LA CASA INDIPENDENTE NEL GIAPPONE MODERNO

LA CASA INDIPENDENTE NEL GIAPPONE MODERNO 4 CASI STUDIO PER RACCONTARE L’EVOLUZIONE STORICO-ARCHITETTONICA DAL 1945 AD OGGI

ALESSANDRA OLGA FALINI

La casa indipendente nel Giappone moderno 4 casi studio per raccontare l’evoluzione storico-architettonica dal 1945 ad oggi

Politecnico di Milano Scuola di architettura urbanistica ingegneria delle costruzioni Corso di laurea in progettazione dell’architettura Anno accademico 2017/2018

Elaborato finale - sessione di laurea luglio 2018 Relatore: arch. Camillo Magni Alessandra Olga Falini_830397

Abstract Studiare le case significa indagare sulla città, sul concetto di famiglia e sugli stessi modelli architettonici: le case rappresentano in fin dei conti il modo migliore per avvicinarsi al lavoro degli architetti e al loro interscambio con la società nella quale operano.

A partire da questa considerazione, ho deciso di indagare il tema della casa nel contesto giapponese.

Il Giappone, un paese che da sempre suscita in me una grande curiosità, è una realtà per origine e tradizione, molto distante da quella occidentale; in ragione di questo, il perimetro concettuale entro il quale si colloca la tesi è permeato da acquisizioni provenienti da differenti ambiti disciplinari, che pongono le basi necessarie per una riflessione attorno al tema della residenza nello specifico contesto orientale.

Partendo da un’analisi degli eventi storici più significativi che hanno coinvolto l’istituzione della casa in Giappone a partire dalla catastrofe del 1945 e degli sconvolgimenti da questa generati, ho voluto riportare l’attenzione sulla progettazione di luoghi attenti alle necessità del singolo e rispettosi della tradizione del paese: unici elementi questi ultimi, in grado di fornire un’alternativa concreta allo scenario desolante determinato da una densità dal carattere ormai incontrollabile.

Attraverso l’analisi di quattro casi studio che rappresentano la concretizzazione del pensiero di architetti che si fanno portavoce dei valori autentici della tradizione giapponese - da me riconosciuti nella figura di Kazuo Shinohara e degli architetti membri dello studio Atelier Bow-Wow - la tesi si propone di analizzare le particolari soluzioni innovative che sono state trovate per venire incontro ai cambiamenti di stile di vita avvenuti in seguito agli importanti mutamenti susseguitisi nell’economia, nel paesaggio urbano e nella struttura familiare del Giappone, a seguito del secondo conflitto mondiale.

Abstract To study the houses means investigating the city, the concept of the family and the architectural models: the house represents the best way to get closer to the work of the architects and to their relationship with the society they work in.

From this thought came the decision to investigate the theme of the house in the Japanese background.

Japan has always been very attractive to me.

This country has very different traditions from the western ones; for this reason, in order to make easier to find out this unique background and to understand the theme of living in Japan, the thesis has been increased by contents coming from many different subjects.

Starting from the analysis of the most important historical events that involved the japanese house from 1945 world war and the problems generated from that moment, I want to bring the attention to the architectural spaces devoted to individual needs and respectful of the tradition of the country: these are the only elements able to provide a concrete alternative to the difficult situation that is the result of an increasing level of density.

Through the analysis of four cases that represent the results of the thoughts of architects who are supporting the authentic values ​​of the Japanese tradition - which I found in the figure of Kazuo Shinohara and in the architects members of the Atelier Bow-Wow studio - the thesis intends to analyze the particular and innovative solutions that have been found in Japan after the second world war to meet the lifestyle changes following major changes in the economy, in the urban landscape and in the family structure.

Indice Abstract Capitolo 1. Il significato tradizionale dell’abitare in Giappone 1.1 Introduzione al pensiero giapponese: il binomio spazio-tempo

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16

1.2 Il corpo nello spazio

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20

1.3 La casa

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28

2.1 Agosto 1945

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46

2.2 L’architettura residenziale nel dopoguerra: tra urgenza e mancanza di pianificazione

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50

2.3 Gli anni dello sperimentalismo: il movimento metabolista degli anni ‘60

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58

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86

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94

Capitolo 2. L’eredità bellica: verso una progressiva perdita della soggettività

Capitolo 3. Il recupero dell’abitazione individuale: il pensiero astratto di Kazuo Shinohara e l’importanza del contesto secondo Atelier Bow-Wow 3.1 Dall’esperienza postmetabolista alla questione della Japaneseness: la rivalutazione della tradizione

3.2 Kazuo Shinohara: la casa come opera d’arte 3.3 Atelier Bow-Wow: la casa di quarta generazione

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126

Capitolo 4. Una reinterpretazione contemporanea della tradizione giapponese 4.1 Gli elementi della tradizione in una rinnovata architettura simbolica: House in White, Kazuo Shinohara

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160

4.2 La semplicità di un’architettura essenziale in armonia con l’ambiente circostante: Tanikawa House, Kazuo Shinohara

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170

4.3 Studio + Residenza, una commistione tra funzioni: House-Atelier, Atelier Bow-Wow

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182

4.4 Dalla forma chiusa alla forma aperta, rilettura di un’antica tipologia: Split Machiya, Atelier Bow-Wow

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188

Conclusioni

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199

Bibliografia

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200

Sitografia

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201

1.

Il significato tradizionale dell’abitare in Giappone

Il Giappone è un paese per origine, storia e cultura molto distante dal nostro.

L’idea che i giapponesi hanno dello spazio ha permeato tutti i campi dell’attività umana: la pittura, la danza, la musica, la poesia, i rapporti sociali e, naturalmente, l’architettura e l’urbanistica.

Da qui la necessità di ampliare lo studio in una prospettiva globale, che verifichi tutte le possibili implicazioni all’interno di una società e non si limiti, altresì, al solo campo dell’architettura.

L’intento di questo capitolo è proprio quello di introdurre la cultura dell’abitare in Giappone, spiegando il significato intrinseco di alcuni dei suoi principi fondanti, così che risulti più semplice comprendere le scelte progettuali che hanno conseguito alcuni dei principali avvenimenti storici verificatisi in questo paese. .

1.1

Introduzione al pensiero giapponese: il binomio spazio-tempo

Lo spazio in Oriente non viene mai associato a qualcosa di fisico: addirittura lo spazio inteso come entità in Giappone non esiste.

Esso viene quindi percepito in relazione ai diversi momenti in cui ne si fa esperienza; l’osservazione dello scorrere del tempo fa così in modo che si venga a creare tra i due elementi quel legame, da sempre esistito, tanto stretto da favorire l’evolversi di una concezione pluridimensionale dell’architettura: alle tre dimensioni geometriche si aggiunge anche la dimensione temporale.

In copertina: House in Uehara, Kazuo Shinohara, 1976 A inizio paragrafo: fotogramma da Fiori d’equinozio, regia di Yasujirō Ozu, 1962. Ozu, regista i cui capolavori sono ascrivibili al periodo che va dalla fine degli anni ‘20 all’inizio degli anni ‘60 - periodo segnato dalla grande espansione immobiliare e dal passaggio alla modernità - ritrae, attraverso inquadrature fisse con un punto di vista dal basso, alcune delle caratteristiche tipiche della cultura giapponese, quali la sobrietà del mobilio e la stessa gestualità delle persone che appaiono qui inginocchiate sul tatami nel mezzo di un’amabile e composta conversazione.

Sotto e nella pagina successiva: Pine and plum by monnlight, Kaihô Yûshô

Al binomio oggetto-spazio viene associato quello di spazio-tempo che, inteso come intervallo unico, fa sì che gli spazi vengano percepiti e sperimentati di volta in volta dalla persona che li fruisce.

Questa stessa concezione “..combinante le dualità oggetto-spazio, spazio-tempo, mondo oggettivo esterno-mondo soggettivo interno, è stata alla base dell’architettura tradizionale giapponese…”1.

Forse è proprio questo aspetto che più di ogni altro ha dato avvio al diffondersi di una cultura multidimensionale che si contrappone al dualismo del pensiero occidentale, nel quale ogni cosa è divisa in categorie assolute e distinte2.

1

Gunter Nitschke, “Ma”, the Japanese Sense of “Place” in Old and New Architetcural Planning”, in Architectural Design, Marzo 1966, pg. 152 2

Kisho Kurokawa, Rediscovering Japanese Space, New York - Tokyo, 1988, pg. 55

I giapponesi risultano alquanto diffidenti nei confronti delle entità durature; al contrario essi riconoscono un grande valore alle entità effimere: i fiori che appassiscono, così come i riflessi provocati dalla luce sulla superficie dell’acqua sono in grado di suscitare forti emozioni nei loro animi.

Lo spazio stesso viene interpretato attraverso i cambiamenti del tempo dove l’unico tempo possibile è rappresentato, nella filosofia giapponese, dal tempo del presente; di conseguenza, niente ha consistenza storica, tutto si mescola in una stratificazione multipla e complessa.

Il cambiamento rappresenta la vera condizione della natura e i giapponesi hanno mantenuto nei suoi confronti, durante gli anni, una forte sensibilità: basti pensare alle grandi masse di persone che in primavera e in autunno si spostano da una parte all’altra del paese per ammirare i ciliegi sbocciare in fiore o le foglie degli aceri tingersi di rosso1.

Così lo spazio viene interpretato attraverso le modificazioni del tempo.

Il concetto di eredità, inteso come elemento responsabile di conservare e tramandare nel tempo l’originale, non fa parte della cultura giapponese poiché ciò che lo va a sostituire ha lo stesso pregnante significato simbolico.

In questa forma di pensiero si possono quindi trovare i presupposti di “una filosofia che accetta il presente come inevitabile condizione dell’esistenza. Vivere nel presente [...] e sottrarre la dimensione storico-temporale, porta all’accettazione della società nella sua forma attuale”2.

1

Si fa qui riferimento a due usanze storiche tutt’oggi ancora presenti in Giappone: la prima, la cosiddetta hanami, consiste nella contemplazione della fioritura dei sakura, uno specifico tipo di ciliegio i cui fiori sono particolarmente apprezzati dai giapponesi ; la seconda invece, il koyo, in giapponese sinonimo di autunno, indica il lento mutare del colore delle foglie di acero (altrimenti dette momiji ), che in questa delicata fase passano dal giallo oro al rosso fuoco.

2

Pierluigi Nicolin, Il tao della Sejima, in Lotus International 96, Marzo 1998, pg. 7

15 18

Per capire a fondo il concetto di spazio è però necessario comprendere la nozione stessa di bellezza, che è per i giapponesi più soggettiva che oggettiva.

La bellezza deriva infatti da ciò che è transitorio, mutevole, ciò che viene indicato dalla dottrina buddhista come mujo3.

La dottrina buddista ha una visione per così dire transitoria dell’esistenza: tutte le cose, così come gli esseri viventi, sono in un flusso costante che determina il loro divenire.

La tendenza generale in Giappone consiste in uno sviluppo dello spazio interno secondo una sua propria logica che, acquisendo sempre più una specifica autonomia rispetto all’aspetto esterno, giunge a dettare l’evoluzione globale dell’architettura4.

“Nella tradizione dell’architettura occidentale, l’edificio è in primo luogo strutturato mediante i muri e le finestre, che frappongono una cornice tra il soggetto e l’oggetto: il soggetto risulta così inevitabilmente separato dall’oggetto, mentre lo spazio diventa come un dipinto racchiuso fra una cornice - cioè un’immagine statica - rimane congelato.

Nell’architettura [...] giapponese, invece, i dispositivi di strutturazione dominanti sono i piani orizzontali: il pavimento e il soffitto.

Questo consente a soggetto e oggetto di coesistere in uno spazio continuo senza alcuna cornice che li separi”5.

3

Anitya, in giapponese appunto mujo, è un termine sanscrito indicante uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza nella dottrina canonica buddhista: l’impermanenza, il cambiamento o il divenire.

Questo, unito alla sofferenza e al non sé costituiscono il fondamento della dottrina delle Quattro Nobili Verità che è alla base della ricerca spirituale buddhista.

4

Fabrizio Fucello, Spazio e Architettura in Giappone: un’ipotesi di lettura, Prefazione di Fosco Maraini, Fiesole (Firenze), Cadmo, 1996 5

Kengo Kuma in Luigi Alini, Opere e progetti Kengo Kuma, Mondadori Electa spa, Verona, 2006, pp. 220-222 1619

1.2

Il corpo nello spazio

“Le città giapponesi sono difficili da raccontare a chi non le abbia mai visitate, Wim Wenders1 ci ha provato in due film, Tokyo-ga e Appunti di viaggio su moda e città, ed è riuscito a descriverne bene alcuni aspetti.

Quello che forse non ha saputo trasmettere alla città giapponesi è la vitalità delle persone, la vitalità umana che serpeggia per le strade.

Chissà perché gli occidentali amano rappresentare il Giappone come un immenso formicaio brulicante di ometti grigi tutti uguali [...]”2.

1

Wim Wenders (DÜsseldorf, 14 agosto 1945) è regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico, fotografo e scrittore. Palma d’oro a Cannes nel 1984, ha inoltre ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla mostra del Cinema di Venezia nel 1995.

“Tokyo-ga” è un documentario del 1985 dedicato al regista Yasujiro Ozu. Il documentario “Appunti di viaggio su moda e città” , 1989, riporta invece un’intervista con lo stilista giapponese Yamamoto con interventi parlati fuori campo del regista sulla moda intesa come strumento di comunicazione.

2

Giorgio Amitrano, Il mondo di Banana Yoshimoto, Feltrinelli, Milano, Luglio 2007, pg. 82

Nella pagina a fianco: René Magritte, Golconda, 1953 17 20

1821

L’area metropolitana di Tokyo è oggi sempre più un non-luogo1 segnato, piuttosto che dall’architettura e dalla tradizionale definizione degli spazi, dalla labirintica presenza di reti di telecomunicazioni, di energia, acqua e sistemi di trasporto diversi e interconnessi.

Il sociologo Zygmunt Bauman2 introduce il concetto di liquido, in riferimento alla città contemporanea, per indicare l’idea di uno stato della materia che non possiede una forma propria e che tende a seguire il flusso temporale delle trasformazioni3.

La modernità liquida consiste nella convinzione che il cambiamento sia l’unica cosa sicura, in quanto permanente, e che l’incertezza rappresenti la sola certezza4.

Nella cosiddetta “società fluida”, il tempo viene infatti identificato con l’istantaneità e pertanto ogni momento diventa così infinito: passato e futuro vengono privati del loro significato, poiché ciò che ha valore è unicamente il presente.

La società contemporanea sembra essere sempre più orientata verso una stato fluttuante: i caratteri della società, da solidi, stabili, reali, si trasformano in dinamici, fluidi, virtuali.

Nella fase liquido-moderna tutte le strutture sociali sono entrate in crisi e si assiste così ad una progressiva cedevolezza dei rapporti umani.

1

Marc Augè, antropologo, etnologo, filosofo e scrittore francese, identifica con il termine non-luogo gli spazi vuoti senza significato, perché in essi non si sviluppa nessuna interazione tra le persone che li abitano.

Marc Augé, Non luoghi, Ed. Eleuthera, Milano, 2005 2

Zygmunt Bauman (925 - 2017) è stato un sociologo, filosofo e accademico polacco di origini ebraiche. Dopo il ritiro dalla cattedra di Leeds, la sua notorietà accresce ancor di più a seguito dell’introduzione di un’espressione (liquido), divenuta proverbiale, con cui Bauman ha paragonato il concetto di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società.

3

Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Ed. Laterza, Bari, 2002, pg. 6

4

Ibid.

Nella pagina a fianco: fotogramma tratto dal documentario Tokyo-ga, regia di Wim Wenders, 1985. In questo scatto è raffigurata, in tutta la sua solitudine ed alienazione, la società del Giappone sul finire degli anni ‘80.

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2023

La società fluida spinge verso l’individualizzazione dei rapporti umani, lasciando al centro l’individuo, solo e accompagnato unicamente dalla sua forte instabilità: lo smarrimento è inevitabile quando spariscono vincoli e legami.

E forse, è proprio questa crescente mancanza di interrelazioni, di contatto, di legami tra gli abitanti che Wim Wenders, sul finire degli anni ‘80, ha cercato di ritrarre nei suoi documentari.

Nella pagina a fianco: fotografie tratte dalla serie Tokyo Compression, Michael Wolf, Tokyo, 2010 Wolf, fotografo tedesco nato nel 1954 che vive tra Parigi e Hong Kong, ha collezionato sotto forma di album fotografici diversi aspetti della vita quotidiana, provando a descrivere il ruolo delle persone sole, in mezzo alla massa, nell’incessante congestione che caratterizza le grandi metropoli orientali. Ciò che il fotografo si propone di fare è di indagare sugli aspetti spesso meno considerati, trascurati e ritenuti senza valore della società contemporanea.

Delle serie Tokyo density a colpirmi è soprattutto l’espressione che si legge sui volti dei pendolari pressati contro le porte della metropolitana di Tokyo: una maturata rassegnazione, come se quello che stessero vivendo non fosse altro che un’abitudine già molto radicata nelle loro vite, espressione questa, di un disagio assai più profondo.

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22 25

“Il mondo è formato da mondi più piccoli composti da gruppi umani formati nel rispetto di determinate idee. E, all’interno di questi, se ne formano altri, ancora più piccoli.

E non dimentichiamo che dentro questi piccoli mondi gli individui lavorano per essere il centro di ognuno di essi; si può quasi concludere alla fine che ciascun individuo è un mondo completo”1.

1

J. Torres Garcia, La recuperacion del Objecto, Montevideo 1965, pg. 109

23 26

Oggi la visione del mondo muta a seconda di come viene interpretato e considerato il corpo umano e tale giudizio dipende inevitabilmente dalla posizione stessa che l’individuo occupa all’interno di questo stesso mondo.

In particolare è necessario ripensare la società, e dunque anche l’architettura, con la consapevolezza che si sono raggiunti livelli di densità mai visti prima, i quali comportano spazi abitativi sempre più piccoli.

Di conseguenza le metropoli si sviluppano notevolmente e vengono attraversate da un flusso di corpi che costituisce un vero e proprio paesaggio mobile e mutevole che invade ogni luogo e che, come sottolineato da Andrea Branzi2 nell’analisi del ruolo dell’architettura nella società del XXI secolo, rappresenta ciò che realmente fa la differenza tra città e città, tra un territorio e l’altro.

