Fabrique du Cinéma #20

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2017

Numero

20

OPERA PRIMA

“GUARDA IN ALTO”

Le avventure oniriche di Fulvio Risuleo sui tetti di Roma

FUTURES

HLEB PAPOU

Con “Il legionario”, a fianco dei nuovi italiani

FOCUS

MAD ENTERTAINMENT

La factory napoletana che sta cambiando l’animazione

R

A

G

A

Z

Z

I

SELVAGGI

Alessio Lapice Sono audaci, irriverenti e mettono sopra ogni cosa l’impegno per l’arte

S

SIAMO TUTTI DEVIATI

I NUMERI DI UN GRANDE SUCCESSO

ALESSIO LAPICE HLEB PAPOU

SOMMARIO

R. ANTONAROLI E M. NICOLETTA

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

LUCA RALLI

LUCAMALEONTE: MEDITERRANEO

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Cristiana Raffa Serena Ardimento AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA b.studio http://bstudios.it in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Del Mandrione, 103 00181 Roma (RM)

04 FABRIQUE AWARDS 06 COVER STORY 10 FUTURES/1 18 FUTURES/3 22 ARTS 24 CHICKENBROCCOLI 26 NUOVI MAESTRI 28 MAKING OF 32 TEATRO 38 MESTIERI 40 ZONA DOC 44 ATTORI 46 VIDEOCLIP 52 SOUNDTRACK 54 MAD ENTERTAINMENT 56 REALTÀ VIRTUALE 60 EFFETTI SPECIALI 62 PICTURES 66 DIARIO 68 DOVE 69 EDITORIALE

14 OPERA PRIMA GUARDA IN ALTO L’ARTE DEL SOGNO

SILVIO SOLDINI

IL CONTAGIO

CARLOTTA CORRADI MAKE-UP ARTIST

LA CONVOCAZIONE ISPIRAZIONE

CANE SECCO ED ERMAL META

GATTO CILIEGIA CONTRO IL GRANDE FREDDO LA GATTA SUL TETTO DI NAPOLI 8 PRODUCTION

Finito di stampare nel mese di novembre 2017

ELLA&JOHN

IN COPERTINA Alessio Lapice

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2017

Numero

20

OPERA PRIMA

“GUARDA IN ALTO”

Le avventure oniriche di Fulvio Risuleo sui tetti di Roma

FUTURES

HLEB POPAU

Con “Il legionario”, a fianco dei nuovi italiani

FOCUS

Total look: Diesel Black Gold

MAD ENTERTAINMENT

La factory napoletana che sta cambiando l’animazione

R

A

G

A

Z

Z

I

SELVAGGI

Alessio Lapice Sono audaci, irriverenti e mettono sopra ogni cosa l’impegno per l’arte

3

20 FUTURES/2 ROBERTO “SAKU” CINARDI BRAINSTORMING

DANIELE SETOLA: RED CARPET GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

3

E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO total look DIESEL BLACK GOLD

SIAMO TUTTI DEVIATI di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

Mentre questo numero di «Fabrique du Cinéma» va in stampa, il caso delle molestie sessuali nel mondo del cinema divampa anche in Italia facendo terra bruciata intorno a nomi di insospettabili, la cui carriera – comunque si concludano i fatti – pare inesorabilmente segnata. E tutto accade a poco tempo di distanza da un’altra drammatica vicenda che ha toccato il nostro ambiente, conclusasi se possibile anche peggio: quella di Domenico Diele, finito in carcere quest’estate con l’accusa di omicidio stradale. Errori fatali.

Presunzioni. Sbandamenti.

Eppure, se esistono deviazioni intollerabili – violenze, abusi di potere, molestie – esistono anche deviazioni necessarie. Se esistono deviazioni

vigliacche – scorciatoie, truffe, inganni – ne esistono anche di coraggiose. Si

può “deviare” come ha fatto Luca Ralli, Arts di questo numero, incapace di stare al banco del liceo classico senza perdersi nel disegno, poi scenografo di compagnia in uno dei luoghi simbolo della devianza, il carcere, cresciuto con il culto di un artista deviato e geniale come Andrea Pazienza. Deviato, a suo modo, è anche Alessio Lapice, la nostra Cover Story, che si inventa attore

cambiando strada rispetto al percorso per lui già segnato di «scugnizzo incostante e impulsivo» della provincia di Napoli. Ricordano «il coraggio di cambiare strada», anche i Futures Riccardo Antonaroli e Matteo Nicoletta, che con Cani di razza osano virare lo sguardo al cinico su un tema, la disabilità, quasi impossibile da declinare fuori dallo standard pietistico-normalizzante. Devia la drammaturga Carlotta Corradi, quando si incaponisce a scrivere per il teatro di ragazze interrotte, baby squillo che sbagliano strada e finiscono col pagare per i loro errori.

E ha deviato in passato persino uno come Silvio Soldini, che ci racconta candidamente – lui, Nuovo Maestro di questo numero – di non aver avuto, da giovane, alcuna idea su quale direzione avrebbe preso il suo futuro.

La scommessa di questo numero di «Fabrique» è dunque quella di riscattare, proprio adesso,

proprio in questo delicato momento, la deviazione come atto creativo, ribelle, rivoluzionario. Riprendiamocela oggi,

riaffermiamone il senso positivo prima che il furore giustizialista di questi tempi oscuri ci metta tutti in riga.

Tarpando, senza possibilità d’appello, ogni alternativa all’ordinario.

«Se esistono deviazioni intollerabili – violenze, abusi di potere, molestie – esistono anche deviazioni necessarie».

4

5

15 DICEMBRE 2017

W I L L E V A L E N T I V I N I C I O F A B I O F A B I O J A C O P C HRIST IA N A L E S S A Attore

Attrice

Attore

Regista

Regista

Direttore CNC

Produttore e Distributore

Produttore

S P A Z I O 1 5

6

M D A F O N A L O D O V I N M A R C H I O N G U A G L I O N R E S I N A R O C H E S S H AL S E Y S O LO MO N D R O U S A

E I I E O A N I

N O V E C E N T O

D I C E M B R E

2 0 1 7

LA PRIMA EDIZIONE DEI FABRIQUE INTERNATIONAL AWARDS È UN SUCCESSO OLTRE LE ATTESE.

DOPO LE PRIME DUE EDIZIONI, DEDICATE AL CINEMA ITALIANO, FABRIQUE DU CINÉMA HA VOLUTO ESTENDERE LA SUA VOCAZIONE DI SCOUTING DI NUOVI TALENTI IN TUTTO IL MONDO, E LA RISPOSTA È STATA STRAORDINARIA: 1300 ISCRITTI DA 70 PAESI PER LE 12 CATEGORIE STABILITE.

1300 70 12 ISCRITTI

PAESI

CATEGORIE

Registi e registe, attori e attrici, compositori e compositrici di musica da film di ogni latitudine, stile e visione artistica si sono riuniti sotto il segno di un progetto che da sempre mette al centro l’originalità e il coraggio.

In questo modo FABRIQUE INTERNATIONAL AWARDS si conferma sempre più come un premio all’innovazione e alla capacità di sperimentare, talenti che per definizione non possono avere confini. www.fabriqueawards.com

7

- Cover story -

A

lessio, 26 anni, originario di Castellammare di Stabia, conquista immediatamente con la sua spontanea loquacità, che dà l’impressione di conoscerlo da sempre.

E ci confessa:«Da piccolo non avevo idea che

combinazione, ho visto il film appena tre giorni prima di essere contattato per il provino de Il primo re, sua ultima creazione sulla leggenda di Romolo e Remo. Per inciso, è stato il primo

sarei diventato attore, ero uno “scugnizzo” incostante e impulsivo. Nella mia famiglia nessuno fa parte del mondo deI

provino della mia vita in latino! Anzi, in proto-latino: un linguaggio ancora più arcaico di quello che si impara al liceo! L’incontro con il regista è stato spontaneo e naturale, lui

cinema e il mio avvicinamento è stato un crescendo, una goccia che scivola su una parete... (riflette) Wow! Che metafora mi è uscita: mi raccomando, scrivila!».

ripone totale fiducia nei suoi attori e questo ispira tranquillità. Ha le idee chiare, è deciso, e mi ha stimolato a cercare maggiore libertà nell’interpretazione.

A proposito, toglimi una curiosità: davvero volevi fare il meccanico?

E questa dove l’hai sentita? Con chi mi è sfuggito? (ride) No, non proprio. Durante l’adolescenza cambiavo passione ogni giorno.

Certamente adoro i motori, mi hanno sempre affascinato quegli ingranaggi in movimento... Sarei diventato anche pilota di

Prima che nei panni di Romolo, però, ti vedremo in Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero.

Si tratta della storia vera di Amedeo Letizia, aspirante attore che, negli anni Ottanta, fa ritorno nella sua città natale perché il fratello minore è misteriosamente scomparso. Il lavoro svolto con Bruno è stato insolito. Mi spiego: solitamente un attore studia e crea un personaggio per poi dargli vita nell’interpretazione. Noi, al contrario, ci siamo concentrati su quello che di me potesse essere utile al ruolo.

In breve, Alessio diventava Amedeo e viceversa: sono stati i mesi più belli e più difficili della mia carriera. Ho attraversato momenti di grande confusione e conosciuto me stesso ancora più a fondo. È uno degli aspetti di questo mestiere che amo di più: ogni lavoro su un

Formula1!

Come in Veloce come il vento! Non a caso sei il protagonista, accanto ad Alessandro Borghi, del prossimo film di Matteo Rovere...

Veloce come il vento è una bomba! Mi son fatto raccontare da Matteo tutte le peripezie affrontate per girare le scene in auto e,

nuovo ruolo accende nuove sfumature e

di CHIARA CARNÀ foto ROBERTA KRASNIG assistenti LUCA CAPUTO E GIULIA TERENZI stylist STEFANIA SCIORTINO makeup ILARIA DI LAURO hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI creative producer TOMMASO AGNESE produzione ELEONORA DE SICA, MASSIMO ROSSETTI total look DIESEL BLACK GOLD thanks to INLOCATION.IT

ALESSIO LAPICE

LATINO E MALAVITA

Romano d’adozione, napoletano nel sangue, nel cuore e (soprattutto) nello spirito, racconta una carriera intrapresa quasi per caso e arrivata sui più importanti set italiani, con un obiettivo costante: ricercare nuove sfide. Ma sempre con ironia.

10

Alessio Lapice si è diplomato al Duse International con Francesca De Sapio e ha seguito corsi di perfezionamento presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

«SENTO UNA RESPONSABILITÀ FORTISSIMA NEI CONFRONTI DEI ROMANI E DELL’ITALIA».

ringraziamo CRISTIANO CUCCHINI MANAGEMENT

11

«AFFRONTARE UNA STORIA VERA FA PAURA, MA È ANCHE UNO STIMOLO IN PIÙ».

Nato a Casal di Principe, diretto da Bruno Oliviero, è stato presentato fuori concorso alla 74esima edizione del Festival di Venezia.

offre l’occasione di provare sensazioni in crescendo. Per raccontare questa storia servivano dinamiche vicine alla realtà e infatti ho creato un legame molto forte con gli attori di questo film, eravamo una famiglia a tutti gli effetti.

Come cambia il tuo approccio a una storia vera rispetto a una di finzione?

Nel caso di Nato a Casal di Principe è come se una famiglia ti affidasse le chiavi della sua casa. Sono stato attentissimo ai dettagli e al rispetto verso questa vicenda importante. Volevo realizzare qualcosa di solido, rendere giustizia ai fatti. Affrontare una storia vera fa paura, ma è anche uno stimolo in più.

Parlando di fiction, tra le altre, hai recitato in Gomorra 2, ambientata nella tua città.

Una premessa è d’obbligo: senza esagerare, devo il 70% delle mie occasioni lavorative alla mia città. Gomorra è ambientata nei suoi quartieri più difficili e sono stato un grande fan della prima serie. Girare le scene d’azione è stato stupendo, ma ci tengo a precisare che descrive una realtà romanzata di Napoli. È vero, esistono quartieri disagiati che andrebbero alleggeriti dalle difficoltà, ma questo non è compito della TV, che ritaglia uno spaccato e lo trasforma in spettacolo. Io la vivo così, come intrattenimento. Gomorra non ha aumentato le problematiche di Napoli, è una gangster story di ottimo livello e come tale va presa.

Dubito che chi la segue voglia approfondire le problematiche sociali di Napoli.

Sei davvero molto legato a Napoli...

La amo follemente e questa voglia di cambiamento 12

che si respira nel cinema italiano mi riempie di fiducia perché desidero continuare a lavorare in Italia. Per quanto riguarda la mia “napoletanità”, chiaramente recitando in latino per Rovere non la percepisco granché. Tuttavia, a livello storico, sento una responsabilità fortissima nei confronti dei romani e dell’Italia.

Perché la storia di Romolo e Remo, per assurdo, è quella d’Italia...

Quindi anche di Napoli!

Vedo che hai studiato!

Altroché! A scuola non ero un secchione, anzi, ma lo sono diventato facendo l’attore. Sono talmente meticoloso che, quando sono su un set, sparisco dalla circolazione: famiglia e amici mi danno per disperso!

Che farai finite le riprese di Il primo re?

Sinceramente? Ho una fame assurda, sto seguendo una dieta ferrea sul set di Rovere e la notte mi capita di sognare la spesa che farò una volta libero dal set. Scherzi a parte, desideravo tentare la strada della comicità e ne ho avuto la possibilità interpretando il protagonista di Tafanos, horror comedy girata in lingua inglese, diretta da Riccardo Paoletti e prodotta da Sky Cinema. L’approccio a un registro diverso è stato divertente, ma continuo a preferire il dramma, che si tratti di cinema o di fiction. Di fronte alla macchina da presa, quando parte l’azione, penso solo a vivere la scena.

Hai altri progetti, che non riveli per scaramanzia?

Scaramanzia? Ti racconto questa: in uno dei primi articoli in cui si parlava di me, l’autore mi ha citato come Alessio Lapide! Lapide! Mia mamma mi ha telefonato preoccupata: «Facciamoci il segno della croce, mica porterà male?». Ad oggi posso dire di no...

- Opera Prima -

L ARTE DEL SOGNO di LUCA OTTOCENTO

GUARDA IN ALTO. DOPO I SUCCESSI INTERNAZIONALI OTTENUTI GRAZIE AI CORTOMETRAGGI, FULVIO RISULEO ESORDISCE NEL CINEMA CON UN’OPERA INCENTRATA SULLE AVVENTURE ONIRICHE DI TECO, GIOVANE FORNAIO CHE SCOPRE UN MONDO BIZZARRO E FIABESCO SUI TETTI DI ROMA.

T

ra gli addetti ai lavori, di Fulvio Risuleo si parlava

già da qualche anno come uno dei possibili nuovi talenti del cinema italiano. Il ventiseienne

regista romano, infatti, con Lievito madre aveva vinto nel 2014 il terzo premio alla Cinéfondation del Festival di Cannes, sezione dedicata ai lavori provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo, mentre l’anno successivo, sempre nel contesto della kermesse francese, grazie a Varicella si era aggiudicato il premio per il miglior cortometraggio alla Semaine de la Critique. Con il suo primo film Guarda in alto, presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, il giovane autore formatosi al Centro Sperimentale torna alle atmosfere surreali che a diversi gradi caratterizzavano le sue opere brevi e conferma il proprio talento immaginifico, dimostrando già maturità dietro la macchina da presa. Cineasta,

14

Protagonista di Guarda in alto è il ventisettenne Giacomo Ferrara, già noto al grande pubblico per l’interpretazione di Spadino in Suburra - La serie.

sceneggiatore ma anche fumettista, Fulvio ci ha parlato del suo originale esordio, così diverso rispetto a quanto solitamente offerto dal panorama cinematografico italiano.

L’idea di ambientare il film in un mondo fantastico sui tetti di Roma è affascinante. Com’è nata?

Inizialmente volevo fare un film d’avventura ambientato a Roma, qualcosa di vicino a un road movie. Mentre stavo lavorando a questa idea, trovandomi su un tetto di un palazzo di Piazza Vittorio ho notato che i tetti circostanti erano collegati, o quantomeno molto vicini, e così ho immaginato di spostare tutti i personaggi a cui stavo pensando al di sopra della città. Mi sono subito reso conto che la cosa poteva funzionare e mi piaceva il fatto di rendere quello dei tetti un mondo dove tutto fosse possibile. Ho

così coinvolto il co-sceneggiatore Andrea Sorini e insieme abbiamo ricercato un equilibrio sul piano narrativo. Per me era fondamentale che il film risultasse in qualche modo credibile e potesse essere accettato da un pubblico ampio, non solo dagli appassionati del genere fantastico.

Il protagonista si imbatte in diversi personaggi stravaganti, molto diversi tra loro ma accomunati dall’esigenza di trovare qualcosa di più eccitante della mera quotidianità. In un certo senso, il tuo mi sembra un film “politico” sulla necessità di sognare per vivere appieno la vita.

Dal mio punto di vista il film non ha significati particolarmente profondi, però il principale è proprio questo, suggerito in maniera esplicita dal titolo e da un personaggio verso la fine. È molto

15

importante avere curiosità e volontà di esplorare contesti nuovi: se le cose si vanno a cercare, si vive meglio. Volevo che tutti i personaggi incontrati da Teco fossero come lui, cioè persone bloccate che sui tetti hanno trovato il luogo ideale per esprimersi. L’idea di un personaggio ipnotizzato poiché si sente inadatto, inadeguato rispetto alla vita, mi interessava molto.

Ognuno di noi a tutte le età può avere un analogo momento di difficoltà, non si tratta semplicemente di una questione generazionale.

L’accompagnamento sonoro di Sun Araw è suggestivo. Come sei entrato in contatto con il musicista neopsichedelico statunitense e che apporto cercavi dalla colonna sonora?

