Carbonai - Factory snc

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testi di Giorgio Pedrocco e Giovanni Lucerna


Sono davvero tante le pubblicazioni piccole e grandi che promuovono il nostro entroterra: alcune esaltano le caratteristiche storiche, culturali e architettoniche, altre la gastronomia e il paesaggio. Questo piccolo libro di parole e di immagini pone al centro un uomo di questi luoghi, il carbonaio: un lavoro antico fatto di sapienza e fatica, privazione e libertà, sorriso e miseria. Un mestiere antico tra il bosco, il fuoco ed il suo fumo. Lavorare la legna prestata da questi boschi e produrre carbone e carbonella nelle radure a ridosso dei torrenti, come nei ranchi dei boschi che vestono le nostre bellissime e aspre montagne, mantiene un rapporto d’equilibrio, duro e duraturo, tra la comunità e il territorio. Un presente dal profumo remoto e lontano ma vicino all’anima arcana delle genti che abitano e vivono, amandole, le strette valli di questo appennino, la sua civiltà e la sua cultura.

Assessore alla Cultura Comunità Montana Alto e Medio Metauro

Sindaco Comune di Borgopace

Assessore alla Cultura Provincia di Pesaro e Urbino

Costantino Diotallevi

Marco Moretti

Simonetta Romagna

In Copertina - Antonio Venturi mentre avvia l’accensione della carbonaia.

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Museo di Storia dell’Agricoltura e dell’Artigianato Urbania, Palazzo Ducale.

Museo “I vecchi mestieri” Sant’Angelo in Vado, Palazzo Mercuri.

Museo del Carbonaio Borgo Pace, località Le Conce.

Museo dei Colori Naturali Lamoli di Borgo Pace, Abbazia di San Michele Arcangelo.

1. Museo e territorio Il Museo del Carbonaio è posto nell’edificio, recentemente restaurato dal comune di Borgo Pace, di una conceria ormai dismessa. La costruzione, collocata a ridosso di una radura in un sito suggestivo alla confluenza di due corsi d’acqua, il Meta e l’Auro, è stata destinata a documentare il lavoro dei carbonai. Un’attività in passato diffusissima nelle foreste dislocate attorno al vicino valico di Bocca Trabaria e ancora oggi presente nel territorio comunale nelle frazioni di Dese, Felcino, Figgiano, Lamoli, Palazzo Mucci, Parchiule, Valle e Villa. Il Museo è stato realizzato nell’ambito dell’iniziativa Musei Partecipati grazie al finanziamento della Comunità Montana dell’Alto e Medio Metauro, del Comune di Borgo Pace e della Provincia di Pesaro e Urbino. L’allestimento, che risponde contemporaneamente a esigenze documentarie e didattiche, utilizza i materiali fotografici e le testimonianze raccolte nell’estate del 1976 da Gianni Lucerna e Giorgio Pedrocco, nonché il reportage L’industria del carbon dolce nelle Marche di Luigi Rinaldi, apparso sulla rivista “Le Vie d’Italia” nel gennaio del 1927. In questo servizio Rinaldi incontra il pittoresco mondo dei carbonai che lavorano nei fitti e scoscesi boschi collocati attorno al passo di Bocca Trabaria. La rete “Musei Partecipati”, che coordina i musei demoantropologici e alcune attività agrituristiche e artigianali dei comuni di Urbania, S. Angelo in Vado e Borgo Pace, è una grande ricchezza del nostro territorio. A otto anni dalla sua istituzione l’iniziativa raccoglie sempre più l’interesse crescente dei turisti e delle scolaresche in visita nell’alto e medio Metauro. La scommessa degli Enti promotori, la Comunità Montana dell’Alto e Medio Metauro, i comuni di Borgo Pace, Sant’Angelo in Vado e Urbania insieme alla Regione Marche e alla Provincia di Pesaro-Urbino, era proprio quella di recuperare e valorizzare i saperi e le tradizioni dell’alta val Metauro e della Massa Trabaria coinvolgendo e coordinando in questa azione culturale anche le aziende agrituristiche e artigianali locali.

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Fig. 1. Schema della carbonaia, disegno di Roberto Garattoni. In Pier Paolo Zani, I carbonai. Un mestiere in bianco e nero, Pazzini Editore, Verucchio, 1990.