Non più l’architettura o i suoi simboli formali, ma sono adesso le presenze umane viventi ed invadenti le uniche protagoniste, vere portatrici di diversità, eccezioni, informazioni culturali profonde.

Anche in ragione della sempre crescente attenzione dimostrata nei confronti dell’individuo, oggi in Giappone la cartografia così come l’architettura e l’urbanistica, tendono a rifiutare i riferimenti predeterminati, le articolazioni lineari, le prospettive d’insieme.

Alla base di ciò sta il fatto che la logica non è tanto quella dell’osservatore che visita una città, come accade invece in Occidente, quanto quella della persona che qui vi abita, ed è così che: “la città sembra in un certo qual modo ricambiare l’amore dimostrato dai suoi abitanti”3.

Nella maggior parte dei casi è infatti proprio l’ordine dell’abitante, come parte integrante di una più ampia collettività, a imporsi in Giappone.

2

Andrea Branzi (1938 - ) è un architetto e designer italiano, considerato tra i maggiori esponenti del design neomoderno. Andrea Branzi, Modernità liquida e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Ed. Skira, Milano, 2006, pp. 28-29 3

Fabrizio Fucello, Spazio e Architettura in Giappone: un’ipotesi di lettura, Prefazione di Fosco Maraini, Fiesole (Firenze), Cadmo, 1996, pg. 19 2427

1.3

La casa

“Sapevo solo che la casa, situata su un terreno di proprietà di suo zio, doveva essere demolita, e che fino ad allora lui poteva abitarci per cinquemila yen al mese, ma non mi aspettavo un edificio così incredibile”1.

Il carattere transitorio e fugace della cultura giapponese si rivela anche nella considerazione stessa della casa: essa non è affatto concepita come qualcosa di lunga durata, bensì come un’entità continuamente adattabile alle infinite necessità dettate dal particolare momento storico.

Il perdurare nel tempo dell’edificio viene quindi formalmente negato in una città in cui la vita media di un’abitazione è inferiore ai trent’anni, l’equivalente del tempo di una generazione.

Tutto questo si riflette sullo scenario cittadino che viene continuamente sottoposto all’inesauribile ciclo di demolizione - costruzione.

Ogni anno infatti, un esorbitante numero di edifici subiscono una trasformazione o vengono addirittura demoliti per fare spazio a nuove costruzioni.

Nell’anno 2015 per esempio, sono state contate 920.000 case di nuova edificazione (inclusi i complessi di abitazioni multiple): questo rappresenta un dato considerevole se paragonato soprattutto a quello degli altri paesi.

1

Banana Yoshimoto, Ricordi di un vicolo cieco, Feltrinelli Editore, Milano, 2006, pg. 14

25 28

Prendendo, a puro titolo esemplificativo, il caso degli Stati Uniti, risulta che il numero di inizio lavori per l’anno 2015 sia stato di circa 1.200.000 e, se consideriamo che il Giappone conta 126 milioni di abitanti, rispetto ai 324 degli Stati Uniti, la cifra risulta veramente sbalorditiva.

Anche l’aspetto economico contribuisce a demolire il concetto di eredità: l’edificio ha infatti un costo molto limitato rispetto al valore del terreno e questo porta a considerare le strutture come qualcosa di facilmente sostituibile.

“Oggi a Tokyo gli edifici vengono costruiti e demoliti a velocità sconcertante.

E’ davvero sbalorditivo. Gli edifici invadono la città e si prendono la loro popolarità, poi altrettanto rapidamente, vengono usati e messi da parte come un pezzo di carta [...] le nostre idee sulla semiologia e sulla superficialità si evolvono rapidamente, ma ancor più gli spazi urbani che hanno subito una metamorfosi”2.

Così Toyo Ito3 ritrae l’incessante processo di trasformazione della caotica città nipponica; questo aspetto, che caratterizza la città giapponese oggi, in realtà è legato ad un concetto fortemente radicato nella tradizione culturale del paese.

Il principale insegnamento che la cultura nipponica ha assorbito dalla dottrina buddhista sta infatti proprio nella concezione della transitorietà delle cose: l’incessante mutevolezza diviene così uno dei concetti più importanti alla base della cultura giapponese tanto da influenzarne ogni aspetto delle vita quotidiana.

2

Toyo Ito, Vers une architecture post-éphemére, Parigi, 1991

3

Toyo Ito (1941 - ) è considerato uno degli architetti più innovativi e più influenti al mondo ed è particolarmente apprezzato per la creazione e l’elaborazione di concetti architettonici estremi, nei quali combina il mondo fisico con quello virtuale.

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Gli stessi autori di ‘Made in Tokyo’1, mentre parlano della città come dell’elemento in grado di produrre un senso di totale smarrimento, attribuiscono invece alla casa, dispositivo architettonico segreto, la capacità di riassorbire dolcemente lo spaesamento urbanistico complessivo e di compensarlo all’interno della vita dei singoli individui.

Le enormi città in un perenne processo di metamorfosi rappresentano un contesto urbano fortemente controllato,quasi soffocante, e congestionato, capace di togliere qualsiasi punto di riferimento ai proprio abitanti.

1

Junzo Kuroda, Momoyo Kaijima, Yoshiharu Tsukamoto, Made in Tokyo, scritto nel 2001 rappresenta una vera e propria guida dell’architettura della capitale.

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Ma è proprio in uno scenario come questo che la casa, intesa come possibilità di rifugio, intimità ed espressione, risulta essere più fondamentale.

All’interno infatti di uno spazio sociale fortemente organizzato, spesso molto distante dalla scala umana e nel quale i comportamenti collettivi sono strettamente regolati, la casa finisce per diventare il luogo di compensazione dove il singolo sviluppa più liberamente la propria individualità.

Sotto e nella pagina a fianco: fotogrammi tratti da Tardo autunno, regia di Yasujirō Ozu, 1960

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Le case sono qualcosa che l’architetto progetta insieme a una famiglia: quello che progettano è un modo di vivere per la famiglia, l’unità sociale minima, che in senso più ampio le permetta di collegarsi alla società o, viceversa, di tenersene a distanza.

All’interno di una società caotica, la casa custodisce elementi antichi e reconditi propri del vivere conformemente al pensiero giapponese.

“La visione giapponese della vita si traduce in un’estetica della semplicità che si afferma nell’eliminazione di quanto non è essenziale”1.

L’idea tutta giapponese che l’arte più grande si manifesta nella più assoluta semplicità si rispecchia prima di tutto nella casa, dove il rigore minimale delle architetture e degli ambienti sottende non solo un preciso gusto estetico ma una vera e propria filosofia di vita.

Nella casa giapponese è infatti evidente lo sforzo intellettuale e spirituale volto al processo di semplificazione, al fine di eliminare tutto ciò che non è essenziale in omaggio alla bellezza delle cose umili, poco appariscenti e modeste.

Secondo il popolo giapponese infatti, l’ambiente domestico deve essere in armonia con le leggi della natura, semplice e sobrio, ma al contempo raffinato e unico.

La sobrietà propria del popolo giapponese è frutto di una raffinatezza estrema, di un lungo lavoro destinato ad elidere ogni impressione di ricercatezza.

Altro punto fondamentale è la natura che si rivela sempre di più un vero e proprio elemento architettonico.

1

Tadao Ando

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Le case tradizionali giapponesi hanno un rapporto speciale con la natura.

In certi casi addirittura la parte migliore della casa è oltre il giardino.

Lo stretto rapporto con essa è percepibile nella tendenza ad integrare il paesaggio all’interno della casa stessa, così da fare convivere i due elementi, arrivando quasi a fonderli in una sola cosa.

Tutto questo è reso possibile sia dalla grande flessibilità di tutti gli spazi della casa, che agevola l’apertura verso l’esterno - durante la bella stagione vengono aperte le pareti esterne per far areare i locali e per godere della vista del giardino - e contemporaneamente da elementi quali l’engawa2: una sorta di veranda che, protetto dalla sporgenza della copertura, funge da corridoio esterno e da comunicazione fra i diversi ambienti e tra gli spazi interni ed esterni.

L’engawa inoltre filtra la luce naturale all’interno dell’abitazione proteggendola contemporaneamente dalla pioggia; in estate si trasforma in una parte del giardino stesso, in inverno invece può essere chiuso fino a costituire un’estensione dello spazio chiuso: l’interno dell’abitazione non è infatti concepito per proteggersi dalla natura ma per integrarsi con essa in una condizione di armonia ed equilibrio.

Un altro aspetto peculiare della casa giapponese, indice dello stile di vita orientale, è la dicotomia tra pubblico e privato.

Nelle case di città, i cosiddetti machiya3, il commercio pubblico avviene sul lato della via cittadina, mentre le stanze sul retro sono riservate alla vita domestica: quanto gli ospiti possono penetrare dipende quindi dalla relazione che esiste con la famiglia.

2

In architettura giapponese , un engawa o più semplicemente en, indica una fascia perimetrale priva di tatami, solitamente in legno o in bambù.

Essa può correre intorno alle camere, al di fuori del palazzo, nel qual caso assomiglia a un portico o veranda.

3

Originaria della zona di Kanazawa e sviluppatasi durante il periodo Edo (1603 - 1868), questo tipo di abitazione tradizionale è caratterizzata da una conformazione stretta e lunga (presenta cioè un corpo relativamente profondo rispetto alla stretta facciata).

Si tratta della tradizionale casa di città, costruita in legno per i mercanti.

Ancora oggi se ne possono osservare diverse nella città di Kyoto grazie ad una legge che ha vietato la loro demolizione nella capitale storica.

3033

Un altro aspetto comune alle arti giapponese è la sensibilità nei confronti della materia: la grana, la consistenza, la pelle per così dire del legno, della pietra e oggi del cemento armato, vengono percepite in maniera molto profonda. È la materia stessa, in collaborazione con la mano e l’occhio dell’uomo, che condiziona e produce l’oggetto finale.

I materiali che venivano usati in Giappone erano per lo più naturali come il legno e la paglia, che non resistevano a lungo nel tempo; per questo motivo era importante che l’uomo si adattasse allo spazio che lo circondava, dedicandosi alla sua cura e al suo mantenimento, per garantire, giorno dopo giorno, una temporaneità maggiore all’edificio.

Le case tradizionali giapponesi sono sempre concepite per i climi caldi: i materiali che le costituiscono sono leggeri, in grado di sfruttare i benefici dei venti più moderati.

L’esilità delle strutture è dovuta anche alla relativa frequenza dei terremoti - non ultimo quello registrato nel Marzo 20111 - che rendono poco consigliabile l’impiego di materiali pesanti come la pietra o i mattoni.

La tradizionale casa giapponese viene chiamata minka2; essa si differenzia poi per forma e metodo costruttivo fra il nōka3, la casa di campagna, e il machiya4, la casa di città.

Tuttavia i materiali di base utilizzati per le diverse tipologie di abitazione sono essenzialmente gli stessi: il legno, la paglia, il bambù e la carta.

1

Conosciuto anche come terremoto, e successivo maremoto, del Tōhoku, avvenne l’11 Marzo del 2011, al largo della costa della regione di Tōhoku, situata nel Giappone settentrionale.

Il sisma, con epicentro in mare e con successivo tsunami, rimane tutt’oggi il più potente mai misuratosi in Giappone nonché il quarto a livello mondiale.

2

In origine si indicava con il termine minka quella tipologia di case rurali di architettura spontanea costruite in uno qualunque dei diversi stili tradizionali giapponesi.

Corrispondono agli alloggi di agricoltori, artigiani e mercanti (le tre caste non samurai).

Oggi questa connotazione non esiste più nella lingua giapponese moderna e qualunque residenza in stile tradizionale giapponese sufficientemente antica può essere chiamata minka.

3

Si tratta delle case coloniche tradizionali costruite in legno per la classe media giapponese.

Insieme alle machiya fanno parte della categoria delle case minka.

4

Vedi nota 3 pg. 33

31 34

Il legno in particolare è usato per travi e pilastri strutturali, così come per pareti, soffitto e tetto; il bambù è usato per aggiungere integrità strutturale e per decorare la casa; la paglia è usata per coprire il tetto e per fabbricare il pavimento in tatami5; infine la carta è usata per rivestire i shoji6 e fusuma7, i divisori degli ambienti della casa.

Un’ altra caratteristica fondamentale della tradizione giapponese è basata su un constante rapporto tra edificio e uomo affinché i due risultino sinergici l’uno con l’altro e vivano in un costante rispetto reciproco.

Prima degli anni cinquanta le famiglie giapponesi vivevano in case molto diverse rispetto a quelle di concezione occidentale che si diffusero nel dopoguerra, ma in ogni caso se si parla di casa giapponese il primo pensiero rimanda ancora al panorama tradizionale: la tipica casa giapponese unisce semplicità e raffinatezza ed è costruita su un’ intelaiatura di pali e travi di legno.

Caratteri quali trasparenza, flessibilità, asimmetria e modularità, sono i tratti più tipici appartenenti alla storia dell’architettura residenziale in Giappone.

5

Il tatami è una tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari modulari, costruiti con un telaio generalmente di legno o altri materiali rivestito da paglia intrecciata e pressata; usati anche come unità di misura delle stanze, solitamente si trovano nelle camere da letto e in soggiorno Nella nomenclatura giapponese, la stanza con pavimento di questo tipo viene chiamata washitsu, in contrapposizione alla yōshitsu che presenta un qualunque altro tipo di pavimento.

6

Gli shōji sono le porte scorrevoli che separano l’interno dall’esterno delle case giapponesi tradizionali.

Inizialmente questa funzione spettava a tavole di legno su cui veniva applicata della carta per essere decorata, ma in un secondo momento le tavole furono sostituite da una grata in legno che permetteva alla luce di filtrare attraverso la carta illuminando gli interni di una luce soffusa.

7

I fusuma sono i pannelli verticali rettangolari che scorrendo ridefiniscono la struttura delle stanze o fungono da porte all’interno delle abitazioni tradizionali.

Misurano generalmente 90x180 cm, le stesse dimensioni di un singolo tatami.

Si differenziano dagli Shoji soprattutto per il fatto di non essere trasparenti alla luce e di avere molto spesso delle decorazioni di vario genere (soprattutto rappresentanti paesaggi naturali).

L’uso dei fusuma è riservato unicamente alla divisione degli spazi interni.

32 35

La casa tradizionale giapponese è disegnata dall’interno verso l’esterno: la parte esteriore dell’edificio risulta essere la conseguenza della distribuzione interna piuttosto che essere concepita per adattarsi a un rigido schema o a forme geometriche prestabilite.

Lo stesso Bruno Taut1, in visita in Giappone nel 1933, rendendosi conto dell’avanguardismo della architettura tradizionale, ne aveva rivendicato la forte modernità.

Il ritmo della casa giapponese è scandito da una sequenza in senso orizzontale dello spazio che avviene nel più profondo rispetto dell’elemento temporale andando così a formare quel binomio spazio-tempo, imprescindibile per la cultura nipponica.

Lo spazio interno è organizzato in modo semplice e con ampia flessibilità grazie all’utilizzo di pannelli e pareti scorrevoli - i fusuma2 determinano il limite rispetto all’esterno mentre gli shoji3 contraddistinguono i diversi ambienti interni alla casa - che permettono di trasformarlo in base alle esigenze e alle diverse ore del giorno.

Anche le pareti esterne sono costituite da pannelli scorrevoli di legno o di gelso da carta4.

Nessun ambiente della casa, ad eccezione dei servizi e della stanza riservata alla sacrale cerimonia del tè, ha una vera e propria funzione: lo spazio è da leggere in tutta la sua continuità e versatilità.

E’ così che per esempio quando sopraggiunge la sera, i futon5 e le trapunte vengono srotolati per preparare il letto per poi essere riposti, in appositi armadi, al successivo risveglio e lasciare spazio alla vita del giorno, ai pasti, al lavoro, al gioco, al ricevimento e all’intrattenimento.

1

Bruno Taut (1880-1938) è stato un architetto e urbanista tedesco.

L’avvento del nazionalsocialismo costrinse Taut, che aveva offerto la sua collaborazione all’Unione Sovietica, a fuggire nel 1933 dalla Germania e rifugiarsi in Giappone, dove rimase fino al 1936.

La cultura artistica del paese nipponico aveva da sempre attratto e durante la sua permanenza scrisse diversi libri, tra cui “ Il Giappone visto con occhi europei”, “Lineamenti fondamentali dell’architettura giapponese” e “Dottrina architettonica”.

2

Vedi nota 8 pg. 35

3

Vedi nota 7 pg. 35

4

Broussonetia papyrifera, o più comunemente gelso da carta è un albero appartenente alla famiglia delle Moraceae.

E’ noto che in Oriente la sua corteccia macerata venisse utilizzata nella produzione di carta.

5

Letteralmente “materasso arrotolato”, si tratta del materasso tradizionale della cultura giapponese, interamente in cotone, rigido, sottile e arrotolabile.

33 36

Nonostante la casa giapponese si sviluppi sostanzialmente come un’estensione unica, essa risulta caratterizzata da due spazi: il genkan, ovvero l’ingresso, che introduce alla casa, e lo spazio abitabile.

Il genkan costituisce appunto l’atrio dell’abitazione giapponese, solitamente presenta il pavimento in pietra, ed è più basso di un gradino rispetto al resto della casa.

Nel genkan bisogna togliersi le scarpe e riporle ordinatamente sotto il gradino, perché all’interno dell’abitazione si usa camminare in pantofole o scalzi per non portare lo sporco della strada al suo interno.

Lo spazio abitabile è invece costituito da pavimenti in tatami, ad esclusione della cucina e dei corridoi che presentano invece pavimenti in legno.

Chiaramente, ancor di più che nel genkan, nel resto della casa è consuetudine camminare in pantofole o scalzi.

3437

Nella pagina a fianco: sezione prospettica di una tipica casa minka.

La maggior parte della documentazione tecnica dell’architettura storica giapponese è composta da disegni tridimensionali, elemento che conferma quanto detto precedentemente circa la concezione di tempo: esso è a tutti gli effetti considerato al pari delle altre dimensioni geometriche. Osservando così consapevolmente la sezione prospettica, è subito percepibile il carattere di unitarietà e spazialità che contraddistingue l’architettura tradizionale in Giappone.

