Fabrique du Cinéma #14

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2016

Numero

14

OPERA PRIMA

BANAT

Nel film d’esordio di Adriano Valerio, la vita, forse, è altrove

FUTURES

VALENTINA BERTANI

Dalla moda e dai videoclip a un set internazionale

ARTE

EDOARDO TRESOLDI

“Con la trasparenza della rete faccio dialogare l’uomo e lo spazio”

RESURREZIONE FALLIRE, TENTARE DI NUOVO, RIUSCIRE Matteo Martari e i nuovi attori,registi, autori non hanno paura degli ostacoli e dei rischi

PROGETTO FABRIQUE

L’iniziativa, realizzata da Associazione Cinema Indipendente “Indie Per Cui” e cofinanziata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Gioventù e del Servizio Civile Nazionale e dalla Regione Lazio attraverso il Piano Annuale Interventi in favore dei Giovani, nasce dalla condivisione di promuovere il giovane cinema italiano.

Fabrique du Cinéma rappresenta il primo progetto di crossmedialità dedicato al giovane cinema italiano. Una comunicazione integrata che utilizza più media all’interno di un grande progetto editoriale: una rivista trimestrale gratuita, un portale web e un evento culturale multidisciplinare pensato come momento aggregante.

Mettendo in luce le nuove leve del cinema, creando connessioni con le major delle produzioni televisive e cinematografiche, collaborando attivamente con le industrie del settore cinematografico e con i maggiori festival nazionali, la free press Fabrique du Cinéma è un punto di riferimento per lo studente e per gli addetti ai lavori, pensato anche per un pubblico “trasversale” affascinato dallo spettacolo, dal dietro le quinte e dalle novità.

Gli eventi Fabrique du Cinéma sono un appuntamento atteso sempre più da molti, le proiezioni dei cortometraggi, le mostre espositive, i concerti di gruppi musicali italiani offrono al vasto pubblico giovane un intrattenimento di qualità e di condivisione.

Nel suo complesso Fabrique du Cinéma è espressione di una rete di giovani operatori dell’audiovisivo, si rivolge agli amanti del cinema contemporaneo, d’autore, indipendente e di qualità, ed è attento alle nuove sperimentazioni cinematografiche per il web e alle forme di interazioni tra il cinema e le Arti.

Info e contatti su www.fabriqueducinema.com

Progetto realizzato con il cofinanziamento del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale – e della regione Lazio art. 82, L.R. 6/99 ss.mm.ii..

S

IN NOME DELL’ATTORE MOVIE HOLIDAYS

LEO ORTOLANI

EDOARDO TRESOLDI

MATTEO MARTARI

SOMMARIO

PICCOLO AMERICA

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

PIOTTA/TIZIANO RUSSO

L’UNIVERSALE

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli SUPERVISOR Luigi Pinto REDAZIONE Chiara Carnà, Giacomo Lamborizio STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese PARTNER ISTITUZIONALI Sonia Serafini PHOTOEDITOR Francesca Fago MARKETING Federica Remotti EVENTI Isaura Costa Consuelo Madrigali Simona Mariani SET DESIGNER Gaspare De Pascali AMMINISTRAZIONE Katia Folco UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA Press Up s.r.l.

Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM) DISTRIBUZIONE SAC

UNO, NESSUNO E CENTOMILA GENERI

20 OPERA PRIMA /1 BANAT IL VIAGGIO MY GENERATION

IN COPERTINA Matteo Martari

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO 2016

Numero

14

OPERA PRIMA

BANAT

Nel film d’esordio di Adriano Valerio, la vita forse, è altrove

FUTURES

VALENTINA BERTANI

Dalla moda e dai videoclip a un set internazionale

ARTE

EDOARDO TRESOLDI

“Con la trasparenza della rete faccio dialogare l’uomo e lo spazio”

RESURREZIONE FALLIRE, TENTARE DI NUOVO, RIUSCIRE Matteo Martari e i nuovi attori,registi, autori non hanno paura degli ostacoli e dei rischi

CASA SURACE

SEGRETARIA DI EDIZIONE

IL PROFESSIONISTA

BELLISSIMA

NUOVA SERIALITÀ/ PARTE SECONDA

FIORE

DE SERIO

NEON EFFECT

NON ESSERE CATTIVO

SOUND ART 23

VALENTINA CARNELUTTI

OGGI OFFRO IO

THE JUNGLE BOOK

Finito di stampare nel mese di giugno 2016

ESTATE

04 RADIO FESTIVAL 06 COMICS 08 ARTS 10 COVER STORY 14 IL CINEMA DI DOMANI 16 VIDEOCLIP 18 OPERA PRIMA /2 23 TAVOLA ROTONDA 24 NAZIONE WEB 26 SPECIALE MESTIERI 30 TEATRO 34 SPECIALE DAVID 38 SERIE TV 40 OPERA SECONDA 43 ZONA DOC 44 DOSSIER ATTORI 46 SOUNDTRACK 52 MACRO 54 ATTRICI/AUTRICI 58 MAKING OF 60 EFFETTI SPECIALI 62 FUMETTO 66 DIARIO 68 DOVE 69 EDITORIALE

28 FUTURES VALENTINA BERTANI UNA REGISTA A TUTTO ROCK

GENTILEZZE DA GENTILUOMI

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

IN NOME DELL’ATTORE di ILARIA RAVARINO foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO thanks AGRITURISMO CASA ROSA VERONA Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Non essere cattivo. C’è un filo rosso che lega i tre film responsabili di quella che, da molte parti (date un’occhiata in questo numero alla nostra tavola rotonda sull’argomento) viene definita come “la rinascita del genere nel cinema italiano”.

Il filo, però, non è il genere. O almeno non solo. Non è l’età anagrafica dei registi: a separare Claudio Caligari, scomparso a 67 anni, da Matteo Rovere, 34 primavere, c’è un’intera generazione. La poetica dei reiet-

ti e delle periferie, di gente che non ha nulla da perdere, è senz’altro un tema che li accomuna. E quella Roma che ci racconta

sulle nostre pagine il Piotta, Roma benedetta a volte Cristo a volte Giuda/Roma barbara e cultura, è al centro di almeno due dei tre film “di genere”.

Cosa accomuna allora questi tre lavori, cosa ce li ha fatti sentire così immediatamente cari e vicini, cosa li ha aiutati a emergere e colpire duro alla pancia del pubblico? Senz’altro, tra le tante cose, gli attori. Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Luca Marinelli. Il primo che dà corpo al supereroe sgraziato di Jeeg, il secondo che si disfà sulle piste, il terzo che lega il racconto del litorale

di Ostia di Caligari con la Tor Bella Monaca di Mainetti.

Ogni volta che il cinema italiano si è ritrovato, lo ha fatto attraverso i corpi di attori capaci di incarnarne il tempo. Il nuovo cinema italiano, rifondato da una new wave di giovani registi, sceneggiatori e produttori (studiate su questo numero Adriano Valerio e Federico Micali, e l’ostinazione cinefila dei ragazzi del cinema America), ha finalmente trovato i suoi volti.

Per lungo, forse troppo tempo legati alla poetica radical chic da “cinema degli smartphone bianchi”, Accorsi e Santamaria sono vicini ai nostri nuovi autori per generazione e sentimento. Capaci di farsi icone di ciò che è stato – ce lo eravamo dimenticato quell’Accorsi premuccino, amatissimo in Jack Frusciante e Radiofreccia? – e insieme araldi del nuovissimo, scelti non a caso anche dai ragazzi terribili di Casa Surace. Oltre a loro e a Marinelli, campione e capofila dell’attore che rischia sul nuovo, Fabrique su questo numero vi invita a riflettere sui corpi che abiteranno i sogni dei registi nelle prossime stagioni.

Senza dimenticare le donne: Valentina Carnelutti e la straordinaria Daphne Scoccia di Fiore, il cui talento andrebbe allevato e addestrato come uno dei più preziosi doni toccati alla nostra generazione.

Il nuovo cinema italiano, rifondato da una new wave di giovani registi, sceneggiatori e produttori ha finalmente trovato i suoi volti.

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tshirt and denim CALVIN KLEIN, boots ALBERTO GUARDIANI, ring BERNARD DELETTREZ

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- Radio Festival -

MOVIE HOLIDAYS

Con l’arrivo della bella stagione, la settima arte va in vacanza e il cinefilo incallito rischia una crisi d’astinenza. Ma non in Italia, dov’è prevista un’estate a tutto festival, con rassegne dedicate al cinema in ogni sua forma e per tutti i gusti. a cura di CHIARA CARNÀ

FIGARI FILM FEST 28 GIUGNO-3 LUGLIO OBIETTIVI Figlio dell’associazione culturale DIERO e del Comune di Golfo Aranci, il festival mira da sempre allo sviluppo dell’attività filmica indipendente italiana e non, nonché alla valorizzazione della Sardegna. Si pone, inoltre, l’obiettivo di favorire la formazione dei giovani talenti, con workshop e laboratori guidati da esperti. Numerosissimi gli ospiti (registi, produttori, attori, musicisti, sceneggiatori), giovane e preparato lo staff, internazionali i partecipanti: filmmaker, attori e operatori del mondo dello spettacolo provenienti da tutto il mondo.

EDIZIONE 2016 La location della sesta edizione del Figari Film Fest

non sarà più solo Golfo Aranci: l’intero evento verrà strutturato in modo da raggiungere nuove realtà e un numero sempre maggiore di persone. Oltre ai cortometraggi, confermata la sezione dedicata alle webserie e aggiunta una nuova sezione dedicata ai videoclip musicali.

Altra novità, il premio per il miglior esordio registico dell’anno. Verrà annunciata la creazione del mercato internazionale del film, che avrà luogo in Sardegna nel 2017, grazie anche alla presenza della responsabile acquisizioni di Canal Plus Pascale Faure. Una vera novità per l’Italia e per il cinema giovane nazionale. Tra gli ospiti, confermate le presenze di Alessandro Borghi, Matteo Branciamore, Nicolas Vaporidis, Primo Reggiani, La Pina, i The Pills.

www.figarifilmfest.it - Figari Film Fest on Facebook - FigariFilmFest @Twitter - festival@diero.it

BREVI D’AUTORE ALESSIO MAZZUCA LUGLIO OBIETTIVI Ideato da Rita Russo e organizzato dall’Accademia della Comunicazione, il festival Cinematografico Brevi d’Autore, dedicato al ricordo di Alessio Mazzuca e patrocinato dal Comune di Montalto Uffugo (in provincia di Cosenza), si propone di valorizzare i talenti che si occupano di cortometraggi. E, attraverso la rassegna, di dar spazio a un confronto fra registi, attori, sceneggiatori, fotografi di scena che possa generare nuovi impulsi per l’emergente cinematografia d’autore. Il territorio montaltese, in occasione del festival, diventa una cittadella del cinema, dando vita a proficue sinergie.

EDIZIONE 2016 Undici i cortometraggi finalisti. Il contest è rivolto a registi e filmaker italiani e stranieri i cui lavori saranno sottoposti alla valutazione della giuria tecnica e popolare. Due sono i premi in denaro (500 euro ciascuno) messi a bando, oltre ad altri riconoscimenti e menzioni (miglior regista, migliore sceneggiatore, miglior fotografia, migliore colonna sonora originale, migliore interpretazione, migliore montaggio, migliore scenografia).

Accademia della Comunicazione - Presidente Rita Russo - Via O. Fallaci snc - 87046 Montalto Uffugo (CS) - accademiacomunica@libero.it

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ROMA CREATIVE CONTEST SETTEMBRE OBIETTIVI Il Roma Creative Contest, organizzato da Image Hunters, è nato dalla volontà di creare uno spazio in cui mettere in connessione i giovani talenti con i più importanti attori della produzione cinematografica italiana ed estera. La direzione artistica è di Brando Bartoleschi, Lorenzo Di Nola, Raffaele Inno. Il regista Premio Oscar Giuseppe Tornatore è, dal 2014, Presidente Onorario. Il nucleo dell’iniziativa, promossa da uno staff under 30, risiede nell’attenzione dedicata alla realtà del “cinema corto”, con l’obiettivo di stimolare nuove produzioni celebrando gli autori e mettendoli in contatto con il pubblico e con realtà affermate.

EDIZIONE 2016 Negli spazi dell’Ex Dogana e del Teatro Vittoria, nell’arco di 5 appuntamenti (10, 17, 18, 23 e 25 settembre), verran-

no proiettati 70 short film tra corti di finzione (italiani e internazionali), animazione, documentari e videoclip provenienti da oltre 25 paesi.

Presidente di giuria, il regista e attore Gabriele Mainetti. Tra i riconoscimenti (in denaro, prodotti e servizi per un valore totale di 50.000 €), anche il Premio del Pubblico e i Premi Tecnici, dedicati ai Corti Italiani di finzione. Tra le attività extra, lo Screenplay contest: il vincitore, autore di una sceneggiatura per un corto di 5 minuti (su una traccia fornita da un grande autore), verrà premiato con la realizzazione del progetto a cura di Image Hunters e in co-produzione con RAI Cinema. Inoltre: il workshop di fotografia cinematografica; la masterclass di regia, con un autore internazionale, a cura di Mario Sesti; la masterclass su suono e colonne sonore, a cura di GTCS; il casting training per attori.

www.romacreativecontest.com - www.imagehunters.it - info@romacreativecontest.com - info@imagehunters.it

Come ogni estate, in Italia il cinema si trasferisce all’aperto, in festival e rassegne spesso ospitate nei luoghi più suggestivi del paese.

DA NON PERDERE

VISIONI CORTE FILM FESTIVAL

LAGO FILM FEST

EST FILM FESTIVAL

VENTOTENE FILM FESTIVAL

COMICRON

Un progetto nato per diffondere la bellezza, la cultura e le tradizioni del Sud Pontino. Si svolge a Minturno (LT), nella suggestiva cornice del Castello Baronale, ed è indirizzato a tutti gli autori e i registi di cortometraggi indipendenti.

Le categorie: CortoFiction, rivolta a qualsiasi tematica e genere; CortoMusic, dedicata a videoclip e video arte; CortoDoc, riservata ai documentari o reportage; CortoSchool, per scuole medie e superiori, nessun limite tematico o di genere; CortoZero, per tutti coloro che realizzano le proprie opere in maniera indipendente o con budget ridotti; CortoAnimation, assegnata a storie d’animazione.

Nato nel 2005 nella località lacustre di Revine Lago (TV), è un festival indipendente e internazionale di cortometraggi, documentari e sceneggiature, fatto di incontri, video, workshop, performance artistiche, musica e ospiti illustri.

Fiore all’occhiello della rassegna è il Premio Rodolfo Sonego alla Migliore Sceneggiatura Originale.

Altri interessanti riconoscimenti sono la Menzione Speciale Sui Generis, che premia aderenza o libertà dal codice, per ampliare confini ristretti come horror, western o sci-fi, e il premio Soggetto Raccontato: 5 minuti a disposizione per raccontare la propria opera conquistando il pubblico.

Montefiascone (VT) ospiterà la decima edizione, prodotta, organizzata e diretta dalla Società Arcopublic e dall’Associazione Culturale Factotum.

Le tre sezioni competitive, Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi saranno affiancate da eventi Extra, incontri speciali con registi e attori e dalla sezione AperiCinema. Gli eventi saranno ospitati nella splendida Rocca dei Papi, a Piazzale Frigo e a Largo Plebiscito.

Assegneranno i premi (fino a 5.000 euro per il vincitore della sezione Lungometraggi) le tre Giurie ufficiali ma anche gli spettatori.

Con la ventiduesima edizione alle porte, il festival si afferma come la manifestazione più longeva fra quelle organizzate ogni anno nelle isole minori degli arcipelaghi italiani. Il VFF si è fatto portavoce del cinema su un’isola in cui il cinema non c’è mai stato, con proiezioni e ospiti europei e internazionali, rendendo la cultura strumento di aggregazione per isolani e turisti. A fronte della forte ragione sociale che il festival ricopre sull’isola, temi principali di film e documentari proposti sono la legalità, la cittadinanza, la democrazia, l’integrazione razziale.

Nato dall’idea di Ugo Gregoretti di creare un’inedita manifestazione dedicata esclusivamente ai cortometraggi comici, il Comicron punta a scoprire nuovi talenti e orientarsi nei nuovi linguaggi della commedia. La location del festival, Pontelandolfo (BN), nell’entroterra campano, sottolinea la volontà di creare circuiti alternativi di promozione, diventando un punto di riferimento per chi si dedica a questa particolare forma d’arte.

Il Concorso prevede un’unica sezione competitiva aperta a corti di finzione, documentaristici e di animazione. Accanto a Ugo Gregoretti, una giuria composta da ragazzi under 20 di Pontelandolfo e comuni limitrofi.

11-17 LUGLIO

22-30 LUGLIO

24-31 LUGLIO

4-5 AGOSTO

25 LUGLIO-3 AGOSTO

ARIANO INTERN. FILM FESTIVAL 1-6 AGOSTO

La quarta edizione del festival con sede nella Città di Ariano Irpino (AV), organizzato dall’Associazione Rai. Co., partirà ad agosto con rassegne e premi a personalità di rilievo in campo artistico, sociale e culturale. Sei le sezioni, tra cui serie web e documentari, e in giuria esperti del settore cinematografico e televisivo. Una seconda giuria, costituita dal pubblico presente al festival, conferisce il Premio del Pubblico per la Migliore Opera a una delle sei categorie.

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Cinecritica a fume Leo Ortolani, dopo il ventennale

successo in edicola con la serie a fumetti Rat-Man, arriva in libreria con CineMAH presenta: il buio in sala (Bao Publishing), che raccoglie le sue irriverenti recensioni cinematografiche a fumetti.

Nel tuo lavoro il cinema come linguaggio e soprattutto l’immaginario cinematografico hanno sempre avuto un ruolo evidente. Com’è iniziata la tua passione per il grande schermo?

La passione per il cinema è sempre stata lì, di fianco alla passione per le belle storie e per la narrazione. Alla fine si sono combinate insieme grazie alla matita e piano piano sono arrivate fino a oggi, cercando di ricostruire emozioni e colpi di scena a forza di pagine disegnate.