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2. Il carbone di legna, un’antica risorsa energetica Prima di passare ad illustrare i materiali esposti nella sala centrale del Museo occorre fornire alcune notizie sul carbone di legna, che per diversi millenni è stato una risorsa energetica decisiva nello sviluppo della civiltà umana. Infatti, dopo l’invenzione dell’agricoltura avvenuta attorno al 7000 avanti Cristo, la scoperta dei metalli, -rame prima, bronzo poi ed infine ferro- , non sarebbe stata possibile senza la disponibilità del carbone di legna, un combustibile ad elevato potere calorifico come il carbon fossile, ma a differenza di quest’ultimo del tutto privo di tracce di zolfo e di fosforo, dannosissime nei processi metallurgici. Rame, bronzo e ferro corrispondono a tre età che hanno visto, tra il 4000 e il 1000 avanti Cristo, susseguirsi grandi civiltà, prima tra la Mesopotamia e l’Egitto, poi in tutto il bacino del mar Mediterraneo. In quegli stessi tempi, anche se non se ne conoscono le modalità, si arrivò alla scoperta del carbone di legna; gli storici delle antiche tecnologie ipotizzano che si sia cominciato a produrre direttamente il carbone con una combustione parziale del legname in difetto d’aria dopo aver trovato tizzoni di legno carbonizzato in seguito ad incendi di boschi. Tizzoni particolarmente apprezzati perché bruciavano senza fumo e sviluppavano una grande quantità di calore. Si realizzarono così le prime carbonaie, allora non molto diverse nelle forme e nei procedimenti produttivi da quelle che, sino a pochi decenni or sono, hanno punteggiato le piccole radure praticate nei boschi e nelle foreste dell’Appennino e nelle macchie costiere del nostro paese. Si erigeva una catasta di legni ponendo al centro un camino verticale. Alla catasta, isolata rispetto all’ambiente esterno con una camicia di zolle di terra, si appiccava il fuoco, e il calore che si sviluppava carbonizzava lentamente il legname (fig. 1). Nei secoli successivi la produzione di carbone di legna continuò ad espandersi perché il combustibile era indispensabile non solo, come si è detto, in metallurgia, ma anche negli usi domestici, sviluppando il doppio del calore della legna a parità di peso. Solo alla fine dell’età moderna, a partire dal XVIII secolo, l’imponente sviluppo dell’industria mineraria del carbon fossile, un minerale abbondantemente disponibile in vaste zone del sottosuolo europeo, provocò in tutto il continente un più o meno rapido declino della produzione di carbone di legna. In Italia, comunque, questa attività è sopravvissuta più a lungo sino alla fine della seconda guerra mondiale perché il nostro Paese non disponeva di carbon fossile ed era costretto ad importarlo a prezzi molto elevati.

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Foto 1. Antonio Venturi

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Foto 2. Nazareno Giorgini

3. I volti dei carbonai Pochi lo sanno, ma, sin quasi alle soglie del Novecento, i boscaioli e i carbonai fornivano al nostro Paese quasi tutto il combustibile (legna e carbone) necessario sia in casa per riscaldare e per cucinare sia in molte attività industriali ed artigianali là dove le lavorazioni richiedevano elevate temperature. Dietro i sacchi di carbone vegetale c’erano persone in carne ed ossa: i volti segnati delle immagini fotografiche ci rivelano un mondo da sempre isolato e taciturno; tante persone depositarie di una cultura materiale plurimillenaria alle quali solo in questi ultimi decenni è arrivato un tardivo riconoscimento (foto 1 e 2). La letteratura italiana del Novecento, in particolare la narrativa realista del secondo dopoguerra, offre significative testimonianze sul lavoro dei boscaioli e dei carbonai, mestieri a volte separati e altre volte strettamente congiunti. Carlo Cassola, nel lungo racconto Il taglio del bosco, pubblicato nel 1950, ed ambientato nel mondo dei taglialegna e dei carbonai toscani durante gli anni Trenta del Novecento, delinea magistralmente la fisionomia di un solitario carbonaio al quale il mestiere ha lasciato i suoi segni come incancellabili stigmate. “Febbraio, nel complesso, fu abbastanza clemente. Verso il 15 si presentò il carbonaio. Era un uomo alto dritto coi capelli grigi, gli zigomi venati di bluastro, come le mani, per la lunga consuetudine con la polvere di carbone”. Saverio Strati, nel romanzo Mani vuote, pubblicato nel 1960 ma ambientato nei primi anni del Novecento, segue le traversie dell’adolescente Emilio, mandato dalla madre a lavorare nelle campagne calabresi a soli dodici anni, che finisce, dopo vari mestieri, nel mondo dei carbonai lungo le impervie pendici dei boschi dell’Aspromonte. Qui il protagonista, boscaiolo e carbonaio alle prime armi, considerando la sua misera condizione allarga lo sguardo dolente al mondo che lo circonda, e quelle condizioni di miseria non possono che accentuare il suo senso di disperazione e il desiderio, allora comune a molti, di emigrare in America. “In un mese di lavoro, tutt’aprile, che ha le giornate che non finiscono mai e noi avevamo lavorato da prima che spuntasse il sole a dopo il tramonto a sbattere la scure su quegli alberi e a trasportare tronchi per costoni e dirupi, sulle spalle e rotolandoli, in un mese di lavoro massacrante avevamo guadagnato appena cinquanta lire per uno. (…). E un povero padre di famiglia, con cinque sei figli, come poteva andare avanti? Anche a questo pensai e il cuore mi si faceva piccolo come una nocellina. E lì c’erano di quei carbonai con famiglia. C’era Rocco Condémi che aveva quattro bambini e la moglie e stavano più in là. La moglie ora con la scure ora con la roncola, e l’aiutava a tirare il segone, per stroncare più presto gli alberi abbattuti. I bambini sempre mezzi nudi, per quei costoni, scalzi, sporchi, e la povera moglie non aveva più capelli in testa per i pesi che doveva trasportare; e lui, Rocco Condémi, s’era ingobbito e non aveva quarant’anni… Sei bocche a mangiare, in quella montagna dove si digeriscono le pietre; e i bambini che divorano tutto, che sono carne che cresce… Nessuno può capire queste cose, nessuno può immaginarle, se non le vede”. Infine Italo Calvino, nelle pagine de Il Barone rampante, apparso nel 1957, riporta un’essenziale immagine dei numerosi carbonai bergamaschi che affollavano i boschi a ridosso di Sanremo nelle Alpi Marittime verso la fine del XVIII secolo. Un’immagine sospesa tra la dimensione favolistica della trama del romanzo e la precisione naturalistica dell’ambientazione della storia. “A quei tempi tutta una povera gente girovaga veniva ad accamparsi nelle foreste: carbonai, calderai, …, famiglie spinte dalla fame lontano dalle loro campagne, a buscarsi il pane con instabili mestieri. Piazzavano i loro laboratori all’aperto, e tiravano su capannucce di rami per dormire… I carbonai, sullo spiazzo battuto di terra cenerina, erano i più numerosi. Urlavano, Hura! Hota! Perché erano gente bergamasca e non la si capiva nel parlare. Erano i più forti e chiusi e legati tra loro: una corporazione che si propagava in tutti i boschi, con parentele e legami e liti”.