Per il film non volevo una tradizionale musica cinematografica di commento. Non mi interessava quella musica un po’ subdola che non capisci mai se c’è o non c’è: l’intenzione era di sottolineare con forza solo alcuni specifici momenti dell’azione, affidandomi a composizioni originali che creassero un contrasto interessante con le immagini. Per ottenere questo risultato ho cercato su internet vari artisti e mi sono così imbattuto in Sun Araw. Quando ci siamo

incontrati ci siamo capiti subito e sono stato fortunato perché, oltre a essere un musicista bravissimo, è una persona sensibile con cui sono entrato in contatto facilmente. Il molto materiale da lui prodotto per il film, in gran parte non presente nel montaggio finale, verrà pubblicato in un album.

L’opera prima è interessante anche dal punto di vista stilistico.

Che tipo di approccio hai avuto alla regia?

L’idea era di puntare su un registro realistico per creare una sorta di contrappunto rispetto alla natura fiabesca della storia. Non volevo che le bizzarrie del film venissero sottolineate da una messa in scena troppo appariscente. Mi piace molto quando si crea questo

cortocircuito, come accade ad esempio nella letteratura fantastica, dove spesso la scrittura è realistica mentre gli elementi narrati sono surreali. Fin dall’inizio, quindi, volevo girare ricorrendo a qualche piano-sequenza, ma soprattutto a inquadrature molto lunghe e larghe. Abbiamo usato spesso

grandangoli per poter stare un po’ in disparte, lontani dall’azione, e riprendere tutto senza dover seguire un personaggio o un altro. È stata dunque una regia più descrittiva della totalità dei personaggi: non a caso,

i primi piani sono abbastanza pochi e hanno lo scopo di evidenziare particolari sensazioni dei personaggi, come accade nella seconda parte con Teco e Stella e nel finale con il muto e la bambina.

Per le atmosfere che evoca e per l’inventiva immaginifica, Guarda in alto a tratti mi ha ricordato il cinema di Michel Gondry e Spike Jonze. Quali sono state le tue ispirazioni?

Gondry e Jonze sono due dei registi che preferisco in assoluto e quindi penso che tanto i loro lavori brevi quanto quelli lunghi mi abbiano condizionato. In generale, la scuola di quei registi degli anni Novanta che venivano dal mondo dei videoclip e della pubblicità, di cui fanno parte anche Jonathan Glazer e Chris Cunningham, mi ha sempre affascinato. Magari i loro lavori non saranno sempre completamente riusciti, ma mi ispirano perché trasmettono la voglia di uscire un po’ dagli schemi muovendosi con maggiore libertà e sperimentando con più linguaggi. Per questo film,

però, i punti di riferimento sono soprattutto legati al mondo del fumetto, una mia grande passione. Anche se

la storia di Guarda in alto è pensata in maniera indipendente e non è direttamente legata a nulla in particolare, dovendo fare un film d’avventura con un protagonista giovane che vaga in una Roma un po’ strana, ho pensato molto ai fumetti di Tin Tin mentre, per quanto riguarda opere più contemporanee, una fonte di ispirazione è stata Black Hole di Charles Burns.

Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?

Sto scrivendo un nuovo film che vorrei concludere in tempi brevi, perché la sceneggiatura ce l’ho in testa da tempo. Si tratta di un giallo che ruota attorno a un bulldog francese, con due storie molto diverse che vengono unite dal cane e dei personaggi che si improvvisano investigatori. Nel frattempo ho finito un fumetto per cui

sono in cerca di un editore, che si muove un po’ sulla stessa lunghezza d’onda del mio primo Pixel, tra il demenziale e il filosofico.

Con i suoi primi cortometraggi, Lievito madre e Varicella, Fulvio Risuleo ha vinto ben due premi al Festival di Cannes, nel 2014 e nel 2015.

16

- Futures/1 -

HLEB PAPOU

AZIONE!

Bielorusso e lombardo, appena uscito dal Centro Sperimentale, Hleb Papou ha portato il suo corto di diploma alla Settimana della Critica di Venezia. Con la voglia di raccontare i “nuovi italiani” in chiave action.

di GIACOMO LAMBORIZIO

U

n furgone della Celere, chiacchiere oziose dei poliziotti durante un trasferimento. In primo piano un agente

guarda fuori dal finestrino in silenzio. Non partecipa alla discussione. È diverso dagli altri. Lo vede lo spettatore, anche se non lo sente dal contesto cameratesco. È nero, un “italiano di seconda generazione”. Si chiama Daniel (interpretato da Germano Gentile)

ed è il protagonista de Il legionario, cortometraggio presentato alla Settimana della Critica durante l’ultima Mostra del Cinema di Venezia, e la cui uscita ha fatto parecchia eco rispetto alle abitudini dei cortometraggi presentati nei grandi festival.

Il motivo di quest’eco è presto detto: la storia di Daniel, poliziotto che

si trova a sgomberare il condominio occupato dove vive da anni la sua famiglia, ha intercettato la cronaca più scottante di questi tempi, tra il dibattito sullo Ius Soli e gli sgomberi di piazza Indipendenza a Roma. Ma il motivo per cui Fabrique decide di raccontare la storia del suo regista, Hleb Papou, tra i Futures da tenere d’occhio del nuovo cinema italiano, va cercato al buio della sala cinematografica: Il legionario è un cortometraggio sorprendente e maturo, che rivela una mano registica su cui è doveroso scommettere.

La storia di Hleb parte in Bielorussia e arriva al Lido di Venezia.

Hleb, 25 anni, è arrivato in Italia a undici anni e ha da poco ottenuto la cittadinanza. Il legionario è il suo corto di diploma del Centro Sperimentale. «La passione per il cinema è nata durante

Il regista bielorusso Hleb Papou ha vinto per il suo nuovo progetto, L’interprete, la nona edizione del Premio Mutti - AMM (Archivio Memorie Migranti).

18

«CI INTERESSAVA RACCONTARE LA STORIA DI DUE RAGAZZI DI SECONDA GENERAZIONE CHE SI RITROVANO AI LATI OPPOSTI DELLA BARRICATA».

l’adolescenza, sono cresciuto con i film d’azione degli anni Novanta; il cinema d’autore ho cominciato a conoscerlo solo all’università e al Centro. Ho iniziato a girare durante le estati in

Bielorussia con un amico, piccole sequenze action, per divertimento. Il DAMS mi ha dato una base teorica e storica che non avevo. Il mio primo corto semi-professionale si chiama La foresta rossa, l’ho girato più o meno da solo nel 2012 in Bielorussia, con un budget di 20 euro. Ha avuto un buon successo ed è stato il biglietto da visita per entrare al Centro Sperimentale, dove ho davvero imparato il mestiere del regista, realizzato cosa significava lavorare con una troupe».

Il legionario è interessante perché mostra sia un’attenzione ai personaggi e alla descrizione dei loro rapporti, sia una messa in scena molto curata, che padroneggia bene i dispositivi spettacolari del cinema d’azione. In Italia è finalmente il momento giusto per fare un cinema di questo tipo?

Sono entrato al Centro avendo chiaro in mente, fin dalle selezioni, che volevo fare il cinema d’azione. Quest’ottica di genere ho cercato di trasportarla ne Il legionario. Sono partito da un’immagine: un celerino di pelle nera, o comunque un italiano chiaramente di origine diversa, straniera. Da qui siamo partiti con gli sceneggiatori

Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante con un approccio orientato a una forte ricerca sul campo, nel tentativo di essere sinceri.

Il corto ha avuto un’eco, se vogliamo involontaria, legata alla cronaca. Siete andati a toccare un nervo scoperto nella contemporaneità italiana. Come ha funzionato il lavoro di ricerca?

L’idea è vecchia di tre anni, molto prima della cronaca di questi ultimi mesi: abbiamo girato il corto a settembre 2016, l’anno successivo c’è stato il suo debutto. A noi interessava raccontare la storia di due ragazzi di seconda generazione che si ritrovano ai lati opposti della barricata, uno schema classico da rendere in modo attuale. Per raccontare il reparto mobile (un riferimento è stato A.C.A.B. di Sollima) abbiamo parlato con persone che ne fanno parte, conoscendone le storie, così abbiamo fatto con gli occupanti.

Per un giorno, sul set abbiamo avuto una vera squadra della Celere.

Ci interessava il conflitto insolubile tra legge di natura e legge dello stato, dentro personaggi vivi e sinceri. E spingere il pubblico a schierarsi. Senza cavalcare mode o rincorrere i buoni sentimenti.

Su che cosa vorresti lavorare ora?

Con gli stessi sceneggiatori abbiamo vinto il Premio Mutti, che la Cineteca di Bologna concede a registi di origine straniera, per un nuovo progetto di cortometraggio. Sarà ancora una storia “poliziesca”, speriamo di girarla all’inizio dell’anno. C’è nuovamente un italiano di seconda generazione di fronte a un dilemma morale. La sfida sarà imparare a girare

scene e situazioni “statiche” con la stessa tensione di quelle movimentate. Preferisco

che emergano la storia e l’emozione piuttosto che la competenza tecnica. Mi interessa raccontare i “nuovi italiani”, come più o meno sono anche io, uomini e donne con le loro storie umili e allo stesso tempo ambiziose. Come deve essere il regista, per citare una frase di Blasetti che è scritta sul muro del Centro Sperimentale.

Pensi già al lungometraggio?

Ora la sfida è riuscire a “campare” facendo il regista, ma il lungometraggio è un passo ancora lontano, per quanto mi possa ritenere abbastanza soddisfatto di quello che ho fatto fino a ora. Il legionario si presterebbe

bene a diventare un lungometraggio: ci sono due ambienti come la caserma e la casa occupata che sarebbe bello raccontare anche in chiave action.

19

- Futures/2 -

ROBERTO

“SAKU” CINARDI

DOPO ESSERE PASSATO PER I VIDEOCLIP E LA PUBBLICITÀ E AVER REALIZZATO DUE CORTI IN CUI SI CONCENTRA SUL SOPRANNATURALE E LA FANTASCIENZA, ROBERTO “SAKU” CINARDI STA LAVORANDO AL SUO VERO E PROPRIO ESORDIO NEL MONDO DEL CINEMA. di LUCA OTTOCENTO

20

Christian è stato presentato al Torino Short Film Market, il mercato del cortometraggio giunto quest’anno alla seconda edizione.

P

er Roberto Cinardi, in arte Saku, tutto è cominciato con la musica. A diciotto anni suonava in alcuni gruppi

punk e metal della scena romana e da qui, più avanti, è stato per lui naturale dedicarsi ai videoclip. Uno dei primi, realizzato nel 2007 in MiniDV per i

Dufresne, è andato in alta rotazione su MTV e così si sono aperte le porte per un percorso che ha portato il trentaseienne regista romano a lavorare con gruppi e artisti noti (tra gli altri, Verdena, Lacuna Coil, Litfiba, Linea 77, Salmo, Nek e Tiziano Ferro). Negli ultimi anni si è poi occupato prevalentemente di pubblicità, realizzando spot per brand come Reebok, Vodafone, Levi’s, Fiat e Fastweb. Ora, parallelamente all’attività pubblicitaria, cui tiene molto perché gli permette di viaggiare per il mondo, si sta dedicando anche a opere narrative. Ha realizzato due cortometraggi, Christian

e Yonder, in cui dà libero sfogo alle proprie passioni cinefile, e sta pensando a un primo progetto più articolato. Fabrique ha incontrato Roberto per parlare di questa

sua nuova “incarnazione”, come lui stesso l’ha definita.

Come nasce l’idea alla base di Christian?

Si trattava del mio esordio alla regia in un prodotto narrativo e volevo realizzare qualcosa che mi rappresentasse e conoscessi bene. Essendo cresciuto a Roma Est e avendo una predilezione per il genere fantastico, la sfida era quella di unire il mondo della periferia romana a suggestioni di tipo soprannaturale. Riflettendo sulla direzione da prendere per uno spunto che fosse credibile nel nostro contesto sociale, come ad esempio lo possono essere le maledizioni degli Indiani d’America negli horror statunitensi, ho pensato di lavorare sulla mitologia cristiana e sulle superstizioni a essa connesse. Grazie a questo corto ho riscontrato molto interesse, in particolare per il modo in cui è stato tratteggiato il protagonista e per l’high concept della storia.

A proposito del protagonista, Gabriele Mainetti offre una prova convincente.

Quello con Gabriele è stato un incontro molto fortunato. Quando l’ho conosciuto a una

cena di amici comuni penso stesse scrivendo Lo chiamavano Jeeg Robot. Ero un grande fan del

suo cortometraggio Basette, ci siamo stati subito simpatici e nel momento in cui ho scritto Christian ho immediatamente pensato a lui per il personaggio principale. Si è dimostrato subito entusiasta

del progetto ed è stato molto bravo a calarsi nel ruolo, offrendo un’interpretazione viscerale che ha colto nel segno. Con il suo look, tra l’altro, abbiamo anche precorso un po’ i tempi, perché la capigliatura ricorda quella di Genny Savastano di Gomorra.

Da poco hai realizzato un altro cortometraggio, Yonder.

Di cosa si tratta? È un corto di fantascienza girato nelle Isole Canarie tra Lanzarote e Fuerteventura. Il protagonista è Simon Merrells, attore inglese che ha interpretato Crasso nella serie TV Spartacus. Yonder si concentra sul rapporto malato tra un uomo e un’intelligenza artificiale, entrambi convinti di essere tra gli ultimi sopravvissuti in un contesto terrestre post-apocalittico. Diciamo che è la versione fantascientifica e più creepy di Lei di Spike Jonze. È stata un’esperienza dura e utile per la mia formazione perché, considerato il genere di riferimento e il budget limitatissimo, è un corto molto ambizioso.

Adesso stiamo facendo una serie di screening e lo stiamo mandando ad alcuni festival, anche se il mio fine ultimo non è il cortometraggio in sé, né un eventuale premio, ma continuare a sperimentare per padroneggiare sempre più la tecnica cinematografica e il set.

Quali sono i registi che ammiri di più?

Uno dei miei preferiti è Denis Villeneuve e ovviamente sono fresco della visione di Blade Runner 2049, che ho trovato un capolavoro.

Lui sicuramente mi ispira molto, ma poi c’è anche Jeff Nichols, un regista meno noto il cui lavoro mi colpisce perché sembra seguire un po’ lo schema che piace a me, vale a dire quello di unire il

paranormale a delle storie molto intime, quasi familiari, di provincia. Anche se non ho apprezzato particolarmente Midnight Special, trovo davvero validi i suoi precedenti Take Shelter e Mud. In generale guardo sempre con attenzione i film di fantascienza, non me ne perdo uno.

A cosa ti stai dedicando in questo momento?

Dopo le esperienze nei cortometraggi, non vedo l’ora di potermi confrontare con un progetto più complesso e a lungo termine, che sia un film o una serie. Sto portando avanti diverse idee e incontrando vari sceneggiatori. Sono in una fase abbastanza avanzata di brainstorming per trovare il progetto giusto su cui puntare. L’ambiente in cui mi muovo è sempre quello del fantasticoparanormale trasportato in un contesto molto realistico: questo binomio continua ad affascinarmi tantissimo.

21

- Futures/3 -

RAZZA SCORRETTA

QUAL È LA FORMULA GIUSTA PER UN CORTOMETRAGGIO VINCENTE? di ELENA CIRIONI

RICCARDO ANTONAROLI E MATTEO NICOLETTA

È

la domanda che assilla Vincenzo (Giuseppe Ragone) e Giulio (Niccolò Senni), due sceneggiatori trentenni.

Di fronte all’ennesimo rifiuto di un finanziamento del Ministero, per produrre il loro corto decidono di giocare il tutto per tutto: affidare la parte del protagonista a

Corradino (Matteo Nicoletta), disabile in sedia a rotelle affetto da paresi cerebrale infantile. Una soluzione che sembra essere la carta vincente, capace di impietosire il pubblico

22

e ottenere il lasciapassare della critica per far man bassa di premi, persino il trofeo più ambito: il Nastro d’Oro. Corradino accetta la parte, ma a una condizione: deve essere lui il regista del corto, e inoltre nel cast occorre inserire un attore conosciuto dal grande pubblico, Giorgio Colangeli (a cui, occorre dire, non manca l’autoironia). Vicenzo e Giulio cedono a questi compromessi, ma saranno vittime dell’arroganza, del dispotismo di Corradino e delle trappole del mercato cinematografico.

Questa è la trama di Cani di razza, il corto diretto da Riccardo Antonaroli e Matteo Nicoletta prodotto da Kahuna Film. Una commedia che racconta senza sconti il dietro le quinte, non sempre roseo, del mondo del cinema, smascherando le ipocrisie del politically correct. Secondo i due autori, che incontriamo negli uffici della produzione, il cinismo è l’ingrediente fondamentale della commedia: permette a chi scrive un soggetto di superare la retorica e il perbenismo che spesso caratterizzano le storie con protagonisti disabili. «L’idea dalla quale siamo partiti è stata quella di concentrarci sulla persona» spiega Matteo, che oltre a essere co-regista interpreta Corradino, «raccontare

la disabilità in maniera onesta, senza falsi pietismi è un gesto di lealtà soprattutto nei confronti delle persone disabili».

Una scelta impegnativa dal punto di vista attoriale infatti, prima di interpretare Corradino, Matteo ha studiato le reference reali delle persone affette da paresi cerebrale infantile: «Lo studio è necessario perché altrimenti corri il rischio di scimmiottare o di prendere in giro e non era questo il nostro intento. L’idea dalla quale siamo partiti è quella di non guardare la disabilità, ma il personaggio, i suoi desideri, e perché no, le sue meschinità».