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Il libro appena edito raccoglie le irriverenti recensioni a fumetti dei successi cinematografici che Ortolani pubblica da qualche anno sul suo blog.

N

delle serie a fumetti nostrane più importanti degli ultimi decenni, Rat-Man. Oltre cento albi raccolgono le avventure di questo

di MARCO PACELLA

etti Nel Buio in sala hai raccolto le recensioni a fumetti di molti film realizzate negli ultimi anni. Quel “MAH” del titolo è il segno che a volte qualcosa non va dopo la visione ed esci dal cinema perplesso. Come scegli allora i film da vedere?

Punto a quelli che penso che potrebbero piacermi, in primo luogo, ma sono comunque aperto a qualunque genere, l’importante è che alla fine mi lasci qualcosa dentro. A volte, come dici, non sempre va così. E si resta delusi più dai film che si vorrebbe amare in quanto fan, perché magari faticano a corrispondere a quello che hai già letto o che avevi in mente – come nel caso dei tanti cinecomics – oppure, come succede ultimamente, si assiste a dei pastrocchi che frullano due o tre belle idee in una poltiglia immangiabile.

La serie del topo supereroe Rat-Man creato da Leo Ortolani è iniziata nel lontano 1989 e dovrebbe, secondo quanto dichiarato dall’autore, concludersi nel 2017.

el mondo del fumetto italiano il nome di Leo Ortolani è per molti sinonimo di intelligenza grafica e ironia esplosiva. Al disegnatore, nato a Pisa nel 1967 ma parmigiano d’adozione, si deve infatti la creazione di una

personaggio strampalato: un supereroe senza alcun superpotere che fin da subito fa il verso – sempre con sguardo appassionato – agli eroi in calzamaglia che giungono da oltreoceano. Una serie che, come annunciato dallo stesso autore, dovrebbe concludersi il prossimo anno. Ma Leo Ortolani è da sempre anche un grande appassionato di cinema.

Non a caso da tempo riversa questo suo interesse nel linguaggio grafico che gli è più congeniale, pubblicando recensioni a fumetti sul suo blog personale: lavori in cui l’autore dà spazio, con sguardo arguto e la proverbiale vena umoristica,

a impressioni, critiche e particolari interpretazioni sulla settima arte. Queste tavole, unite a molte altre inedite, sono state raccolte nel volume CineMAH presenta: Il buio in sala (256 pagine, 19 euro) appena pubblicato da Bao Publishing.

Ti è mai capitato di non riuscire proprio a scrivere nulla di un film, perché magari troppo deludente o al contrario entusiasmante?

Se un film mi piace, come Torneranno i prati di Ermanno Olmi, è difficile che lo recensisca come faccio di solito, mettendone alla berlina i difetti, ma posso trovare sempre un modo per parlarne, magari accostandolo, per impietoso paragone, a un film riuscito meno come Star Wars – Il risveglio della forza. Il confronto genera comunque umorismo, anche se amaro, dal momento che in questo caso l’argomento è la guerra.

E veniamo a uno dei generi che merita più di ogni altro le tue attenzioni, quello dei cinecomics. Da spettatore attento e navigato, a che punto siamo secondo te? Come giudichi la mole di lavori che ultimamente stanno rimpolpando l’universo cinematografico Marvel, ad esempio?

Il piano della Marvel, goffamente imitato dalla DC, è ormai chiaro. Creare un universo supereroistico che “costringa” lo spettatore a vederli tutti, pena perdersi riferimenti e relazioni tra i vari supereroi. Dopo le prime fasi, questo meccanismo è stato oliato a perfezione con i fratelli Russo [Anthony e Joe Russo, registi nel 2014 di Captain America: The Winter Soldier].

Quindi siamo al punto in cui stiamo assistendo, come dice giustamente Roberto Recchioni (sceneggiatore e curatore della testata Dylan Dog), a una serie di telefilm ad alto budget.

E si è perso il respiro del film.

E con quello, mi si è un po’ affievolito l’interesse. Ma fino a che non faranno un bel film dei Fantastici 4, non mollo.

L’ultima domanda di rito non può che essere su Rat-Man: con la chiusura della serie, prevista per il prossimo anno, avremo modo di rivederlo in giro?

Chi lo sa? Una serie che chiude non spaventa certo un eroe come Rat-Man. Tutto può finire così, oppure possono esserci altre storie. Mai dare niente per scontato. È la prima regola della narrazione, soprattutto quando ci sono in ballo i supereroi!

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- Arts -

ELOGIO DELLA TRASPARENZA EDOARDO TRESOLDI UNA GRANDE BASILICA IN RETE METALLICA, TRASPARENTE E ALL’APPARENZA MOLTO LEGGERA, S’INNALZA SULLO SCAVO ARCHEOLOGICO DI UN’ANTICA CHIESA PALEOCRISTIANA A SIPONTO, AI PIEDI DEL GARGANO, IN PUGLIA. A VEDERLA DA LONTANO SEMBRA QUASI SPARIRE NELL’ATMOSFERA LUMINOSA DEL GOLFO DI MANFREDONIA. MA DI SERA, COMPLICE UN PRECISO GIOCO DI LUCI, L’OPERA RIPRENDE CONSISTENZA MOSTRANDO A PIENO IL SUO FASCINO. di MARCO PACELLA *Ringraziamo CHIARA PIETROPAOLI

A

realizzarla l’artista lombardo Edoardo Tresoldi, classe 1987, scenografo e scultore a capo di una squadra di lavoro la cui età media si aggira intorno ai 25 anni.

Abbiamo incontrato Tresoldi all’Ex Dogana di Roma, dove ha partecipato con un’opera site specific alla collettiva Il Paradiso inclinato, curata da Luca Tomìo.

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Quanto conta la tua esperienza di scenografo per il cinema nel tuo lavoro scultoreo?

Ho iniziato come pittore collaborando con scenografi come Massimo Santomarco, Daniele Frabetti, Paki Meduri.

Nel cinema lo scenografo rimane sempre un po’ defilato, con la frustrazione e il desiderio di riuscire a raccontare la storia principalmente attraverso

gli spazi. Da lì viene l’idea di agire sullo spazio, provando a portare avanti un discorso sia narrativo che emotivo legato principalmente al luogo in cui avviene la scena. Nel cinema poi c’è una forte importanza del punto di vista dello spettatore, ed è la stessa importanza che mi sono portato dietro nel momento in cui ho cominciato a lavorare con la scultura e

con l’architettura. Per me tutte le arti sono fatte per l’uomo, ed è giusto che partano da quel metro e 65 che coincide convenzionalmente con il punto di vista dell’osservatore.

Parlando di materiali, come arrivi all’impiego della rete metallica?

Inizialmente, in scenografia usavo la rete metallica

© Gianvito Greco

Pensieri (Sapri).

«IL MIO LAVORO NON CERCA DI INSERIRE UN’OPERA D’ARTE ALL’INTERNO DI UNO SPAZIO, MA PROVA A CAMBIARE O AUMENTARE LA LETTURA DI QUELLO SPAZIO ATTRAVERSO IL MIO INTERVENTO, SENZA SNATURARLO».

© The Blind Eye Factory

www.behance.net/edoardotresoldi

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All’Università Bicocca di Milano hai realizzato Chained, un lavoro di pittura e scultura a quattro mani con l’artista Borondo. Da dove nasce il progetto?

Io e Borondo siamo molto amici, quasi fratelli, e condividiamo riflessioni riguardo all’arte in generale e all’intervento pubblico. Da tempo volevamo collaborare. I nostri due mondi sono molto simili a livello di immaginario, anche se poi alla fine si sviluppano su due discipline diverse: io lavoro sulle tre dimensioni e con un materiale che dà un senso di inconsistenza, di effimero; lui con le due dimensioni della pittura e un sapore molto legato alla terra, sanguigno, ricco di spiritualità. L’opera dunque cerca di raccontare un po’ noi stessi.

Riguardo alla basilica di Siponto, hai affermato che di solito lavori sullo spazio,

Bramante e una dimensione ultracontemporanea, industriale, come quella dell’Ex Dogana.

© The Blind Eye Factory

come struttura che veniva poi ricoperta. Quando ho cominciato il mio percorso personale ero affascinato dalla trasparenza: ti permette di lavorare su grandi elementi che però subentrano in maniera silenziosa, lasciando molto spazio al contesto. Il mio lavoro non cerca infatti di inserire un’opera d’arte all’interno di uno spazio, ma prova a cambiare o aumentare la lettura di quello spazio attraverso il mio intervento, senza snaturarlo.

«SICCOME QUELLO CHE MI INTERESSA È IL DIALOGO TRA L’ESSERE UMANO E IL CONTESTO, È IMPORTANTE CHE LA MATERIA CHE USO NON ABBIA UNA FISICITÀ FORTE». mentre lì hai avuto la possibilità di lavorare sulla linea del tempo. Come ti poni rispetto all’antico?

Io sono molto affascinato dall’architettura classica, però allo stesso tempo ho una forte consapevolezza della contemporaneità, perché sono cosciente del fatto che il pubblico, lo spettatore, è contemporaneo.

A Siponto ho dovuto confrontarmi con una pianta preesistente e relazionarmi con quelle metriche, entrando direttamente in connessione con gli architetti che nel tempo hanno operato su quello spazio.

Il mio desiderio era ridare al pubblico che entra nello scavo la percezione degli originari spazi della chiesa, più che la sua forma esatta: è stata quindi una

connessione voluta e ricercata con l’antico. I miei lavori sono site specific, quindi più tempo ho a disposizione per crearli, più posso approfondire la relazione che ho con quel posto e la sua identità.

Nel lavoro per l’Ex Dogana c’è infatti un rapporto con l’architettura classica e il Rinascimento romano, per esempio con il Tempietto di San Pietro in Montorio…

In questo caso non ho voluto citare direttamente Bramante.

Io non ho mai fatto citazioni, non mi interessa un’arte che sia comprensibile solo attraverso una preparazione culturale.

Però nel momento in cui mi sono dovuto confrontare con Roma, mi interessava creare un parallelismo tra il Tempietto di

Nelle tue opere l’apparente immaterialità della rete si collega alla parallela immaterialità dei temi trattati, come quando ti occupi di riflessione, pensieri, ricordi…

Certo. È come se io fossi uno scultore che lavora con la “nonmateria”, come io chiamo la rete.

Siccome quello che mi interessa è il dialogo tra l’essere umano e il contesto, è importante che la materia che uso non abbia una fisicità forte, come nel caso della pietra. Con la trasparenza della rete posso arrivare a fare un discorso metafisico, mentale, partendo comunque da qualcosa di piacevolmente visivo.

Tornando a Siponto, come hai reagito all’improvvisa attenzione mediatica e di pubblico ricevuta dopo l’inaugurazione dell’opera?

Il completamento dell’opera è avvenuto quasi in contemporanea con il referendum sulle trivelle, e in un paese come l’Italia, dove c’è tanta ricchezza culturale che viene non solo dal passato, un investimento come quello di Siponto – e il movimento economico che ne è seguito – ha dato la dimostrazione che si può smuovere l’economia senza fare degli interventi dannosi a livello ambientale.

© Fabiano Caputo

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© Fabiano Caputo

Sotto a sinistra l’installazione all’Ex Dogana (Roma), a destra Incipit (Marina di Camerota).

- Cover story -

DAI

FLASH CIAK AL

Entusiasmo, umiltà e tanta voglia di mettersi in gioco.

L’attore veronese si racconta, dagli esordi nel mondo della moda ai primi passi sui set cinematografici. di CHIARA CARNÀ foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO thanks AGRITURISMO CASA ROSA VERONA

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MATTEO MARTARI «HO PARTECIPATO A PROGETTI MOLTO INTERESSANTI E DIVERSI FRA LORO. DOVE NON C’ERANO FONDI, C’ERANO PASSIONE, SPIRITO DI COMUNITÀ E VOGLIA DI FARE».

M

atteo nasce 32 anni fa nella città di Romeo e Giulietta e oggi è uno dei talenti emergenti del cinema italiano. Nel mezzo, naturalmente, non sono mancati i colpi di scena.

Per primo, il debutto davanti agli obiettivi delle più prestigiose case di moda. Ma, più che la passerella, Matteo sogna da sempre il palcoscenico, che calca per la prima volta con l’opera teatrale Un angelo è sceso a Babilonia, per la regia di Fernanda Calati.

«Sin da piccolo organizzavo messe in scena con i miei amici, e col tempo quello che era un gioco si è trasformato in un’esigenza espressiva. A 26 anni ho deciso di mettere da parte la carriera da modello per trasferirmi a Milano a studiare recitazione presso una scuola teatrale. Il corso durava in tutto quattro anni ma, terminati i primi tre, non ho accettato la borsa di studio e mi sono spostato a Roma».

Il primo set arriva nel 2014 con la webserie Under, di Ivan Silvestrini: «È stata la protagonista femminile, Valentina Bellè, a suggerire il mio nome a Ivan per il casting. Gliene sono grato perché ho lavorato benissimo con lui, in grande sintonia.

Il bello della webserie è la coesione che si crea a livello di gruppo. Inoltre, il web offre grande autonomia registica e la possibilità di assecondare la propria fantasia. Prendere parte da attore a un progetto di questo tipo comporta sicuramente una responsabilità artistica, ma è un’esperienza estremamente positiva».

Dopo il web, è il momento delle fiction e, finalmente, del cinema. In televisione Matteo ha recitato accanto a Miriam Leone in Non uccidere e con Luisa Ranieri in Luisa Spagnoli, nel ruolo di Giovanni Buitoni. Sul grande schermo, lo abbiamo visto nella commedia “esistenziale” La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi e lo vedremo nel provocatorio film indipendente 2night, ancora per la regia di Silvestrini. «Ho partecipato a progetti molto interessanti e diversi fra loro. Dove non c’erano fondi, c’erano passione, spirito di comunità e voglia di fare. Lavorando con grandi professionisti come Valerio Mastandrea, ho scoperto persone fantastiche, sempre disponibili a darmi consigli.

Giovanni Buitoni è stato probabilmente la figura più com-

plessa che ho affrontato. Aveva un carattere molto lontano dal mio, ma mi son ritrovato nella sua intraprendenza e determinazione, spesso scambiate per arroganza».

Esperienze poliedriche ed eterogenee, in ogni campo artistico: «Il web, la TV e il cinema sono affini tra loro sotto numerosi aspetti. Quello della moda è un mondo a sé. La fotografia, per definizione, è statica. Negli scatti c’è un finto movimento che il fotografo riesce a catturare e che il pubblico percepisce come dinamico. Sul set, tutt’altro discorso: bisogna ricercare una propria fisicità per il lavoro sul personaggio. Io sono arrivato davanti alle telecamere con una preparazione teatrale e la relazione con lo spettatore cambia profondamente, tra cinema e teatro.

Tuttavia, grazie al lavoro come modello, ho superato subito lo scoglio dello “shock da obiettivo”».

Quali progetti ti aspettano?

Spero di continuare con la settima arte. Non ho un genere preferito o di riferimento. Adoro il cinema di Charlie Chaplin e di Ettore Scola, ma sono tanti i registi che hanno saputo colpirmi raccontando storie eccezionali. Se dovessi indicare il ruolo dei miei sogni, direi Tony Montana in Scarface: Al Pacino si è calato nei panni del personaggio per ben otto mesi della sua vita! Il cinema, inoltre, offre un approccio profondo al lavoro dell’attore e allo stesso tempo più rischioso, rispetto, ad esempio, alla televisione, fatta di tempistiche serrate. Ma è proprio rischiando che, spesso, si ottengono le cose migliori.

Credi che esista un futuro, in Italia, per le nuove promesse come te?

Il nostro paese ha rappresentato il cinema per tanti anni e spero che potremo avere la nostra rivincita. Adesso in Italia è un buon momento per i giovani talenti e non c’è bisogno di scappare. Uno degli aspetti migliori del lavoro nella moda è che mi ha offerto la possibilità di girare il mondo. Proprio perché ho viaggiato molto mi son fatto l’idea che andare all’estero debba essere una scelta dettata dalla ricerca e dalla voglia di sfide, non dalla mancanza di alternative. Ciascuno è il motore della propria vita; restare o meno dipende dalle proprie aspirazioni.

Foto a sinistra jacket GStar, tshirt FALCONERI, denim CALVIN KLEIN, ring BERNARD DELETTREZ Foto in alto tshirt FALCONERI, denim CALVIN KLEIN, boots SALVATORE FERRAGAMO, ring BERNARD DELETTREZ

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AMERICA C’ERA DUE VOLTE IL CINEMA

Nel 1999 lo storico cinema America di Trastevere è chiuso per fallimento e abbandonato. Nel 2002 acquistato dalla società Progetto Uno per fini commerciali.

Pochi anni dopo sarà occupato da un gruppo di liceali, dando vita a un’iniziativa culturale (ma anche politica) senza pari nella Capitale. di FRANCESCA BIANCHINI

L

a vittoria del bando per la Sala Troisi è di pochi mesi fa e risuona come l’epilogo di una delle più improbabili battaglie che un paese come il nostro possa permettersi soltanto di immaginare. Valerio Carocci (24 anni) è il volto e la voce simbolo di questo lungo iter fatto di speculazione e burocrazia, ma anche di resistenza culturale e forte solidarietà. C’era una volta il Cinema America? C’era una volta l’utopia di uno “spazio pubblico” tornato finalmente nostro.

Qual è la proposta con la quale avete vinto il bando per la Sala Troisi e che progetti avete per questo nuovo spazio?

Noi crediamo che le monosale abbiano una nuova possibilità, quella di essere degli operatori culturali che non solo curino la diffusione univoca del prodotto

cinematografico, ma siano anche in grado di creare un rapporto di interscambio con il territorio.

Le sale hanno generalmente una funzione di diffusione passiva rispetto al film senza una reale fidelizzazione del pubblico e questo è un peccato oltre che un problema.

Il vostro è nato soprattutto come un progetto geolocalizzato e di quartiere, capace al contempo di espandersi in tutta la città. Era il vostro obiettivo originario?