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4. La costruzione della catasta La costruzione della catasta è preceduta dal taglio del bosco, un lavoro da alcuni decenni ormai completamente meccanizzato grazie all’impiego delle motoseghe e dei trattori per il trasporto del legname nel fondovalle (foto 3). Nel 1926 Luigi Rinaldi ebbe modo, invece, nei boschi attorno a Bocca Trabaria di assistere ancora al lavoro manuale dei boscaioli e ne rimase affascinato. “Le piante crocchiano e schiantano sotto la scure che s’avventa sui tronchi ritmicamente, guidata da gagliardissime braccia. Magnifici, sono i tagliatori. Essi non parlano, non si distraggono, non cantano. Lavorano senza tregua. Ansano leggermente. Roteano la scure con precisione assoluta; non accade che essa scivoli per imperizia sul tronco. Tutti i colpi intaccano: dall’alto in basso, dal basso in alto. Il ferro descrive semicerchi rapidi e vasti ad un tempo, e fa schizzare tasselli bianchi e schegge di faggio e di carpino. Dopo la scure l’accetta che sfoglia le piante dalla frasca e dai rami. Il bosco è in tal modo affrontato e roso, a poco a poco”. Trasportato il legname a valle (foto 4), innanzi tutto si costruisce il camino. Si tratta dell’operazione più importante e più delicata perché dalla corretta realizzazione del camino dipendono l’accensione, l’alimentazione e il tiraggio della catasta durante la fase successiva della carbonificazione. Nell’area di Borgo Pace il camino viene ancor oggi innalzato utilizzando vari sistemi: o i quattro pali o la pertica centrale, a pagliaro, o infine il castelletto. Le immagini fotografiche illustrano nei tratti più essenziali la realizzazione del sistema dei quattro pali e del castelletto, quest’ultimo limitato alla parte superiore del camino. Prima di tutto si conficcano quattro bastoni, precedentemente appuntiti, nel centro della piazza della carbonaia a formare il vano della canna fumaria a sezione cilindrica, distanti tra loro 40/50 centimetri e tenuti insieme da un anello costruito con rami flessibili di giunco od ornello (foto 5). Completato il cilindro, i legni di ugual taglio vi vengono sistematicamente appoggiati secondo un andamento circolare con l’avvertenza di lasciare il minimo spazio tra loro perché il processo di carbonizzazione possa avvenire quanto più possibile in assenza d’aria (foto 6). Quando l’insieme ha raggiunto una certa consistenza, circa un metro di diametro, si procede alla realizzazione della parte superiore del camino, che può essere sia cilindrica sia quadrata. In questo caso il carbonaio innalza un castelletto disponendo orizzontalmente dei piccoli legni, tenuti insieme da quattro pali verticali, conficcati nello strato inferiore della catasta (foto 7). Finita la seconda parte della canna fumaria vi si appoggiano come in precedenza i legni costruendo un secondo strato sovrapposto al primo (foto 8). Nella foto 9 è rappresentato un altro sistema, quello del pagliaro: attorno ad una pertica si erige la catasta, che assume così il caratteristico aspetto del pagliaio (vedi fig. 1). A conclusione dei lavori si estrae la pertica lasciando uno spazio libero utilizzato come camino. Complessivamente la catasta raggiunge l’altezza di circa due metri, un diametro di 4 o 5 metri e la quantità di legname utilizzato ammonta a circa 150-200 quintali. Si procede poi alla copertura della catasta. Preliminarmente si circonda la base con uno zoccolo di travi poggianti su pietre, la greppia, che ha lo scopo di trattenere la successiva copertura. Inizialmente si ricopre la legna con uno strato di paglia (foto 10), poi sopra la paglia si mette uno strato di terra (foto 11); in passato si rinnovava completamente la terra, mentre in questi ultimi anni si ricicla, si somonda, dalle cotte precedenti: i due materiali sovrapposti costituiscono la camicia della carbonaia. Lo strato di paglia ha il compito di impedire le infiltrazioni della terra nella catasta durante la carbonizzazione. Prima della copertura il carbonaio ha costruito con alcune zolle erbose, al culmine della catasta, la pelliccia (foto 12), una piattaforma praticabile dalla quale controllare direttamente l’accensione della catasta e poi chiudere il camino con una lastra di pietra. Si è formata così la cotta, una catasta di legna, tronco - conica, pronta per la fase successiva della trasformazione della legna in carbone. Infine il carbonaio traccia una croce augurale sulla sommità della catasta perché il lavoro vada a buon fine e il fuoco non divori la carbonaia (foto 13).