Una strada piena di rischi, in una società come la nostra dove parlare in maniera schietta della disabilità è ancora un tabù. Un rischio che i produttori, Francesco Bruschettini e Francesco Cimpanelli hanno deciso di affrontare, nella consapevolezza appunto che al centro della storia non è la disabilità, piuttosto lo sono i meccanismi sbagliati e corrotti del mondo dell’industria cinematografica svelati proprio attraverso

sulla collaborazione e su un’amicizia nata durante un laboratorio teatrale. Da questo incontro nasce nel 2015 il corto Tinder Sorpresa, seguito da una webserie, I guastafeste e infine l’ultimo corto, appunto Cani di razza. Lo stile dei due filmmaker è particolarmente attento alla caratterizzazione dei personaggi, alla descrizione delle varie situazioni tenendo ben presente il ritmo comico, giocato in maniera efficace dai tre attori. «Bisogna sempre volere bene alla storia» sottolinea Matteo «e bisogna avere il coraggio di cambiare idea se serve. Devi avere l’intelligenza di cambiare strada

se ti rendi conto che qualcosa non funziona».

Prima di iniziare le riprese, Matteo e Riccardo hanno messo a punto un piano inquadrature dettagliato, per arrivare preparati sul set, immaginando le varie scene e i mezzi tecnici necessari per la realizzazione di un progetto che ha richiesto uno sforzo produttivo notevole, con molte location e un considerevole numero di comparse. «Siamo riusciti a dar vita a un piccolo film con mezzi non da film e di questo siamo molto fieri» sottolinea Francesco Ciampanelli, spiegando che il corto è al centro di un’operazione produttiva sperimentale, in grado di dargli un futuro strutturato. Grazie infatti alla collaborazione con Première Film,

Cani di razza avrà una vita festivaliera stabilita fino a una determinata data, dopo sarà disponibile su MyMovies e in seguito verrà trasmesso sul sito di RAI Cinema Channel. «In questa maniera è stato tracciato un

percorso vincente di sfruttamento di un lavoro indipendente che altrimenti avrebbe avuto una vita breve», concludono i produttori.

Forse è proprio questo l’ingrediente segreto per realizzare un

Cani di razza, prodotto da Kahuna con il sostegno di RAI Cinema, si è aggiudicato il premio MYmovies.it all’ultima edizione del Roma Creative Contest.

«L’IDEA È QUELLA DI NON GUARDARE LA DISABILITÀ, MA IL PERSONAGGIO».

la condizione svantaggiata di Corradino. «Per noi i ragazzi della Kahuna sono stati una manna dal cielo» aggiunge Matteo, spiegando come la collaborazione con la produzione sia stata fondamentale per la realizzazione del corto, sia dal punto di vista della scrittura sia per quanto riguarda il cast, grazie all’inserimento di una guest star, Nanni Buscemi, che con il suo talento e la sua professionalità ha arricchito il lavoro. La regia di Cani di razza è una regia doppia, un lavoro di coppia che Riccardo e Matteo hanno realizzato basandosi

prodotto completo sia dal punto di vista tecnico che artistico: la collaborazione, lo scambio di idee tra produzione e regia capaci di dar vita a un lavoro di squadra indirizzato esclusivamente al bene della storia. Da molti punti di vista, Cani di razza è il

risultato di questo ensemble partecipato e coraggioso che sotto la lente della comicità denuncia le mancanze e i difetti non solo del mondo del cinema, ma anche della nostra società.

23

- Arts -

Aretino di nascita, ma da tempo stabilitosi a Roma, Luca Ralli è – sulla carta – scenografo, fumettista e illustratore. Ma basta scambiare due chiacchiere con lui per scoprire la sua fame insaziabile di immagini, DAL CINEMA ALLE ARTI VISIVE e, ovviamente, al FUMETTO:

di MARCO PACELLA

Entrambe le illustrazioni sono tratte dalle copertine dei libri di Stefano Benni, da sinistra Baol. Una tranquilla notte di regime e Prendiluna.

Pensare a fumetti : un bagaglio di stimoli e input che confluiscono tutti assieme nel suo linguaggio grafico fortemente espressivo e onnivoro, più che citazionista. Da alcuni anni ha iniziato una collaborazione con lo scrittore Stefano Benni, realizzando con l’autore bolognese booktrailer animati, illustrazioni, copertine e fumetti.

24

«IL FUMETTO È PER ME LA FORMA ESPRESSIVA PIÙ CONGENIALE, SIA DA LEGGERE CHE DA DISEGNARE».

Prima di arrivare all’illustrazione e all’animazione, quale è stato il tuo percorso formativo?

Sono abbastanza autodidatta. Ho fatto il liceo classico, però

seguivo ben poco le lezioni e ho sempre disegnato, anche in classe. All’Accademia di Belle Arti ho fatto scenografia,

con molte carenze sul disegno, che man mano ho colmato nel tempo.

Ho lavorato come scenografo di teatro diversi anni, sia a Firenze, al Teatro di Rifredi, che con una compagnia nel carcere di Volterra.

Come è nato invece il tuo rapporto con il fumetto? È quasi una malattia, leggo e continuo a rileggere gli stessi fumetti, ne compro continuamente di nuovi. Il fumetto è per me la forma espressiva più congeniale, sia da leggere che da disegnare. Ci sono nato dentro. I miei zii erano abbonati a Topolino, quindi lo leggevo fin da bambino e, ancor prima di imparare a leggere, lo guardavo.

Lo stile tratteggiato è stato un suggerimento dell’amico fumettista Marco Corona, che mi ha fatto conoscere e innamorare delle illustrazioni di Edward Gorey.

Che ruolo hanno le citazioni nei tuoi lavori?

Come dicevo, sono onnivoro: guardo film, serie TV, mentre lavoro ascolto musica, leggo libri, guardo riviste, cerco sempre roba nuova, quindi mi nutro di immagini. È ovvio che le mie creazioni siano piene di citazioni di fumetti che mi piacciono. Quando mi accingo a cominciare un’opera, cerco di trovare due o tre autori che mi possano ispirare e che cambiano da lavoro a lavoro. Nell’ultimo libro con Benni, La bottiglia magica, ci sono per esempio molti rimandi al fumetto francese, perché in quel periodo ho letto autori come David B. o Christophe Blain.

Poi crescendo ho scoperto Andrea Pazienza, Il male, e soprattutto la generazione successiva, gli autori di Valvoline, Mattotti, Igort, Carpinteri, Brolli…

Questo tipo di fumetto ti ha aperto anche all’arte del Novecento?

L’arte mi è sempre piaciuta, soprattutto pittura e scultura, ma sono abbastanza onnivoro. In realtà mi sono formato assorbendo stimoli diversi. Disegnare è una cosa che ho usato per tirare fuori tutto ciò che mi veniva da altrove, dalla letteratura, dal cinema, dal fumetto. Io penso quasi a fumetti: più che una formazione è una forma mentis, una malattia.

Come sei arrivato invece all’animazione?

Ci sono arrivato per lavoro: i primi lavori pagati che ho fatto non erano nell’editoria ma in pubblicità, un po’ come tutti quelli della mia generazione. Per anni ho utilizzato solo il computer, poi ho ripreso, per fortuna, a lavorare a mano e ora faccio delle cose molto più veloci. In questo una grande scuola è stata proprio

la pubblicità, perché lì hai i ritmi serrati e impari a far scattare la testa in fretta.

Come è nato il tuo rapporto con Stefano Benni?

Da piccolo mi piacevano molto i suoi libri: il mio sogno era fare un fumetto dal suo libro Terra!. Ci siamo conosciuti a Trastevere molti anni dopo, per caso. Un’amica doveva venire a cena da me,

poi mi chiama e dice che ha incontrato un amico di Bologna. Quando suona alla porta, apro e accanto a lei c’era Stefano Benni. Così abbiamo cominciato a incontrarci

spesso al bar e a conoscerci. A un certo punto mi dice: «So che disegni. Mi vuoi far vedere qualcosa?». Gli ho mostrato dal mio sito dei piccoli video e lui ha chiamato in Feltrinelli per dire che avrei realizzato il booktrailer del suo libro in uscita, Pane e tempesta: questo è stato il primo lavoro che abbiamo fatto insieme. L’idea del fumetto Fen il fenomeno è nata per gioco: facendo il booktrailer, odiavo disegnare i cani, invece lui ci teneva molto e ho dovuto studiarli. Alla fine ci siamo resi conto al bar che, a forza di disegnetti sui cani, avevamo materiale per fare un libro. Per un nuovo lavoro, un libro illustrato nato come sceneggiatura per un film d’animazione, dovevo realizzare venti illustrazioni in una sala da biliardo, quindi ho dovuto inventare cose assurde. Mi sono divertito molto.

Il quest’ultimo caso le scelte tecniche, per esempio per il bianco e nero e il tratteggio, sono state tue?

Con Stefano in questo lavoro c’è stata molta libertà. Era un racconto basato su vecchi film, vecchie foto, in una sala da biliardo fumosa, quindi mi piaceva l’idea di farlo un po’ anticato, di sapore retrò.

Luca Ralli lavora da un paio di anni presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare realizzando animazioni, illustrazioni o scenografie per eventi e occasioni varie. Un esempio concreto di come il fumetto possa essere proposto anche al di fuori del mondo dell’editoria per raccontare storie.

Una volta hai scritto: “Amo distruggere le cose che amo”, che cosa intendi?

Questo è un gioco iniziato proprio con Marco Corona, che faceva una rivista chiamata Plagio. Consisteva nel prendere una tavola di un fumetto e rifarla a modo tuo. Ad esempio ho rifatto le copertine di Blain e di Blutch, che in origine erano della grandezza di un francobollo, e per una mostra le ho stampate in A3, quindi il segno di matita sottile è diventato una trave: quello ha significato proprio distruggerle, però con amore. Un po’ come hanno fatto in

musica gli Art of Noise, massacrando volutamente il tema di Dragnet: era il loro modo di amare quella musica, facendola propria e quindi distruggendola.

Quando ero piccolo lavoravo col pennino a china e non riuscivo a fare una linea dritta. Più tardi, in una recensione sul mio lavoro, ho letto: “Il classico tratto tremolante di Luca Ralli”. Io quel difetto cercavo di correggerlo da anni, che figata! Forse anche per gli autori che ammiro tanto funziona così: riescono a fare del loro difetto una cifra stilistica. Questo è il motivo per cui mi piace ancora tanto questo lavoro: non sto fermo, non riesco a fare una cosa uguale all’altra, cambio stili e modi perché continuo a sbagliare, e mi piace continuare a sbagliare!

25

CHICKENBROCCOLI È UN SITO PER CHI “AMA ODIARE IL CINEMA”. DAL 2009 RECENSISCE FILM SENZA PIUME SULLA LINGUA. IL CHICKEN È IL FILM BELLO, IL BROCCOLO È IL FILM ORRIPILANTE. CHICKENBROCCOLI CONCILIA IL CINEMA CON L’ILLUSTRAZIONE REALIZZANDO POSTER, MAGAZINE E MOSTRE ITINERANTI. www.chickenbroccoli.it

di SEBASTIANO BARCAROLI

TRAMA: ITALIANI MEDI… TERRANEI

MEDITERRANEO

(1997) DI GABRIELE SALVATORES; CON DIEGO ABATANTUONO, CLAUDIO BISIO, CLAUDIO BIGAGLI.

S

ono passati appena pochi mesi da quando abbiamo tessuto lodi sperticate per il Dunkirk di Christopher Nolan, un film di guerra in cui della guerra si respirava più che altro l’attesa, in cui si sentiva la cappa pesante di un bombardamento che non arrivava, di un cecchino che non sparava, di una morte che pareva prendersi tutto il tempo necessario, e anche un po’ di più, facendo provare quello che mai avresti pensato possibile provare in battaglia: la noia. Perché, oltre allo sbarco tremebondo, alla battaglia infuocata, alla fuga disperata, al salvataggio inaspettato (tutte situazioni da scene madre di film di guerra, se solo pensi a Salvate il soldato Ryan o Full Metal Jacket), Dunkirk ci ricorda che in guerra era più probabile passare il tempo ad aspettare (di vivere o morire) in un misto di noia e paura, che a combattere. Ecco. Che un film parlasse della noia della guerra ci è sembrata davvero una novità. Ma non era così. Ci eravamo scordati di un film italiano – eppure famosissimo – che molti anni fa già raccontò di quando, anche in piena Seconda

Guerra Mondiale, qualcuno prendeva il sole, giocava a Tris Tracon con un pope barbuto e rimorchiava le greche sulla spiaggia. Ci eravamo scordati di Mediterraneo. Colpevoli

dimenticammo il Sergente Lorusso, il Tenente Montini e il giovine Farina! Reo oblìo sui prodi Colasanti, Noventa e Strazzabosco, manipolo di valorosi che, nel 1991, partirono lesti dalle coste dell’italico Stivale e, conquistata Megisti, isola dai reni greci bagnata dall’Egeo, arrivarono di filata fino a Hollywood, per conquistare la dorata statuina statunitense, in barba a quei gaglioffi maccartisti!

BUM! BAM! RATATA! Non dobbiamo mai dimenticarci di tessere (e

ricamare finemente) le lodi anche a loro, a quelli che realizzarono Mediterraneo, un capolavoro che, come tutti i capolavori,

“accadono” senza che nessuno delle parti in causa se ne accorga davvero. Perché nessuno pianifica un capolavoro (a parte me con le mie recensioni, ovvio). C’era Gabriele Salvatores, un regista al suo quinto film, che seppe raccontare l’amicizia virile, quel senso di appartenenza alla “comitiva”, al “gruppo”, con romantica antropologia (sarà anche che tutti erano amiconi pure nella vita vera, talmente amiconi che si sono rubati anche svariate mogli e fidanzate). C’era una combriccola di attori emergenti che negli anni a venire avrebbe fatto il bello (meno) e il cattivo (un po’ di più, se pensiamo ad Abatantuono) tempo del cinema italiano (un’occasione del genere sarebbe ricapitata solo dieci anni dopo a Gabriele Muccino col suo Ultimo bacio. Deve essere il nome di battesimo).

E c’era l’Italia, rappresentata così bene dalle tipologie umane dei soldati, in una sceneggiatura che fa ridere, e molto, ma che non si scorda mai di quella cappa malinconica che una tragedia lontana, una guerra che non si sente con le orecchie (c’è solo lo sciabordìo del mare) e non si vede con gli occhi (accecati dal sole greco), ti butta addosso. Salvatores non avrebbe mai ritrovato tutta questa stupenda personalità. Forse l’ha lasciata anche lui su quell’affresco, perché da quel momento è stato chiunque (Scott in Nirvana, Argento in Denti, Iñárritu in Amnésia, Anderson in Happy Family… adesso fa addirittura i cinecomics), tranne che Gabriele, quello che sapeva raccontare l’amicizia. Gabriele caro, la faccia forse è la stessa,

ma la razza? Certo, quell’Oscar quanto fu meritato…

CHICKEN

IO SOGNO CHE L’ETERNO FUGGIASCO NOVENTA SIA APPRODATO SU UN’ALTRA ISOLA E ABBIA SCRITTO Rapput (CHI HA ORECCHIE PER INTENDERE.. IN TENDA).

VASSILISSA. NO DICO, VOGLIAMO PARLARE DI VASSILISSA? PURE IO SPARAVO AGLI AMICI SE C’ERA IN PALIO VASSILISSA.

BROCCOLI

COL SENNO DI POI, SE PENSI CHE I PROTAGONISTI DEL FILM SONO FINITI INGABBIATI NEI TUBI CATODICI A PARLAR DI CALCIO O A FARE I SALTIMBANCHI, C’È DA ESSERE TRISTI. LI ABBIAMO SEMPRE VOLUTI LIBERI.

LUCAMALEONTE È nato nel 1983 nella capitale, città dove vive e lavora. Laureato all’Istituto Centrale per il Restauro, ha iniziato con poster e adesivi, ma in breve tempo la sua attenzione si è spostata sulle opere su tela. Oltre cinquanta mostre tra personali e collettive (Scala Mercalli, Cross The Streets, Decades) lo hanno reso uno dei più famosi street artist italiani. Intanto lui sorride, fa figli e tifa Roma. lucamaleonte.blogspot.com

26

- Nuovi Maestri -

«UN FILM LO FAI PERCHÉ VENGA VISTO, NON PERCHÉ LO VUOI TENERE IN UN CASSETTO».

’

SILVIO SOLDINI

UN ANIMA DIVISA IN DUE di MARGHERITA GIUSTI HAZON foto LORENZO D’ORIO

È QUELLA, PARAFRASANDO IL TITOLO DI UN SUO FILM, DI SILVIO SOLDINI, CHE LAVORA DA TEMPO FRA DOCUMENTARIO E FINZIONE. E CHE AGLI ESORDIENTI CONSIGLIA «DI TROVARE DELLE PERSONE CON CUI CREARE UNA SQUADRA, QUESTO NON È UN MESTIERE CHE SI FA DA SOLI».

Mattina presto, al parco Solari di Milano. Il regista arriva con passo calmo, sorride e come prima cosa cerca una panchina con la giusta luce dove sederci per iniziare la nostra intervista.

Cosa ti ha spinto a fare cinema? Raccontaci il tuo esordio.

Ho iniziato andando al cinema. All’epoca avevo 17 anni e frequentavo la Cineteca di Milano. Mi sono iscritto a un’università come le altre, Scienze Politiche, perché non sapevo ancora bene che direzione prendere. Nel mondo del cinema non conoscevo nessuno.

Poi ho vissuto due anni a New York, ho fatto una scuola lì, ospitato, per i primi tempi, da una lontana cugina che faceva la montatrice. Tornato in Italia ho capito subito che avevo

due alternative: andare a Roma a cercare di convincere un produttore a finanziarmi un’opera prima – e non mi ci vedevo granché – oppure restare a Milano e costruire qualcosa qui. Ho scelto la seconda possibilità e insieme a Luca Bigazzi ho cominciato a sognare di fare cinema. I corti e i mediometraggi realizzati negli anni ’80 sono stati una grande palestra. Nel 1989, insieme a Roberto Tiraboschi, ho finalmente scritto la mia prima sceneggiatura e poi nel 1990 è uscito L’aria serena dell’ovest. In quel momento si è aperta la porta.

Esordire ieri e oggi. L’arrivo del digitale ha cambiato le cose?