38 35

36 39

E’ inoltre consuetudine destinare una stanza alla cerimonia del tè, la cosiddetta Cha no yu1, rito fondamentale nella tradizione nipponica.

Si tratta di uno spazio della casa che deve essere permeato da un’atmosfera particolarmente armoniosa e richiede pertanto un’attenta progettazione, un impiego di materiali unicamente di origine naturale e una sapiente disposizione di mobili e di eventuali utensili.

La sala da tè è piccola, simile a una capanna all’interno del giardino, spesso posta in mezzo al verde.

Qui si svolge la cerimonia del tè, che consiste in una successione di eventi prestabiliti: si incontrano gli invitati, si cammina nel giardino della sala da tè, si eseguono abluzioni, si entra in una stanza simile a una cella, si incontra l’ospite, si ammirano la stanza e gli utensili da tè, si assiste alla preparazione del tè, si fa l’inchino e infine si gustano tè e pietanze.

Ciascuna parte del rituale ha un significato profondo e deve essere portata a termine con la massima calma e dedizione.

Così, mentre tutto il mondo ricerca la durabilità degli edifici e la profusione degli ornamenti, i giapponesi esplorano i loro boschi alla ricerca di legni che possano sottolineare l’imperfezione delle cose, aspirando a una ruvida semplicità e a una bellezza che traspare dalle cose semplici e modeste e che riesce a conquistare un equilibrio tra quiete, misura e raffinatezza.

Contrariamente alla massima di Le Corbusier secondo cui la casa è “una macchina per abitare”2, per i giapponesi la casa deve essere prima di tutto una casa per l’anima.

1

Conosciuta in Occidente come cerimonia del tè, in giapponese Cha no yu, si tratta di un rito sociale e spirituale praticato in Oriente nonché di una delle arti zen più conosciute.

Codificata in maniera definitiva alla fine del XVI secolo da un monaco buddista, la cerimonia può essere svolta secondo stili e forme diverse.

2

Le Corbusier, Case in serie, Verso una architettura, 1923

Nella pagina a fianco: Tea House, Terunobu Fujimori, 2004. La singolare architettura rappresenta lo spazio destinato alla cerimonia del tè, ambiente imprescindibile nell’abitazione giapponese.

37

2.

L’ereditĂ bellica: verso una progressiva perdita della soggettivitĂ

Il secondo scontro mondiale portò in tutto il Giappone una grave crisi che riguardò diversi settori, dalla politica all’economia, alla stessa architettura, e che si perpetuò per gran parte degli anni successivi.

Analizzando, sullo sfondo di un panorama in profondo cambiamento, alcune delle maggiori conseguenze generate dalla guerra sui temi dell’abitare, mi propongo di evidenziare come il progetto della casa sia profondamente mutato.

2.1

Agosto 1945

Quando il 15 Agosto dell’anno 1945 l’imperatore giapponese Hirohito si rivolse per la prima volta al suo popolo dichiarando la fine dei combattimenti e la resa incondizionata alle potenze avversarie, le forze alleate, guidate dagli Stati Uniti, occuparono la nazione, portandovi cambiamenti drastici.

Il paese venne disarmato, il suo impero disciolto, la sua forma di governo convertita in una democrazia ed il suo sistema economico-sociale riorganizzato dalle fondamenta.

A concorrere alla distruzione del paese era stato sicuramente anche il terremoto del Kantō, avvenuto nel settembre 1923: con epicentro nella baia di Sagami, la scossa aveva colpito maggiormente la pianura del Kantō, situata sull’isola di Honshū, provocando però ingenti danni anche a Tokyo, nel porto di Yokohama e nelle prefetture circostanti di Chiba, Kanagawa, e Shizuoka.

La realtà con la quale il Giappone dovette confrontarsi all’indomani della seconda guerra mondiale non era dunque certo delle più semplici: un paese frammentato ed esausto che doveva improvvisamente confrontarsi con una nuova realtà distante dalle sue origini.

Anche il settore produttivo non attraversava un momento facile: l’industria edilizia risultava infatti gravemente afflitta dalla scarsità di materiali e dall’inflazione.

Ma nonostante il difficile momento storico, si verificò una rapida crescita del paese nel dopoguerra, legata alla trasformazione della struttura economica e politica del Giappone.

Si registrarono incrementi considerevoli: Tokyo ad esempio passò dai 5.400.000 abitanti registrati nell’anno 1950 ai 10.000.000 del 1960.

Non stupisce quindi che il periodo successivo al secondo scontro mondiale, proprio in ragione dell’impellente necessità dovuta allo stato di emergenza in cui verteva il paese e alla rapida crescita economica, fu segnato da una crescente preoccupazione di offrire una risposta adeguata alla grande espansione che, unita alla necessità di fornire un’abitazione a tutte quelle persone la cui casa era stata danneggiata o addirittura distrutta, finì per favorire fantasie urbanistiche in grado di accogliere società potenzialmente a crescita illimitata.

“Tokyo 1956: edifici moderni, fortilizi in ferro e cemento, che ospitano l’uno sull’altro i complessi più impensati; stazione ferroviaria, metropolitana, grandi magazzini, ristoranti, teatri..”1 Così venne ritratta la Tokyo di quegli anni: enormi complessi residenziali con ai loro piedi una città di 8 milioni di abitanti costruita in carta e legno, una vita brulicante e truculenta come nel Medioevo2.

L’urgenza che aveva portato ad un panorama simile era infatti delle più assolute: erano necessarie più di tre milioni di unità abitative per risolvere la crisi degli alloggi provocata dalla distruzione delle città giapponesi.

1

Charlotte Perriand, Crisi del gusto in Giappone, in “Casabella Continuità”, 1957, n 210, pg. 55

2

Charlotte Perriand, op. cit. pg. 57

Nelle due pagine precedenti: città di Hiroshima a seguito della bombardamento In copertina: raffigurati i primi complessi residenziali nati come conseguenza dell’introduzione di una legge a favore della realizzazione di condomini del 1955.

45 48

Prendendo come esempio ancora il caso di Tokyo, era qui stato distrutto quasi il 50 % delle abitazioni.

Al di là degli aspetti drammatici della ricostruzione, va però sottolineato come la devastazione offrì contemporaneamente un terreno adatto a nuove sperimentazioni e, in un certo qual modo, come sostenuto da Kenjiro Hosaka3, curatore del Nation Museum of Modern Art di Tokyo, un’opportunità per popolazione stessa: “Dopo la fine della seconda guerra mondiale, di fronte a una grave carenza di abitazioni, il governo giapponese decise di incoraggiare le persone a comprarsi un terreno e costruirsi la casa da sé.

Questo, per i giapponesi, divenne un’occasione per riflettere sul concetto di casa e di famiglia”4.

Fu così che, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, i cambiamenti avvenuti nella struttura familiare si manifestarono nella pianificazione delle città e in particolar modo della casa.

3

Kenjiro Hosaka (1976 - ) laureatosi in storia dell’arte alla Keio University, è specializzato in arte moderna e contemporanea. Ha curato diverse mostre di fama internazionale, tra cui “Where is Architecture? Seven Installations by Japanese Architects”, tenutasi nel 2010 al Nation Museum of Modern Art di Tokyo con esposti i lavori degli architetti Toyo Ito, Ryoji Suzuki, Hiroshi Naito, Atelier Bow-Wow, Hiroshi Kikuchi, Ryuji Nakamura e Hideyuki Nakayama.

4

Kenjiro Hosaka, in The Japanese House - Architettura e vita dal 1945 ad oggi, Marsilio Editore, 2016

46 49

2.2

L’architettura residenziale nel dopoguerra: tra urgenza e mancanza di pianificazione

“La storia dell’architettura moderna giapponese si è sviluppata secondo una traiettoria ben precisa strettamente collegata con gli aspetti della vita quotidiana.

Ecco che l’architettura residenziale e soprattutto le case unifamiliari si possono considerare gli elementi chiave della progettazione giapponese”1.

Il cosiddetto movimento moderno ha in realtà inizio in Giappone nel periodo precedente allo scoppio del secondo conflitto mondiale; in seguito, con la linea fortemente nazionalista e dittatoriale perseguita all’indomani del patto anti Comintern2 sancito con la Germania del 1936 e all’incidente con la Cina del 19373, l’intera cultura venne sottoposta ad un controllo diretto fortemente autoritario e influenzato da tendenze tipicamente conservatrici.

Il movimento moderno giapponese sarà quindi ripreso solo al termine dello scontro mondiale anche se si tratterà, almeno per i primi tempi, della ripresa di un popolo ancora attonito e dolorante per le catastrofi subite ad Hiroshima e Nagasaki4, di un popolo che inizia la propria ricostruzione ancora in uno stato di incoscienza che solo lentamente si trasformerà in una drammatica consapevolezza.

1

Hou Hanrou, direttore artistico del Maxxi

2

ll patto anti-Comintern fu un trattato di alleanza politica diretto contro l’Unione Sovietica, stipulato tra il governo del Terzo Reich tedesco e quello dell’Impero giapponese, il 25 novembre 1936, a Berlino.

Con tale accordo i due stati contraenti si impegnavano a cooperare contro l’opera disgregatrice dell’internazionale Comunista.

3

Si fa qui riferimento alla guerra sino-giapponese: il maggiore conflitto mai avvenuto tra repubblica di Cina e Impero giapponese ed in generale il maggior conflitto asiatico verificatosi nel corso del XX secolo.

Combattuto prima e durante la seconda guerra mondiale, lo scontro terminò con la resa incondizionata del Giappone il 2 settembre 1945, che mise fine alla secondo scontro.

4

Le forze alleate, sul finire della seconda guerra mondiale, portarono a compimento due attacchi nucleari che colpirono rispettivamente Hiroshima il 6 Agosto e Nagasaki il 9 Agosto 1945, segnando così l’epilogo del conflitto mondiale.

47 50

Il primo momento dell’opera di ricostruzione avvenne sotto la spinta delle forze di occupazione nord-americane che impostarono un programma edilizio provvisorio per la ricostruzione di quei quartieri residenziali più fortemente danneggiati dalla guerra, in cui vennero sostituite le abitazioni distrutte.

In seguito però, vi fu un’importante fase deflazionistica5 che pose un limite alle costruzioni fino agli anni ‘50.

Il 1950 rappresenta per il paese nipponico una nuova fase caratterizzata da un influsso occidentale di tipo nuovo, assai meno controllato e controllabile di quello subito nel secolo precedente.

Il paese, avviandosi verso uno stadio di relativo benessere ed espansione economica, venne sedotto dal fascino dei modelli costituiti dalle nazioni occidentali che avevano già raggiunto quel livello di civiltà capitalista; ma, come ogni paese che parte da uno stato di sottosviluppo, in esso non tardarono a manifestarsi i tipici squilibri interni, economici e culturali, che caratterizzano ogni ripresa non inquadrata in una pianificazione globale e democratica.

Così, nonostante il boom economico, erano molteplici e drammatiche le espressioni di crisi in cui verteva il paese, espressioni evidenziate e denunciate da molti intellettuali e artisti che criticavano la completa distruzione di ogni valore ad eccezione della pura e cieca economicità.

5

Su incarico del generale Mac Arthur, l’esperto finanziario americano Dodge propose un piano di riequilibrio del governo giapponese che venne immediatamente applicato al governo provocando così una grave fase deflazionistica.

48 51

La cultura architettonica in un primo momento, poiché totalmente assorbita dagli ingenti compiti della ricostruzione, non seguì però tale indirizzo protestatario.

A tal proposito va ricordato che nel 1950 il governo giapponese stanziò un fondo di 15 miliardi di yen che sarebbero serviti per la ricostruzione di circa 80.000 alloggi sovvenzionati, promuovendo così il primo accenno di programmazione edilizia.

Tale programma però, a causa dei forti ostacoli posti dal mercato edilizio, non fu perseguito con successo. ”La cultura architettonica degli anni ‘50, tuttavia, non riesce a trovare immediatamente metodi operativi o strumenti espressivi aderenti alle nuove condizioni di quella società in fermento, e a questo contribuisce certamente il labile contatto del pubblico con l’architettura ed i suoi problemi, mentre appare troppo difficile seguire la pressione dei tempi e delle quantità imposte dai problemi della ricostruzione”1.

La legge dell’edilizia sovvenzionata segna comunque una svolta fondamentale nella politica edilizia giapponese e, insieme ad altre due misure legislative, approvate pressoché contemporaneamente, fa dell’anno 1950 una data memorabile per la storia dell’architettura in Giappone.

Tali misure - la prima concernente l’ordinamento democratico degli enti locali a cui venne affidato il compito della programmazione edilizia2, mentre la seconda relativa al riconoscimento dello stato giuridico di architetto3- ebbero infatti l’effetto di aumentare fortemente l’apprezzamento sociale dell’architettura.

1

Manfredo Tafuri, Architettura Moderna in Giappone, 1964, Capelli, pg. 50

2

La legge del 1888 creava un sistema di autonomie locali che nel 1947 viene rafforzato mediante una nuova legge che suddivide gli Enti locali in due categorie: “Prefetture e Città”e “Cittadine e Villaggi”, dove le prefetture risultano in realtà Enti regionali cui spetta l’amministrazione generale di tutto il territorio di loro competenza.

49 52

Vi furono così le prime realizzazioni, nel settore più colpito nonché l’unico programmato: quello dell’edilizia residenziale.

Si registrò in questo settore un grande miglioramento: basti pensare che nell’anno 1945 il numero di abitazioni necessarie ammontava a 4 milioni e mezzo mentre, sulla base del programma per l’edificazione di alloggi provvisori, nel 1958 si era ridotto di circa la metà.

La fase successiva, dato che la prima fu unicamente rappresentata dalla passiva accettazione dei metodi di importazione, fu caratterizzata da una più attenta interpretazione, seppure non ancora originale, di un repertorio e di una sintesi che vennero applicati come per esplorarne tutta la gamma di possibilità e flessibilità alle diverse tematiche.

In ogni caso, a parte alcune rare eccezioni, tutte le opere realizzate negli anni ‘50 sono accomunate da una forte neutralità: sembra quasi che gli architetti abbiano voluto segnare una battuta d’arresto, sospendendo momentaneamente il proprio giudizio, per giungere, solo successivamente, ad un’espressione critica, maturata ed altamente consapevole4.

In questa fase un ruolo predominante era occupato dello studio della funzione che appariva come la risposta più conforme alla necessità dettate dal particolare momento storico; la sua indagine e la sua applicazione sembrano dunque esaurire tutto l’interesse della progettazione in campo architettonico.

L’esaltazione della funzione era un carattere che l’architettura nipponica aveva in realtà già fatto proprio negli anni tra le due guerre: lo stesso Bruno Taut, in fuga dalla Germania nazista nel 1933, aveva affermato che scontrandosi con gli aspetti più vernacolari dell’abitazione tipica giapponese (quali il freddo, l’assenza di arredo, il bagno comune, le travi basse), aveva avuto la percezione di un’ architettura basata essenzialmente sull’idea di funzione e necessità5.

3

Si tratta di una rivendicazione per cui gli architetti giapponesi lottavano già da più di trent’anni: il riconoscimento dello stato giuridico di architetto è adesso stabilito con un titolo di primo grado rilasciato, una volta completati gli studi, dal Ministero dell’edilizia mentre quello di secondo grado viene rilasciato dalle autorità locali.

4

Manfredo Tafuri, op. cit., pg. 54

5

P. Ciorra F. Ostende,The Japanese House - Architettura e vita dal 1945 ad oggi, Marsilio Editore, 2016 50 53

Oltre agli ostacoli sopra analizzati, ad aumentare le difficoltà di una programmazione autentica e organica, si aggiungevano altri impedimenti di origine più specificamente culturale: da una parte c’era la mancata coscienza della necessità di una pianificazione urbanistica nella quale far rientrare i programmi particolari e, dall’altra, il peso di una tradizione tipologica e costruttiva del tutto disadatta ad affrontare il problema dell’alloggio di massa.

“Così la strada della casa unifamiliare con giardino sembrò obbligata”1.

In un primo momento si assisté alla nascita di numerose aree residenziali suburbane di nuova edificazione in cui il singolo puntava ad acquistare un pezzo di terra per realizzarvi la propria abitazione, che prevedeva spesso anche la presenza di un giardino.

1

Manfredo Tafuri, op. cit., pg. 45

51 54

Sopra: Kyoto, nuove abitazioni con relativi campi irrigati 52 55

Anche se ostile alla cultura e alla tradizione nazionale, l’esecuzione del programma per l’edilizia sovvenzionata obbligò gli architetti ad orientarsi verso tipologie ed organismi residenziali più moderni ed il problema che aveva tormentato la vicenda dell’architettura giapponese degli anni ‘30 venne a riproporsi in dimensioni assai più ampie.

Ad un nuovo sviluppo della società in senso capitalista ed industriale, ad una stabilizzazione della democrazia borghese e all’aumento delle libertà civili, non poteva non corrispondere una nuova crisi storica, una nuova più profonda e sostanziale frattura con quanto permaneva ancora di feudale e di tradizionale nelle strutture e nel costume.

Si poneva quindi nuovamente il problema dell’accordo, della sintesi tra due mondi contrastanti e, come era avvenuto dopo lo spodestamento dello Shogun1, ancora una volta l’esigenza dell’accordo proveniva in primo luogo da una rottura violenta.

Veniva adesso proposto di fatto un processo di occidentalizzazione che avrebbe però inevitabilmente snaturato i caratteri peculiari giapponesi.

Il continuo oscillare tra modernità e tradizione resterà la caratteristica che si perpetuerà per diverso tempo contraddistinguendo la produzione di varie generazioni di architetti giapponesi del XX secolo.

1

Con il termine Shogun, letteralemte “comandante dell’esercito”, si indica un titolo ereditario, l’equivalente della nostra carica di generale ,che veniva conferito ai dittatori militari che governarono il Giappone tra il 1192 e il 1868.

Lo Shogunato Tokugawa rappresentò l’ultimo governo feudale del paese nipponico: l’ultimo shogun, Tokugawa Yoshinobu, fu costretto nel 1868, dopo una serie di pesanti sconfitte sul campo di battaglia, a dimettersi e a lasciare il pieno controllo nelle mani dell’imperatore stesso. In seguito l’imperatore Meiji diede il via con la sua politica ad un periodo storico detto Restaurazione Meiji, nel quale si dedicò a smantellare tutti i residui della gestione politica degli shogunati che lo avevano preceduto.