Foto 3. Pietro Matteucci taglia il bosco. Foto 4. Trasporto a dorso di mulo del legname nella piazza della carbonaia di Artemio Giorgini.

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5. Accensione della catasta e regolazione della carbonaia Prima di illustrare la sequenza della carbonizzazione del legname occorre soffermarsi sugli aspetti chimico-fisici del processo di distillazione secca al quale il legname viene sottoposto nelle carbonaie. I tronchi sono costituiti da un insieme di composti organici, cellulosa, lignina e resine, combinati con acqua; chimicamente il legno è formato, con valori leggermente variabili da essenza ad essenza, da carbonio (50%), da ossigeno (36%), da idrogeno (8%), da acqua (5%) e da sali minerali (1%). All’interno della carbonaia si arriva a regime a temperature dell’ordine di 600 C° che innanzi tutto disidratano il legno (questo passaggio viene riconosciuto dai carbonai che osservano come la camicia della carbonaia sudi); poi il calore sottopone i composti organici del legno a pirolisi, cioè a rottura (lisi) in seguito al calore (piros), trasformandoli in acqua e in una ricchissima miscela di idrocarburi gassosi che escono dalla carbonaia. Rimangono tronchi carbonizzati che scendono al 20% del peso iniziale della legna impiegata. Questo carbone presenta però rispetto alla legna un potere calorifico doppio, attorno alle 6.800 calorie per chilogrammo contro le 3.500 circa del legno. Nel corso dell’Ottocento in tutta Europa si è tentato di recuperare i gas provenienti dalle carbonaie per la gran quantità di impieghi ai quali questi potevano essere destinati: i gas illuminavano e riscaldavano, mentre il catrame derivante dalla loro depurazione conteneva soprattutto sostanze coloranti e medicinali. La produzione del carbone di legna ha così acquistato una dimensione industriale, mentre i carbonai si sono trasformati in operai di fabbrica e i processi di carbonizzazione del legname si sono spostati in moderni impianti. Questi, evidentemente, producendo redditi maggiori hanno finito per marginalizzare l’antico mestiere del carbonaio. In Italia questa trasformazione non è riuscita ad imporsi grazie ai bassi costi della manodopera, che hanno tenuto in vita sino alla seconda guerra mondiale il tradizionale sistema delle carbonaie. L’accensione della catasta occupa il lavoro del carbonaio per tutta la prima giornata (foto 14 e 15). L’operazione inizia gettando nel camino una

Foto 5. Sante Carciani inizia la costruzione del camino della carbonaia. Foto 6. Sante Carciani completa i l camino e inizia a disporvi attorno i legni. Foto 7. Sante Carciani inizia il castelletto avviando il secondo piano della catasta. Foto 8. Artemio Giorgini lavora al completamento della catasta. Foto 9. Arduino Valentini e Elena Agostini costruiscono la catasta col sistema a pagliaro. Foto 10. Antonio Venturi e Pietro Bonelli coprono la catasta di legna con la paglia. Si noti ai piedi della catasta la greppia.

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certa quantità di brace e legnetti; poi si chiude con una pietra piatta, per evitare lo spegnimento si rimbocca il fuoco durante il primo giorno per 5 o 6 volte, cioè si aggiungono pezzetti di legna per diffondere il calore verso la testa della carbonaia, e favorire la carbonizzazione della legna. Contemporaneamente per assicurare il tiraggio si praticano dei fori lateralmente sotto alla greppia (foto 16). Carlo Cassola, nel racconto Il taglio del bosco, delinea l’avvio dell’accensione della catasta. “La cottura della legna è un’operazione molto delicata, che richiede una grande esperienza. (...) Viene dato fuoco di sopra; la carbonaia fuma subito. All’incirca dopo dodici ore, l’uomo comincia a praticare dei buchi, che poi tappa e stappa, a seconda di come spira il vento, al fine di assicurare un tiraggio uniforme”. Nei giorni successivi il carbonaio segue da vicino la trasformazione del legname in carbone: essa si sviluppa prima nelle parti superiori della carbonaia perché lì si raggiunge prima la temperatura necessaria alla distillazione secca del legname. Il carbonaio per favorire il buon andamento del processo deve regolare al minimo il tiraggio e fare attenzione che non si producano delle crepe nella camicia, che bloccherebbero la salita del calore alla testa e causerebbero l’incendio della carbonaia. Una volta carbonizzata la parte superiore s’afuma la cotta, si praticano dei buchi tutt’intorno al cono fino al centro della cotta proprio sotto la parte carbonizzata. Questa operazione consente la successiva trasformazione degli strati inferiori della catasta (foto 17). La carbonizzazione della parte alta avviene di solito tra il secondo e il quarto giorno di lavorazione ed è facilmente constatabile dato che la testa si restringe e sprigiona un fumo azzurrognolo. In questa stessa immagine si coglie anche il momento quasi conclusivo della carbonizzazione, quando ormai si sta trasformando il legname della fascia più bassa posto al di sotto dei fori che fumano. Il lavoro di cottura non avviene sempre in condizioni atmosferiche ottimali: per quanto il carbonaio cerchi di scegliere dei luoghi molto riparati dal vento, non sempre questa precauzione è sufficiente. Il soffio del vento rischia di impedire lo sviluppo omogeneo della trasformazione perché da quella parte la catasta si carbonizza più rapidamente. Allora il carbonaio protegge le zone esposte con delle parate, graticci costruiti con Foto 11. Pietro, Eugenio e Fabio Cruciali coprono la carbonaia con paglia e terra. Foto 12. Al culmine della catasta: la pelliccia e una pietra per chiudere il camino. Foto 13. La croce augurale. Foto 14. Artemio e Nazareno Giorgini iniziano ad accendere la carbonaia. Si noti sullo sfondo un’altra carbonaia prossima allo sforno, perfettamente carbonizzata essendo scesa omogeneamente. Foto 15. Artemio Giorgini mentre lavora all’accensione della carbonaia, un’operazione che richiede un’intera giornata di lavoro. Foto 16. Nazareno Giorgini pratica i fori al disotto della greppia per facilitare l’accensione della carbonaia.

