita dalla parrucchiera grazie ad un intenso lavorio di bigodini. Nonostante le settantasei primavere godeva ancora di buona salute. Certo, si sentiva abbastanza sola in quella grande casa con le persiane rosa. Francesca, la sua figlia maggiore, abitava a Torino. La vedeva raramente pur sentendola spesso per telefono. Suo figlio Lorenzo, invece, abitava a poche centinaia di metri e l’andava a trovare quasi tutti i giorni ed era molto servizievole. La maggior parte del tempo lo trascorreva in solitudine.

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Marta stava guardando la sua trasmissione televisiva preferita del pomeriggio quando sentì che veniva aperta la porta d'entrata. Era Lorenzo. “Mamma sei in casa?” La donna sorrise amaramente a sè stessa e pensò: “Dove mai potrei essere?” poi rispose al figlio: “Sono in camera…” Lorenzo la raggiunse. Come la vide le chiese: “Cosa c'è? Stai poco bene?” “Perché?” “No, niente… Solo che di solito non vai a letto nel pomeriggio”. Marta si affrettò a spiegare. “Il fatto è che non trovo più il telecomando del televisore”. La mamma di Lorenzo aveva un piccolo tv in camera da letto ed uno più grande in cucina dove trascorreva la maggior parte del tempo delle sue giornate. Mentre ascoltava le trasmissioni stava seduta al tavolo della cucina a risolvere cruciverba. Solitamente al mattino seguiva le trasmissioni di cucina e il pomeriggio i talkshow. La sera poi si coricava presto e spesso non accendeva neppure il televisore. “Dò un'occhiata io”. Lorenzo andò in cucina ma pur cercando dappertutto non riuscì a trovarlo. “Mamma, da quando non lo trovi?” Marta assunse l’espressione di chi cerca di concentrarsi. “Ieri sera dopo cena l'ho spenta appena terminato il telegiornale e sono venuta a letto e questa mattina non c'era più”. Lorenzo le sorrise benevolo. “Mamma, ricordi cosa mi dicevi sempre? La casa non ruba…” L'intimità tra madre e figlio era sempre stata buona. Marta rispose al sorriso di Lorenzo allargando le braccia. “Lo so… L’avrò appoggiato da qualche parte. Oh, non preoccuparti, salterà fuori quando avrò smesso di cercarlo. A proposito, vieni, ho qualcosa

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da farti vedere”. Tornarono entrambi in cucina. Sopra un mobiletto dove solitamente Marta teneva le riviste, c'era una scatola bianca di cartone rigido. “Guarda lì dentro. L'ho trovata in fondo all'armadio di tuo padre. Sai che ho chiamato quei ragazzi della Caritas per dargli i vestiti del Babbo, ricordi?” Lorenzo fece un movimento con la testa. Ricordava che ne avevano parlato. Aprì la scatola. Dentro era piena di fotografie poste con quell’ordine meticoloso tipico di suo padre, tutte classificate e imbustate separatamente con metodo cronologico. Sopra ogni busta si poteva leggere qualche breve frase atta ad un riconoscimento immediato. Per esempio c'era una busta con scritto millenovecentonovantatre, battesimo dell’Angelo. Si riferiva a Petra. Lorenzo riconobbe la scrittura precisa ed elegante del padre e non poté fare a meno di commuoversi. “Papà sei proprio un gran bastardo... Passi per quella volta che mi lasciasti in punizione per due giorni perché avevo rotto il bottiglione di sangiovese facendo l'imbecille sulle scale... Passi per il ceffone che mi hai dato quella volta che mi presi la colpa al posto del Rosso per aver ferito con un osso Titin e per quell’altro che mi desti durante quella stupida discussione quando avevo quindici anni e ti mandai a fare in culo… Ma questa, di farmi ritrovare queste foto, messe lì in perfetto ordine, pervase dal tuo profumo fresco di barba appena fatta come se, da un momento all'altro, potessi ancora vederti rientrare in casa con le buste della spesa, Papà, questa proprio non me la dovevi fare...” Marta si accorse del turbamento sul volto del figlio. “È la vita Lory...” “Lo so mamma, ma non mi piace lo stesso”. E come un bambino scoppiò in un pianto dirotto, pianto trattenuto per sette anni. Come quella volta che cadde in bicicletta. Aveva otto o nove anni. Al pronto soccorso gli diedero tredici punti. Piangeva ma c'era una mano che lo

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accarezzava e una voce che lo consolava. La stessa mano e la stessa voce che, quarant’anni dopo continuavano a farlo con amore. Lorenzo si calmò. “Mamma prendo l'acqua”. Aprì il frigo e… Eccolo il telecomando perfettamente in fila tra i formaggi e gli affettati! Lo prese in mano e lo mostrò a sua madre. Inevitabilmente scoppiarono a ridere entrambi. Dopo il temporale viene fuori sempre un po' di sole. Marta accese il televisore mentre Lorenzo si mise a spulciare tra le foto del padre. Prendeva una busta alla volta e poi finito di visionarne il contenuto, riponeva con estrema scrupolosità quasi a voler evitare di prendersi una tirata d'orecchi. Come se il padre avesse ancora potuto controllare. Come se fosse ancora lì, da qualche parte che magari si aggirava in casa affaccendato nelle sue piccole manie. Tornato a casa, Lorenzo scese in cantina. Tra diversi scatoloni ammonticchiati uno sull'altro individuò quello che cercava. Era pieno di vecchi dischi. Ne prese uno e salì in casa. In camera da letto aveva conservato un piatto giradischi. Vi pose sopra il vinile e lo fece partire. Come se la puntina lo volesse graffiare, l’altoparlante gracchiò qualcosa nel woofer poi iniziò la canzone. “Cos’è?” chiese una voce alle sue spalle. “La canzone preferita di mio padre” rispose asciutto. Caterina si accorse che Lorenzo era visibilmente commosso. “Simon e Garfunkel, vero?” “Si”. “Ha un significato particolare?” Chiese di nuovo la moglie. Lorenzo voltò il capo verso di lei. “Ne ha due. Mio padre la metteva su tutte le volte che si immalinconiva ed io amavo quel suo sguardo triste ma sereno. Ma a distanza di anni mi trovo a riflettere sul testo di quella canzone. Mi accorgo che è molto più vicino a me

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che a mio padre”. Caterina lo interrogò, voleva capire. “Perché?” “Il titolo è indicativo. Sai qual è?” “No” rispose sinceramente Caterina. “Kathy’s song...” seguì un breve silenzio, “...il protagonista parla alla sua amata. Lei se ne è andata in America e non lo vuole più. Lui dice che, se uno ama veramente, vuole il bene di quella persona indipendentemente dal fatto che il suo amore sia o non sia corrisposto. Se il bene di lei è lontano da lui, continuerà ad amarla dall'Inghilterra”. Altra breve pausa. Poi aggiunse in un sussurro: “Abbastanza profetica non trovi?” Caterina fece per replicare ma, non trovando le parole, uscì dalla stanza con la testa china e l’anima raccolta nella bocca dello stomaco.

Lorenzo sapeva che una non verità era molto simile ad una bugia. Per quanto fosse amaro doverlo ammettere perfino a sè stesso, il rapporto tra lui e Caterina, altro non era che una solenne, devastante bugia. Le cose tra loro non andavano e nonostante che Lonny stesse cercando di ricucire lo strappo, aveva la sensazione che ormai la situazione gli fosse sfuggita di mano, la frattura insanabile. Seduto in terrazza sulla sua poltroncina di vimini ripassava mentalmente la strada che lo aveva condotto fino a quel punto cieco. Le sue aspettative erano ben altre. In una forma di autocommiserazione si disse tra i denti: “Volevamo andare lontano...”

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Una domenica sera di maggio del ‘74 Lonny e suo padre andarono a fare un saluto alla nonna Tea. Il nonno era morto a dicembre e la nonna trascorreva le sue giornate da sola in compagnia dei ricordi. Durante la settimana stavano con lei i nipoti, spesso anche a dormire ma il Sabato e la domenica rimaneva da sola, libera di intristirsi per quel nuovo vuoto che le stava intorno. Riccardo si mise in cucina a chiacchierare con sua madre mentre Lonny scese nel cortile per vedere se c’era qualcuno dei suoi amici in giro ma non trovò nessuno. Rientrando sorprese suo babbo che scendeva in cantina e lo accompagnò. Presero un bottiglione di vino da due litri e poi si incamminarono su per le scale. “Posso portarlo io, Babbo?” “ Guarda che pesa...” Ma non aveva voglia di discutere e lasciò che il figlio prendesse la bottiglia. Quattro scalini e, detto, fatto, Lonny inciampò, la bottiglia urtò contro lo spigolo e andò in frantumi versando l’intero contenuto rosso schiumoso sulle scale. Riccardo si lasciò andare in una scenata inusuale per lui, uomo solitamente mite, tanto che dovette intervenire la nonna Tea per calmarlo. “Cosa vuoi che sia, è solo un pò di vino, Riccardo!” Lorenzo avrebbe compreso molti anni dopo quanto è doloroso perdere il proprio padre, quanto quel vuoto dentro possa destabilizzare l’anima. Ma, lì per lì, rimase offeso da tanto vituperio. Corse via in giardino e si buttò in un prolungato abbraccio al suo vecchio e amato cane dal muso a punta. Duke nella sua infinita pazienza accolse le lacrime del suo giovane padroncino per poi seguirlo quando vide che s’incamminava verso il fiume. Sopra il Pozzo dello Zio Tornato, seduto a gambe incrociate, c’era Stagno perso in chissà quale viaggio della mente. Vide Lonny con Duke e gli chiese: “E tu che ci fai da queste parti di domenica, Lonny bello?” “Sono fuggito di casa” rispose serio Lorenzo con voce determinata. “E dove pensi di andare?”

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“Ancora non lo so”. Stagno ci pensò su un istante poi disse: “Nessun luogo dove andare? Allora vengo anch’io”. Discese dal pozzo con la rapidità di un gatto e si aggregò alla compagnia. Giunti al margine della via Savio incontrarono altri quattro membri della banda: Asso, Civetta, Muriega e il Gatto. Erano intenti a calibrare i loro fucili ad elastici colpendo come improvvisato bersaglio una latta di nafta. Dopo una breve spiegazione decisero anche loro di partire verso l’ignoto. Lungo la sponda del fiume incontrarono due scimmie antropomorfe che si penzolavano a testa in giù dai rami di un pioppo. Erano Ghigo e Zorro. Non ci volle molto per convincerli. Otto ragazzini e un cane si avviarono verso la collina, destinazione lontano. Costeggiarono la riva del fiume fino alla piccola centrale idroelettrica. Attraverso il sottile ponteggio si portarono dall’altra parte del fiume e poi si inerpicarono lungo un sentiero che conduceva nella zona di Santa Lucia, un borgo di quattro case abbandonate in cima alla collina. Giunti al paesello fantasma si fece buio. Non avevano nulla da mangiare e si era alzata anche una brezza frescolina. La magia della fuga si stava esaurendo così come la rabbia nel cuore di Lonny. Parlottarono un pò discutendo sul da farsi poi decisero di tornare sui loro passi. All’epoca non c’erano lampioni sulle strade secondarie e il buio della notte era del colore nero più intenso in grado di cancellare ogni punto di riferimento disorientando facilmente chi non era più che esperto del territorio. Ad un certo punto, trovatisi ad un bivio, non sapevano bene da che parte andare e iniziarono a discutere fra loro. Per fortuna c’era Duke che imboccò senza esitazioni la stradina sulla destra. Fu così che, guidati dal vecchio pastore scozzese, guadagnarono la strada del ritorno. Giunsero a Campo Sud che erano le dieci di sera. Da lontano vedevano delle luci alternanti ma non capirono subito che si trattava di quelle poste sopra l’auto della polizia.

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Nella loro giovanile incoscienza non avevano pensato a quanto quella loro assenza prolungata avesse preoccupato le loro famiglie. Per loro fortuna la felicità di rivederli sani e salvi superò l’istinto dei loro genitori di prenderli a calci in culo e a sberle. Tornando verso casa Riccardo guardava nello specchietto retrovisore il broncio disegnato sul volto del figlio. Fermo l’auto, gli passò una mano sul viso in una carezza gentile dicendogli: “Mi dispiace, non volevo perdere la pazienza. È che questo è un periodo un pò così per me...”

Lorenzo si alzò dalla sua poltroncina di vimini. Fissò un punto lontano al limite tra la terra e il cielo e sussurrò: “Mi dispiace, Papà, non volevo ferirti. Vorrei solo averti ancora qui, sai, questo è un periodo un pò così per me...”

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Cinque Qualche giorno dopo Caterina si recò a Bologna. Doveva incontrarsi con Petra per guardare insieme le vetrine e fare quattro chiacchiere tra donne. La città non era molto cambiata dai giorni in cui la frequentava ai tempi dell’università. Via Indipendenza raccoglieva le varie umanità, le mescolava e le faceva roteare intorno con quel suo piglio allegro e vitale. Caterina camminava sotto i portici in attesa che la figlia si liberasse dei suoi impegni universitari per poi fare qualche acquisto modaiolo insieme. Giunta quasi a Piazza Maggiore ebbe un momento di sconcerto quando, attraversando la strada, incrociò lo sguardo con quello di un signore anziano. Un vecchio vestito da vecchio, i capelli e la barba bianca e due piccoli occhi verdi annacquati. Le ricordava qualcosa o qualcuno ma non riusciva a mettere a fuoco cosa o chi. D’istinto si avvicinò all'uomo. “Ciao bella sei stata al mare?” Una frase semplice ma non per lei, aveva qualcosa di già sentito, una sorta di deja vu. Ma dove l’aveva sentita e, soprattutto, da chi? “Ci conosciamo?” La voce le uscì esitante. Il vecchio strinse lo sguardo osservandola per bene poi le rispose con voce calda e rotonda: “Me ne ricorderei. Sono questi i momenti che vorrei avere vent'anni di meno…” Caterina, un po' imbarazzata dal complimento, fece un passo indietro. Il vecchio poi aggiunse una frase che mise Caterina davvero a disagio: “Stai tranquilla si trattava soltanto di un attimo di malinconia passeggera. Piuttosto mi raccomando, trattami bene tuo marito che è un bravo ragazzo”. A quelle parole Caterina si irrigidì. Iniziò a camminare allontanandosi rapidamente. Superato l'angolo si fermò quasi pentita del suo scatto. Provò a tornare sui propri passi ma il vecchio era svanito. Inghiottito dalla città. Fu proprio in quel momento che apparve Petra.

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“Mamma che succede? Perché non rispondi al cellulare?” La visione della figlia la fece tornare in sè. “Niente, niente. Non ti ho sentita. Vieni dai facciamo un po' di shopping!” Ma una piega dello sguardo rivelava in lei un forte turbamento per quello strano episodio appena accaduto. Mentre Petra indossava in un camerino di prova un abitino azzurro di cotone che dalla vetrina aveva acceso il suo sguardo, Caterina ripensava a quel vecchio. Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato si trattasse di Riccardo, il padre di Lorenzo. Era assolutamente identico al ricordo che serbava di suo suocero, solo un po' più vecchio e con la barba, mentre il padre di suo marito portava i baffi. Ma era impossibile che fosse lui dato che era morto sette anni prima. Petra uscì dal camerino. Quel vestito le stava da favola. Per non far vedere che a guardarla si era commossa, Caterina finse che qualcosa le era entrata negli occhi. La sua piccola era diventata una donna. Caterina la baciò sulla fronte e poi offri alla commessa la sua carta di credito.

All’uscita di scuola i ragazzi festeggiavano. Festa dedicata alla conclusione dell’esame di maturità. Un incubo che li aveva tenuti impegnati con la mente e con il cuore tutto l’ultimo anno. Simone prima di rientrare a casa si concesse una bevuta insieme ai suoi compagni che avevano terminato l’orale quella mattina. Erano tutti chiassosi e allegri. L'unico ad avere uno sguardo assente era proprio Simone. “Simo, sabato ci sei? Vogliamo fare un po' di casino!” Simone fece un cenno di diniego. “Domani parto. Ho trovato un lavoretto estivo dai miei parenti in riviera. Incomincio venerdì”. L’amico apparve dispiaciuto. Gli diede una pacca sulle spalle per consolarlo poi lo abbracciò gridando: “È finita, è finita!” E lo costrinse in un buffo balletto semi primordiale.

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Tornando a casa, Simone ripassò mentalmente le cose che avrebbe dovuto fare. Lorenzo, il marito della cugina di sua mamma, gli aveva procurato un lavoro come cameriere in un bar chiosco. Non vedeva l'ora di cominciare. Sarebbe stato loro ospite. In quel modo avrebbe potuto indagare sulla questione cui teneva tanto. Alice, sua madre, pur non accogliendo la notizia con grande entusiasmo, si era ben guardata dal frenarlo. Inconsciamente aveva la giustificazione di tornare in riviera con la scusa di andare a trovarlo. Alice e Simone non avevano parlato. Lei non sapeva cosa il figlio avesse scoperto e lui ignorava che i suoi genitori si fossero incontrati. Alice da tempo pensava di raccontare a Simone la verità su suo padre. Ogni volta che ci aveva provato le era poi venuto meno il coraggio. Si disse che avrebbe preso una decisione al riguardo solo dopo l'intervento. A Tommaso aveva detto di essere la mamma di un neo maturando, senza però dilungarsi troppo, apprezzando l’atteggiamento non inquisitorio di lui. Combattuta sul da farsi, non gli aveva rivelato nulla. Nel dubbio, aveva chiuso la porta alla verità. Da sempre il suo modus operandi... Regola che applicava agli altri come a sè stessa. Il nonno mantenne la promessa fatta a Simone: non profferì parola sulle confidenze che si erano fatti i giorni prima. Inoltre contattò Lorenzo affinché aiutasse Simone a trovare un lavoretto per l’estate ma si guardò bene di aggiungere altro. Si era spiegato poi così con il nipote: “Lorenzo è un bravuomo con la testa perennemente tra le nuvole, tanto è vero che, nonostante tu sia nato in una data compatibile con la storia tra i tuoi genitori, non ha mai sospettato chi fosse il tuo vero padre. Per la verità tua madre è stata molto brava a confondere le acque. Ritengo che da quelle parti la verità la conosca solo Caterina. Ma da lei non caverai un ragno da un buco. Piuttosto lavorati bene Lorenzo. Giragli attorno, studialo. Vedrai che ne risulterà qualcosa”. “Perché proprio Lorenzo?”

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“A quanto ne so, lui e tuo padre erano amici intimi...” Lorenzo e Tommaso erano amici fraterni. Amicizia nata fin nella più tenera età, consolidata durante una storica battaglia al fortino, suggellata da un patto di sangue, confermata nella protezione reciproca in tante occasioni. Come la volta che Lonny si prese la colpa di aver colpito Titin e’ Sumar con un osso di bue…

Il padre di Tommaso era un uomo estremamente severo. Non perdeva mai l’occasione di punirlo per ogni piccola bravata. A volte doveva assaggiare il cuoio della cinghia, altre volte veniva confinato nella sua stanza per giorni. Una volta fu spedito un mese in colonia. Una sera di settembre del ‘74 Titin e’ Sumar litigò con il resto della banda. La disputa avveniva per colpa della spartizione di un bottino. Erano stati a saccheggiare grappoli d’uva in Territorio Nemico e durante la divisione pretendeva per sè una parte maggiore in virtù di un non ben precisato diritto divino. Finì a male parole. Titin e’ Sumar era un bambino particolarmente capriccioso. Andandosene, minacciò di raccontare tutto a sua madre. Era lontano più di trenta metri quando Tommaso raccolse un osso che aveva trovato lì in terra e glielo lanciò contro. Soffiava il cuore e fischiava il vento. Quell'osso lasciato per terra, mordicchiato da chissà quanti cani, scalfito dai loro denti appuntiti nella corticale, avevano reso solida la presa, fluido il lancio, preciso il bersaglio. Avesse provato altre mille volte, non lo avrebbe mai neppure sfiorato ma, in quell’occasione, lo centrò perfettamente in testa, provocandogli una ferita abbastanza profonda. Titin e’ Sumar corse a casa. Al pronto soccorso gli vennero messi sei punti. Tommaso disse che voleva fuggire, che non sarebbe tornato dai suoi. Aveva solo undici anni e temeva il castigo che lo attendeva. Troppe volte suo padre aveva minacciato di spedirlo in collegio. Era sicuro che questa volta sarebbe accaduto. Fu allora che intervenne

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Lonny. Convinse il gruppo a dire che era stato lui a lanciare l’osso e li fece giurare. Stagno organizzò su due piedi un maleficio degno del più grande stregone, diretto a chi avrebbe infranto quel giuramento. Quando la sera la madre di Titin e’ Sumar piantò la sua bella sfuriata, il padre di Tommaso non poté infierire sul figlio. Il giorno dopo ritrovandosi a Campo Sud, Tommaso si sentì un verme, ascoltando dalla voce di Lorenzo degli schiaffi ricevuti la sera prima. Salì sopra un vecchio pioppo e incise sulla corteccia dell’albero una frase: Lorenzo e Tommaso della tribù dei musi rossi sono fratelli…

Le radici di quel vecchio pioppo erano ostinate. Antonio non ne fu affatto sorpreso, sapeva che ci sarebbe stato da fare. Trascorse tutta la mattina a scavare per esporle e fare spazio al taglio della motosega. Verso mezzogiorno si era fatto molto caldo. “Ti ho portato una bibita fresca, fai una pausa…” Laura appoggiò un vassoio con una caraffa e dei bicchieri sopra un muricciolo. Antonio ringraziò la donna con uno dei suoi rari sorrisi. “È tè freddo alla frutta. Ho messo dentro dei pezzi di pesca e di mela a macerare. Senti se ti piace”. Antonio si versò un bicchiere e lo bevve tutto d'un fiato. “È buonissimo. Grazie”. Giunsero don Diego e Tommaso. Il prete si arrotolò le maniche della camicia e prese in mano una vanga. “Dove devo scavare?” Antonio gli fece vedere il punto poi cominciò ad armeggiare con la motosega. Laura guardò Tommaso e d’istinto gli fece una carezza. “Come stai oggi?” Lo sguardo di Tommaso rispose con una piega indecifrabile. “Non saprei. Né bene né male”.

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Laura lo abbracciò. “Sai che Giorgio stravedeva per te?” Tommaso lo sapeva. Conosceva anche qualcosa che la madre ignorava. Ghigo era sempre stato attorniato da tante ragazze ma nessuna aveva fatto breccia nel suo cuore. Se le portava a letto, le strapazzava un po’ e poi le gettava via senza neanche pensarci troppo su. Questo avveniva perché il cuore di Giorgio era occupato. Amava non ricambiato e quel suo amore sofferto e impossibile lo aveva spinto verso la sua deriva con alcool e droghe. L'amore impossibile di Ghigo era Tommaso... Già, quel ragazzone di un metro e ottanta, bello e simpatico, con la battuta pronta e quel sorriso da divo del cinema che tanto attirava le ragazze, era gay. Un’omosessualità non dichiarata né ostentata anzi, tenuta accuratamente lontana dai riflettori. Gli amici, quelli veri, quelli della Band, sapevano, ma il resto del mondo lo ignorava e ne sarebbe rimasto stupito alla notizia. Una sera d'inverno, dopo una solenne bevuta Giorgio prese il coraggio a due mani e si dichiarò a Tommaso. Si abbracciarono. Tommaso cercò di consolare l'amico che considerava un fratello, ma non poteva ricambiarlo con ciò che non sentiva dentro. Quell'amore negato trascinò Ghigo in una strada pericolosa, imboccata per consentire al suo cervello di non permettersi di pensare. Una corsa verso uno sballo infernale interrotta soltanto da un vecchio platano, sentinella antica delle vicende umane, nato e cresciuto per caso dove sarebbe poi sorta la via provinciale. Tommaso tornò a guardare Laura. Era invecchiata, certo, ma rimaneva ancora una donna molto bella. Con quel sorriso velato da una piega di tristezza raffigurava, per Tommaso, il ritratto della madonna. Quanto meno, quella che lui immaginava. Una donna dolce e fiera, sofferente ma determinata e, sopra ogni altra cosa, dotata di una rara capacità di accogliere e perdonare.

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L’aveva ampiamente dimostrato nel modo con il quale si comportava con don Diego, colui che, in fondo, poteva apparire il responsabile ultimo della morte di Giorgio. Laura aveva saputo andare oltre quella reità, accarezzare il senso di colpa e, addirittura, tentare di alleviarlo. Quante altre madri sarebbero state capaci di tanto? Tommaso pensava a queste cose quando, d’improvviso, il pensiero tornò al suo intervento. Mancavano pochi giorni… Odiava ammetterlo a sè stesso ma, il sentimento dominante, era rappresentato dalla paura. Non quella di morire, piuttosto il nulla lo metteva a disagio... Anche perché la fede lo aveva da tempo abbandonato. Ricordava il momento preciso in cui era accaduto. Quando quella bambina di otto anni piangeva e urlava per il dolore. Lui impotente, un’immensa notte nell'anima. Quel pianto aveva gridato con forza una domanda che era riecheggiata a lungo tra le pareti della sua anima: “Perché?” Aveva scoperto, suo malgrado, di non essere in grado di darsi la benché minima risposta. Laura lo richiamò alla realtà facendogli una domanda. “Cosa stai pensando?” “Niente di particolare...” provò a cambiare discorso, “...hai bisogno di aiuto in cucina?” “No grazie, è già tutto pronto. Vai a darti una rinfrescata che tra venti minuti si mangia” e tornò ad accarezzargli il volto. Poi si rivolse ai due che si stavano accanendo contro le radici del pioppo: “Lasciate lì e se non volete mangiare in ritardo come sempre”. I due si voltarono, borbottarono qualcosa, poi si rimisero a fare quello per cui erano stati interrotti. Laura piegò le labbra in una smorfia che poteva voler dire soltanto: “Testoni e cocciuti”. Si voltò e fece ritorno in canonica seguita da Tommaso. Don Sergio stava seduto nel fresco dell'entrata e controllava i movimenti di Franchino muovendo la testa con fare sconsolato.

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“Mi chiedo perché, per riuscire a fare una semplice cosa, tu la debba fare dieci volte. Ti ho detto: chiudi la finestra e non smontala dai cardini...” In quel momento Laura e Tommaso entrarono nella stanza e don Sergio li apostrofò entrambi: “Oh, Laura, signora degli spaghetti e del pomodoro, grazia e delizia dei palati, letizia delle narici, regina degli stomaci appagati! Il mio cuore sussulta ogni volta che ti vede, poiché pregusta i manicaretti che potrà ingurgitare”. In realtà il vecchio don Bargiggia, oramai da tempo, andava avanti a brodini. Poi si rivolse a Tommaso: “E tu, giovin virgulto di encomiabile purezza, chirurgo sopraffino, medico dei diseredati, colonna portante tra le macerie…” Tommaso sorrise. “Don Sergio, lei non si stanca mai di dire stupidaggini?” “E perché dovrei?” replicò il prete, “...piuttosto aiutami a salire di sopra che le mie vecchie ossa sono un po' recalcitranti”. Tommaso offrì un braccio a don Sergio e saliranno al piano superiore. Giunti al primo piano della canonica, con voce rotta dallo sforzo, il vecchio prete smise il tono scherzoso e disse: “Sai, ragazzo, vorrei dirti due cosette. Hai tempo?” “Certo dica pure…” Don Bargiggia lo guardò con l'affetto che solo un padre vero avrebbe potuto provare. “So che tra pochi giorni verrai operato... Ho carpito dalle tue parole che non ti affidi al Signore perché hai perduto ogni speranza in lui. Dico bene?” “In effetti è così” rispose sinceramente Tommaso. “Bene… Volevo, allora, se posso, dirti solo questo: tu hai perso la speranza in Dio ma, ricordati bene...” don Sergio fece volutamente una pausa, poi riprese con tono marziale: “...lui non ha affatto perso la speranza in te!” Poi gli diede uno schiaffetto di finto rimprovero. “Ci vediamo più tardi in refettorio, oh grande sanitario del terzo mondo,

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esimio lenitore delle ferite infingarde, eminente diagnostico dalle prognosi mirabolanti, sublime demiurgo degli spasmi dolorosi…” E mentre continuava la sua cantilena si ritirò nella propria stanza. Tommaso rimase in piedi a guardare la porta chiusa. Strinse gli occhi sottili. Era il suo modo di ringraziare.