La tecnologia è un’arma a doppio taglio, perché da una parte ti dà la possibilità di fare un film con molti meno soldi rispetto alla pellicola, però allo stesso tempo crea un’invasione di prodotti di qualsiasi tipo. Internet è intasato da film di ogni misura, è molto più difficile riuscire a farsi notare, oggi.

E allora cosa consiglieresti a un giovane regista o sceneggiatore?

Gli consiglierei di trovare delle persone con cui creare una squadra.

E poi mettersi a lavorare, perché questo mestiere non lo puoi fare da solo, e lo impari facendo. Le scuole ti possono dare un’ottima

base per cominciare, però poi è solo lavorando sul campo che puoi capire quali sono le tue debolezze, e quali i tuoi punti di forza. È fondamentale.

Cosa ne pensi del cinema giovane?

Io credo che in tante opere prime recenti, come in Cuori puri di Roberto De Paolis, ci sia una grande attenzione ai dettagli, alle

Silvio Soldini ha presentato fuori concorso alla 74esima edizione del Festival di Venezia il suo ultimo film, Il colore nascosto delle cose.

29

L’ultimo documentario di Silvio Soldini, Il fiume ha sempre ragione, ha per protagonisti due artigiani tipografi che realizzano tutto a mano, con la lentezza necessaria per fare bene le cose.

psicologie dei personaggi e alla recitazione di tutti gli attori, cosa che non c’era nel cinema degli anni ’80, quando io ho iniziato. Trovo che in questi ultimi anni siano usciti tanti buoni film, soprattutto opere prime o seconde. Il problema è che poi la gente non va a vederli quanto dovrebbe.

una profonda vicinanza e intimità con loro. Questo riguarda anche i personaggi secondari. In tanti film accade che quando si entra in un bar, il barista non è un barista. Io cerco di stare sempre molto attento ai dettagli. Anche un barista che vediamo per trenta secondi deve avere una sua personalità.

I tuoi film, oltre che averli diretti, li hai sempre anche scritti. Come vivi questo doppio ruolo?

Che legame c’è fra il documentario Per altri occhi e il tuo ultimo film Il colore nascosto delle cose?

La realtà che avevo scoperto in Per altri occhi era troppo lontana da quella che conoscevo io, che per buona parte derivava da ciò che avevo appreso al cinema, perché i personaggi ciechi nei film sono rappresentati o in modo sempre drammatico oppure come dei supereroi. Io volevo provare a mettere in scena una storia molto normale, dove il personaggio di una donna cieca avesse una vita come quella degli altri. Questo mi premeva raccontare: una quotidianità in cui l’impossibilità di vedere è un elemento con cui Emma ha fatto pace e che anzi la spinge ad avere quasi più voglia di vivere e di prendere dalla vita tutto quello che può rispetto a una persona che non si trova nella sua condizione.

Non scrivo mai i miei film da solo, lavoro sempre con una o due persone. Doriana Leondeff è la coautrice dei miei

ultimi otto film. Io credo che aver scritto un film che dovrai dirigere non potrà mai essere un limite, tutt’altro. Chi scrive la sceneggiatura ha una maggiore conoscenza di tante cose, sa perché un personaggio pronuncia una certa battuta, o compie una certa azione. Anche quando ho realizzato Brucio nel vento, che è tratto da un romanzo [Ieri, di Ágota Kristóf ndr], insieme a Doriana ho cercato di costruire la “mia” storia, perché solo così potevo conoscere nel profondo la trama, i personaggi, le svolte, e fare delle scelte importanti sul film.

Documentario e finzione: come convivono nella tua filmografia?

Il documentario è un momento di raccolta, di conoscenza, di scoperta. È un viaggio in un mondo sconosciuto. Nel mio cinema

documentario c’è una forte tendenza a lasciare le cose al loro posto, a non stravolgerle, a non disturbare quello che avviene davanti alla camera, nei limiti del possibile. Si tratta di trovare un’intimità con la

materia con cui sei a contatto, in cui ti immergi. Farsi più invisibile possibile e soprattutto ascoltare. Nella finzione accade proprio l’opposto: sei tu a dover creare un mondo. Che sia il mondo surreale di Agata e la tempesta o quello realistico di Cosa voglio di più, si tratta sempre di mondi che non esistono, che sono tutti da inventare. Mi piace passare da un genere all’altro, perché da uno attingo e poi nell’altro ricreo. Il documentario ti aiuta, nella finzione, a rendere il più verosimile possibile una storia, perché lo spettatore ci deve credere, al cinema. Le psicologie dei personaggi sono importantissime, bisogna sempre scavare dietro ogni minima cosa, a volte anche dietro il più piccolo gesto.

I tuoi personaggi, infatti, sono sempre molto approfonditi. Che tipo di lavoro c’è dietro?

Inizia nella fase di scrittura e si affina dopo, con gli attori. Quello è il momento in cui un personaggio prende vita. Lavorando con gli interpreti si capiscono tante cose, si mette a fuoco qualcosa di quasi invisibile che è però quello che secondo me crea, nello spettatore,

Com’ è il tuo rapporto con il pubblico e con la critica?

L’unico modo di avere un riscontro del pubblico è andare nei cinema a presentare il film. Lì si capisce davvero che cosa arriva dallo schermo alla sala. È sorprendente come, dopo la stessa scena, improvvisamente ridano tutti oppure, a soli 100 km di distanza, nessuno. Il pubblico è ciò che fa incassare il film, ciò che lo fa andare avanti, un film lo fai perché venga visto, non perché te lo vuoi tenere in un cassetto. Questo è un discorso delicato: quanto fai un film per il pubblico e quanto lo fai per raccontare una storia, un mondo.

Io non riesco a pensare al pubblico quando giro un film, però sto attento e cerco sempre di capire se arriverà, se riuscirò a raccontare una certa cosa in un certo modo. Cerco di fare

i film che come spettatore andrei a vedere. Per quanto riguarda la critica, ci sono due o tre critici di cui m’interessa davvero sapere cosa pensino [sorride sornione].

La Cineteca di Milano – dove per altro sono conservati tutti i tuoi film in 35 mm – va a fuoco. Quale film salveresti per primo?

Non ne ho idea! Con domande come questa ho sempre grossi problemi perché le prendo troppo seriamente. Forse salverei uno dei film che mi ha così emozionato e stupito che mi ha spinto a fare questo mestiere, uno dei primi film di Wim Wenders, Nel corso del tempo, oppure Pickpocket di Robert Bresson… che poi magari rivedendoli oggi direi: “Ma perché non ho salvato qualcos’altro!”.

«IL DOCUMENTARIO È UN VIAGGIO IN UN MONDO SCONOSCIUTO».

30

© Andrea Di Lorenzo

- Making of -

I L

[

L A

FA M E

CONTAGIO D I

P O T E R E

È

U N A

M A L AT T I A

IL CONTAGIO È L’OPERA SECONDA DI MATTEO BOTRUGNO E DANIELE COLUCCINI, UN FILM CORALE CON UN CAST D’ATTORI D’ECCEZIONE: VINCENZO SALEMME, ANNA FOGLIETTA, VINICIO MARCHIONI, GIULIA BEVILACQUA E MAURIZIO TESEI. a cura di DAVIDE MANCA foto ELIO DI PACE

32

]

Scena lapidazione: 300 fotogrammi al secondo, 45 gradi l’apertura dell’otturatore, 2 gruppi elettrogeni oltre 100kw di corrente, 24kw Arri tungsteno di controluce.

«IL PROTAGONISTA ASSOLUTO È IL PAESAGGIO».

regia MATTEO BOTRUGNO, DANIELE COLUCCINI soggetto e sceneggiatura MATTEO BOTRUGNO, DANIELE COLUCCINI, NUCCIO SIANO direttore della fotografia DAVIDE MANCA montaggio MARIO MARRONE A.M.C. scenografia LAURA BONI costumi FRANCESCA DI GIULIANO suono ANDREA VIALI, PIERGIUSEPPE FANCELLU musiche PAOLO VIVALDI composizioni aggiuntive ANDREA BOCCADORO edizioni musicali NEW EMERGENCY casting MANUELA DE SANTIS prodotto da PAOLO BOGNA E SIMONE ISOLA PER KIMERAFILM produttori associati Kimerafilm SIMONA GIACCI, ERMANNO GUIDA, LAURA TOSTI prodotto da GUGLIELMO MARCHETTI PER NOTORIOUS PICTURES in collaborazione con FRANCESCO DAINOTTI PER GEKON PRODUCTIONS con il sostegno di GIANLUCA ARCOPINTO una produzione kimerafilm con RAI CINEMA in associazione con NOTORIOUS PICTURES in collaborazione con GEKON PRODUCTIONS con il contributo di MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO – DIREZIONE GENERALE CINEMA con il supporto di ROMA LAZIO FILM COMMISSION paese ITALIA cast VINICIO MARCHIONI, ANNA FOGLIETTA, MAURIZIO TESEI, GIULIA BEVILACQUA, VINCENZO SALEMME, DANIELE PARISI, MICHELE BOTRUGNO, ALESSANDRA COSTANZO, LUCIANNA DE FALCO, CARMEN GIARDINA, FABIO GOMIERO, FLONJA KODHELI, FABIO GOMIERO, NUCCIO SIANO

› Si tratta di un film dove la cura formale ed estetica si pone alla continua ricerca di un’iconografia raffinata, di un’immagine sintentica in grado far risaltare la grande prova attoriale del cast. Le riprese sono durate cinque settimane e sono state effettuate totalmente a Roma. Il romano è il dialetto dominante nel film e gli attori ne fanno un ottimo uso caratterizzando molto i loro personaggi, ma il protagonista assoluto è il paesaggio, una capitale notturna, periferica, buia, malata. I vicoli, le strade, i palazzi e i locali della Roma più oscura sono il risultato di una complicata costruzione illuminotecnica, in cui luci e ombre

delineano senza confondere i momenti clou della vicenda raccontata. Una delle prime scene del film è ambientata in un mercato rionale esterno, di notte.

Per illuminare la scena è stata impiegata una

piattaforma aerea di 30 m con sopra un proiettore da 6kw Arri HMI (luce fredda);

i lampioni tipici romani dal colore giallo ocra sono stati convertiti attraverso gelatine in colori freddi dalle gradazioni di blu e verde. Per conferire maggiori riflessi, e quindi profondità, il pavimento del mercato è stato completamente bagnato, dando vita così a un “doppio” del personaggio.

33

Il garage sotterraneo è il luogo dei flashforward e lo spazio che segnerà il percorso di più personaggi; i neon e le loro sfumature di verde acido saranno la linea colorimetrica di queste scene.

L’operatore steadycam Gianluca Bombardone, durante la ripresa del piano sequenza del party. Nello schermo, primo piano di Maurizio Tesei.

34

Un’altra scena cruciale e molto complessa dal punto di vista tecnico si situa oltre la metà del film ed è il momento di massima tensione del protagonista: un interno/esterno notte in un locale da convention durante la presentazione del progetto per un nuovo centro d’accoglienza del comune. La scena dura 10 minuti ed è tutta in piano sequenza: un’unica inquadratura senza stacchi di montaggio dove la macchina da presa segue il protagonista nel suo viaggio all’interno del locale e nel suo progressivo smarrimento fra alcol e droga.

Alla chiusura della presentazione inizia un party dalle sonorità elettro/tecno e lo spettatore è trascinato dal protagonista in questa evoluzione: l’assenza di montaggio permette una totale empatia con il personaggio sostenuta dalla musica e dalle luci.

Per realizzare questa scena è stato necessario un giorno di preparazione, allestimento e prove e un altro giorno di girato reale con oltre 100 comparse. L’ambiente era di 300 mq con una zona al coperto e una in esterno.

Sono stati impiegati circa 100 corpi illuminanti,

la metà di scena, il resto proiettori cinematografici, questi ultimi collegati a un controllo remoto da cui si potevamo gestire intensità e tempistiche, perché con il mutare dello stato d’animo del protagonista anche l’illuminazione doveva cambiare ed evolversi, in una crescita di contrasti e cromie, dal caldo oro della presentazione al blu acido della festa, accompagnati da un gioco di ombre e flash dati dalle luci stroboscopiche e dai neon. A questa scena segue l’ultra slowmotion:

un 300 fotogrammi con otturatore dall’angolo molto spinto per dare miglior risalto e definizione

al movimento di carrello sull’azione dei personaggi.

L’ambientazione è una cava alle porte di Roma, un gruppo di delinquenti è pronto per compiere un gesto criminale, i fari delle automobili stampano le loro figure sulle pareti di pietra e allo stesso tempo rischiarano i loro visi. Per illuminare la scena sono stati usati due gruppi elettrogeni di grande potenza, i proiettori erano

tutti al tungsteno, il più potente un 24kw in controluce sopra la cava.

Sono momenti del flashback in palestra, il luogo dove cresce l’amicizia tra Mauro e Marcello, uno stanzone seminterrato dai cui lucernari entra una potente luce solare (proiettore M40 Arrisun), che staglia i loro corpi sudati e invade il sensore della macchina da presa, regalando aberrazioni cromatiche e disturbi di riflessioni che conferiscono all’immagine una pasta e un sapore da tempo rarefatto e ormai passato.

Il direttore della fotografia osserva le sincronie dei proiettori DMX (remotati dal software) prima dell’inizio del piano sequenza.

35

FABRIQUE PER PREMIÈRE

D I S T R I B U Z I O N E

F E S T I VA L I E R A

A

5

S T E L L E :

PREMIÈRE FILM Nel 2017 ha distribuito nei festival i cortometraggi vincitori del Premio Oscar (Sing), della Palma d’oro (A Gentle Night) e del Globo d’oro (Penalty).

Avete prodotto un cortometraggio, serie web oppure un lungometraggio indipendente e volete distribuirlo nei festival di tutto il mondo?

In Italia, da poco più di un anno, Première Film ha lanciato un servizio di distribuzione festivaliera che in pochi mesi ha conquistato il mercato italiano attirando l’attenzione di importanti produttori italiani e stranieri che assieme all’ideatore del progetto, il pugliese Roberto De Feo, il prossimo febbraio durante il Festival del Cinema di Clermont-Ferrand lanceranno la società sul mercato internazionale.

36

Première Film è una società pugliese con sede a Bari e Parigi, nata dall’incontro tra l’attrice Mariapia Autorino (insegnante di recitazione presso l’Acting Academy di Claudia Gerini e Rossana Ferrara) e Roberto De Feo, regista/sceneggiatore della scuderia Colorado Film, oltre che produttore e distributore di cortometraggi dal 2004. Mariapia e Roberto sono solo la punta dell’iceberg di un’organizzazione che conta una rete di partner e contatti che parte dall’Italia e si estende fino alla costa ovest degli Stati Uniti, nella capitale del cinema mondiale: Los Angeles.

Da sinistra, il Globo D’Oro vinto dal cortometraggio Penalty di Aldo Iuliano, poi la Palma d’Oro per A Gentle Night di Qiu Yang e l’Oscar per Sing di Krìstof Dèak.

6

DOMANDE A ROBERTO DE FEO RESPONSABILE DISTRIBUZIONE PREMIÈRE FILM

Roberto, perché hai scommesso sulla distribuzione festivaliera?

Perché è il momento giusto. Mi occupo di distribuzione festivaliera dal 2004, ma solo da qualche anno tutti i principali festival del mondo hanno digitalizzato il processo di iscrizione di un film. Il nostro progetto parte dalla distribuzione festivaliera, ma sta per diventare qualcosa di molto più ampio, qualcosa che mai nessuno ha provato a fare. E finalmente abbiamo le risorse.

«Corriere della Sera», raccontaci com’è andata…

Koala era il nostro corto selezionato alla Festa del Cinema di Roma, sezione Alice Nella Città. Raoul Bova, il produttore del cortometraggio, ci aveva dato carta bianca, così decidemmo di comprare la maschera di un koala e di mandare un’attrice in giro per i luoghi del festival facendola saltare addosso un po’ a tutti coloro che incontrava per strada. Una scelta che ha portato tanta curiosità attorno al corto.

Nel 2017 Première Film ha distribuito nei festival italiani i cortometraggi più premiati al mondo.

Segnalacene alcuni...

Sicuramente Sing di Krìstof Dèak, vincitore del premio Oscar, poi A Gentle Night di Qui Yang, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, Penalty di Aldo Iuliano, vincitore del Globo D’Oro, e Black Ring di Hasan Can Dagli, vincitore del Méliès d’Argent, ovvero l’Oscar dei film di genere. Tra gli altri corti italiani, ci sono anche Buffet di Santa De Santis e Alessandro D’Ambrosi, vincitore della scorsa edizione di Cortinametraggio e Candie Boy di Arianna Del Grosso (co-prodotto da Première), vincitore del Cavallo di Leonardo e Premio del Pubblico a Shorts Maremetraggio.

Qual è la soddisfazione più grande per un distributore festivaliero e quale il tuo best moment del 2017?

La soddisfazione più importante arriva quando comunichi a un regista la selezione o la vittoria in un festival che potrebbe cambiare la sua carriera. Il mio best moment 2017 è senza dubbio Krìstof Dèak, regista vincitore dell’Oscar 2017 per il corto Sing, che come ringraziamento mi manda la foto della statuetta accanto al suo laptot connesso al sito di Première Film.

È vero che distribuirete i corti del CSC? Sì, distribuire i corti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma è stato un bel traguardo e per questo devo ringraziare Letizia Lamartire, una delle registe del CSC. Realizzate anche le campagne marketing dei film che distribuite nei festival. La campagna per il cortometraggio Koala è finita sul

Vi occupate anche di campagne di promozione Oscar, spiegaci meglio...