La sala deve essere un operatore culturale del rione, ma allo stesso tempo deve avere la capacità di uscire dal rione. Tutti i nostri progetti, tra i quali le proiezioni nelle scuole o gli schermi pirata, rappresentano un concetto di sala che esce e si fa conoscere dal resto della città. Uno tra i progetti più interessanti che vogliamo realizzare è la prima scuola dell’esercizio cinematografico. In pratica, tramite il meccanismo della scuola lavoro, con il Ministero dell’Istruzione

vogliamo permettere ai ragazzi di gestire l’impresa culturale all’interno della sala.

Per la Sala Troisi pensate a una programmazione tipo cineclub o a un’offerta differente?

Ci sarà una programmazione ordinaria, ma con la possibilità di avvicinare le persone allo schermo tramite eventi catalizzatori.

L’idea finale è quella di arrivare a una sala che vive h24, capace di mutare in base alle ore del giorno e alle esigenze di ognuno. Inoltre, la volontà è quella di sfruttare quello che accade nel quartiere, come per esempio Porta Portese, ovvero tutte quelle manifestazioni che comportano un flusso non ordinario di solito sfruttate solo dai venditori di hamburger!

La vostra è una battaglia politica o nasce da una passione per il cinema?

Personalmente non ero un amante del cinema. Il sentimento che ci ha mosso era politico, ovvero salvare uno spazio dalla

demolizione e dimostrare che un altro spazio occupato era possibile. Volevamo uscire dalla logica del centro sociale come ghetto di una parte della città e riscrivere il rapporto tra questa e gli spazi urbani. Per molte realtà sociali è criticabile partecipare a un bando, ma sono convinto che sia importante dare le giuste chiavi di lettura agli strumenti che si hanno a disposizione per poterli rendere politici.

Cosa manca all’esercizio nel nostro Paese?

Penso che il problema principale del mondo del cinema italiano risieda proprio nel rapporto con il pubblico. Tutti curano l’uscita del proprio film ma nessuno cura l’immagine del cinema a livello nazionale e rispetto alla società.

Il potenziamento dell’esercizio potrebbe risolvere importanti problemi della filiera, tra cui la lotta alla pirateria. La pirateria che non si combatte con gli spot, ma avvicinando il pubblico alla sala e creando un legame.

«TUTTI CURANO L’USCITA DEL PROPRIO FILM, MA NESSUNO CURA L’IMMAGINE DEL CINEMA A LIVELLO NAZIONALE E RISPETTO ALLA SOCIETÀ». www. piccoloamerica.it

Ph: Alfredo Villa

- Videoclip -

Cantante, musicista e produttore romano, Piotta (nome d’arte di Tommaso Zanello) si occupa di hip hop dagli anni Novanta, il suo ultimo EP è Istantanee.

7 VIZI CAPITALE S

eduti al tavolino di un caffè in un trafficato pomeriggio romano, ne abbiamo parlato con Tommaso Zanello, alias Piotta, e con Tiziano Russo, regista che ha diretto artisti come Negramaro e Mina.

Il video di 7 vizi capitale è ambientato in un luogo significativo della periferia romana, com’è nato?

Piotta Tutto nasce dall’idea di fare una canzone che parlasse della Roma di oggi, diversa dalla città solare che ho raccontato in precedenza. Volevo comporre un brano più scuro, crepuscolare,

Tiziano Russo: regista di videoclip ma non solo, il suo primo documentario è Habemus Mister (2014), sua anche la regia di A mare si gioca, visto a Sanremo 2016.

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e con il supporto de Il Muro del Canto è nata 7 vizi capitale.

Poi casualmente sono stato al MAAM, un’ex fabbrica diventata un museo in cui abitano vari nuclei familiari.

Per evitare che venissero allontanati, l’antropologo Giorgio De Finis ha chiesto ad amici e artisti di supportare questa buona causa attraverso l’arte ed è nato il museo. L’obiettivo era quello di creare un polo artistico delle periferie romane e ho voluto contribuire con questo video, mostrare il MAAM perché è un luogo ricco sia artisticamente che umanamente.

Tiziano L’idea è stata di Tommaso, ho fatto un sopralluogo e ho pensato subito che fosse il posto giusto;

è una realtà d’integrazione, un miscuglio di vita e arte, è lo specchio di Roma. Una Roma più dark, meno nota, ma anche quella meglio conosciuta da chi ci vive. Non c’era luogo migliore di questo.

Location perfetta per la «Roma santa e dissoluta» che raccontate nella canzone.

P Sì, perché l’idea di una fabbrica abbandonata tornata in vita grazie all’arte mi è sembrata la metafora perfetta per il testo della canzone e anche per Tiziano è stato amore a prima vista. Essendo un posto occupato siamo entrati in punta di piedi, abbiamo spiegato il senso del brano e c’è stata la massima disponibilità da parte di tutti.

Abbiamo girato un unico piano

sequenza e n’è uscito il video perfetto.

T Non è stato facile creare un percorso all’interno del museo, ma al ventesimo ciak ci siamo riusciti. Volevo fosse un piano sequenza perché è una tecnica che ti permette di scoprire un luogo in modo graduale. Non ci si accorge subito di essere nel museo ed è esattamente ciò che volevo: entrare piano nel mood del videoclip e del brano.

A maggio è uscito il tuo EP, perché hai scelto di chiamarlo Istantanee?

P È come se fosse una vecchia foto di famiglia: il lato emotivo che lo scatto riesce a trasmettere va molto al di là dell’immagine che poi si deteriora. Ho voluto fermare dei momenti attraverso i ritratti di tre amici. C’è la collaborazione con Tonino Carotone, un remix per il ventennale de La forza che

www.piotta.net

«È UNA ROMA PIÙ DARK, MENO NOTA, MA ANCHE MEGLIO CONOSCIUTA DA CHI CI VIVE. NON C’ERA LUOGO MIGLIORE DI QUESTO».

Ringraziamo Roma VideoClip e Francesca Piggianelli per la collaborazione.

Il video della canzone di

Piotta ft. Il Muro del Canto è stato

girato al Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz (MAAM) di Roma, un luogo che rispecchia alla perfezione il senso del brano. di ERIKA FAVARO

scorre con Danno del Colle Der Fomento e poi c’è un brano che ho dedicato a David dei Cor Veleno, a un’amicizia che resisterà sempre anche se l’altra persona non c’è più.

In Vino, tabacco & Venere canti con Tonino Carotone: a che punto della fase creativa è subentrato?

P Conoscevo Tonino di fama; dopo una serie di coincidenze mi sono deciso a chiamarlo e ci siamo chiesti come potevamo collaborare. Ho messo insieme rap, reggae e il suo mondo variopinto e gli ho chiesto di scrivere una parte sua in “itagnolo”. Poi è venuto a Roma, abbiamo registrato in studio e girato il video, l’idea è anche quella di fare qualcosa dal vivo insieme.

Film italiani che hai amato negli ultimi mesi?

P Mi è piaciuto Il ministro, un film low bugdet con interpreti ben scelti che danno un ritratto di Roma e dell’Italia attuale e cinico.

Un altro film purtroppo uscito in poche sale è La grande rabbia di Claudio Fragasso che racconta lo stesso quartiere del MAAM. Ho avuto l’onore di musicare il film con Pino Donaggio: a volte mi stupisco da solo della magia di questo mestiere.

Tiziano, i generi musicali influenzano il tuo modo di concepire i video?

T Spazio molto tra i generi e mi piace scommettere ogni volta su qualcosa di nuovo. Su Mina ad esempio avevo l’opportunità di fare un video dai tempi lunghissimi, con i Negramaro invece c’è un modo particolare di guardare al playback. Con Piotta è stato un lavoro ancora diverso perché ti riempie il testo di parole; non sono un regista che

si è specializzato in un genere e questo mi diverte.

L’importante è dare un tuo punto di vista, comunicare subito l’idea.

I tuoi registi di riferimento?

T Quando ho cominciato guardavo a due artisti in particolare: Spike Jonze e Michel Gondry. Ora il mio preferito è il danese Martin de Thurah. Mi piace molto la sua eleganza, mi ricorda l’immaginario di Refn che è il mio punto di riferimento al cinema: sono figlio di Drive, credo sia stato un giro di boa nella cinematografia.

Tommaso, passerai tutta l’estate in tour (a luglio sarai il 13 a Mogliano V.to, il 14 a Vicenza, il 16 a Veduggio, il 24 a Gorla, il 31 ad Arsoli). Com’è cambiato il tuo live negli anni?

P Ho iniziato giovanissimo e penso che ogni periodo vada vissuto per quello che è. Tutti cresciamo e logicamente anche il live è cambiato: prima era un concerto hip hop classico con il DJ, oggi sono più di due ore in cui racconto il mio percorso.

Rispetto a una canzone, il live riesce a mostrare meglio le mie sfaccettature: la mia parte intima e malinconica, quella romana e goliardica, un’altra più sferzante e politica; dal vivo riesco a raccontarle tutte.

Cosa cerchi di fare sempre e di evitare quando lavori a un videoclip?

T Cerco di guardare i più brutti in circolazione per evitarne gli errori… Poi cerco di esasperare un gesto o un’idea che prendo dal quotidiano. Inserisco qualcosa che diventi la chiave di lettura del video, che non lo faccia passare inosservato.

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- Opera prima -

BANAT - IL VIAGGIO

MY GENERATION L’esordio di Adriano Valerio, italiano di Francia, racconta lo spaesamento di chi ha il coraggio di partire per costruirsi un futuro in un improbabile altrove. di TIZIANA MORGANTI

Banat è interpretato da Edoardo Gabbriellini (Ivo) e Elena Radonicich (Clara), e prodotto da Movimento Film con RAI Cinema.

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C

i sono dei casi in cui alcuni numeri sembrano portare fortuna o, almeno, ricorrono con una frequenza che non può passare inosservata.

Questo è il caso di Banat - Il viaggio, il primo lungometraggio di Adriano Valerio, già conosciuto per il corto 37°4 S, premiato con una menzione speciale al Festival di Cannes nel 2013 e il David di Donatello. Il numero in questione è il cinque e sembra aver avuto un posto d’onore in tutto l’iter creativo di questo film. In particolare cinque sono state le settimane di lavorazione, cinque i paesi toccati, visto che la produzione si è mossa “on the road” in Italia, Romania, Bulgaria, Grecia e Macedonia. E, per finire, dall’inizio delle riprese alla tanto attesa lettera da parte del Festival di Venezia, sono trascorsi, ovviamente, cinque mesi.

Particolare, questo, ancora più importante, poiché la più grande manifestazione cinematografica italiana ha scelto Banat come unica pellicola di casa nostra da inserire nel programma, sempre ambizioso e innovativo, della Settimana della Critica.

Un’opera prima interessante per lo stile e il contenuto in cui, con una giusta dose di riflessione, ironia e romanticismo, si

definisce il ritratto di una generazione di trentenni in movimento verso un futuro incerto ma che ha il vantaggio di essere ancora tutto da costruire.

Al centro della narrazione ci sono Ivo e Clara. Lui è un agronomo che ha deciso di lasciare Bari per trasferirsi in Romania in seguito ad un’offerta di lavoro.

Lei, invece, si trova alla fine di una difficile storia d’amore.

Dopo un primo incontro del tutto casuale nell’appartamento di un’eccentrica affittuaria, i due riconoscono nell’altro il senso di sospensione delle proprie vite.

Ed è per questo che le loro strade si uniscono nuovamente in Romania, dove condivideranno

lo spaesamento di trovarsi in una terra straniera e l’incertezza del futuro. Il tutto rafforzato, però, dalla consapevolezza di un nuovo amore che sta nascendo.

Negli ultimi anni il cinema italiano ha raccontato il fenomeno della nuova migrazione guardandolo dal punto di vista dello straniero.

Banat, invece, racconta esattamente il percorso inverso, facendo viaggiare un giovane italiano verso la Romania.

Perché hai scelto questo diverso punto di vista?

L’idea del film nasce dall’esperienza diretta di un amico che andò a vivere e lavorare in Romania in un momento storico in cui questo paese era al centro di molte discussioni in Italia. In quegli anni, infatti, ogni crimine era addebitato a un rumeno, come dieci anni prima era accaduto con gli albanesi e, ancora prima, con i marocchini. In questo senso, il film ha rappresentato anche un’occasione per mostrare un luogo e i suoi abitanti da un punto di vista completamente diverso. Inoltre, della storia mi

«IVO E CLARA SEMBRANO NON RIUSCIRE A TROVARE LA GIUSTA DISTANZA DALLE LORO RADICI COME DAL LUOGO IN CUI SI TROVANO ATTUALMENTE».

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«PREFERISCO CONDENSARE LE INFORMAZIONI NECESSARIE PER LA COMPRENSIONE DELLA TRAMA E PRENDERE PIÙ TEMPO PER NARRARNE LE ATMOSFERE». ha interessato l’aspetto attuale.

Gli italiani, dopo i grandi esodi degli anni Trenta e Cinquanta, hanno ripreso a partire. Questo avviene soprattutto a causa della crisi, che ha reso talvolta andar via molto più semplice di restare.

Ci troviamo, dunque, a osservare un’immigrazione al contrario anche se, in questo caso, è giusto specificare un elemento importante. Il fenomeno nasce grazie alla possibilità di una scelta e non, come quella di cui leggiamo tutti i giorni sul giornale, da una vera e propria necessità. Per questo motivo, pur non essendo un film puramente politico, spero che Banat riesca a portare uno sguardo diverso sul tema dell’immigrazione.

Oltre alla crisi economica che ha colpito il nostro paese, quali altre cause pensi siano alla base di questa nuova ondata di migrazione?

C’è un sociologo inglese che parla del collasso delle istituzioni “conchiglia” che, in qualche modo, creavano un legame costante con un determinato territorio. Negli ultimi dieci o venti anni, ad esempio, sempre meno persone hanno una fede politica forte. Prima del berlusconismo in Italia c’era una partecipazione diversa, molti erano iscritti al PCI o alla DC e in ogni paesello esisteva una sede di partito. Tutto questo è andato scomparendo. Inoltre, la Chiesa,

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come sappiamo, sta vivendo un grande periodo di crisi, come la famiglia tradizionale, mentre il lavoro fisso è diventato una chimera. Allo stesso tempo, poi, spostarsi è diventato più facile grazie all’Erasmus, ai low cost e agli scambi lavorativi all’interno della UE. Il risultato è che, solo nel 2014, sono partiti novantamila italiani.

Un altro elemento importante del film, oltre al viaggio, è il senso di disorientamento vissuto dai personaggi, non nuovo nella tua filmografia, visto che ha caratterizzato anche 37°4 S. Come lo hai sviluppato in Banat?

Effettivamente si tratta di tema che mi affascina molto e caratterizza la mia generazione.

Io vivo a Parigi, ho vissuto anche a Berlino e, due volte l’anno, vado a insegnare in Libano.

In sostanza, mi piace molto essere spaesato, trovarmi in un luogo dove non conosco i nomi degli oggetti e non padroneggio la lingua. Per quanto riguarda il film, poi, avrei voluto chiamarlo, se avessi potuto, La giusta distanza come il film di Carlo Mazzacurati. Questo perché i personaggi, Ivo e Clara, sembrano non riuscire a trovare la giusta distanza dalle loro radici

come dal luogo in cui si trovano attualmente. Indubbiamente, hanno dimostrato di avere il coraggio di scegliere per andare altrove e cercare la felicità lontano dalle proprie origini.

Sono alla ricerca di risposte su loro stessi e queste non si trovano se si rimane fermi ad attendere.

Hai affermato che sei infastidito dal cinema che dà due volte la stessa informazione. Come hai lavorato per evitarlo? È vero, non amo quando non mi viene lasciato spazio per vivere liberamente i miei sentimenti riguardo a una storia o a un’emozione. Voglio potermi porre delle domande personali e non essere indirizzato verso un luogo preciso. Kiarostami, ad esempio, dice che ama realizzare film che fanno dormire le persone al cinema ma che, poi, sono capaci di tenerle sveglie tutta la notte per riflettere. Io non ho il suo stesso stile, ovviamente, ma per Banat ho voluto lavorare in sottrazione.

Preferisco condensare le informazioni necessarie per la comprensione della trama e prendere più tempo per narrarne le atmosfere. Questi momenti possono contenere e nascondere molti particolari su cui

riflettere, imponendo al film un andamento ellittico. Ad esempio, ho lasciato un finale aperto per spingere lo spettatore a pensare a cosa accadrà a questi personaggi.

Mi piacerebbe che qualcuno ci vedesse una speranza, perché Ivo e Clara sono stati coraggiosi nel partire e forti a resistere, ma ognuno è libero di interpretare secondo il proprio punto di vista.

A proposito di punti di vista, come appare dalla ville lumière il cinema italiano di oggi?

Considera che, pur vivendo a Parigi, in parte sono dentro i meccanismi di produzione italiana, visto che il mio film è stato realizzato al suo interno.

Comunque, credo che il nostro cinema stia vivendo un momento di grande salute. Soprattutto per quanto riguarda la nuova generazione che presenta dei registi come Roberto Minervini, Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e Michelangelo Frammartino.

Per quanto riguarda la generazione precedente, invece, abbiamo artisti interessanti come Garrone, Crialese, che con Terraferma e Nuovomondo ha realizzato i film più emozionanti sull’immigrazione. Per finire, poi, c’è Sorrentino che, pur non essendo particolarmente nelle mie corde, mi affascina per la sua capacità visionaria. Credo che il cinema italiano stia vivendo un momento veramente felice.

- Opera prima/2 -

di MARGHERITA GIUSTI HAZON

LA STORIA DELL’UNIVERSALE E DEL SUO PUBBLICO

L’UNIVERSALE, STORICO CINEMA DI SAN FREDIANO, ORA È UN COMPLESSO DI APPARTAMENTINI NIENTE MALE, IN UNA BELLA ZONA PIENA DI LOCALI, MA È STATO ANCHE UNA DISCOTECA. PRIMA DI ESSERE QUALSIASI ALTRA COSA, PERÒ, NEGLI ANNI ’70 L’UNIVERSALE ERA IL CINEMA PIÙ CELEBRE DI FIRENZE, UN CINEMA DOVE LO SPETTACOLO ERA IL PUBBLICO.