Dopo pranzo, don Sergio fece ritorno in chiesa. Andava per controllare Stagno che era all’opera. Il bozzetto concepito inizialmente per la navata centrale non contemplava affatto quei ridicoli esserini paffuti con inverosimili appendici alate. Come se il tizio che abita al piano di sopra si fosse divertito a creare degli ibridi di uomo e piccione. Ma don Sergio era stato così tanto educatamente insistente che si apprestava, suo malgrado, ad accontentarlo. Lassù, appollaiato come una cocorita sopra i tubi innocenti, Stagno tratteggiava con il carboncino i personaggi del presepe che avrebbe poi dipinto. Il fondo era già stato completato. Fosse stato per lui avrebbe chiosato lì, con tutti quei colori caldi che si davano il cambio sfumando uno nell'altro in un’idea di gioia purissima. Quei toni non gli appartenevano ma li respirava ugualmente. Sentiva che gli parlavano sussurrandogli cose belle e nuove insieme. Stagno scese per dissetarsi. Don Sergio era stato tutta la mattina naso all'insù a guardarlo e dopo un breve riposino era già tornato ad osservarlo. “Oh, pittore dei cieli e delle terre, insigne maestro del pennello, valoroso intingitore, raffinato miscelatore dei toni, scendi qui tra noi comuni mortali”. Stagno adorava la malattia mentale di don Bargiggia. “Il mortale, don Sergio, tra i due, sono io. Voi siete atteso nel regno dei cieli mentre a me si spalancheranno le porte del nulla”. “Non dire così bel giovine, che l'idea delle cose cambia. Tra l'altro ho una notizia per te: il nulla non esiste”. Stagno si sedette vicino al prete.

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“Posso metterla a parte di un mio pensiero al riguardo?” Don Sergio assentì con il capo. “Vede, in tanti parlano. Discutono di un certo tipo di nulla perché lo trovano molto interessante mentre giudicano meno di niente l’intero universo. Ma del nulla non sanno alcunché. Il loro nulla è rappresentato dalle previsioni del tempo, l’oroscopo, lo sport e banalità simili. Il nulla vero è altro... Io lo posso dire perché io e il nulla siamo affini, apparteniamo entrambi a qualcosa di molto più grande. In effetti, io e il nulla, siamo la stessa cosa”. Don Sergio tentò di replicare a quelle parole. Non fece tempo a riordinare i pensieri che il pittore pazzo era già in cima al traliccio intento a colorare la volta. Allora il vecchio prete borbottò tra sè: “Nulla o non nulla, ti piaccia o non ti piaccia, dove andrò io ci finirai anche tu, bel giovine!” E chissà se era un pensiero profetico o una malcelata minaccia.

Il cielo stava raccogliendo le nuvole e cominciava a rumoreggiare. Il vento prendeva i cipressi per le punte e li strapazzava. Foglie e stracci di strada svolazzavano sul selciato. All'improvviso, si udì un tonfo, un rumore sordo che sembrava provenire direttamente dall'inferno. Diego si svegliò tutto sudato. Faceva caldo e c'era un’aria umida e bassa. Ma il vero motivo di quella sudata era un altro: aveva sognato Ghigo e l’incidente... Si chiese quando si sarebbe liberato da quel sogno ricorrente. “Mai...” La sua pena terrena. Un altro tonfo sordo, più vicino, seguito da un gorgoglio dai toni gravi. Il temporale era alle porte. Diego guardò l'orologio che indicava le due e venti. Indossò un paio di pantaloni, si mise le scarpe e scese nel cortile. Quando erano bambini lo facevano sempre.

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Nonostante il veto dei genitori, loro si davano appuntamento a Campo Sud. Si sdraiavano sull'erba con le teste vicine a formare una sorta di stella e commentavano le forme delle nuvole che andavano via, via trasformarsi poi disfarsi. Poi arrivava il temporale e loro inscenavano sotto l'acqua una danza tribale. Avevano continuato a farlo, sporadicamente, anche da ragazzi. Con quel ricordo nel cuore, Diego si diresse sul retro della canonica e si sdraiò sull'erba scrutando il cielo. Dopo poco sentì un rumore di passi. Una testa si appoggiò sull'erba vicino alla sua. “Non pensi che sia sconveniente, per un bel coglionazzo come te, stare qua fuori tutto a torso nudo e per di più disteso sconvenientemente per terra? Cosa direbbero i tuoi imbecilloni se ti vedessero?” Diego non fece una piega. Disse soltanto: “Per una volta, nella tua vita, vedi di stare un po' in silenzio...” Stagno ubbidì. Stava dipingendo un povero cristo vestito di stracci, inginocchiato innanzi al Cristo vero. Aveva avuto la tentazione di fare uno scherzo diabolico al suo amico prete: far spuntare il pisello di quel poveraccio da sotto gli stracci. Si era detto che tanto dalle panche non si sarebbe potuto vedere, magari però dall’altare… Poi avvertì il primo tuono. Era il segnale. Il richiamo ancestrale lo fece scendere dall'impalcatura e uscire all'aperto. Vide un morto sdraiato nel cortile e sorrise dicendo dentro di sè: “Allora questa notte si balla!” Lorenzo era sveglio. Guardava Caterina che dormiva e ne seguiva il respiro leggero. Si avvicinò e con delicatezza le accarezzò i capelli. Lei si girò lentamente. “Cosa c'è? Non dormi?” “Esco”. Caterina aprì gli occhi di scatto. “E dove vai?” “Ho un appuntamento”.

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Lorenzo sapeva che erano tutti a San Zaccaria. Chissà quando si sarebbe potuta verificare ancora un'occasione del genere. “Dopo ti spiego. Ora però devo andare...” Si vestì rapidamente e scese in garage, si mise il casco, salì sulla vespa, che era stata messa nuovamente in pista e ripartì. “Temporale arrivo!” Tommaso si alzò stancamente e discese in cortile così com’era: mutande, canottiera e ciabatte. Stagno come lo vide gli disse: “Mi sembri proprio quello dello spot della pasta per dentiere...” Poi si mise a sghignazzare. Tommaso rise anche lui mentre si sdraiava insieme agli altri due. Diego parlò con voce appena percettibile. “Ho sognato Ghigo. Dite che sarebbe stato qui con noi se...” Tommaso prese la parola: “Ascolta Zorro, devi smetterla di torturarti. Ti sei preso la colpa della morte di Ghigo. Ok, guidavi tu, va bene. Noi però sappiamo benissimo che era lui che ti trascinava nelle sue bravate. Non fosse arrivato quel platano, avrebbe fatto comunque una fine di merda”. Poi iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Era solo l'antipasto. Nel silenzio della notte si udì un borbottio provenire dal paese. Un tizio alto un metro e novanta a cavallo di una vespa li raggiunse. “C’è posto?” E senza aspettare la risposta si sdraiò vicino a loro. Silenzio, poi lampi, poi tuoni... Finalmente lo scroscio d’acqua liberò tutta la sua energia accumulata in tanti giorni di arsura. Probabilmente erano troppo vecchi per inscenare una danza tribale ma, noncuranti del risvolto patetico, lo fecero ugualmente.

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Lorenzo era una persona con una forte indole malinconica. Lo era sempre stato, fin da ragazzo. Spesso si avventurava nella mente a rivangare i giorni del passato. Tornare nel tempo lo faceva stare bene. Di contro Tommaso era un uomo pratico, poco incline al rimpianto, sempre proiettato in avanti anche in quei giorni senza futuro. Per Stagno era diverso: passato, futuro, rimembranze o speranze non gli appartenevano. Lui stava, in apparenza piuttosto comodamente, in una posizione alternativa al resto del mondo. Come diceva lui: di lato al vivere. Diego, il più equilibrato, coccolava il proprio passato perché vi trovava la saldezza delle radici del suo essere uomo, ma continuava a fare progetti perché i rami dell'albero potessero dare frutti. Fu pertanto con animo molto diverso l'uno dall'altro che i quattro amici il giorno successivo al temporale notturno, si ritrovarono quasi quarant'anni dopo nei pressi della casa del Moro. Dove ora sorgeva un piccolo centro commerciale una volta c'era la casupola diroccata di Vladimiro Algisi. Era un vecchio contadino che quelli del posto chiamavano così in parte per via della carnagione scura ma sopratutto per i suoi poteri da negromante.

Quando nel dicembre del ‘74 Saverio, il fratello di Stagno si ammalò, chiamarono il Moro al suo capezzale. Era ormai molto anziano. Si avvicinò al letto e accarezzò Saverio sul volto con le sue mani rugose, poi chiuse gli occhi e parlò sottovoce pronunciando chissà quale litania. Ad un certo punto si rivolse al padre di Stagno e gli disse in dialetto, l'unica lingua con la quale sapeva parlare: “Devi essere forte, stagli vicino e bacialo che manca poco.” Poi, scusandosi del fatto di non poter fare altro, se ne andò inghiottito dalla bufera di neve che si era scatenata tutto intorno. In primavera il gruppetto dei bambini di Campo Sud, andò a trovare il

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Moro presso la casupola piena di cianfrusaglie dove abitava. Il vecchio, ormai superate le novanta primavere, li accolse benevolmente. Offrì loro un succo di mela che faceva utilizzando uno strano marchingegno da fattucchiera. Si trattava in realtà di un semplice spremiagrumi modificato con l'aggiunta di qualche alambicco. Poi il vecchio si dispose ad ascoltarli. Ma c'era solo una domanda, in fondo. Inutilmente avevano provato a darsi una risposta seduti in cerchio nel campo di granturco del vecchio Galoz. Poco esaustive le risposte che evasivamente venivano loro dagli adulti. Per quel motivo Stagno aveva proposto di andare tutti a parlare con il Moro. Il vecchio si sedette su una sedia da giardino di quelle con la plastica tubolare che costruiva la seduta raccordando la struttura in metallo arrugginita ad una plastica scolorita, segni evidenti della sua permanenza all'aperto, esposta ai capricci del tempo. I ragazzi si sedettero per terra componendo un cerchio intorno a lui. Dapprima guardò i ragazzini squadrandoli per bene uno a uno, poi sospirò e si decise a parlare in quella sua lingua arcaica, il dialetto, che i ragazzini faticavano a comprendere pienamente. “Siete venuti qui a farmi una domanda di cui nessuno ha la risposta. Così come non so spiegare perché guardandovi riesco a vedere nel vostro futuro. C'è chi dice che sono matto, chi pensa che sono un imbroglione e chi invece si convince che è vero. Io ho solo una certezza: Dio non esiste. Quello che chiamano Dio è soltanto la vita che comanda la vita”. I bimbi si alzarono, salutarono il vecchio e se ne andarono. Mentre si allontanavano Stagno disse poche, laconiche, parole: “Volete sapere cosa penso ragazzi? Tutte cazzate!” Ma poi ognuno di loro per mesi, forse per anni, continuò a ripensare alle parole del vecchio fantasticando su quale futuro il Moro avesse intuìto.

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La richiesta di trovarsi lì, quella mattina, a distanza di tanti anni, era venuta da Tommaso e gli altri erano in attesa di una spiegazione. Si sedettero in uno dei tavolini esterni della pasticceria che aveva preso il posto di un fienile. Mentre il sole con i suoi raggi di sbieco li attraversava, bevettero un caffè. Quando all’epoca si erano riuniti nell'aia del Moro, Tommaso aveva undici anni, lo sguardo sottile nero e profondo, il sorriso sempre pronto a saltargli sulle labbra all'improvviso come una freccia scoccata. Del gruppetto era il più alto, il più forte e il più risoluto. Ora appariva magrissimo, scavato in volto dalla malattia, leggermente incurvato, ma i suoi occhi neri non avevano perduto l'antico magnetismo. Lorenzo da piccolo era paffutello e imbranato, sempre con la testa persa nelle nuvole, gli occhi chiari distesi in un perenne sorriso accogliente e i capelli biondi così chiari che in estate apparivano quasi bianchi. Ora era il gigante del gruppo, il suo sorriso però si era spento, ma la sua pasta di uomo morbido e buono rimaneva intatta. Diego da bambino era stato il classico monello. I capelli ricci, gli occhietti vispi, sempre pronto a escogitare qualche birichinata in coppia con Ghigo, primi ad arrivare ogniqualvolta la banda meditava un'incursione in Territorio Nemico. Due piccoli temerari avventurieri. Ora ingrigito e appesantito sembrava davvero un altro. Era quello che più di tutti appariva lontano dal proprio bambino. Stagno, invece, in una potenziale foto del tempo, lo avrebbe riconosciuto chiunque: magro allampanato, capelli che andavano per tutti i versi, volto spigoloso e sguardo folle. Tommaso si fece baciare qualche istante dal sole poi iniziò a parlare. “Io poi ci sono tornato. Da solo”. “Dove?” gli chiese Diego. “Dal Moro...” replicò Tommaso, “...volevo dirvelo ma lui mi fece promettere che non lo avrei fatto”. Lorenzo non riusciva a connettersi in quel discorso.

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“Ma di cosa stiamo parlando?” Fece quella domanda col tono di uno appena disceso dalla astronave delle dieci proveniente da un universo parallelo. La voce pacata di Stagno intervenne a diradare le nubi. “Sta dicendo che quella volta che andammo trovare il Moro dopo la morte di Savy, lui ci ritornò da solo”. “Scusami...” Lorenzo fece una breve pausa guardando Tommaso diritto negli occhi, “...solo tre domande. La prima: perché ci tornasti da solo? La seconda: perché non me l'hai mai detto? Eravamo e siamo fratelli di sangue io e te, no? La terza: perché ti viene in mente proprio ora?” Tommaso si avvicinò a Lorenzo e lo accarezzò sulla testa come faceva quando erano bambini. “Non prendertela Lonny, lo sai, un giuramento è un giuramento. Ci ritornai perché fu lui a dirmi di farlo. In un momento che vi eravate messi a giocare con dei gattini mi prese da parte chiedendomi di tornare. Ne parlo ora perché non ho più tanto tempo e poi perché ci ha inzertato in pieno”. Tommaso non aveva mai potuto dimenticare quell’incontro. Lui e il vecchio si erano incamminati verso la cava d'argilla. Il Moro emanava un forte odore di vecchio… Sapeva di sapone da bucato frammisto a cipolle e melanzane fritte. La sua faccia era segnata da rughe profonde che componevano una fitta trama di solchi. Ma la sua voce, seppur appena strascicante, era netta e ciò che diceva appariva sì fantasioso, ma genuino. Il Moro credeva fermamente in ciò che diceva. Non giocava con i sentimenti delle persone. Tornò a guardare negli occhi i suoi amici. “Mi disse che a me doveva dirlo perché non sprecassi la mia vita inutilmente, che sarei morto giovane… Quando mi svelò l'anno del mio trapasso pensai: Mica tanto giovane... Un cinquantenne è un vecchio agli occhi di un bambino ed è un bambino agli occhi di un vecchio”. Piccola pausa a cercare con lo sguardo il riverbero del sole sul selciato.

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“È per quel motivo che sono andato via in servizio civile missionario e che ho dedicato la mia vita a chi aveva bisogno. È sempre per quel motivo che ho perfino rinunciato ad Alice”. Il ricordo del amore lasciato volontariamente scivolare via era ancora doloroso in lui nonostante gli anni trascorsi. “Non volevo e non potevo legarmi a una donna sapendo che non avrei vissuto a lungo. Voglio dire, non che fossi certo della profezia però quel vecchio era riuscito a convincermi”. Un’altra pausa, più breve eppure più eterna. “Mi aveva predetto l'anno in cui sarei morto e anche come… Me lo disse guardandomi negli occhi, sereno, paterno. Io gli ho creduto”. Sorrise come per scusarsi. “Poi col passare degli anni ogni tanto provavo a gettare via quell'ombra dai miei pensieri dicendomi che erano sciocchezze. Sapete come è andata”. Diego intervenne energicamente. “Cosa vuoi dire? Sei malato, va bene, ma non è mica detto nulla ancora!” Tommaso socchiuse gli occhi sospirando. Lorenzo non riusciva a dire nulla. Stagno alla fine fu l’unico a trovare il coraggio per fargli la domanda: “A quale anno si riferiva il Moro?” Tommaso rispose laconicamente: “Questo…” Dopo un breve silenzio nel quale si sarebbe potuto ascoltare i battiti del cuore di ognuno di loro in un misto di rabbia, incredulità e rassegnazione, Tommaso si rivolse a Diego: “Sai Zorro, anche Ghigo tornò dal vecchio. Me lo confidò diversi anni dopo, una sera che decidemmo di raccontarci tante cose. Io lo avevo preso da parte per tentare di dargli uno scrollone, di farlo ragionare... Ma Ghigo non era un tipo ragionevole... Comunque sulla questione del Moro ci ridemmo sù eppure credo che nessuno dei due ci fosse passato sopra con la leggerezza che ostentavamo”.

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Diego gli fece una domanda: “Cosa disse a Ghigo?” “Di preciso non lo sò...” rispose Tommaso stringendo lo sguardo. “Come a me gli aveva predetto la sua morte pregandolo di non sprecare la propria esistenza. Però non mi disse altro, così non posso sapere se nel caso di Ghigo il vecchio ci ha indovinato. Io credo di sì...” Una gazza emise il suo richiamo gracchiante appollaiata sopra un ramo basso di un abete. I quattro amici si girarono per guardarla e lei, come avvertendo i loro sguardi, si alzò in volo scomparendo alla loro vista. “È un volo...” disse Stagno sotto voce con tono quasi severo. “Che vuoi dire?” “È inutile che t’incazzi, Lonny bello!” Lo sguardo era così carico d’affetto che Lonny fece scivolare via la rabbia. “Vedi caro gigante amico mio, la vita è un volo. Un solo, breve e stupido volo. Ma sapete cosa vi dico?” questa volta si stava rivolgendo a tutti loro: “È stato bello farlo con voi...” Con quel sole arancione della sera che indugiava sui loro volti, i quattro amici si incamminarono. In silenzio percorsero quello stretto corridoio di verde pubblico, coriandolo residuo dell’immenso teatro che era stato l’allegro testimone delle loro scorribande giovanili.

I raggi tiepidi di un sole arancione filtravano dalle persiane. Indugiando sul volto di Simone lo risvegliarono verso le undici del mattino. Dalla strada proveniva il silenzio della domenica. Sapeva di essere solo in casa. Lorenzo, Caterina e i ragazzi andavano a un matrimonio. Molto carinamente si erano offerti di portarselo dietro ma lui aveva declinato l'invito. A parte il fatto che non conosceva nessuno e quindi per lui il rinfresco sarebbe stata una palla mostruosa, aveva altri programmi. Risiedeva in quella città di mare da sole due settimane ma aveva già

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ottenuto alcuni riscontri alle sue domande e si sentiva pronto a verificarne la veridicità. Lavorava nel chiosco dalle sei di sera fino alle due del mattino. Quando si svegliava andava al mare o leggeva qualcosa e intanto pensava. Lorenzo gli aveva concesso di utilizzare la sua casa al mare, un’abitazione che restava per la maggior parte dell’anno completamente disabitata. Non poteva certo chiedere di più. Un paio di volte la settimana Lorenzo o Caterina andavano a trovarlo per vedere se necessitava di qualcosa. Erano estremamente gentili e disponibili. In una di quelle occasioni, chiacchierando con Lorenzo, aveva individuato alcuni frammenti della sua ricerca. “Quel tipo di cui parlavi con Caterina l'altro giorno. Come si chiama già? Ah, sì, Tommaso... È quel tuo amico che si è fatto prete?” Lorenzo spiegò distrattamente: “No quello è Diego. Tommaso, è un altro mio amico di infanzia”. Simone stava giocando una partita a scacchi. Voleva far parlare Lorenzo evitando che, insospettito da qualche cosa, si chiudesse a riccio. “Non sarà, allora, quello che vive in Sudamerica?” Simone sperava di strappare a Lorenzo il posto esatto dove si trovava suo padre. La risposta di Lorenzo fu spiazzante per il giovane: “Sì, è lui, ma è tornato”. “Tornato? In Italia?” “Sì. Adesso è ospite di don Diego. Come mai sei così interessato?” Simone assunse un’espressione quasi annoiata. “Interessato? Non direi. Dicevo così per parlare”. Poi sviò l’interesse di Lorenzo raccontandogli del suo lavoro serale. Quella sera stessa, prima di recarsi al lavoro, Simone chiamò suo nonno. “Pronto?” “Nonno ciao. Ho bisogno di un favore. Segreto…” Il nonno, in sintonia col nipote, si divertì a giocare alla spystory: “No, Alfonso, questa sera non vengo al circolo, sono stanco”.

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“Diavolo di un nonno! Ci sono orecchi indiscreti in giro? Ascolta, ho bisogno di sapere chi è un certo don Diego e dove si trova la sua parrocchia”. Il nonno continuò a recitare la sua parte: “Va bene, Alfonso, domani sera cercherò di esserci. Ciao e buona serata”. “Nonno sei un mito! Ciao”. La sera successiva Simone ricevette la chiamata di suo nonno. “Ciao Simo, ho telefonato a mia cognata e ho indagato per te. Don Diego è un amico di Lorenzo ed è parroco di San Zaccaria, un piccolo paese non distante da dove ti trovi ora. Serve altro?” Simone ringraziò calorosamente il suo informatore e cominciò a programmare la sua incursione. Il giorno dopo era domenica, al termine di una tardiva colazione si avviò lungo la litoranea in direzione San Zaccaria a cavallo dello scooter di Petra che Lorenzo gli aveva messo gentilmente a disposizione. La domenica pomeriggio don Diego si ritagliava un piccolo spazio tutto per sè. Nel fresco della chiesetta si sedeva alla tastiera, indossava le cuffie e suonava per un'ora o poco più. Era l’unica trasgressione che si concedeva. La scelta di quell'orario domenicale dipendeva dal fatto che rappresentava, di norma, il momento di maggior quiete. Certo, come trasgressione non era così eclatante, la musica che suonava però sì: hard rock, funky e punk rock. Franchino la domenica restava a casa con i suoi genitori ma, qualche volta, in estate, tornava a Liberi Tutti perché odiava andare al mare. Tutte quelle donne nude... Quando Franchino sostava in guardiola di domenica, aveva il compito di non disturbare don Diego nella sua oretta di relax. Ma, una volta entrato in canonica, Franchino faticava a distinguere un giorno dall'altro. Quando quel ragazzo dall'aria così gentile e simpatica gli chiese dove poteva trovare don Diego, gli indicò la Chiesa e anche dov’era l'entrata secondaria. Simone entrò silenziosamente dalla navata laterale, si guardò intorno e percorse lentamente la piccola chiesa. Sulla destra, a lato dell'altare, c'era una nicchia. Un uomo, cuffie in testa, stava suonando una tastiera. Immaginò

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che fosse il prete. Accompagnava il movimento delle mani sui tasti con ritmici dondolii della testa. A Simone venne in mente Ray Charles. In quel momento don Diego si accorse di lui, si tolse le cuffie e lo interrogò: “Hai bisogno di me?” “Penso di sì. Lei è don Diego?” Il sacerdote era sicuro di non conoscere il ragazzo, poi l'accento lombardo fugò ogni dubbio. “In persona, posso fare qualcosa per te?” Simone lo guardò attentamente. Indossava una maglia rossa con stampata su la faccia di Che Guevara, le cuffie di traverso sul collo… Sembrava un dj. “Sì, in effetti avrei bisogno di parlarle”. Don Diego notò l'inquietudine nello sguardo del ragazzo. Appoggiò le cuffie sulla tastiera, si alzò e lo prese sotto braccio. “Allora, per prima cosa dammi del tu che è più semplice. Sediamoci qua”. Aggiunse il prete indicando una panca. Poi chiese: “Che succede?” Simone si era preparato tutto un discorso: “Io mi chiamo Simone, abito a Mantova. Probabilmente hai conosciuto mia madre tanti anni fa. Si chiama Alice ed è la cugina di Caterina...” Don Diego interruppe il racconto di Simone. “Certo che mi ricordo di lei! Era qua poche settimane fa... È un grande piacere conoscerti! Conosco tua madre da una vita...” Simone si sincerò di aver ben capito. “Cosa intendi dire che è stata qua? In città o qui da te?” Il prete rispose mentre una certa idea iniziava ad affacciarsi alla mente. “Qui da me. Ospito un amico comune… Tu quanti anni hai esattamente?” Il prete non era uno stupido. “Ventidue” rispose Simone. “Ventidue...” ripeté meditabondo don Diego, “...bene, credo di cominciare

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a inquadrare il problema. Parlo io o parli tu?” Simone fu contento di quella domanda. Significava che il prete era arrivato da solo alla giuste conclusioni. “Prova a parlare tu” la voce, quasi un sussurro. “Dunque, tua madre, Alice, ti ha partorito ventidue anni fa... Ne sono accadute di cose a quell’epoca. Sai chi è tuo padre?” “Forse, cioè, credo di saperlo. Ma mia madre non me lo ha mai detto...”. Don Diego continuò: “All’epoca tua madre è stata la ragazza di un mio amico che ora è ospite qui. Se ho capito bene è lui che stai cercando, vero?” “Sì...” ammise Simone con un filo di voce. Da che c'era vita sul pianeta c’erano sempre stati dei giorni speciali a rappresentare attimi di luce intensa, come se per incanto i segreti dell'universo venissero rivelati. Simone seguiva don Diego camminando incontro al proprio destino. Ciò che provava, quella sensazione di incompletezza che aveva sempre avvertito, stava per conoscere le proprie radici. Non era sicuro di essere abbastanza preparato. Ma come un cieco si affida al proprio cane guida, seguì il suo istinto e, senza tentennamenti, si ritrovò in piedi davanti ad una porta. “Aspettami qui”. Don Diego entrò nella stanza di don Sergio. Al vecchio sacerdote non servirono troppe parole per comprendere la situazione. Quindi don Diego invitò Simone ad entrare nella cameretta spoglia di don Bargiggia. Presentò l'uno all'altro poi si defilò. “Allora, bel giovine di auliche speranze e insostenibili irrequietezze, mi hanno detto che sei di Cremona”. “Per la verità, no...” rispose Simone all'affermazione di quello strano sacerdote con quattro capelli in testa tutti dritti, “...io abito a Mantova”. “Ah, Mantova! Città storica di grande tradizione ducale. Le sue bellezze sono seconde soltanto a quelle della città che si è classificata prima. Del resto,

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nonostante anch'io sia piuttosto vetusto, a quella gara non ho potuto assistere e, pertanto, non saprei dirti qual’è… “Qual’è cosa?” “Ma la città che ha vinto! A dir la verità, poi, non so neppure di preciso dove sia Mantova. Mantova... Proprio un bel nome…” Mentre don Sergio ipnotizzava la mente di Simone con tutte le sue fesserie logorroiche, don Diego fece capolino nella stanza di Tommaso. “Ciao”. “Ciao, hai bisogno?” domandò Tommaso all'amico. “Per la verità, sì. Vorrei che tu ascoltassi una storia. Non sono un bravo narratore, ma cercherò di non annoiarti”. La storia... Quanti racconti coesistono dentro una vicenda umana. Decine, forse centinaia. Alcuni semplici, altri complessi e di questi, molti conoscono il dolore della mente e del cuore. Don Diego terminò il racconto. Tommaso non aveva mai interloquito restando in silenzio. Infine trovò la forza di porgli una domanda: “Quando lo hai scoperto?” “Venti minuti fa” la semplice risposta del prete. “Chi te lo ha detto? Alice?” Don Diego scosse la testa. “Non credo avesse intenzione di dirtelo... No, me lo ha detto lui.” Tommaso parve non capire. “Lui chi?” “Simone. Tuo figlio”. Figlio... Soltanto la parola lasciava il segno. Scolpiva la roccia, ridisegnava la geografia dell'anima. “Dov’è ora?” Don Diego rispose con la sua tranquilla pacatezza: “Di là, in camera con don Sergio. Ora lo vado a chiamare. Sei pronto?”