53 56

Sopra: veduta aerea di Tokyo, 1955 Gli edifici moderni hanno cancellato le cicatrici dei blocchi appiattiti lasciate dai bombardamenti. Il fiume Sumida scorre pacificamente attraverso il distretto di Hamacho (in primo piano) e il distretto di Fukawaga.

Case e magazzini all’ingrosso occupano la maggior parte di questi quartieri.

54 57

2.3

Gli anni dello sperimentalismo: il movimento metabolista degli anni ‘60

La figura di Kenzo Tange1 aderisce con estrema puntualità alle necessità dettate dal particolare momento storico: non era infatti il momento di abbandonarsi ad esasperazioni espressionistiche che avrebbero facilmente potuto degenerare nell’evasivo, tutta l’attenzione andava invece rivolta al futuro, senza facili e gratuiti ottimismi.

Così gli edifici di Tange, realizzati in cemento a vista e sollevati da terra mediante un sistema di pilotis, richiamano da un lato l’essenzialità ed il rigore propri dell’architettura lecorbusieriana2, dall’altro, nell’uso di elementi strutturali e di tamponamento secondo rapporti e modulazioni più o meno esplicitamente riferite ai modelli dell’architettura tradizionale, pongono alla base dell’impegno per il futuro una riconsiderazione del passato e del suo valore storico.

L’architettura tradizionale giapponese risultava infatti fondamentale in quanto portatrice di una sorta di buon senso e di competenze su come mantenere gli edifici e rappresentava di riflesso il modo di vivere delle persone che li abitavano.

1

Kenzo Tange (1913-2005), nato nella prefettura di Osaka, si laurea presso il dipartimento di architettura della Tokyo Imperial University nel 1938. Lavora in seguito presso lo studio Maekawa Kunio Associates; una volta abbondato lo studio si iscrive al dottorato presso la stessa università, in cui ricoprirà anche il ruolo di professore associato e dove verrà, in un secondo momento, attribuitogli il titolo di professore emerito.

Fra i principali premi conseguiti: la Medaglia d’Oro del RIBA, la Medaglia d’Oro dell’American Institute of Architecture, l’Ordine della Cultura, il Pritzker Architetcure Prize ed infine il Prince Takamatsu Memorial World Culture Prinze nella categoria architettura.

2

Dopo avere terminato le scuole medie, Tange completò la propria formazione ad Hiroshima dove, nel 1930, incontrò per la prima volta quello che poi divenne il suo maggior punto di riferimento: Le Corbusier.

Furono proprio i disegni e la personalità del maestro del Modernismo svizzero che persuasero il giovanissimo Tange a intraprendere la carriera di architetto.

55 58

La ripresa dell’architettura tradizionale diviene più evidente a partire dalla costruzione del cosiddetto Memorial della Morte3, un monumento in cemento armato, che, collocato ad una certa distanza dai tre edifici principali nel Parco della Pace di Hiroshima, rievoca, con la sua forma plastica e ricurva, l’organismo preistorico della casa giapponese4.

Kenzo Tange riesce così a fare in modo che passato e futuro vengano a contatto e questo fa di lui uno degli iniziatori del Movimento Moderno in Giappone.

“..la dialettica fra la forma espressiva del Memorial e la secca, contenuta, scarna essenzialità del palazzo per esposizioni, del museo e del centro civico ci sembra costituire il valore più alto del complesso di Tange”5.

3

Si tratta di un monumento commemorativo che fa parte del più ampio progetto del Parco della Pace situato ad Hiroshima. Il progetto, realizzato in base ai risultati di un concorso internazionale bandito nel 1946, si inserisce nella città, rimasta a testimoniare per il Giappone uno dei più drammatici epiloghi della seconda guerra mondiale.

(Vedi foto pg. 61).

4

Come testimoniato dai modellini conservati nei musei archeologici.

5

Manfredo Tafuri, op. cit., pg. 57

56 59

Nella pagina a fianco: Memorial della morte, Kenzo Tange, Parco della Pace, Hiroshima, 1955 57 60

Così scrive Manfredo Tafuri1 ritraendo quello che è stato considerato il progetto che ha portato al riconoscimento della correlazione tra due tradizioni - la tradizione più propriamente giapponese e quella dell’architettura moderna - in una proposta operativa di una nuova integrazione tra le due.

Come già sottolineato dalla direzione intrapresa da Kenzo Tange, la tradizione rappresentava per il movimento giapponese un carattere distintivo ed un’ eredità da salvaguardare.

Intorno al 1953, l’architettura giapponese riuscì ad integrare i valori della tradizione in uno sperimentalismo centrato sui modelli metodologici razionalisti, durante una breve stagione di razionalismo maturo2.

Sono questi anni segnati dallo sperimentalismo, la cui massima espressione è riscontrabile in due progetti, entrambi situati nel centro di Tokyo: il municipio dello stesso Kenzo Tange ed i magazzini Sogoh di Togo Murano.

1

Manfredo Tafuri (1935-1994) è stato uno storico dell’architettura, appassionato di architettura rinascimentale e contemporanea. Una volta laureatosi, lavorò, come allievo di Ludovico Quaroni, presso lo studio Architetti e Urbanisti Associati. Nel 1966 vinse la cattedra di Storia dell’Architettura a Roma e nel 1968 si trasferì presso l’Università IUAV di Venezia dove divenne direttore dell’Istituto di Storia dove insegnò fino alla morte.

Nel contempo si impegnò attivamente nell’allora Partito Comunista Italiano.

2

Manfredo Tafuri, op. cit., pg. 63

“Entrambi riscuotono un grande successo nel pubblico della capitale che fino a quel momento aveva dedicato solo una modesta attenzione all’architettura moderna.

Quello stesso pubblico è adesso obbligato a prendere una posizione precisa di fronte ad un complesso che si inserisce direttamente nella città, con un peso notevole dal punto di vista funzionale - si tratta del luogo rappresentativo dell’autonomia comunale e di un centro commerciale caratterizzato [...] da un’accentuata funzione sociale e dal punto di vista del paesaggio urbano, che dai due interventi di notevoli dimensioni, per di più accostati, finisce per assumere un volto rinnovato”3.

La popolazione di Tokyo viene così messa improvvisamente a contatto con una dimensione fisica ed espressiva dell’architettura estremamente rivoluzionarie e le violente polemiche che seguirono confermarono il valore di rottura rispetto al tessuto tradizionale e rispetto alla stessa spazialità cittadina.

3

Ibid.

Sotto: Municipio, Kenzo Tange, Tokyo, 1991

Nel 1945 le bombe atomiche lanciate dagli americani avevano creato una situazione di tabula rasa, facendo del Giappone un bizzarro misto di città appiattite e di sistema di proprietà della terra, rendendo così tanto necessaria quanto complessa la sua ricostruzione.

Così, per far fronte alla grave mancanza di alloggi molti architetti pensarono che la soluzione risiedesse nella progettazione standardizzata con elementi prefabbricati.

Così, sicuramente anche grazie ad un personaggio carismatico quale era Kenzo Tange, qualche anno dopo personalità diverse con lo scopo comune di rivoluzionare l’architettura al fine di risolvere le problematiche del loro paese, formarono il cosiddetto gruppo Metabolism1.

Il gruppo, formatosi nel 1959 dall’incontro di diversi architetti e urbanisti giapponesi, tra cui K. Kurokawa, K. Kikutake, M. Otaka e F. Maki, condusse una serie di interessanti ricerche sui concetti di prefabbricazione, standardizzazione e tecnologia, proponendo progetti in aperta opposizione all’urbanistica e alle tipologie costruttive tradizionali.

Il gruppo Metabolism si impose sulla scena come un movimento giapponese d’avanguardia, che, condividendo e accentuando il rigore geometrico di Le Corbusier e dei suoi seguaci e influenzati dai precedenti CIAM2, manifesta con il proprio nome la volontà di rifarsi ai ritmi biologici soprattutto in relazione alla crescita della città, coincidente con il periodo di pieno boom economico in cui il Giappone cominciò ad affermarsi come una delle più avanzate potenze tecnologiche ed industriali al mondo.

A fondamento dell’attività del gruppo vi è l’intento di riferirsi nella progettazione a una società in continua trasformazione, rifuggendo quindi da soluzioni urbanistiche legate a modelli tradizionali e cristallizzati, per dar vita a un tipo di struttura urbana duttile e mutevole.

1

Il termine metabolismo è usato in riferimento alla concezione di una società soggetta ad un’evoluzione continua ed una trasformazione inarrestabile della società contemporanea a cui il gruppo si prefigge di far corrispondere un’attività architettonica altrettanto dinamica e mutevole.

2

Per esteso Congrès Internationaux d’Architecture Moderne, sono appunti dei congressi nati dalla necessità di promuovere un’ architettura e un’urbanistica basate sulla priorità della funzione.

Il primo CIAM ebbe luogo a La Sarraz (svizzera) nel 1928.

61 64

“Noi guardiamo la società umana come un processo vitale, uno sviluppo continuo dall’atomo alla nebulosa.

La ragione per la quale noi utilizziamo il vocabolo con rimandi biologici “Metabolismo” è che noi crediamo che il disegno e la tecnologia dovranno denotare la vitalità umana.

Noi non crediamo che il metabolismo indichi l’accettazione di un procedere naturale e storico, ma noi cerchiamo di incoraggiare lo sviluppo attivo della nostra società attraverso le nostre proposte”3.

In uno scenario desolante ma soggetto ad un costante cambiamento, proprio l’ineluttabilità dell’espansione e della mutazione della città rappresentano il fondamento stesso su cui si basano i progetti metabolisti.

“Metabolismo è il nome di un gruppo che cerca di offrire una visione concreta della società che verrà. Noi postuliamo la società umana come un processo di sviluppo cosmico dall’atomo alla nebulosa.

Usiamo il termine biologico “Metabolismo” perché per noi progettazione e tecnologia non sono nient’altro che estensioni del potere vitale dell’uomo.

Per questa ragione, non accettiamo semplicemente il metabolismo della storia come naturale ma cerchiamo di svilupparlo attivamente”4.

Per far fronte al crescente cambiamento urbano viene identificata una soluzione nel ricorso alla tecnologia: unico strumento realmente in grado di far fronte al processo di una società in costante cambiamento.

3

Metabolism, the proposal for the new urbanism, 1960, manifesto presentato all’International Design Conference di Tokyo 4

Tokyo, 1960

62 65

“Al contrario del passato, l’architettura contemporanea deve essere mutevole, mobile e [...] capace di venire incontro alle cangianti esigenze dell’età contemporanea.

Al fine di riflettere la dinamica realtà, non è necessaria una funzione statica e fissa, ma piuttosto una capace di seguire i cambiamenti metabolici...

Dobbiamo smettere di pensare in termini di funzione e forma, e pensare invece in termini di spazio e funzione variabile!”1.

Al centro delle riflessioni e delle pratiche del movimento si trova la capsula, definita da Kisho Kurokawa2 nel 1969, come un’architettura cyborg, in quanto si tratta di un elemento architettonico che si è emancipato dal concetto statico dell’abitare e del vivere per diventare espressione del movimento e della soggettività in movimento.

Quest’idea corrisponde agli obiettivi del gruppo Metabolism che punta ad un’architettura aperta ed indefinita, regolata dalle leggi della mutazione.

“La Capsula è un’architettura Cyborg.

L’uomo , la macchina e lo spazio costruiscono un nuovo corpo organico.

L’architettura d’ora in avanti assumerà il carattere di apparecchiatura”3.

La capsula, così come espressa nella formulazione metabolista, non è da intendere come uno strumento di omologazione, al contrario essa vuole essere strumento di diversificazione sociale, rifugio che protegga la sfera individuale.

1

Kiyonori Kitukake

2

Kisho Kurokawa (1934-2007) è stato un architetto giapponese, fondatore del movimento metabolista.

3

Kisho Kurokawa

4

City of the Future, Noburu Kawazoe

5

Noboru Kawazoe (1926-2015) critico d’arte giapponese.

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Un altro punto fondamentale del programma metabolista sta nel tentativo di porre delle basi concrete per il futuro sviluppo della società.

“Quando presentiamo un’immagine totale non vogliamo affatto specificare dettagliatamente come può essere la città del futuro.

Le nostre proposte sono suggerimenti su quelli che ci sembrano i metodi e le vie da prendere.

Non vi può essere un punto finale a cui la città possa un giorno arrivare nel suo sviluppo, perché, se questo accadesse, la città si ridurrebbe istantaneamente in rovina.

Questo non significa che noi formuliamo soggettivi e impossibili sogni fantastici: noi siamo alla ricerca di un metodo che accomuna una varietà di immagini diverse”4.

Risulta qui ben espresso l’intento dei protagonisti del gruppo: quello che gli architetti si prefiggono di individuare non è una soluzione innovativa, definitiva e permanente per far fronte alla crisi delle città giapponesi, ma, come affermato dallo stesso membro del gruppo Noboru Kawazoe5, un metodo, un modo di essere in continuo cambiamento, in opposizione allo statico conservatorismo della società giapponese.

Tutto questo mette chiaramente in discussione il concetto stesso di tradizione, divenendo un tema più che mai emblematico.

Sotto: vista immaginaria dello scenario metabolista dove, sullo sfondo di una città moderna, emerge la chiara componente di astrazione che caratterizza i progetti del movimento: le capsule sembrano fluttuare nell’aria.

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La tradizione appare adesso non più come un valore così imprescindibile per la società e la cultura giapponese ma diviene, al contrario, un elemento da cui prendere le distanze: “Ho riflettuto a lungo sul problema della tradizione e ho concluso che la tradizione non può continuare a vivere nella sua propria forza, né essere considerata in se stessa energia creativa.

Per essere trasformata in qualcosa di creativo deve essere rinnegata ed in un certo senso distrutta.

Invece di farne l’apoteosi, bisogna profanarla”1.

Il Metabolismo ebbe però pochissime occasioni di trasporre in realtà i suoi principi: l’Expo del 1970, che si svolse da marzo a settembre nella prefettura di Ōsaka, in Giappone, fu sicuramente una di queste, in quanto rappresentò per il gruppo metabolista l’opportunità di realizzare strutture temporanee dalle connotazioni fortemente futuristiche, fondate sull’idea della capsula.

Così, se dal punto di vista urbanistico le teorie degli esponenti del gruppo Metabolism rimarranno mere utopie, se ne può apprezzare la ricaduta architettonica nell’opera dei singoli architetti.

Il risultato forse più riuscito conseguito dal gruppo dei metabolisti è indentificabile nella Nakagin Capsule Tower.

Si tratta di un progetto realizzato ad opera dell’architetto Kisho Kurokawa e portato a termine nel 1972: un edificio a torre ad uso misto residenziale e commerciale dove cellule omologhe vengono aggregate liberamente all’interno di una struttura portante fissa, ubicata tra Shimbashi e Ginza, a Tokyo.

Il complesso è composto da 140 unità abitative, ognuna indipendente da quelle adiacenti, in quanto attaccata in aggetto alla struttura portante centrale, agganciate a due torri di servizio di 11 e 13 piani adibite a residenze e studi, con il blocco scale e gli ascensori posti al centro di ciascuna torre.

1

Kenzo Tange, 1959

2

Kisho Kurokawa

Nella pagina a fianco: rappresentazione tridimensionale della Nakagin Capsule Tower.

La capsula, viene condotta da una sorta di braccio meccanico per innestarsi all’interno della struttura che, totalmente decontestualizzata, appare qui in tutta la sua emancipazione.

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Ogni capsula presenta delle dimensioni estremamente ridotte: 2,5 x 4 x 2,1 metri.

La capsula è infatti concepita per l’uomo del futuro che i metabolisti immaginano come un individuo con una vita talmente frenetica ed impegnata da non avere neanche il tempo per cucinare e proprio in ragione di questo la capsula non ha né cucina né elettrodomestici.

Così lo stesso Kurokawa presenta il concetto di capsula: “La capsula sta per l’emancipazione dell’edificio in relazione al terreno ed annuncia l’era della architettura in movimento”2.

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Nella pagina a fianco: Nakagin Capsule Tower, Kisho Kurokawa, 1972, Tokyo L’edificio, di chiara impronta futurista, si erge statuario, incurante del contesto in cui si colloca.

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La capsula esprime l’individualità dell’uomo, la sua sfida all’organizzazione e la sua rivolta alla unificazione.

Il significato della capsula è espressione della speranza di formare una società basata sull’idea della diversità multietnica, guidata dal libero volere di ogni singolo cittadino, dove lo spazio per la vita degli uomini è la sommatoria di tutte le capsule individuali, alla quale va sottratta quella parte necessaria alle infrastrutture di supporto.

In una tale società, il nuovo sistema di relazioni non è più espresso dalla famiglia, ma dal singolo in­dividuo, membro di un gruppo, appartenente a gruppi che a loro volta sono parte di una collettività più ampia.

La famiglia è un insieme di individualità che de­vono essere messe in grado di dialogare senza filtri.

Tutto ciò, per i metabolisti, può essere espresso mediante l’architettura, che si deve comporre di elementi spaziali individuali, inseriti in una struttura di supporto, in grado di garantire alle capsule un collegamento.

Le torri di Nakagin non rappresentano dunque solo un’architettura esteticamente affascinante, ma riflettono il cambiamento sociale, la dislocazione antropologica in una società di servizi, la frammentazione della famiglia tradizionale.

Nella pagina a fianco: rappresentazione assonometrica della capsula: lo spazio è minimo ma risulta massimamente sfruttato.

69

71

Non passò però molto tempo prima che emerse come, sia nell’elaborazione delle proposte che nella stesura delle loro giustificazioni teoriche, i giovani del gruppo Metabolism, pur dimostrando una notevole vitalità ed un sincero slancio verso soluzioni innovative, rimasero impigliati in un troppo generico avanguardismo dove i grandi problemi sociologici ed umani venivano trattati in una dimensione talmente astratta e metaforica da perdere ogni traccia di possibile sviluppo metodologico, venendo così a mancare quell’incisività cui l’utopismo delle proposte tende palesemente.