Federico Micali, documentarista al suo primo film di finzione, sceglie di raccontare una storia che non ha vissuto in prima persona – all’Universale ha fatto in tempo ad andarci una sola volta – e lo fa come se stesse rendendo omaggio a un grande divo scomparso e dimenticato. Nel cast i giovani Francesco Turbanti, Robin Mugnaini e Matilda Lutz, ad interpretare lo staff del cinema Claudio Bigagli, Paolo Hendel e Anna Meacci, e uno straordinario cameo di Vauro, fan nostalgico di John Wayne.

Al cinema Universale ci sei stato solo una volta. Eppure nel film si percepisce un’appartenenza a quel luogo, a quel periodo e a tutte le sue vicende. Come ci sei riuscito?

Forse, in realtà, proprio il fatto di non averlo vissuto mi ha aiutato a trovare il giusto distacco. Io, Serena Mannelli, con cui ho scritto il soggetto, Cosimo Calamini e Heidrun Schleef, con cui ho scritto la sceneggiatura, abbiamo studiato tanto e siamo stati molto attenti a che cosa rappresentavamo, perché passando attraverso tre decenni di storia non potevamo approfondire troppo gli argomenti, ma neanche affrontarli con superficialità.

Una delle cose che più temevo era il giudizio di chi quegli anni li aveva vissuti veramente.

Da lì alla produzione?

La produzione è stata molto dura.

Inizialmente andava tutto bene, il film l’abbiamo prodotto con L’occhio e la luna, una piccola casa che aveva già prodotto alcuni miei documentari.

Col passare del tempo però i finanziamenti che avevamo avuto dal Ministero e dalla Regione Toscana erano sempre meno e prima di girare ci siamo trovati di fronte un bivio: andare avanti o lasciar perdere.

E io mi sono preso il rischio di girare. Avevamo un budget che ci consentiva in modo molto complesso

di girare per 4 settimane con una troupe ridotta, e la cosa più problematica era che stavamo facendo un film che si svolgeva in tre decenni, quindi con invecchiamenti, ringiovanimenti, cambi d’epoca all’interno della stessa giornata e con un sacco di attori e comparse.

Oggi i cinema del centro vengono trasformati in centri commerciali, mentre in periferia è pieno di Multiplex.

Se c’è una cosa che mi piace che passi dal mio film è il valore della sala cinematografica inteso come luogo. Ora i cinema sono un non-luogo, invece il cinema come esperienza da condividere anche con sconosciuti è qualcosa di importante che però può avvenire solo in certi spazi, non se dopo la proiezione ti ritrovi catapultato in un parcheggio. Io

mi ricordo che un tempo, quando finiva il film, si rimaneva nel cinema a guardare i manifesti e le foto di scena, a commentarle con gli altri spettatori, ci si scambiava opinioni.

Un Universale oggi. È ancora possibile?

No, e lo dico senza nostalgia, però grazie a questo film sto girando molto l’Italia e ho trovato degli spazi incredibili a Firenze, Roma, Bologna e Milano. Per la distribuzione ci hanno salvato due cose: il passaparola e la programmazione in sale che hanno un loro pubblico affezionato. Questa è un’altra riprova che il cinema indipendente ha veramente bisogno di queste realtà, sono felice di poterne parlare perché è un tema a cui tengo molto.

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- Tavola rotonda -

UNO, NESSUNO

E CENTOMILA

GENERI “LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT” E “VELOCE COME IL VENTO” SONO GIÀ CULT. NELLA TAVOLA ROTONDA AL CAPITOL LO SCORSO 8 APRILE, CONDOTTA DA GABRIELE NIOLA, FABRIQUE SI È INTERROGATA SULLA RISCOPERTA DEL CINEMA DI GENERE E SULLA SUA EVOLUZIONE NEL PANORAMA ITALIANO. È QUESTA LA RICETTA PER SCUOTERE IL NOSTRO MERCATO? a cura di CHIARA CARNÀ

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“

Ci sono sempre due modi di vedere i periodi di transizione, quello ottimista e quello pessimista. La verità poi, come sempre, è più facile trovarla in mezzo tra i due. Che la narrazione di genere (quella reale, non posticcia, falsa e velleitaria a cui il cinema italiano ci ha abituato negli ultimi trent’anni) stia tornando, sia in TV che al cinema, è un dato di fatto. Cosa possa significare è un altro paio di maniche. La tavola rotonda organizzata da Fabrique du Cinéma

sulla riscoperta dei generi cinematografici intendeva proprio mettere in contrasto punti di vista e prospettive, far parlare i registi, i produttori e gli autori per capire le ragioni di chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto. Gianluca Arcopinto, come sempre, interpreta lo scettico. Produttore indipendente ben prima che l’essere indipendenti fosse una scelta, vede una vampirizzazione da parte dei soliti noti; Cosimo Alemà regista di La Santa ma anche di Zeta, vede un’opportunità. Ma se è vero che esiste ora una generazione che il genere è disposta a praticarlo con coerenza, è anche vero che il mercato non sembra aver recepito in toto questa novità. Nonostante i gusti degli spettatori premino il genere quasi sempre, lo stesso il mercato italiano ci investe con timidezza, lasciando il grosso agli Stati Uniti. Forse davvero ha ragione Arcopinto a insistere sul fatto che il cambio di prospettiva è un mutamento finalizzato a che nulla cambi realmente, che a parità di contenuto non cambia la maniera in cui la produzione indipendente è svantaggiata. Di fatto però moltissimi autori, tra cui molti di coloro che erano sul palco, non avrebbero potuto esordire altrettanto facilmente se non si fossero misurati negli ambiti in cui hanno, per fortuna, deciso di operare. Di sicuro, chi ci guadagna sono gli spettatori.

[Gabriele Niola]

foto GIULIO TIBERI «Non amo la definizione “cinema di genere” – esordisce il regista e produttore Cosimo Alemà – Definire i film è molto comodo, certo, ma in questo momento tutta una generazione di registi, più giovani di me, sta cercando di realizzare delle opere che possano avere vita anche fuori da questo paese. A me piace l’idea e vorrei avere la libertà di pensare un film che si sleghi dal concetto di nazionalità, capace di trascendere i confini. I lungometraggi italiani che hanno avuto successo sono interessanti commistioni. In Jeeg Robot c’è il noir, il grottesco, il comic movie… la possibilità di miscelare e creare qualcosa di nuovo è l’aspetto migliore di tutta la faccenda. Il mio ultimo lavoro, Zeta, è un film generazionale sul rap che racconta gli adolescenti di oggi. Mischia molti generi ma non è stato difficile trovare una buona distribuzione, ed è la prima volta che mi capita. Il rap è un tema più attuale che mai e l’idea di coinvolgere in un film gli esponenti di questa cultura ha reso il progetto molto appetibile sin dall’inizio».

Sulla stessa lunghezza d’onda è Stefano Lodovichi, autore di In fondo al bosco: «Regista di genere è una definizione che mi sta stretta. A funzionare è sempre una commistione di storie, mondi e atmosfere differenti. Credo sia più corretto parlare di film di generi, al plurale, o sottogeneri. Spesso si rischia, etichettandolo, di ghettizzare un film per una certa fetta di pubblico. Anche quando un prodotto arriva dall’estero non è mai solo un thriller o solo un horror. Le sfumature sono sempre numerose. È un valore aggiunto, il film fa un salto di qualità quando non è inscritto in un genere preciso. Noi siamo cresciuti con Steven Spielberg, Joe Dante e Ridley Scott che, a partire dagli anni Settanta, per oltre vent’anni hanno educato e nutrito il nostro immaginario mischiando più generi tra loro. La rinascita del film di genere/i era inevitabile: realizziamo oggi, in maniera aggiornata ed evoluta, ciò che abbiamo assimilato. È fisiologico». Completamente diverso l’ap-

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proccio di Manuela Cacciamani di One More Pictures: «Quando mi viene proposto un progetto, la prima domanda che faccio è di che genere si tratti. Io guardo la questione dal punto di vista industriale: se bisogna decidere di investire e si segue una precisa linea editoriale o di marketing, pensando a quale genere possa funzionare meglio, è fondamentale avere le idee chiare. Per quanto riguarda l’Italia, credo sia un momento meraviglioso, sono fiera dei nostri talenti e ho visto tanti bei film e progetti innovativi. Abbiamo ottime carte da poter giocare anche su un territorio più esteso. È il momento di battere sul cinema di genere? Io ci ho costruito tanto, tuttavia credo anche che bisogna sempre insistere, con talento e passione, in ciò che si sa fare bene e si ha nelle proprie corde, indipendentemente dal genere». «Non sono affatto d’accordo – si oppone il produttore indipendente Gianluca Arcopinto – questa è una generazione “de-genere”, che va oltre definizioni schematiche. Io mi sento profondamente vecchio rispetto a questi discorsi.

Quello che posso fare è continuare a lavorare e insegnare ai giovani, ma il futuro non appartiene a me. E neanche a chi si fa portavoce di quel sistema-cinema che non riesce a entrare in sintonia con la generazione degenerata; non è preparato.

Jeeg Robot è stato un film che Gabriele Mainetti ha girato senza dialogare coi produttori.

Il sistema se ne è appropriato in seguito. Che succederà con il suo prossimo film? Riuscirà a non lasciarsi schiacciare dalle logiche produttive del sistema-cinema?». Alessandro Tartaglia Polcini di AGPCI chiude il dibattito offrendo un punto di vista industriale e, al tempo stesso, filosofico: «Il genere è ciò che consente al film di essere venduto e io credo in questa definizione, che non è stabilita tanto dalla produzione e dall’industria quanto dal pubblico. Nella fase creativa, tutti intervengono nel dare un nome al genere. Il produttore lo “generifica”, il pubblico lo fa proprio, il critico lo colloca. Il genere dura molto a lungo e invecchia bene, perché parla delle nostre vite. È un modo come un altro, se non migliore, di dare risposte mitiche alle nostre esistenze».

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- Nazione Web -

NOI, I RAGAZZI DI

CASA SURACE

I loro sketch sulle abitudini del Sud sono un fenomeno virale, ma al loro tagliente umorismo non sono sfuggiti neanche i trentenni, i colloqui di lavoro e le feste comandate. A tu per tu con il gruppo che ha conquistato il web raccontando la vita di tutti i giorni ai tempi dei social network. di CHIARA CARNÀ

G

enuina irriverenza e un’abbondante dose di folle ironia sono gli ingredienti che hanno reso la società di produzione Casa Surace, nata a Napoli nell’aprile del 2015, una delle punte di diamante della comicità online all’italiana. A darle vita un gruppo di giovani scatenato e affiatato, che sa come non prendersi sul serio ma ha le idee chiare su come divertirsi e divertire. La

Simone Petrella e Andrea Di Maria.

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loro energia è travolgente e la voglia di scherzare inesauribile: ne è una prova la nostra intervista semiseria a Simone Petrella, Alessio Strazzullo, Daniele Pugliese, Riccardo Betteghella, Bruno Galasso e Andrea Di Maria. «Noi e gli altri membri di Casa Surace – che è il nome che c’era sul portone al momento del nostro arrivo – viviamo insieme e raccontiamo il quotidiano anche attraverso le nostre esperienze. Ci siamo incontrati in momenti diversi: alcuni di noi sono amici da molto tempo, Riccardo e Bruno si sono aggiunti in seguito. Quasi tutti avevamo lavorato nel cinema.

La collaborazione con la pagina fb Il terrone fuori sede, all’inizio, doveva essere per un unico video, invece poi la cosa ha preso tutt’altra piega».

Quando avete capito che le vostre idee funzionavano?

Bruno Quando abbiamo dato le prime feste a casa… Anche i carabinieri apprezzavano molto il nostro lavoro.

Simone La Pasqua ai tempi dei social network è stato il primo video che ha fatto il boom di visualizzazioni e suscitato un gran polverone. Noi lavoriamo davvero all’interno di un appartamento e per girarlo lo abbiamo praticamente smantellato. La reazione della comunità cristiana è stata forte, persino surreale.

Non ci aspettavamo tanto scalpore. Perché siamo molto ingenui, crediamo nella bontà, ma su internet viene tutto strumentalizzato… [ride].

Alessio La verità è che volevamo cenare tutti insieme,

ma non riuscivamo mai a coordinarci. L’ultima cena era un buon pretesto. La provocazione funziona, certo, ma noi pensavamo più alla cena che a Gesù!

I video della serie Avere 30 anni vi vedono collaborare con volti del cinema italiano come Stefano Accorsi e Claudio Santamaria.

Andrea Di Maria, attore protagonista di tanti nostri video, fa cinema da tanto tempo e ha recitato in un film con Claudio, che conosceva e apprezzava il nostro lavoro.

Idem Stefano Accorsi, e l’idea dell’amore a trent’anni era perfetta per lui, che tutti ricordiamo nell’Ultimo bacio!

Qual è il vostro rapporto con il

Bruno Galasso (a sinistra) e Riccardo Betteghella (destra) interpretano due improbabili coinquilini negli sketch di Il terrone fuori sede.

luogo comune, tanto spesso al centro dei vostri lavori?

Non condividiamo il concetto di luogo comune, quindi cerchiamo di farlo evolvere dandone una lettura ironica. È la base da cui partiamo, ma spesso tendiamo più alla satira, con personaggi che giocano sui luoghi comuni più che incarnarli. Conduciamo un lavoro accurato sui temi che dobbiamo trattare e riflettiamo molto sulle strutture: ci sono progetti che ne richiedono una chiara, ma i nostri video sono più vicini alla sketch comedy.

Qualcuno è classico, altri hanno una struttura teatrale.

Non c’è una vera e propria storia né evoluzione dei personaggi.

Buttiamo giù un canovaccio, ma poi ci lasciamo andare all’improvvisazione.

Come vi confrontate con le polemiche o le critiche che sollevate?

In realtà anche i video più provocatori sono stati recepiti benissimo. Sta tutto nel modo di raccontare le cose.

Noi proviamo a decostruire e capovolgere il luogo comune ridicolizzando il tipico milanese, o il dialetto meridionale.

Le situazioni che mostriamo sono estremizzate, ma reali. Quindi il pubblico si riconosce e ne ride. Abbiamo incontrato più solidarietà e leggerezza che polemica.

L’influenza dei social network è uno dei vostri temi scottanti. E voi, siete social addicted?

Affatto, non sappiamo nemmeno qual è il tasto del selfie… Scherzi a parte, usiamo tantissimo il computer e gli smartphone. Nei video proviamo a trovare soluzioni a problemi che riguardano noi per primi, ma va sempre a finire in tragedia. Tutti stanno sempre col cellulare in mano, però, se glielo fai notare, fanno i vaghi.

Bisogna fare outing! Siamo una specie di circolo di alcolisti anonimi... Anzi, visto che siamo in astinenza, facciamoci un selfie! [segue momentoselfie] Cerchiamo di adattarci e sopravvivere. Ormai anche i nostri genitori sono entrati nel tunnel.

Riccardo Vero, mia mamma è la prima che condivide qualsiasi cosa pubblico.

Bruno La mia mi ha spiegato cos’è il controllo tag!

Che progetti avete per il futuro?

Bruno Mettere l’acqua per la pasta, poi caffè, riposino e per stasera ci hanno contattato da Bollywood…

Alessio È una domanda complicata, vogliamo ancora esplorare tantissimi temi. Ma non ci poniamo il problema del format, vogliamo fare cose che piacciano alla gente. Continueremo così, ma stiamo anche vagliando nuove opportunità e modi di raccontare. Se i nostri video troveranno sbocchi diversi, ben venga, ma non devono essere inferiori dal punto di vista qualitativo.

Bruno Il nostro, dopotutto, è un lavoro agricolo. Siamo un gruppo ecumenico e crediamo nell’artigianato.

«LA PROVOCAZIONE FUNZIONA, CERTO, MA NOI PENSAVAMO PIÙ ALLA CENA CHE A GESÙ!». www.casasurace.com

Le abitudini del Sud, la vita di coppia e la passione per il calcio sono alcuni dei bersagli dei video di Casa Surace.

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- Futures -

di VALENTINA D’AMICO

UNA REGISTA A TUTTO ROCK Atmosfere fashion, set ultra chic, design ipercurati, concept futuristici, post-produzione quanto basta e tanta, tanta musica. È questo il pane quotidiano di Valentina Bertani, giovane regista mantovana che si divide tra advertising e video musicali con la prospettiva del cinema e il sogno della televisione.

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na carriera iniziata molto presto quando la ragazza ha capito cosa avrebbe voluto fare da grande. «A 15 anni avevo una band femminile in cui suonavo la batteria» ci racconta.

«Abbiamo ottenuto un contratto con la Warner. Girando alcuni videoclip, ho capito che ero dalla parte sbagliata dell’obiettivo.

Così quando il contratto è

scaduto sono andata a Roma a studiare regia e poi, sfruttando i contatti con i discografici, ho iniziato a dirigere video musicali».

L’intuizione si è dimostrata giusta e la carriera di Valentina oggi è lanciatissima: collaborazioni con nomi importanti come Luciano Ligabue, i Negramaro,

Arisa e Dolcenera, e tanti riconoscimenti internazionali.

Riflettendo sul suo stile e sui modelli di riferimento, cita il collettivo spagnolo Canada, Truman & Cooper, l’inglese Dougal Wilson e Aoife McArdle, agguerrita irlandese che ha diretto video per Bryan Ferry e U2. Nessun nome italiano. La ragione è semplice: «In Italia,

spesso, i videoclip non sono di qualità. I motivi sono economici.

I registi bravi ci sarebbero, ma hanno budget risicati. Le case discografiche non vogliono investire, soprattutto oggi, in tempo di crisi. Per fare un buon lavoro bisogna affidarsi a bravi collaboratori, avere l’illuminazione giusta. Per ottenere il risultato che avevo

In apertura e nel tondo Valentina Bertani. Qui sopra frames dalle campagne che la regista ha girato per Etro, Kartell e Gucci.