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Tommaso si sedette sul bordo del letto. “Cosa credi che penserà di me?” “Non esserne preoccupato, non sei poi così male, in fondo...” E gli fece l'occhiolino mentre usciva dalla stanza. Il cuore batteva forte. Gridava la rabbia della battaglie perse e la paura della sconfitta finale. Entrò nella sua stanza un giovane alto, con un paio di occhi neri bagnati nel petrolio. Il viso tirato. Il labbro superiore mordicchiato nervosamente. Era un bel ragazzo, forse un po' troppo magro ma con qualcosa di fascinoso, in parte dovuto anche alla giovane età. Non parlarono subito, a parte un ciao reciproco e imbarazzato. Si osservarono attentamente per cercare di individuare l'uno nell'altro somiglianze necessarie alla conferma dei dubbi che serpeggiavano nella loro mente. Affinità ce n’erano da vendere, a cominciare da quegli occhi carbone dal taglio leggermente orientale. Tommaso tentò di rompere il ghiaccio: “Dunque a quanto dicono, io sarei tuo padre... Scusa se mi presento un po' così, ma la notizia mi è giunta tra capo e collo, trovandomi impreparato. Vorrei dire qualcosa di epocale o quantomeno di intelligente ma non mi viene in mente” poi fece una pausa. Avvertiva i battiti del cuore rapidi e duri come se il suo muscolo principe volesse uscirgli dal petto per raggiungere il figlio. Così decise di anticiparlo. “Posso… Posso abbracciarti?” e senza attendere la risposta si avvicinò avvolgendolo con le sue braccia. Dapprima Simone rispose timidamente a quella stretta affettuosa poi reagì con più forza, fino a fondersi con il padre dicendo sottovoce: “Era una vita che desideravo farlo”. “Allora sarà il caso di recuperare un po' di tempo perduto”. Don Diego aveva sbirciato la scena, testimone di un evento imprevisto e delicato, il cui regista, ne era certo, non poteva essere altri che il buon Dio. Poi il prete si ricordò di aver lasciato tutte le sue cose lì dov'erano quando era comparso Simone. Gli spartiti Rock stavano probabilmente più al sicuro nella sua camera. Come rientrò in chiesa udì una voce proveniente dall'alto:

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“Allora come è andato l'incontro padre e figlio?” “Chi è?” domandò don Diego dopo essere quasi trasalito. “Non temere, non sono il tuo Dio…” rispose una voce volutamente profonda e sogghignante. Era Stagno da sopra l’impalcatura. Il pittore stava sdraiato sulle assi, con la testa che sporgeva mostrando i suoi denti anneriti. “E tu come fai a sapere del figlio di Tommaso?” “Perché, pur non avendo un cervello ben sintonizzato sulla realtà, ho il difetto di sentirci benissimo” replicò Stagno. Al che don Diego disse: “Ma se non ti ho visto quando sono entrato in chiesa!” “Non mi hai visto perché dormivo quassù. Per colpa tua passo la notte a sporcare di vernice questi poveri muri e ogni tanto mi arriva un abbiocco”. “E questa mattina, con le messe, come hai fatto a dormire?” Stagno sfoderò tutta la sua vena caustica nei confronti delle religioni e dei loro riti che lui considerava solamente stupidaggini goffe e patetiche. “Guarda che le vostre fesserie sono assolutamente soporifere e intontenti, non a caso vengono chiamate l'oppio dei popoli”. “Ma allora è proprio vero che hai perso il lume della ragione! Ed io che non ci volevo credere…” fece di rimando don Diego. “Parla il buono...” replicò Stagno per poi scendere dal ponteggio con la velocità di una scimmia, “...adesso ascoltami bene. Da quando sei diventato prete, la mia stima per la tua intelligenza è scesa ai minimi termini. Sei mio amico, ti voglio bene come a un fratello, ma ciò non toglie che tu sia diventato un minorato mentale. Come le fragole...” La similitudine con quel piccolo frutto, divertì molto don Diego. “Adesso questa me la spieghi”. “È presto detto...” proseguì Stagno, “...le fragole, come tu ben sai, sono piccoli frutti gustosi e succosi, ma sono tali solo se mangiati nel momento giusto. Il contadino, invece, le raccoglie sempre prima della maturazione

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perché possano giungere integre sui mercati. Mi segui?” “Fin qui pare tutto chiaro” consentì don Diego. Stagno continuò: “Ora, che differenza c’è tra una fragola matura ed una acerba? Te lo dico io: la stessa che c’è tra un Elefante e un Ornitorinco… Ti ricordi quando da bambini si andava nel campo di fragole di mio padre finita la raccolta? Ci sdraiavamo per terra a guardare le nuvole e smangiucchiavamo le fragole rimaste nel campo. Riesci a rammentare quanto erano buone?” Diego lo ricordava. Fece per dire qualcosa ma Stagno lo anticipò. “Certo, eravamo bambini, esserini semplici, forse il ricordo è filtrato dal tempo ma, quelle fragole erano davvero le migliori che abbiamo mai mangiato nella nostra vita”. “Sono d’accordo, ma ancora non capisco dove vuoi andare a parare”. Stagno gli rivolse uno di quei suoi sorrisi sardonici che preparavano il terreno alla rivelazione finale. “Anche gli uomini sono come le fragole… Alcuni si accontentano di guardare fino alla punta delle loro scarpe. Sono le fragole immature, raccolte troppo presto per aver acquisito quelle caratteristiche che ne delineano il gusto pieno. Gli altri, pochi, banditi, guardano lontano, fino ad avvertire dentro l’immensità dell’universo”. “Immagino che tu appartieni a quel genere di fragole” suggerì ironicamente il prete. “Se è per questo, anche tu, solo che te ne sei dimenticato”. Poi si avvicinò e gli diede un bacio in fronte e un buffetto sulla guancia. “Di un po' non avete niente di decente da bere in questo luogo ameno a parte quella merda di Sangiovese?”

Il giovedì dopo, Tommaso si recò in città. Doveva comprare alcune cose che gli sarebbero servite durante la degenza: un pigiama, un paio di pantofole e qualche cambio di biancheria.

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Inoltre voleva cercare di vedere una persona che, sperava, conoscesse la risposta ad una sua domanda. Si avviò a piedi lungo le strade del centro fino ad un monumentale edificio ristrutturato a cavallo tra le due guerre, anticamente fatto costruire dai marchesi Muccioli, ora di proprietà della curia dove venivano ospitati i sacerdoti in pensione ancora autosufficienti. Don Arrigo occupava una stanza al secondo piano con una grande finestra che si affacciava sul corso. Trascorreva le giornate dedicando molto tempo alla lettura dei testi sacri in aramaico. Era un appassionato di esegesi biblica. Talvolta, quando le sue vecchie ossa e il tempo atmosferico glielo concedevano, faceva brevi passeggiate con il suo amico di sempre, Luigi Ercolani, da tutti però meglio conosciuto con il nomignolo di Professor Sottana. Tale definizione stava ad indicare le sue peculiarità: l'arte sopraffina del sofismo e la passione dichiarata per il gentil sesso. Quest'ultima caratteristica ormai da anni in disuso. La notte precedente, don Arrigo aveva riposato male. Troppo caldo, troppo vecchio… Verso le dieci del mattino aveva sentito la necessità di tornare a coricarsi per chiudere gli occhi e, magari, fare un sonnellino. Fu svegliato pochi minuti dopo aver preso sonno, da un rumore sordo e ripetuto. Qualcuno bussava alla sua porta. Guardò l’orologio: erano le undici. Di tanto in tanto qualche giovane seminarista si recava nella sua stanza per ricevere lezione ma non ricordava di avere appuntamenti per quell’ora. Pensò allora si trattasse del suo vecchio amico. Don Arrigo si sedette sul bordo del letto e disse: “Sei tu, Luigi? Entra pure”. Ma l’uomo che fece capolino dalla porta socchiusa non era il Professor Sottana. Si trattava di un cinquantenne, magro, con una piega dello sguardo indecifrabile. L'anziano sacerdote nell'immediato non lo riconobbe. “Posso? Mi chiamo Tommaso. Sono il figlio di Lisa e Carlo...” A don Arrigo s’illuminò il volto.

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“Oh, certo, Tommaso… Vieni, vieni. Non ti avevo riconosciuto. Come stai? Sono passati…” “Più di vent'anni...” terminò la frase Tommaso. Il riferimento temporale andava al funerale dei suoi genitori officiato proprio da don Arrigo. Il prete e i genitori di Tommaso erano amici di vecchia data e don Arrigo era un assiduo frequentatore della loro casa. “Da quando sei tornato?” chiese il prete. “Poche settimane”. La pausa successiva gli permise di osservare la figura che aveva innanzi. Il proprietario del mitico lumacone mostrava i segni della senilità avanzata. Il naso aguzzo, il cranio rasato, le labbra sottili non riuscivano però ad oscurare i suoi occhi azzurri ancora accesi che ricambiavano lo sguardo di Tommaso con un sorriso benevolo. La stanza odorava di muffa. Era tenuta piuttosto in ordine ma appariva comunque un dormitorio di fortuna approntato in una biblioteca. C'erano libri dappertutto: sulla scrivania, sull'armadio e perfino appoggiati per terra o impilati lungo le pareti. “La trovo in forma...” disse Tommaso, così, per argomentare qualcosa. “Questo vuol dire che non ci vedi bene...” fece il vecchio sacerdote scrollando la testa, “...e tu, piuttosto, come stai?” Tommaso glissò sul proprio stato di salute. “Non c'è male, grazie”. La pausa che seguì quel breve scambio di convenevoli venne utilizzata da Tommaso per riordinare le idee. Morti tutti i suoi parenti, l’unica persona ancora in vita che poteva aiutarlo era proprio don Arrigo. Il prete lo invitò a sedersi. Tommaso gli spiegò il reale motivo di quella sua improvvisata. Don Arrigo lo ascoltò attentamente. “Sei sicuro di voler rivangare quella vecchia vicenda?” “Sì” lo rassicurò Tommaso incoraggiandolo a parlare. “Se è questo che vuoi…”

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Don Arrigo si avvicinò alla finestra. La città sembrava trattenuta in una sottile attesa silenziosa. Il prete emise un sospiro poi cominciò a raccontare: “Tuo padre era sterile. Uno smacco enorme per lui. Era un brav'uomo ma, avendo il difetto di non considerarsi secondo a nessuno, non essere in grado di procreare fu per lui un brutto colpo. Dopo diversi anni di matrimonio si presentò la possibilità di adottare un bambino. Tua madre fu entusiasta dell'idea lui un po' meno. Non si trattava del suo stesso sangue, capisci?” Tommaso comprendeva bene. Così come da quella prospettiva riusciva meglio a decifrare i comportamenti poco affettuosi del padre. Don Arrigo si passò una mano tremante sulla fronte. “In ogni caso tua madre l’ebbe vinta. Li accompagnai io a Bologna il giorno che ti portarono a casa. Avevi circa due mesi. Ci dissero che eri stato consegnato nelle mani di un frate da una vecchia, una notte di qualche settimana prima. La donna era poi svanita nel nulla. Temo non ti sarà possibile risalire oltre”. Durante la breve pausa lo sguardo azzurro di don Arrigo anticipò la voce: “Mi dispiace…” Tommaso incassò il colpo. Certo sperava di poterne sapere di più ma, se non era possibile, cosa poteva fare? Prese commiato dal prete ringraziandolo della sua sincerità. Per strada non c'era nessuno. Solo... Questo era: un uomo solo, nato solo, vissuto, in fondo, in una forma di solitudine che adesso cominciava a interpretare. Mentre camminava i suoi pensieri cupi gli affastellavano la mente ma, la città che si sgranava rotolandosi nel vecchio ciottolato, evocò in lui un sussulto di orgoglio. “No! Non sono più solo!” si disse tra sè, “Ora c'è Simone. Questo albero malconcio e malinconico sta per essere eradicato, ma ha dato frutto!” Il pensiero del figlio addolcì il fiele che avvertiva sul palato. Non era ancora giunto il momento di mollare, semmai di provare a lottare con tutte le forze che ancora gli restavano in corpo.

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Sei Don Arrigo era rimasto a lungo in piedi vicino alla finestra. Sembrava guardare lontano oltre la casa di fronte, oltre i confini della propria mente antica. Aveva intrapreso un viaggio nei ricordi. Era trascorso così tanto tempo che aveva quasi dimenticato, o forse soltanto sperato di scordare. Ma il passato era tornato a fargli visita. Si destò da quello strano torpore e uscì dalla sua stanza. Al primo piano, in fondo al corridoio, c'era l'ufficio di don Ercole, il tesoriere. Don Arrigo bussò. “Ercole, ti dispiace se uso il telefono?” “Fai pure” replicò quasi distrattamente il ragioniere della diocesi. Don Arrigo compose un numero di casa. Gli rispose Teresa, la sorella del Professor Sottana. Vivevano insieme da sempre come due coniugi, ma lei gli voleva molto più bene di una moglie dopo cinquant'anni di matrimonio. Lo custodiva, gli preparava da mangiare, gli lavava e stirava i panni senza mai lamentarsi, senza chiedergli nulla. Lo accoglieva indulgente anche le volte che tornava a casa ubriaco. “Luigi è fuori. Devo lasciargli detto qualcosa?” “Chiedigli se ha voglia di venirmi a trovare oggi. Quando vuole”. “È una cosa urgente?” “Ma no, è una cosa da vecchi…” Nel pomeriggio, don Arrigo e il Professor Sottana andarono a fare una passeggiata nel parco pubblico dove si erano conosciuti da bambini. All'epoca quel parco era una distesa di campi coltivati a cereali contornati da frutteti. Dalla collinetta erbosa si poteva seguire l’orizzonte fin dove arrivava lo sguardo. I poderi di periferia avevano poi segnato il passo al tempo e si erano arresi consegnandosi alla fame di cemento della città, lasciando solo una piccola striscia di verde a testimonianza dei tempi svaniti. Il vecchio prete aveva il cuore in subbuglio. “Da quanto tempo ci conosciamo io e te, Luigi?”

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“Avevamo le braghe corte...” disse sorridendo il professore con la sua voce roca, “e c'era la guerra, caspita!” Si guardarono negli occhi capendosi al volo. Entrambi si trattennero da esclamare la tipica frase da vecchi: bei tempi, perché con la guerra i tempi sono sempre cupi, ma i ricordi di quegli anni, avevano scavato nella loro memoria un solco profondo da cui estrarre frutti dolci e vaporosi. “Ma oggi che ti dice la testa?” Il prete scrollò le spalle. “Sono preoccupato perché temo di perdere la tua amicizia”. “Perché? Che hai fatto? Non mi sembri nella condizione di avermi soffiato la mia ultima conquista”. Don Arrigo fece un cenno spazientito di diniego con il capo. “Non si tratta di una cosa che ho fatto oggi, semmai di una cosa che non ho fatto tanti anni fa”. Il Professor Sottana lo fissò per un attimo, poi gli chiese: “E che sarà mai? Non è che ti senti poco bene?” Il prete allora si sedette su una panchina imitato dall'amico. Poi fece una domanda: “Ti ricordi Claudia?” “Claudia...” Luigi finse di pensarci su come se non ricordasse bene chi era la proprietaria di quel nome, “...chi, quella che abitava nel campino?” “Non fare lo sciocco, che hai capito bene.” Luigi emise un leggero sospiro allargando le braccia come a scusarsi di quel tentativo infantile di svicolare alla domanda. Quindi rispose. “Certo, è stata la mia ragazza. E allora? Non te la sarai mica scopata?” Don Arrigo gli diede una manata sulla testa. “Cosa dici, vecchio suonato! Claudia era un'amica e poi non è che io abbia fatto tutta quella roba che si dice in giro”.

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Questa volta fu Luigi a ridacchiare. “Tutta, non lo so, ma parecchia, sì...” “Sia come sia, con Claudia no!” fece stizzito il prete. “Va bene, va bene. Allora cosa c'entra?” Don Arrigo replicò con un'altra domanda. “Tu l’amavi?” “Onestamente? No, non l’amavo. Abbiamo fatto l'amore qualche volta, ma io non ero particolarmente preso da lei”. Il prete guardò l’amico replicandogli con una domanda retorica: “Tu sai che per lei era diverso, vero?” “Ma questo lo dici tu. A me risulta che, dopo di me, si è messa con uno di Ravenna e se l’è sposato. Tanto è vero che è morta di parto da li a poco”. Il prete fece uno sguardo rattristato. “Bene, cosa c'è? Cosa ho detto?” “Non è tanto quello che hai detto. Il problema è che non ci arrivi da solo. Così, mi costringi a infrangere un giuramento”. Luigi si alzò dalla panchina spazientito. “Insomma, prete rimbambito, oggi proprio non riesco a starti dietro. Vuoi spiegarti una volta per tutte?” Spazientito si accese una sigaretta. “Non si è sposata con nessuno. È morta di parto sì, io ero lì...” “Tu eri lì? E perché?” “Era sola, me lo ha chiesto… E quando le cose si sono messe male per lei, mi ha fatto giurare che non avrei dovuto dirti nulla…” Seguì un breve silenzio “È andata in questo modo… Ora hai capito?” Il Professor Sottana guardò l’amico prete fisso negli occhi. “Cosa dovrei capire?” Rassegnato, don Arrigo disse in un sussurro le parole che aveva nascosto all'amico per decenni.

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“Il bambino…” “Cosa?” “Era tuo figlio...” Ancora un piccolo silenzio, o forse un non rumore. Luigi spense la sigaretta sedendosi nuovamente sulla panchina, rimuginò qualche istante poi si rivolse nuovamente all'amico. “Devo farti delle domande, ma voglio prima dirti che non perderai la mia amicizia per essere stato fedele a quel giuramento. Io avrei fatto lo stesso. E poi hai ragione tu, è colpa mia, dovevo arrivarci da solo, però, credimi, non sono mai stato neppure sfiorato dal dubbio. Sai cosa mi sono detto all'epoca? Guarda quella Stupida Troia… Piange piange, si dispera, poi si fa scopare dal primo che capita.” Un mezzo sorriso dalla piega amara appeso nel vuoto. “Stupido vero?” Ancora un istante di non rumore. “Dov'è? Il bambino... Sì, cosa… Che fine ha fatto, sì, insomma…” Don Arrigo sospirò. “E’ venuto oggi da me...” “Oggi? E che…” “Ha scoperto di essere stato adottato. È venuto da me perché ero amico dei suoi. Sperava che io sapessi qualcosa al riguardo dei suoi veri genitori”. Fu strano, per Luigi, scoprire che il figlio che non sapeva di avere era stato adottato da una coppia che conosceva molto bene. “Vuoi dire che hanno allevato mio figlio? E Tommaso, il loro ragazzo, in realtà è mio figlio?” “Sì”. “E loro lo sapevano?” “No, il bimbo venne portato in un orfanotrofio di Bologna. Loro non sapevano fosse tuo figlio”.

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Luigi cercò di riordinare i pensieri. “A Tommaso cosa hai detto?” Don Arrigo rispose amaramente. “Gli ho raccontato una bugia…”

Stagno non era schiavo del tempo. Da quando aveva smesso di lavorare come operaio ritirandosi nel suo casolare in collina, il flusso del tempo si era trasformato in un lento passaggio tra le ore del giorno e quelle della notte. Non esistevano più i giorni della settimana o la frenesia delle cose da fare. Da un lato ciò gli consentiva di esprimere tutta la sua follia artistica esattamente nel momento in cui la sentiva fluire dalla sua mente come una scarica di energia che si trasmetteva alle mani, ma dall'altro gli lasciava moltissimo tempo per pensare. Se c’era una cosa di cui non aveva proprio bisogno era il pensare perché quel vagare insistito della mente nei meandri nascosti e segreti finiva inevitabilmente per metterlo a confronto con la nuda precarietà della sua anima infestata da torme di demoni. E quegli angeli del male rappresentavano i suoi fallimenti, come uomo, come padre, come figlio e come amico. Questo accadeva perché Stagno non si amava e soprattutto, non sapeva perdonare a se stesso le proprie mancanze. Provava a convincersi che dopo tutto era solo un uomo. Ci provava disperatamente da sempre ma con pessimi risultati. Che fosse un uomo incasinato, era una considerazione ovvia e banale. Quasi nessuno però, poteva anche immaginare che, fondamentalmente, fosse una persona infelice. Tutti lo vedevano sempre allegro con la battuta pronta e quel suo modo di parlare un po' guascone e molto colorito. Invece era un uomo profondamente triste, sempre con la sensazione di vivere perennemente fuori tempo e fuori luogo.

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Solo con la Band si era sentito al suo posto ma poi gli eventi della vita avevano sciolto il gruppo. Tommaso, ad un certo punto, se ne era venuto fuori con quella stramba idea del servizio civile missionario e aveva cominciato a disertare. Contemporaneamente, una sorta di follia suicida si era impadronita di Ghigo e Zorro. Nel ‘92 accaddero i fatti risolutivi che portarono allo scioglimento degli The Inattentive Colored: la partenza di Tommaso, la morte di Ghigo e le gravidanze di Tiziana e Caterina… Quando, anni dopo, si era lasciato con la moglie per dedicarsi alla pittura aveva vissuto un attimo di follia perfetto. Ma quella felicità non poteva durare. Ogni scelta contemplava una rinuncia e la lontananza dai suoi figli lo deprimeva ogni giorno di più. Il peso di quella vita inutile dove nulla sembrava al suo posto e tutto appariva sfalsato, si faceva ogni istante più opprimente. I giorni che si svegliava con un po' di energia provava a dipingere e se guadagnava forza nel farlo continuava, altrimenti lasciava da parte la tela dicendosi tra sè che l'avrebbe continuata prima o poi. In realtà, in fondo al capanno, giacevano decine di quadri incompiuti. I giorni che invece si alzava dal letto accompagnato da una angoscia latente, finiva per trascorrerli seduto per terra a non far nulla. Spesso pensava al suicidio poi si ancorava al pensiero dei suoi figli. Dino aveva diciassette anni e Vincenzo ventuno. Con il piccolo si sentiva tutti i giorni. Dino era un ragazzo affettuoso e ne sentiva la mancanza in una sorta di dolore fisico. Vincenzo dopo il diploma aveva smesso di studiare e lavorava in un Mc Donald’s. Tra loro non c’era mai stato troppo dialogo e ultimamente ancora meno. Stagno avvertiva forte il senso di colpa nei loro confronti perciò quando l’idea del suicidio si affacciava alla sua mente si diceva: “Questo proprio non posso farglielo” così resisteva. Quel sabato mattina fu un giorno no. Fosse stato un giorno sì, avrebbe provato un'altra volta a resistere, magari

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sarebbe andato nel capanno provando a dipingere oppure si sarebbe spinto fin su in cima alla collina per immergersi nel vento. Ma non era un giorno sì… Cosa fanno quelli che sentono di non aver più un motivo per vivere? Dapprima si guardano intorno nel disperato tentativo di trovare anche solo il minimo impulso a continuare poi, siccome la ricerca ha avuto esito negativo, si comportano di conseguenza. Stagno sapeva cosa fare, lo aveva pensato e ripensato decine di volte. Si arrampicò sull’architrave del capanno e vi assicurò con massima cura la cima di un cappio. Posizionò una scala di legno sotto il cappio, salì sulla scala e fece per metterselo al collo quando trillò il suo cellulare. Lo fece suonare a lungo poi cedette a quella insistenza. Scese e quasi con rabbia sputò un: “Pronto! Chi cazzo è?” Gli rispose una voce allegra: “Certo che se rispondi a questo modo, te ne fai pochi di amici…” Era suo figlio Vincenzo. Non lo sentiva da un paio di settimane. “Babbo, sei abbastanza sano di mente in questo periodo?” La tristezza è contagiosa ma, per fortuna, lo è anche l’ilarità. Stagno uscì dal buco in cui si era appena rintanato. “Fuori di mente sicuro, quanto non saprei. Perché?” “Perché volevo venire a trovarti e magari stare lì da te qualche giorno, ti dispiace? Porterei con me Francesca. È una mia amica”. Stagno richiamò alle labbra un sogghigno. “Te la trombi?” “Perché, è un problema?” rispose quasi risentito il ragazzo. “No, figurati, la mia era solo curiosità. Mi interessava sapere solo quante amiche avevi… A parte gli scherzi, vieni con chi vuoi e per tutto il tempo che ti pare. Io do una ripulita così non devi vergognarti troppo di me”. Vincenzo allora pronunciò la frase che rasserenò completamente Stagno: “Guarda, Babbo, che io, di te, non ci penso neanche di vergognarmi. Non ti

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porterei la mia ragazza altrimenti. Comunque, pensavo di venire tra due o tre settimane. Può andare per te?” “Questa è casa tua. Vieni quando vuoi”. “Allora ok, Babbo, a presto!” “A presto, Ciccio, ciao…” Chiusa la telefonata, cadde in ginocchio e scoppiò in un pianto silenzioso. Gli vollero molti minuti prima di ricomporsi poi si alzò in piedi. Il suo sguardo rivelava un’espressione folle e terribile. Prese una tela enorme e cominciò a danzarci attorno. Si fece notte e poi mattino. Clara non lo aveva trovato in casa. Girò intorno all’edificio per recarsi al capanno. Entrò in silenzio per non disturbarlo. Stagno era seduto nella sua contemplativa. Appesa alle funi una enorme tela dipinta con colori morbidi e tenui, inusuali per lui. “Chi è?” Stagno le rispose con un filo di voce. Era estenuato. “Un angelo…” Un angelo uscito dallo squillo di un telefono.

Un trillo inatteso. Fece sussultare Caterina dalla poltrona dove si era quasi appisolata. “Pronto?” “Ciao Cate, sono Alice, mi hai cercato?” “Sì”. La pausa di silenzio successiva alla risposta di Caterina pose Alice in una condizione di disagio. Sensazione istintiva di disastro imminente. “È successo qualcosa a Simone?” “No, no, non nel senso che pensi”. Alice cominciò a spazientirsi. Avvertiva una forma di angoscia sottile.

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“Allora dimmi. Non farti cavare le parole con le pinze”. Caterina prese un bel respiro poi iniziò a parlare. “Non so come sia successo... Simone ha scoperto di Tommaso...” Dall'altra parte del telefono era cominciata una notte buia e tempestosa. “...si sono incontrati domenica scorsa ma io l'ho scoperto solo ieri quando me l'ha detto Lorenzo. Ti ho subito chiamato ma a casa non c’eri e al cellulare non rispondevi…” Alice, mentre sprofondava, ripercorse gli eventi della notte precedente. “Ascolta Caterina, io adesso prendo il primo treno che trovo e arrivo a Cesena. Puoi venirmi a prendere in stazione?” “Certo fammi sapere l'orario, ma cosa vuoi fare?” “Di preciso non lo so, credo di dovere delle spiegazioni a Tommaso e a Simone... Ci vediamo più tardi”. “Ok”. Alice entrò in bagno per prepararsi. Allo specchio c'era una donna con i segni sul viso di una notte di eccessi. Quando aveva rivisto Tommaso, invecchiato e con quella barba da frate, aveva anche perduto la possibilità di raggiungere il piacere pensando al ragazzo bello e aitante del passato. Ora quando chiudeva gli occhi le si paventava davanti il fraticello malaticcio che aveva incontrato. La notte precedente era uscita con delle persone, gente in, con i soldi. Erano stati in un locale giusto, in un privè. Si era bevuto, si era tirato di polvere bianca. Poi aveva concesso le sue virtù a non ricordava bene chi. Dopo la telefonata con la cugina, aldilà di quello che rifletteva lo specchio, Alice si sentì una merda.

Tommaso stava preparando la valigia per la degenza in ospedale. Non sembrava gli mancasse nulla e per fortuna neppure il coraggio stava venendo meno. Per la verità non gli era stato mai in difetto.

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Aveva deciso di affrontare l'operazione con tutto il fatalismo di cui era capace e sembrava riuscire nell'intento. Era molto caldo, perciò aveva lasciato aperta la porta della sua camera a favorire la corrente d'aria. Fu così che Alice non ebbe un uscio su cui bussare. “Credo di doverti delle spiegazioni”. Tommaso si voltò, la guardò con un sorriso e disse: “Sono pronto”. La telefonata con Caterina aveva messo in crisi Alice. Senza esitare si era diretta in stazione. Era una tarda mattinata di una domenica estiva afosa. La città deserta. Fece il biglietto e il treno giunse dopo pochi minuti, quasi avesse un appuntamento con il destino. Lungo il viaggio ripassò la parte a memoria decine di volte modificando a mente alcune parti del discorso. Voleva spiegare, ma non giustificarsi. Sperava di far capire a Tommaso il motivo di quel silenzio. Il problema vero, però, stava nel fatto che non comprendeva più nemmeno lei quale fosse. Giunta a Cesena ebbe ancora quella sensazione che la spingeva a scappare ma si fece forza e la combatté con decisione. In stazione trovò Caterina ad attenderla che la abbracciò poi tentando di consolarla, la prese sotto braccio nel breve tragitto a piedi fino al parcheggio dell’auto sulla quale salirono per dirigersi a San Zaccaria. Sul sagrato della parrocchia, dei bambini giocavano a pallone con don Diego. Questi, come la vide le andò incontro. Le disse: “Prima che tu lo veda devo dirti…” Non gli fece finire la frase. “So già tutto. Ho parlato con Caterina. Dov'è?” Il prete allargò le braccia con fare rassegnato. “È di sopra in camera sua che sta preparando la valigia. Domani…” “Lo so” disse Alice con voce appena tremante. “Vuoi che ti accompagni?” chiese don Diego vedendo la tensione disegnata sul volto di Alice.

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“No, grazie...” rispose lei, “...conosco la strada e questa volta devo cavarmela da sola”. “Come vuoi...” aggiunse il prete, “...io comunque sono qua”. “Grazie”. Alice salì le scale con lentezza come a scalare una vetta e poi lo vide lì, chino sulla valigia. Quando Tommaso si voltò incrociarono gli sguardi. Alice ebbe un attimo di sconcerto. Tommaso si era tagliato la barba ed ora appariva ai suoi occhi lo stesso uomo che gli era danzato tra le braccia quando faceva sogni erotici. “Posso sedermi?” “Prego”. Disse gentilmente Tommaso indicando l'unica sedia disponibile. Alice si sedette, appoggiò la borsa sulle gambe e mentre apparentemente fissava con lo sguardo la punta delle scarpe cominciò a parlare. “Io non so bene da dove cominciare. Dopo che Caterina mi ha detto… Cioè questa mattina mi ha telefonato… Caterina… Per dirmi che sì, insomma, che Simone…” Tommaso le si avvicinò, ponendole un dito sulle labbra, poi le sorrise. “Non sono arrabbiato, non ho bisogno di spiegazioni. Credo d'aver capito perché ti sei comportata così. Voglio solo dirti che, ma ritengo tu ne sia già consapevole, pensando di fare un torto a me, in realtà lo hai fatto a Simone”. Una piccola pausa, dalla finestra arrivavano le voci dei piccoli guerrieri che rincorrevano la palla. “Ci sono cose che non sai di me, che nessuno conosce, ma io so bene cosa si prova a non sapere chi ti ha generato. È una ferita che non cicatrizza che non lo farà mai. La mia è però una scoperta tardiva, avvenuta in età matura. Ho gli anticorpi per sostenerne il peso ma Simone è vissuto da sempre con quel tarlo. Perciò, ti dico, non è con me che devi spiegarti, ma con lui”. Mentre Tommaso parlava con quel tono comprensivo quasi paterno, Alice lo aveva guardato tutto il tempo negli occhi.