Il fallimento dell’utopia metabolista è testimoniato dallo stato di degrado in cui verte uno dei progetti simbolo di tale ideale: la Nakagin Capsule Tower, dove oggi, come testimoniato dalla analisi condotta dallo studio portoghese Fala Atelier1, l’unico fattore in costante avanzamento è lo stato di deterioramento delle pareti, del pavimento e del soffitto.

1

Lo studio di architettura portoghese Fala Atelier (Filipe Magalhães + Ana Luisa Soares) interrogandosi, quarant’anni dopo la sua realizzazione, su che cosa fosse andato storto nel progetto della Nakagin Capsule Tower, ha deciso di documentare lo stato di abbandono e di totale degrado in cui versa uno degli edifici più iconici del XX secolo.

Oggi delle 140 capsule che erano state ideate per durare più di vent’anni, ne rimangono in uso solamente 90.

Ed è così che oggi la materializzazione più tangibile del Metabolismo ha i giorni contati alla sua demolizione.

Sotto e nella pagina successiva: Fernando Guerra, installazione-reportage sulla Nakagin Capsule Tower e la sua evoluzione nel tempo, Fala Atelier, Palazzo Sinel de Cordes, Lisbona, Portogallo

Nel 1985, venne proposto ai metabolisti di realizzare il masterplan per il Tsukuba Science Expo1, partendo dal concept di una città che rigenera se stessa, formata quindi da strutture temporanee e flessibili.

La riduzione del budget per l’esposizione, portò però a una delusione per i metabolisti, che da quel momento in avanti si ritrovarono senza più grandi occasioni di riprogettare il Giappone, con la sola possibilità di lasciare al paese le loro visioni.

In realtà la fiducia che l’opinione pubblica giapponese riponeva nel mito del progresso era già venuta a mancare in seguito ad alcuni importanti avvenimenti degli anni ’60 e ’70 che avevano portato in architettura ad un crescente scetticismo nei confronti delle posizioni più futuristiche, le stesse sostenute dal gruppo Metabolism.

Le due realizzazioni responsabili di questo disincanto furono il complesso residenziale Senri New Town2 e l’Espozione internaziole di Osaka del 1970.

Il primo, considerato per il tempo all’avanguardia, dimostrò una profonda inadeguatezza dei servizi pubblici.

L’Esposizione internazionale del 1970, invece, sebbene avesse rappresentato per il gruppo la possibilità di realizzare, se pur in forma temporanea, i propri progetti, fu oggetto di critiche in quanto accusata di essere espressione di un assoggettamento dell’architettura radicale degli anni ’60 a padiglioni aziendali.

1

Si fa qui riferimento all’esposizione mondiale, il cui tema fu abitazioni e dintorni - scienze e tecnologie per l’uomo, che ebbe luogo a Tsukuba, in Giappone, nel 1985.

2

Situata nelle vicinanze di Osaka, si tratta di uno delle prime città ricostruite in seguito alla guerra.

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Nel 1963, in una monografia sul Giappone di Casabella, si cercano i caratteri comuni a tutti i progetti metabolisti, uno di questi è riconducibile al gigantismo legato alla volontà di cercare nuove forme di vita associata.

La massima espressione di megastruttura metabolista risiede nella proposta di progetto per la baia di Tokyo3 che, nata come soluzione ai problemi della città di inizio novecento, pianificava, in modo totalmente schematico e ordinato, tutta la baia.

Al gruppo metabolista va sicuramente riconosciuto il merito, come espresso dallo stesso Banham4, di aver contributo alla crescita delle megastrutture; quello che però costituisce una fonte di discutibile scetticismo, e di conseguente critica, è la concezione stessa che il gruppo nutriva nei confronti dei mega-progetti: essi, rappresentando nella visione metabolista un’alternativa alla confusionaria urbanistica del passato, costituivano una soluzione al problema della pianificazione posto dalla società contemporanea.

Proponendo nuovi suoli artificiali popolati da progetti utopici, il gruppo Metabolism sembrò però perdere di vista quelli che risultavano essere i valori fondanti della cultura giapponese, allontanandosi così sempre più dalla tradizione.

La metafora biologica di cui si erano appropriati i metabolisti venne duramente criticata in quanto promotrice di una struttura gerarchica alimentata da bisogni meramente capitalisti e fu così che il movimento metabolista, già in una fase di crescente declino, si avviò definitivamente verso la conclusione della sua esistenza.

3

La nuova proposta formulata nel 1960, il cosiddetto Tokyo on the sea, elaborata dal Tange Lab - composto da Kenzo Tange con Koji Kamiya per il sistema di housing, Arata Isozaki per gli edifici destinati ad uffici, Kisho Kurokawa per i trasporti, Sadao Watanabe e Heiki Koh - prevedeva la realizzazione di una macrostruttura protesa sull’acqua della baia di Tokyo per un’estensione di 80 chilometri, finalizzata ad ospitare due milioni e mezzo di lavoratori e ulteriori cinque milioni di abitanti. Il progetto si articola su un asse centrale, dotato di autostrade e di spazi destinati ad uffici, edifici ministeriali e tutti i servizi necessari alla città postindustriale collocati al livello interrato. Dall’asse principale, che avrebbe dovuto ,secondo il progetto, connettere i distretti di Chiba, Tokyo e Kanagawa, si dipartono poi una serie di ali ortogonali che si protendono sull’acqua e ospitano le residenze, organizzate su grandi strutture a cavalletto su cui ogni individuo avrebbe potuto costruire la propria abitazione. (Vedi foto pg. 81).

4

Peter Reyner Banham (1922, 1988), è stato un critico d’arte e teorico dell’architettura britannico, massimo esponente dell’idea megastrutturale.

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Sopra: gli studenti di Tange al lavoro per il piano della baia di Tokyo

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Sopra: masterplan raffigurante la proposta di progetto per la baia di Tokyo, Tange Lab, 1961.

Il masterplan si compone di un’asse maggiore principale, quello in cui sarebbero stati collocati i servizi, le infrastrutture e gli edifici amministrativi, dal quale si staccano una serie di ali laterali, ad esso ortogonali, nelle quali sarebbero state realizzate le residenze.

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3. Il recupero dell’abitazione individuale: il pensiero astratto di Kazuo Shinohara e l’importanza del contesto secondo Atelier Bow-Wow

Ripercorrendo brevemente alcuni degli eventi storici più significativi che coinvolsero l’istituzione della casa in Giappone, ho voluto riportare l’attenzione sulla progettazione di luoghi attenti alle necessità del singolo e rispettosi della tradizione del paese: unici elementi questi ultimi in grado di fornire un’alternativa concreta allo scenario desolante determinato da una densità dal carattere ormai incontrollabile.

Attraverso il pensiero di note personalità, quali sono Kazuo Shinohara e gli architetti membri dello studio Atelier Bow-Wow, mi propongo poi di approfondire come i progettisti affrontano queste tematiche all’interno dell’architettura residenziale nel paese nipponico.

3.1

Dall’esperienza postmetabolista alla questione della Japaneseness: la rivalutazione della tradizione

Nonostante la fiducia riposta da molti nei confronti di utopie e sperimentalismi, non venne a mancare, negli anni successivi ai due scontri mondiali, una forte resistenza al progredire di questo orientamento.

Molti furono infatti i giapponesi che rimasero legati ad una concezione influenzata dai valori della tradizione più antica del Paese e in un certo senso più domestica della architettura, caratterizzata da una profonda attenzione ai gusti e alle necessità del singolo e al contempo consapevole dell’importanza del significato di collettività all’interno della società giapponese.

Come teorizzato dal filosofo Felix Guattari1, l’architettura postmetabolista degli anni ‘80 in Giappone fu caratterizzata da un processo di risingolarizzazione contro le imitazioni postmoderniste.

La nuova attenzione dimostrata nei confronti dell’io che, considerato il vero fruitore dello spazio, diviene l’oggetto di tutte le maggiori attenzioni prima, dopo e durante l’intero processo di progettazione, influenzò notevolmente l’architettura: da questo momento in avanti infatti, una gran parte dei progettisti giapponesi si concentrerà non più sullo studio e sulla realizzazione di enormi complessi residenziali, ma cercherà una risposta al crescente problema di una società sempre più satura e disgregata, operando puntualmente attraverso la progettazione di spazi decisamente più contenuti.

1

Pierre-Félix Guattari (1930 – 1992) è stato un medico, psicanalista, filosofo e politico francese.

A inizio capitolo: una donna giapponese ritratta durante la cerimonia del tè. Quest’usanza, chiamata in lingua giapponese Cha no yu, appartiene alla tradizione più antica del Paese. Si tratta di un rituale che riserva un’attenzione particolare alla gestualità e all’ambiente in cui viene praticata, che deve essere intimo e curato in ogni suo dettaglio.

86 83

Sopra: maquette di studio per il progetto di case per anziani, Junya Ishigami+associates Studio. Le strutture variano a seconda della loro posizione geografica e la tecnica utilizzata dai carpentieri che le hanno realizzate. Ogni casa ha le proprie caratteristiche, delineate pensando ai futuri abitanti, fattore, quest’ultimo indice di interesse nei confronti del singolo.

84 87

“Sembra che il passaggio verso il recupero dell’abitazione individuale, posta in un contesto regolato da leggi e costumi appropriati, possa essere di grande interesse nel valutare l’alternativa tra lo sprawl delle case individuali e i quartieri di grandi blocchi.

In realtà il sistema di case basse, che tende ad occupare la crosta terrestre del paesaggio giapponese in una sorta di “Hidden Urbanism”, mette in luce un diverso modo di fare città, in cui a partire dalla progettazione di luoghi puntuali alla scala domestica possono generarsi trasformazioni di scala più ampia, riferiti a una dimensione espansa dell’abitare”1.

La linea di pensiero condivisa da molti giovani architetti giapponesi non è quindi quella di abbandonarsi a nuove sconsiderate ed illusorie utopie avanguardiste, che non farebbero altro che ampliare la distanza già presente nel rapporto società - casa - individuo, ormai alquanto fragile ed incerto; la recente inclinazione punta al contrario a favorire la progettazione di luoghi puntuali alla scala domestica2, portando inevitabilmente a riconsiderare quelli che sono i valori tradizionali che più caratterizzano, da sempre, la cultura dell’abitare in Giappone.

1

Nina Bassoli, Lotus n 163, pg. 98

2

Ibid.

85 88

Ed è così che

“oggi la casa indipendente monofamiliare costituisce il tipo di abitazione più diffuso in Giappone”3.

Il suo utilizzo tuttavia non ha una storia lunga: introdotto - come anticipato in precedenza - in seguito allo sviluppo delle aree residenziali a partire dal 1920, è diventato più diffuso durante la ricostruzione del dopoguerra.

Prima di allora diversi tipi di abitazioni locali erano state adattate ai climi regionali, alle risorse disponibili e allo stile di vita degli abitanti - la machiya ne è un esempio rilevante.

In seguito, nel 1955, vista la scarsità dei terreni edificabili, con la creazione dello Nihon Jutaku Kodan, ossia l’Ente Nazionale per la casa, e grazie all’introduzione di una legge a favore della realizzazione dei condomini, si verificò in Giappone un’improvvisa ed incessante edificazione di complessi residenziali che invasero i sobborghi delle città, estesi ormai in maniera incontrollata.

Solo attraverso l’edificazione di questi enormi complessi residenziali lo stato pensò di poter far fronte alla grave crisi degli alloggi che affliggeva il Giappone nel dopoguerra.

La pianificazione urbanistica moderna ambiva a riconfigurare le città giapponesi in base agli standard antincendio e al nuovo stile di vita assunto nel corso del XX secolo e, di conseguenza, operò delle forti pressioni anche sulla tipologia di case che venivano costruite.

3

P. Ciorra F. Ostende, op. cit.

86 89

Si diffuse sempre di più la tendenza ad adottare una separazione fisica tra luogo di lavoro e sfera domestica: casa e ufficio erano ora da intendersi come due spazi tra loro ben separati, senza alcuna soluzione di continuità.

Questo rappresentò un cambiamento rispetto al precedente scenario, dove, come avveniva ad esempio nella machiya, che presentava sul fronte principale un negozio o un laboratorio, mentre prevedeva nella parte retrostante la collocazione degli spazi abitativi, la configurazione dello spazio era indice di una cultura in cui la vita e il lavoro non venivano separati ma erano da intendersi contigui anche in termini spaziali, in quanto complementari.

In effetti, durante il periodo di rapida crescita economica, anche come conseguenza ad una domanda di case indipendenti sempre più frequente, la tipologia abitativa della machiya venne gradualmente sostituita con case indipendenti dotate di un giardino sul retro, il che ha comportato a ogni nuova generazione, una suddivisione della terra in lotti via via sempre più piccoli.

L’insieme di tutti questi cambiamenti fece sì che in breve tempo si verificò in Giappone una trasformazione pressoché totale del paesaggio urbano: dal momento che i giardini venivano sacrificati per massimizzare gli spazi interni, il carattere del paesaggio urbano ne risultò alterato e, là dove un tempo c’erano case indipendenti intervallate da spazi esterni, si delineò un paesaggio urbano densissimo, formato da case separate tra loro da uno spazio vuoto strettissimo.

87 90

Parallelamente nel 1952, a seguito del trattato di San Francisco1 - con il quale si decretava la fine dei sette anni di occupazione militare da parte delle truppe alleate e veniva restaurata la sovranità nazionale del Giappone - si assisté a un progressivo riemergere di sentimenti nazionalisti che concorsero a riconsiderare l’importanza della tradizione architettonica giapponese, caratterizzata in quegli anni da una fase di crisi.

Il processo di riavvicinamento ai caratteri originari della cultura giapponese, fece sì che la tradizione tornasse ad essere oggetto di un dibattito volto a identificare lo stile storico su cui fondare l’architettura moderna.

Se per alcuni lo stile storico a cui era necessario fare riferimento era identificabile nello shinden-zukuri2, espressione dell’architettura civile del periodo Heian3, per altri invece la semplicità e la funzionalità moderne dovevano ispirarsi allo stile delle case rurali minka.

Questa disputa non si limitava tanto ad eleggere quale tra i due stili storici avrebbe dovuto prevalere sull’altro, quanto a riportare l’attenzione sul concetto stesso di Japaneseness, facendo con questo termine riferimento all’identità specifica dell’architettura giapponese, intesa soprattutto in relazione allo sguardo di chi la osserva dal fuori.

1

Sottoscritto l’8 settembre 1951 a San Francisco, in California, rappresenta un trattato di pace che, le 49 nazioni che lo firmarono, decisero di stipulare nei confronti del Giappone.

Questo trattato sancì formalmente il riconoscimento della fine della seconda guerra mondiale in Asia e l’inizio del protettorato degli Stati Uniti sul Giappone.

Gli accordi definiti dal trattato entrarono in vigore il 28 aprile 1952.

2

Lo shinden-zukuri rappresenta un tipo di architettura civile, che si affermò in Giappone nel tardo periodo Heian, specifica delle dimore aristocratiche, contraddistinto dall’impiego di edifici circondati da giardino influenzati dai caratteri indigeni nel contesto di elementi propri dei palazzi cinesi Tang, sul modello dei quali erano stati costruiti i complessi imperiali giapponesi del periodo Nara.

Lo stile shinden-zukuri prese il nome dall’edificio centrale del complesso (shinden), aperto a S sul giardino e collegato mediante corridoi coperti (watadono) ai vari edifici circostanti (tsuridono).

3

Il periodo Heian rappresenta un’epoca della storia giapponese, compresa tra l’VIII e il XII secolo (794-1185), che prende il nome dalla capitale del tempo, Heian-kyo, l’attuale Kyōto.

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Fu così che la questione della Japaneseness, pur non portando mai ad una soluzione univoca, incoraggiò l’emergere di una sempre maggiore sensibilità e di un crescente interesse nei confronti della tradizione, determinando inoltre l’inizio di un uso più attento e consapevole dei materiali tramite l’impiego di nuove soluzioni resistenti e affidabili, derivanti dalla industrializzazione, e di metodi costruttivi inediti che costituirono il denominatore comune tra le due tendenze, caratterizzando il paese specialmente durante il periodo del miracolo economico1.

Oggi la produzione dei giovani studi di architettura fa pensare che la contemporaneità giapponese non nasca all’improvviso come unico frutto di un’occidentalizzazione culturale ma che sia il risultato di un lungo e laborioso processo fondato su una radice più profonda che attinge appunto anche dalla tradizione della cultura giapponese.

“Ogni giorno di più il Giappone gli pareva diviso in due, come appunto le spie che hanno sempre due facce. Una era la colossale maschera occidentale, con i suoi edifici e quasi tutti i suoi prodotti di consumo, l’altra faccia, niente affatto colossale e spettacolare, anzi fragile e sottile come carta dipinta, era il Giappone vero. I due volti non si mostravano mai insieme ...”2.

Ed è proprio a questa dualità che progettisti come Shinohara e, più avanti Tsukamoto, Kajima e Tamai, si sono proposti di rispondere attraverso un’architettura che non ignora il peso della tradizione, ma che al contrario se ne fa portavoce, rielaborandone in chiave contemporanea alcuni degli aspetti principali.

1

Con quest’espressione si fa riferimento al fenomeno di boom economico che caratterizzò il Giappone negli anni tra il 1950 e il 1960, portando il paese dalla grave situazione in cui verteva all’indomani della seconda guerra mondiale fino a raggiungere elevati picchi di crescita economica.

2

G. Parise, L’eleganza è frigida, Adelphi, 1982

89 92

Sopra: famiglia che gode della serata fresca, Morikage Kusumi, Tokyo National Museum. L’opera esprime la continuità che esiste tra casa e spazio circostante.

90 93

3.2

Kazuo Shinohara: la casa come opera d’arte

Formatosi essenzialmente come matematico, Kazuo Shinohara1 è stato uno dei più influenti teorici e architetti giapponesi del Novecento.

Tutta la sua carriera si concentrò esclusivamente su case monofamiliari che fissarono i parametri del dibattito architettonico per le generazioni a venire (molte delle quali lo seguirono quando divenne professore al Tokyo Institute of Technology).

I suoi edifici e i suoi scritti formano un insieme complesso che pone in primo piano le potenzialità dell’architettura come forma d’arte critica.