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«In futuro mi vedo al cinema.

Se c’è una cosa che ho imparato sul set di Violetta è il senso di libertà. È stato difficilissimo tornare su un set pubblicitario perché le regole sono molto più stringenti. Hai mille paletti, mille soggetti che ti controllano e questo è incredibile perché la responsabilità, in un lungometraggio, è di gran lunga maggiore».

Alcune immagini dai video per Ligabue (sopra) e Negramaro (a sinistra L’amore qui non passa e in basso Voglio molto di più). Qui sotto e a piede pagina il fashion film Sextatic.

in mente, mi è capitato di dover sacrificare il mio compenso in modo da poter pagare le persone che lavoravano con me».

Dopo aver consolidato le sue competenze nel mondo dei videoclip, Valentina Bertani si è concentrata sull’advertising.

A differenza di quanto si possa pensare, però, il passaggio non è stato immediato.

«Cinema, TV, videoclip e pubblicità sono ambiti separati e non sempre il passaggio da un ambiente all’altro è agevole» chiarisce la regista.

«Quando ho iniziato, il videoclip veniva considerato una sorta di gavetta per la pubblicità, ma oggi non è più così. L’advertising è un mondo chiuso in cui il regista è sottoposto al controllo dell’agenzia e del cliente, mentre chi dirige videoclip è abituato a una maggior

libertà. Curiosamente, per un regista che viene dal cinema è difficilissimo fare videoclip perché viene malvisto dai discografici. L’eccezione è il regista di cinema che vuole fare pubblicità, in quel caso è molto apprezzato. Ogni tanto spuntano nomi famosi come Virzì o Muccino che decidono di girare uno spot e per loro si aprono molte porte». Se i giovani faticano a inserirsi, la situazione dietro la macchina da presa non sembra troppo rosea neppure per le donne. «Le registe sono sempre penalizzate, si fa più fatica» confessa Valentina.

«In pubblicità le donne sono chiamate a occuparsi di prodotti legati,

nell’immaginario, a un ambito femminile. Così fioccano proposte per dirigere spot di pannolini per bambini, omgeneizzati, assorbenti. Le agenzie ritengono le donne più adatte a girare film con i bambini. Nel cinema italiano non mi pare che la situazione sia migliore. Le registe sono troppo poche, anche se credo che Alice Rohrwacher stia emergendo e Valeria Golino ha esordito con un lavoro che mi ha colpito».

Da addetta ai lavori, Valentina ha un occhio di riguardo per il cinema italiano, di cui segue attentamente l’evoluzione, e concorda con chi sostiene che stia vivendo un momento molto positivo: «Oggi c’è un gran bel movimento. Veloce come il vento è bellissimo, scritto molto bene e le inquadrature sulle auto sono meravigliose. Ma il merito maggiore di Matteo Rovere è quello di aver affidato a Stefano Accorsi un personaggio così diverso da quelli a cui ci aveva abituato. Ha avuto un gran coraggio. Trovo che anche Luca Guadagnino abbia dei meriti perché ha saputo portare un’estetica fashion nel cinema, ha creato una commistione di generi.

Tra i giovani stimo molto Carlo Lavagna e Stefano Lodovichi».

Pur essendo così attenta alle nuove tendenze della settima arte, per Valentina non sembra ancora giunto il momento di spiccare il salto. O meglio, prima di fare un film c’è un lavoro che le sta molto a cuore, una misteriosa serie TV. «Prima di approdare al cinema vorrei realizzare la serie che sto scrivendo da un anno» ci racconta. «Ci sto lavorando con due bravi sceneggiatori italiani molto giovani. Abbiamo un concept pronto, il pilot è scritto e ho in mente alcuni attori che mi piacerebbe coinvolgere».

Valentina ha già ricevuto un’approvazione illustre visto che uno dei suoi autori preferiti, l’americano Todd Solondz, ha ricevuto il concept e lo ha molto apprezzato incoraggiandola a proseguire. E mentre lavora sodo per realizzare il suo sogno televisivo, il cinema si è fatto avanti in modo imprevisto.

La regista è stata chiamata a dirigere la seconda unità di Tinì – La nuova vita di Violetta, pellicola ispirata alla serie musicale Disney, fenomeno di costume senza paragoni tra i giovanissimi. Ripensando a questo lavoro, Valentina ammette che è stato «divertente e strano. Mi hanno tolto dal mio ambiente, l’advertising e il videoclip, per catapultarmi su un set internazionale. Juan Pablo Boscarini cercava una regista che fosse in grado di gestire le parti musicali e oniriche. Era una seconda unità concepita in modo classico, lavoravamo in modo separato e avevamo ognuno le proprie scene. Ammetto di aver avuto un po’ paura. Per me la paura è un sentimento positivo quando è controllata. Sul set arrivo preparatissima, ma una volta lì, mi lascio coinvolgere dalla situazione e vado a braccio.

Stavolta, però, la responsabilità era doppia perché il mio lavoro confluiva in quello di Juan Pablo Boscarini, visto che il film è suo. Credo che rispetto alla serie sia stato fatto un salto di qualità. Come mi ha confessato il produttore, l’idea era quella di realizzare un prodotto bello, e questo è qualcosa che non ci aspetteremmo da una produzione commerciale».

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- Teatro -

IL NOIR È UN GENERE COMPLICATO, NATO PER LA NARRATIVA E CRESCIUTO CON IL CINEMA. GANGSTER, DETECTIVE, RAPINE, RICATTI, TRADIMENTI E STORIE PASSIONALI SONO I SUOI PILASTRI.

IL PROFESSIONISTA

PORTARLO A TEATRO È UN GESTO CORAGGIOSO CHE IMPLICA DELLE FORZATURE DRAMMATURGICHE CONSISTENTI. TOMMASO AGNESE, PER IL PRIMO SPETTACOLO TEATRALE PRODOTTO DA FABRIQUE DU CINÉMA, HA SCELTO PROPRIO IL NOIR. di ELENA CIRIONI foto GIULIO TIBERI

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l professionista è andato in scena il 1 giugno al Teatro Sala Umberto di Roma, con una data unica, un esperimento che ha messo alla prova la creatività e l’impegno dell’autore e degli attori impegnati sulla scena.

Scelta piena di ostacoli, quella di rappresentare sul palco una storia narrativamente più vicina al cinema. Prima impasse, cercare di riportare sulla scena degli elementi di realismo, caratteristica principale del noir classico. Una realtà che a teatro spesso sfugge e che il cinema invece riesce più facilmente a rendere in maniera convincente.

La particolarità del Professionista sta proprio nel senso di straniamento dovuto alla ricerca di un realismo sfuggente, che tende a ricalcare gli stereotipi del

genere.

Così troviamo il protagonista Aron (Maurizio Tesei), un killer professionista in perfetto stile hardboiled.

Perseguitato dai sensi di colpa e da un alter ego (Marco Rossetti) che lo spinge a continuare la sua carriera nel crimine, Aron cambierà vita dopo l’incontro con Juliet (Mimosa Campironi).

Ma il tunnel del crimine non accetta vie di fuga, l’uomo sarà inevitabilmente travolto dal suo destino. Interessante sulla scena il gioco drammaturgico tra i due Aron, uno lo specchio dell’altro, in una battaglia tra il bene e il male che, come tutti i noir che si rispettino, non finisce

nel migliore dei modi.

Dialoghi serrati, atmosfere cupe e un linguaggio volutamente forte caratterizzano lo spettacolo in linea con certe variazioni teatrali della dark comedy e vicino alla narrazione televisiva seriale.

Pietro Lanza (Paolo Perinelli) e Charly (Luigi Di Fiore), il boss criminale, sembrano proprio essere usciti dallo schermo televisivo di una serie americana, di cui mantengono lo stile recitativo e la caratterizzazione fisica. Lo stesso vale per Antonino Iuorio nei panni di un istrionico cialtrone, guru di virilità. Sprezzante e ironico il suo monologo rivolto alla platea del teatro in cui sprona

«Una battaglia tra il bene e il male che, come tutti i noir che si rispettino, non finisce nel migliore dei modi».

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gli uomini a tornare a essere maschi, in un mondo dove le donne hanno spodestato il loro ruolo. A rappresentare gli uomini castrati dalla società contemporanea spunta però un personaggio: un nerd impacciato (Nicolas Paccaloni), dissonante in questo contesto caratterizzato da personaggi legati a una virilità brutale. È il classico tassello fuori posto capace di mantenere l’equilibrio drammaturgico della scena, che crea un diversivo interessante e spinge il pubblico a provare empatia per questo ragazzo tenero e timido in un mondo di criminali senza scrupoli. Vittima innocente, come lo è anche Juliet e in parte Aron, di un sistema che non permette errori.

La regola del professionista è quella di non lasciare testimoni, e va seguita a tutti i costi. Questa linea è trattata nello spettacolo con la massima coerenza, anche a costo di sembrare agli occhi del pubblico troppo dura. Un lieto fine di certo ci avrebbe fatto lasciare il teatro con il cuore più leggero, ma avrebbe in parte snaturato il genere che, esattamente come Il professionista, non ammette compromessi o mezze misure.

- David -

LA VITA DI LÀ DAL MURO Bellissima

è il cortometraggio di Alessandro Capitani premiato con il David di Donatello 2016 di GIACOMO LAMBORIZIO

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volte, guardando un cortometraggio, si viene colti dalla sensazione di assistere alle “prove” di un film, a esercizi registici e narrativi in cui gli autori si formano prima di affrontare il lungometraggio. È una palestra importante, uno sforzo comprensibile, ma che spesso va a scapito della concisione, dell’immediatezza, dell’efficacia di una storia che dovrebbe essere perfettamente conclusa nei limiti della sua durata.

Bellissima di Alessandro Capitani, premiato con il David 2016 come Miglior cortometraggio, invece dice una cosa e la dice tutta, ha il pregio di essere un vero corto, puntuale, conciso e preciso, calibrato con umanità e ironia per durare

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e farsi ricordare nello spazio ristretto dei suoi dodici minuti.

Veronica piange nel bagno di una discoteca. Piange perché un ragazzo l’ha respinta, perché ha detto che è “un cesso”. Veronica vorrebbe essere come la sua amica, che la consola ma che preferisce tornare in pista. Sola in un bagno, nascosta da un muro di plastica, può provare a essere diversa, a essere bellissima.

La metafora è scoperta, il muro dietro cui si nasconde la protagonista non può non ricordare le bacheche digitali, una cortina permeabile quanto deformante, un appiglio senza il quale molti giovanissimi non sembrano in grado di affrontare la realtà, spesso dura, di rapporti interpersonali difficili, deludenti, superficiali.

Veronica non piacerebbe, forse,

al suo occasionale corteggiatore al di là del muro, deve decidere se affrontare le conseguenze di una bugia.

«Vorrebbe sentirsi accettata dagli altri e possibilmente amata.

Veronica non è sola» spiega il regista e sceneggiatore, con Pina Turco, Alessandro Capitani «come lei, nella medesima situazione, ci sono migliaia di ragazze. Tutte hanno una sola cosa in comune: la volontà effimera di trasformare il loro aspetto, di renderlo gradevole a un pubblico troppo abituato ai canoni di bellezza delle TV commerciali».

La macchina da presa, fotografia di Luca Nervegna, accetta il limite scenografico della stretta toilette, sbircia

i protagonisti, portata spesso in spalla ne indaga i volti espressivi, giovani e già segnati dalla vita o solo dalla serata, indugia sull’affilata e fantasiosa densità del dialetto campano. L’obiettivo del regista era quello di «non cercare altri punti di vista se non quello di un osservatore tra i personaggi, in mezzo a loro, molto vicino». Veri e bravissimi sono gli interpreti, Giusy Lodi ed Emanuele Vicorito, attentamente scelti e assolutamente perfetti per la parte. La compattezza della regia aiuta a non far diventare il corto un piccolo discorso a tesi, calare la teoria nell’umanità di una piccola storia è la chiave per colpire nel segno.

«IL MURO DIETRO CUI SI NASCONDE LA PROTAGONISTA NON PUÒ NON RICORDARE LE BACHECHE DIGITALI».

NUOVA SERIALITĂ€ PARTE SECONDA

PASSATO, PRESENTE E FUTURO

Le serie hanno un rapporto privilegiato con il tempo.

Possono contare su un gran numero di episodi, e quindi ore e ore di paziente attenzione dello spettatore, per raccontare delle storie che procedono lentamente, spesso nel corso di molti anni. di ALESSIO GIAQUINTO

In alto, un’immagine dalla serie 22.11.63 tratta da un romanzo di Stephen King; in basso Will Forte, protagonista di The Last Man on Earth.

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- Serie TV -

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ono narrazioni che diventano epopee, “racconti mondo” che, nella ricerca ossessiva della totalità, cercano di riempire ogni tempo narrativo: nel passato con l’uso ricorrente del flashback, nel presente con esperimenti di racconto in tempo reale anche estremi, come qualche anno fa 24, nel futuro con flash forward o addirittura con intere produzioni basate sul viaggio nel tempo, come 22.11.63 tratta dal romanzo di Stephen King. Quando poi le serie si confrontano con un tempo storico, ovvero con un’ambientazione temporale precisa e connotante, spesso ci dicono qualcosa in più. Ci stanno comunicando come noi, qui e ora, viviamo il confronto con quegli anni. E finiscono quindi per offrirci una lettura del nostro stato d’animo attuale. Viene in mente la parola tedesca usata per parlare dell’umore corrente di una comunità: Zeitgest, ovvero lo “spirito del tempo”.

NOSTALGIA PER IL PASSATO

Fra tutte le serie che ci raccontano storie ambientate nel passato, ne scegliamo tre.

La prima è Downton Abbey.

La vicenda ruota intorno alla famiglia aristocratica dei Crawley e della loro servitù in una fittizia tenuta dello Yorkshire. Gli eventi narrati cominciano nel 1912 e terminano, dopo sei stagioni, nel 1925. Senza spoilerare dettagli della trama, possiamo dire che quello che vediamo è la fine dell’epoca edoardiana e l’arrivo della modernità. Quella delle narrazioni “del tramonto di un’era” è una costante che ritorna spesso nella serialità di genere storico. Ciò che le rende interessanti e avvincenti agli occhi del pubblico è la loro funzione catartica. È come se fossero dei grandi riti di purificazione collettivi. In Downton Abbey colpisce ad esempio il fatto che le classi sociali sono presentate sempre in grande armonia, la convivenza è rispettosa e pacifica. La violenza talvolta c’è nelle vicende narrate, ma mai nelle immagini, nelle parole o nella forma del racconto stesso. Anche temi scandalosi per l’epoca, come l’omosessualità o la maternità clandestina, vengono comunque risolti sempre positivamente. In sostanza è come se fosse tutto levigato e rassicurante: il passato visto cioè come un tempo in cui le cose erano meno complicate di oggi.

Il secondo titolo è il Paradiso delle signore, fiction RAI, adattamento di una serie inglese a sua volta tratta da un romanzo di Émile Zola, che ci racconta una storia d’amore e di riscatto

ambientata dentro e intorno a un grande magazzino negli anni ’50. È l’esempio perfetto di un filone molto di tendenza in questo periodo, con diverse produzioni proposte in varie parti d’Europa e viste doppiate anche in Italia, come Velvet e Mr. Selfridge. Le atmosfere sono quelle del melò, il pubblico di riferimento è principalmente quello femminile.

Sono le storie del boom economico e dell’epica del sogno americano.

L’estetica è elegante e curata e il racconto strizza l’occhio a una certa retorica di povertà sempre molto dignitosa, di sacrifici che alla lunga pagano, di amori impossibili che sbocciano. Anche qui il passato è il tempo in cui le favole finivano bene e gli sforzi venivano premiati.

E poi c’è Mad Men, la serie per certi versi più moderna tra quelle ambientate nel passato.

La storia principale è quella del creativo pubblicitario Don Draper e delle sue intricate vicissitudini professionali e private. Siamo negli anni ’60 e ogni stagione si svolge più o meno nell’arco di un anno.

Innanzitutto assistiamo a una grande operazione di nostalgia estetica con una continua sfilata di abiti impeccabili, sigarette

sempre accese e cocktail. È l’epopea di un periodo che ha sconvolto il panorama culturale del secolo scorso sulla base di un vero e proprio strappo generazionale, e noi la (ri)viviamo dalla sede, quella delle agenzie pubblicitarie, dove per antonomasia si lavora con i desideri e i bisogni della gente, mai come allora in radicale trasformazione.

Siamo quindi nuovamente dentro la fine di un mondo e l’arrivo di uno nuovo. Quello che però rende questa serie molto diversa dalle altre citate (non a caso unica a essere trasmessa da una cable a pagamento), è il rapporto più sofisticato che il personaggio principale ha con il suo tempo.

La Storia di quegli anni, con la crisi missilistica cubana e l’assassinio di Kennedy, è sempre presente sullo sfondo e il protagonista vive quasi per osmosi tutti gli sbandamenti, le crisi e le resurrezioni che sta attraversando la società americana. Un personaggio e un periodo storico più controversi e più complessi quindi, che propongono una lettura storica dal sapore dolceamaro, definitivamente meno consolatoria di tante altre produzioni di questo tipo.

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IL PRESENTE TRAGICOMICO

«IN ITALIA PURTROPPO NON CI SONO SERIE AMBIENTATE NEL FUTURO. SARÀ PERCHÉ COSTANO TROPPO? NON SOLO. C’ENTRA IL FATTO CHE È UN GENERE ANCORA TROPPO DI NICCHIA PER LE LOGICHE DI INVESTIMENTO DEL NOSTRO MERCATO MAINSTREAM».

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Guardando invece alle serie ambientate ai giorni nostri, le cose più interessanti si trovano soprattutto nei prodotti di genere comedy, come Silicon Valley. La storia ruota intorno alla vita di un gruppo di programmatori molto nerd e al racconto, a tratti quasi demenziale, dell’industria madre del nostro tempo: quella delle dotcom. Siamo nel mondo in cui il sogno americano si è trasformato nell’eterna ricerca di quella app da “ma perché non ci aveva mai pensato nessuno prima” che ti faccia guadagnare milioni di dollari vendendola a una big company.