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Ora aveva la prova definitiva del suo sbaglio. Con un filo di voce disse: “Grazie”. Tommaso inclinò il capo di lato e le sorrise. “Tra poco arriverà Simone… Viene a salutarmi. Cosa vuoi fare?” “Se non ti dispiace lo aspetto qui con te”. “Va bene” aggiunse Tommaso tornando a sistemare la valigia. Dalla finestra insieme alle voci dei bambini giunse una corrente improvvisa che fece sbattere la porta contro lo stipite. Tommaso guardò Alice. “È cambiato il vento. Ora viene dal mare… Peccato lo abbia fatto solo ora quando sono arrivato alla fine del viaggio”. Alice si alzò dalla sedia e si avvicinò a quell'uomo che sembrava un soldato in partenza per la battaglia dalla quale era perfettamente consapevole che non avrebbe fatto ritorno. Gli chiese: “Posso?” Poi senza aspettare il permesso lo abbracciò. Fu proprio in quell'istante che Simone apparve sulla porta. “Pare abbia scelto il momento sbagliato per la mia entrata in scena…”

La stanza aveva il soffitto a stelline. Anzi, no, erano sfere di luce che si facevano sempre più piccole. “Che cosa è questo odore? Vernice? No, roba chimica, sì, ma cosa?” Tommaso girò lentamente la testa alla sua sinistra. C'erano due persone che bisbigliavano vestiti come palombari. “Che sciocchezza... Non sono palombari. Sono due esperti della polizia scientifica con tanto di mascherina, cuffietta e camice azzurro. Guanti nelle mani e buffe galosce verdi nei piedi”. Piano, piano cominciò a connettere nel suo delirio. “Sono i medici legali che si apprestano a farmi l’autopsia’. Voleva dire qualcosa, ma non riusciva a emettere suono.

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Finalmente uno di loro si rivolse a lui. Era un omaccione alto e grosso. “Come va? Senti male?” Cominciò a dare un significato al peso che avvertiva sul torace. “Un po'”. Il medico anestesista prese una siringa e iniettò il suo contenuto nella spalla di Tommaso. Dopo qualche minuto il dolore si attenuò. Tommaso si sentiva più lucido. Chiese: “Morfina?” Il medico annuì sorridendo. Tommaso tornò a guardarsi intorno. Sul soffitto una normalissima plafoniera a neon. L’odore nella stanza era quello dei medicinali. Sei letti accoglievano altrettante persone in attesa del risveglio dall'anestesia generale. I due medici entravano e uscivano dalla porta scorrevole per controllare i pazienti e verificarne le necessità. A quel punto la morfina completò il suo effetto e Tommaso si addormentò. Si risvegliò perfettamente lucido mentre un’inserviente piuttosto brusca e cafona lo stava riportando in reparto. Fece per alzare la testa. “Stai giù che non voglio storie, io…” Tommaso ubbidì. Giunto in camera venne lasciato nelle mani di una infermiera gentilissima. Sarà stata più di un quintale di peso. Doveva esserlo per contenere tutta quella carica di dolcezza e umanità che Tommaso le avrebbe riconosciuto nei giorni successivi. Mentre completava il raggiungimento alla propria lucidità mentale, vide dei visi sorridenti che entravano nel suo campo visivo. Riconobbe Zorro, Lonny, e Simone. Ricambiò il sorriso e poi si riaddormentò nuovamente. A quindici giorni dall'intervento, Tommaso incominciava a respirare senza avvertire troppo dolore. Passeggiava per il corridoio del reparto con un incedere lento, ma che acquisiva giorno dopo giorno maggiore sicurezza. Quelli appena trascorsi erano stati giorni particolari. Tutte le emozioni della vita provate intensamente in un piccolo frammento di esistenza.

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Dalla paura all’illusione di farcela, fino alla consapevolezza di essere giunto alla fine del proprio percorso terreno. Quell'omino gentile e premuroso gli aveva parlato trattandolo come un figlio al quale si deve raccontare una parte della vita che si teme non sia pronto a comprendere. “L'intervento, da un punto di vista prettamente chirurgico, ha avuto esito positivo. Purtroppo il tumore si è già parcellizzato metastatizzando ampiamente le zone limitrofe e, pertanto, siamo stati obbligati ad operare una chirurgia molto più demolitiva rispetto alle intenzioni iniziali”. La voce del primario si fece, se possibile, ancora più dolce ma il problema era rappresentato dallo sguardo. Tommaso conosceva bene quella espressione degli occhi, quella di un medico che cerca la via d'uscita. Lo sguardo di un animale in fuga. Non ebbe bisogno di ascoltare con precisione il contenuto delle parole che seguirono. “Ritengo che in questa condizione la terapia chemioterapica abbia poche possibilità di successo anche se non abbiamo altre alternative”. Tommaso sorrise al collega quasi per consolarlo. “Dice che riuscirò a mangiare il panettone?” Poteva sembrare una domanda all'apparenza sciocca e, in parte, Tommaso l'aveva fatta appositamente per stemperare la tensione del momento. Il dottore Belcuore rispose al suo sorriso, questa volta guardandolo nuovamente negli occhi. “La verità è che non lo so. Diciamo che ce la dovremmo fare…” Quel dovremmo andava a sottolineare la partecipazione con la quale il piccolo, grande chirurgo prendeva parte al destino dei suoi assistiti. Tommaso si alzò, offri una mano al collega e ritornò nella sua camera dove si sorprese di trovarvi Stagno. Stava appoggiato alla finestra con indosso una delle sue tante magliette improbabili. Questa era verde con delle righe marroni e una scritta rossa sul petto che diceva: I Am The Walrus.

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“E te, cosa ci fai qui? A proposito, carina la maglietta...” “Sono passato a vedere come te la passavi. Vedo che hai tutti i comfort. La maglietta è un premio. Ho vinto la gara di chi ce l'aveva più grosso…” La solita pungente ironia. “Ma come hai fatto ad arrivar fino a qua?” “Ah, già, tu sei rimasto alle carrozze con i cavalli… Guarda che esistono da tempo le corriere. Una passa dalla chiesa e arriva qua”. Stagno stava ultimando l'affresco a San Zaccaria. “Non hai ancora finito con la navata?” “Quasi. Devo sbrigarmi perché la prossima settimana viene a stare da me per un po' mio figlio con la sua ragazza”. Disse quelle parole quasi vergognandosi della felicità che ne traspariva. “Bene, è una bella cosa” interloquì Tommaso. “Già, lui è il mio salvavita...” non spiegò perché diceva quella frase e Tommaso non chiese delucidazioni, “...piuttosto, tu come stai?” Tommaso allargò le braccia. “Come vuoi che stia? Ogni giorno è un regalo”. Stagno trovò irritante quella frase. “Un regalo! E da parte di chi e per cosa? Scusami fratello ma non condivido...” seguì una lunga e sofferta spiegazione sulla vita, “...tra cento anni io, tu, i nostri pensieri, i nostri affanni, saranno cancellati completamente come se non fossero mai stai. Da far pensare che non siamo neppure realmente esistiti. Allora che cazzo di dono è questo? Che noi si viva un giorno od ottant’anni, per il fato cosmico è la stessa identica cosa. Nella linea del tempo dell'universo non possiamo neppure essere rappresentati da un microscopico punto. Perfino il pianeta terra altro non è che un pulviscolo solingo nell'immensità. In effetti la terra è sola come ogni uomo quaggiù. Ecco il dono: la solitudine, altro che cazzi!” A Tommaso i ragionamenti di Stagno piacevano anche se non ne seguiva sempre il filo. Era affascinato da quel suo modo di parlare, soprattutto

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quando concludeva le frasi con qualche rafforzativo volgare. “A seguire il tuo ragionamento, tanto varrebbe farla finita subito”. “E infatti ci sono giorni che questo pensiero diventa molto pressante. Tutto quello che faccio mi sembra inutile… Poi la mia follia mi spinge a fare quello che la mia mente non concepisce neppure. Così dipingo. Tele che tra qualche decennio saranno polvere. Che senso ha? Te lo dico io: non ha senso. Vieni, ti offro un caffè”. I due amici scesero al bar. Dopo un'oretta di chiacchiere e sofismi vari, Stagno salutò Tommaso e si incamminò verso la fermata dell'autobus. Lungo il cammino borbottava tra sè: “Un dono… Che cazzo di ragionamento di merda!” Da ragazzino, quando la sua follia si era già rivelata, aveva iniziato la sua carriera di Socrate dei poveri, rompendo le palle a tutti quelli che gli venivano a tiro nel tentativo di convincerli della fondatezza dei suoi ragionamenti. Crescendo aveva compreso che, dato che gli uomini sono tutti diversi l'uno dall'altro, non era possibile portare nessuno lungo percorsi che non condivideva. Ciò nonostante non aveva smesso di dire la sua su ogni cosa. Sorrise a quel pensiero. “Già, sono proprio un fottuto rompicoglioni…”

La luna a metà era leggermente inclinata di spalle. Emergeva a fatica da un gruppo di nuvole scure. La notte era buia. Il chiarore della città in lontananza era ben contrastato dalla collina erbosa che separava il rudere di Stagno dalla visione della riviera. Stagno era seduto su un tronco e ascoltava l'universo. D'improvviso si alzò il vento. A folate gli scivolava sul volto regalandogli docili carezze tiepide. Stagno adorava il vento, la grande madre lo sosteneva con il suo calore e lui dispensava la vita sulla terra. Con il vento parlava fin da quando era un ragazzino. A lui affidava le proprie emozioni, confidava i segreti della sua

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anima inquieta, regalava i propri sogni. Il vento prese corpo. Cominciò a danzare tra le foglie degli alberi e a cantare tra i rami. Stagno allora si mise in piedi e allargò le braccia. Un giovane a torso nudo, gli occhi scuri come la notte e un sorriso strappato a una pubblicità per dentifrici si mise al suo fianco imitandolo. “Cos'è, una specie di yoga?” chiese con fare canzonatorio. “Una specie. In realtà è un abbraccio. Lo affido al vento che lo porti nel cuore di chi amo. Nel tuo caso dovrà fare poca strada”. Avere un padre così e sentirsi amati non era difficile. Complicato forse, incomprensibile spesso, ma non difficile. “La tua fighetta dorme?” “Si” rispose Vincenzo sorridendo. “Sarà bene che la asciughi bene quando si bagna, altrimenti arrugginisce” ironicamente Stagno aveva fatto riferimento a tutti i piercing che la ragazza mostrava sul volto. Vincenzo sorrise al padre. Sapeva che non voleva essere malevolo. Diceva sempre quello che pensava ma non era capace di malignità. “Non ti piacciono i chiodi?” gli domandò sorridendo. “Decisamente no, ma non la devo mica scopare io, giusto? Per una volta, però, voglio esser serio, so che stenti già a crederlo, ma è così. Vedi Vincent, l'apparenza delle cose inganna, soprattutto se si ha che fare con gli esseri umani. Ciò che appare non è vero quasi mai. Ne ho visti di trasformismi io...” Il vento li abbracciò con una folata improvvisa. Stagno ne approfittò per concludere il suo discorso. “Anche il vento cambia direzione ma lui non ferisce sentimenti. Può tagliarti la pelle, abbattere le tue case, ma in nessun modo mai si accanirà contro la tua energia vitale. Gli uomini invece sono diversi”. Stagno fece volutamente una pausa. “Loro parlano, promettendo quel per sempre che distrae l'anima”. Ancora una pausa

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“Ma per sempre non esiste”. Ultima pausa. “Non intendo dire che è falso, mentre lo si dice spesso è sincero, poi le cose cambiano. Per questo ti dico: cosa vuoi che possono contare quattro spille da balia conficcate nella pelle” Una folata di vento caldo li attraversò entrambi. “Hai capito cosa voglio dire?” “Certo che tu, Babbo, sei proprio un tipo speciale, matto che la metà basta, ma assolutamente unico”. E concluse la frase dandogli una schiaffetto sul collo. Stagno rise di cuore dentro di sè, ma replicò: “Matto, sono matto, ok. Mi interessa però sapere se hai capito”. “Ho capito, ho capito” disse Vincenzo. La mattina dopo, svegliatosi di buon’ora, Stagno era andato subito nel capanno mettendosi a lavorare su un blocco di creta che lo attendeva appoggiato sul tornio. Ogni tanto aveva bisogno di forgiare qualcosa con le mani, tenerle immerse nella terra. Lo ridimensionava nei pensieri consentendogli di avvicinarsi all'essenza primigenia del suo essere mortale. Anni prima aveva trovato quella vecchia ruota da vasaio in fondo al magazzino di un rigattiere e se ne era subito innamorato. Era ancora di quelli a volano, con il seggiolino incorporato, niente a che vedere con quelli a pedale o, addirittura, con i più moderni elettrici, il movimento affidato al disco inferiore fatto ruotare con i piedi. L’aveva tutto ripulito dalla ruggine, verniciato e ben oliato. Ora funzionava perfettamente. Dopo quattro ore di lavoro si accorse della presenza di suo figlio. “Da quanto tempo sei lì?” Vincenzo era seduto per terra, gambe incrociate, che gli sorrideva. “Non so, un'oretta...” “Un'oretta?” esclamò Stagno, “E perché non ti sei fatto vedere?”

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“Perché è divertente guardarti lavorare. Ti rendi conto che parli da solo?” Stagno mostrò il suo ghigno satanico. “Oh, sbadato… Mi sono dimenticato di dirti una cosa importante. Anzi no, non importante, fondamentale…” “Quale?” chiese incuriosito il ragazzo. “Che sono matto, matto, matto, matto...” Continuò a ripeterlo mentre saltellava contorcendosi come un buffone. Vincenzo applaudì vigorosamente alla sceneggiata del padre. Poi Stagno si acquietò. “Per la verità, non è che parlo da solo. Parlo con le mie creature, come una madre con i propri figli. Vabbè, è difficile da spiegare”. “No, no. Lo capisco benissimo” disse Vincenzo. Poi aggiunse: “Un giorno vorrei che tu mi spiegassi bene come è andata tra te e la mamma”. Stagno fece per replicare qualcosa ma una voce li interruppe. Era la ragazza di Vincenzo che lo chiamava. “Che stupido che sono!” disse battendosi la fronte con una mano, “Avevamo deciso di andare al mare...” “E come?” chiese Stagno. “In qualche modo” rispose Vincenzo. “Ciao Babbo, ci vediamo questa sera” e se ne uscì ridendo. “Fai attenzione che non vada a fondo, con tutti quei chiodi…” gli gridò dietro Stagno, ma oramai il ragazzo era andato. Sul viso del folle pittore apparve un sorriso paterno. Quel ragazzo sembrava assomigliargli davvero tanto. Poi avvertì dentro di sè l'antico richiamo e si rimise all'opera. Per un attimo borbottò qualcosa. “Tra te e la mamma… Come vuoi che sia andata…” Poi si rituffò nella creta.

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Era andata che nel ‘92 Tiziana rimase incinta. Forse per emulazione di Caterina o forse solamente per sfiga. Stagno aveva appena terminato l'accademia. Ci aveva messo qualche anno di troppo perché si era sempre dovuto mantenere agli studi lavorando. Il padre di Stagno era un contadino. Una brava persona ma piuttosto introversa. Nella vita aveva imparato bene solo il significato di due parole: lavoro e fatica. Si aspettava che i suoi due figli lo avessero seguito nei campi, come lui aveva fatto con suo padre e suo padre con suo nonno. Invece Saverio era un principino che non sopportava neppure di sporcarsi le mani, figuriamoci prendere in mano un arnese da lavoro, mentre Stefano era fatto tutto a modo suo. Il principino, cagionevole di salute, aveva appena compiuto undici anni, quando passò dalla città quell’inverno gelido è terribile che se lo portò via. Per assurdo che possa sembrare, il padre di Stagno mostrò molto più dolore qualche anno dopo, quando il suo secondogenito gli confidò che avrebbe voluto fare l'artista. Per quel figlio della terra era una cosa inconcepibile. Tanto valeva chiedesse di andare a vivere sulla luna. Una sera, al termine di una vivace discussione, gli aveva detto: “Se nella vita vuoi fare l'imbecille dovrai mantenerti da solo”. Stagno lo aveva preso in parola e non gli aveva più chiesto il becco di un quattrino. Quando Tiziana era rimasta incinta, Stagno non aveva ancora iniziato una carriera artistica e, non avendo una lira da sbattere contro l'altra, dovette suo malgrado optare per un lavoro che gli consentisse di mantenere il figlio in arrivo. Si sposarono e andarono a vivere insieme: il poeta stralunato e la figlia del salumiere di Porta Santi, cresciuta a furbizia e prosciutto con il senso del denaro che gli scorreva prepotentemente nelle vene. E il denaro, quello che non c’era, fu il principale elemento di divisione tra i due. Lei, sempre a chiedere qualcosa e lui, a tentare di accontentarla.

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Suo padre, dal basso della sua educazione contadina, gli aveva consegnato una perla di saggezza che lui non aveva voluto o saputo comprendere: “Un pozzo non si riempie mai versandovi un bicchiere alla volta!” Ma non era stato solo un problema di soldi. In effetti c'erano altri dissapori. Stagno, in fondo, nella sua complessità mentale, era un uomo dalle poche necessità. Aveva però bisogno di essere ascoltato e qualche volta perfino capito, cosa non facile trattandosi di lui. Tiziana non ci aveva mai neppure provato. Non gli interessava. Lo aveva voluto a tutti i costi e c’era riuscita utilizzando la sua dote principale: l'assoluta mancanza di sincerità. Una bugia dietro l'altra, una continua sequela di false lusinghe, l'avevano indotto a credere che Tiziana fosse l'unica donna in grado di capirlo. Invece era una donna superficiale, dominata dall'apparenza e non dall'essenza delle cose. A letto ci sapeva fare e, in fondo, da giovani è quello che si chiede a una donna ma, invecchiando, dissipata la passione, si era ritrovato tra le mani un guscio vuoto. Perché aveva voluto proprio lui? Difficile dirlo. Forse perché era bello e simpatico. Forse perché molte sue amiche lo stavano corteggiando e lei non voleva perdere l’occasione di mostrare a tutte loro chi fosse la migliore. Forse perché, come aveva chiaramente dimostrato poi, non aveva compreso minimamente con chi avesse a che fare. Lei non lo aveva capito, ma, dal suo punto di vista, la colpa era di Stagno… Che delusione quell'uomo che non sapeva farsi strada sul lavoro e nella vita. Dopo pochissimo tempo il loro matrimonio era sceso in una crisi profonda. Lei, da par suo, aveva posto rimedio alla situazione facendosi scopare dal suo principale. E Stagno? Iniziò a scivolare inesorabilmente dentro il suo mondo infestato dai mostri forgiati dalla sua mente sempre in bilico tra la vita e la follia.

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A San Vittore il cimitero non brulicava di visitatori. In quel piccolo camposanto ci dormivano Saverio e Ghigo. Tommaso lo raggiunse con la corriera che proveniva da San Zaccaria. Non sopportava di scroccare sempre passaggi per qua o per là a don Diego. Stagno, invece, arrivò tracimando, scendendo cioè con ampia falcata dalla collina, con quel suo modo di incedere un po' ciondolante quasi scimmiesco. “Cosa ci fai qui?” chiese Tommaso. “Più o meno quello che ci fai tu. Io ci vengo qualche volta quando mi va”. “Allora è una bella coincidenza incontrarsi proprio qui”. Stagno fece ondeggiare il suo cranio d'artista. “Sì e no...” rispose, “...per la verità, ieri sera Diego mi ha detto che saresti venuto e ho colto l'occasione. Volevo dirti una cosa”. Tommaso inclinò il capo verso di lui sorridendogli. “Sai che tu non sei mai prevedibile, vero? Forse è per questo che mi piaci così tanto. Cosa devi dirmi di tanto importante. Qualcosa sul significato recondito dell'universo?” “Più o meno...” gli rispose seriamente l'amico, “...vieni qua dietro”. Uscirono dal cimitero. Verso la collina c'era un'ampia distesa di girasoli. “Li vedi?” “Cosa, i girasoli?” “Sì...” disse serio Stagno, “...volevo presentarteli”. I due amici si inoltrarono nel campo di girasoli. C'erano già stati tanti anni prima. Quella volta con Lorenzo e Ghigo. Si erano seduti proprio al centro del campo e di nascosto avevano fumato la loro prima sigaretta trafugata dal pacchetto di Moratti del babbo di Stagno. Si erano sentiti adulti mentre il più vecchio di loro aveva solo dodici anni. Tommaso ricordava bene le risate e il profumo dei girasoli, l'odore della terra umida e la felicità semplice di quegli attimi. Stagno interruppe il rimuginare dell'amico.

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“Tu sai chi sono io? Chi sei tu?” Tommaso attese in silenzio la risposta a quelle domande, guardando con finta serietà l'amico. “È semplice, siamo dei girasoli. Tutti gli uomini lo sono... Uno potrebbe pensare allora che siamo tutti uguali ma non è così. Osservali.” E fece un gesto del braccio ad indicarli. “Sono tutti rivolti verso est come tanti soldatini in fila innanzi al loro comandante. Lo attendono al mattino senza porsi domande, senza considerare il fatto che una volta maturi i loro semi, verranno falciati e raccolti. Per fortuna c’è sempre qualcuno che dice no, che si rifiuta di copiare gli altri. Vedi quello...” Indicò un girasole con il calice reclinato. “...lui ha un'anima. Vuole decidere da solo cosa è giusto e cosa no, quando guardare verso il sole e quando chiudersi verso terra”. Pausa, silenzio, occhi socchiusi. Sorriso accennato. “Noi siamo più simili a lui che agli altri. Per me non parlo, non ve n’è bisogno. Ma tu, tu che sei un medico, che potevi far carriera, diventare ricco, possedere tutte le cose che desideravi. Cosa hai fatto invece? L'esatto contrario di quello che il mondo normalmente si aspetta da uno come te”. Nuova pausa, nuovo silenzio, ultimo sorriso. “Io e te siamo voluti stare contro corrente, per nostra scelta, pagandone il prezzo. Siamo due girasoli come tutti gli altri, certo. Non siamo né migliori, né peggiori degli altri, ovvio. Ma siamo diversi da loro, noi due siamo dei girasoli anarchici. Ecco perché ti ho voluto portare qui e perché ti ho sempre voluto bene. Scusa la mia malattia mentale, ma era in questo campo verde oro che dovevo dirtelo e non in una stanza d'ospedale”. Fu proprio in quell’occasione, accerchiato dal profumo dei girasoli, che Tommaso cominciò finalmente a comprendere l’essenza vitale dell'uomo che si nascondeva dietro la follia.

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Civetta chiuse la saracinesca dell'officina. Guardò con fare infastidito la leggera pioggerellina che cadeva e, alzandosi il bavero della giacca, si avviò a piedi verso casa. Neanche un chilometro da fare a piccoli passi, tanto non lo attendeva nessuno. Era un uomo solo, senza però possedere un’indole malinconica e così accettava la vita come veniva, non rovistandosi troppo l'anima pensando a quello che era o che non era stato. Aveva dovuto imparare presto… Quando aveva appena un anno, sua madre era morta di tumore. Tutto ciò che conservava di lei, era qualche foto ingiallita, neanche la punta di un ricordo reale. Non aveva mai potuto immaginarne le espressioni del volto, o il sorriso, o il suono della voce. Poco dopo la morte della mamma, suo babbo si era sposato con Agnese, una brava donna ma incapace di instaurare un rapporto affettivo profondo. Lei lo aveva vestito, lavato, educato ma, in fondo, mai veramente amato. Martino, suo fratello, era nato quando Marco aveva quattro anni. Le attenzioni di Agnese si erano spostate comprensibilmente sul nuovo nato, che per lei era anche il suo unico vero figlio. Non volendo fare la matrigna, tentando di dispensare comunque affetto nei confronti di Marco, Agnese riuscì ugualmente nel farlo sentire il figliastro, quello che, nella gara dell'amore, risultava perennemente al secondo posto. A tutto ciò andava aggiunto che Marco era fortemente miope e, quando si agitava, balbettava in maniera impressionante. Lineamenti spigolosi e andatura sgraziata facevano di lui una specie di sgorbio. Il paragone con l’aspetto adonesco del fratello era mortificante. Quando erano bambini, Marco e Martino frequentavano il gruppetto degli amici che si erano trovati sotto casa. Per fortuna, in quel piccolo clan le parti tra Marco e Martino si invertivano perché Martino, dal carattere appuntito, finiva facilmente per litigare con questo o quell'altro tanto da ricevere ben presto il nomignolo di Titin e’ Sumar. Soprannome col quale per tutta la vita venne citato dagli amici.

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Il babbo di Marco e Martino era un uomo semplice, mite di temperamento. Lavorava tutto il giorno in officina e la sera passava qualche ora al bar giocando a carte, poi tornava a casa e senza quasi mai parlare, mugugnando e facendo qualche gesto con la mano, se ne andava a dormire. Così per tutti i sessant'anni della sua vita. Marco, finite le scuole medie andò a lavorare con il padre e alla sua morte prese le redini dell'officina e così, un giorno dopo l'altro, si sostituì all'uomo che lo aveva generato. Lavoro, bar, letto. Era rimasto legato agli amici di infanzia ma non li frequentava da tempo. I suoi migliori amici erano stati Saverio il Gatto e Pietro Muriega. Con loro aveva frequentato le scuole elementari e medie. Purtroppo, durante l'inverno del settantaquattro, Saverio si ammalò. Per qualche giorno ci fu uno strano silenzio in casa, a scuola e nel suo cuore. Quando infine comprese che Saverio non sarebbe più tornato, percepì un senso di abbandono. Prima la sua mamma e poi il migliore amico. Ci mise anni per superare quel dolore. Nonostante fossero trascorsi tanti anni, ogni settimana andava ancora al cimitero per fargli un saluto. Saverio divenne per Marco il compagno di giochi invisibile, quello con cui parlare, confidarsi e fantasticare. Pietro era un tipo estroverso, un ragazzo simpatico e allegro. Fecero coppia durante l'adolescenza e si divertirono, anche se non c'era tra loro una profonda intimità, però erano amici e quando Pietro, a ventanni si invaghì di una vichinga e decise di trasferirsi a Monaco di Baviera, festeggiarono quell’addio con una sbornia sonora. Poi più niente… Si ritrovò solo con il suo lavoro e la sua vita silenziosa. Giunto in casa fece una doccia e poi si mise davanti alla televisione. Facendo un giro per i canali con il telecomando venne colpito da un film tratto da un romanzo di Stephen King, che raccontava l'avventura di un gruppo di ragazzini. Terminato il film, prese nel cucinotto la scala e la portò nel corridoio aprendola in prossimità dell'armadio a muro.

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Nella mensola in alto c'era una scatola piena di fotografie che appoggiò sul tavolo della cucina. Cercò con pazienza fino a che non riuscì a trovare le foto che cercava: una decina di scatti, fatti dal suo vecchio una domenica pomeriggio durante l’austerity: Il Gatto, Stagno, il Rosso, Lonny, Zorro, Ghigo, Muriega e naturalmente lui e Martino. Civetta non era uomo da abbandonarsi alla malinconia, ma quella sera si coricò con il cuore gonfio di tristezza.