Ogni anno Première Film sceglie alcuni tra i suoi corti e li distribuisce al cinema a Los Angeles a proprie spese, finanziando l’uscita in sala e rendendo a tutti gli effetti il cortometraggio qualificabile per gli Oscar. Successivamente, ci occupiamo anche di costruire la campagna di promozione. Da quest’anno abbiamo anche avviato una collaborazione con RAI Cinema che ci supporta per la promozione. Per chi volesse maggiori informazioni, c’è il sito web www.Premièrefilm.it o il numero di telefono 3333134229.

www.premierefilm.it

8

RAGIONI PER CUI SCEGLIERE PREMIÈRE FILM

1 RISPARMIO I nostri clienti risparmiamo fino al 60% sui costi di iscrizione dei festival grazie a sconti e codici di iscrizione gratuita che riceviamo dai festival di cinema nazionali e internazionali. 2 UN’ASSICURAZIONE SUL TUO LAVORO I festival dei principali circuiti ricevono in media cinquemila iscrizioni l’anno. Première si assicura che i selezionatori guardino i propri film. 3 STRATEGIA DISTRIBUTIVA Première sviluppa la migliore strategia di distribuzione festivaliera in base al genere e alla durata del film, valutando e selezionando tra oltre 7000 festival.

Creiamo il calendario di distribuzione mese per mese e ci occupiamo dei pagamenti. 4 SOCIAL MEDIA Un esperto di marketing creerà e gestirà la pagina Facebook del film per tutto l’arco della distribuzione. Avere un’immagine professionale è fondamentale se si vuole distribuire con successo. 5 PROBLEMI TECNICI Première gestisce le richieste tecniche dei festival relative alla creazione di file video/grafici/ecc. Affidati alla nostra esperienza e non rischiare di fare errori che potrebbero portare all’esclusione del tuo film. 6 COSTRUIAMO IL TUO CURRICULUM Avere una società di professionisti come distributori festivalieri è importante sia per il curriculum del regista/ produttore che per quello del proprio film. Première mette a disposizione dei propri clienti contatti costruiti in oltre quindici anni di lavoro nell’industria del cinema. 7 IL TUO UFFICIO STAMPA E AGENZIA MARKETING Première creerà curiosità attorno al tuo film e al tuo nome. 8 VENDIAMO IL TUO FILM Vendiamo il tuo film/cortometraggio/ serie web a TV, piattaforme web e compagnie aeree.

37

- Teatro -

I DRAMMATURGHI

SONO UN PASSO AVANTI CARLOTTA CORRADI

CLASSE 1980, CARLOTTA CORRADI È UNA DRAMMATURGA “PER CASO”: AMA DIRE CHE CREDE AGLI INCONTRI FORTUITI CHE CAMBIANO IL DESTINO. di ANDREA PORCHEDDU foto TOMMASO SALAMINA 38

L

ei, laureata in Storia del Teatro, destinata a diventare regista,

ha cominciato a scrivere appunto per caso, ma l’emozione è stata talmente forte che non ha più smesso. I risultati non sono mancati: premi, anche internazionali, e già all’attivo uno spettacolo, dal titolo Peli –

commedia aspra, crudele, interpretata da due attori en travesti – che è stato un “caso teatrale”. Finalista quest’anno al prestigioso Premio Riccione, con Nel bosco, Carlotta è madre di una bimbetta di due mesi, ma questo non l’ha distolta dallo scrivere, anzi. E mentre guarda al cinema, ha firmato l’adattamento per la scena di un best seller, Accabadora, romanzo scritto da Michela Murgia per Einaudi nel 2008.

Felice di essere arrivata in finale al Premio Riccione?

Poi ha vinto Vitaliano Trevisan, ma sì, certo, sono felicissima. Mi ero “sbrigata” per consegnare quel testo e ora vorrei rilavorarci, spero vada in scena. Nel bosco ha tanti personaggi, cosa complicata per la messinscena, poiché costerebbe troppo. Però mi piaceva una trama a più voci. Così, pensando al Premio Riccione, non mi sono data limiti: undici personaggi in una storia per me importante. Parlo delle baby squillo a Roma, uno scandalo emerso tempo fa. È una vicenda che ho seguito e mi ha particolarmente colpita.

Come lavori a un testo? Come strutturi la tua giornata?

Non la giornata, semmai l’anno. I tempi sono più lunghi. Decido il testo, coltivo l’idea di scrivere quella determinata storia, mi si attiva un campanello quando sento qualsiasi cosa possa interessarmi. A un certo punto escludo tutte le “altre” attività che faccio – dal “team building” nelle aziende o altri lavori di scrittura su commissione – e mi chiudo a scrivere. Serve un tempo esclusivo per il testo.

Adesso mi bastano quattro o cinque ore al giorno: da quando ho la bambina, che mi prende tantissimo, devo concentrarmi di più! Però mi è sempre piaciuto scrivere sotto pressione, all’ultimo momento.

Funziono bene a ridosso delle scadenze.

Come ti sei avvicinata al teatro e alla scrittura?

Ero aiuto-regista del mio maestro di teatro, conosciuto al liceo. Avevo anche il compito di fare elaborazioni drammaturgiche. Poi quel gruppo di attori mi ha chiesto di dirigere A porte chiuse di Sartre. Ho provato e così ho iniziato, quasi per caso. Però ricordo ancora l’emozione dei primi applausi. Nel 2008 fondammo un’associazione culturale per produrre The Women, versione italiana di un testo dell’americana Clare Boothe Luce. Con l’associazione affrontavamo argomenti che ci interessavano. A me ha sempre intrigato il tema dell’identità sessuale. Da qui è nato il testo successivo, Peli, che ha avuto un buon successo.

Che vuol dire essere donna e madre e fare teatro?

Non è una categoria “vincente”. È faticoso fare questo lavoro. La parte bella, emozionante, è scrivere, dare vita a quello a cui hai pensato. Senza limiti. Però, servono nervi saldi. Non ho mai

avuto dubbi su quel che volevo fare, non lascerei mai il teatro, ma bisogna sapersi anche accontentare di piccole soddisfazioni. Quando è nata mia figlia, ho sentito maggiormente l’urgenza pratica, economica, del lavoro. Ma spero di non aver perso di vista temi altri, diversi rispetto a una maternità spesso totalizzante. Ero ossessionata dalla paura di parlare solo di maternità! Invece, mi sembra di aver acquisito sensibilità, anche angosce, forse ansie: però maggior acutezza nello scrivere.

E la difficoltà è anche del sistema…

Sei sola. Come fossi disoccupata: non sei tutelata in nulla. La parte del tempo che dedichi a scrivere è “investimento”: non sei pagata per stare al computer. Certi giorni è deprimente, poi arrivano piccole o grandi soddisfazioni che rinnovano l’entusiasmo. Detto ciò, ho imparato anche a dire “no”. Un teatro mi aveva invitato a scrivere cinque pièce per mille euro. Ho detto no, preferisco dedicarmi a mia figlia.

Hai preso parte al progetto Crisi, guidato dal regista e drammaturgo Fausto Paravidino, all’interno del Teatro Valle Occupato. Che esperienza è stata?

Fondamentale. Non avevo fatto accademie, a parte gli studi teorici all’università. Con Crisi ho potuto verificare il lavoro pratico sul palcoscenico del Valle, attivando relazioni concrete con altri drammaturghi, attori, registi. Poter lavorare direttamente con

l’attore, e scoprire che può dirti moltissimo sul tuo testo, è bellissimo. Prima di allora non tolleravo gli appunti che gli interpreti facevano sui miei testi, mi sentivo contestata. Paravidino è stato una grande guida. Mi ha reso più competente nell’analisi del testo, fornendomi strumenti tecnici; e mi ha insegnato a lasciarmi andare, a superare la mia parte razionale, cervellotica.

Altri maestri?

Subito direi Harold Pinter, che leggo da quando avevo sedici anni.

L’ho sempre amato e continuo a leggerlo. Poi Caryl Churchill, la straordinaria drammaturga inglese. Tra i registi di cinema ho un amore sconfinato per Pedro Almodovar e per Lars von Trier. I miei gusti sono cambiati nel tempo. Amo certi spettacoli di Emma Dante, di Antonio Latella, di Romeo Castellucci.

In passato hai lavorato anche come documentarista.

Sì, in contrapposizione al teatro, già a vent’anni. Cercavo qualcosa che potessi fare da sola, senza la compagnia. Ho frequentato

una scuola di digital film making a New York e lì ho conosciuto Davide Azzolini, allora direttore del Festival del Cinema di Napoli. Su suo suggerimento ho girato documentari dedicati ad artisti italiani a New York: il pittore Bernardo Siciliano, l’attore e scultore Vincenzo Amato e altri. Poi per dodici anni ho documentato il festival letterario Le conversazioni, che Azzolini ha realizzato con Antonio Monda. Mi piace girare,

mi piace il montaggio. Ho frequentato la scuola di sceneggiatura di RAI-Script – quando esisteva – e ho lavorato come lettrice di sceneggiature. Però ancora niente

cinema. Avevo scritto un soggetto che al produttore era piaciuto, ma nel frattempo sono uscite sei serie TV su quel tema! Bisogna sbrigarsi! Ma accarezzo l’idea di una trasposizione cinematografica di Peli e di Nel bosco.

Che consiglio daresti ai giovani drammaturghi?

Essere selettivi nella scelta della scuola e degli insegnanti. C’è molta offerta, ma è rara la qualità. In secondo luogo, leggere testi teatrali, anche per chi fa cinema. Il teatro è dialogo e i drammaturghi sono un passo avanti rispetto agli sceneggiatori proprio per l’attenzione data ai dialoghi.

Veniamo ad Accabadora. Come è andata?

Una bellissima esperienza. La regista Veronica Cruciani voleva mettere in scena il libro di Michela, che io avevo letto e amato. Mi ha chiamata, ci siamo accordate sulla struttura di monologo dal punto di vista di Maria, la protagonista. Inizialmente avrei dovuto lavorare con la Murgia, però non solo lei è super-impegnata, ma per me, come drammaturga, sarebbe stato più complesso. Allora ho scritto una lettera a Michela, spiegandole cosa avrei fatto. Suggerendo che sarebbe stato meglio che lavorassi sola. Lei ha accettato, anzi si è dimostrata contenta: e, mi ha risposto, ognuno deve fare il proprio mestiere. Dunque ho incamerato, studiato, sezionato il romanzo.

Poi mi sono sentita libera di fare la mia versione. Abbiamo fatto tre incontri: il primo con Veronica, ed è andata bene; il secondo con Michela Murgia, ed ero terrorizzata ma lei ne è uscita entusiasta; e infine con la protagonista, l’attrice Monica Piseddu, che mi ha fatto mille domande, ma appena ha letto il testo tutto è filato benissimo.

«LA PARTE BELLA, EMOZIONANTE, È SCRIVERE, DARE VITA A QUELLO A CUI HAI PENSATO. SENZA LIMITI».

Peli ha debuttato al Teatro Palladium di Roma nel marzo del 2013, in occasione della rassegna Nuove Drammaturgie in Scena.

39

- Mestieri -

MAKE-UP ARTIST

a cura di MONICA VAGNUCCI foto FLAVIO MANCINELLI

S

SOTTO LE LORO ABILI MANI I VOLTI SCOPRONO LA BELLEZZA ATTRAVERSO LA TRASFORMAZIONE. CON LA LORO VISIONE ARTISTICA, UOMINI E DONNE NEL CINEMA, NEL TEATRO, NELLA MODA, SI VESTONO DI QUALCOSA CHE PRIMA NON AVEVANO.

ono loro a creare la magia di visi e corpi che si appropriano di quello che serve per rendere materia un’idea: sofisticatezza, espressività, intensità, illusione. Questo è il mestiere del truccatore, o come viene definito oggi, del MUA (make-up artist). Una professione creativa e indipendente, in grado di imprimere personalità e carattere ai protagonisti del mondo dello spettacolo, rendendoli qualcosa di diverso. Nonostante l’essenza di questo mestiere risieda in una personale capacità di vedere e forgiare immagini che non esistevano, attraverso un talento che si nutre molto dell’intuizione, l’arte del trucco si basa in realtà su nozioni precise e tecniche specifiche, ad esempio la conoscenza rigorosa della morfologia del volto, dove poco è lo spazio lasciato all’improvvisazione. Una professione che richiede versatilità, empatia e sensibilità poiché tocca immagini sulle quali vengono costruite intere carriere.

Quello che resta allo spettatore è un impatto visivo affascinante, un lavoro che appare come il gioco di un prestigiatore in grado di offrire l’impressione che l’illusione possa essere realtà.

40

Dall’alto Enza Lamparelli, Eva Nestori e Valentina Iannuccilli.

HAI FREQUENTATO UNA SCUOLA PER IMPARARE A FARE IL TRUCCATORE? Enza Ho frequentato la scuola di Gil Cagnè per imparare il trucco beauty, ma poi, facendo anni di gavetta, ho acquisito le tecniche per fare cinema perfezionando il trucco d’epoca e gli effetti speciali.

Eva Ho frequentato il corso di trucco estetico e cineteatrale presso l’Accademia Altieri di Roma. Era il 2001 quando mi sono diplomata e ho iniziato quasi subito a lavorare.

Valentina Ho frequentato il corso di trucco presso l’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna nel 2004/5.

Successivamente ho partecipato a vari corsi di specializzazione in Special Make-up sia a Londra che a Roma. Il lavoro del truccatore è però in continua evoluzione: vengono perfezionate le tecniche, escono nuovi prodotti, perciò ogni anno cerco di frequentare workshop per tenermi aggiornata.

41

QUALI SONO LE TRE QUALITÀ INDISPENSABILI NEL TUO LAVORO? Enza Ci vogliono passione, creatività e professionalità, oltre a una salute di ferro e nervi d’acciaio.

Eva Umiltà, puntualità, spirito di osservazione.

Valentina Quando lavori al trucco di un personaggio, fai parte di una squadra e sei al servizio di un’idea, di una visione, che è quella del regista, del costumista e dell’attore che lo interpreta: un truccatore deve avere la capacità di comprenderla e riuscire a interpretarla e realizzarla, mantenendo una coerenza con il proprio stile e punto di vista.

Poi la delicatezza,

42

poiché si interviene su viso e corpo degli attori, va fatto con cura. Una terza qualità è saper creare nella sala trucco una bella atmosfera, che protegga l’attore da pressioni e frenesie del set... e in questo, grande merito a Spotify!

I FERRI DEL MESTIERE: DI QUALI STRUMENTI NON POTRESTI FARE A MENO? Enza Nella mia Balilla non possono mancare mai pennelli, ferri Marcel e le mie tavolozze.

Eva Direi che i pennelli sono un prolungamento del corpo per un truccatore, per il resto l’esperienza mi ha insegnato che non serve avere a disposizione mille

prodotti per fare un buon lavoro.

Valentina Sono tanti gli strumenti importanti per il mio lavoro, come ad esempio i pennelli, le forbici, i ferri... ma l’unica cosa di cui davvero non potrei fare a meno, trucchi a parte, sono i kleenex!

QUANTO È DURATA LA SESSIONE DI TRUCCO PIÙ IMPEGNATIVA CHE HAI AFFRONTATO E DI COSA SI TRATTAVA? Enza Il trucco più lungo? Ci sono stati invecchiamenti con protesi durati anche quattro o cinque ore e sicuramente cadaveri in obitorio con tagli autoptici su corpi in stato di decomposizione.

Eva Non me ne viene in mente una

in particolare, in realtà capita spesso di stare anche quattro o cinque ore di seguito al trucco perché ci sono tante figurazioni da preparare, oppure quando in un giorno solo di shooting bisogna cambiare il trucco a tre modelle perché si passa dagli anni ’20 ai ’50, ’70 e così via!

Era un videoclip, comunque, uno dei più impegnativi che ricordo.

Valentina Mi sono capitate diverse preparazioni molto laboriose.

Proprio quest’anno per il musical di Roberta Torre tutti i personaggi avevano trucchi particolarmente elaborati, a partire dal protagonista con la sua cicatrice e i suoi tatuaggi, poi un altro al

quale applicavamo prostetici, fino alle attrici e ai ballerini sommersi da colori, glitter e ciglia finte.

UN LAVORO, PER DARTI SODDISFAZIONE DEVE...

Enza Mi deve emozionare e devo sentirmi coinvolta.

Eva Lasciarmi addosso la sensazione di aver dato tutto quello che potevo come professionista.

Ogni lavoro, per quanto breve o low budget possa essere, ha bisogno della collaborazione e la professionalità di tutte le maestranze che lo compongono per vedere la luce.

La soddisfazione più grande è scoprire che il tuo lavoro ha contribuito a rendere grande e importante qualcosa

che non c’era, qualcosa che si poteva solo leggere... solo immaginare.

Valentina Deve avere una sceneggiatura che mi coinvolga e una messa in scena che riesca a rappresentarla a pieno. Ma a volte basta anche semplicemente vedere al monitor un trucco che ho fatto, valorizzato da una bella fotografia.

HAI UN MAESTRO, UN PUNTO DI RIFERIMENTO NELLA TUA PROFESSIONE? Enza Il mio maestro Gino Zamprioli, un grande truccatore e un uomo meraviglioso che mi ha insegnato tutto, ma soprattutto ad amare e rispettare questo lavoro.

Eva Sicuramente

Kabuki Magic occupa un posto importante nel mio cuore, la sua visione è un’ispirazione continua: è un artista incredibile, con una capacità comunicativa commovente. Poi ho avuto la fortuna di incontrare nel mio cammino dei professionisti straordinari che sono diventati punti di riferimento, come David Bracci (mago degli effetti speciali) e Alessandro D’Anna che, nonostante la sua giovane età, è uno dei truccatori più bravi e preparati che abbia mai incontrato.

Valentina In realtà non sento di avere un unico maestro ma diversi truccatori che stimo, dai quali traggo ispirazione.

QUAL È IL PIÙ BEL TRUCCO CHE TI È CAPITATO DI VEDERE AL CINEMA? Enza Questa è una domanda alla quale riesco a rispondere con grossa difficoltà, perché quando sono spettatrice di film che mi portano a un coinvolgimento emotivo molto intenso non vedo più l’attore truccato.

Ed è lì che il truccatore ha vinto.

Eva Secondo me i make-up più interessanti sono quelli dei film fantasy, perché è lì che viene data la possibilità di creare e di dimostrare davvero le proprie capacità.