La polemica di Shinohara, fautore di un’architettura critica rispetto alla visione dominante del mondo, era rivolta alla deriva industriale dell’architettura convenzionale.

Durante gli anni della grande espansione l’architetto partecipò infatti in modo significativo al dibattito culturale giapponese attraverso la progettazione e la realizzazione di case monofamiliari, convinto che l’abitazione rappresentasse il luogo privilegiato per esprimere una critica alla visione dominante del mondo.

La progettazione di casa singole, relativamente improduttiva dal punto di vista economico e al riparo dalle forze finanziarie che governavano lo sviluppo edilizio, poteva essere riconosciuta infatti come una forma d’arte tesa alla generazione di elementi spaziali personali che tendono a esprimere la libertà e l’unicità delle persone che li abitano.

1

Kazuo Shinohara (1925-2006), nasce nella prefettura di Shizuoka. Si laurea presso la Tokyo Academy of Physics nel 1947 ed entra nel dipartimento di architettura del Tokyo Institute of Technology (TIT) nel 1949 passando dall’istituto di matematica della Tohoku University, dove studia con Kiyoshi Seike. Dopo la laurea conseguita nel 1953, diviene tutor di grafica presso la stessa università, poi professore associato nel 1962 ed infine professore dal 1970 al 1986, anno in cui lascia la cattedra del Tokyo Insitute of Technology e diventa professore emerito del medesimo istituto. Viene poi invitato ad insegnare presso l’università di Yale e successivamente presso l’università della tecnologia di Vienna.

Nel 1986 crea lo studio Shinohara Atelier.

Fra i principali premi, l’Architetcural Institute of Japan Award, il premio per le arti del Ministero dell’Istruzione, la Medaglia con Nastro Viola, il Manichini Art Award Special Award, e l’Ordine del Sol Levante.

Nella pagina a fianco: House in Itoshima, Kazuo Shinohara, 1976. La disposizione dello spazio è internamente scandita dall’elemento di sostegno verticale che garantisce la continuità ed unitarietà all’ambiente.

91 94

Shinohara sosteneva che se si fosse riconosciuta un’utilità all’irrazionalità della casa giapponese, la progettazione delle abitazioni sarebbe potuta diventare uno strumento per resistere alla frammentazione della psiche, risultato questo dell’incessante ricerca di razionalità.

Sulla base di questo intento egli inseriva all’interno delle sue case elementi fortemente espressivi - quali spazi astratti cubici o allungati come fessure, slittamenti e cambi di densità nei volumi convinto che la contrapposizione di fattori contraddittori potesse produrre nuovi significati, più profondamente utili agli abitanti rispetto alla mera funzionalità.

92 95

Come precedentemente affermato, la rapida crescita del paese nel dopoguerra fu legata alla trasformazione della struttura economica e politica del Giappone.

In seguito alla crisi degli alloggi, i sobborghi delle città presero a espandersi in maniera incontrollata riempendosi di condomini ad uso abitativo.

Così, dietro la percezione che l’architettura fosse diventata sempre più schiava della industrializzazione, costruita in grande scala e controllata da forze finanziarie, la progettazione di case singole rimaneva, almeno dal punto di vista economico, relativamente improduttiva e poteva quindi essere riconosciuta come forma d’arte.

La casa singola incarnava l’ultimo sogno rimasto: una vittoria del singolo di fronte al governo e alla potenza delle grandi aziende.

Per Shinohara la progettazione di case rappresentava pertanto una critica culturale che partecipava direttamente alla creazione artistica, risultando totalmente slegata dalla produzione.

“Una casa è un’opera d’arte”1, affermerà l’architetto nel suo celebre scritto del 1962.

Prendendo così sempre più le distanze dalle megastrutture di pianificazione urbana prodotte dal movimento metabolista, Shinohara fa della casa un sistema di resistenza in opposizione al pragmatismo dell’industria dominante.

1

P. Ciorra F. Ostende, op. cit., pg. 62

93 96

A partire da questa celebre affermazione l’architetto tentò inoltre di identificare un metodo dell’architettura giapponese, considerando elementi come la composizione architettonica, l’ideologia e il potere religioso, la vita nella natura, l’autorità e l’irrazionalità.

Il suo metodo consisteva nell’analisi di alcuni edifici del passato: risalendo al periodo storico in cui erano stati realizzati, Shinohara ne immaginava il contesto sociale e tecnologico e dimostrava come, nel corso dei decenni, varie incomprensioni avessero inficiato le coeve valutazioni della tradizione architettonica.

Gli esempi più efficaci di Shinohara riguardano lo spazio delle minka2, e in particolare il ruolo del doma3.

Quest’ultimo elemento veniva da lui considerato come uno spazio non-aperto, in contrasto con le verande e i padiglioni tipici dei giardini e delle residenze aristocratiche.

L’opposizione tra il carattere oscuro del minka e il bianco della casa aristocratica, si rifletteva, secondo l’architetto, nelle abitudini di chi svolgeva le faccende domestiche nella casa e nell’autorità di coloro che erano abituati a commissionare il lavoro agli altri.

Shinohara analizzava i punti in cui queste categorie opposte convergevano, fondendosi tra loro e dando luogo a numerosi tipi residenziali nell’architettura giapponese.

2

Vedi nota 2 pg. 34

3

Il doma rappresenta di fatto l’unica area posta allo stesso livello del suolo esterno che in passato presentava un pavimento in terra battuta e dove era usanza collocarvi il deposito d’acqua della casa nonché un forno per cucinare.

94 97

Nella pagina a fianco : House in Hanayama, Kazuo Shinohara, 1976 In primo piano è posto un pilastro, il cui ruolo appare qui nobilitato: non si limita infatti ad assolvere la funzione strutturale, ma acquista una nuova simbologia, portatrice di una forte carica di astrazione.

95 98

Fu così che Shinohara nobilitò l’architettura residenziale sostenendola come forma d’arte e teorizzandola in antitesi rispetto alla figura della fabbrica, introducendo al contempo una nuova figura dell’architetto, che appare ora più vicina a quella di un matematico o di un pensatore.

Le case di Shinohara appaiono scollegate dal loro contesto, la città, ed egli stesso dichiarò di non nutrire interesse alcuno né per il sito né per l’opinione del cliente.

Il suo metodo progettuale ignora completamente preoccupazioni pratiche quali la comodità ed esalta al contrario i valori estetici basati sulla canonicità.

Sotto e nella pagina a fianco: North & South House, Kazuo Shinohara,1965.

Inoltre sembra proprio che più l’architetto diventasse consapevole della sempre maggiore influenza esercitata dal contesto, più lo ignorava nel tentativo di arrivare ad uno spazio totalmente autonomo.

“Credo che le case che creiamo potranno offrire sempre di più una visione totale di cosa significhi essere umano”1.

1

Kazuo Shinohara in . P. Ciorra F. Ostende,The Japanese House - Architettura e vita dal 1945 ad oggi, Marsilio Editore, 2016

House in White Kazuo Shinohara, 1966

Come già detto in precedenza, in tutta la sua carriera Shinohara si concentrò sull’architettura residenziale, eppure non si occupò mai di quella teoria funzionale che negli anni sessanta fu al centro di un acceso dibattito che riguardò specialmente le case di dimensioni ridotte.

Si domandò invece se un individuo, pur vivendo nella contemporaneità, potesse progettare una casa rimanendo nell’ambito della tradizione.

In quest’ottica, la House in White può essere letta come un tentativo di decostruire l’esistente opposizione che vedeva contrapporsi tradizione da una parte e contemporaneità dall’altra, ricomponendo le rispettive caratteristiche delle minka e delle abitazioni aristocratiche attraverso un’inedita combinazione di bianco astratto e spazio non-aperto.

Per Shinohara il cubo della stanza principale della House in White rappresenta un elemento personale, ben diverso dai cubi razionali del modernismo.

L’edificio costituisce un punto di svolta tra quello che l’architetto considerò il suo primo stile, che, caratterizzato dal dialogo con la casa tradizionale, risulta antitetico rispetto al successivo secondo stile, nel quale a prevalere sono invece cubi e fessure, finalizzati ad esprimere quell’ ”antispazio asciutto e inorganico”1.

La House in White rappresenta l’apice del primo periodo della pratica di Kazuo Shinohara, che consisteva nell’isolamento della sintassi dell’architettura tradizionale giapponese al fine di raggiungere un alto grado di astrazione geometrica.

Per Shinohara l’approccio giapponese alla forma ruotava attorno al concetto di frontalità invece che di tridimensionalità e procedeva per mezzo di una divisione dall’interno anziché per mezzo di un collegamento di spazi distinti, come avveniva invece nella coeva architettura occidentale.

1

P. Ciorra F. Ostende, op. cit., pg. 120

Nella pagina precedente: interno della House in White, Kazuo Shinohara, 1966 Nella pagina a fianco: prospetto della House in White, Kazuo Shinohara, 1966 Nella pagina successiva: piante con relativa analisi funzionale (a sinistra) e sezione trasversale (a destra) 103 106

L’edificio si compone essenzialmente di un cubo con le pareti bianche alloggiato dentro un tetto piramidale.

La pianta quadrata, di lato 10 metri, è stata divisa in modo che più di metà dello spazio fosse destinato a una singola stanza.

Il tetto è sostenuto da una trave centrale di cipresso, mentre quelle della capriata sono nascoste da un soffitto bianco e liscio, elemento quest’ultimo che conferisce loro una forte carica simbolica, indipendente dalla funzione strutturale.

L’astrazione geometrica dell’intera casa si distacca così dai principi funzionalisti del modernismo ed esprime il desiderio di Shinohara di creare uno spazio distinto da quello della civiltà meccanica, reintroducendo elementi del simbolico e del non-quotidiano.

104 107

Pianta piano terra 1. ingresso 2. soggiorno 3. sala da pranzo 4. cucina 5. ripostiglio 6. bagno 7. stanza dei bambini

5 6

4

3

1 2

7

Pianta I piano 8. camera padronale

8

Tanikawa House Kazuo Shinohara, 1974

Alle due prime fasi del lavoro di Shinohara segue, a partire dal 1974, un’ulteriore svolta, stimolata dallo slittamento tra il pavimento di terra nuda e il sistema strutturale geometrico di colonne e tetto, coincidente con la realizzazione della Tanikawa House.

Shinohara accettò quest’assemblaggio di elementi nudi, “unificazione forzata di elementi grezzi”1, nella speranza che la contrapposizione potesse produrre nuovi significati.

Questo nuovo atteggiamento diede l’avvio alla terza fase della sua poetica, nella quale l’interesse per il caos e la brutalità lo condusse a cercare attivamente nuovi collegamenti con la città.

La Tanikawa House è stata costruita in un’area rurale boschiva per Shuntaro Tanikawa2, uno dei più apprezzati poeti giapponesi del 900.

Il cliente aveva espresso le proprie richieste sotto forma poetica, specificando che l’edificio dovesse apparire sia come “la baita di un pioniere (una casa)” sia come un “luogo estivo o un tempio panteista (non necessariamente una casa)”3.

Il risultato del progetto di Shinohara rappresenta una delle sue realizzazioni più estreme.

1

P. Ciorra F. Ostende, op. cit., pg. 130

2

Nato nel 1931, Shuntaro Tanikawa, è un poeta, scrittore e traduttore giapponese. E’ uno dei poeti giapponesi più letti ed apprezzati ed i suoi lavori sono stati tradotti in lingua inglese.

3

K. Shinohara, When Naked Space is Traversed, “JA”, 288 (febbraio 1976), pg. 55

3

P. Ciorra F. Ostende, op. cit., pg. 126

Nella pagina a fianco: Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974 113 116

Con il tetto spiovente e la somiglianza con gli edifici vernacolari, la casa appare come una rilettura della House in White; anche qui infatti Shinohara destina un’ampia porzione della pianta della casa a un singolo spazio simbolico.

Tuttavia, mentre il grande ambiente della House in White manteneva qualche funzione quotidiana (la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno), la Tanikawa House spicca per il proprio rifiuto del quotidiano.

Il pendio della collina sul quale la casa è collocata viene inglobato nello spazio interno, che è pavimentato con terriccio scuro e umido (niente a che vedere con i pavimenti in terra asciutta e compatta dell’architettura tradizionale).

Tre pali di legno portanti ricordano la colonna del cipresso della House in White, ma qui è stata tolta ogni finzione e gli elementi strutturali sono esposti alla loro brutale nudità.

Questo rappresenta un cambiamento significativo nell’architettura di Shinohara, che si allontana dal simbolismo astratto dei progetti precedenti e procede verso il desiderio di uno spazio di fatto esaltato per quello che realmente è, privo di ogni forma di artificio e affettazione, nel quale ogni elemento è espressione unicamente di se stesso.

Nella pagina a fianco: Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974 Nella pagina successiva: piante e prospetto di Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974

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116 119

Pianta piano terra 1. ingresso 2. summer space/doma 3. ripostiglio 4. bagno 5. cucina 6. sala da pranzo 7. soggiorno

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5

3

1

6

2

7

Pianta I piano 8. stanza del tatami

8

Malgrado i cambiamenti radicali di stile susseguitisi nell’arco della sua vita, la visione della casa come opera d’arte rimarrà una costante del percorso dell’architetto.

Nelle due pagine precedenti: piante, con relativa analisi funzionale (a sinistra) e prospetto (a destra) della Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974

Fermamente convinto della possibilitĂ di un riscatto e, in un certo qual modo, di libertĂ , Shinohara ha ispirato generazioni e generazioni di architetti venute dopo di lui.

Sotto: Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974

3.3

Atelier Bow Wow: la casa di quarta generazione

All’inizio del ventunesimo secolo lo studio Atelier Bow-Wow1 ha identificato un trend secondo il quale le case di Tokyo, considerate con una vita media che si aggira intorno ai trent’anni, potrebbero essere catalogate a partire dagli anni venti del Novecento, in tre generazioni, conviventi le une con le altre all’interno della città.

Originariamente la superficie abitabile era di 250 mq, oggi risulta invece di soli 80 mq.

Questo grosso salto di scala è stato determinato dalla crisi economica (la cosiddetta bubble economy) dei primi anni ‘90, che ha cambiato radicalmente la dimensione abitabile della casa giapponese.

La casa monofamiliare di prima generazione comprendeva in origine anche un giardino che è andato riducendosi durante quella che è conosciuta come seconda generazione, per poi sparire completamente a causa della frammentazione del lotti nella cosiddetta terza generazione di case.

Tutto questo ha determinato un profondo cambiamento della vita sociale e della famiglia giapponese.

1

Atelier Bow-Wow, è uno studio di progettazione architettonica, fondato nel 1992 da Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kajima, ai quali, nel 2015, si unisce come socio Yoichi Tamai.

Yoshiharu Tsukamoto nasce a Kanagawa mel 1965.Consegue la laurea magistrale presso il Tokyo Institute of Technology nel 1989. Fra il 1987 e il 1988 è studente ospite presso l’École d’Architecture de Belleville (a Parigi) e nel 1996 consegue il dottorato in ingegneria presso il Tokyo Institute of Technology, di cui diviene professore ordinario nel 2000.

Momoyo Kajima nasce a Tokyo nel 1969. Nel 1991 consegue la laurea magistrale presso la Japan Women’s University, la laurea e il dottorato in ingegneria presso il Tokyo Institute of Technology, rispettivamente nel 1994 e nel 1999.

Fra il 1996 e il 1997, studia alla Eidgenössische Technische Hochschule (ETH) di Zurigo. Nel 2000 è ricercatore e nel 2009 professore associato presso la Art and Design School dell’Università di Tsukuba.

Fra le principiali pubblicazioni, Made in Tokyo (Kajima Institute Publishing, 2001), Pet Architecture (World Photo Press, 2001) e Behaviourology (Rizzoli International Publications, 2010).

2

P. Ciorra F. Ostende, op. cit., pg. 222

Nella pagina a fianco: ritratto il team di Atelier Bow-Wow durante un’analisi condotta sulla città di Tokyo 123 126

124 127

Gli architetti Tsukamoto e Kajima, hanno poi sottolineato come lo sviluppo di queste generazioni di abitazioni abbia dato il via ad una “spirale di intolleranza”1: la rimozione degli spazi esterni, come verande e giardini, la riduzione delle dimensioni delle finestre uniti alla separazione tra spazi residenziali e spazi lavorativi pubblici, come negozi e studi, hanno infatti trasformato le case in spazi introversi, asociali, che separano nettamente la famiglia nucleare dalla comunità allargata.

Per gli architetti questa introversione ha acuito i problemi sociali, primi fra tutti l’isolamento degli anziani e la violenza domestica.

Sulla base delle problematiche emerse dalla loro analisi, lo studio Bow-Wow si distingue per l’impegno e la costante attenzione nutrita nei confronti tanto della collettività quanto del singolo individuo, per il quale sempre prevede soluzioni architettoniche, frutto di un attenta analisi sull’individuo e sul contesto.

In architettura residenziale le proposte dell’Atelier prevedono l’abolizione delle partizioni per creare uno spazio continuo ma organizzato; scale e pianerottoli vengono usati per enfatizzare questa continuità.

Ad oggi si riscontra un forte aspetto creativo dello studio che ha portato alla realizzazione di opere che si distinguono per la minuziosa attenzione e per l’abilità di creare degli spazi sfruttabili dall’uomo, facendo così del problema del consumo di suolo motivo di ispirazione ed innovazione.

A dimostrazione di ciò, anche il fatto che Tsukamoto abbia intitolato Behaviorology1 il suo scritto, facendo con questo termine riferimento allo stretto legame che sussiste tra i comportamenti non solo delle persone intese come individui, ma anche degli oggetti utilizzati dall’uomo che a loro volta sono in grado di generare altri comportamenti di tipo collettivo.

1

The Architectures of Atelier Bow-Wow: Behaviorology, Rizzoli Iternational Publication, 2010

125 128

126 129

House-Atelier Atelier Bow-Wow, 2005

La House-Atelier, progettata dagli architetti Tsukamoto e Kaijima nel 2005, e da loro stessi abitata, imposta una nuova direzione per la casa di quarta generazione: più aperta al pubblico e generosa nei confronti delle persone che non appartengono alla famiglia.

L’edificio si colloca nell’area di Shinjuku1 - uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo, nonché il principale centro commerciale e amministrativo della capitale del Giappone - su un sito molto angusto caratterizzato da un’atipica forma a bandiera, circoscritto da fabbricati e connesso alla strada principale tramite una sottile striscia di terra.