Ci sono rumori di sottofondo che, a seconda del livello di coscienza e dello stato d'animo, passano sottotraccia o martellano nella mente. Il ticchettio dell'orologio, la goccia di un lavandino che perde, il ronzio di una mosca che sbatte contro un vetro un martello che raddrizza degli infissi… “Che cazzo è questo coso?” disse Stagno a voce alta, dopo diversi minuti che ascoltava inconsciamente quel tarlo che rumoreggiava fuori dal capanno. Mise il pennello che stava utilizzando in un vasetto pieno d'acqua perché non si seccasse e uscì fuori a vedere. Vincenzo stava cercando di dare una rimediata agli infissi. “Che diavolo ti sei messo in testa?” “Cerco di raddrizzare questi aggeggi.” Rispose pacatamente il ragazzo. Stagno fece per voltarsi ma il sospetto si intrufolò nel suo cranio. “È per caso una forma di comunicazione indiretta per manifestarmi la tua intenzione di prolungare la tua permanenza in questo buco?” “Ti dispiace?” Stagno si avvicinò, rifilandogli una finta sberla per poi abbracciarlo. “Ma la tipa tutta chiodata, che fine ha fatto?” s’informò Stagno. Vincenzo alzò le spalle. “È tornata a casa…”

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Stagno fissò qualche istante il suo ragazzo poi disse: “Sai una cosa? Dato che non hai un mezzo per spostarti da questo luogo sperduto se non in maniera vigliacca, ho deciso di comprarti un motore”. Gli occhi di Vincenzo si illuminarono. “Datti una ripulita che lo andiamo a comprare”. Nell’ultimo periodo Stagno non se la passava male economicamente. Era infatti riuscito a crearsi una piccola nicchia di estimatori e, vendendo praticamente tutto quello che completava, aveva accumulato un piccolo tesoretto che lui scalfiva solo marginalmente, dato il suo stile di vita. Da qualche tempo aveva fatto un pensierino all’acquisto di un motore per favorire i suoi spostamenti. Il fatto che Vincenzo avesse deciso di allungare la sua permanenza lì da lui, aveva fato scattare la decisione. Dato che Civetta arrotondava le proprie entrate con la compravendita di moto usate e visto che nella sua officina era di casa, la cosa fu presto fatta.

Civetta si svegliò malamente. Provava in animo la stessa avversa sensazione della sera precedente, inoltre avvertiva un senso di pesantezza alla bocca dello stomaco. Nonostante non fosse tipo da farsi impressionare, un poco si squietò. Immaginò di aver dormito in una posizione sbagliata. Forse quei pensieri malinconici... Promettendosi di non aprire più il baule dei ricordi prima di coricarsi, uscì di casa per recarsi al lavoro, fiacco e svogliato. Verso le dieci ricevette una telefonata. “Marchino? Sono Stagno. Vendi ancora vecchie carcasse a benzina?” Sentire la voce gracchiante del folle sulla collina e sentirsi automaticamente di buon umore fu tutt’uno. “Sì, qualcosa.” “Bene, allora passo con il mio ragazzo. A proposito, quel piccolo pezzo di cacca di tuo fratello come sta? È ancora vivo?”

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Marco sorrise tra sè e poi replicò: “Lui sta anche troppo bene… Ti aspetto”. Martino stava davvero anche troppo bene. Era il solito rompicoglioni a cui non andava mai bene niente e che aveva da ridire su tutto, però era sposato, aveva due figli e un buon lavoro. Aggiungendo che la moglie era una specie di Maddalena pentita, si poteva completare il quadro della situazione. I due fratelli si frequentavano poco, troppo diversi uno dall'altro. Marco, introverso e complessato, si era adattato alla vita, l’altro, egoista e iperattivo, mangiava la vita a grandi morsi, divorando famelicamente ogni secondo che aveva a disposizione. Giunti presso l’officina di Marco Civetta, Stagno e Vincenzo si guardarono un po’ intorno. Vincenzo aveva la patente per il centoventicinque ma non voleva uno scooter. La sua attenzione venne focalizzata da una Cagiva Raptor del duemilaesette rosso e nero in buonissime condizioni. Stagno chiese a Vincenzo: “Non sarai mica milanista?” “No. Cosa c’entra?” Stagno fece la parte del tifoso acceso. In realtà era assolutamente tiepido. “Sai cosa diceva il celebre avvocato Prisco?” chiese rivolto a Vincenzo. “No, ma immagino che adesso lo scoprirò…” “Trattieni la tua ironia, progenie degenere… Diceva: Se do la mano a un milanista, subito dopo me la lavo...” Intervenne nel discorso il buon Civetta, juventino sfegatato. “Strano che non abbia detto qualcosa anche su di noi…” Stagno non aspettava altro. Sapeva che Marco parteggiava per la vecchia signora. Vincenzo riconobbe nel padre lo sguardo di chi sta per dirne una di quelle buone e attese in silenzio.

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“Non ti preoccupare, ce n’è anche per voi… Infatti, il buon Peppino Prisco continuava così: …se la do a uno juventino, mi conto le dita. “Ma va a cagare, va là, te e il tuo avvocato del cazzo!” Stagno e Vincenzo si cacciarono a ridere. Dopo un pò iniziò la trattativa che durò molto poco. Stagno comprò il Cagiva per Vincenzo e un BMW usato per sé. Era un Enduro HP2 del duemilaesei, mille di cilindrata, colore blu e in buono stato. Civetta non volle un euro di più di quanto li aveva pagati così, con quattromila euro Stagno se li portò a casa entrambi. Si accordarono per il ritiro poi, padre e figlio entrarono in un bar per festeggiare l’acquisto con una bella birra ghiacciata. Seduti al tavolo, Vincenzo colse l’occasione per parlare di alcune cose con suo padre. C’erano cambiamenti nell’aria. “Sai, volevo dirti che, se tu sei d'accordo, m’iscriverei all'accademia...” Stagno fece sì con lo sguardo. Aveva sempre saputo che sarebbe andata così. Se lo aspettava e ne fu intimamente orgoglioso. Sarebbe stato orgoglioso comunque, anche se avesse voluto fare il pompiere, l’idraulico o il farmacista, ma il fatto che volesse seguirne i passi, implicitamente lo perdonava della sua follia. “E poi...” aggiunse Vincenzo arrossendo, “...temo di essermi innamorato...” Stagno sorrise. “Bene! Della fighetta con le spille da balia?” Vincenzo scosse la testa. “No, è per questo che te lo dico, non vorrei che ti desse fastidio”. “Perché dovrebbe?” chiese Stagno. “Perché è la figlia di un tuo amico” replicò Vincenzo. Stagno lo guardò negli occhi qualche istante poi chiese bruciante: “Non è che ti trombi Petra?”

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“Sei il solito!” disse il giovane ridendo, “Ancora non stiamo neppure insieme, c'è solo una simpatia. Credi che potrebbe diventare un problema?” Stagno inclinò il capo dal lato sinistro come faceva sempre quando stava per dirne una delle sue e disse: “Un problema? E perché mai? Ho sempre pensato che Petra sarebbe diventata una figa niente male”. “Ma Lorenzo che dirà? Sarà geloso…” “Perché? Prima di metterti con Petra stavi con lui?” disse Stagno ridendo. Poi aggiunse: “Non ti preoccupare di Lonny, è l'uomo più buono che abbia mai calpestato questa terra di anime e sassi…”

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Sette Petra stava ripassando anatomia comparata. Dai ciuffi d'erba rinsecchiti dalla stagione estiva del giardino sotto casa si sentiva provenire uno strano tramestio. La ragazza avvertiva quel rumore come un sottile e leggermente fastidioso disturbo in sottofondo. La sua attenzione venne però risvegliata dai movimenti di Temistocle, un felide persiano di sei anni, maestro nell'arte venatoria. Il gatto con un balzo aveva raggiunto il davanzale della finestra. Il suo musetto color panna puntava in direzione del cespuglio e la coda tracciava nell’aria leggeri movimenti ondulatori. “Cosa vedi gattaccio?” Petra parlava con tutti gli animali, consapevole che le parole non venivano comprese, ma altresì assolutamente persuasa che in qualche modo le capissero. Guardò dalla finestra in direzione del giardino e gli parve di vedere qualcosa nell'erba. “Tu non fare il furbo e resta dove sei” disse al gatto per poi entrare in camera del fratello, “Riky, vieni a vedere!” Il fratello con il suo fare indolente si alzò per seguirla. “Cosa c'è stavolta? Un marziano sul terrazzo? Nevicano fiocchi di anacardi? Il gatto ha cagato pistacchi rosa?” Petra non rispose alle domande canzonatorie ma prese il retino che stava nel ripostiglio delle scope e discese le scale. Avvicinandosi al ciuffo d'erba cominciò a distinguere oltre ad un intenso fruscio, anche un lieve pigolare. Un uccellino con l'ala spezzata, inzuppato di pioggia, la stava aspettando. Lo bloccò con il retino poi lo prese tra le mani con la massima delicatezza. “Riky, vai a prendere una scatola da scarpe e fagli qualche buco con le forbici per far passare l’aria. Dai, che lo voglio portare da Bernabei”. Riccardo si voltò e, senza perdere la consueta flemma, salì le scale per eseguire il compito assegnatogli.

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Assicurato il passerotto nella scatola, Petra salì sulla macchina di Caterina e raggiunse l'ambulatorio del veterinario. In sala d’attesa telefonò alla madre per avvertirla che aveva preso l’auto, poi compose il numero del cellulare di Vincenzo.“Vincy, ciao! Senti questa…” E raccontò al ragazzo con grande entusiasmo quella sua nuova avventura. Tra Vincenzo e Petra stava sbocciando qualcosa. Compagni di classe alle elementari, amici da sempre in virtù della frequentazione delle loro rispettive famiglie, non si erano poi visti per qualche anno quando Vincenzo si era trasferito con la madre nelle Marche. Due settimane prima si erano incontrati nuovamente quasi per caso. Vincenzo, in visita al padre, si era trovato con i vecchi amici e tra loro c'era anche Petra. “Dov'è il veterinario?” chiese Vincenzo. “In sobborgo Battistini”. “Ti raggiungo lì”. Vincenzo si mise a cavallo del proprio motore, gridò qualcosa al padre che, pur non capendo, fece cenno di sì con la testa e partì. Tempo dieci minuti era a fianco della ragazza. “Me lo spieghi perché ogni volta che ti vedo mi sembri sempre più bella?” Quel sorriso di risposta... Dove lo avrebbe trovato se non in paradiso?

Verso l’ora di cena Vincenzo ricevette una telefonata. Sperava fosse Petra invece sul display comparve la scritta Mamma. “Ciao Enzo, quando torni?” Già il fatto che si rivolgesse a lui chiamandolo Enzo significava che a sua madre le girava la luna di traverso. “Credo che resterò un pò dal Babbo...” “Guarda che quello lì non è mica normale...” Vincenzo si irrigidì. “Intanto quello lì come dici te, è mio padre, quindi cerca di usare un tono

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più rispettoso quando ne parli”. “Sarà anche tuo padre, ma è un cretino e la sua compagnia non ti giova. Lo dimostra la frase che hai appena pronunciato...” “Mamma, guarda che...” “Mamma un corno! Domani prendi un treno e torni a casa!” Vincenzo, che fino a quel momento aveva cercato di controllarsi, sbottò: “Forse non te ne sei accorta, ma quella dei due che non è a casa, sei tu...” E chiuse la telefonata. Tiziana provò a ricomporre il numero di telefono ma le rispose la voce impersonale della segreteria telefonica. Gettò il telefono sul divano imprecando tra i denti. Il piccolo di sette mesi strillava in braccio alla madre avvertendo la tensione. Il suo secondo marito rincasava ogni sera più tardi, forse nel tentativo di posporre l'incontro con il nuovo quadretto familiare. Si frequentavano da anni ma la convivenza era una condizione ben diversa. Senza parlare del bimbo appena arrivato. Non aveva mai desiderato diventare padre ed ora c’era quell’esserino che piangeva, che si svegliava tutte le notti disturbando il suo sonno. E poi i figli di Tiziana avuti nel precedente matrimonio. Due adolescenti ostili in continuo contrasto con la madre. Insomma, non c’era più pace. La situazione era tale che ci voleva una grande capacità di adattamento di cui era totalmente sprovvisto. Per questo motivo tendeva a stare in casa il meno possibile inventandosi tutte le scuse per rincasare più tardi. Tiziana avvertiva il disagio del marito e la tensione che accumulava la scaricava sui figli. In quel momento apparve in cucina il suo secondogenito. “Mamma esco” disse la voce del figlio alle sue spalle. Dino era un diciassettenne moro e dalla corporatura esile che agli occhi della madre possedeva un gravissimo difetto: essere tale e quale al padre, soprattutto in quello sguardo nero, profondo e sfuggente che ti osserva con gli occhi di chi è fisicamente in un luogo ma con la mente in un altro. “Tu non vai da nessuna parte!” fu la replica acida e sgarbata della madre.

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“Ma… Guarda che te l'ho detto la scorsa settimana…” “Non m’interessa! Oggi ho la luna di traverso e non voglio altri pensieri”. Il ragazzo, solitamente abbastanza mite se paragonato al fratello maggiore, ebbe uno scatto di nervosismo. “Sono cazzi tuoi, io esco lo stesso!” Tiziana si inacidì ulteriormente. “Se provi a varcare quella porta, domani ti spedisco da tuo padre a far compagnia a quel cretino di tuo fratello!” Dino prese le chiavi del motorino e senza dire altro uscì di casa. Tiziana allora compose un numero di telefono. “Pronto? Parlo con quell'idiota integrale che disgraziatamente ho avuto la sventura di sposare nell'altra vita?” “Quale dolce suono odono le mie orecchie…” fu la risposta ironica di Stagno, “...a cosa debbo tanta grazia?” “Sì, sì, fai pure l'imbecille tu che puoi… Ti chiamo per dirti che domani ti spedisco quell'idiota di tuo figlio. Troverà un ambiente in sintonia con la sua mente malata. Sei contento?” “Più di quanto tu possa immaginare” replicò Stagno. “E allora sai cosa ti dico? Vaffanculo te e i tuoi figli, stronzo!” Chiusa la telefonata, sorriso sardonico sulle labbra di Stagno. Disse al figlio: “Vincent, domani dobbiamo andare in stazione a raccogliere i pezzi di tuo fratello che è giunto al termine del terribile trattamento materno...”

Marco Civetta era un forte fumatore. Come tutti i fumatori incalliti consumava un numero indecifrabile di sigarette gustandosele ben poco. Faceva eccezione la prima del mattino dopo il caffè che riusciva ancora a regalargli un piccolissimo brivido. Ma quella che amava di più era la sigaretta che fumava in compagnia di

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Stagno quando il folle sulla collina lo passava a trovare. Stagno comparve in officina verso le dieci del mattino. “Caffettino?” Civetta scivolò in ufficio e cominciò ad armeggiare intorno alla macchina del caffè. Sorbirono le loro tazzine in silenzio poi uscirono per fumarsi una sigaretta. Civetta tolse dalla tasca una foto polaroid e la porse all’amico. “Guarda un pò, ti dice niente?”

Una sera d’estate del ‘74 Stagno fece una sortita solitaria nel campo di granoturco di Galoz, per trafugare qualche pannocchia. L’intenzione era quella di rosolarle l'indomani con la banda. Quando andò a riprendere la bici però, si ritrovò faccia a faccia con il contadino. Questi lo afferrò trascinandolo per un orecchio fin sotto un vecchio ciliegio, lì gli calò i pantaloni e poi lo prese a cinghiate. Prima di lasciarlo andare gli disse: “E di a quel somaro di tuo padre, che se ha il coraggio di venire qua a lamentarsi, ce ne sono anche per lui”. Ma a Stagno non passava neanche per l’anticamera del cervello di raccontare la vicenda a suo padre che, conoscendolo, gli avrebbe mollato due ceffoni per punirlo di quella bravata. Qualche giorno dopo, Asso organizzò la rappresaglia. Undici di sera, stellata firmamentale, furtivi e silenziosi attraversarono il campo di mais del vecchio contadino. Rievocando quell’episodio, Stagno non poté evitare di sentire il fracasso dei grilli, l’odore del fiume che risaliva le narici, il sudore che colava lungo le tempie e le risatine sghignazzanti dei suoi compagni. Asso, il Gatto, Stagno, Muriega, Zorro, Lonny, Ghigo e Civetta. Tutti e otto in fila indiana come bravi soldatini s’acquattarono al limite dell’aia. Due ore prima Ghigo aveva gettato una polpetta infarcita di sonnifero ai piedi di Buck, lo spinone. Era una bestia innocua, ma abbaiava per un

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nonnulla. Per questo motivo Pietro aveva suggerito di neutralizzarlo. Galoz teneva il fucile sul tavolo della cucina, colpo in canna ed era ben risaputo che non fosse il tipo da pensarci due volte a premere il grilletto. Asso e Stagno entrarono in casa di soppiatto, la porta era semplicemente accostata. Tommaso riempì la canna del fucile con delle bilie d’acciaio del diametro di misura tale che quasi faticavano ad entrare. Quindi uscirono e, insieme al resto della truppa, terminarono la preparazione dello spettacolo. Biglietti solo ridotti, ovviamente. Eseguite le manovre necessarie si misero a distanza di sicurezza. Al segnale convenuto di Muriega, il Gatto soffiò a pieni polmoni in un vecchio corno che emise un suono acuto e lugubre. Tempo trenta secondi quell’ammasso di muscoli ed ignoranza allo stato puro, si alzò dal letto, volò giù per le scale, entrò in cucina, afferrò il fucile e fece per uscire. E qui ebbe inizio la vendetta: come Galoz aprì la porta, un secchio carico di letame, posto in bilico sullo stipite, gli piombò sul cranio semi pelato stropicciandogli il consistente riporto. Il conseguente urlo da uccello notturno della foresta amazzonica non poté far altro che scaldare i cuori dei giovani burloni. “Brutti figli di puttana, adesso vi ammazzo!” Senza neanche vedere dove stava rintanato il suo nemico, l’iroso energumeno sparò verso la notte e venne colto da una seconda ed amara sorpresa: la canna del fucile gli scoppiò tra le mani ferendolo ad entrambe. “Porca troia, fatevi vedere bastardi, venite qui se avete il coraggio!” “Vienici a prendere tu, stronzone!” Galoz fece un passo e si ritrovò a mordere il selciato. C’era una fune, altezza caviglia, due passi dopo la porta. Tutto sporco e in preda alla collera, l’uomo si trascinò fino al bagno. Nei prima anni settanta la maggior parte dei contadini aveva ancora, in luogo del bagno, una specie di latrina maleodorante distaccata dal resto della casa. Galli Ernesto Vittorio detto Galoz, non faceva eccezione.

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Aprendo la porta avvertì sul palmo della mano qualcosa di viscido. Era mastice, quello che si adoperava per riparare le camere d’aria delle automobili. I mocciosi nel frattempo stavano rotolandosi per terra dalle risate, solo Asso continuava a seguire la scena. “Zitti, zitti. Aspettate!” Subito dopo s’alzò al cielo un’autentica esplosione di gioia sotto forma di grida festanti, tale da mettere a tacere i grilli e le ranocchie di tutta la vallata. Buck si svegliò, emise un sordo latrato, prima di ripiombare nel sonno. E l’omone? Appena avvertito il mastice aveva dato un calcio alla porta del bagno: una nuvola di piume di gallina gli era caduta addosso incollandosi al letame, al fango ed al mastice! “Vai, Civetta, ora!” Lesto, lesto, Marchino s’avvicinò al granitico coltivatore mentre Zorro dal margine del selciato gridava: “Ehi, Galoooz! Un sorriso per la stampa!” Una luce, rapida e intensa, lo abbagliò. Grande invenzione la polaroid. Tornarono verso casa felici tenendosi a braccetto e sghignazzando sull’esito di quella loro mitica impresa.

Stagno sorrise all’amico. “Dove l’hai tirata fuori?” “Mha, l’altra sera, non so perché, m’è venuta voglia di guardare le vecchie foto e mi è capitata tra le mani. Ho pensato che fosse giusto la tenessi tu”. Stagno guardò Civetta con gratitudine. “Questo è davvero un gran bel regalo, grazie Marchino. Non so come sdebitarmi, davvero”. “Oh, il modo c’è. Basta che spari una delle tue mitiche cazzate...” I due amici si sorrisero poi terminarono in silenzio la loro sigaretta.

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Nessuno dei due aveva tanta voglia di parlare. Marco già da un pò soffriva di una strana difficoltà a respirare che lo rendeva più mutangono del solito mentre Stagno soffriva il periodo preautunnale. Per lui settembre era un mese introspettivo, dalle dolenti elucubrazioni.

Anche nell'immaginario di Lorenzo settembre era un mese silenzioso che si prestava alle riflessioni amare. Seduto nella sua poltroncina di vimini aspettava. In lontananza, il rumore del motore fu il segnale che attendeva: Petra stava tornando a casa. Guardò l'orologio. Era il vecchio orologio automatico di suo padre. Lo portava rovesciato sul polso destro per imitazione pur non essendo mancino. Desiderava si trovasse a suo agio nonostante il cambio di ospite. In effetti il polso di suo padre era molto più sottile. Lorenzo doveva allacciare il cinturino nell'ultimo buco a disposizione. In realtà lo indossava raramente, giusto per tenerlo in funzione, poiché temeva di graffiarlo e dopo chi lo avrebbe sentito suo padre... Solitamente portava un vecchio orologio dal cinturino rosso regalatogli per la sua prima comunione. Caterina lo tollerava a stento. “Possibile che tu debba metterti quell’affare tutto logoro? Perché non ti metti il Citizen che ti ha regalato tua Mamma?” Ma il Citizen non possedeva un’anima. Anche i suoi studenti lo deridevano sottovoce: “Guardate il Prof. Ha sempre al polso quell’orologio ridicolo. Quasi quasi facciamo una colletta e gliene regaliamo uno”. Lorenzo era indifferente a quei commenti. Il suo Ok Breil aveva corso nei campi, sfrecciato in bicicletta e in motorino, nuotato nel fiume e nel mare, suonato la chitarra. Gli altri non potevano capire. Faceva qualche eccezione solo per il Rolex automatico di suo padre che

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nell’occasione segnava le quattro e venti. Lorenzo rientrò in casa dalla porta finestra e attese che la figlia varcasse la porta d’entrata. Lei lo guardò stupita, lui le baciò la fronte e con un sorriso prese congedo. Si infilò nel letto rannicchiandosi sul bordo. Era una forma di rispetto nei confronti della moglie. Chissà se capiva e apprezzava... Per il momento dormiva con un’espressione serena che Lorenzo adorava guardare. Sentì Petra andare in bagno e poi entrare nella sua camera. Quindi, nuovamente il silenzio. Cercò di riaddormentarsi ma non riuscì nell’intento. Troppi pensieri si rincorrevano nella sua mente.

Diego ed Antonio si erano accordati la sera prima dandosi appuntamento dietro la canonica per le sei del mattino. Il prete vi giunse puntualissimo ma Antonio lo stava già aspettando. La crepa che scendeva sul fianco destro era larga quasi due centimetri. La struttura era stata messa in sicurezza l’estate prima ma da quella frattura penetravano freddo e umidità. I due si guardarono negli occhi poi, senza scambiare una parola come ormai da tempo stabilito nel loro codice relazionale, iniziarono a riprendere la crepa con nuovo intonaco. Verso le nove e mezzo vennero interrotti da Franchino che con fare agitato richiamò l’attenzione del parroco. Qualcuno lo cercava al telefono. Don Diego si diede una ripulita alle mani strofinandole nei pantaloni e seguì il giovane down in canonica. “Pronto? Sì, sono io. Oh, Martino, ciao! Non ti avevo riconosciuto dimmi... Cosa? Quando? Io non... Sì, certo, certo, ma... Sì capisco che devi lavorare, va bene, però... A Stoccolma un meeting... Certo, ci penso io. Domani alle tre. Però devo ricordarti che sarebbe tuo dovere esserci. Un domani potresti pentirtene... Sì, ciao...” Il prete abbassò la cornetta e si lasciò sfuggire una parola tra i denti:

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“Stronzo...” Franchino comprese che non era aria e scivolò fuori dall’ufficio. Don Diego seduto sulla sedia, lo sguardo inumidito, disse con un alito di voce: “E adesso questa come gliela racconto a Stagno?” Marco Civetta, il più mite dei suoi fratelli del mattino era morto nel sonno. Un uomo la cui esistenza aveva varcato tutti i confini delle solitudini possibili se n’era andato nello stesso modo di come era vissuto, senza far baccano, senza disturbare. E quello stronzo di Martino non sarebbe stato presente neppure al funerale. Era un manager, lui... Troppo impegnato per presenziare a delle stupide esequie del signor nessuno. Peccato che quel signor nessuno fosse suo fratello. Civetta organizzò la sua dipartita in sordina. Andò a coricarsi la sera presto passando dal sonno rigenerante a quello eterno molto probabilmente senza neanche accorgersene. Quasi che il destino, dopo tanto accanirsi avesse avuto pena di tutto quel silenzio. Al cimitero erano uno accanto all’altro. Attesero che tutti se ne andassero poi si avvicinarono a quella croce di legno provvisoria teatralmente simbolo della precarietà terrena. Tommaso, Lorenzo, Diego, Stagno e Pietro, il fratello di don Diego precipitatosi dalla Germania appena saputo della notizia. Fu il primo a parlare: “Quel somaro di Martino dove cazzo era?” “A Stoccolma” gli rispose Diego con una nota di fastidio nella voce. “Tanto a lui non gliene è mai importato un cazzo quando era in vita, figuriamoci da morto” concluse Pietro. Per un pò non parlarono poi Stagno, che aveva covato dolore e fastidio si liberò del suo malanimo sfogandosi con i suoi amici: “Avete visto quanta gente? Mi chiedo: cosa cazzo ci sono venuti a fare?” La domanda era stata sputata a terra con rabbia.

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Diego cercò di rabbonirlo: “Lascia perdere, non serve torturarsi...” “Io non lascio perdere una beata minchia! E sapete perché? Mi dite dove cazzo erano quei timorati di Dio mentre Marco marciva nella solitudine?” Tommaso intervenne con voce pacata: “Tutti noi abbiamo vissuto le nostre vite non considerando la sua. Tu sei stato l’unico di noi a frequentarlo, eppure neanche tu hai potuto lenirne la solitudine, che non esisteva fuori ma dentro di lui e aveva radici lontane. In fondo la tua rabbia, la mia rabbia, quella di tutti noi nasce dal fatto che non abbiamo saputo o voluto stargli vicini per aiutarlo a uscire da quel labirinto dove era andato a nascondersi. È la rabbia del senso di colpa...” Stagno guardò l’amico poi abbassò gli occhi in direzione della croce. “Forse hai ragione, Rosso. Ma questa rabbia me la voglio tenere dentro lo stesso. Mi sembrerà di tenerlo in vita ancora un pò”. Prese parola Lorenzo che fino a quel momento era stato in disparte: “C’è una cosa che non capisci, Stagno: Marco, Ghigo e Saverio sono vivi! Sì, lo sono e lo saranno fino a quando l’ultimo di noi resterà in vita. Ti voglio ricordare, anzi no, lo voglio ricordare a tutti voi, che siamo nati sotto una nuvola, in un campo di fragole. Nessuno di noi ha il diritto di scordarlo...” Seguì un breve e commosso silenzio. Venne poi interrotto da Pietro: “Venite, ragazzi, offro io. Dobbiamo bere alla memoria di Marco, questo almeno glielo dobbiamo...” I cinque amici si incamminarono lentamente verso una vicina osteria dove alzarono i bicchieri ricolmi di vino verso il cielo.

Quella

sera, con l’animo che gorgogliava in un misto di rabbia e rassegnazione, Stagno si mise all’opera. Lavorò tutta la notte e tutta la mattina successiva. Verso l’ora di pranzo i suoi figli si affacciarono nel capanno.

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“Tutto bene?” gli chiese Vincenzo. Stagno rispose con un cenno del capo cui non era possibile dare un significato certo. Dino lo interrogò: “Chi è?” riferendosi al volto sorridente ritratto nel quadro fresco di vernice. “Civetta” rispose laconico Stagno. Al che Vincenzo, che al contrario di Dino aveva conosciuto bene l’amico del padre, disse: “Ma non gli assomiglia per niente!” In effetti, nel quadro, l’aspetto di Marco Civetta era molto diverso dalla realtà. Tutti i suoi tratti spigolosi erano stati volutamente arrotondati, lo sguardo profondo, i capelli morbidi. In pratica risultava irriconoscibile. “Infatti...” si affrettò a spiegare Stagno, “...questo non è il Marco Civetta che tutti potranno rivedere nel ricordino del funerale, ma il mio Marchino, così come lo vede lo sguardo della mia mente”. “Io non capisco” disse il minore dei suoi figli dopo quella spiegazione. Stagno allora gli sorrise amorevolmente. “Vedi, ognuno di noi vede le cose che gli sono intorno così come sono, come scattando una fotografia, allo stesso modo di tutti gli altri. Se ora mi fai una foto e poi guardandola provi a disegnarmi, in base alle tue capacità eseguirai un disegno molto somigliante a quello che vedi. Se invece provi a disegnarmi senza guardare quella foto, quello che risulterà sarà frutto del tuo ricordo, di come mi vedono gli occhi della mente. I particolari e le sfumature dei colori saranno inevitabilmente diversi dall’originale e pertanto molto più coerenti con il pensiero che hai di me”. Stagno sorrise nuovamente al suo ragazzo. “Quello che vorrei tu capissi è che spesso l’emozione che ci trasmette una persona non coincide con il suo aspetto fisico e, mentre una fotografia non può far altro che riportare ciò che vede, la nostra mente è in grado di andare oltre le apparenze perché la persona vera è dentro, sotto la buccia...”

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Allora Vincenzo provò a riassumere il discorso del padre: “È per questo che esistono gli artisti, perché sanno vedere con occhi diversi la realtà. Come te...” Stagno, compiaciuto del complimento indiretto ricevuto, volle concludere con una pillola di umiltà quella chiacchierata: “Oh no, qui ti sbagli, per me è diverso. Io non sono un vero artista, sono semplicemente un malato di mente...”