Un altro titolo è Masters of None, scritto e interpretato dal comico indo-americano Aziz Ansari, che narra la vita quotidiana di un trentenne a New York alla ricerca di stabilità lavorativa e affettiva.

Questo è uno di quei prodotti – come qualche anno fa lo fu Girls – che riescono a sintonizzarsi meglio di tutti sul presente

e per questo diventano subito “generazionali”.

In questo caso si parla dei millenials cresciuti e delle loro relazioni al tempo dei social network.

La tensione e l’umorismo del plot nascono sostanzialmente dalle riflessioni del protagonista – e di una generazione che ci si rispecchia – su che tipo di adulto vuole essere.

Per quanto riguarda le serie italiane, più che a una produzione specifica, ci riferiamo a un genere, ovvero quello dei titoli family. Vengono in mente diverse produzioni RAI (soprattutto) e Mediaset.

Storie in cui c’è spesso la retorica della famiglia moderna medio

borghese con la mamma nevrotica, il papà Peter Pan, i figli molto “gggiovani” che occupano il liceo e l’immancabile happy end. Alcune sono anche molto ben fatte. Rimane comunque la sensazione del “vista una, viste tutte”.

Se volessimo tirare le somme quindi, potremmo dire che il presente è raccontato tendenzialmente come un tempo molto complicato da decifrare. E la lettura più ricorrente è quella comica perché forse permette meglio di altre di sottolinearne idiosincrasie e paradossi. Ridere per non piangere, o meglio ancora: sdrammatizzare per provare a comprenderlo.

ANSIA PER IL FUTURO

Sul domani invece, le cose più potenti ce le hanno dette Black Mirror e Humans. Siamo in un futuro prossimo, tutto sembra apparentemente uguale a oggi. Ma non è così. Viviamo la distopia delle nostre inquietudini nei riguardi della tecnologia imperante. Tematiche ricorrenti: l’intelligenza artificiale, il decadimento delle relazioni personali e l’apatia emotiva.

L’ultimo titolo è The Last Man on Earth. Si cambia completamente registro perché abbiamo forse l’unico caso di comedy ambientata in un futuro postapocalittico. È una serie brillante che parte da un reset narrativo per riflettere sulla riscoperta delle relazioni. La storia ci porta nel 2020: scopriamo nell’episodio pilota che, causa pandemia, in tutti gli Stati Uniti è rimasto un solo superstite. Si sta per suicidare quando incontra l’ultima

donna sulla terra. Da lì comincia tutto.

Chiudiamo il nostro viaggio del tempo tornando in Italia dove purtroppo non ci sono serie ambientate nel futuro.

Sarà perché costano troppo?

Non solo. C’entra il fatto che è un genere ancora troppo di nicchia per le logiche di investimento del nostro mercato mainstream. Anche al cinema infatti non abbiamo un grande film di fantascienza dai tempi di Nirvana di Salvatores, e gli unici lungometraggi prodotti più recentemente sono stati per lo più indipendenti e low budget.

Bisognerebbe forse partire intanto con piccole produzioni sperimentali.

Viene in mente la webserie di qualche anno fa Freaks, che peraltro riscosse anche un discreto successo di pubblico e stampa.

Continuare su questa strada, no?

- Opera seconda -

di LUCA OTTOCENTO

L’AMORE FUGGE

Dopo il successo alla Quinzaine di Cannes, tra fine maggio e inizio giugno è arrivato nelle sale italiane Fiore di Claudio Giovannesi: un’essenziale storia d’amore ambientata in un carcere minorile.

F

in da Fratelli d’Italia, il documentario del 2009 in cui si mostrava la quotidianità di due stranieri e un italiano di origini egiziane che frequentavano la stessa scuola, il cinema di Claudio Giovannesi si è spesso focalizzato sulla narrazione di adolescenti ai margini. A quattro anni di distanza dall’apprezzato Alì ha gli occhi azzurri (Premio speciale della giuria e migliore opera prima e seconda al Festival di Roma 2012), con il suo nuovo lavoro il trentottenne regista romano è tornato a impiegare nel contesto del cinema di finzione attori non professionisti e a ispirarsi a vicende reali, apprese da ricerche sul campo.

In questo caso il punto di vista è quello di Daphne (l’ottima Daphne Scoccia), una giovane rapinatrice della periferia

capitolina che tira avanti rubando cellulari dopo aver minacciato i malcapitati con un coltello. Fino a quando non viene catturata e si ritrova in un carcere minorile, dove ragazzi e ragazze sono rinchiusi in due ali separate. È qui che Daphne incontra Josh (Josciua Algeri), un neodiciottenne milanese cui sono rimasti da scontare ancora due mesi di detenzione. Tra messe domenicali, sguardi e scambi di battute veloci durante le ore d’aria e corrispondenze epistolari clandestine, i due iniziano a conoscersi e si innamorano, arrivando infine a sperare di avere un futuro insieme. Dopo aver frequentato un carcere per minori di Roma

ed essere entrato in contatto con diversi detenuti, Giovannesi si concentra sullo sviluppo dei rapporti che Daphne stabilisce sia con Josh che con il padre (Valerio Mastandrea), reduce da sette anni di prigionia. E lo fa con delicatezza e senza concedere nulla al sentimentalismo. Un esempio paradigmatico: dopo aver appreso che può uscire se il padre accetta l’affidamento in custodia, Daphne ascolta in cuffia Sally di Vasco Rossi.

L’accostamento tra le parole della canzone e il primo piano della ragazza felice è efficace ed emozionante, eppure il regista decide di interrompere la musica dopo pochi secondi, staccando sulla scena successiva per mandare subito avanti la narrazione.

All’insegna di un’essenzialità e di un minimalismo espressivo che rappresentano il carattere

«UN’IDEA DI CINEMA BEN DEFINITA, LEGATA A DOPPIO FILO ALLA RAPPRESENTAZIONE DEL REALE».

distintivo della poetica dell’autore. Con Fiore Giovannesi, da sempre interessato a tratteggiare umanità e innocenza dei propri personaggi senza giudicarli, continua a portare avanti un’idea di cinema ben definita, legata a doppio filo alla rappresentazione del reale e all’ardua vita degli ultimi. Un cinema che tiene ben presente la lezione del neorealismo, di una certa Nouvelle Vague e di Pasolini (non a caso esplicitamente citato, fin dal titolo, in Alì ha gli occhi azzurri), ma che allo stesso tempo si rivela in grado di proporre uno sguardo personale. A ogni film più maturo.

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- Zona Doc -

Prodotto e distribuito da La Sarraz, I ricordi del fiume narra la vita del Platz, una delle più grandi baraccopoli d’Europa, prima del suo definitivo smantellamento, attraverso le storie, le paure e le speranze dei suoi abitanti, uomini, donne e bambini di varia nazionalità.

I RICORDI DEL FIUME

REGISTI DEL PRESENTE

Il documentario con cui Gianluca e Massimiliano De Serio hanno riscosso grandi consensi racconta il Platz, multietnica baraccopoli situata sugli argini dello Stura a Torino. Un esempio di rigoroso cinema del reale che è solo la punta di diamante di un’attività che comprende anche una sala cinematografica e laboratori di formazione.

di SILVIO GRASSELLI

P

resentato a Venezia 72, il film ha attraversato altri festival, in Italia e all’estero, raccogliendo premi e riconoscimenti, fino ad aprile, quando finalmente è uscito in sala, avanzando, come spesso succede per il cinema veramente indipendente, lungo un fitto calendario di proiezioni ospitate da un’altrettanto lunga lista di cinema indipendenti.

I ricordi del fiume è un

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lungometraggio documentario firmato da Gianluca e Massimiliano De Serio, fratelli gemelli, classe 1978, torinesi (una laurea in Storia e critica il primo, una in Storia della critica d’arte il secondo), che hanno iniziato a dirigere i primi corti alla fine degli anni Novanta e che nel 2012, con Sette opere di misericordia hanno ratificato il loro esordio ufficiale nella regia di lungometraggio a

soggetto, quello che ancora viene considerato – a torto – il solo cinema adulto. Il documentario però è stata la loro prima palestra e l’officina dove i due hanno costruito, in più di quindici anni di lavoro (spesi anche sul più ampio fronte delle arti visive con una serie di videoinstallazioni), uno stile, il loro modo di pensare e raccontare per immagini.

I ricordi del fiume sembra solo il più maturo e più consistente

punto d’approdo di un lungo, onesto e rigoroso apprendistato al cinema in tutto simile a quello d’un artista artigiano rinascimentale, svolto per lo più nei luoghi familiari intorno a casa – la periferia nord est di Torino –, con le mani e la testa contemporaneamente e assiduamente applicate alla materia e ai processi tecnici, alla realtà incontrata per le strade e alle macchine necessarie

a farne audiovisione. Dopo decine di protagonisti vecchi o adolescenti messi in scena e trascritti o trasfigurati sugli schermi, dopo aver lavorato sulla performance di rapper (nei due medi Ensi e Shade, 2006, Rew e Shade 2006 e nel corto Raige e Shade, 2007) e su quella di poeti orali (Stanze, 2010), dopo l’incontro con la vicina Albania (L’esame di Xhodi, 2007) e con la remota Africa (Bakroman, 2010), dopo aver usato corpi d’attori professionisti come materia grezza di un’osservazione diretta e la voce di persone comuni come strumenti d’una orchestrazione cinematografica raffinata, dopo tutto questo viene, come un culmine e una sintesi, I ricordi del fiume. Il fiume è lo Stura, i ricordi sono quelli della comunità rom che viveva nel più grande campo d’alloggio provvisorio d’Europa, il Platz, raccontati proprio nel momento in cui il grande ammasso di baracche, il fitto

intreccio di vicoli e sentieri, sta per essere definitivamente sgomberato e distrutto. Per Gianluca e Massimiliano, come sempre, il principio è stato la relazione con le persone che sarebbero poi diventate oggetto del loro sguardo. Insieme ai due fratelli, fin dal primo incontro, tutta la piccola troupe che per un anno avrebbe passato lunghe ore nei meandri del campo, nelle strade vicine, sulle acque del

fiume Stura e fino in Romania, dove, seguendo gli spostamenti di alcuni dei protagonisti, è stato girato molto materiale poi lasciato fuori dal film finito, e che potrebbe presto diventare la materia d’un nuovo progetto.

Quasi tutti i giovani tecnici al fianco dei De Serio in questa avventura (l’aiuto regia Guido Nicolas Zingari, l’assistente alla regia e responsabile edizione Diana Giromini, l’assistente al montaggio Benedetta Marchiori) hanno imparato al Piccolo Cinema. La piccola “società di mutuo soccorso cinematografico”, nata dagli sforzi e dalle intelligenze dei due fratelli, aiutati e sostenuti, anche materialmente, da un folto gruppo di volenterosi, è il luogo dove, da più di quattro anni, i De Serio contribuiscono ad alimentare e formare la comunità alla quale appartengono (i quartieri di Pietra Alta e Falchera, ma in realtà una fetta trasversale dell’intera cittadinanza torinese): tutti i martedì una programmazione di ricerca confezionata insieme agli spettatori – tra i titoli d’attualità, la storia nobile della settima arte e i film feticcio – poi incontri con autori e tecnici, e infine laboratori di formazione alle professioni tecniche del cinema, pianificati e realizzati fuori dal canone dell’educazione lampo tanto in voga di questi tempi.

Una visione politica e pragmatica del cinema che Gianluca e Massimiliano mettono alla base della loro pratica di registi.

Così anche ne I ricordi del fiume l’intervento documentaristico – che si fa carico di registrare la memoria di un luogo e della piccola nazione che l’ha costruito e abitato – non è scisso rispetto al racconto trasfigurato

«IL RACCONTO DIVENTA UN DISCORSO POLITICO CONTRO LE BORGHESIE URBANE DI TUTT’EUROPA, SEMPRE PIÙ EDUCATAMENTE PRONTE ALLA PIÙ CINICA E SPIETATA VIOLENZA CONTRO GLI ESTRANEI». www.gmdeserio.com e simbolico della fiaba di una città dentro la città che esiste e si muove come sospesa e separata; racconto che diventa infine discorso politico contro le borghesie urbane di tutt’Europa, sempre più educatamente pronte alla più cinica e spietata violenza contro gli estranei, contro gli Altri, contro chi non è conforme alle sue regole.

Proprio in questa capacità di montare organicamente

materiali eterogenei, di stratificare istanze e discorsi diversi, di entrare in relazione con la realtà, di attraversarla nel profondo mettendo insieme etica ed estetica, narrazione e riflessione, sta la forza del cinema dei fratelli De Serio, che attraverso la forma documentaria riescono nell’ormai miracoloso compito di raccontare e ragionare sull’Italia del tempo presente.

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- Dossier -

THE A M E N I C I C N I U T I A D M I G T I L N O E V I I T O S N A R O T S I N S O O C T , I N L I A R I G C I E F I I T C I R T A A I C M U S I .

L E R I S A D C N O , E I T T T N N A A I F V I , O N E I I T G G N I A A R ATTOIOSO E INTRIG E IMM MISTER I PALVIER OOM S A L L I R M cchiera CASSED, REDSHOWalità u r r a p o p LE e ca spit ruccatriceORATO, BLACKB IO per la gentile o t o p a c O N CIORTINthanks ANTONY MDI NICOLANTO S A I N A F O IC TE TA A stylist SERI, ERIKA COS tta 55 Roma e ENR V O N A T ia Margu CO POR IULIA N foto MARucco e parrucco G LLERY DICÒ di V A tr assistentisi ringrazia l'ART G

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MARTA JACQUIER Età e luogo di nascita 21 anni, Roma Mi avete visto in Io tra 20 anni, la webserie diretta da Ivan Silvestrini.

Prossimamente, darò una mia libera interpretazione di Alida Valli nel docufilm diretto da Marco Spagnoli Cinecittà Babilonia: sesso, droga & camicie nere.

La tua prima volta in scena Fu per un laboratorio di poche

lezioni, e il mix di inadeguatezza e fascinazione che provai fu talmente letale da far scoccare la scintilla.

Ruoli comici o drammatici? Qualche anno fa avrei risposto “solo ruoli seri”. Non la penso più così: credo che un personaggio, a seconda di come lo si legga, possa essere sia drammatico che divertente. Basta bilanciare le due componenti.

GERMANO GENTILE Età e luogo di nascita 30 anni, Maceio Alagoas (Brasile) Mi avete visto in Oggi sposi di Luca Lucini, Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno, Il terzo tempo di Enrico Maria Artale.

La tua prima volta in scena Ho passato le tre ore precedenti facendo le imitazioni dei personaggi di Zelig di Fabio de Luigi, con i quali intrattenevo gli altri ragazzi della compagnia. Questo colpo di genio per poco non mi fa andare in scena senza voce!

Eravamo al Teatro

Vespasiano di Rieti, gremito, con testi di Shakespeare. Sul palco, mi sono sentito tutti gli occhi puntati addosso in un silenzio di tomba. Dopo un attimo di emozione, ho detto la prima battuta è da lì mi sono sciolto.

Ruoli comici o drammatici? Ho sempre preferito i ruoli

drammatici; li sento più nelle mie corde ed ero convinto di non avere i giusti tempi per la commedia.

Tuttavia ultimamente ho scoperto con sorpresa anche il mio lato comico grazie allo spettacolo Colpo basso di Gianni Clementi, andato in scena a Roma con la regia di Ennio Coltorti.

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MILY CULTRERA DI MONTESANO Età e luogo di nascita 25 anni, Roma Mi avete visto in Tutti pazzi per amore 3, Amore oggi e nel videoclip L’amore è qua di Briga. Attualmente sono impegnata con l’associazione Piccolo America nell’organizzazione del festival Trastevere Rione del Cinema.

La tua prima volta in scena Anni fa a teatro, con il saggio della scuola Teatro Azione.

Ero terrorizzata dal pubblico, non volevo entrare… sono stata quasi “spinta” in scena. Ma appena finito sembravo una

COSMA BRUSSANI Età e luogo di nascita 30 anni, Roma Mi avete visto in nel film Immaturi; nella webserie Vegan Chronicles di Claudio Colica e Andrea Morabito; nelle fiction Squadra mobile, Ris Roma 3, Squadra antimafia 3, Distretto di polizia, Che Dio ci aiuti, Don Matteo.

La tua prima volta in scena Secondo anno di Centro Sperimentale, prima prova aperta: Tre

bambina che, scesa dalle montagne russe, chiede saltellando alla mamma: “Lo rifacciamo?”. Ancora oggi, su ogni palco o set mi accompagnano la me adulta e perfezionista e la bambina spericolata ed entusiasta.

Ruoli comici o drammatici? Il ruolo drammatico forse è più vicino al mio tipo di sensibilità e di sguardo sulla vita. Mi stimola molto esplorare le corde più profonde dell’emotività. Ciò non toglie che nella commedia mi diverta infinitamente, mi sento libera di non prendermi troppo sul serio…

sorelle di Cechov.

Mi sentivo il migliore e niente mi faceva paura. La verità è che ero immaturo.

Quando vidi la registrazione dello spettacolo, la realtà fu dura da mandar giù: ero davvero un cane. Imparai per la prima volta l’umiltà. Un bravo attore ascolta e impara costantemente; non nasconde la sua insicurezza dietro atteggiamenti spocchiosi.

Ruoli comici o drammatici? Non

fa differenza, è la sfida che mi attrae, come una calamita.

Il mio aspetto mi ha relegato nel ruolo del criminale, e non mi è mai dispiaciuto, ma adoro dimostrare di essere versatile.

Sulla mia pagina No Filter interpreto un omosessuale per abbattere le etichette che mi sono state affibbiate e combattere la mia crociata contro l’omofobia. La maggior parte di chi mi contatta è convinta che io sia gay: è una vittoria.

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MARINA CRIALESI Età e luogo di nascita 26 anni, Lamezia Terme.