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fascine, oggi con teloni di plastica e, se queste non sono sufficienti, può intervenire otturando i fori in precedenza praticati in questa zona e facendone altri nella zona meno esposta per accelerare lì la distillazione (foto 18). La cottura, a differenza delle altre fasi, è anche la parte più drammatica e carica di tensione nella lavorazione del carbone; imprevedibili cambiamenti climatici possono determinarne un repentino fallimento. Proprio per questo motivo, sempre nel racconto di Cassola, il protagonista Guglielmo, che è ad un tempo taglialegna e imprenditore, assiste ed aiuta passando una notte insonne, il carbonaio che deve fronteggiare un improvviso e violento levarsi di vento. “Guglielmo rimase tutta la notte in piedi ad aiutare il carbonaio. Era la fase più delicata della cottura e per contro si era levato un forte vento, sicché bisognava in continuazione tappare e stappare i fori”. Conclusa la cottura, si lascia raffreddare il carbone per circa 8-10 ore. Di solito si sforna di notte o all’alba perché questo momento offre il doppio vantaggio di una temperatura più fresca e di una più facile individuazione dei tizzi ancora infuocati (foto 19). Lo sforno procede circolarmente addentrandosi con attenzione verso il cuore della cotta e ricorrendo spesso all’acqua per spegnere i tizzi (foto 20). Luigi Rinaldi nel suo prezioso reportage del 1927 assiste di persona a questa delicata operazione e la restituisce ai lettori con un’insolita vivacità di linguaggio e un forte contrasto di colori, dove il nero della notte, del carbone e degli uomini contrasta da un lato con il bianco lucente dei piccoli fuochi residui e dei fumi e dall’altro con il rosso delle braci. “Allora si sforna; si libera cioè la carbonaia dalla sua rivestitura, e il carbone di un bel nero lucido, ancora caldo, viene messo nei sacchi, delicatamente, perché non si franga. E poiché la luce del giorno impedirebbe di discernere i tizzi ancora accesi che propagherebbero il fuoco al carbone medesimo, la sfornatura si fa di notte, quando ogni pezzo pericolosamente incombusto viene individuato e isolato. É uno spettacolo da tregenda. Fumo denso, odore acre, cigolio di tizzi, e buio pesto rotto qua e là da occhi di bragia che illuminano a guizzi ombre di uomini neri anch’essi come la notte e agitantisi in silenzio.” Conclusa la carbonizzazione, quando ormai la cotta non fuma più, i carbonai somondano, cioè vagliano la terra della camicia e la rigettano affinata sul carbone per evitare che si creino fenomeni di combustione, dato che all’interno il carbone è ancora rovente. Si dividono le pezzature del carbone e si riempiono i sacchi pronti per il trasporto (foto 21).

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Foto 17. Nazareno Giorgini pratica i fori nella cotta per regolare la carbonizzazione. Foto 18. Parate costruite con i più diversi materiali per proteggere la cotta dal vento. Foto 19. Italico Gnaldi e Francesco Tommasini sfornano la carbonaia e somondano la terra. Foto 20. Lino Litti sforna e dispone circolarmente il carbone. Foto 21. Antonio Venturi insacca il carbone aiutandosi con un particolare vaglio a forma di sessola.