Il giorno dopo accadde un piccolo episodio, per certi versi insignificante ma destinato a modificare l’atteggiamento di Caterina verso Lorenzo. Le consentì di guardare da una prospettiva diversa l’uomo che aveva sposato. Era un pomeriggio di strana quiete. La città avvolta in una cappa di caldo si era trasformata in una sorta di gigantesca graticola. Era giunta la perturbazione equatoriale che i meteorologi avevano ribattezzato Caronte. Sopra l’asfalto l'aria rovente ondeggiava creando distorsioni ottiche simili a miraggi. I più stavano rintanati in casa, confortati dall'aria condizionata. Lorenzo apprezzava tutto quel silenzio. Se ne stava seduto su una poltroncina di vimini posizionata nell'angolo ombroso e ventilato del terrazzo. Lo sguardo nel vuoto, faceva ballare tra le mani una lettera che non riusciva a convincersi di aprire. Nell'ultimo mese era dimagrito quasi otto chili. Un po' il caso, un po' quella malinconia. Forse anche la speranza di piacere ancora a sua moglie. “Toc, toc, si può?” La richiesta fatta con delicatezza quasi in punta di piedi includeva una forma inusuale di rispetto. “Certo vieni pure. Devo fare qualcosa?” Caterina sorrise al nuovo marito che si stava ritrovando in casa. Più disponibile e con qualche premura di cui non pensava fosse capace. “No, è che ti stavo osservando. Non la apri?” si riferiva alla busta

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biancoceleste che giocava tra le dita di Lorenzo. “Tanto ne conosco benissimo il contenuto...” poi, inclinando il busto per guardarla negli occhi, aggiunse: “...non penso che tu sia molto interessata alla cosa. Sono anni che non leggi più quello che scrivo”. La riflessione venata di amaro venne pronunciata da Lorenzo con voce ferma. In altri momenti Caterina avrebbe assunto un tono risentito, invece si sedette al suo fianco. “Vuoi sapere perché ho smesso di farlo?” Un cenno degli occhi la invitò a proseguire. “Perché ero gelosa. I tuoi romanzi assorbivano tutto il tuo tempo e la tua passione. A me restavano soltanto le briciole”. Lorenzo lo aveva capito, in ritardo ovviamente, ma c'era arrivato. “Lo so e te ne chiedo scusa. Vedrai che non si ripeterà. Se deciderai di restare al mio fianco potrò dimostrartelo”. Si guardarono intensamente poi una voce li interruppe: “Babbo puoi venire un attimo?” era Riccardo che lo chiamava. “Il solito scocciatore” disse Lorenzo ridendo e si alzò dalla sua poltroncina per raggiungerlo in camera. La lettera dell'editore rimase sul cuscino. Caterina la prese. Indugiò un attimo poi decise di aprirla. Quello scritto impersonale, le false scuse, lo svicolare… Chissà quante volte il marito aveva subìto quel piccolo dolore e, forse, ogni volta, aveva perso una parte di sè. In quel preciso istante ebbe un moto di comprensione, quasi di pietà, per quel gigante buono che coltivava inutilmente un sogno.

Fu con quel pensiero nel cuore che, il giorno successivo, Caterina suonò il pulsante del campanello alla porta d'entrata dell’appartamento di Massimo. Vide quell’uomo, bello come il sole, che si presentava a torso nudo con i muscoli che gli scintillavano nel petto. Fisico così ottenuto grazie a molta

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palestra, ad una accurata depilazione, all'uso sapiente di un'olio nutritivo per la pelle e, molto probabilmente, all'utilizzo a piene mani di steroidi. Lo vide che la prendeva per un braccio trascinandola fino al divano, spogliarla selvaggiamente ed entrarle dentro con foga animalesca. Caterina lo spinse via irrigidendosi. “Scusa ma oggi proprio non me la sento”. La domanda che affiorò sulle labbra dell’uomo fu estremamente identificativa del rapporto che intercorreva tra i due amanti: “Allora cosa sei venuta a fare?” “Già…” sorrise amaramente Caterina, “…me lo stavo chiedendo anch'io”. Si rivestì in silenzio uscendo poi dalla porta e dalla vita di Massimo senza neppure salutare. Mentre camminava verso casa si rese conto quale fosse la conseguenza di quell'episodio appena concluso. Aveva preso la decisione finale. Coerentemente compose un numero di telefono. “Pronto?” fece la voce calda e suadente dall'altra parte. “Ciao Carlo, sono Caterina. Ti disturbo?” “Ma tu non mi disturbi mai dolcezza”. “Dolcezza… Puah!” solo in quel momento si rese conto di quanto fosse ridicolo e abusato quel vezzeggiativo. “Ascolta, avrei bisogno di parlarti...” Un appuntamento breve in un luogo pubblico, poche parole. Carlo non parve minimamente turbato. O era un grande incassatore o più probabilmente non gli importava più di tanto. Dovette riflettere amaramente che quei due uomini così diversi nei comportamenti e tra le lenzuola in realtà erano molto simili e, in definitiva, non valevano un granché. Leggera come una liceale, come da tempo oramai non si sentiva più, entrò sorridente nell’appartamento dove abitava insieme ai suoi figli e a quello strano uomo che il destino gli aveva messo a fianco.

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La primavera successiva a quell'inverno rigido e nevoso che aveva strappato alla vita Saverio, il fratello di Stagno, fu molto piovosa. Sembrava che il cielo volesse associarsi al dolore che stringeva in una rigida cappa il piccolo borgo di case situate nei pressi di Campo Sud. Il primo giorno di sole accolse il ritorno dei piccoli eroi nel loro territorio di caccia. Uscirono dalle loro case una domenica mattina, tutti alla stessa ora, quasi si fossero accordati il giorno prima. Invece ognuno era uscito per conto suo come funghi tra le foglie ai piedi degli alberi. A Campo Sud, vicino al grande salice che con i suoi rami cadenti formava una grotta naturale c'erano tutti. Mancava solo Stagno. Muriega fu l’ultimo ad arrivare sul posto e informò gli altri che Stagno era nel campo dei cachi a cavalcioni di un ramo alto e se ne stava in silenzio abbracciando il tronco. Lonny e il Rosso allora lasciarono la compagnia per raggiungerlo. Il campo dei cachi distava da Campo Sud un paio di chilometri dato che era situato a ridosso della cava di argilla. Stagno amava quel posto, specialmente d'inverno quando calava la nebbia e si vedevano spuntare dal nulla rami spogli che in alcuni casi mostravano ancora i frutti non raccolti. In quei casi il campo di cachi assumeva una dimensione surreale. Stagno diceva che vi si poteva ascoltare le voci dei morti. Per questo lo aveva rinominato il Bosco delle Anime. Giunti sotto l'albero dove il loro amico era arrampicato, Tommaso disse qualcosa a Lorenzo poi, agile come uno scoiattolo raggiunse Stagno. “Cosa stai facendo?” “ Sh, zitto!” intimò Stagno, “...guarda…” Con gli occhi indirizzò lo sguardo di Tommaso verso la propria mano. Una fila ininterrotta di formiche risaliva il tronco all'altezza del polso di Stagno continuando il percorso sulla pelle del giovane sciamano. “Forte, eh?” Tommaso non disse nulla anche lui colpito da ciò che vedeva. “Sono o non sono tutt’uno con l'universo?”

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Tommaso allora accarezzò la testa dell'amico poi fece cenno a Lorenzo di salire. Rimasero a lungo appollaiati su quei rami come piccoli koala immersi in un silenzio purissimo che, avrebbero scoperto poi nella vita, solo l'amicizia e lo stupore sono capaci di evocare.

Due mesi dopo l'operazione di Tommaso, i vecchi amici si dettero appuntamento a casa di Stagno per una serata da passare in compagnia. Non che avessero granché da festeggiare, ma tutti e quattro sentivano il bisogno di trascorrere una serata insieme. Stagno, quello dell'impensabile ma anche quello dell'imprevedibile, aveva preparato una sorpresa e non vedeva l'ora di scoprirne l'effetto sulle espressioni del volto degli amici. Tutto era nato dalla telefonata di suo cugino Fulvio, quello con la faccia da scemo, il corpo da gorilla e il cranio da pulcino pio. “Stefano?” “Sì?” aveva risposto Stagno stando un po' in difesa, non riconoscendo la voce diffusa dal microfono del cellulare. “Sono Fulvio, ti ho chiamato per dirti una cosa…” Lì per lì Stagno stava per chiedersi: “Fulvio chi?” Poi gli venne in mente che da qualche parte nell'universo aveva dei parenti tra cui un cugino suo coetaneo. Si erano sempre appena appena sopportati. “…hai presente quelle tue cose che hai messo in cantina dai miei?” “In cantina dai suoi? Cose? Quali cose?” poi a Stagno si accese la lampadina, “Sì, certo…” “Quando le fai sparire che ho bisogno di spazio?” A Fulvio ovviamente sarebbe sfuggita la sfumatura di ironia con la quale Stagno avrebbe condito la frase di risposta: “Oggi pomeriggio è troppo tardi?” Chiusa la comunicazione, Stagno telefonò a Lorenzo.

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“Lonny, sono il folle sulla collina, come stai? Tutto bene?” “Diciamo che va… Te?” “Sopravvivo. Senti ragazzo, avrei bisogno di una cortesia”. “Spara”. “Mi presteresti il tuo furgoncino?” Ogni tanto Stagno si faceva prestare il pulmino della società dove giocava a calcio Riccardo. Lorenzo accompagnava la squadra in trasferta e pertanto aveva in custodia il mezzo. Qualche volta Lorenzo lo aveva anche accompagnato a raccattare quelle strane cose che per l'amico pittore avevano un'attrattiva irresistibile ed erano sempre state, agli occhi di Lorenzo, delle mega cianfrusaglie inutili. “Cosa devi caricare questa volta, un busto di Napoleone?” “Segreto bello. No comment.” Nel pomeriggio Stagno era passato a prendere il pulmino e poi si era diretto a casa di quel simpaticone di suo cugino Fulvio. Lungo il tragitto aveva pensato al contenuto di quegli scatoloni. Quando era stato messo fuori casa da Tiziana, o ci si era messo lui, o tutte due le cose insieme, aveva chiesto a suo zio se poteva stivare quegli scatoloni in cantina e così era stato. Fulvio sbuffando e parlando logorroicamente tutto il tempo di argomenti inutili, gli diede una mano a caricare sul furgone quelle scatole contenenti i ricordi di una vita, alcuni poco importanti, altri, invece, vitali. Una volta a casa si fece aiutare dai suoi due figli a scaricare il tutto nel capannone. “Che roba è?” chiese Vincenzo. “Roba? Ma che linguaggio è? Questa non è roba, questa è anima!” E siccome Vincenzo amava suo padre, gli diede amorevolmente un calcio nel culo e poi non fece più domande. Chissà se era consapevole che quel calcio nel fondoschiena valeva per Stagno più di mille carezze. Durante la settimana Stagno preparò la sorpresa con cura, andando e tornando dalla città continuamente per rimediare tutto l’occorrente.

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Quella stessa settimana Lorenzo ebbe a che fare con una serie di faccende che lo indussero a ritirarsi per qualche giorno nella sua casa sul mare. Prese Caterina in disparte e gli disse: “Ti devo parlare”. Guardò la moglie con tale intensità che lei ebbe timore di quello che avrebbe ascoltato dalla voce del marito. “Ho bisogno di stare solo per qualche giorno. Ho pensato di andare a Cesenatico. Due o tre giorni al massimo”. Quasi a immaginare il momento catartico dell'amico, Stagno aveva telefonato a Lorenzo. “Pronto, ciao, senti uomo per martedì...” “Di un po,' non chiedi mai se posso parlare, se disturbo, se...” “Se fuori piove, se l’universo è in grande ascesa, se qualcuno sta pisciando contro vento? No, non lo chiedo mai… Allora, dicevo, per martedì, porta su la tua mitica chitarra. Ciao”. Lorenzo sorrise tra sè. “Chi era?” chiese Caterina. “Stagno”. “Cosa voleva?” “Una delle sue solite stronzate”. Lorenzo fece una breve pausa poi, guardando negli occhi la moglie tentò di spiegare il suo momento di difficoltà: “Sai, mi sono chiesto spesso cosa è successo, intendo dire cosa è accaduto tra di noi. Il fatto è che ci ho messo molto tempo a capirlo, forse troppo. Ora penso di saperlo. Voglio dirti subito che sono pienamente consapevole del fatto che la colpa è tutta mia. Interamente mia. Tu eri bellissima e piena di vita. La tua vitalità sarebbe stata sufficiente per tutti e due se solo io mi fossi accorto prima che era di te e solo di te che avevo bisogno. Il problema è che io inseguivo un sogno...”

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Lorenzo fece una piccola pausa. Non era facile per lui dire quelle cose. “L’ho inseguito così tanto da non accorgermi che il sogno vero era già lì al mio fianco. Ho inseguito un sogno, disperandomi ad ogni insuccesso, cadendo in una spirale di depressione, quando invece dovevo essere felice perché avevo te. La verità è che non ho abbastanza talento. Ora lo so, l'ho capito, ma ci ho messo troppo. Sono arrivato alla verità in ritardo, fuori tempo massimo. Pensavo che dato che amavo scrivere, automaticamente fossi anche bravo nel farlo...” Caterina provò a dire qualcosa: “Ma è così, tu…” “No ti prego lascia stare. Non dire nulla. Io non sono bravo. Non abbastanza. E poi non è un problema, non più... La questione ultima, la più importante, è che, nello stupido e ottuso tentativo di raggiungere un sogno irrealizzabile, ho perso la cosa più importante che avevo: te. Di questo non potrò mai perdonarmi”. “Io posso fare qualcosa?” chiese Caterina con voce sottile. Lui avrebbe voluto dirle: “Sì, smetti di sognare…” ma fece solo cenno di no con la testa. Caterina provò a dire qualcosa, ma Lorenzo le pose un dito sulla bocca poi con le labbra le sfiorò la guancia e uscì di casa. Un paio di sere prima Caterina aveva avuto un sogno agitato. Nel sonno parlava. Da ciò che diceva apparve evidente a Lorenzo che sognava di fare l'amore con un uomo. Quell'uomo non era lui, dato che tra le sue poche certezze c'era il fatto che il suo nome di battesimo non era Carlo. Certo, si trattava di un sogno, ma quelle parole lo ferirono intimamente, forse anche più che se l'avesse sorpresa a letto con un altro. Caterina si immerse nelle faccende di casa ma non riusciva a non pensare alle parole di Lorenzo. Era evidente che qualcosa lo aveva ferito ma cosa? L'illuminazione le venne la mattina dopo durante la colazione dei figli,

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intercettandone le parole. “Questa notte con chi ce l'avevi ochetta. Hai litigato con qualcuno per un sacco di tempo!” “Chi io?” disse Elisa quasi risentita, “Perché, cosa ho fatto?” “Hai fatto che parli nel sonno come una matta, ecco cosa hai fatto!” Riccardo terminò la frase sogghignando. “No, non è vero!” “Sì invece, fai proprio come la mamma...” Caterina allora si ricordò di quel sogno a tinte erotiche che aveva fatto. Si chiese se era possibile che fosse avvenuto in stereofonia. Doveva parlarne a Lorenzo. Doveva farlo prima che il marito trascorresse troppo tempo a torturarsi la mente.

Diego aveva trascorso l'intera giornata in vescovado. Il nuovo vescovo insediato in città da neanche un anno era riuscito a classificarsi in prima posizione nel concorso dedicato al cretino dell'anno. La pomposità e la falsa delicatezza che trasparivano da quel prelato lo irritavano profondamente, ma non si aspettava certo di ascoltare quello che il vescovo gli avrebbe detto. Esordì riferendogli di strane dicerie. Circolavano voci su don Diego che insinuavano di sue eccessive attenzioni alle esigenze del gentil sesso. Che stupido modo di dire le cose... Peraltro non era assolutamente vero. Don Diego, dal giorno dell'incidente che era costato la vita a Giorgio, non aveva più avuto rapporti neanche lontanamente amorosi con chicchessia. Lo disse al vescovo il quale, però, gli fece presente che anche solo il dubbio nuoceva alla chiesa, in particolare in tempi dove gli scandali sessuali sembravano affiorare ovunque. Diego se ne sbatteva i coglioni di quello che accadeva ovunque. Lui tentava soltanto di fare del suo meglio in ciò che faceva, ed era tanto.

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Ovviamente non usò la frase che gli era balenata nella mente che conteneva gli attributi di sesso maschile, ma il senso era quello. Il vescovo continuò imperterrito a battere il chiodo di quell'argomento. Vennero interrotti da alcune telefonate, tra cui il sindaco, un banchiere, un potente industriale. In quelle telefonate Diego poté osservare come la lingua del prelato si insinuasse tra i glutei dei potenti in un lecchìo prolungato. Diverse volte il segretario personale del vescovo entrò per fargli firmare delle carte o notificargli questo e quell'altro. Entrava con quella camminata a culo stretto estremamente effeminata e gli lanciava sguardi indecifrabili. Tutte le volte don Diego lo mandava mentalmente in un certo luogo. Finalmente il vescovo scoprì le sue carte. Gli diede tre settimane di tempo per sistemare le cose perché lo trasferiva a Borgo Vecchio, un paese vicino a Sarsina, in prossimità di un passo appenninico. Gli spiegò che cambiare aria consentiva di riprendere vigore e integrità, poi lo salutò benedicendo l'aria con le sue grasse dita inanellate. Don Diego si alzò quasi in trance, neanche salutò Sua Eccellenza prendendo commiato. Nel turbinio dei pensieri, giunse a San Zaccaria senza neppure rendersene conto. Salì le scale, entrò in camera di don Sergio che, guardandolo, comprese al volo che c'era qualcosa di grosso nell'aria. Così il vecchio prete allargò le braccia per offrirle in una stretta consolatoria. In quel mentre Tommaso stava passeggiando lungo l'argine del fiume. Respirava l'aria della campagna che evocava ricordi. Erano già diversi giorni che soffriva di una fastidiosa febbricola e la difficoltà nel respiro era peggiorata. Quella mattina, notare che le dita dei piedi stavano diventando grigio scuro, fu il segnale che stava aspettando. In serata si sarebbe trovato a casa di Stagno con i vecchi amici. Non era sua intenzione rovinare la festa a nessuno tanto, pur evitando accuratamente di parlarne, lo sapevano tutti: stava arrivando il momento del grande salto. Una farfalla ritardataria si posò sulla sua scarpa. Tommaso gli sorrise con

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indulgenza, consapevole di essere accomunato dal medesimo destino... Socchiuse gli occhi e cercò di riscaldare il volto offrendolo a quel pallido sole autunnale. Parlò da solo sussurrando: “Sono pronto, non ho paura. Non mi sono mai voltato indietro per recriminare sul tempo andato. Bene, non aspettarti che lo faccia ora”. Con chi intendesse parlare difficile dirlo. Forse con un Dio latitante ma sempre presente nei pensieri, forse con il destino incapace di distinguere il giusto dallo sbagliato, il buono dal cattivo. Più semplicemente parlava a sè stesso, a quella sua voglia di vivere frustrata da ciò che stava per compiersi.

Caterina, vestita di nero, i capelli raccolti, le scarpe con i tacchi alti, la camminata elegante si fermò al chiosco vicino all'entrata del cimitero e acquistò una pianta con delle roselline bianche. A quell'ora del mattino il cimitero risultava deserto. Il cielo era di un azzurro bluastro con un gregge di nuvole che pascolavano in qua e là sotto lo sguardo di un sole tiepido che vigilava all'orizzonte. Giunta innanzi alla tomba di suo suocero Caterina posò i fiori e rimase in silenzio per qualche minuto. Poi iniziò a parlare sottovoce: “Sono venuta qua per chiederti scusa. Di preciso non so cosa mi è successo, ma sono stata così tanto bene che mi sembrava anche potesse essere giusto. Se uno è felice, può essere sbagliato? Il problema stava nel fatto che non ero affatto felice, mi sembrava soltanto di esserlo. Capisco che può sembrare poco coerente come ragionamento, ma è cosi”. Caterina inspirò profondamente poi terminò il discorso: “Ora io vorrei farti una promessa, ma non posso farlo, cioè, ero venuta fin qua per farla ma poi mi sono resa conto dell'assurdità della cosa e ho deciso di rinunciarvi. Volevo prometterti che non avrei più fatto soffrire Lorenzo. Ma non posso giurare riguardo al futuro, nessuno lo può fare. Proverò ad essere più vera, questo sì, voglio farlo. Adesso devo andare, torno presto, ciao…”

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Vestita di nero, la gonna sotto le ginocchia che fasciava i glutei e una camicetta di seta con il primo bottone slacciato a scoprire il collo da cerbiatta. Caterina era bellissima. Giunse una folata di vento ad accarezzarle la fronte. D’istinto si voltò verso la tomba e sorrise. Fosse stata ripresa da un regista famoso la scena sarebbe appartenuta ad un film d’altri tempi.

Quella sera, un mogio Lorenzo passò da San Zaccaria per raccogliere due amici altrettanto incupiti. Il viaggio in macchina fino a casa di Stagno vide regnare un silenzio insistito, ognuno perso nei propri pensieri. Stagno li accolse con il suo sorriso migliore, stappò la prima bottiglia e disse: “Vedo che il vostro umore è nero ma non vi permetterò di rovinarmi la serata con i vostri cazzi, perciò bevete!” Notte di collina. Una lampada a petrolio a luce fioca illuminava una tavola attorno alla quale si era appena finito di cenare. Il nero buio tutto intorno. Stagno, don Diego, Tommaso e Lorenzo. “Ho letto il tuo ultimo romanzo, Gigante...” esordì Stagno dopo cena rivolgendosi a Lorenzo, “...l’ho trovato molto bello, anche se, leggendolo, ci ho trovato scritte parecchie minchiate.” E tutti finalmente risero di gusto. Allora Clara, che era passata di lì per vedere se avevano bisogno di qualcosa, domandò a Stagno: “Ma voi fate sempre così?” A Stagno brillarono gli occhietti luciferini. “Anche peggio. Ne abbiamo combinate di tutti i colori insieme ed è per questo che siamo così uniti. Siamo quattro rami dello stesso albero... Ascolta questa: sapevi che io e Tommaso siamo perfino stati una notte in galera?” Clara comprese che Stagno non stava scherzando. “Cosa avevate fatto?” Stagno raccontò l'episodio:

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“Avevamo quindici anni. Una sera d'estate un gruppetto di una ventina di teste matte si mise in testa la grande idea di fare un gioco pericoloso: lanciarsi a canna di fucile lungo il molo di Cesenatico per poi scendere dalla bicicletta il più vicino possibile alla scogliera. Ovviamente con le bici in acqua. Vinceva il più ardito. Quello che saltava di sella all'ultimo metro. Già questa cosa non sapeva tanto di legalità ma il reato vero e proprio stava nel furto. Sì, perché, sai, nessuno voleva immolare il proprio velocipede e così c'era stata una razzia generale di due ruote a pedali in tutto il circondario. Io e il Rosso, che sarebbe lui...” disse con tono di voce marziale indicando Tommaso a Clara, “...ci eravamo uniti alla festa. Devi sapere che il Rosso era una testa matta di quelle vere, non guardarlo oggi, questa è la sua controfigura...” Stagno si alzò, fece il giro del tavolo e appoggiò le mani sulle spalle di Tommaso stringendogliele delicatamente. “...il Rosso era il nostro intrepido capo e, nell’occasione, non aveva certo da imparare come scendere da una bicicletta in corsa... Ma questa è un’altra storia. Torniamo a noi. Siamo lì che ci divertiamo la faccia quando, nel più bello, fatalmente nel mezzo della festa giunsero i tutori dell'ordine. Nel fuggi, fuggi io, Tommy e altri due coglioni ci nascondemmo sopra una cabina”. “E vi hanno tanato” aggiunse Clara divertita. “Già...” continuò il racconto Tommaso, “...ci portarono in guardiola e Stagno, da par suo, non smise un secondo di dir cazzate spaventando gli altri due. Che ci avrebbero picchiato, che nel carcere minorile si entrava ragazzi e si usciva femminucce e così via”. Tommaso fece una pausa per cercare in un cenno la complicità nello sguardo di Stagno, poi continuò: “I due si misero a piangere come babbei e noi due invece a ridere come pazzi. Quando al mattino giunse il capitano dei carabinieri per darci una bella tirata d'orecchi e poi lasciarci andare scortati dai nostri genitori non sapeva se fare il serio o cacciarsi a ridere”. Seguirono altri racconti della loro epopea. Altri racconti, altro vino, altre risate. Dopo un pò Clara augurò loro la buona notte e si avviò verso casa.

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Diego la osservò scomparire nel vialetto buio. “È una brava donna. Sono contento che infine hai trovato una compagna che oltre a sopportarti pare anche abbia rispetto della tua follia”. Stagno sorrise. “È una bella persona. Sai Lonny chi mi ricorda?” aggiunse Diego. “Chi?” chiese incuriosito il gigante. “Tua nonna Dorotea” rispose il prete. Poi continuò: “Ve la ricordate la vecchia pazza? Quella volta che ci mise tutti a culo nudo e ci scattò una fotografia che poi mandò a tutte le sue amiche per Natale?” Si misero a ridere poi Tommaso prese la parola: “Io, la Tea, me la ricordo come se fosse adesso. Era una vecchia matta ma ci ha fatto divertire. Il ricordo più bello che ho, è legato a quei pomeriggi che ci travestiva da personaggi di opere famose, metteva sul giradischi la Tosca o l’Aida e poi ci dirigeva facendoci recitare quei personaggi”. “Per non parlare...” aggiunse Lorenzo, “...della sua torta di Ribes. Chi ne ha più mangiato una simile. Ma perché dici che Clara te la ricorda?” Diego guardò gli amici con quella piega del sorriso da prete comunista. “È per via dei suoi occhi. Sono buoni, gentili e sembra capace di quella dote tutta femminile ormai sempre più rara: la capacità di dare amore senza chiedere di essere ricambiati”. Stagno fu molto colpito dall’osservazione dell’amico. “Sai pretonzolo, le hai fatto un gran bel complimento e, tra l’altro, credo perfino che sei nel vero ma, adesso basta con le chiacchiere” Stagno si mise in piedi, afferrò due bottiglie di vino e disse: “Adesso seguitemi che vi devo far vedere una cosetta”. I tre amici lo seguirono dietro casa fin dentro al capannone. Entrati nel capanno, Stagno accese le luci e fu sorpresa generale. Un mini palco perfettamente allestito ospitava una batteria, la tastiera, altoparlanti, luci, microfoni e quanto serviva. Mancava solo il pubblico che non ci sarebbe stato.

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Quasi senza dire nulla i quattro amici si diressero ognuno alla propria postazione e ad un cenno impercettibile di Zorro cominciarono a suonare. Ebbe cosĂŹ inizio l'ultimo concerto dei The Inattentive Colored.

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Otto Il giorno dopo, Lorenzo si alzò svogliatamente, scese le scale e si mise a spiare di nascosto il mare dalla finestra. Suo nonno aveva investito i risparmi di una vita per comperare quella casetta ma non aveva fatto in tempo a godersela. In compenso, Lorenzo e i suoi amici ne avevano goduto a piene mani. Per tutti gli anni ottanta avevano bivaccato lì dentro nei mesi estivi. Erano stati giorni fantastici. Lorenzo fece prendere aria alla casa aprendo le finestre. Era ancora arredata con la mobilia acquistata dai suoi genitori, abbastanza moderna per l'epoca e adatta ad un ambiente vacanziero. Nel tempo lui e la sorella avevano apportato piccole modifiche come la pavimentazione esterna o il rifacimento dei servizi igienici ma per il resto si erano limitati alla normale piccola manutenzione. Da diversi anni oramai la casa veniva utilizzata solo il mese di agosto quando sua sorella Francesca prendeva le ferie e si trasferiva lì da Torino dove viveva da molti anni. Lui e Caterina ci andavano forse due o tre fine settimana nell'arco dell'anno. Per fortuna quell’estate ci era andato ad abitare Simone e la casa aveva un che di vissuto che la rendeva meno triste. A Cesenatico Lorenzo si concesse lunghe camminate sul bagnasciuga. In una di quelle occasioni si sedette sopra un grosso tronco spiaggiato, lo sguardo perso in lontananza. Il cielo pareva rubato ad una tavolozza. Si specchiava lucido e sottile nel mare mentre l'acqua giocava a rincorrersi contro la sabbia della battigia. Dopo un pò cominciò a parlare con suo padre. “Ciao Papà. Sai, volevo dirti che ho capito. Ci ho messo un po' ma ho capito. Mi dispiace e nello stesso tempo ne sono contento. Buffo no?” Immaginò che il padre gli sorridesse con quella piega delle labbra che tanto aveva amato. Corrispose con un sorriso tirato. Davanti a sè quella grande distesa in perenne movimento che cullava il flusso dei pensieri... Lorenzo continuò:

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“In definitiva mi sono ritrovato questa vita qua. Non è un granché, lo riconosco, non è quello che sognavo da bambino, per la verità molto spesso assomiglia a un incubo. Il fatto è che ho provato, voglio dire, a realizzare il sogno. O forse no. In effetti su questo punto non ho le idee molto chiare. Probabilmente non ci ho creduto abbastanza e mi sono lasciato abbattere ai primi ostacoli, non so”. Fece una pausa, forse in attesa del fluire dei pensieri che nel corso degli anni si era aggrovigliato all’inverosimile. “La verità è che sono debole di carattere e ho lasciato per troppo tempo che gli altri mi condizionassero le scelte ed ora è troppo tardi. In effetti si è fatto tardi in tutti i sensi. Sì, lo so, lo so Papà, è la vita... Solo che io vorrei tanto averla, una vita. Chissà se è chiedere troppo”. Lorenzo miscelò i suoi occhi chiari nel verde azzurro del mare. Uno sbuffo di vento gli fece giungere all’orecchio come una voce. Sapeva bene che era impossibile, eppure era certo di avere sentito suo padre che gli diceva: “Ricordati di Duke...” Lorenzo si alzò in piedi e, incurante dell’eventuale presenza di qualche testimone curioso, gridò con tutta la voce che aveva in corpo: “Ricordati di Duke? Che significa?” Tornato a casa si diresse in cucina. Nel cassetto della credenza, in mezzo a tante cianfrusaglie c’era una foto di suo nonno Viscardo in compagnia del suo fedele Duke. Lorenzo prese la foto sedendosi su una poltroncina.