Mi avete visto in nel videoclip Le storie degli altri di Marco Salom, nelle serie TV Il confine e I bastardi di Pizzofalcone di Carlo Carlei; nel corto Al giorno d’oggi un lavoro te lo devi inventare di Mario Vitale.

La tua prima volta in scena A 16 anni a Rimini, dove sono cresciuta. Frequentavo un laboratorio teatrale, non perché ne avessi voglia, ma perché mi servivano i crediti formativi per l’esame di maturità.

GILLES ROCCA Età e luogo di nascita 33 anni, Roma Mi avete visto in nelle fiction Carabinieri, Distretto di polizia, I Cesaroni, Don Matteo, Ris. Al cinema, in Tre tocchi di Marco Risi.

A settembre sarò nella serie TV diretta da Stefano Reali Rimbocchiamoci le maniche, con Sabrina Ferilli.

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Quell’esperienza cambiò qualcosa.

Quattro anni dopo lasciai l’università per trasferirmi a Roma. Mi svegliai una mattina d’agosto, come se durante la notte avessi fatto un viaggio, e avevo una certezza: volevo essere un’attrice!

Ruoli comici o drammatici Amo tutti i film che offrono spunti per riflettere su se stessi e sulla vita.

Desidero comprendere ogni cosa, soprattutto se riguarda l’essere umano, e l’arte della recitazione appaga la mia sete: mi sento libera e imparo a conoscere me stessa.

La tua prima volta in scena Qualche anno fa in Carabinieri: interpretavo un sequestratore cattivissimo. Decisi di approfondire, mettendomi a studiare e frequentando stage.

Lavorando come attore per bravi registi (tra cui il mio maestro assoluto Marco Risi) mi sono appassionato alla regia, scrivendo e dirigendo diversi

cortometraggi piuttosto apprezzati.

Ora sogno l’opera prima.

Ruoli comici o drammatici? Amo i ruoli drammatici perché ho un lato oscuro molto spiccato, ma se i ruoli comici sono ben scritti, ovvero non sono solo parolacce e volgarità fini a se stesse, li interpreto volentieri.

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- Soundtrack -

PAOLO VIVALDI

LEZIONI DI MUSICA E VITA

Compositore e direttore d’orchestra, Paolo Vivaldi ha concorso al David di Donatello per il film Non essere cattivo, insieme a nomi come Ennio Morricone e David Lang. di ROBERTA FORNARI foto ANDREA BERNARDI, ANGELO TURETTA

Una lunga carriera e svariati riconoscimenti come compositore di colonne sonore.

Come’è nata la passione per la musica applicata alle immagini?

Mio padre era un attore di prosa, quindi da ragazzino seguivo le sue recite e mi affascinava molto l’idea della musica in teatro. Mi resi presto conto

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che quello che mi emozionava non era ciò che accadeva in scena, ma la suggestione che mi creava la musica. Cominciai a suonare il flauto traverso, poi a 14 anni entrai al Conservatorio di Firenze e una volta trasferito a Roma, iniziai gli studi di composizione al Conservatorio di Santa Cecilia con Teresa Procaccini, alla quale devo

la mia formazione artistica e umana. Altra persona alla quale devo tanto è stato il Maestro Filippo Trecca, che mi lasciava completamente campo libero facendomi fare delle sequenze da solo davanti all’immagine e seguire tutta l’organizzazione e la direzione di orchestra. Infine è stato grazie al teatro Argot di Maurizio Panici, al quale proposi

la mia musica, che ebbe inizio la mia carriera, proseguita con il regista Angelo Longoni con cui ho fatto anche cinema, e con le fiction televisive, come Luisa Spagnoli di Ludovico Gasperini e Boris Giuliano di Ricky Tognazzi, due lavori incisi con l’orchestra sinfonica della RAI Nazionale di Torino, una delle migliori in Europa.

«PROPOSI A CALIGARI IL SAX SOPRANO, IL PIÙ PARTICOLARE TRA I SAX, PERCHÉ IL SUO SUONO SI AVVICINA ALL’OBOE. L’IDEA GLI PIACQUE MOLTO».

Teatro, cinema e fiction, tre diversi linguaggi artistici: in quale ti esprimi al meglio?

Da un punto di vista economico la televisione è quella che ti dà di più, artisticamente il cinema è la cosa più bella in assoluto, ma quella che mi diverte di più è il teatro, perché ce l’ho nel sangue e perché ogni sera quando suoni è diverso, le repliche non saranno mai uguali. È una forma improvvisata che per un compositore è importante, in questo mi è stato molto utile il jazz.

Dagli studi classici al jazz, è importante la conoscenza della musica nei suoi molteplici stili per poter scrivere colonne sonore? È fondamentale. Non puoi mai sapere che film ti capita di musicare e che commento inventare. Ad esempio il film Barabba aveva bisogno di una struttura sinfonica orchestrale contaminata da strumenti etnici. Il regista Roger Young mi chiese una musica epica ma con influenze western: impiegai dunque l’orchestra sinfonica, però il tema veniva esposto dall’oud, un liuto arabo.

Per Non essere cattivo invece

ho lavorato su un mood più moderno, utilizzando chitarre elettriche e sax soprano insieme al mio preparatissimo collaboratore Alessandro Sartini.

Un compositore di musiche da film deve avere una conoscenza a 360 gradi perché un film può essere commentato in milioni di modi differenti.

Parliamo dell’esperienza di Non essere cattivo.

Devo questa meravigliosa avventura a Mauro Bonanni, un ottimo montatore del suono, il quale aveva capito la forza emotiva del film e riteneva che le mie corde potessero essere giuste per rendere in musica la storia di Cesare e Vittorio. Fece ascoltare le mie composizioni a Claudio Caligari, che allora era già molto malato; in particolare ascoltarono un tema per violino che avevo scritto per la fiction Il bambino sull’acqua.

Insomma quando alla fine si trattò di scegliere, Claudio disse: “Voglio l’uomo del violino”. Lo incontrai a casa sua e mi chiese il tema dell’amicizia di Cesare e Vittorio, un commento musicale sull’amore tra questi due ragazzi

che non hanno un futuro se non quello di vivere di espedienti e droga. Gli proposi di farlo col sax soprano, il più particolare tra i sax, perché il suono si avvicina molto all’oboe. L’idea gli piacque molto, gli ricordava la sonorità de L’ultimo tango a Parigi di Gato Barbieri. Scrissi il tema del film poco dopo averlo incontrato, colpito dalla sua persona che nel dolore e nella sofferenza estrema manteneva una dignità e umanità meravigliose. Claudio Caligari era e rimane veramente un maestro.

Un particolare merito va a Valerio Mastandrea che ha portato avanti, insieme alla produzione di Kimera, il progetto. Non essere cattivo è un miracolo, sono onorato di aver contribuito a questo capolavoro.

Diverse realtà professionali che si intrecciano e creano un nuovo prodotto artistico: il cinema e la musica non mancano mai di ricordarci questo insegnamento.

Il nostro lavoro si chiama musica applicata, io applico la mia arte a quella di altri artisti. Devi avere a che fare con altre persone, non puoi isolarti, devi creare emozioni insieme a loro. Ogni

regista poi ha la sua personalità e i suoi gusti, ti chiede cose diverse, bisogna essere molto flessibili.

Quanta influenza ha la musica sull’esito di una scena?

Puoi scrivere la musica più bella del mondo, ma se il film non incassa verrai associato a un prodotto che non è andato bene: un destino crudele, ma questa è la legge del mercato.

Purtroppo noi arriviamo sempre per ultimi nella realizzazione di un prodotto: il film viene scritto, girato, montato e poi arriva la musica, la quale può cambiare il senso della scena, la può aiutare, ma spesso non la può salvare perché se il film non funziona non dipende da lei.

Progetti per il futuro?

A settembre curerò la colonna sonora del film indipendente La notte è un posto sicuro di Giuseppe Papasso (Bolero film), la storia di un immigrato salvato dal mare che grazie alle sue capacità riesce a inserirsi nella società europea. È un lavoro molto stimolante per me, perché mi confronterò con la musica etiope.

Tre immagini da Non essere cattivo, il film-testamento di Claudio Caligari, interpretato da Luca Marinelli, Alessandro Borghi e Roberta Mattei.

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- Macro -

Un’azienda che esiste e cresce da oltre quarant’anni, da teatro di posa a studio di registrazione, doppiaggio e una sala di proiezione di altissima qualità. Marzia dal Fabbro racconta tradizione e innovazione di una realtà produttiva al passo coi tempi. di CHIARA DEL ZANNO foto FLAVIO MANCINELLI

Marzia, Sound Art 23 è stata al passo con la rivoluzione digitale: non solo siete sopravvissuti, ma vi siete consolidati.

Il segreto è conoscere bene il lavoro, e credo che questi anni di esistenza sul mercato siano la nostra forza. Si tratta di un’esperienza che io ho ereditato e che mi ricorda che ci sono dei processi. Dopodiché le macchine, la tecnologia e le innovazioni ti permettono di migliorare quei processi al massimo. La tecnologia da sola non serve, perché magari rischi di fare sette passaggi in più! Per capirci: con il digitale si è più veloci, è vero, ma si rischia anche di fare peggio.

Perché la cinematografia italiana ha una storia costruita su tante maestranze, che non va persa. Ad esempio, nel doppiaggio, il fonico vecchio stile si preoccupava molto della posizione del microfono: la distanza, l’angolo, la posizione creano un certo tipo di suono. E

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a seconda di come è creato, quel suono potrà essere lavorato con questo “mostro” [ indica la consolle Avid S6 accanto] in modo più o meno efficace.

Ecco, i vecchi tecnici usavano di più l’orecchio, i nuovi tendono a guardare le ondine del Pro Tools. Ma non posso incidere o missare solo guardando un’onda, devo rapportarmi con quello che vedo sullo schermo, con la fisicità dell’immagine.

Questo è veramente un concetto importante per noi, far capire come la profondità di un suono possa emozionare a seconda di quello che creiamo. Quindi missare guardando il film è essenziale.

Nel vostro organico lavorano diverse generazioni di tecnici: questa collaborazione è vincente? È chiaro che il tecnico più agée ha meno dimestichezza con la tecnologia ultimissima,

impara ma non ha la mentalità da computer che hanno i ragazzi.

Però il fonico giovane ha veramente molto da imparare proprio sulla creazione del suono nel cinema, sulla possibilità di restituire quella verità, quell’elemento che poi ti emoziona. Le persone, soprattutto i giovani registi, spesso sottovalutano tutto questo.

Parliamo un po’ della vostra nuova sala proiezione.

Siamo al centro di Roma e abbiamo la fortuna di avere una sala grande: qui abbiamo affiancato le nuove tecnologie, come l’S3 dell’AVID, accanto alla consolle prodotta dalla storica casa inglese AMS-Neve.

E quindi parliamo di tecnologia nuova affiancata a una vera consolle digitale, dove passa il suono e non un remote del Pro Tools. Ho scoperto che è una scelta sostenuta anche da

molti studi di Londra: noi siamo arrivati a questa soluzione ragionando, abbiamo voluto tenere questa macchina perché mantiene un suono bellissimo.

Però abbiamo voluto anche facilitare dei processi, permettere che più persone lavorino contemporaneamente... e allora abbiamo inserito la nuova tecnologia, anziché utilizzare solo la consolle digitale Neve.

Voi puntate molto sul suono: non è una scelta scontata.

No, non è per niente scontata.

Puntiamo sul suono perché è la nostra storia, la nostra esperienza e quindi è qualcosa che conosciamo e amiamo, in cui sappiamo di poter fare la differenza... su un film, su un prodotto televisivo ma anche su un cartone animato, su cortometraggi di autori giovanissimi. È uno strumento in più per il regista, è qualcosa che può usare anche per offrire delle dimensioni che magari non è riuscito a creare sul set.

Chiaramente per far questo deve essere supportato da un team di persone che possano dargli il suggerimento giusto. “Perché non spostiamo questo effetto sul surround destro e l’altro sul centrale, creando magari uno spiazzamento?”; così anche il suono diventa parte della narrativa.

Impiegare insieme tecnologie

tradizionali e ultimissime garantisce un diverso valore?

Senza dubbio la naturalezza del suono. Perché il suono digitale a volte è troppo perfetto da non essere quasi più reale, e in effetti spesso si tende proprio a sporcarlo... è anche un po’ la storia di pellicola e digitale.

I filtri della Neve non è che sporchino il suono, ma gli danno naturalmente un valore diverso.

Gli inglesi lo definiscono il suono Neve, oppure il suono SSL: sono consolle che creano un suono personale: ti danno naturalezza, morbidezza e verità.

Sul set ormai la figura del fonico di presa diretta è più limitata. Quanto incide sul lavoro di post produzione? È un problema enorme: bisognerebbe invece puntare

sulla formazione dei fonici e dare loro più tempo sul set, perché è tempo che poi si risparmia in post produzione.

Premesso che in post devi comunque ricostruire sempre degli effetti e dei rumori, avere suoni e dialoghi già incisi nel loro ambiente originale poi torna sia a livello artistico che di costi, mentre forse si crede che sia più facile il contrario. Prendere il

Davide D’Angelo, fonico Sound Art 23 in fase di mix sulla nuova AVID S6.

«IL SUONO È UNO STRUMENTO IN PIÙ PER IL REGISTA, È QUALCOSA CHE PUÒ USARE ANCHE PER OFFRIRE DELLE DIMENSIONI CHE MAGARI NON È RIUSCITO A CREARE SUL SET, PUÒ DIVENTARE PARTE DELLA NARRATIVA».

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«IL SUONO DIGITALE A VOLTE È TROPPO PERFETTO DA NON ESSERE QUASI PIÙ REALE, E IN EFFETTI SPESSO SI TENDE PROPRIO A SPORCARLO». www.soundart.it

rumore dalle libraries richiede un tempo lungo e si tratta comunque di rumori standard.

Avere più materiale da missare invece è un’altra cosa. Anche il resto dell’Europa si lamenta di questo problema, che si verifica perfino su produzioni grandi e soprattutto televisive, dove appunto sul set si lavora in maniera ancora più veloce.

E quando alla fine senti che il suono è povero, è terribile.

Voi vi occupate davvero di

tutto, dal videogioco al film, dalla fiction al cinema: come cambiano le dinamiche di lavorazione all’interno dei diversi prodotti audiovisivi?

Come dicevamo, per il suono del cinema è molto importante quello che ti arriva dal set, e così anche per la televisione. Un cartone animato è un’operazione completamente diversa, anche più creativa, specialmente per quanto riguarda il lavoro dei doppiatori sulle voci dei personaggi... ci vuole una

buona dose di fantasia. Nel videogioco è un discorso ancora più esasperato: la registrazione del dialogo è molto asettica, si lavora su frasi spesso scollegate dalle immagini.

Il boom dello streaming, di Netflix e via discorrendo: con il web cambia la modalità di fruizione soprattutto nel caso della serialità internazionale. È l’era della visione veloce e simultanea, del sottotitolo. Che futuro vedi per il doppiaggio?

Credo che il doppiaggio ci sarà sempre perché comunque è un servizio in più. Soprattutto per alcuni prodotti da consumo bulimico, come i reality televisivi. Ma i cultori delle serie, che preferiscono guardarle sottotitolate, stanno aumentando sempre di più perché credo che la qualità del doppiaggio si sia un po’ abbassata. Un vero peccato, perchè il doppiaggio è davvero un mestiere artigianale in cui noi eravamo e siamo ancora tra i più bravi.

Sala di doppiaggio; consolle AVID S6; la sala mix AMS-Neve affiancata da tecnologia AVID.

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di SONIA SERAFINI foto LORENZO PESCE

UNA SPECIE DI SINCRONICITÀ Valentina Carnelutti,

applauditissima per la sua interpretazione di Fiamma ne La pazza gioia, ci racconta la voglia di ricerca e la curiosità che hanno sempre fatto parte di lei.

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IN COLLABORAZIONE CON

Sei figlia d’arte, quanto ha inciso su di te questo aspetto? È vero, sono figlia di intellettuali [il padre era l’attore Francesco Carnelutti], ma sinceramente non so quanto questo possa aver inciso sul mio percorso. Certo era un ambiente stimolante, a casa mia era usuale andare al cinema, a teatro e studiare, tanto. Mio padre mi chiedeva di aiutarlo a ripassare le battute, di controllare con lui la pronuncia in inglese, ho dei ricordi delle nostre vacanze con lui che camminava avanti e indietro sulla spiaggia immerso nei suoi monologhi. Quando, giovanissima, gli ho confidato che volevo fare questo mestiere mi ha risposto che ero pazza, e probabilmente lo pensavo anche io. Ci ho messo altri dieci anni a convincermi che era proprio così… Ciò che amo in questo mestiere è la ricerca, la possibilità di mettersi nei panni degli altri, creare empatia con le persone attraverso l’interpretazione.

A proposito di influenza, in base a cosa scegli i tuoi ruoli?

Prima di tutto credo che la formazione e il lavoro non siano separati, io ho sempre studiato e continuo a studiare scegliendo in base a ciò che mi suscita curiosità, sono una persona curiosa dell’umanità.

Guardandomi indietro, vedo che i film che ho interpretato avevano sempre un legame con il momento che stavo vivendo: è curioso, la traiettoria della mia vita è stata spesso influenzata dai film e viceversa. È una specie di sincronicità.

Lo scorso anno hai partecipato al film Arianna, accolto a Venezia con grande successo, per il quale hai ricevuto una nomination ai Nastri d’Argento come miglior attrice non protagonista. Trovi sia importante il cinema come veicolo d’informazione? È fondamentale, parlando naturalmente di cinema di qualità, come Arianna. C’è la speranza che in quell’ora e mezza in sala allo spettatore siano comunicati contenuti speciali, particolari, coraggiosi.

L’atto di andare al cinema, stare insieme ad altre persone, permette una ricezione completamente diversa da quella che si ha guardando la TV, leggendo un articolo sul web o sui social, ovvero fermandosi a tutto quello che implica brevità.

Il cinema dovrebbe proporre contenuti elaborati in maniera pensata e prodotti che si prendano dei rischi.