Potrei citarne tantissimi, ma nella top three sicuramente ci sono: il Grinch nell’interpretazione

fondamentale di Jim Carrey, il personaggio di Mistyque in X-Man e “l’uomo pallido” de Il labirinto del fauno.

Valentina Non è possibile per me dirne uno su tutti.

Hanno grandi trucchi film come Mad Max, Grand Budapest Hotel, Lemony Snicket, Monster... e potrei andare avanti per ore!

è che si scopre qualcosa ogni singola volta!) e vorrei farlo con il viso di Tilda Swinton.

Valentina Piuttosto che un nome in particolare, mi piacerebbe truccare e trasformare un attore che magari siamo abituati a vedere sempre nello stesso modo.

Oppure Tom Hardy.

UN ATTORE O ATTRICE CHE NELLA TUA PROFESSIONE TI PIACEREBBE TRUCCARE IL GENERE CONTA? (E PERCHÉ)?

UOMINI E DONNE SONO TRATTATI UGUALMENTE? Enza Anthony Hopkins, perché è il mio attore preferito.

Eva Credo che in ogni volto ci sia qualcosa di nuovo da imparare (uno dei motivi che mi fanno amare così tanto il mio lavoro

Enza Le donne fanno più fatica ad affermarsi in tutti gli ambiti, tuttavia il cinema italiano vanta grandi professionisti senza distinzione di genere.

Eva Sinceramente non mi è mai capitato di assistere a situazioni di discriminazione sul lavoro. Credo che in questo mestiere contino soprattutto i fatti, il talento, le capacità e non le parole.

Ho conosciuto truccatrici straordinarie e truccatori eccezionali.

Valentina Io personalmente non ho mai vissuto situazioni che mi abbiano portato a credere di essere in qualche modo svantaggiata o avvantaggiata perché donna.

IL TUO FILM DEL CUORE Enza Quel che resta del giorno con Anthony Hopkins.

Eva È difficile sceglierne uno solo, ma d’istinto direi Il colore viola di Steven Spielberg.

Sarà che è stato uno dei primi film che ho visto con mia madre e che, ancora oggi che non viviamo più insieme, non riusciamo a non guardare quando passa in TV e a non chiamarci il giorno dopo per domandarci «L’hai rivisto?»; sarà per le atmosfere anni ’20, per il blues, per i costumi strepitosi ma nel mio cuore c’è questo film meraviglioso che consiglio di guardare con la propria mamma e una scatola di fazzoletti di carta!

Valentina Indivisibili di Edoardo de Angelis.

43

- Zona Doc -

NUOVO C CIVILE

LA CONVOCAZIONE. ENRICO MAISTO CON “LA CONVOCAZIONE” RACCONTA L’ESPERIENZA DEI

V

incitore del Premio del Pubblico alla cinquattottesima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, La convocazione è il secondo film documentario diretto dal giovane milanese Enrico Maisto. Figlio di una coppia di magistrati, Maisto inizia la sua pratica di filmmaker già durante gli anni del liceo, tanto che ancora prima del diploma firma Dovunque purché fuori dal mondo, suo terzo lungometraggio a soggetto. Unico dei suoi primi tre lunghi di finzione ad aver avuto una circolazione ufficiale, il film è anche l’occasione dell’incontro con alcuni giovani tecnici, all’epoca ancora studenti della Civica Scuola di Cinema di Milano: alcuni di loro sono gli stessi scelti per dare forma a questo nuovo cimento documentaristico. La convocazione nel titolo è quella che raggiunge i cittadini coinvolti nella procedura di selezione

delle giurie popolari presso la seconda sezione della Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Milano. La

storia produttiva del film inizia da lontano, quando Maisto è ancora studente di filosofia alla Statale (dove si laurea, qualche anno più tardi, con una tesi su Nietzsche, Orson Wells e il cinema che gioca sulla messa in crisi del confine tra realtà e finzione).

L’idea di scrivere un film a soggetto sul meccanismo processuale dà

il via a una lunga fase di ricerche. Presto a Enrico Maisto si affianca Valentina Cicogna (poi coautrice del film sia nella fase di scrittura sia in quella di montaggio): è lei che, dopo la prima scoperta e il primo fronteggiamento diretto del meccanismo di convocazione dei giurati popolari, suggerisce l’ipotesi che il futuro film si concentri proprio su quella parte della macchina giudiziaria così poco

rappresentata in generale e così poco frequentata dal cinema in particolare. Intanto, nel 2014, Enrico (che prima

d’allora ha avvicinato la pratica del cinema di non fiction solo in occasione del backstage realizzato nel 2008 sul set del film Vincere, affidatogli dallo stesso Bellocchio) finisce e presenta al Milano Film Festival il suo primo documentario, Comandante, lungometraggio breve dedicato alla figura del padre magistrato. Negli stessi mesi inizia la pianificazione del nuovo film. Le scelte tecniche e stilistiche che decidono la forma finale de La convocazione vengono prese a valle della prima di otto sessioni di riprese messe in atto durante altrettante sedute di selezione: i protagonisti saranno filmati (con obiettivi a focali lunghe) quasi solo come volti fluttuanti, separati dal resto dell’aula, in una sorta di teoria di controcampi che dialogano solo indirettamente, a distanza e in modo indiretto con la piccola

La convocazione è stato prodotto dalla Start di Riccardo Annoni in co-produzione con RAI Cinema.

44

O CINEMA E

di SILVIO GRASSELLI

CITTADINI COINVOLTI NELLE SELEZIONI DEI GIURATI POPOLARI PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO. collezione d’inquadrature che rivelano l’altro polo dell’azione, i due magistrati di carriera (uno dei quali, la presidente, è in realtà la madre del regista) seduti al loro posto, coerentemente con la liturgia processuale. Durante ognuna delle otto sedute, tre piccole troupe composte da operatore e fonico concentrano il fuoco su tre diversi gruppi dentro la numerosa platea dei sessanta tra cittadini e cittadine che per la prima volta in vita loro vengono invitati a esser parte attiva nell’amministrazione della giustizia dello Stato al quale appartengono. Il film finito mescola e mette in rima volti e

voci estrapolati da appelli diversi, da diversi gruppi di candidati, fino a quando il magistrato non nomina in dettaglio due processi ai quali i selezionati dovranno lavorare: uno ha a che fare

con una vicenda di mafia, l’altro è il secondo grado di giudizio sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Da qui fino alla fine il film resta coerentemente concentrato sull’effettivo insieme di cittadini, nominati e inquadrati senza filtri, che prenderanno effettivamente parte alle udienze.

Un po’ pezzo esemplare di documentario d’osservazione, un po’ commedia documentaristica dall’ispirazione satirica, La convocazione è un raro esemplare di cinema civile nel nostro paese, nel nostro tempo. Enrico Maisto sceglie di raccontare un momento topico, una situazione e la condizione di chi vi è coinvolto usandoli come metafora e metonimia: una persona qualunque – qualunque tipo di persona – estratta del tutto casualmente da un sistema informatico, si trova senza troppo preavviso gettata, in qualità di cittadino, nel ventre temibile della Giustizia, della gran macchina rappresentata e raccontata tra le peggiori degradazioni della burocrazia, sistema, potere, ingranaggio tra i più temuti e denigrati dello Stato. Poco importa che la ragione della chiamata

non sia una colpa ma un invito, forse anche un’opportunità. In una piccola galassia d’inquadrature frammentarie, di teste senza corpo e voci senza volto, di sguardi che cercano incessantemente nel fuori campo il sollievo di un’interlocuzione senza mai trovarlo, Maisto costruisce la tessitura impalpabile dell’evoluzione d’un sentimento oltre che di una situazione, disegnando quasi in un diagramma emotivo la sequenza che dalla sorpresa, dalla tensione e dallo sgomento passa attraverso il fastidio, l’irrequietezza, il rifiuto, fino a raggiungere – nel caso di quelli che accettano e che vengono confermati nel ruolo di giudici popolari – la placida e forse perfino lucida accettazione di un servizio e dei rischi e responsabilità a esso connessi. L’architettura algida e retorica dell’aula di tribunale, i colori neutri, la durata di un’attesa che scorre contratta, il rincorrersi di voci che scambiano e diffondono informazioni sempre incerte e sempre in qualche modo allarmanti: ogni dettaglio viene registrato e cucito dal giovane regista, dal direttore della fotografia, dai montatori in una tela nitida ma densa che intreccia la sagacia della notazione impressionistica all’intelligenza della sua trasfigurazione e riscrittura in un disegno discorsivo più articolato e complesso. Un’ironia vagamente tragica – sempre sul

punto di sfociare nel grottesco e invece sempre tenuta rigorosamente dentro i margini del discorso – descrive

nei dettagli il profilo di una Nazione nel momento cruciale del confronto con l’Istituzione. La convocazione ha già ricevuto conferma della prossima partecipazione in concorso all’IDFA di Amsterdam, tra i più grandi e prestigiosi festival internazionali dedicati al cinema documentario. E mentre Enrico Maisto lavora al progetto di un’uscita in sala del film, già prepara due nuovi lavori, un documentario e un film a soggetto.

45

- Attori -

i spi ra zi o ne MAURIZIO TESEI

SELENE CARAMAZZA

MARCO ROSSETTI

CAMILLA DIANA

Giovani, artisti, ambiziosi. Tutti alle prese con il fascino della trasformazione in altro da sé, alla ricerca del lato nascosto che rende possibile il difficile equilibrio tra essere e apparire. Costruendo con passione, pazienza e perseveranza identità sempre nuove. testi raccolti da: CHIARA CARNÀ creative producer TOMMASO AGNESE foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistenti fotografa LUCA CAPUTO e GIULIA TERENZI hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI produzione ELEONORA DE SICA, MASSIMO ROSSETTI thanks to INLOCATION.IT

46

47

CAMILLA DIANA 27 anni, San Gimignano Mi avete vista in: • Tommaso di Kim Rossi Stuart Mi vedrete in: • Agadah di Alberto Rondalli • Ricordi? di Valerio Mieli • nella serie Il Capitano Maria di Andrea Porporati Ogni esperienza lavorativa ha contribuito fortemente ad arricchire la mia vita. Il mio corpo, il modo di muoverlo e lo sguardo sono i miei, ma ogni volta si scoprono differenti, trasformati dallo spirito del personaggio che interpreto. Questo mestiere è una straordinaria occasione per sperimentare psicologie diverse sospendendo se stessi.

Si mettono alla prova il proprio corpo e la testa; ci si predispone a imparare, a fare e a essere cose sempre nuove.

«Scopro il mio corpo e il mio sguardo trasformati dal personaggio che interpreto».

TOTAL LOOK DAVID NAMAN

48

MAURIZIO TESEI 39 anni, Roma Mi avete visto in: • Et in terra pax • Lo chiamavano Jeeg Robot • Il contagio Fare l’attore è il gioco più bello del mondo!

Riuscire a essere credibile nei panni di un altro, far sembrare reali le emozioni che il personaggio vive in quel momento mentre, nella mia testa, penso a dove si trovi il segno per prendere la luce, ai tempi della scena, ai gesti con cui accompagno le battute. Fare cinema è meraviglioso ma non è facile. Il rispetto per gli altri reparti e per il lavoro altrui è la base per fare al meglio questo mestiere.

«Fare l’attore è il gioco più bello del mondo!».

CAPPOTTO DAVID NAMAN DENIM CORNELIANI

49

MARCO ROSSETTI 32 anni, Roma Mi avete visto in: • Le mani dentro la città di Alessandro Angelini • Nomi e cognomi di Sebastiano Rizzo • La ragazza dei miei sogni di Saverio di Biagio • Squadra mobile Mi vedrete in: • Il cacciatore di Stefano Lodovichi e Davide Marengo La vita dell’attore è in continuo movimento e cambiamento. Quando mi sento dire «Hai vinto il provino!» (frase che non mi stancherò mai di ascoltare), rimango puntualmente senza fiato. Mi piace dire, scherzando, che il vero lavoro dell’attore è quello di cercare lavoro: nel momento in cui si è in scena, prevale un amore talmente grande e incondizionato da dimenticare i sacrifici e lo stress. Mettersi in discussione, completamente al servizio di un personaggio, è la sfida più dura: piango, gioisco, poi torno a disperarmi, litigo con gli altri e con me stesso, poi faccio pace con gli altri e (meno) con me stesso... Infine mi fermo, rido e penso: “Che vita sarebbe senza tutto questo”?

«Che vita sarebbe senza tutto questo?».

BOMBER DAVID NAMAN DENIM CALVIN KLEIN JEANS

50

SELENE CARAMAZZA 24 anni, Palermo Mi avete vista in: • Cuori puri di Roberto de Paolis Mi vedrete in: • Prima della notte di Daniele Vicari • Il cacciatore In ogni personaggio cerco di mettere tutto ciò che è possibile di me stessa. Il nostro è un mestiere di ricerca, che mi dà l’opportunità di lavorare con le mie emozioni e di vivere tante vite diverse.

Personalmente, cerco ogni volta nuove occasioni per alzare sempre l’asticella dal punto di vista emotivo.

«Recitare è lavorare con le mie emozioni».

DIESEL BLACK GOLD SKIRT TSHIRT BY IL GEMELLO

51

- Videoclip -

CANZONE

UNA NON BASTA di ELENA CIRIONI

52

INTERVISTA CON DUE ARTISTI DELLA MUSICA E DELL’IMMAGINE LEGATI A FILO DOPPIO: CANE SECCO ED ERMAL META, UN’INTESA CHE HA DATO VITA A VIDEO AMATISSIMI DALLA RETE, COME “VIETATO MORIRE” CON OLTRE 40 MILIONI DI VISUALIZZAZIONI.

CANE SECCO

“SLIM DOGS PRODUCTION”

Ci racconti quando hai cominciato?

La passione per il video e per la narrazione tramite le immagini risale alla mia infanzia. La mia prima

telecamera me la sono costruita da solo con i lego e andavo in giro a far finta di riprendere tutto quello che mi circondava, poco importava

che fosse tutto nella mia testa. La costante che mi ha sempre accompagnato è stata la voglia di sperimentare, che ha trovato una prima valvola di sfogo nel 2007, quando ho scoperto YouTube e ho aperto il mio canale “Cane Secco”. Ovviamente YouTube all’epoca non era quello che è oggi, c’eravamo solo io, qualche altro pazzo come me e i video di gattini, ma mi ha dato la possibilità di condividere con le persone i miei esperimenti e ricevere un feedback, essenziale per migliorarsi.

ERMAL META

L’approccio al mondo del web mi ha permesso di conoscere altre persone con la mia stessa passione e attraverso varie esperienze (tra cui Freaks! the Series e Dylan Dog: Vittima degli eventi) ho capito qual è l’elemento fondamentale per poter portare avanti progetti validi, ovvero avere con sé un gruppo di lavoro.

La tua carriera da solista inizia da Sanremo Giovani 2016 con il singolo Odio le favole. Come ha inciso il successo sulla tua creatività?

Il successo porta a ricercare i momenti creativi, quindi cerco di ritagliarmi il più possibile spazi del genere.

Questo per quanto riguarda la quantità del tempo.

La qualità credo che sia rimasta la stessa, sperando ovviamente di fare sempre meglio.

Com’è nata la collaborazione con Cane Secco?

Cosa ha rappresentato il grande successo del brano e del video Vietato morire, vincitore del Premio Roma Videoclip?

Sono fermamente convinto che la nostra forza sia nel definirci come collettivo e non pensare mai da singoli. Così io e i miei tre soci, nel 2014, abbiamo deciso di fondare la Slim Dogs Production, casa di produzione che ci permette di realizzare tutti i nostri progetti, dai web-spot, ai videoclip, passando per il branded entertainment. A oggi i nostri obiettivi sono due: ingrandire ancora il nostro gruppo di lavoro, attorno a cui ruotano già una serie di professionisti in tutti gli ambiti essenziali per la produzione video; affrontare progetti sempre più complessi e sfidanti che ci permettano non solo di metterci alla prova ma di sperimentare nuovi approcci e soluzioni creative e tecniche.

Cercavo un regista che avesse uno sguardo diverso sulle cose. Conoscendo Matteo e la

In che modo avete cominciato a collaborare con Ermal?

Nel modo più classico, grazie al passaparola. Uno dei produttori di Ermal sapeva che avevamo fondato da poco una casa di produzione, credeva nella forza del nostro collettivo e ci ha quindi proposto di collaborare.

Vorrei sottolineare il valore della scelta di Ermal e della Mescal di dare un’opportunità a una produzione che all’epoca era agli inizi: l’aver creduto in noi è stata una dimostrazione di grande lungimiranza. La prima produzione è andata molto bene e quindi abbiamo proseguito la nostra collaborazione, finora abbiamo

realizzato sei videoclip per Ermal ed è da poco uscito il settimo, Piccola anima.

Come strutturate il vostro lavoro assieme?

L’elemento alla base di tutto è la fiducia. Ermal si fida di noi, delle nostre scelte creative e noi ci fidiamo della sua capacità di darci i giusti spunti per poter interpretare al meglio la sua musica. La cosa davvero bella della collaborazione con Ermal è la possibilità di pensare sul lungo periodo. Spesso nei pezzi di un’artista percepiamo molte emozioni e sensazioni diverse ed è difficile farle uscire tutte lavorando sul videoclip di un unico brano. Con Ermal possiamo interpretare ogni volta una sfaccettatura diversa della sua musica ed è assolutamente stimolante.

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP

Il video del nuovo singolo di Ermal Meta, Piccola anima, è stato girato in notturna a Latina ed ha come protagonista anche Elisa.

Slim Dogs ho capito che ero sulla strada giusta. È dal primo disco che collaboriamo con ottimi risultati. Naturalmente sono molto felice del successo del video e del premio. Quando ho avuto l’idea, ho cercato di trasferirla al regista che ha saputo darle forma tirandone fuori un piccolo film molto bello.

Qual è in genere il vostro processo creativo?

Generalmente aspetto di sentire le considerazioni della Slim Dogs sulla canzone di cui dobbiamo fare il video e le visioni che questa genera in chi l’ascolta. Magari racconto la mia e unendo le idee diamo inizio alla realizzazione.