Viscardo, il marito della nonna Dorotea, collezionava dischi, francobolli, monete, poster e quant’altro. Inoltre, nonostante facesse un lavoro artigianale era un uomo di cultura, leggeva molto e adorava la Beat Generation con tutto ciò che ne poteva conseguire: Beatles, amore universale, arte, libertà, Cannabis... Viscardo adorava suo nipote Lorenzo e quei ragazzini suoi amici. Li faceva scorrazzare nella sua casa adibita a mausoleo divertendosi con loro. Era

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anche fanatico della fotografia. Lui e la moglie si divertivano a metterli in posa con espressioni buffe e giocose. Un’altra passione di Viscardo era Duke, il pastore scozzese che aveva comprato quando era nata sua nipote Francesca. Tra lui e quella palla di pelo era subito scattata una sintonia speciale. L’amore per quella bestiola l’aveva poi trasmesso ai suoi nipoti. Quando nel dicembre del settantatré Viscardo morì, Duke entrò in uno stato d’animo molto prossimo alla depressione. Lo stava ad aspettare tutto il giorno vicino al cancello e non c’era modo di farlo spostare. Ma Viscardo non sarebbe più tornato per l’ora di cena... Nessuno si stupì del fatto che dopo pochi mesi anche Duke si spense. Dorotea diceva a tutti che aveva voluto raggiungere il suo padrone. Per Lonny la morte di Duke fu molto dolorosa. Per tutta la vita non volle più avere a che fare con un cane. Lorenzo fece per riporre nel cassetto la foto quando ne vide un’altra. L’aveva scattata suo nonno quel giorno che Duke aveva fatto le bizze.

L’estate non era soltanto una stagione torrida e luminosa. Era anche un mondo popolato di sorrisi e fantasia, di giochi e di racconti, di quelli che negli anni attraversano il silenzio. Quel giorno Ghigo, Lonny, Asso e Muriega erano andati a trovare il nonno di Lorenzo nella bottega da falegname che stava sotto il ponte di San Martino. “Nonno, raccontaci di quella volta che arrivarono gli inglesi”. “Si, dai, Viscardo, dicci di quando ti regalarono la cioccolata e le sigarette”. Viscardo non ebbe il tempo di incominciare, perché sopraggiunsero il Gatto e Civetta tutti trafelati. Aprirono la porta della bottega ed iniziarono ad urlare come matti: “Duke è scappato! E’ sopra la collina e non ne vuol sapere di tornare giù. Noi e la Tea ci stiamo provando da più di un’ora! Venite a darci una mano”.

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Duke era un vecchio Collie molto malandato, mansueto e docile. Chissà perché però, quel giorno gli aveva preso il matto, attirato forse da un odore o chissà che altro, scappò dal cortile piantandosi in cima alla collina del pungitopo. Come un sacco pieno di pietre sostava sul sentiero e non c’era modo di smuoverlo. Ci provarono in dieci ma, tira tu che tiro io, non riuscivano a venirne a capo. Soluzione? Con la fedele reflex al collo giunse di lontano il buon Viscardo spingendo una carriola. Sollevarono la bestia maldisposta a quello strano tipo di vettura e gliela collocarono sopra, poi tra un coro di risate e di sghignazzi, l’accompagnarono alla sua abituale dimora. Il tempo per uno scatto non poteva certo mancare a immortalare quella piccola avventura.

Lorenzo sentì il bisogno di celebrare quel ricordo. Salì in camera da letto, imbracciò la sua chitarra storica, una Ibanez acustica e si mise a suonarla. Prima della serata precedente trascorsa a suonare in compagnia dei vecchi amici, era rimasta in naftalina per anni. Chiusa nella sua custodia riposava sopra un armadio. Su richiesta di Stagno, l’aveva riesumata salendo su una sedia e appoggiandola sul letto. Aprendo la custodia aveva percepito come la sensazione di averla appena riposta. Gli strumenti musicali hanno un'anima, questo Lorenzo non poteva scordarlo. Era anche consapevole che quell’anima era nutrita dalle emozioni di chi li suonava. A undici anni aveva preso in mano un trentatrè giri in vinile. L'aveva appoggiato su un piatto accompagnando la puntina sul primo solco. Le casse dello stereo avevano inizialmente gracchiato e poi emesso un suono. Una musica veloce, allegra e orecchiabile: il disco Rosso dei Beatles. Da quell’istante la vita del giovane Lorenzo era cambiata. Se si fosse stato in campo religioso, si sarebbe detto che in quel momento aveva visto la luce.

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Abbracciò la chitarra, gli diede una rapida accordata e cominciò a suonarla. Farlo e precipitare nei ricordi fu tutt'uno.

Cesenatico, luglio ‘86. “Lonny, Lonny, cazzo fai, non sei ancora pronto?” la voce di Ghigo graffiante e roca lo stava richiamando alla realtà. Quando Lorenzo scriveva una canzone si isolava dal resto del mondo e poteva crollargli la casa sulla testa che non se ne sarebbe accorto. “Eh? Sì, sì, arrivo, arrivo”. Nella saletta c'erano tutti gli altri. Provarono gli attacchi e poi si avviarono. Avevano già suonato qua e là, ma quella sera iniziava la loro avventura al Cerchio Rosso, un locale di tendenza in quella città balneare. Il loro primo contratto: duecentomila lire e tutta la birra che potevano ingurgitare. La prima serata andò alla grande e anche le successive tanto che sul finire di quella estate i The Inattentive Colored avevano già una nutrita schiera di appassionati che non mancavano mai alle loro esibizioni. Fu un periodo magico. Le ragazze facevano a gara per uscire con loro. Ghigo e Zorro non si tiravano mai indietro, al motto di ogni lasciata è persa accumularono una discreta esperienza. Tommaso era più selettivo. Sceglieva con cura tra le più carine e tra queste prediligeva le meno sciocche. Stagno aveva una ragazza già da tempo e pareva non essere interessato a quelle fanatiche mentre Lorenzo, che tendeva a innamorarsi sempre delle ragazze che non se lo filavano, ebbe solo un paio di storielle che durarono giusto qualche settimana. Ultimamente se la faceva con una ragazza carina con due tette enormi. L'ultimo concerto in programma al Cerchio Rosso si tenne a metà settembre e terminò con una super bevuta collettiva della Band. Girarono tutti i bar di Cesenatico fino al mattino. Verso le sei, Lorenzo, ubriaco fradicio, si addormentò sopra una panchina. Si risvegliò tutto intorpidito. Guardandosi intorno immaginò che quei

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ragazzi lo avessero portato di peso fino alla casetta sul mare. Avvertiva un forte cerchio alla testa. Si voltò per guardare che ora era nell’orologio dal cinturino rosso lasciato sul comodino e si accorse in quel modo della ragazza completamente nuda che dormiva al suo fianco. Scoprì poi che si era intrufolata in casa insieme agli altri e che, nottetempo aveva approfittato di lui senza che ne possedesse il minimo ricordo. Quella ragazza si chiamava Caterina... Il flusso dei ricordi venne interrotto da un rumore alle sue spalle. “Da quanto tempo sei qui?” gli chiese la voce di donna. “Da sempre…” rispose lui. Caterina comprese. Si avvicinò, gli accarezzò la guancia e poi si baciarono. Fecero l'amore. Da una vita non si sentivano così. Mentre Lorenzo si muoveva lentamente dentro di lei Caterina gli sussurrò: “Mi dispiace...” Lui disse solamente: “Abbiamo ancora solo poche ore di luce, non sprechiamole”. Lei gli sorrise, avvinghiò le gambe a quelle del marito e mentre faceva roteare ritmicamente il bacino si lasciò andare al piacere. Dopo aver fatto l’amore si assopirono abbracciati l’uno all’altra.

Avevano fatto l’amore poi si erano assopiti. Clara dormiva, la testa appoggiata sul petto del suo uomo che ne controllava il respiro. Stagno era rimasto immobile per non svegliarla. Nel primo periodo della loro relazione Stagno si era chiesto cosa provava per quella donna. La risposta non era stata entusiasmante. Clara era una bella donna, disinibita a letto, semplice nello stile di vita, disponibile e servizievole. Quasi il ritratto ideale della donna schiava. Una che non si lamenta mai, disponibile sotto le lenzuola e pronta a levarsi di torno quando non è richiesta la sua presenza.

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Poi, un poco alla volta, qualcosa era cambiato. Negli ultimi tempi adorava indugiare dentro di lei senza muoversi, respirando la fragranza della pelle, sfiorandole lentamente le curve dolci e ascoltando il suono del respiro, rapito dalla magia di quegli istanti rubati alla notte della vita. In quei momenti provava sensazioni per lui nuove. In realtà erano emozioni che aveva già avvertito, ma mai con una donna. Non era semplicemente sesso, anche se in effetti lo era e non era neppure poesia, quantomeno non nel senso con il quale veniva intesa comunemente. Quell’abbraccio, quel rimescolarsi di due essenze vitali, rasentava la perfezione ed era molto simile a ciò che aveva provato da bambino quando si era riconosciuto negli elementi della natura. In effetti stava iniziando ad ammettere a sè stesso che quello che provava per quella donna minuta, dalle proporzioni divine e la pelle di seta si poteva esprimere compiutamente soltanto con una parola. Stagno scivolò con la mano sulla fronte di Clara. Con un dito le disegnò le sopracciglia poi l’ovale del viso. La donna socchiuse gli occhi e gli sorrise. Stagno ricambiò il sorriso poi disse: “Ciao... Mi sono dimenticato di dirti una cosa importante. Però devi promettermi che non te la prenderai, per lo meno non troppo...” Clara si mise seduta sul bordo del letto. Un presentimento la fece rabbuiare. Si disse tra sè: “No, ti prego. Non adesso che abbiamo appena fatto l’amore. Non ora che stavo provando l’illusione di essere amata...” ma replicò con voce appena tremante: “Dimmi pure...” Stagno mostrò una espressione seria, quasi severa. “Non so come dirlo, non l’ho fatto apposta, lo giuro”. Stagno fece una pausa poi continuò: “È capitato, tutto qua...” “Tutto qua cosa?” chiese Clara mentre la sua voce non poteva nascondere un accenno di nervosismo.

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Stagno prima la guardò intensamente poi disse: “Ecco, in pratica, credo di essermi innamorato...” una piccola pausa precedette la rivelazione, “...di te”. Poi senza darle il tempo di replicare la prese tra le braccia, la distese sul letto ed entrò dentro di lei. Guardandola negli occhi con una intensità che mai lei aveva sperato di vedere nel suo sguardo, si mosse lentamente roteando il bacino. In prossimità del piacere, il folle sulla collina disse finalmente le due parole che la donna attendeva di ascoltare da molto tempo.

La prima volta che Stagno aveva fatto l’amore era avvenuta con una tipa tutta labbra e lingua che lo aveva quasi violentato per terra nel corridoio dietro al palco dove aveva appena terminato di suonare con la Band. Ricordava, spesso con orrore, il corpo di quella femmina che lo cavalcava con ritmo parossistico. Il seno traballante, il viso trasformato in una maschera che non aveva nulla di erotica lussuria, piuttosto ricordava la smorfia che facevano i cani quando coprivano una cagna. Ad un certo punto Stagno si era cacciato a ridere e l’aveva scostata con mala grazia. Con gli amici ci aveva poi scherzato sù... Probabilmente fu anche per quel motivo che accettò la corte di Tiziana. Almeno lei sapeva muoversi più in sintonia con le sue esigenze. Aveva comunque dovuto attendere di compiere quasi cinquantanni prima di riuscire a provare il piacere che solo una perfetta sintonia tra due corpi può suscitare. Il flusso di quei pensieri venne interrotto da una telefonata. “Ciao Zorro, pretonzolo del Kaiser, come stai?” Zorro stava bene, era don Diego che aveva bisogno di parlare. Si accordarono per vedersi subito dopo pranzo. Un prete che chiedeva consigli a un senzadio... Non a un senzadio qualunque, ma ad un pittore pazzo che viveva in una catapecchia sulla dorsale appenninica. Poteva sembrare inusuale. In realtà,

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da sempre, Diego si confrontava con l’amico di cui apprezzava sia la saggezza spicciola che le capacità visionarie. Dopo aver ascoltato lo sfogo dell’amico, Stagno si lanciò in un concetto pseudo filosofico: “Vedi caro mio, la faccenda è molto semplice: i preti non possono scopare perché non possono sposarsi e non possono sposarsi perché altrimenti diverrebbero consapevoli dell’inganno!” “E questo cosa c’entra?” chiese don Diego, “...poi di quale fantomatico inganno vai cianciando?” “Ma quello di Dio padre amorevole! Quale se no?” rispose Stagno per poi continuare: “...ti rendi conto che secondo la dottrina cristiana Dio ci ama tutti come fossimo suoi figli? Ora, stando ai fatti, quelli che noi possiamo accertare, non mi pare sia così, direi piuttosto che è vero il contrario. Mi spiego meglio: tu hai mai visto Dio? No! È certo che no… Né tu, né nessun altro al mondo! Se permetti e perdonami la banalità, perché si dovrebbe credere in un qualcosa che nessuno ha mai visto? Ci viene spiegato che questo avviene per amore. Per infinito amore. Sì, dato che ci ama così tanto, ci ha voluto rendere liberi dall’obbligo di credere in lui… Certo, se Dio esistesse veramente e si facesse vedere, tutti ci crederebbero… Onestamente però non capisco quale sarebbe il problema, cosa ci sarebbe di male. Facciamo l’ipotesi che lui esista e che, per qualche sua eccentricità, gli piaccia davvero comportarsi in questo modo. Bene, è Dio, chi glielo può impedire. Ok, faccia pure, ma non venirmi a raccontare che si comporta come un padre affettuoso. Io non gioco a nascondino con i miei figli. Nessuno lo fa. Se sento uno dei miei ragazzi gridare il suo dolore, io corro, mi precipito a consolarlo. Così fa un padre. È vero, tra gli uomini ci sono esseri più vicini alle bestie che fanno nefandezze anche sui propri figli, ma non mi risulta che pretendano di essere considerati Dio.

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E qui, caro mio, vengo al punto. Perché un prete non può avere figli? Perché comprenderebbe che la faccenda del Dio padre non regge, quindi è un inganno. Un prete che vede l’inganno nella dottrina della chiesa, non porta acqua al grande mulino di san Pietro…” “Ti sfugge un particolare...” si premurò di sottolineare don Diego dopo aver ascoltato il monologo dell’amico, “...quando invochi Dio e non senti la sua risposta non è lui che non risponde, sei tu che non la senti…” “Vabbè, allora sei proprio senza speranza… Ok, vorrà dire che sono sordo e perfino cieco ma, dato che tu, a quanto pare invece ci vedi benissimo, vedi di andare a fan culo, prete del cazzo che non sei altro!” Poi Stagno prese Diego sotto braccio e s’incamminarono nei campi. “C’è da dire che quello stronzo del tuo vescovo ha ragione a temere le donne, guarda come mi hanno ridotto…” un breve sorriso anticipò la conclusione dell’amico pittore, “...però io, se fossi in te non gliela darei vinta. Sulla libertà non ti devo insegnare nulla. Chiunque intende limitare la libertà di un altro, soprattutto quando non ce n’è motivo, ubbidienza sacerdotale o meno, non vale il tuo rispetto…”

Don Diego fece ritorno a San Zaccaria giusto in tempo per dire messa poi, dopo pranzo si chiuse nel suo ufficio. Davanti al pc esplorava su internet la possibilità di rendersi utile in una missione in Bangladesh diretta da don Roberto, un suo compagno di seminario. Squillò il telefono. “Pronto?” fece con voce distratta. “Pronto, sono don Arrigo Severi, cercavo don Diego…” “E l’ha trovato…” Don Diego, facendo un salto a ritroso nel tempo, aveva risposto con la voce di Zorro. Le leggende si trascinano negli anni e quella del lumacone di don Arrigo non era neanche tanto una leggenda. Il vecchio prete chiese di incontrarsi con don Diego a quattr’occhi. Avrebbe dovuto parlargli di Tommaso.

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Incuriosito don Diego fissò subito un incontro. “Devo venire in città più tardi. Va bene se passo di lì verso le cinque?” Verso le cinque del pomeriggio don Diego bussava alla porta della camera di don Arrigo. Quando varcò la soglia si sorprese di trovare nella stanza anche una sua vecchia conoscenza: il famigerato Professor Sottana. Don Arrigo fece le presentazioni poi, fatto accomodare il nuovo venuto in una sedia pressoché incastonata in una nicchia formata da pile di libri, gli spiegò il motivo di quell'incontro. Alla fine della narrazione don Diego non sapeva proprio che dire. Volevano da lui un consiglio su come comportarsi. “Io credo ci siano poche alternative...” esordì, “...a mio parere urge un chiarimento diretto, anche perché la salute di Tommaso è precaria”. Spiegò loro come stavano le cose. Scorgendo la commozione nel volto di Luigi don Diego si persuase a farlo incontrare con Tommaso. “Combinerò io l'incontro con Tommaso. Domani mattina può andare?” Si accordarono per trovarsi tutti a San Zaccaria in prossimità del mulino dove c'era un osteria. Tornando verso casa don Diego si chiedeva come avrebbe reagito il suo amico a quella notizia.

Luigi rimase a lungo in silenzio. Don Arrigo lo consolava con lo sguardo. “È già grave sapere di un figlio che per cinquant'anni ho ignorato di avere. Venire ora a conoscenza che sta per morire mi è insopportabile” Luigi prese un respiro profondo poi continuò: “Tu, Arrigo, lo sai, non ho mai avuto pulsioni paterne ne ho mai desiderato tramandare la mia progenie”. Strinse gli occhi. La voce ebbe come un’esitazione. “Sono stato un egoista tutta la vita. Eppure, da quando mi hai rivelato questa vicenda, ho cominciato ad avvertire sensazioni a me sconosciute. Il

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desiderio di conoscerlo, di parlargli, di avere la possibilità di instaurare un rapporto, forzato, difficile, questo è ovvio. Ma avrei voluto provarci…” Quel pomeriggio, Tommaso era stato a giocare a carte con Stagno, Vincenzo, Dino e Simone. Avevano trascorso due orette spensierate e ridanciane grazie alle stupidaggini che Stagno scientemente sparava ogni due per tre e alla freschezza dei ragazzi. Il folle sulla collina, da quando entrambi i suoi ragazzi erano tornati a vivere con lui, appariva molto più sereno. Simone era tornato a Cesena per stare un pò con suo padre e, avendo fatto amicizia con Vincenzo, era ospite a casa di Stagno. I quattro erano poi saliti sulla corriera facendo ritorno in città e Tommaso, dopo averli salutati, era rientrato a Liberi Tutti. Seduto sulla panchina, dietro il grande platano, Diego lo stava aspettando. “Ciao cosa fai?” “Aspettavo te, siediti.” don Diego iniziò a parlare. Era stato don Sergio, anni prima, ad insegnargli: “Quando non sai come dire le cose, non ci pensare troppo e racconta i fatti per quello che sono. Alla verità, per quanto amara e dolorosa, siamo già preparati, sono le falsità che ci spiazzano facendoci soffrire”. Così Diego disse a Tommaso ciò che sapeva. Il cielo era macchiato dal viola rossastro del tramonto. Sul volto di Tommaso apparvero strisce colorate come quella volta che giocarono agli indiani. Ma la sua espressione era diversa. Diego non riusciva a decifrarla. “Ho combinato un incontro per domani, se vuoi posso prendere tempo”. “No, va bene così...” poi aggiunse amaramente: “...non è che ho tante possibilità di giocare con il tempo…” Don Diego fece per alzarsi. Tommaso lo guardò e sorridendogli disse: “Grazie di tutto Zorro”.

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“È stato un piacere Rosso” e gli fece l’occhiolino. Mentre don Diego rientrava in casa, Tommaso rimase un po' seduto sulla panchina. Un pensiero lo fece sorridere. Zorro, Rosso… A volte bastava poco per sentirsi ancora bambini pronti a lanciarsi in una corsa sfrenata in un campo di grano.

Mantova era una città che si paventava agli occhi come un tuffo al cuore, almeno per chi aveva un ricordo da cancellare o un rimpianto da nascondere. Uscendo a piedi dalla stazione, tirandosi dietro la valigia, Alice riconobbe quegli odori, la parlata, il cielo satinato dalla nebbiolina persistente e fu costetta a riordinare i pensieri confusi che da tempo albergavano dentro di lei. Giunta a casa, trovò suo padre seduto in cucina che leggeva il giornale. “Ciao Babbo, Simo dov’è?” L'uomo alzò lo sguardo, sollevò gli occhiali da presbite e gli disse: “Non ti ha detto niente?” “No” replicò Alice avendo però un presentimento. “È partito questa mattina con il treno delle dieci. Andava a Cesena per fare un saluto a Tommaso”. Quel Tommaso buttato là come se fosse uno di casa, come se avesse fatto la normale trafila dei fidanzati e dei mariti: cene, pranzi, feste di Natale, riunioni familiari di vario tipo, dai battesimi ai funerali. Alice si sentì frustrata. Come al solito cominciò ad urlare proprio contro la persona che più di tutti sentiva di amare. Gli rinfacciò alla rinfusa tutte le mancanze, tutte le speranze, le tristezze, le gelosie, le invidie. Demetrio ascoltò in silenzio poi, quando il nervoso si trasformò in uno scoppio di pianto, si alzò, prese la figlia tra le braccia e la strinse forte.

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“Sono stata la tua più grande delusione, vero Papà?” La voce le era fuoriuscita sottile e semi interrotta. “No, sei stata semplicemente la mia bambina...” poi la bacio sulla fronte, “...ci facciamo un bel caffè?” Alice lo guardò facendo sì con la testa. Vide quell'uomo dolce e paziente che svitava la caffettiera e la preparava per il fornello. I suoi gesti silenziosi erano amorevoli. Gli andò vicino abbracciandolo da dietro le spalle. “Scusami tanto Papà, sono stata cattiva ma non volevo esserlo. È che io...” “Lo so, credi che non lo sappia? A volte la vita si diverte a girarci intorno senza mai farsi afferrare” fece una pausa. Il suo respiro in affanno lo costrinse ad attendere qualche istante prima di continuare. Quante sigarette e per quanti anni? “Maledetto vizio...” Quindi aggiunse: “Volevo dirti questo: Simone non vuole fare un torto a te, sente solo il dovere di stare vicino a un uomo che sta per morire. Senza contare che è suo padre, senza contare che si piacciono. Guardami...” con la mano le sollevò il viso, “...ascoltami bambina, è un bene che si piacciano. L'amore che si riceve nella vita non è mai abbastanza”. Mentre Alice si stringeva al padre, la caffettiera borbottava sul fornello e una lacrima le scendeva sulla guancia. Era una goccia di universo.

Diego e Tommaso giunsero all'osteria per primi. In passato il titolare avrebbe mandato via a calci nel culo qualunque prete avesse osato appoggiare le sue beate chiappe sopra una delle sue sedie. Ma l'oste era invecchiato e il suo comunismo annacquato. Senza contare che don Sergio con la sua simpatia aveva in parte

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sdoganato il mondo clericale. “Oh, santità! A cosa devo l'onore?” Certo, una presettina per il culo era il minimo che il suo codice morale gli imponesse. Don Diego non raccoglieva mai il guanto di sfida e così Oreste terminava subito la guerriglia ideologica concentrandosi sugli stomaci dei suoi avventori. “Cosa vi porto?” “Ce l’hai un po' di ciambella?” chiese Tommaso. Oreste allargò le braccia e fece la faccia offesa. “Mi prendete in giro? La migliore! È ancora quella di mia madre...” Si avvicinò chinandosi verso il tavolo, abbassò il tono della voce e disse in un sussurro con fare cospiratore: “...la vecchia ha perso qualche colpo, ma tra i fornelli è ancora la numero uno e fa novantadue anni a gennaio”. Pronunciò quelle parole con orgoglio di figlio proletario. Non avesse avuto davanti un prete, avrebbe terminato la frase con un rafforzativo colorito magari anche una bestemmia, ma si trattenne. “Bene, allora, ciambella e vino rosso in arrivo!” Poi svicolò tra i tavolini in fòrmica comprati nei primi anni settanta. I due amici si scambiarono un sorriso di complicità poi si prepararono all'attesa. Della ciambella, del vino e dei due vecchi che venivano dalla città. Tommaso controllò l'orologio poi, alzando lo sguardo, inaspettatamente si trovò davanti Simone. “Bhe, e tu che ci fai qui?” “Sono venuto a farti un saluto. Il tipo con la barba ha detto che eravate qui e vi ho raggiunto. Problemi?” Il tipo con la barba era Antonio. Don Diego lo informava sempre dei suoi spostamenti ma questa volta era risultato forse un po' inopportuno.

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“Problemi no...” replicò Tommaso, “...novità semmai. Siediti che ti anticipo qualcosa”. In poche parole gli spiegò la faccenda. Simone rimase di stucco. “Lo so, anche per me è strano...” aggiunse Tommaso con fare comprensivo, “...fino a poco tempo fa credevo di essere rimasto solo al mondo, poi sei saltato fuori te e adesso perfino il mio vero padre, che, per assurdo che possa sembrare, logica vuole sia tuo nonno…” In macchina verso San Zaccaria, due amici, un professore e un prete che avevano condiviso gran parte della loro esistenza, stavano raggiungendo il luogo dell'incontro. Luigi, il giorno prima, parlando con Teresa, sua sorella, gli aveva chiesto: “Ti sarebbe piaciuto diventare madre?” Lei aveva interrotto la preparazione dell'arrosto e gli aveva risposto: “E da dove salta fuori questo discorso?” “Così” aveva detto lui fingendo noncuranza, come se fosse una domanda buttata là, tanto per parlare. Lei lo aveva guardato bene negli occhi per sincerarsi che non avesse quella lucetta nello sguardo che indicava, a seconda dei casi, scherzo, scherno o sofismo. In quel caso le apparve solo normale curiosità, quasi fraterna, pertanto rispose. “Certo che ci ho pensato, ma per avere dei figli ci vuole un marito ed io non ho trovato un uomo che mi trasmettesse qualcosa di speciale, perché…” aggiunse punzecchiando il fratello, “…un uomo da accudire, lavare, stirare e sfamare ce l'avevo già in casa…” Luigi sorrise alla sorella. Era più intelligente di quanto aveva sempre voluto dimostrare. Non avendo trovato il fuoco dell'amore era rimasta dove preferiva stare, cioè in casa propria. “E di diventare zia?” la incalzò Luigi. “Cosa?” rispose lei, “Se aspettavo te, stavo bella fresca…” “Bene, allora...” Alfonso si avvicinò a Teresa, “…a questo punto temo che

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d’ora in poi starai più al caldo…” La macchina si fermò davanti all’osteria. Luigi e don Arrigo scendendo dall'auto videro don Diego che gli camminava incontro. “C'è un piccolo cambio di programma...” gli disse appena li raggiunse, “...si è aggiunta una terza persona”. “E chi sarebbe?” chiese Luigi. Don Diego di rimando rispose laconicamente, non senza una punta di trattenuto sarcasmo nella voce: “A quanto pare, suo nipote…” E fu un incontro memorabile. Ad un certo momento don Arrigo chiese a don Diego di fargli vedere un qualcosa di non ben precisato in canonica. Era solo un pretesto per lasciare ai tre un po’ d’intimità. I due preti si alzarono allontanandosi, lasciando seduti, tra il vino e la ciambella, tre uomini: un vecchio, un giovane e un uomo che si trovava costretto dagli eventi a ritagliarsi il duplice ruolo mai indossato prima di padre e di figlio. Luigi, invecchiando, si era appesantito, stempiato e incanutito ma i suoi occhi pece erano rimasti quelli di un tempo. Fu per lui un intimo piacere rivederli nel figlio e nel nipote. Parlarono di tutto, perfino della vita… Stavano bene insieme. Fosse stato per loro, avrebbero continuato in eterno.