Nonostante le molteplici restrizioni derivanti da una collocazione per così dire problematica scelta per chiare ragioni economiche - la struttura risulta sapientemente realizzata.

I volumi sono gestiti in maniera efficace e, anche grazie all’impiego di sottili muri di partizione, la distinzione tra edificio e casa e tra spazi lavorativi e spazi domestici risulta attenuata.

Questi ultimi occupano i piani superiori e sono accessibili unicamente tramite la scala principale, usata anche da chi lavora nello studio.

La scelta comporta così una commistione tra le diverse funzioni della casa-studi e la rende maggiormente predisposta al dialogo con abitanti e cittadini, garantendo però al contempo un certo grado di privacy agli spazi propriamente domestici.

1

Shinjuku è inoltre conosciuto come la sede del nodo ferroviario più trafficato al mondo: la stazione di Shinjuku.

Nel quartiere vi risiede anche la sede del Palazzo del governo metropolitano di Tokyo, uno dei più alti edifici di Tokyo, dove viene gestita l’amministrazione politica e pubblica di Tokyo.

Nella pagina precedente: House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 Nella pagina a fianco: schizzo della House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 131 134

132 135

1. stanza impianti 2. ufficio A 3. ingresso 4. ufficio B 5. pianerettolo III 6. soggiorno-sala da pranzo 7. pianerettolo IV 8. camera da letto 9. terrazza

Nella pagina a fianco: sezione prospettica della House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 Viene qui sottolineata la commistione tra le diverse funzioni appartenenti alla sfera domestica e a quella lavorativa, che coesistono all’interno del progetto in una soluzione di unitarietà , articolandosi su diversi livelli.

Nella pagina subito successiva: piante della House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 Nelle pagine seguenti: House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005

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3

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Pianta I piano

Pianta piano interrato

Pianta II piano

Pianta III piano

Pianta della copertura

Split Machiya Atelier Bow-Wow, 2010

38

Al tentativo, da parte di Atelier Bow-Wow, di far fronte ai problemi derivanti da una crescente chiusura nei confronti della comunità, segue lo sforzo di adattare i caratteri propri dell’architettura tradizionale giapponese, individuabili nella tipologia della machiya, alla frenesia della vita urbana contemporanea.

Dietro questo intento è stata progettata la Split Machiya.

Situata nel frenetico quartiere di Shinjuku, è di fatto un esercizio di adattamento del modello della machiya alle esigenze della vita urbana contemporanea.

Come molti dei progetti residenziali di Atelier Bow-Wow, la Split Machiya è il risultato di una risposta creativa alla necessità di adottare spazi sempre più angusti, che sono ormai caratteristica distintiva della Tokyo contemporanea.

La casa è formata da due piccoli edifici speculari, con il tetto a due spioventi, inseriti in un lotto lungo e stretto e separati da un rigoglioso cortiletto-giardino (tsuboniwa).

Le due residenze sono contraddistinte da un disegno compatto e articolato che mira a generare un ambiente di vita visivamente aperto e integrato.

Il passaggio in terra battuta (tooriniwa)1 che collega il davanti con il retro è qui utilizzato come elemento compositivo.

Un collegamento diretto tra i due volumi corre per tutta la lunghezza del pianterreno e una larga panchina di legno, posta nel cortile, offre sia un luogo per riposarsi che un passaggio tra i due interni.

Inoltre, una serie di finestre allineate su ciascuno dei timpani della casa, consente di avere una visione ininterrotta dal retro del lotto fino alla strada, rispecchiando la disposizione lineare della machiya.

Il rapporto tra le finestre e il cortile crea un’atmosfera naturale e un senso di apertura sorprendenti in un quartiere di Tokyo così centrale e densamente popolato.

1

Si tratta del corridoio asfaltato che attraversa per lungo l’edificio e si trova in tutte le case tradizionali di Kyoto.

143 146

Simili nell’organizzazione, gli appartamenti presentano spazi modesti e privati, disposti su due piani più un piano rialzato.

Le travi in ​​legno a vista ospitano gli scaffali e le postazioni di lavoro, alleviando le stanze dal disordine e dall’eccessivo ornamento.

La forma a tetto spiovente viene traslata all’interno per accentuare ulteriormente l’espansione dello spazio, mentre i lucernari introducono ulteriore luce naturale e ventilazione nell’abitazione.

Inoltre, al secondo piano, sono allineate quattro grandi finestre per creare una vista continua tra le residenze e il contrastante paesaggio circostante.

Sotto: Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 Nella pagina subito successiva: sezione prospettica della Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 Nelle pagine seguenti: Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010

147

4.

Una reinterpretazione contemporanea della tradizione giapponese

Attraverso un’ulteriore analisi degli autori e dei casi studio precedentemente proposti, ho individuato quattro tematiche principali.

Queste tematiche, tutte ugualmente portatrici dei valori propri della tradizione più tipicamente giapponese, dimostrano come la contemporanea architettura nipponica non possa prescindere da un chiaro richiamo alla cultura del passato.

Tutto questo ci rimanda ad una celebre espressione dell’architetto Fujimoto, secondo cui

“Il futuro dell’architettura è arcaico”1.

4.1

Gli elementi della tradizione in una rinnovata architettura simbolica: House in White, Kazuo Shinohara

Nel processo di decostruzione che contraddistingue la seconda fase dell’opera dell’architetto Kazuo Shinohara, e che vede schierarsi tradizione da una parte e contemporaneità dall’altra, House in White rappresenta il più evidente rifiuto del cosiddetto modernismo giapponese1 che sembrava, in quegli anni, sostenere i principi appartenenti a correnti quali razionalismo e funzionalismo.

L’opera, completata nel 1966, ben testimonia il periodo di cambiamento del Giappone del secondo dopoguerra; dopo aver passato dei secoli totalmente isolato dal resto del mondo, il paese nipponico, a seguito delle influenze della cultura Occidentale, stava cambiando sotto molteplici aspetti, non ultimo l’architettura.

House in White costituisce di fatto la prima vera realizzazione in cui il progettista riuscì a dare piena espressione ad uno spazio astratto utilizzando soltanto forme tradizionali.

Questo atteggiamento è espressione dell’attaccamento di Shinohara alla cultura originaria del Paese.

1

L’inizio della ricezione delle cosiddette “avanguardie storiche” (Futurismo, Espressionismo, Cubismo, Dada, ecc.) in Giappone è tradizionalmente collocato nel 1909, anno in cui Mori Ogai pubblicò una traduzione del “Manifesto del Futurismo” di F.T. Marinetti.

Negli anni seguenti, il campo culturale giapponese (in particolare nei settori delle belle arti e della poesia) fu impegnato, da un lato, nella presentazione, divulgazione e studio delle nuove pratiche produttive e discorsive legate alle “avanguardie” e ai “modernismi” di provenienza europea e nordamericana e, dall’altro, nella produzione di prassi e discorsi d’avanguardia locali.

In Giappone come altrove questo periodo fu caratterizzato da un’oscillazione tra poli opposti (nazionalismo/internazionalismo; particolarismo/universalismo; provincialismo/centralismo), che mostra in questo la complessità delle rapporti nazionali e transnazionali di produzione, circolazione e consumo della cosiddetta ”arte nuova” e la problematicità della posizione assunta dal Giappone all’interno di essi.

A inizio capitolo: foto dell’esposizione della mostra The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 ad oggi, tenutasi al MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo - di Roma. La mostra, nata da una collaborazione tra la Japan Foundation di Tokyo, il Barbican Centre di Londra e il National Museum of Modern Art di Tokyo, racconta i caratteri essenziali della casa in Giappone. (Allestimento progettato da Atelier Bow-Wow in collaborazione con il museo). In primo piano è riconoscibile la Nagakin Capsule Tower, emblema del movimento metabolista, mentre sul pannello obliquo di sinistra si intravedono le architetture di Shinohara.

160 157

La casa, che misura 10 metri per ogni lato, di forma quadrata e sormontata da un tetto piramidale molto sporgente rispetto ai muri, pur non rappresentando un reale richiamo alla architettura residenziale del Paese, ne rielabora molti degli elementi fondamentali.

Vengono infatti qui riprese alcune forme tipiche dell’architettura giapponese che, unite ad una geometria rigorosa, danno vita ad una nuova simbologia.

L’importanza della House in White è data dal fatto che Shinohara riesce a sintetizzare in modo concettuale all’interno di un unico oggetto tutti i temi e le problematiche affrontate nell’arco della sua intera vita di progettista.

I riferimenti tipici giapponesi sono segnati dalla valorizzazione della struttura e in particolare dall’elemento del tetto.

Quest’ultimo, nella cultura architettonica del Giappone, non si limita a rappresentare una componente chiaramente imprescindibile da un punto di vista strutturale e funzionale, ma costituisce uno degli elementi più fondamentali ed espressivi dell’architettura nipponica.

“La bellezza più visibile dell’edificio è il tetto, con le sue curve e la modellazione scultorea”1,

scrive Boorstin2, che aggiunge poi

“Gli stili dell’architettura Shintoista si distinguono proprio per i tetti e la gerarchia d’importanza degli edifici non è in base alla loro altezza (come in Occidente), ma per la conformazione del tetto”3.

1

Daniel Joseph Boorstin

Daniel Joseph Boorstin (1914 - 2004), è stato uno storico, docente, saggista statunitense, nominato Librarian of Congress (titolo quest’ultimo, che fa riferimento al responsabile della Library of Congress, LOC, biblioteca nazionale degli Stati Uniti d’America) per il Congresso degli Stati Uniti d’America dal 1975 al 1987 dall’allora presidente in carica Gerald Ford.

2

3

Daniel Joseph Boorstin

Nella pagina a fianco: House in White, Kazuo Shinohara, 1966 159 162

Nella House in White l’elemento della copertura, in modo simile alla tipologia residenziale dell’antichità, risulta più largo dell’impronta del suolo della casa.

Shinohara ricorre a tale dimensionamento al fine di indirizzare l’attenzione verso questo elemento, che risulta così nobilitato, proprio come avveniva in passato.

Al centro della casa si trova la colonna portante che sostiene il tetto; grazie alla sua peculiare collocazione nello spazio, si può constatare come tale elemento non si limiti soltanto a svolgere il ruolo di elemento strutturale portante, ma contribuisce a migliorare soprattutto la distribuzione dello spazio interno e all’unicità di quest’ultimo.

Il senso di unitarietà e spazialità, derivante dalla particolare articolazione dello spazio che caratterizza l’intera casa, rende quest’architettura unica nel suo genere.

Indipendentemente da dove la si osservi, la colonna viene comunque sempre percepita; il suo stato, per così dire non finito, fa si che essa sembri emergere direttamente dal terreno, come fosse stata presente già prima della costruzione della casa stessa.

Inoltre, la predilezione per un’organizzazione lineare geometrica consente una semplificazione della disposizione e conseguentemente dell’uso degli spazi stessi.

L’architettura di Shinohara mantiene la forma pura iniziale, una linearità formale costruendo un solo tamponamento verticale, che svolge la funzione di divisione tra spazio pubblico e privato.

161 164

Sopra: House in White, Kazuo Shinohara, 1966. Schema di connessione del pilastro centrale con l’elemento della copertura.

Sopra: House in White, Kazuo Shinohara, 1966. Schema della struttura che si avvale di un sistema costruttivo trilitico così da permettere una maggiore unitarietà e flessibilità dello spazio interno.

162 165

Un altro elemento che sottolinea la connotazione fortemente tradizionale del progetto, è dato dal fatto che, come avveniva molti anni prima nelle tipiche case giapponesi, dove gli ospiti venivano accolti ed intrattenuti nella sala d’ingresso, nella sala di accoglienza o in un soggiorno che coincideva o sconfinava poi nella sala da pranzo, allo stesso modo nella House in White la configurazione spaziale scelta permette la continuità con questa antica usanza: all’ingresso dell’abitazione segue infatti un ampio spazio con funzione di soggiorno, che diviene più in alto sala da pranzo, ambiente, quest’ultimo, destinato quindi sempre al ricevimento e all’ospitalità degli invitati.

Tutto lo spazio prende la forma di un grande blocco di superficie di circa 10 mq.

Sovrapposte l’una all’altra, due camere da letto sono collocate nel lato est della casa.

Come conseguenza di questo posizionamento, la camera superiore riceve più luce.

Dall’altra parte del muro sono collocati il soggiorno, la sala da pranzo, e la cucina.

In un ultimo volume, collocato all’interno del soggiorno, si trova il bagno che risulta leggermente arretrato per permettere al volume principale di mantenere la sua purezza formale.

Il soggiorno è il luogo dove si sviluppano la maggior parte delle attività quotidiane; è soprattutto in questo spazio che il carattere di astrazione che pervade l’intera struttura viene maggiormente percepito.

Contrariamente alla casa tradizionale giapponese, la struttura portante della House in White, è nascosta dietro i muri bianchi.

I dettagli strutturali della casa, sono a loro volta dissimulati dalla presenza del controsoffitto.

Il risultato che ne deriva è uno spazio puro, dove il grande equilibrio che permane tutta la casa consente una migliore qualità di vita ai suoi abitanti.

163 166

soggiorno

ingresso principale

sala da pranzo

pilastro centrale

Sopra: House in White, Kazuo Shinohara, 1966 Analisi della distribuzione del piano terra, si noti come l’ambiente è scandito unicamente dalla presenza dell’elemento di sostegno verticale che delimita i due spazi destinati all’accoglienza degli ospiti: il soggiorno e la sala da pranzo, che conformemente all’impostazione delle case tradizionali, risultano adiacenti all’ingresso principale.

167 164

Con la realizzazione della House in White, Shinohara crea così uno spazio fortemente strutturato, dove il mobilio sembra rispettare una composizione geometrica piuttosto che una razionalità funzionale; questa strutturazione rigida, insieme alla geometria dello spazio, permette una semplificazione del quotidiano .

Secondo l’architetto è proprio tale semplificazione a permettere di raggiungere un equilibrio e di migliorare la qualità della vita degli abitanti, (nei confronti del quali Shinohara si dimostra sempre molto attento).

Il caso della House in White, che può in apparenza sembrare più un esercizio strettamente formale, costituisce in realtà il frutto un lavoro molto più lungo e complesso, basato sulla sensibilità e sull’attenzione da parte del progettista nei confronti della vivibilità di ogni singolo ambiente.

Nella pagina a fianco: House in White, Kazuo Shinohara, 1966 166 169

4.2

La semplicità di un’architettura essenziale in armonia con l’ambiente circostante: Tanikawa House, Kazuo Shinohara

L’essenzialità costituisce da sempre una peculiarità che contraddistingue l’architettura giapponese; Tanikawa House, una delle realizzazioni più originali dell’architetto Shinohara, è espressione di tale carattere, che viene in questo progetto declinato per rendere al meglio un’architettura rispettosa dell’ambiente e della cultura del Paese.

Nella pagina a fianco viene illustrato, attraverso alcuni schizzi, il processo costruttivo che ha portato alla nascita di Tanikawa House.

I diversi disegni dimostrano chiaramente il genere di rapporto che l’edificio intesse con l’ambiente circostante: la struttura non si limita ad inserirsi nel contesto naturale, ma si integra con esso, addirittura accogliendo la natura al suo interno.

Così facendo sembra quasi che non vi sia più distinzione tra natura e costruito: i pilastri, che crescendo germogliano come fossero boccioli, si confondono con i vicini tronchi degli alberi che, con la loro inclinazione, sembrano quasi voler proteggere la struttura dalle intemperie.

Allo stesso modo i fiori abbracciano la casa, spingendosi fino al suo interno, come fossero vicini incuriositi e subito affezionati al nuovo arrivato.

Infine un luminoso raggio di sole corona questo scenario così bucolico, assolutamente in linea con le richieste del committente, il cui l’aspetto poetico non poteva essere messo in secondo piano1.

1

Vedi nota 2 pg. 116

Nella pagina a fianco e nella successiva: fotogrammi del video Tanikawa House, Shinohara Kazuo, 1974, a cura di Cinematic drawing

167 170

168 171

Lo stesso peculiare modo assunto da quest’architettura nell’inserirsi all’interno del sito è espressione dell’attenzione e della consapevolezza dell’importanza del contesto.

La struttura sorge infatti su di un’area che presenta una conformazione di natura inclinata - il contesto è quello di un’area rurale boschiva situata in prossimità di Naganohara, cittadina facente parte della prefettura di Gunma - ma Shinohara sfrutta questa apparente difficoltà per valorizzare ancor di più l’esito del suo progetto: la casa, che si appoggia delicatamente al pendio della collina, sembra voler inglobare il dislivello del terreno nel suo spazio interno, rafforzando così ancora di più quel rapporto di reciproco rispetto-integrazione che intercorre tra l’elemento naturale e quello artificiale.

L’ingresso asimmetrico e ribassato della casa conduce a zona giorno e zona notte che sono scandite su tre livelli: due piattaforme e un soppalco, che col loro sfalsamento riproducono essenzialmente i contorni del declivio su cui riposa l’abitazione.

Sotto: prospetto ovest di Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974 Si noti la forte pendenza che caratterizza l’andamento del terreno.

Il forte legame nei confronti della natura è dimostrato anche dalla predilezione di un materiale naturale qual’è il legno.

La scelta di preferire un materiale derivante dalla natura stessa è infatti espressione della ripresa della tradizione giapponese nonché del rispetto, nutrito dall’architetto, nei confronti dell’ambiente circostante che non risulta affatto alterato dalla struttura che vi si inserisce al suo interno, la quale, al contrario, si dimostra così in sintonia con il paesaggio circostante da apparire quasi come fosse un’estensione di quest’ultimo.

Questa scelta sicuramente non stupisce se consideriamo che un altro aspetto, comune a tutte le arti giapponesi, che è facile far risalire alle originarie concezioni moniste dello Shintoismo1, è quello che potrebbe essere descritto come una particolare sensibilità nei confronti della materia2.

La grana, la consistenza, le venature, la pelle per così dire, del legno (e degli altri materiali propri della tradizione nipponica), vengono percepite come una comprensione fraterna di ogni segreto delle cose3.