Quanto è importante raccontare con le immagini i tuoi brani?

Per me è importante che le immagini siano autosufficienti, che abbiano un senso anche se non ascolti la musica. Fondamentale in ogni caso che

qualunque scelta sia improntata a un’idea di bellezza e semplicità.

Per quale cantante italiano o straniero sogni di scrivere una canzone?

Per adesso le canzoni che scrivo me le tengo per me.

Non faccio più l’autore… [sorride] Sei partito per un lungo tour in Europa e nel mondo: quali città toccherai?

Le tappe europee sono Lugano, Berlino, Amsterdam, Colonia, Bruxelles, Parigi, Londra, Dublino, Barcellona, Madrid e poi Miami e Toronto. Direi che è un bel giro.

53

© Emanuela Scarpa

- Soundtrack -

SUSANNA, NICO E NOI GATTO CILIEGIA CONTRO IL GRANDE FREDDO

UN PROGETTO STRUMENTALE, QUELLO DEI GATTO CILIEGIA, FONDATO APPENA PRIMA CHE INIZIASSE IL NUOVO MILLENNIO, IN BILICO FRA INNOVAZIONI SPERIMENTALI E SUGGESTIONI ISPIRATE DALLA TRADIZIONE.

© Emanuela Scarpa

© Dominique Houcmant

di ILARIA RAVARINO

Per Nico, 1988 i Gatto Ciliegia alternano musiche originali a rielaborazioni dei brani più famosi di Nico e dei Velvet Underground.

54

© Dominique Houcmant

© Dominique Houcmant

La colonna sonora di Nico, 1988 è la prima uscita di 35mm, la nuova collana in vinile e digitale di 42 Records.

N

ati nel 1999 e diventati, nel giro di un anno, gli alfieri indie del post-rock all’italiana, i Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo sono un collettivo di musicisti incontratisi per amore della musica e cresciuti – di pari passo con le persone che in loro hanno creduto – nel cinema.

siamo avvicinati, ci siamo subito scontrati con la complessità della sua musica. Una complessità di scrittura che parte dall’armonia creata con l’armonium, uno strumento simile a un organo ma più cupo, una specie di comodino in cui si soffia l’aria con una mano, e con l’altra si suona. Nico ne aveva uno particolare, a pedale: il soffio lo produceva con i piedi e per suonare usava entrambe le mani.

Con qualche variazione dalla formazione originale – prima Max Viale, Gianluca Della Torca, Fabio Perugia, poi l’ingresso di Christian Alati e Lucio Sagone – il gruppo lanciato dal critico John Vignola a cavallo del nuovo millennio ha messo ormai da parte sette dischi.

Con un ottavo (forse) in arrivo e il sogno di uno spettacolo-concerto ispirato, ancora una volta, alla “sacerdotessa delle tenebre” Nico.

Il brano più difficile da reinterpretare?

Oggi il loro nome è inseparabile da quello di Susanna Nicchiarelli, per la quale hanno realizzato tutte le colonne sonore dall’esordio all’ultimo Nico, 1988.

Max Viale, per riadattare Nico da dove si inizia?

Abbiamo applicato lo stesso metodo che seguiamo sempre lavorando con Susanna (Nicchiarelli, ndr), anche se stavolta il progetto si annunciava molto complesso. Susanna ci ha coinvolto già in fase di scrittura: abbiamo letto la sceneggiatura e cominciato a lavorarci ormai tre anni fa. Siamo partiti dalle musiche che

la regista sapeva di usare nel film. E poi tutto si è svolto in tre fasi: la registrazione della base dei brani suonati dal vivo, il lavoro sui brani suonati “off” in colonna sonora, infine i brani originali per la musica d’ambiente.

Avete registrato live sul set o eravate in playback?

Abbiamo fatto un grande lavoro preparatorio perché sul set dovevamo arrivarci con tutti i brani pronti. Li suonavamo in playback, ma questo non vuol dire che il processo sia stato meno complesso.

Anzi. I brani dei live sono stati lavorati sia prima, in pre-produzione, per avere un ascolto simile a quello di un concerto, che dopo, in post-produzione, per dare la sensazione del live. Senza contare che quando suoni in playback devi essere perfettamente in sincrono.

E allora perché non affidarsi a performance live?

Perché non tutti gli attori nella band erano pure musicisti. Per questo motivo anche io e il batterista abbiamo un ruolo nel film: eravamo necessari sul set per far funzionare le dinamiche sul palco,

perché l’attore, se non è un musicista, non è abituato a suonare dal vivo e non sa come muoversi. Se non ci fosse

stata empatia tra noi il live non avrebbe funzionato. È stata una scelta rischiosa e coraggiosa.

Perché riadattare, e non “copiare”, i brani di Nico?

Susanna preferisce sempre riadattare la musica al film che ha in mente, non cerca mai la replica dell’originale. Per lei era importante costruire la “sua” Nico, quella dell’ultimo periodo della sua carriera.

Prima del film quanto sapevate di Nico?

Apprezzavamo i Velvet Underground. Sapevamo che Nico aveva avuto una carriera da solista, ma la conoscevamo poco. Appena ci

Janitor of Lunacy. Abbiamo lavorato al riarrangiamento per tre mesi. Ne abbiamo speso uno intero solo per cercare un suono che richiamasse la partitura del suo particolare armonium.

Alla fine lo abbiamo ottenuto con un virtual instrument, confrontandoci poi, per la partitura finale, con il compositore ufficiale del Museo Nazionale del Cinema di Torino.

E sulla voce di Nico, così particolare, come avete lavorato?

Non solo la sua voce aveva un tono unico, molto basso, ma faceva cose con quella voce… la musica andava da una parte e lei dall’altra, completamente. Abbiamo cominciato a lavorare alle musiche senza sapere quale attrice avrebbe interpretato Nico. Ci siamo serviti dell’aiuto di una cantante con cui abbiamo delineato le linee guida vocali. Poi, quando siamo entrati in contatto con Trine Dyrholm, lei stessa ha reso tutto semplice, grazie alla sua innata generosità e professionalità. Si è messa a completa disposizione ed è entrata subito nell’attitudine del personaggio, studiandone immediatamente la voce. Quando l’ho incontrata, la prima volta, le ho

chiesto se voleva che le stampassi i testi. Ma lei li conosceva già tutti a memoria.

Perché instaurare una collaborazione duratura con un regista?

Abbiamo avuto anche altre esperienze con altri registi, ma con Susanna ormai il team è consolidato. Abbiamo fatto tutti i suoi film, dall’opera prima a Nico, compreso il documentario Per tutta la vita. Ci piace lavorare con lei perché è una regista molto musicale, non tutti i registi lo sono. Cosmonauta ce lo ha presentato come un musicarello, La scoperta dell’alba, che è tratto dal romanzo, lo ha riscritto ispirata da un nostro brano, L’irreparable. La musica è molto importante nella sua scrittura. Ha voluto la colonna sonora originale pure per il documentario…

A un nuovo album ci pensate?

Avevamo un album pronto poco prima che ci chiamasse Susanna per Nico. Ora che il film è andato in sala ed è piaciuto, uscirà la colonna sonora, anche in edizione speciale in vinile per l’etichetta 42 Records. In questo momento siamo in fase di mastering e speriamo in una uscita entro la fine dell’anno. Stiamo poi preparando una specie di spettacolo concerto, una performance con molto visual, sempre ispirata a Nico. La drammaturgia è di Orlando Manfredi, la supervisione di Susanna. Cerchiamo in questi giorni una produzione. E se non dovesse andare… facciamo uscire l’album, c’è già il titolo: SuperOtto.

55

Nel cast di voci che hanno doppiato Gatta Cenerentola, fra gli altri, Massimiliano Gallo, Mariapia Calzone, Alessandro Gassmann, Mariano Rigillo e Renato Carpentieri.

«MEGLIO ESSERE LIBERI CREATIVAMENTE CHE SUDDITI DELLA PRODUZIONE A OGNI COSTO».

56

L S T D

MAD ENTERTAINMENT

LA GATTA SUL TETTO DI NAPOLI

VISITA GUIDATA AGLI STUDI NAPOLETANI — DECISAMENTE FUORI DAGLI SCHEMI — CHE HANNO DATO VITA A DUE DEGLI ESPERIMENTI DI

ANIMAZIONE PIÙ RIUSCITI E PREMIATI DEGLI ULTIMI ANNI: “GATTA CENERENTOLA” E “L’ARTE DELLA FELICITÀ”.

di ILARIA RAVARINO

Gatta Cenerentola è una favola moderna realizzata dai registi Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone e Alessandro Rak, vincitore quest’ultimo di un European Film Award per L’arte della felicità.

57

C’

www.madinnaples.com

è lo sciopero dei mezzi, a Napoli, e Piazza del Gesù Nuovo è un’isola senza traffico lungo la quale si muove cauto, alla ricerca di un civico che non troverà mai, il tassista. La macchina rallenta, si ferma davanti a un palazzo tardo barocco imponente e vivace, dall’aria irragionevolmente familiare. Fu proprio qui, recita la targa all’ingresso, che a fine Ottocento Guglielmo Oberdan progettò l’attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe, e sempre qui Vittorio De Sica girò, a metà anni Cinquanta, l’episodio I giocatori de L’Oro di Napoli (ignorato all’ottavo Festival di Cannes, è oggi uno dei 100 film italiani da salvare). Un palazzo con una bella storia, concludo addentrandomi nel cortile interno, scartando l’ascensore che sospetto provenire dai tempi di Oberdan, scalando piano dopo piano questo bell’edificio dal passato irridentista, rivoluzionario e pieno d’arte.

Non è un caso, per chi crede alle risonanze della storia, che oggi palazzo Pandola sia diventato la sede di una delle factory più vivaci e carismatiche d’Italia. Al primo piano si trova la Full Heads, etichetta discografica indie (nel portfolio i Foja, Tommaso Primo, Daniele Sepe), al secondo c’è la MAD Entertainment, lo studio napoletano d’animazione dove sono nati due piccoli grandi fenomeni come L’arte della felicità di Alessandro Rak e Gatta Cenerentola di Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone. In un paese in cui l’animazione per adulti è

pressoché inesistente, fare due cartoon in quattro anni è quasi un miracolo, ma farli entrambi bene è certamente opera di San Gennaro. E, come vedremo, non è un modo di dire.

Studio dell’anno al Cartoon Movie di Lione, protagonista alla scorsa Venezia con Gatta Cenerentola, la MAD è stata paragonata nell’euforia lidense a una piccola Pixar nostrana. Per la qualità dei prodotti realizzati, alternativi fino al midollo e tecnicamente impeccabili, ma anche per il metodo di lavoro “in condivisione”: tutti fanno tutto, l’opinione di ciascuno è importante, your ideas matter direbbero gli americani.

Solo che qui, nel cuore di Napoli, non è fiorito un open space luminoso per giovani hipster cresciuti a bacche di goji, cartoon e tisane. Qui è nata “una bottega”, come ci ripeteranno spesso a palazzo Pandola.

Una bottega divisa in due sezioni, a un capo e l’altro dello stesso pianerottolo: la parte creativa e quella amministrativa, che include anche lo studio di registrazione dove sono state arrangiate, scritte e mixate le musiche dei film, finalizzati poi a Roma. La parte per così dire istituzionale della MAD è amichevole fin dall’ingresso a vetri, dove ad accogliere gli ospiti c’è una voce familiare: quella che appartiene, ne Gatta Cenerentola, all’assistente del re. «Lui è il nostro Marcello Mastroianni» spiega Marino Guarnieri, indicando un uomo gentile alla scrivania che di professione farebbe il rivenditore di attrezzature cinematografiche, «ogni volta che possiamo gli facciamo fare un personaggio nei nostri film». Lungo i corridoi capita di inciampare in uno strumento musicale abbandonato, visto che «qui sono tutti musicisti e se a qualcuno viene voglia di suonare lo può fare», o in una coppia di poltroncine da cinema, cimeli della prima vita da esercente del produttore Luciano Stella (leggenda vuole che fu al

piano superiore del suo cinema, il Modernissimo, che nacque il primo spunto de L’arte della felicità). E proprio

Stella è il cuore di quest’area. La sua stanza, «dove facciamo le riunioni e dove celebriamo lo “stappo” della bottiglia alla chiusura del film», è un piccolo tempio pagano del cinema, tra locandine, pezzi di set, attestati, una maschera da gatto, foto di scena, una gigantografia di Jack Nicholson, un pupazzo di Bozzetto, coppe, trofei, premi. Due premi spiccano, in particolare, l’uno accanto all’altro: «Questo è il premio San Gennaro, il primo che ha vinto L’arte della felicità. E quest’altro pure è il premio San Gennaro, il primo riconoscimento che ha vinto Gatta Cenerentola. Speriamo che gli porti la stessa fortuna». Non tutti gli autori gradirebbero lavorare con un produttore così vicino, praticamente in casa. Ma alla MAD «ci troviamo bene fianco a fianco con Luciano perché i

film non vengono calati su di noi come una concessione dall’alto. C’è compresenza ma anche tolleranza, qui regna un’orizzontalità benefica per tutti».

Per capire il senso di questa orizzontalità basta esplorare l’area “nuova” degli studi, quella creativa, costruita pezzo dopo pezzo di pari passo col procedere dei lavori per Gatta Cenerentola. Attraversato l’ingresso, superato il cuore pulsante della modellazione dove si lavora su quattro computer alle scenografie e ai personaggi, si raggiunge la stanza comune. Che è luogo di relax (è l’unico posto dove è ammesso fumare), ma anche di lavoro collettivo, stanza per le riunioni e postazione di montaggio condivisa: «Mentre lavoriamo al film il montaggio viene lasciato aperto sul computer» spiega Dario Sansone «Chiunque può mettersi seduto qua e e vedere la situazione, a che punto siamo arrivati, come sta andando». In questo studio, ci spiegano, animatori e modellatori si scambiano le competenze, «per tenere tutto insieme e non segmentare il lavoro». Tutti fanno tutto è il refrain – incluso portare il caffè. «Non è questione solo di generosità, ma di uno stile di lavoro nato dall’esigenza. Quando Rak voleva realizzare L’arte della felicità, ha dovuto trovare un metodo di lavoro che fosse in scala con il suo piccolissimo budget» ci dice Ivan Cappiello «E

Gatta Cenerentola ha debuttato nella sezione Orizzonti alla 74esima edizione del Festival di Venezia.

58

così ha messo insieme le persone che conosceva e che amavano l’animazione: gente non esperta ma appassionata e volenterosa, a cominciare dai ragazzi della scuola napoletana di Comics.

Il budget ridotto ha portato a soluzioni atipiche, a schemi che sono riusciti a mettere l’essere umano al centro del lavoro. Più che uno studio di animazione questo è un luogo di condivisione, di passione, una bottega. Ci tolleriamo a vicenda per anni puntando al risultato finale». Non c’è distanza gerarchica, per dire, tra la

stanza dei quattro registi, con i muri pieni di disegni di bambini («Tra un film e l’altro ne sono nati parecchi»), le tavole di scenografia e un cimelio del film Videodrome, e la stanzetta dove tre stagisti hanno lavorato al corto che precede Gatta Cenerentola, schizzi alle pareti e un omino di marzapane in cartone che spunta da una scatola (in ogni stanza della MAD c’è un oggetto fuori posto, come in un gioco de La settimana enigmistica).

Il prossimo lungometraggio dello studio, l’adattamento della graphic novel di Rak A Scheleton Story, è per il momento in fase

di pre-produzione. Ma anche se oggi lo studio è fermo, c’è un via vai di persone che arrivano, si propongono, provano un computer, discutono, fumano. «In questa fase lo studio resta a disposizione dei ragazzi che possono usarlo per sviluppare progetti personali» racconta Rak, circumnavigando un albero di Natale crollato a un lato della stanza «In questa specie di anarchia si punta molto sull’iniziativa dei singoli, sulla loro propositività. E chissà che così non nascano nuovi progetti». Nuovi progetti per cui servirà, inevitabilmente, del tempo. Perché lo studio non cede di un millimetro a tentazioni più commerciali («Le serie a cartoni? Oggi sono un lavoro a catena di montaggio. Rispettiamo chi le fa, ma richiedono competenze diverse dalle nostre»), anche se a budget più grandi, si intende, non direbbe di no. «Però da grandi budget derivano grandi responsabilità. Certo ci piacerebbe strutturarci

meglio, ma da outsider possiamo permetterci il lusso della sperimentazione, perché il rischio di investimento è ridotto». Meglio essere liberi creativamente che sudditi della produzione a ogni costo. Oberdan, in fondo, sarebbe fiero di loro.

«TUTTI FANNO TUTTO, L’OPINIONE DI CIASCUNO È IMPORTANTE».

59

- Realtà virtuale -

FULL

IMMERSION

LA REALTÀ VIRTUALE HA DEBUTTATO AL FESTIVAL DI VENEZIA CON CHROMATICA DI 8 PRODUCTION: UN VIAGGIO TRIDIMENSIONALE NEL COLORATISSIMO MONDO DELLE EMOZIONI. È L’INIZIO DI UNA NUOVA ERA PER LA SETTIMA ARTE? di CHIARA CARNÀ

S

ofia (Camilla Diana) è affetta da una rara malattia che le impedisce di percepire i colori. L’incontro col pianista Vincent (Christian Burruano) e con la sua musica sconvolgerà la monocromatica quotidianità della timida ragazza, rivelandole sfumature e frequenze a lei negate fino a quel momento… Chromatica, corto vincitore della Biennale College Cinema VR, è un percorso sensoriale a 360 gradi: «Nella storia è

60

fondamentale il punto di vista» racconta la produttrice Laura Catalano, che ha firmato anche soggetto e sceneggiatura «quindi era uno spunto perfetto per la realtà virtuale. Io e i miei soci (Flavio Costa e Nicola Papagno) ci siamo ispirati alla storia di Neil Harbisson, il primo uomo-cyborg affetto da acromatopsia come la nostra protagonista. Lui, con l’aiuto di un informatico, attraverso un sensore ha automatizzato il processo di unione tra la frequenza

Chromatica ha preso parte alla prima competizione assoluta di film in VR promossa durante la 74esima edizione del Festival di Venezia.

sonora e il colore. Ho trovato significativo un intervento in cui ha affermato che, se il fine ultimo dell’uomo è la conoscenza e se questa arriva da un’esperienza sensibile, non c’è motivo per non creare applicazioni per ampliare i propri sensi. Questo in parte terrorizza, ma conferma che il progresso è in atto e non può essere fermato».

continuare a lavorarci potendo però contare su un finanziamento di 30 mila euro. La prima cosa che mi ha colpito è stato l’approccio delle persone a cui presentavo il progetto: mentre io tendevo a ragionare su cosa fosse possibile realizzare, loro mi spronavano a pensare all’irrealizzabile, per poi creare le condizioni per renderlo reale.