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6. I trasporti della legna e del carbone Dalle Alpi alla Sicilia, nel corso del Settecento e dell’Ottocento la sempre più evidente mancanza di carbon fossile ha consentito all’industria del carbone di legna di continuare ad avere un ruolo centrale nella fornitura di combustibile. Pur non esistendo per tutto l’Ottocento dati statistici sull’entità della produzione del carbone di legna, stime abbastanza attendibili ci portano ad ipotizzare come ogni anno i boschi italiani fossero in grado di alimentare una produzione di circa 10 milioni di quintali di carbone di legna. Infatti, estrapolando i pochi dati disponibili sulla produzione di poco più di 5 milioni di quintali di carbone di legna raccolti dall’amministrazione forestale per il 1906, quando complessivamente operavano in Italia circa 35.000 tra boscaioli, taglialegna e carbonai, possiamo ipotizzare, basandoci anche sui censimenti dei decenni precedenti, che nel corso dell’Ottocento, prima che grandi processi migratori ne falcidiassero le file, questi lavoratori fossero circa 70.000 e che la quantità di carbone prodotta oscillasse attorno ai 10 milioni di quintali. La produzione rilevata nel 1906 (attorno ai 5 milioni di q.li) si è mantenuta immutata negli anni successivi tra le due guerre mondiali per cominciare a ridursi nel secondo dopoguerra. Se il carbonaio era un mestiere itinerante che costringeva questi lavoratori a spostarsi nei boschi là dove abbondava la materia prima, ancor più in movimento era il carbone che già dall’antichità copriva un ruolo insostituibile nelle economie delle civiltà. Il motore erano i commercianti che ne tiravano le fila e vi investivano dei capitali, ma erano anche essenziali, come in tutte le economie di scambio, i trasportatori, dai tradizionali mulattieri, i vetturini, gli unici in grado di affrontare le asperità della montagna, ai carrettieri per arrivare infine ai moderni camionisti che smistavano il carbone dappertutto. Nei secoli passati, quando le carbonaie si erigevano direttamente nei boschi per risparmiare tempo e lavoro, la legna veniva trasportata a spalla o fatta rotolare lungo i pendii dai boscaioli sino alle piazze e i muli portavano a valle i sacchi di carbone che venivano poi caricati sui birocci opportunamente trasformati in carri, grazie all’aggiunta di una coppia di ruotini (foto 23). Negli anni Venti molto tempestivamente i tradizionali birocci vennero rimpiazzati dai primi autocarri, anch’essi stipati sino all’inverosimile, e il carbone potè così arrivare ai mercati urbani dove la richiesta era, nella prima metà del Novecento, ancora molto sostenuta. Più recentemente le piazze delle carbonaie sono scese in prossimità delle abitazioni e gli autocarri, grazie al miglioramento della viabilità, riescono ad arrivare direttamente sino alle piazze dove possono caricare i sacchi di carbone confezionati con lo stesso antico sistema. I muli non sono scomparsi, essi sono ancora impiegati per il trasporto della legna dal bosco alle piazze (foto 22 e 24). Solo in questi ultimissimi anni grazie al miglioramento della viabilità dei sentieri di montagna l’antico trasporto con gli animali è stato sostituito da moderni trattori. Nel Novecento emerge un processo di progressiva erosione di un’attività produttiva ancorata a tecnologie arcaiche, basata su un’elevata offerta di manodopera e quindi su bassi costi di produzione; mano a mano che questa condizione viene meno si contrae anche il volume produttivo di questo settore. Con il secondo dopoguerra e con lo spopolamento delle campagne e delle montagne l’attività venne quasi completamente liquidata. Si è ripresa solo in questi ultimi decenni perché ha potuto collocarsi proficuamente in certe nicchie del mercato industriale ed urbano. Oltre al carbone di legna vero e proprio, che si è continuato a produrre in tutti questi anni, nel comune di Borgo Pace si è anche sviluppata la produzione di carbonella che in questi ultimi decenni viene particolarmente richiesta per cuocere gli alimenti sia dai privati sia dai ristoranti. Questo combustibile di piccola pezzatura viene prodotto utilizzando rami e rametti scartati nella produzione del carbone (foto 25). Foto 22. Elice Elfridi mentre carica il basto del mulo. Foto 23. Sacchi di carbone sistemati a maglia e disposti su birocci con pianale sussidiario poggiante su ruotini. In Luigi Rinaldi, L’industria del carbon dolce nelle Marche, in “Le Vie d’Italia”, a. XXXIII (1927), n. 1, gennaio, p. 72. Foto 24. Scaricato il legname sulla piazza, il vetturino Alberto Olivieri coi suoi muli si dirige verso il bosco per fare un nuovo carico. Foto 25. Umberto Litti alimenta la buca della carbonella.