Maneggiando, guardando, sfiorando con le dita le case stesse, non si ha mai l’impressione che la materia riempa passivamente dei disegni preordinati dall’intelletto; al contrario, è la materia stessa, in collaborazione con la mano e l’occhio dell’uomo, che condiziona e produce l’oggetto finale.

1

Lo Shintoismo rappresenta la storica religione di Stato del Giappone e si tratta di una religione politeistica e panteistica. La religione shintoista si è manifestata nel corso del tempo attraverso diverse forme di spiritualità, e si è evoluta sino a sviluppare un corpus dottrinale abbastanza definito. Da religione animistica del Giappone primitivo divenne espressione nazionalistica e rappresenta oggi una spiritualità mondiale. Dopo il collasso della tradizione statale alla fine della seconda guerra mondiale, lo Shintoismo ha infatti riacquistato i suoi valori originali di religione della natura e ha iniziato a penetrare l’Occidente. Tale credo prevede l’adorazione dei kami, cioè divinità, spiriti naturali o semplicemente presenze spirituali.

2

Patrizia Abruzzese, Roberta Brandinini, Giacomo Rizzi, Architettura domestica giapponese, una tradizione che continua con rinnovate qualità dello spazio, Edizioni Spiegel, Milano, 1997, pg. 93

173 176

3

op. cit.

Sopra: interno di Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974

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A completare la semplicità che contraddistingue il carattere di Tanikawa House e ad enfatizzarne il chiaro rimando alla tradizione, l’architetto ricorre ad un particolare espediente: nobilita uno spazio di per sé comune e ordinario quale è il doma1.

La ripresa del doma, spazio tradizionale dell’architettura storica giapponese, caratterizzato dall’inclusione di una superficie di terreno non pavimentata all’interno dell’abitazione come area di deposito e di lavoro, assume in questo caso un significato prettamente espressivo che si distacca dal nativo aspetto funzionale che lo contraddistingue nella tradizione architettonica del Paese.

Questo spazio, caratterizzato in origine da un utilizzo pratico, viene ora sconvolto in due direzioni: la dilatazione dell’ambiente innesca il paradosso di trasformare uno spazio di soglia nel nucleo della casa, su cui tutto si concentra e da cui tutto prende ragione d’essere.

Gli ambienti dell’abitazione si trovano infatti confinati nella parte ovest, costretti al minimo da un ambiente centrale non più dedito al lavoro manuale, ma ora trasportato nell’ambito del poetico.

Proprio il fatto di elevare uno spazio come il doma, di fatto molto domestico e mette in luce il chiaro intento, da parte del progettista, di volersi rifare alla tradizione, esaltandone quell’aspetto più naturale, proprio di un’architettura priva di artefici che si erge in tutta la sua essenzialità.

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Vedi nota 2 pg. 97

Nella pagina a fianco: una vista dell’interno di Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974 Nella foto risulta evidente il carattere di intimità ed accoglienza della casa che, nonostante risulti avere un mobilio molto ridotto - del tutto in linea con la tradizione filosofica e architettonica del Paese - sembra, attraverso la grande apertura, invitare ad entrare al suo interno.

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summer space/doma

ingresso principale

zona notte

pilastri

Sopra: Tanikawa House, Kazuo Shinohara, 1974 Analisi della distribuzione del piano terra: la parte piÚ ampia dello spazio è riservato alla funzione di doma o cosiddetto summer space, mentre gli ambienti domestici sono confinati nell’angolo ovest della casa.

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4.3

Studio + Residenza, una commistione tra funzioni: House-Atelier, Atelier Bow-Wow

“Stavamo cercando un sito per la nostra casa e l’atelier”,

affermeranno, qualche anno dopo il completamento del progetto, gli architetti dello studio Atelier Bow-Wow1, allora alla ricerca di un sito per la propria dimora e per il relativo studio.

Così, qualche tempo dopo si presentò la possibilità di acquistare un lotto che di per sé appariva più problematico che altro: caratterizzato da uno stampo che ricorda una bandiera, di dimensioni ridotte e interamente circondato da edifici.

Ma, l’opportunità di sfruttare la vasta esperienza, frutto del lavoro di molti i anni, nel trasformare condizioni difficili in caratteristiche positive per le case, fu più forte dello scoraggiamento dinnanzi alle difficoltà derivanti dal sito di progetto.

E fu così che Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima2 acquistarono il terreno.

1

Vedi nota 1 pg. 126

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Vedi nota 1 pg. 126

Nella pagina a fianco: House - Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 La casa-studio si inserisce in un lotto dalle dimensioni molto ridotte; l’edificio è circondato su tutti i lati dalle altre abitazioni del vicinato con le quali risulta in un ravvicinato e spesso inevitabile contatto, elemento questo però che costituisce motivo di arricchimento per l’architettura e per i proprietari stessi, il cui scopo, in qualità di progettisti restauratori della tradizione, era anche quello di ristabilire un rapporto in un atteggiamento aperto nei confronti del quartiere (aspetto quest’ultimo che era venuto a mancare a seguito della seconda guerra mondiale).

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Partendo innanzitutto dalla ricerca di una maggior integrazione con tutto che ciò che comprende l’intorno della casa, considerato dallo studio Atelier Bow-Wow, non un dato accessorio ma una componente intrinseca dell’architettura stessa, i progettisti si concentrano sulla possibilità di risolvere questa problematica operando dall’interno. È in questo caso proprio la particolare conformazione e disposizione degli spazi interni infatti, a determinare una maggiore apertura e flessibilità dello spazio, da cui consegue un rapporto più diretto con l’ambiente esterno.

Questo pretesto spinge Atelier Bow-Wow a intraprendere la strada della realizzazione di un’architettura del tutto dissimile dalle opere precedentemente realizzate.

All’interno dell’abitazione, la cui struttura è composta da uno scheletro in acciaio e da lastre di cemento, vediamo come i progettisti abbiano cercato di creare il più possibile un legame fisico e spaziale tra le diverse funzioni che la casa ospita.

Cercando di non frammentare la casa e mantenendo al contrario un percepibile senso di unitarietà che caratterizza l’intero edificio, gli architetti suddividono lo spazio in piani superiori e inferiori, prevedendo anche la presenza di una piccola terrazza sul tetto.

Gli spazi domestici vengono collocati ai piani superiori (al secondo e al terzo livello), così da tutelare la privacy dei suoi abitanti, mentre quelli riservati all’atelier sono distribuiti nel piano interrato e in quello ammezzato.

Gli ambienti risultano così in una comunicazione che sembra a volte quasi inevitabile, resa possibile dall’elemento connettivo verticale che garantisce, attraverso una conformazione sempre mutevole, un diverso grado di privacy a seconda della funzione dello specifico ambiente.

Nella pagina a fianco: frammenti di sezione prospettica di House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005 Le diverse parti della sezione assomigliano a tanti piccoli quadretti ritraenti scene di vita quotidiana lavorativa e domestica insieme. Come a completamento di un puzzle, le tessere si inseriscono in una posizione ben precisa all’interno della struttura architettonica.

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La scala, elemento di connessione tra i vari livelli della casa, nonché fattore di congiunzione tra le diverse funzioni, presenta infatti una particolare conformazione: la superficie dei pianerottoli varia da 3 a 10 metri quadrati, e la conformazione delle rampe si trasforma a seconda dei piani.

Per adattarsi alle pareti esterne inclinate, risultanti dalle normative vigenti, anche i pilastri del primo e del terzo piano sono inclinati e l’ingombro da essi derivante influenza di fatto l’abitabilità degli spazi interni.

La configurazione risultante degli spazi ha così notevolmente influenzato la disposizione delle varie funzioni all’interno della House-Atelier, divenendo di fatto il criterio dominante nella scelta della loro disposizione.

Nella pagina a fianco: maquette di House-Atelier, Atelier Bow-Wow, 2005

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4.4 Dalla forma chiusa alla forma aperta, rilettura di un’antica tipologia: Split Machiya, Atelier Bow-Wow

In Giappone l’aspetto più intimo delle case, determinato anche dall’insorgere di partizioni a delimitare i diversi spazi all’interno della casa, o più semplicemente dall’arrivo delle stanze, cominciò ad emergere all’indomani della seconda guerra mondiale; in seguito, sul finire del secolo, questo atteggiamento aumentò sempre di più, traducendosi sostanzialmente nella ricerca di un maggior grado di privacy.

Tutto questo ha portato però all’emergere di una separazione sempre più netta tra società e sfera familiare e così oggi risulta quanto mai fondamentale trovare il giusto equilibrio tra spazi aperti e chiusi, creando delle architetture che garantiscano sempre un rapporto di comunicazione e reciproco scambio con il quartiere, con la strada, mantenendo però al contempo un certo grado di privacy.

La dualità privato-pubblico rappresenta infatti, secondo lo studio Bow-Wow, un tema fondamentale per lo sviluppo del futuro1 e una componente imprescindibile per la creazione di una società solida e coesa.

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Rethinking urban space, To Tokyo, regia di Takao Nagase

Nella pagina a fianco: Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 In primo piano nella foto l’elemento ligneo che collega i due corpi del progetto, attraversandone il giardino.

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All’interno di questa dualità, la configurazione spaziale della casa ricopre un ruolo predominante: si pensa addirittura che essa debba in qualche modo essere la rappresentazione positiva (“the beautiful rapresentation”)1 dell’intera città (nel caso specifico di Tokyo).

Ed è proprio da questa prerogativa che deriva la stessa ragione che ha decretato la particolare conformazione che caratterizza una delle realizzazioni più significative create dal team di architetti dello studio Atelier Bow-Wow: Split Machiya.

Situata a Shinjuku2, quartiere densamente popolato che rientra nei ventitré quartieri speciali di Tokyo, la casa, amorevolmente immaginata da Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima per una coppia sposata e per una loro parente, è rappresentata da un edificio non più largo di tre metri, quasi a ridurre il rischio di un divorzio tra gli astronauti nelle condizioni anguste di una stazione spaziale3.

La Split Machiya rappresenta la risposta al bisogno di costruire due abitazioni su un terreno dalle dimensioni molte contenute, appena 58 mq.

L’abitazione, che si dispone sul fronte principale come una residenza a schiera, è composta da due strutture a specchio, liberamente collegate da un lussureggiante cortile centrale.

Riprendendo i caratteri della tradizionale casa di città (da cui il nome) questa machiya risulta divisa, è una casa divisa in due. È infatti composta da due minuscole case di soli 29 mq ciascuna, una a tre piani e l’altra a due piani.

La struttura si presenta come un insieme accatastato di livelli che si susseguono l’uno sull’altro senza sosta, in una soluzione di continuità, e che, attraverso l’elemento connettivo verticale - che si snoda tra i diversi piani della casa come un sentiero che attraversa la città, divincolandosi tra le tante case - risultano così convivere in un rapporto di reciproco e costante scambio.

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Rethinking urban space, op. cit.

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Vedi nota 1 pg. 134

3

Rethinking urban space, To Tokyo, scritto da Roland Hagenberg

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Il piano terra della casa è costituito da un cubo di cemento che sostiene due livelli in legno e funge contemporaneamente da ingresso, guardaroba e sala pianoforte.

L’arredamento è piatto in modo da evitare che le stanze appaiano troppo strette.

Scolpito sui lati con pannelli di rame, la scala riflette il giardino in miniatura, disegnandolo otticamente all’interno della casa.

Il bagno è nascosto sotto le scale, la sua porta abilmente mimetizzata come un armadio.

Il risultato è quello di uno spazio continuo ma organizzato dove scale e pianerottoli vengono usati per enfatizzarne l’unitarietà.

“La disposizione spaziale della casa indica come l’architetto concepisca “separazione” e “collegamento” su uno spettro modulabile e non come due concetti distinti o in opposizione e tra loro”1.

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Rethinking urban space, op. cit.

Nella pagina a fianco: maquette della Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 189 192

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L’attenzione al contesto è una prerogativa costante ed imprescindibile nei lavori di Atelier Bow-Wow le cui realizzazioni sono portavoce del rapporto complesso e caotico esistente tra spazi interni ed esterni in architettura.

Come già affermato in precedenza, all’indomani della seconda guerra mondiale e ancor di più sul finire del XX secolo, appare sempre più impellente la necessità di ristabilire un rapporto con il contesto, con il vicinato, un rapporto tra gli abitanti stessi.

Per spiegare la teoria che è alla base dello studio condotto da Tsukamoto e Kaijima, non si può quindi prescindere dall’analisi del contesto entro cui si collocano le architetture di Atelier Bow-Wow: si tratta di Tokyo e della sua realtà edilizia.

“La città di Tokyo è composta da case di diversi colori e forme.

Complessivamente può apparire brutta anche se gli edifici in sé non lo sono. È forse il caos il fattore caratterizzante della città […] 1“

Forti di questa esperienza di ricerca, gli architetti cercano di mettere in pratica, nel loro lavoro, i principi tratti da esempi esistenti, alterandoli in modo da creare una nuova realtà.

Da qui la scelta di riprendere una tipologia di abitazione derivante dalla tradizione, quale è la machiya, e di adattarla al contesto preso in esame.

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L’architectural behaviorology’ di Bow–Wow come scienza per costruire il senso del tempo, Nicola Desiderio, 2013

Nella pagina a fianco: frammenti di sezione prospettica della Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 Viene ora messo in evidenza il rapporto di connesione esistente tra i due volumi reso possibile da un rigoglioso giardino esterno.

Nella pagina successiva: frammenti di sezione prospettica della Split Machiya, Atelier Bow-Wow, 2010 Vengono qui evidenziati unicamente il bagno nel volume di sinistra e la cucina in quello di destra a sottolineare il rapporto di interdipendenzache sussiste tra i due appartamenti.

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Nel fare questo l’Atelier si spinge oltre, ponendo in primo piano la necessità di creare una architettura propensa all’apertura e al dialogo con tutto ciò che la circonda, necessità quest’ultima che si riflette anche nella volontà di porre in stretto legame gli abitanti dei due differenti corpi dell’abitazione.

Simile nell’intento a quanto accadeva nella House-Atelier, si crea così un rapporto di interdipendenza tra i diversi ambienti della casa.

Le due case sono collegate tramite un panca dalle ingenti dimensioni che funge essenzialmente da corridoio esterno e che occupa lo spazio centrale del giardino.

La casa di sinistra è fornita di una cucina ma non ha un bagno, la casa di destra invece ha un bagno, ma non la cucina. In questo modo i due corpi, sebbene rappresentino strutture separate, devono necessariamente fare affidamento l’uno sull’altro per funzionare.

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Conclusioni: Learning from Japan Quello che ho voluto evidenziare tramite l’analisi condotta sulla produzione degli architetti giapponesi contemporanei, è come oggi, quest’architettura non rappresenti il frutto di un fenomeno di occidentalizzazione culturale, ma è al contrario il risultato di un lungo e laborioso processo fondato su una linea di pensiero ben più radicata nella cultura storica del Giappone.

Nonostante i drastici cambiamenti verificatisi nell’arco del secolo scorso e le difficoltà da essi derivanti, gli architetti giapponesi sono stati infatti in grado di riportare in auge i valori autentici della tradizione, traslando in questo modo l’attenzione sull’individuo e sul ruolo che quest’ultimo ricopre all’interno della società.

Questo è stato possibile grazie anche ad una filosofia che da sempre riserva al singolo un’attenzione particolare, da cui deriva il modo stesso di concepire lo spazio dell’abitare.

Ancora una volta mi appare chiaro come la concezione dell’abitare, nel paese orientale, non possa prescindere da una filosofia che rappresenta di fatto il fondamento stesso dell’intera società.

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Bibliografia

Il significato tradizionale dell’abitare in Giappone P. Ciorra F. Ostende, The Japanese House - Architettura e vita dal 1945 ad oggi, Marsilio Editore, 2016 Lotus International 96, marzo 1998 Banana Yoshimoto, Ricordi di un vicolo cieco, Feltrinelli Editore, Milano, 2006 Giorgio Amitrano, Il mondo di Banana Yoshimoto, Feltrinelli, Milano, 2007 Il tao della Sejima, Lotus International 96, marzo 1998 J. Torres Garcia, La recuperacion del Objecto, Montevideo, 1965 Marc Augé, Non luoghi, Ed. Eleuthera, Milano, 2005 Fabrizio Fucello, Spazio e Architettura in Giappone: un’ipotesi di lettura, prefazione di Fosco Maraini, Fiesole (Firenze), Cadmo, 1996 Gunter Nitschke, “Ma”, the Japanese Sense of “Place” in Old and New Architetcural Planning”, in Architectural Design, Marzo 1966 Kisho Kurokawa, Rediscovering Japanese Space, New York - Tokyo, 1988

L’eredità bellica: verso una progressiva perdita della soggettività Manfredo Tafuri, Architettura Moderna in Giappone, 1964, Capelli Charlotte Perriand, Crisi del gusto in Giappone, in “Casabella Continuità”, 1957 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Ed. Laterza, Bari, 2002 Andrea Branzi, Modernità liquida e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Ed. Skira, Milano, 2006 Luigi Alini, Opere e progetti Kengo Kuma, Mondadori Electa spa, Verona, 2006 R. Nishizawa, K. Kitayama, Y. Tsukamoto, Tokyo Metabolizing, Toto Editore, 2010

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Il recupero dell’abitazione individuale: il pensiero astratto di Kazuo Shinohara e l’importanza del contesto secondo Atelier Bow-Wow L. Sacchi, Tokyo-to: architettura e città, Edizione Skira, 2004 J. Kuroda, M. Kaijima, Made in Tokyo: Guide book, Kajima Institute, 2001 K. Shinohara, When Naked Space is Traversed, “JA”, 288 (febbraio 1976)

Una reinterpretazione contemporanea della tradizione giapponese Patrizia Abruzzese, Roberta Brandinini, Giacomo Rizzi, Architettura domestica giapponese, una tradizione che continua con rinnovate qualità dello spazio, Edizioni Spiegel, Milano, 1997 Ernst & Sohn, Kazuo Shinohara: Works and Projects, Ernst & Sohn editore, 1995 The Architectures of Atelier Bow-Wow: Behaviorology, Rizzoli Iternational Publication, 2010

Filmografia Tardo autunno, regia di Yasujirō Ozu, 1960 Fiori d’equinozio, regia di Yasujirō Ozu, 1962 Sou Fujimoto, Rethinking urban space, To Tokyo, regia di Takao Nagase

Sitografia www.theatlantic.com www.arcomai.org

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