Quali sono state le sfide principali nella realizzazione di Chromatica?

Abbiamo avuto a disposizione solo due mesi per realizzarlo e post produrlo e la finalizzazione è stata fatta a Barcellona sia per questioni di budget sia per la mancanza, in Italia, di società in grado di completare il rendering nei tempi richiesti. Il corto è stato interamente girato in interni e teatro di posa. Serviva un ambiente completamente controllato e i tecnici, ovviamente, non potevano stare all’interno della scena. Abbiamo utilizzato 14 macchine molto piccole, con un solo sensore da 16 mm. L’obiettivo era girare tutto in prima persona, ma questo pone delle problematiche. La principale è il motion sickness: lo spettatore che segue con il visore un personaggio che si muove all’interno dello spazio virtuale prova le stesse sensazioni di chi soffre la macchina, perché il movimento attorno a sé non corrisponde a quello del proprio corpo. Abbiamo quindi

Secondo te potrebbe essere questo il futuro del cinema?

Esistono delle sale di realtà virtuale anche a Palermo e a Milano, ma non è cinema. Definirei la realtà virtuale un incontro tra cinema e teatro; di quest’ultimo c’è la spazialità, sebbene virtuale, e un’inclusione dello spettatore al suo interno.

Il cinema, invece, racchiude immagini all’interno di una cornice. Un’esperienza come Chromatica

realizzato alcune parti in oggettiva alternate ad altre in soggettiva. Per queste ultime, abbiamo posizionato le 14

camere su un casco, facendo attenzione a non commettere errori di stereoscopia e creare immagini distorte. Un’altra sfida è stata costruire un sistema wireless per vedere in live almeno una parte del girato. Arrivavano ai monitor 14 segnali diversi e chiaramente era faticoso avere una visione d’insieme per poi unire tutte le immagini.

Dal punto di vista tecnico è stato un percorso complicatissimo.

Com’è stato accolto il risultato dal pubblico?

Chromatica è piaciuto moltissimo, in tanti hanno ammesso di non essersi resi conto del tempo che passava e di essere riusciti a concentrarsi solo sulla parte narrativa. È una bella soddisfazione, perché la realtà virtuale ha ancora una bassa qualità e i device sono pesanti. La storia è emotiva e immersiva; gli spettatori sono riusciti a calarcisi completamente, persino commuovendosi.

Quando hai deciso di dedicarti alla realtà virtuale?

L’ho trovata stimolante sin dalla prima volta che ne ho sentito parlare. Ho iniziato sperimentando: si tratta di un linguaggio inesplorato, che offre terreno fertile per raccontare storie stupendo lo spettatore in maniera inedita. In Italia siamo però molto

indietro rispetto, ad esempio, alla Francia e all’Olanda. Il bando della Biennale College mi è sembrato l’occasione perfetta per

va proprio a cambiare le regole della sintassi filmica. La realtà virtuale è qualcosa a cui, nel nostro paese, bisogna abituarsi. Quando mi

sono occupata delle scartoffie per il corto ho incontrato scogli tragicomici. Di regola, bisogna lasciare una copia del progetto al Ministero su DVD o VHS… ma per un progetto in realtà vituale questo non è possibile. Ci ho messo due settimane solo per venire a capo di queste dinamiche. Invece quando sono andata in SIAE per registrarlo, mi son sentita rispondere «Non prendiamo reality show!». Insomma: c’è da lavorarci!

Un bilancio della tua esperienza di giovane produttrice?

Ho sempre vissuto il percorso produttivo in maniera creativa e sono molto legata alla scrittura. Il senso di questo lavoro, che richiede un’energia infinita, è mantenere la passione e non scadere nella routine; costruire un piccolo ecosistema attorno a un’idea per svilupparla al meglio. La nostra 8 Production è una piccola realtà indipendente che però è riuscita a incontrare, in passato, l’apertura e l’interesse da parte di istituzioni come l’Istituto Luce.

Stiamo lavorando a due film e continueremo a proporre nuovi progetti in realtà virtuale. Vorremmo realizzare un’esperienza di un’ora articolata in due da mezz’ora collegate fra loro. Il problema sono sempre i finanziamenti e i canali di distribuzione. Ci orienteremo, infatti, su distribuzioni internazionali, che siano di tipo cinematografico o su piattaforme web. L’obiettivo rimane

diffondere l’esperienza tridimensionale in Italia.

«IL PROGRESSO È IN ATTO E NON PUÒ ESSERE FERMATO». www.pr8duction.com

61

- Effetti speciali -

L A

P R O S P E T T I VA

G I U S TA

L’INTERVENTO DI UNA SOCIETÀ TUTTA ITALIANA, EDI, NEL LAVORO DI POST PRODUZIONE DEL PRIMO FILM AMERICANO DI PAOLO VIRZÌ, “ELLA & JOHN - THE LEISURE SEEKER” , IN CONCORSO AL FESTIVAL DI VENEZIA, RACCONTA LA STORIA DI UN SETTORE, QUELLO DEI VFX DI CASA NOSTRA, IN GRADO DI COMPETERE IN TERMINI DI QUALITÀ A LIVELLO INTERNAZIONALE. di TIZIANA MORGANTI

L’

avventura di EDI, Effetti Digitali Italiani, inizia nel 2001 con progetti nazionali e internazionali, sia pubblicitari sia cinematografici, ma solo negli ultimi tre anni si apre al mercato americano grazie a un regista che per lungo tempo ha sperimentato in prima persona la produzione e il mercato americani. Parliamo di Gabriele Muccino che ha affidato la post produzione del suo Father and Daughters alla società milanese fondata da Francesco Grisi e Pasquale Croce. Da quel momento EDI è riuscita a conquistare la fiducia di una grossa fetta di mercato americano, tanto da mettere le mani su titoli importanti a livello internazionale come Lemony Snicket, per poi arrivare ad American Gods, per cui è stato svolto un lavoro anche concettuale particolarmente complesso. Tra varie produzioni internazionali, però, anche il cinema italiano d’autore ha trovato uno spazio importante nell’attività di EDI. In modo particolare si fa riferimento alla lunga collaborazione con

62

Paolo Virzì che, dopo La prima cosa bella e Il capitale umano, ha voluto lavorare con la società anche per Ella&John, sua ultima fatica e prima pellicola realizzata completamente in lingua inglese con protagonisti Donald Sutherland e Helen Mirren. E per comprendere il lavoro tecnico svolto proprio su questo film, abbiamo incontrato Rosario Barbera e Gaia Bussolati (entrambi VFX producer).

Quando si parla di effetti visivi, quasi sempre si fa riferimento al cinema americano. Cosa vuol dire, invece, lavorare in questo senso su dei prodotti dalla natura completamente diversa come, ad esempio, il cinema autoriale italiano?

Effettivamente, fatte alcune eccezioni comparse negli ultimi tempi, nel mercato italiano non sono presenti molti film di genere. Il panorama americano, invece, è completamente diverso, visto che si producono fantasy e action movie dove gli effetti visivi sono molti e di grande impatto. Lavorare su dei prodotti italiani vuol dire realizzare un intervento che, essenzialmente, risulti invisibile agli occhi dello spettatore. Solo in questo caso possiamo dire che il lavoro è stato svolto nel migliore dei modi. Un progetto, però, che ha richiesto una lavorazione del tutto diversa è stato Game Therapy.

Nonostante non abbia riscontrato un grande successo in sala, questo film ha rappresentato un’operazione coraggiosa proprio per quanto riguarda la post produzione. L’intera narrazione, infatti, è ambientata all’interno del mondo virtuale dei video giochi. Questo vuol dire che, per quanto riguarda il nostro lavoro, abbiamo dovuto ricostruire ambienti inesistenti nella realtà. In questo senso, dunque, il progetto ha avuto un respiro sicuramente più internazionale.

Tornando a Ella&John, che tipo di interventi sono stati pensati e applicati sulla pellicola?

L’impegno maggiore è stato rappresentato dalla lavorazione delle riprese in camera car. Si è trattato di ripristinare un’atmosfera precisa,

visto che gran parte delle scene in esterna sul camper sono state realizzate in studio inserendo sullo sfondo il green screen. Il film, infatti, è stato girato in estate durante un periodo molto caldo. Per questo motivo, a causa delle condizioni ambientali particolarmente proibitive e al fine di permettere agli attori di realizzare una performance che non fosse eccessivamente

compromessa dal caldo torrido delle strade della Georgia, la produzione ha deciso di girare in studio gran parte delle scene all’interno del van. Solo alcuni ciak sono live e, basandoci proprio su questi, abbiamo lavorato replicando alcuni elementi come l’illuminazione e i rapporti di luminosità.

Si può dire secondo voi che gli effetti visivi aiutano altri reparti della produzione?

Assolutamente sì. Proprio per questo motivo, prima dell’inizio delle riprese, è stata portata a termine una fase di studio insieme a Chromatica, l’altra società che si è occupata degli effetti visivi, con cui abbiamo avuto un periodo molto lungo di confronto con alcune figure essenziali come lo scenografo, il regista e il direttore della fotografia. Il nostro compito, infatti, era di traghettare con naturalezza lo spettatore da un’immagine girata live a una ripresa in studio. L’effetto deve risultare assolutamente identico, senza nessun tipo di discrepanza e, proprio per questo motivo, il lavoro esige di essere coordinato prima con la partecipazione di tutti i reparti. Ad esempio, per ottenere questo “effetto”

di veridicità è stato essenziale definire l’esatta altezza dei finestrini del camper rispetto alla strada. Può sembrare un piccolo particolare ma è fondamentale far capire che i personaggi si trovano all’interno di un van e non di una macchina normale, per cui va fatta particolare attenzione alle differenze di geometria e prospettiva.

Considerando i successi internazionali riportati da EDI e da altre aziende italiane specializzate nei VFX, possiamo affermare di trovarci di fronte a un settore in buona salute?

Di sicuro è un settore oggi in crescita, basti pensare che praticamente non esiste un film che non faccia uso di effetti visivi. Bisogna considerare che spesso si fa riferimento a un lavoro volto ad aiutare la produzione negli errori commessi durante le riprese come, ad esempio, un microfono in campo o dei riflessi inopportuni. Ciò vuol dire, dunque, che non sempre si affronta un lavoro creativo. Nonostante questo, però, si cerca di portare a termine il film nel migliore dei modi e con il dispendio di minor tempo possibile. In sostanza, dunque, possiamo dire che il settore è sì in crescita, ma ancora non ha raggiunto i livelli a cui può legittimamente aspirare.

www.effettidigitali.it

Before

After

Il film Ella&John, che ha come protagonisti due anziani in fuga dalle cure mediche a cui dovrebbero sottoporsi, è un adattamento dal romanzo In viaggio contromano di Michael Zadoorian, arricchito di temi legati all’attualità dell’America di oggi.

63

LOCATION: letteralmente luogo scelto per l’ambientazione di un film, di un servizio fotografico, di uno spot pubblicitario o di un evento.

Ma dietro c’è molto di più. L’agenzia IN LOCATION si occupa di supportare tutte le case di produzione, scenografi, location manager e agenzie creative nel trovare il posto giusto che deve fare la differenza.

PIÙ DI 1.500 LOCATION DIVISE IN TIPOLOGIE E STILI una gallery “new” con gli ultimi inserimenti per rimanere sempre aggiornato sulle novità. Inoltre, con una ricerca tramite “tag mirate” inserite nella barra di ricerca, le proposte arrivano immediatamente al punto.

Seguici su

www.inlocation.it - info@inlocation.it

66

PICTURES Da sempre attenta a quello che accade nel mondo del disegno e del colore, Fabrique ha dato vita a una collaborazione con Officina B5, pubblicando in ogni numero un’illustrazione frutto di un apposito contest proposto agli allievi della scuola.

IL CONTEST FRA GLI ALLIEVI DELL’OFFICINA PER QUESTO NUMERO È STATO VINTO DA DANIELE SETOLA, 30 ANNI, CON UN’OPERA ISPIRATA ALL’IMMAGINARIO DEL RED CARPET, DEI FESTIVAL E DEI PREMI, GLI ASPETTI PIÙ GLAMOUR NEL MONDO DEL CINEMA. IN OMAGGIO AI FABRIQUE AWARDS. Officina B5 è una scuola di illustrazione nel cuore di Trastevere, fondata nel 2005 da Fabio Magnasciutti e Lorenzo Terranera.

67

DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

2 SETTEMBRE 2017

IN LAGUNA TRA LE STAR Anche quest’anno Fabrique non ha perso l’occasione di partecipare alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta alla sua 74esima edizione.

Con il sostegno di Manila Grace, è stato allestito uno spazio dedicato, Casa Fabrique, presso una meravigliosa villa a 200 metri dal Palazzo del Cinema in cui sono stati ospitati, dal 30 agosto al 5 settembre, tanti protagonisti del nuovo cinema italiano, intervistati ogni giorno dalla giornalista e fashion blogger Alessandra Airò. Tra le numerose attività che si sono svolte a Casa Fabrique, lo showroom della celebrity stylist Stefania Sciortino, la gift room per i nostri ospiti e l’intervento quotidiano di addetti ai lavori e giornalisti sui film e gli eventi presenti alla Mostra, a cura della direttrice di Fabrique du Cinéma Ilaria Ravarino, con portfolio realizzato da Roberta Krasnig.

Ma l’avventura di Fabrique nella laguna non è finita qui. Il 2 settembre presso l’Hotel Excelsior, nello Spazio della Regione del Veneto, si è tenuta la tavola rotonda “A ciascuno il suo premio: Festival e territorio tra indotto, identità ed empowerment locale”, un dibattito stimolato dalla presenza di importanti direttori di festival cinematografici nazionali con l’obiettivo di identificare l’indotto sociale, economico e culturale di eventi, premi e rassegne dedicate al cinema sul proprio territorio. Con l’occasione, è stata presenta-

ta l’ultima edizione della rivista con la cover delle gemelle Fontana, gli approfondimenti su John Turturro, i consigli di Ferzan Ozpetek ai giovani registi e il focus su Susanna Nicchiarelli e la sua “Nico 1988” post rock, film di apertura a Venezia nella sezione Orizzonti. Hanno preso parte all’evento, moderato da Ilaria Ravarino, direttrice responsabile di Fabrique du Cinéma: Chiara Omero, direttore Shorts IFF e presidente dell’AFIC, Associazione Festival Italiani di Cinema; Boris Sollazzo, co-direttore di Ischia Film Festival; Pedro Armocida, direttore della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro; Daniele Urciuolo, direttore del Formia Film Festival e vice direttore del Catania Film Fest; Elena Mazzocchi, direttrice editoriale di Fabrique du Cinéma e responsabile di Fabrique du Cinéma Award; Roberto De Feo, responsabile di Fabrique du Cinéma Award e distributore cinematografico di Premiere Film; Valerio Carocci, presidente dell’Associazione Piccolo America – il Cinema in Piazza a San Cosimato. A seguire, si è tenuto il party di presentazione del numero 19 di Fabrique du Cinéma, con ospiti, photocall, musica e videoproiezioni.

Fabrique apre le porte al nuovo cinema italiano anche a Venezia, offrendo uno spazio esclusivo per accoglierne i protagonisti.

68

DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA 22 SETTEMBRE 2017

IL SATYRUS IN FESTA PER FABRIQUE Nella splendida ed esclusiva cornice di Valle Giulia, nello spazio Satyrus, di fronte alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, lo scorso 22 settembre, Fabrique du Cinéma ha presentato il nuovo numero della rivista. Evento speciale della festa, il lancio de Il contagio di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, con Vinicio Marchioni, Vincenzo Salemme, Anna Foglietta, Giulia Bevilacqua e Maurizio Tesei, accolto con successo al Festival di Venezia. A presentare la pellicola, approdata nelle sale il 28 settembre e prodotta da Kimerafilm con la distribuzione di Notorious Pictures, i registi e parte del cast. Durante la manifestazione è stato inoltre presentato il libro Diario erotico di un cybernauta, con l’intervento di Paola Gaglianone, curatrice del corso di Scrittura RAI, e con la partecipazione dell’autore, Tommaso Agnese, letture di Luigi Di Fiore. A seguire, la presentazione del documentario La quinta generazione di Michele Ambrogio, prodotto dalla Cut & Editing & More e distribuito dalla Blade Runner. Spazio, come sempre anche alla musica, con il live concert stile anni ’50 e ’60 della Mikely Family Band, che ha regalato un tuffo nel passato dell’Italia che sapeva ancora sognare.

CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20

BERGAMO CINEMA LAB 80 FILM | Via Pignolo, 123

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2017

Numero

20

OPERA PRIMA

“GUARDA IN ALTO”

Le avventure oniriche di Fulvio Risuleo sui tetti di Roma

FUTURES

HLEB POPAU

Con “Il legionario”, a fianco dei nuovi italiani

FOCUS

MAD ENTERTAINMENT

La factory napoletana che sta cambiando l’animazione

R

A

G

A

Z

Z

I

SELVAGGI

Alessio Lapice Sono audaci, irriverenti e mettono sopra ogni cosa l’impegno per l’arte

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

69