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7. Le dimore Il patrimonio edilizio del comune di Borgo Pace, pur subendo danni rilevanti in seguito al passaggio del fronte bellico nel 1944, ha tutto sommato, conservato la sua fisionomia originaria. Esso quindi rappresenta oggi, ad un’indagine attenta, una preziosa testimonianza sulle tipologie delle dimore appenniniche di montagna. Le dimore di Borgo Pace e delle sue frazioni sono state costruite con criteri che tengono conto della conformazione di quel particolare ambiente. Gli edifici da un lato si sono adattati alla morfologia dell’aspro territorio montano e dall’altro presentano strutture e materiali in grado di far fronte alle intemperie del clima. Le tipologie edilizie sono diverse dalle abitazioni collinari. Le case crescono in altezza per adattarsi meglio ai pendii di montagna e sono costruite con materiale litico e non con laterizi perché la pietra, oltre che essere abbondantemente disponibile in loco, resiste meglio dei mattoni alle escursioni termiche legate al clima montano e alle più frequenti precipitazioni atmosferiche. Nelle frazioni di Borgo Pace (Dese, Felcino, Figgiano, Lamoli, Palazzo Mucci, Parchiule, Valle e Villa) i singoli corpi di fabbrica sono prevalentemente a tre piani con suggestivi tetti in lastroni di pietra arenaria a due spioventi. La stalla e l’ovile, se ancora presenti, si collocano al piano terra, la cucina li sovrasta al primo piano e le camere da letto sono al secondo. Il forno è in cucina con la bocca affacciata sul focolare o sotto le logge, un annesso frequente in quelle abitazioni. Infine il fienile è addossato alla casa o incorporato nell’edificio, ed è spesso in comunicazione con la stalla. Una scala esterna di collegamento tra i piani sbocca in una loggetta o in un balcone ed è coperta. Il comignolo è molto alto. La preziosità di queste arcaiche architetture spontanee non viene completamente restituita dalle immagini perché solo una ricognizione in loco consente di apprezzarne la complessità costruttiva: scelta e lavorazione preliminare dei materiali litici, soluzioni costruttive (archi, stipiti delle imposte di pietra, tessitura delle pareti, forme della pavimentazione e soprattutto tetti in pietra). Passando ora ad esaminare l’immagine (foto 28), è emblematico il profilo dell’aggregato di corpi di fabbrica del sito di Ca’ Ranco Fabbri. Il termine stesso ranco sta ad indicare una operazione di disboscamento avvenuta parallelamente alla costruzione degli edifici per insediare nella zona circostante attività agricole rancando, cioè sradicando le essenze arboree del bosco. Una testimonianza di come, accanto alla pastorizia e ai lavori del bosco, si stesse mano a mano insediando in età moderna una attività agricola in terreni tutto sommato poco adatti a questo scopo.Va notata la suggestiva disposizione di corpi di fabbrica modulari a tre piani, in un sistema a schiera, che si adatta mirabilmente al declivio del monte, mentre il materiale litico si fonde cromaticamente con lo scenario di calanchi sullo sfondo. Inoltre i tetti costituiti allora da lastroni di pietra hanno pendenze, come in tutte le abitazioni di montagna, più accentuate rispetto agli edifici collinari e di fondo valle. Le due immagini del piccolo centro della frazione Villa mostrano come le caratteristiche tipologie delle dimore di montagna si presentino anche in forme aggregate che mantengono le peculiarità delle precedenti case sparse: altezza e adattamento alla morfologia del terreno e prevalente impiego di materiale litico. Nei particolari delle foto (foto 26 e 27) compaiono le logge dove, comunemente a tutto il mondo contadino di collina e di pianura, si sviluppavano non solo le attività sociali ma anche piccoli lavori necessari alla quotidianità domestica. Va poi notato come nell’aia convivano oltre al pollame anche alcune pecore, segno di una persistenza di attività di piccola pastorizia altrove completamente sparita. Pagina a fianco e foto 27. Abitazioni della frazione Villa. Si notino i tetti delle abitazioni e delle logge costruiti con lastre di pietra. Foto 28. Abitazioni a schiera a Ca’ Ranco Fabbri.

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8. Le capanne dei carbonai Nei secoli il mestiere di carbonaio, così come quello di boscaiolo, ha conservato caratteristiche di nomadismo stagionale, che ha costretto questi lavoratori a costruire abitazioni in precario, le capanne: ripari a pianta rettangolare sostenute da uno scheletro di pali sul quale si sistemavano ordinatamente zolle erbose. I carbonai che rimanevano per molto tempo nei boschi spesso erano raggiunti dai propri familiari, mogli e sorelle e sino alla fine dell’Ottocento spesso anche dai figli. Nell’autunno del 1926 a Luigi Rinaldi non sfuggono le capanne, provvisorie dimore che ospitavano questi lavoratori per molti mesi dell’anno. La presenza femminile ingentiliva e rendeva più vivibili ambienti che, se affidati solo alla cura dei lavoratori, avevano un aspetto più spartano. “(…) le donne pensano a cuocere la minestra e riordinare la capanna, l’interno della quale rivela subito il privilegio dell’ordine e una minore povertà: sacchetti di fagioli, patate a mucchi, vesciche di strutto, lumi a olio, specchi, panchetti, aghi e forbici, boccette di inchiostro e lucido da scarpe. I giacigli, ampi e alti, sono protetti sempre da un’immagine sacra. Non si può entrare in una di queste capanne senza provare un senso di commozione dinanzi a tanta umiltà”. Carlo Cassola ne descrive minutamente la costruzione da parte di una piccola squadra di boscaioli. “(...) nel pomeriggio iniziarono la costruzione del capanno (…). Cominciarono con l’abbattere due pini, per fare un po’ di largo; poi sterzarono [pulirono] accuratamente il terreno; si diedero quindi a tagliare giovani tronchi e grossi rami; per lo più di leccio, che avrebbero costituito l’armatura del capanno. (...) Impiegarono due giorni a costruire il capanno. Terminata l’armatura di rami, provvidero a rivestirla di zolle, la parte erbosa rivolta verso l’interno; così che esternamente pareva un capanno di fango. Sul tetto spiovente venne stesa la carta incatramata. La porta fu una fatica particolare di Fiore. Internamente vi erano due letti coperti di stipe [ramoscelli]; nel mezzo in corrispondenza della porta, un focarile e lo spazio per il tavolo. Niente altro. Il terzo giorno lo impiegarono nel trasporto e nella sistemazione della roba”. L’immagine scattata da Rinaldi (foto 30), mostra tre carbonai seduti attorno ad un rozzo tavolo che consumano a mezzogiorno il loro pasto. Sullo sfondo è possibile scorgere il profilo della capanna rivestita di zolle di cui si scorgono facilmente i contorni. La seconda immagine (foto 31) viene ugualmente ripresa dal reportage di Rinaldi; nella didascalia che l’accompagna il gruppo di capanne sullo sfondo diventa “un villaggio troglodito” e le donne sedute sulle sponde di un lavatoio in pietra sono indicate, al pari dei carbonai, come “faticatrici instancabili”. È forse la prima volta, dai tempi di Plinio (I sec. d.C.) che nei testi e nei documenti sul carbone di legna questi lavoratori ricevono un riconoscimento per la loro dura fatica. Pagina a fianco. “Una sosta. I carbonai, seduti presso la loro capanna, consumano il pasto frugale del mezzogiorno”. In Luigi Rinaldi, L’industria del carbon dolce nelle Marche, in “Le Vie d’Italia”, a. XXXIII (1927), n. 1, gennaio, p. 71. Foto 30. “Un villaggio troglodito. Donne di carbonai, anch’esse faticatrici instancabili, presso un lavatoio”. In Luigi Rinaldi, L’industria del carbon dolce nella Marche, in “Le Vie d’Italia”, a. XXXIII (1927), n. 1, gennaio, p. 70.