Più tardi don Diego entrò in camera di don Sergio. Il vecchio respirava affannosamente. Si sorrisero. Don Diego prese una sedia e la mise vicino al letto, vi sedette prendendo nella mano l’arto grinzoso di don Bargiggia e, senza parlare, rimase a lungo in quella posizione.

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Dopo diverse notti trascorse a rimuginare, don Diego si era ormai persuaso di aver compiuto la scelta giusta. Il vescovo non avrebbe cambiato idea mai al mondo e lui non poteva accettare di finire in un paesino sperduto di poche anime a dire messe e girarsi i pollici. Sentiva di avere ancora molto da dare e intendeva farlo. Aveva già da tempo contatti con una missione in Bangladesh, si trattava solo di ottenere il permesso dal vescovo per andare là. Immaginò che pur di toglierselo dalle scatole non avrebbe esitato a concederglielo. C'era però da considerare cosa sarebbe accaduto agli ospiti di Liberi Tutti. Luisa e Kevin potevano trasferirsi in una casa famiglia vicino a Bertinoro. Era gestita da brave persone e si sarebbero trovati bene. Con i genitori di Franchino si era chiarito. Tutto dipendeva dalla volontà del nuovo parroco. Lui gli avrebbe spiegato bene la questione chiedendogli di ospitarlo durante il giorno, ma non poteva fare di più. A Laura e Antonio voleva proporre di seguirlo nella nuova avventura. Avrebbe parlato loro in giornata. Per ciò che invece riguardava Tommaso e don Sergio la questione era un altra. Motivi differenti comunque legati alle problematiche di salute, avrebbero impedito loro di andare con lui. Il prete scese in cortile, si avvicinò al grande platano e lo abbracciò. Sperava di ascoltare da quella pianta un consiglio invece sentì una voce alle sue spalle. Era Antonio. Quel non dire... Lo guardò negli occhi e in una frazione di secondo comprese. Era uno sguardo imbarazzato, latore di una notizia drammatica. Don Diego corse in camera di don Sergio. Il vecchio prete sembrava dormire. Mentre gli impartiva l'estrema unzione il volto di don Diego era rigato dalle lacrime. Il funerale di don Bargiggia vide la partecipazione di tutta San Zaccaria al gran completo.

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Vennero perfino i vecchi repubblicani mangiapreti per rendere omaggio a quel piccolo prete arguto, dalla battuta sempre pronta e la mano tesa ad accogliere il dolore di chiunque. Dopo le esequie, don Diego ebbe modo di parlare con Laura e Antonio che si resero disponibili a seguirlo nella sua nuova avventura. Poi fu la volta di Tommaso. “Stai tranquillo, troverò un luogo dove stare. Tu segui il tuo cuore e non pensare a me. Ti auguro di trovare il tuo posto nel mondo, te lo meriti”. Don Diego sorrise alle parole di Tommaso. “Per un attimo ho pensato di avere a che fare con Stagno. Hai detto una delle sue frasi universali…” “Proprio perché è una frase universale…” replicò Tommaso, “…la posso dire anch’io”. Poi i due amici si abbracciarono.

Nel pomeriggio Tommaso telefonò al Professor Sottana. “Luigi, posso parlarti a quattro occhi?” I due si diedero appuntamento a San Zaccaria nell'osteria di Oreste, quel vecchio comunista che sperava ancora nella rivoluzione proletaria. Luigi parcheggiò la sua vecchia lancia color topo e si accomodò in un tavolino in attesa di Tommaso che giunse da lì a poco. “Ciao”. “Ciao, come stai oggi?” Tommaso alzò le spalle inclinando la testa da un lato. “Il solito… Senti, Luigi, pensi di potermi aiutare a trovare un posto dove stare? Qua tra poco don Diego toglierà le tende e io non potrò rimanere”. Luigi sorrise al figlio che fino a pochi giorni prima non sapeva di avere. “Sotto casa dove abito c'è un mini appartamento completamente arredato. L'avevo preparato per mia sorella nel caso in cui avessi incontrato

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l'anima gemella. È a tua disposizione”. Tommaso ringraziò. C’era ancora un forte imbarazzo tra loro ma qualcosa cominciava a sciogliersi. “Posso farti una domanda?” “Dimmi pure”. “Che donna era mia madre?” Il Professor Sottana amava rispondere alle domande. Gli consentiva di mostrare agli astanti la sua cultura e la sua intelligenza. Ma quella domanda… Lo costrinse a compiere un balzo a ritroso di oltre cinquant'anni. Era un pomeriggio piovoso di ottobre. Per ripararsi dalla pioggia si mise sotto la pensilina della stazione trovandosi a fianco di una ragazza mora e minuta con un paio di occhi dolcissimi e soprattutto due gambe splendide solo parzialmente nascoste da uno spolverino color cammello. Vederla e volerla fu la stessa cosa. All'epoca però Luigi non aveva ancora trent'anni. Corteggiare una donna era una cosa legarsi a lei per la vita tutta un'altra. Quando Claudia cominciò a parlare di figli e matrimonio, Luigi si diede alla macchia. Solo lui in cuor suo sapeva quanto quella donna fosse stata importante. Probabilmente anche l'unico vero grande amore della sua lunga vita. “Com'era la tua mamma? Intanto era un gran bel pezzo di femmina se capisci cosa voglio dire. Non ne ho più incontrate di così belle. Un misto tra Colazione da Tiffany e Ultimo Tango a Parigi, tanto per intenderci...” Luigi amava le citazioni cinematografiche, “...poi era dolce e solare. Certo come tutte le donne sapeva diventare un arpia, ma questa è un'altra storia”. A Tommaso piacque il tono con cui Luigi parlava di Claudia. Ne fu compiaciuto. Poi gli chiese: “Dici... Dici che, sì, insomma, che gli sarei piaciuto?” Luigi guardò quell'uomo dallo sguardo triste e profondo, allungò una mano accarezzandogli il volto e disse:

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“Penso, anzi no, sono certo che sarebbe stata orgogliosa di te”. Il Professor Sottana parlò con un tono di voce inusuale per lui. Infatti era un tono paterno. Mentre Tommaso tornava a Liberi Tutti ripensava a quella carezza. L'uomo che aveva sempre considerato il proprio vero padre non lo aveva mai guardato così. D’un tratto fu pervaso da un senso di gratitudine nei confronti della vita. Era alla fine della strada, ma che emozioni proprio all'ultima curva…

La relazione tra Lorenzo e Caterina era molto migliorata. Entrambi nutrivano ancora delle perplessità, ma si erano aperti degli spiragli. Lorenzo aveva così deciso di farle un regalo. Qualcosa di speciale. Nel tardo mattino, prima di uscire di casa si rivolse a sua moglie: “Cate, sono un po’ incartato questa mattina. Verresti con me oggi pomeriggio? Devo fare un acquisto”. “Cosa devi comperare?” “Se vieni avrai la possibilità di vederlo direttamente con i tuoi occhioni”. “Uh, uh! Giochiamo a fare gli ermetico enigmatici! D’accordo uomo del mistero, sarò a casa verso le quattro. Mettiti un fazzoletto rosso attorno al collo affinché io ti possa riconoscere”. “Scema… Ciao”.

Lorenzo era in terrazza a leggere il giornale quando suonò il campanello. “Chi è?” “Casa Bond? Cercavo James!” “Scendo subito, ochetta!” Mentre guidava, Lorenzo sentiva i suoi occhi puntati su di sè, però tacque.

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Lei capiva che c’era qualcosa di speciale nell’aria, ma decise di non indagare. Lo conosceva bene, quando Lorenzo era braccato, sfuggiva. Finalmente giunsero ad un casolare in campagna. Sul cartello era scritto: Allevamento Pastori Scozzesi. “Un cane?” “Sì, ma non uno qualunque. Sto cercando Duke”. “Duke?” “Poi ti spiego”. Salutarono l’allevatore. Un ometto secco, secco, che appariva quasi disidratato come certi cibi fast moderni. Portava un caspo d’insalata biondiccia in luogo dei capelli e aveva un paio d’occhi indipendenti da rendere impossibile capire dove guardava. Parlava con Lorenzo, eppure fissava ostinatamente la ruota posteriore destra della sua macchina. Con un ampio gesto carico d’orgoglio indicò la cucciolata: cinque palle di pelo con dei ridicoli musetti a punta che sembravano le cialde dei coni gelato. Lorenzo lo vide, lo sollevò delicatamente e con altrettanta cura lo depose tra le braccia della sua donna. “Cate, ti presento Duke, Duke, ti presento Caterina...” Nuvole basse cariche di pioggia s’avvicinavano mollemente, tra poco sarebbe stato di scena un temporale. Acqua nuova sul finire della giornata. Lorenzo strinse la sua compagna e se ne andarono. Lei lo guardò intensamente, quasi fosse l’unico uomo al mondo degno di quella definizione.

Due giorni dopo, Tommaso e le sue poche cose, erano in viaggio nella macchina del Professor Sottana per quello che Tommaso aveva definito: “Il mio ultimo trasloco…” Luigi parcheggiò l’auto e aprì il portabagagli. Nel frattempo Tommaso si

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guardò intorno. “In quella casa laggiù ci abitava Galoz, vero?” Luigi guardò nella direzione che indicava la mano di Tommaso. “Sì, è quella, ma è disabitata da tempo. Il podere è coltivato dal figlio che però abita a Tipano”. Tommaso parve riflettere un poco sul da farsi. “Ti dispiace se vado a dare un'occhiata?” “Oh! Certo, ti accompagno”. I due si incamminarono. Dietro la casa di Galoz c'era un campo d'erba medica. Luigi notò l'espressione di delusione sul volto di Tommaso. “Cosa c'è che non va?” “Niente. Speravo di vedere un campo di granoturco. Sciocco vero?” Luigi comprese. “Non è per niente sciocco, solo che le cose cambiano. Il mais non va più un gran chè da queste parti”. Tommaso allargò le labbra in un sorriso dalle pieghe amare. Quando fece per tornare sui suoi passi si accorse che dietro il capanno degli attrezzi spuntava qualcosa. Era un campo di girasoli che scendeva il declivio verso la riva del fiume. Non erano stati raccolti ed ora apparivano tutti accartocciati l'uno sull'altro. “Se ci fosse Stagno penserebbe che l'anarchia va diffondendosi”. Luigi non poteva capire cosa intendesse dire Tommaso ma, guidato dal suo istinto, evitò di chiedere spiegazioni. “Vieni che voglio presentarti mia sorella Teresa, tua zia...” Lungo la strada che collegava la casa di Galoz a quella di Luigi, c'era un viottolo stretto che scendeva verso l'argine del fiume. Tommaso lo riconobbe. Quante volte si erano fiondati lungo quella discesa con le loro biciclette da cross. Ricordava quanto aveva tampinato quello che all'epoca riteneva essere suo

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padre. Desiderava quella bicicletta più di ogni altra cosa. “Che te ne fai di una cosa simile?” aveva detto più volte, “Compriamo una bicicletta da corsa con il manubrio rovesciato e le ruote grandi. Era il mio sogno da bambino”. Ma Tommaso aveva altri sogni. Lui voleva scorrazzare per i campi e sui terreni accidentati in compagnia dei suoi amici. Alla fine ebbe ragione delle resistenze genitoriali e ottenne la bicicletta desiderata: ruote basse, manubrio largo e sella lunga per facilitare le impennate. Poi nel capanno del babbo di Stagno la modificò: via i parafanghi, via la dinamo e i lumi, via i freni, via le pedivelle. Con del nastro adesivo fasciò il manubrio per aumentarne la presa. Quando quello che all’epoca riteneva essere suo padre vide il frutto di quel lavoro, si rivolse verso la moglie e disse: “Questo è il risultato del tuo modo di educare i figli. Quello lì...” intendeva proprio Tommaso, “...non conosce il significato della parola rispetto”. Poi sull'argomento evitò accuratamente di tornarci. Non capiva. Non avrebbe capito mai. Tommaso ci rimase male perché pensava di aver fatto un capolavoro. Una corsa nel saliscendi dei campi con i suoi amici servì a dimenticare l'amarezza. Quella bicicletta fu la sua compagna fedele per due anni e lo salutò esanime solo dopo averlo incoronato re del Grande Salto.

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Quasi ogni giorno la banda dei musi rossi cercava di superare un ostacolo più grande e difficile compiendo acrobazie con i loro velocipedi. Con vecchie tavole e dei barili creavano trampolini misurando la lunghezza del salto, inventavano prove di coraggio lanciandosi da terrapieni e fossi. Più profondo e largo era il fossato e maggiore risultava il divertimento. La sfida più pericolosa in assoluto era il salto del Ponte Vecchio. Negli anni settanta il fiume scorreva sul fianco sud ovest della città segnando una linea di demarcazione tra la città e la periferia. Il Ponte Vecchio, che aveva resistito ai secoli, consentiva il passaggio tra le due parti. Negli anni cinquanta avevano fornito il ponte di illuminazione elettrica nel muricciolo di protezione a valle, lasciando libero quello a monte. Fu Marino, nel settembre del ‘74, a lanciare la sfida, affrontando Tommaso in quel viottolo in discesa. “Sono pronto a dimenticare quello che mi hai fatto alla fabbrica...” disse riferendosi all'episodio avvenuto il mese prima quando Tommaso, per proteggere Lorenzo, lo aveva colpito al volto, “...ma devi accettare la sfida”. Marino propose a Tommaso di percorrere con la bicicletta il muricciolo del Ponte Vecchio. Chi percorreva più distanza sul parapetto di pietre vinceva. Solo pochi altri folli, ai loro occhi degli eroi, lo avevano fatto prima di loro. L’eventuale caduta sul lato del fiume era troppo pericolosa e sarebbe stata facilmente fatale. Ma anche non saltare dal muro in tempo avrebbe significato una collisione violenta contro il pilastro di mattoni posto al termine della discesa. Anche Marino, in fondo, non pensava di farlo veramente. Si era convinto che Tommaso non avrebbe accettato, facendo la figura del pavido e lui, Marino, sarebbe tornato agli occhi di tutti il più coraggioso, senza nemmeno dimostrare di esserlo. Ma Tommaso era l'intrepido capo dei musi rossi. Guardò Marino negli occhi poi con quel suo sorriso beffardo disse: “Va bene. Quando?”

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Il mattino dopo, alle prime luci dell'alba un gruppo nutrito di ragazzotti si era radunato al vecchio mulino in attesa della sfida del secolo. Marino fu il primo a fare il tentativo. Mentre due amici gli reggevano la bicicletta sul muricciolo, lui salì a cavalcioni e partì senza tentennamenti. A metà circa della discesa, quando la sua bicicletta aveva guadagnato una notevole velocità, scartò di lato atterrando sull'asfalto festeggiato calorosamente dai suoi sostenitori. “Adesso vediamo come te la cavi tu, Rosso” disse Marino con tono dispregiativo, sicuro della vittoria. Tommaso risalì il ponte accompagnato da Stagno e Lonny che lo aiutarono nella partenza. Poi fu solo con la sua paura e la sua decisione. Nonostante la bicicletta raggiungesse una velocità folle, Tommaso rimase freddo e percorse il muro fino alla colonna finale poi si lanciò nel vuoto. La caduta fu rovinosa. La bicicletta si accartocciò nell'atterraggio e il prode Rosso rotolò per una decina di metri prima di rialzarsi ancora intero, ma pieno di abrasioni su tutto il corpo. La sua bici da era diventata un rottame. L’atterraggio era stato carente di stile, però aveva vinto la sfida. Marino si avvicinò e gli tese la mano. “Non pensavo l'avresti fatto, sei un matto e non hai un grammo di cervello, però hai fegato da vendere”. A casa di Ghigo, Laura medicò le ferite di Tommaso. Era stata una grande vittoria che però nascondeva un prezzo amaro da pagare. Niente più bici da cross e punizione automatica per Tommaso da parte di suo padre. “Ecchissenefrega!” esclamò ridendo con gli amici. Lo disse da fresco Re del Salto.

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Tommaso guardò il suo nuovo padre. “Lo sai che sono stato un vero scavezzacollo? Non avresti dormito sonni tranquilli con me”. Luigi ricambiò il suo sguardo. “E chi ti dice che avrei desiderato dormire?”

Le valigie erano pronte. I biglietti dell'aereo nello zaino. Tra poco sarebbe passato Lorenzo con il suo pulmino e li avrebbe caricati per accompagnarli all'aeroporto. Ci sarebbero stati anche Stagno e il Rosso ad accompagnarli. Don Diego era consapevole che lui e Tommaso non si sarebbero rivisti mai più. Quell’addio era stato la sua grande remora a partire. Squillò il telefono. “Pronto?” “Diego?” era suo fratello Pietro. Viveva da quasi trent'anni a Monaco di Baviera ed era tornato a casa per visitare i suoi genitori pochissime volte e dalla morte della madre in poi non era più rientrato in Italia fino al funerale di Civetta. Non aveva avuto figli pur avendo avuto tre mogli e si era costruito una piccola fortuna nell'ambito del videonoleggio. “Allora quando parti?” “Tra un'ora circa”. “Bene, volevo salutarti. Quando sei là fammi sapere come devo fare per contattarti ok?” “Sì, certo, grazie per la telefonata”. “Ehi, io non sarò il migliore degli uomini, ma ti voglio bene fratellino”. “Anche io te ne voglio...” Poche ore dopo un volo lo avrebbe finalmente condotto lontano.

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Nove Il giorno successivo alla partenza di Diego, Tommaso, nel dormiveglia, si sorprese a pensare ad una mattina d’estate di tanti anni prima, così, dopo colazione telefonò a Lorenzo. “Ciao Lonny, sei impegnato oggi?” “Non ho niente di particolare da fare. Hai bisogno?” Tommaso attese un attimo prima di rispondere. “Hai voglia di stare un po' con me?” Lorenzo non si era mai tirato indietro per l'amico. “Ti passo a prendere e facciamo un giro”. Nell’attesa di Lorenzo, Tommaso uscì fuori sedendosi sopra una muricciolo da dove poteva vedere uno scorcio del lungo fiume. Più in là, nel campetto di calcio, dei ragazzini giocavano a pallone. Guardarli e ripensare a quell’età volata via lo fece sorridere amaramente. Lorenzo era il più timido e impacciato tra i bambini del rione mentre lui era sempre stato un capobanda. Molto probabilmente fu il motivo per cui si scelsero. Uno cercava protezione e l'altro un protetto. E fu vera amicizia. Tommaso ingannò il tempo scansionando con la mente quel periodo della sua fanciullezza quando finalmente giunse Lorenzo. “Dove vuoi andare?” “A Corto Stretto”. Corto Stretto era il nomignolo che avevano dato ai giardini pubblici sorti in luogo dei campi e di una vecchia cava d'argilla, dove avevano vissuto tutte le loro avventure da bambini. Poi il quartiere si era man mano popolato e di quel mondo che avevano vissuto erano rimaste ben poche tracce. Il nuovo parco era stato dedicato a un ragazzo morto in un incidente. Quel ragazzo non aveva mai calpestato quella terra, ma era figlio di uno del consiglio di quartiere. Considerando la dedica un sopruso, uno dei tanti, decisero di rinominarlo i

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giardini di Corto Stretto. Lo fecero ridacchiando riferendosi alla consistenza cerebrale dei nuovi abitanti. Era una battuta. Un modo per protestare contro il tempo che avanza e stravolge le cose. Non c’era perfidia semmai malinconia. Giunti a Corto Stretto Tommaso volle salire su in cima fino alla vecchia cava. Guardò qualche istante il panorama poi si rivolse all'amico. “Non so bene perché ma in questi giorni sono tornato continuamente con la mente a quando eravamo bambini. Ti ricordi l'estate del settantaquattro?” Lorenzo la ricordava bene. Era stata un annata ben incisa nella memoria. A dicembre era morto suo nonno, prima crepa nel vaso delle certezze su un mondo felice e privo di sofferenze. A giugno poi era morto Duke, il suo cane adorato. Un pastore scozzese bianco arancio con il morbido musetto a punta. L’aveva amato così tanto che dopo non seppe più affezionarsi a nessun'altro animale. C’erano voluti quarantanni prima che nel suo cuore ci fosse posto per un altro Duke. Fu l'estate dei mondiali di calcio in Germania, della caccia alla Bombice, della leggenda del lumacone di don Arrigo e della prima sigaretta fumata nel mezzo di un campo di girasoli... Ma, soprattutto, fu l'estate dell'attacco al fortino da parte degli indiani.

Accanto alla vecchia cava c'era un palazzaccio. La scala dissestata conduceva al primo piano dove gli dei del divertimento bambino avevano allestito un campo da calcio in cemento contornato da finestre con i vetri in frantumi e disseminato dalle macerie del tetto crollato. Appariva agli occhi dei ragazzini del quartiere un vero e proprio fortino. La via principale che attraversava il rione era diventata una linea di confine tra due fazioni opposte di giovani che si sfidavano in tutti i modi, dai vari tipi di tornei sportivi, fino a vere e proprie battaglie con armi più o meno improvvisate: cerbottane, fionde e bastoni. Il capobanda della fazione Lungo il Fiume si chiamava Marino. Era un

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ragazzo sui dodici anni, magro e con il volto spigoloso, la carnagione scura da tunisino e un paio di occhi neri come la pece. Tutti lo temevano nonostante non avesse mai mostrato eccessi di violenza o di arroganza. Era la sua innata aria da leader che trasudava dal suo sguardo a indurre rispetto. Il capobanda della fazione di Campo Sud si era ritirato per sopraggiunti limiti di età. Ora era sempre indaffarato a truccare la sua vespina cinquanta nel garage sotto casa. Il suo soprannome era Pablo per via di quella sua faccia da messicano. Tommaso e Stagno, i suoi due più accaniti seguaci, trascorrevano ore a guardarlo mentre smontava e rimontava il motore. Quando, nell’agosto del ‘74, giunse la sfida della banda rivale, il gruppo di Campo Sud era senza un leader. Tommaso si recò da Pablo a chiedere consigli. “Pitturatevi...” suggerì l'anziano capo, “...come facevano gli indiani, così avranno paura”. Detto fatto, nella serra del padre di Stagno trovarono l'occorrente e con le dita il gruppo di Campo Sud si pitturò il volto. Giunsero verso le cinque del pomeriggio al fortino e lo attaccarono con le cerbottane cariche di sambuco. I difensori, che avevano una età media più alta, uscirono in sortita contro i piccoli indiani che non ebbero altra alternativa che darsi alla fuga. Marino però fu abile e lesto ad afferrare Lorenzo facendolo prigioniero. Poteva Tommaso abbandonare l’amico in pericolo? Tornò indietro, caricò il pugno e lo lancio contro l'occhio destro di Marino. I due amici riuscirono così a fuggire ma, per un periodo che sembrò loro eterno, evitarono accuratamente di farsi vedere in giro da Marino il quale mostrava un occhio gonfio e bluastro.

Tommaso sorrise al ricordo. “Che giornata, eh?” “Già… Il bello fu che il colore alla nitro se ne andò dalle nostre facce

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settimane dopo. Per questo ci chiamarono a lungo i musi rossi di Campo Sud. Ed essendo tu il nostro capo diventasti per tutti il Rosso...” E il Rosso doveva parlare. Poche frasi rimuginate da tempo. “Volevo dirti alcune cose...” lo sguardo era quello di sempre, anche se, in qualche modo, più sottile e lontano. “Per prima cosa è giusto che ti dica che non sono triste, perlomeno non tanto... Quindi non devi esserlo neppure tu”. Sorrise. Uno di quei sorrisi strappati all’universo di cui solo lui era capace. “Non posso essere triste perché ho avuto tanto dalla vita. Abbiamo vissuto una infanzia incredibile e stupenda e una giovinezza quasi spudorata. Tante cose non sono andate come avremmo voluto ma tante altre sì”. Guardò Lorenzo con tenerezza. Il gigante aveva le lacrime agli occhi e lo ascoltava in silenzio, mordendosi le labbra. “Tu sei un tipo speciale, lo sei sempre stato, fin da bambino. Perennemente in un altro mondo, sfacciatamente sincero e incapace di tradire o di raccontare bugie anche quelle dette per scherzo. Per questo voglio dirti che devi essere sereno perché in realtà non me ne vado davvero dato che rimarrò sempre dentro te”. Lo sguardo si fece ancora più profondo. “Se faccio un bilancio approssimativo della mia vita, mi rendo conto che ho ricevuto tanto da questo viaggio. Tante cose stupende che ora voglio lasciare a te, perché tu me le custodisca fino a quando non tornerò a riprendermele”. Cavò dalla tasca della giacca una sigaretta e l’accese, aspirò una boccata e poi la offrì all’amico. “Dici che mi farà male alla salute?” L’ironia della voce fu seguita da una sonora risata che contagiò anche Lorenzo. Si passarono il mozzicone in silenzio per qualche minuto scambiandosi sguardi complici. Poi con tono finto scherzoso fece l’elenco: “Ti lascio la nostra amicizia, che possa esserti di sostegno nei momenti

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difficili. E, bada bene, questo è amore. Ti lascio la nostra musica perché accompagni le tue notti insonni curvo a scrivere romanzi che non sai se mai qualcuno leggerà, e anche se fa male, pure questo è amore. Ti lascio ogni temporale che sarà, perché ti faccia danzare. E soprattutto ti lascio la follia di questa cosa strana che chiamiamo vita. A te l’ingrato compito di viverla anche per me...” Lorenzo parlò. Solo poche parole: “Voglio solo dirti che per me, la tua amicizia, è stato il più grande privilegio che la vita potesse accordarmi”. Poi i due amici si abbracciarono. I giardini di Corto Stretto li osservarono camminare uno a fianco all’altro. Commossi dalla loro amicizia e forse anche memori delle loro imprese di quando erano bambini, li salutarono facendo alzare il vento. Tommaso alzò un braccio in segno di saluto poi si rivolse di nuovo a Lorenzo. “Un’altra sigaretta?” “Dici che si può?” “Fanculo...” Lorenzo ci pensò un attimo poi anche lui aggiunse: “Ma sì, fanculo...” E si misero a ridere...

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Note dell’autore. Ovviamente tutti i personaggi citati in queste pagine sono inventati di sana pianta, colpa di mio padre che oltre a farmi sentire molto amato, mi ha trasmesso un’immaginazione spervicata. Anche le situazioni che appartengono al filone narrativo sono esistite solo nella mia mente. Ammetto però che, scrivendo, avevo ben presente le facce di coloro che, nel bene e nel male, mi avevano ispirato. Le persone che nella vita mi hanno dato tanto vengono citate con affetto, quelle che mi hanno raggirato, beh, rileggendo devo dire che sono stato fin troppo generoso nei loro confronti. I battiti del cuore cui mi riferisco nella dedica sono rappresentati da tutte le persone che mi hanno amato, anche a mia insaputa e da tutte quelle che invece ho amato io, anche a loro insaputa. Camposud, la dove si alza il vento, il pozzo dello zio tornato, il bosco delle anime, la casa del colore, la testa di drago e il campo di mais del vecchio Galoz sono luoghi esistiti veramente. Ora non ci sono più così come tre dei miei amici più cari con i quali scorribandavo per quei campi. Credo che questo romanzo sia il modo più affettuoso e amorevole per ricordarli. A quei meravigliosi girasoli anarchici di Cocco, Gino e Majo. Ciao...

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Paolo Domeniconi Nato a Cesena nel 1965, si è interessato alla scrittura fin da adolescente scrivendo poesie, testi di canzoni, racconti e romanzi. Nei ritagli di vita che riesce a concedersi, continua a scribacchiare e, se trova tempo, imbratta tele con colori ad olio.


Tommaso torna in Italia dopo aver trascorso gran parte della sua esistenza in sud america dove è stato impegnato come medico volontario in centri di assistenza per indigenti. Il ritorno nel suo paese non è un semplice viaggio di piacere dato che ha da poco scoperto di essere gravemente malato. Non nutre particolari illusioni sul proprio destino, ma in qualche modo le cose non andranno esattamente come si aspetta. Riabbracciando i vecchi amici torna a ritroso nel tempo per ricordare e riscoprire sè stesso. Incontri inaspettati, piacevoli e dolorosi, gli consentono di trovare una pace interiore che non aveva neanche sperato di provare. C’è il ricordo delle corse di bambini in mezzo al grano, i profumi di un estate mai dimenticata, la forza dell’amicizia cementata da un patto solenne formulato con le gambe a penzoloni abbarbicati su un albero. E quelle ferite del cuore che, per un paradosso che la vita non potrà mai spiegare, non guariscono mai.

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