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9. La ricostruzione della capanna dei carbonai. Per dare un maggiore risalto all’allestimento e per meglio evidenziare le non facili condizioni di vita dei carbonai e dei loro famigliari abbiamo pensato di concretizzare alcuni aspetti del reportage di Rinaldi là dove si parla di abitazioni trogloditiche cercando di richiamare direttamente attraverso la costruzione di una capanna la quotidianità di quel mondo, facendo riferimento non solo alla pratica di lavoro ma anche ai modi attraverso i quali avveniva il loro provvisorio insediamento in prossimità dei luoghi di lavoro. E’ stata ricostruita una capanna così come era rimasta sedimentata nella memoria di alcuni carbonai di Borgo Pace: Marco Donati, Luigi Elfridi, Benito Gentili e Pietro Matteucci. Il più anziano, Benito Gentili, all’epoca ancora ragazzo, ne fece una diretta esperienza trovandovi ricovero durante le notti che accompagnavano i suoi giorni di duro lavoro alle carbonaie, allora dislocate lontano dalla sua abitazione. La ricostruzione inevitabilmente differisce dalle immagini fotografiche di Rinaldi e dalla descrizione di Cassola sia per dimensioni sia per forme. Una perfetta ed esatta ricostruzione non era nella nostra intenzione e non sarebbe comunque stata possibile perché le tipologie delle capanne differivano a seconda della provenienza dei carbonai, e aspetto ancora più importante, le tipologie dipendevano molto dalla morfologia del territorio in cui venivano realizzate. Inoltre i carbonai di Borgo Pace hanno in questo caso dovuto adattare la ricostruzione agli spazi disponibili nella sala di ingresso del museo. Foto 1. Si è cominciato con la costruzione dello scheletro della capanna costituito da due spioventi realizzati con robusti pali di sostegno sui quali sono state appoggiate due griglie destinate a reggere il tamponamento effettuato con zolle erbose. Foto 2. Le zolle sono state raccolte in un terreno argilloso, facendo attenzione ad estrarre forme a sezione triangolare in modo da poterle sistemare a regola d’arte. Foto 3. I carbonai iniziano a posare le zolle dal basso verso l’alto secondo linee orizzontali progressivamente sovrapposte. Foto 4. Il particolare di uno spiovente mostra la funzionalità del taglio delle zolle che consente, quando queste vengono sistemate dal basso verso l’alto, di connettersi perfettamente e di facilitare l’agevole scorrimento della pioggia impedendo all’acqua di penetrare all’interno. Foto 5. Da sinistra a destra: Mario Donati, Luigi Elfridi, Pietro Matteucci e Benito Gentili mentre completano la capanna erigendo attorno alla porta la parete anteriore.

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PROVINCIA DI PESARO E URBINO

COMUNE DI BORGO PACE

Testi: Giorgio Pedrocco (Università degli Studi di Bologna) Giovanni Lucerna (Biblioteca Comunale di Urbania) Fotografie: Giovanni Lucerna Coordinamento: Ivo Bernardini Responsabile Servizio Cultura Comunità Montana Alto e Medio Metauro Progettazione grafica: Feliciano Talozzi - Diana Vaselli, Factory Stampa: Arti grafiche Stibu Produzione audio guida: Laboratorio di musica elettronica del Conservatorio Statale di Pesaro “G. Rossini” David Monacchi Thomas Spada Tommaso Vecchiarelli Claudio Tombini Ringraziamenti: Sante Carciani Pietro, Eugenio e Fabio Cruciani Mario Donati Luigi Elfridi Elice Elfridi Benito Gentili Nazareno Giorgini Italico Gnaldi Umberto Litti Pietro Matteucci Clara Santi Giuseppe Tancini Museo del Carbonaio loc. Le Conce Borgo Pace (PU) www.comune.borgo-pace.pu.it comune.borgo-pace@provincia.ps.it Ermenegildo Elfridi al lavoro ai piedi della carbonaia.

www.museipartecipati.net info@museipartecipati.net


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