Ne La pazza gioia di Paolo Virzì interpreti una dottoressa umana, che ha a cuore le sue strambe pazienti, ne conosce il dolore e ne comprende il

Oltre che attrice, Valentina è anche regista: ha diretto per ActionAid il documentario Melkam zena (Buone notizie) girato in Etiopia nel 2011 e il cortometraggio ReCuiem, finalista ai Nastri d’Argento.

labile equilibrio. Com’è stato recitare questo ruolo e ricevere i quindici minuti di applausi al Festival di Cannes? È stata una vera emozione vedere il film a Cannes, mi ha colpito, emozionato, a un certo punto eravamo tutti in lacrime, noi attrici ci siamo guardate e il trucco era tutto colato. Si sono accese le luci e c’erano centinaia di persone che applaudivano. È stata una sensazione molto forte, e in quell’attimo ho avuto la consapevolezza che il cinema è un’esperienza collettiva. Al provino mi ero presentata con una parrucca, poi Paolo mi ha chiesto di fare la parte in toscano e il giorno prima di cominciare a girare ha deciso che dovevo avere i capelli fucsia. Ero molto preoccupata

di questa scelta, che però si è rivelata giusta, mi ha trasmesso un senso di instabilità che poi è stato efficace per il personaggio.

Il confine fra lei e le pazienti è sfocato, Fiamma non ha mai la certezza di essere migliore di loro, ma sceglie di dedicarsi a queste donne con grande amore.

A cosa stai lavorando ora?

Sto finendo una serie che si chiama House Husbands e sto portando in tournée un testo che ho scritto con Lorenzo Declich dal titolo Non ho altro da aggiungere: la storia, che ho molto a cuore, di una donna siriana che si rivolge alla commissione per la richiesta d’asilo rispondendo alle domande del modulo.

«IL GIORNO PRIMA DI GIRARE PAOLO HA DECISO CHE DOVEVO AVERE I CAPELLI FUCSIA. UNA SCELTA CHE SI È RIVELATA GIUSTA, MI HA TRASMESSO UN SENSO DI INSTABILITÀ EFFICACE PER IL PERSONAGGIO». www.valentinacarnelutti.com

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- Making of -

OGGI OFFRO IO

CAST Icio De Romedis, Enzo Iacchetti, Corrado Tedeschi, Giobbe Covatta, Marco Balbi, Ciccio Valenti, Lucia Vasini REGIA Valerio Groppa e Alessandro Tresa SCENEGGIATURA Icio De Romedis PRODUZIONE Enzo Iacchetti per Nico Produzione DIRETTORE DI PRODUZIONE Jonathan Girolami SCENOGRAFIA Gaspare De Pascali

a cura di DAVIDE MANCA foto LOSAN PIATTI, CARLOTTA BROGLIO

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Carrello a mano, polistiroli riflettenti.

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L’aiuto regia dà la posizione, M40 Arri dalla finestra, telaio di frost in uscita.

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Soft tube per 400w con telaio, astaboom per due kinoflo con 767 Oklahoma Yellow.

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Camera plongée, M40 di taglio con telaio di frost 216.

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M18 HMI Arri con 798 Chrisalys Pink e kinoflo 2x60 a pioggia.

Kinoflo 4x120 controluce, soft tube 400w; M18 dalla finestra attraverso due telai.

IL FILM Due fratelli gemelli nati a distanza di un’ora, Icio ed Enzo, subiscono un rapimento. A essere sequestrato è il fratello minore Enzo. C’è un riscatto da pagare di 8.000 euro. Come farà Icio a trovare i soldi e liberare il fratello? Non tutti i mali vengono per nuocere...

DICONO GLI AUTORI Icio De Romedis «Questo progetto è nato perché avevo voglia di divertirmi, di divertire, di far pensare e di pensare. Ci sono cose importanti nella vita che solo se fai sorridere e ridere vengono recepite e ascoltate. Ho proposto al mio amico Enzo Iacchetti quest’idea, che ha sposato con entusiasmo e grande convinzione. Abbiamo voluto una troupe di grandi giovani professionisti, capeggiati da Valerio Groppa e Alessandro Tresa, capaci di regalarci una regia stereo». Valerio Groppa «Pur avendo chiuso l’esperienza con i corti non potevo dire di no a questa occasione, perché il progetto era davvero divertente e importante. Lavorare con

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attori così creativi e funambolici è stato molto impegnativo, cercando rispettare la scrittura e nello stesso tempo assecondare le loro tante e preziose improvvisazioni, ma alla fine è andato tutto alla grande!».

Alessandro Tresa «La lavorazione di questo corto prevedeva un’ambientazione molto particolare e una regia in linea con una scrittura fuori dal comune. È stato un progetto stimolante che ho condiviso con un gruppo di veri amici e professionisti».

LA FOTOGRAFIA Il cortometraggio è stato girato interamente a mano con una Arri Alexa Plus e ottiche Zeiss T1.4. Si è deciso di virare verso una fotografia pop, esaltando la saturazione in ripresa.

Dalla combinazione dei reparti fotografia, scenografia e costumi si è costruita una gamma cromatica precisa e intensa. Per i colori sono state impiegate gelatine Lee Filters, e proiettori a luce fredda HMI della Arri.

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Il regista in camera.

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Il macchinista posiziona il telaio di gridcloth.

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Lo scenografo posiziona i props, M18 HMI Arri con 798 Chrisalys Pink.

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La troupe artistica rivede il girato.

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Prove della scena, clima disteso sul set.

Foto di scena, illuminazione a kinoflo con 787 Marius Red.

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- Effetti speciali -

NON THE JUNGLE BOOK

BASTAN POCHE BRICIOLE…

Il film di Jon Favreau ha segnato un nuovo punto di arrivo nel cinema internazionale sotto il profilo degli effetti visivi: Gianluca Dentici e Korinne Cammarano, che hanno lavorato al film nello staff londinese della società leader dei VFX MPC, ci spiegano come e perché.

Quali sono stati i tempi di lavorazione e quante le persone impiegate?

Gianluca Korinne Jungle Book è stato certamente il progetto filmico più grande che MPC abbia mai realizzato sino ad ora, sia in termini di tempo che di artisti coinvolti, il film ha infatti impiegato circa due anni per venire alla luce, dal concepimento fino al termine della post produzione. In totale

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sono stati coinvolti circa 800 artisti tra le sedi di Londra e quella di Bangalore in India per un totale di quasi un anno di post produzione. Come molti sapranno, il film ha richiesto tutto questo tempo perché l’ambientazione nella giungla e gli animali sono stati interamente realizzati in CG

e l’unico attore vero è Neel Sethi, che interpreta Mowgli, anche se in qualche caso è stata utilizzata anche una controfigura digitale. Le riprese reali del film si sono svolte a Los Angeles all’interno di un teatro blue screen di modeste dimensioni, dove sono state ricreate piccole porzioni di

scenografia per aiutare l’attore a interagire con alcuni elementi fisici e con sagome e praticabili dipinti di blu, poi sostituiti dalle immagini in CG. Il film è davvero di un realismo finora mai visto nonostante i personaggi siano… animali parlanti!

G K Il metro di misura a cui tutti sino a ora ci riferivamo quando si parlava di un film

Neel Sethi è l’unico attore in carne e ossa di tutto il film, qui con la “madre lupa” Raksha.

realizzato interamente in CG era ovviamente Avatar, ma in Jungle Book lo sforzo è stato di gran lunga superiore per due motivi: anzitutto l’ambientazione doveva avere un sapore realistico, quindi differente rispetto a quella fantastica di Avatar, e poi per la presenza di animali reali che tutti ben conosciamo, invece delle creature immaginarie di James Cameron.

Spiegateci il più possibile nel dettaglio le tecniche impiegate per raggiungere questo effetto.

G K Durante le riprese il regista Favreau insieme al supervisore degli effetti visivi Rob Legato (premio Oscar per Titanic) avevano a disposizione un sistema Simulcam della società 3rd Floor, che si è occupata della gran parte della previsualizzazione del film: questo

permetteva di visualizzare contemporaneamente la scena live e il set in CG (seppur in bassa qualità). Il regista aveva quindi la possibilità di muovere la macchina da presa in piena libertà nello spazio del set visualizzando sul monitor un’idea del tutto fedele di quella che sarebbe stata l’inquadratura finale. Per l’interazione con gli animali della foresta, l’attore è stato aiutato da alcuni

performers della Jim Henson’s Creature Shop, che hanno impiegato piccoli puppet anch’essi dipinti di blu per recitare insieme a Neel Sethi.

Questi stessi performers hanno anche indossato delle tute blu per altre scene del film, come ad esempio quella in cui le scimmie rapiscono Mowgli.

In realtà sul set i performers simulavano i movimenti delle scimmie sollevando il piccolo

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Le tre fasi di lavorazione della scena in cui Mowgli nuota sulla pancia di Baloo, una fra le piĂš complesse del film.

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«IN QUALCHE CASO NEMMENO IL COLORIST DEL FILM RIUSCIVA A CAPIRE SE L’ATTORE FOSSE VIRTUALE O REALE». attore e facendolo volteggiare.

Le scimmie sono state realizzate dalla WETA Digital, famosa per Avatar, Lord of the Rings e ovviamente il Pianeta delle scimmie. Nel frattempo a MPC si preparava un grandissimo lavoro di animazione dei personaggi e di costruzione delle ambientazioni. Per darvi qualche numero, sono 54 le specie animali animate, considerando ovviamente anche quelle di secondaria importanza, mentre le ambientazioni digitali sono 284 con 500 differenti tipologie di piante. Il lavoro di ricerca si è basato su circa 100.000 reference fotografiche che sono state scattate in 40 location indiane, infatti il ruolo della sede indiana di MPC è stato fondamentale. Sono state fotografate rocce, sassi, alberi, piante, foglie.

Una volta approvate le precomposizioni, il lavoro prosegue poi in altri reparti come quello del texturing, che si occupa di inserire le superfici e i colori della pelle dei personaggi, così come l’aspetto degli environment, e successivamente il reparto di lighting rifinisce l’illuminazione finale, genera i riflessi e le ombre.

L’ultima fase è quella del compositing, reparto dove io e Korinne abbiamo lavorato, ed è quello dove le scene prendono vita; l’attore viene scorporato dalla ripresa in blue screen e inserito nel contesto interamente digitale.

La difficoltà di questa fase sta proprio nell’amalgamare in maniera realistica i due elementi. A seguire tutte le fasi di lavorazione del film e specialmente quella di finalizzazione in compositing

c’era con noi Adam Valdez, VFX supervisor di MPC. Per alcune scene di particolare complessità il supervisore ha preferito utilizzare un digital double, ovvero un Mowgli virtuale che è stato scannerizzato utilizzando il Lightstage della University of Southern California, sistema inventato da Paul Debevec.

Grazie a questo sistema è stata ottenuta una qualità della pelle fedele all’attore reale e un dettaglio elevatissimo.

In qualche caso nemmeno il colorist del film riusciva a capire se l’attore fosse virtuale o reale.

MPC ha generato un totale di 1984 TB di dati per circa 240 milioni di ore di rendering.

Quali i software impiegati?

G K I software impiegati sono stati ovviamente tanti considerando i vari reparti coinvolti, ma in generale Maya per la modellazione e animazione dei personaggi e ambienti, Zbrush e Mudbox per lo sculpting delle ambientazioni, Katana per il lighting, Renderman per il rendering e Nuke per il compositing.

Ovviamente sono stati sviluppati molti tool in tutti i reparti e molte procedure di lavoro, in quanto la pipeline doveva essere condivisa e impiegata da tantissimi artisti anche in sedi distanti. Bisogna ricordare inoltre che Jungle Book è un film nativo in 3D stereoscopico: questo ha significato per tutti i reparti la gestione di due flussi di dati, uno per il canale destro e uno per quello sinistro, e ciò si traduce in doppi tempi di calcolo e un incremento della sofisticazione generale di tutti i processi. Le scene infatti dovevano essere controllate anche dai supervisori della

stereografia affinché non risultassero fastidiose agli occhi dello spettatore o errate nella loro collocazione nello spazio tridimensionale.

Potete commentare i momenti del film più significativi dal punto di vista dei VFX? G K Mowgli sulla pancia di Baloo nel fiume è forse tra le scene più complesse. È stata ricostruita in esterni una piscina dove è stata posizionata una sagoma blu di Baloo su cui l’attore era seduto. Per far sì che l’attore reale avesse delle reazioni in base ai movimenti dell’orso, la Legacy Effects ha inserito nella sagoma un sistema idraulico motion control in grado di muoversi con gli stessi movimenti che erano stati attribuiti a Baloo in fase di pre-animazione. Nella fase di post produzione, per ragioni tecniche, le gambe di Mowgli sono state sostituite da quelle in CG, quindi all’interno di alcune inquadrature, di cui tra l’altro io [Gianluca] mi sono occupato, l’attore è per metà vero e per metà virtuale.

Di quali scene vi siete occupati in particolare all’interno della lavorazione?

Korinne Ho lavorato principalmente nella sequenza finale del film, cioè quella del combattimento tra gli animali nella giungla in fiamme. La lavorazione è stata particolarmente complessa perché l’intera scena è molto concitata e l’animazione degli animali che combattono molto rapida, quindi enfatizzare i momenti cruciali in quasi assenza di luce ha richiesto un lavoro di bilanciamento molto accurato.

Gianluca Per quanto mi riguarda mi sento di citare la sequenza del raduno dei lupi durante la pioggia. Ovviamente la resa del pelo bagnato degli animali ha richiesto un grande impegno sia da parte del reparto di FX che del nostro di compositing, con il trattamento separato di ogni singolo elemento che è stato possibile solo grazie all’impiego di una metodologia chiamata Deep Compositing. Ho anche lavorato alla sequenza della tigre nella grotta durante il ricordo di Mowgli bambino: qui abbiamo inserito la bruciatura digitale della tigre Shere Khan.

Com’è organizzata una megaproduzione Disney? Da profani ci si immagina vari team al lavoro sparsi per il mondo, molto verticalismo… È così?

G K È esattamente così, ed in generale è il funzionamento di tutte le grandi compagnie che lavorano nel settore dell’entertainment.

Il supervisore agli effetti del film è colui che fa da ponte tra la produzione e le società che partecipano alla realizzazione degli effetti, garantendo così la continuità visiva e lo scambio di comunicazione per tutta la durata del progetto. Si tratta di una figura al di sopra delle parti, il quale, non appartenendo alla società di effetti visivi, cerca di ottenere il miglior risultato visivo per soddisfare il cliente. Jungle Book, insomma, segna una tappa davvero importante dal punto di vista produttivo e da quello del risultato visivo raggiunto, sforzi premiati da ottimi incassi al box office. Ci auguriamo che vengano riconosciuti anche dall’Academy americana.

RINGRAZIAMO JONNY VALE DI MPC www.gianlucadentici.com

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- Histoires du cinéma -

EUGENIO BELGRADO

Gentilezze da gentiluomi Nasce a Pordenone nel 1991 ed è cresciuto artisticamente sotto la guida di Paolo Cossi. Nel 2012, all’età di ventun anni, pubblica la graphic novel Torri di fumo per Lavieri Edizioni. Nel 2016 inizia a collaborare con Verticomics, su cui pubblica il suo webcomic Gentilezze da gentiluomi.

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DIARIO GLI EVENTI DI FABRIQUE

8 APRILE 2016

AL CAPITOL CLUB SI ALZA IL SIPARIO SU FABRIQUE 13 Il party di presentazione del nuovo numero della rivista al Capitol Club, grande protagonista Veloce come il vento. foto GIULIO TIBERI Una festa per il tredicesimo numero di «Fabrique

du Cinéma». Il numero 13 dice che la rivista del giovane cinema italiano svolta il giro di boa dei tre anni, e per festeggiare a dovere la location scelta è stato il Capitol Club di Roma.

Una serata che ha fatto registrare il pienone e che si è aperta alle 19.00 con la consueta tavola rotonda di approfondimento sullo stato del cinema italiano. Il tema era dei più attuali: “I generi cinematografici, la loro riscoperta ed evoluzione nel panorama italiano”. A condurre le danze Gabriele Niola di Wired, che ha dialogato con i produttori e registi Gianluca Arcopinto, Manuela Cacciamani, Alessandro Tartaglia Polcini, Stefano Lodovichi, Cosimo Alemà, Giorgio Bruno.

Si è parlato di generi cinematografici e non potevano mancare i riferimenti ai titoli di punta della stagione. La festa ha ospitato infatti l’esposizione delle copertine da collezione del fumetto originale ispirato ai personaggi di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e affidate a grandi del fumetto italiano

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come Leo Ortolani, Roberto Recchioni, Giacomo Bevilacqua e ZeroCalcare. Spazio poi alla presentazione di uno dei film più attesi della primavera cinematografica italiana, Veloce come il vento: in anteprima il regista Matteo Rovere e gli interpreti Stefano Accorsi e Matilda De Angelis ci hanno raccontato cosa significa fare un film di corse automobilistiche in Italia. Non c’è festa senza musica, ospiti del palco di Fabrique questa volta i Moseek, freschi protagonisti di X-Factor con uno spettacolo dalla grande presenza scenica e scenografica e Frank Sent Us, un gruppo le cui esibizioni sono sempre accompagnate da una ricercata video performance.

Spazio anche alla danza con lo show del collettivo Effetto Domino che riunisce alcuni dei ballerini e coreografi più interessanti della giovane scena italiana.

Oltre a Veloce come il vento sono stati presentati i trailer di Zeta di Cosimo Alemà e Sp1ral di Orazio Guarino, oltre al primo spettacolo teatrale targato Fabrique, la dark comedy Il professionista di Tommaso Agnese.

NEWS 27-30 APRILE 2016

FORMIA FILM FESTIVAL Fabrique è stato mediapartner anche nell’edizione numero due della rassegna cinematografica guidata da Daniele Urciuolo. Nelle quattro serate, dal 27 al 30 aprile, protagonisti dieci cortometraggi, con la vittoria per Non senza di me di Brando De Sica. Fabrique ha patrocinato il premio alla Rivelazione dell’anno, assegnato alla giovane attrice di origine bielorussa Caterina Shulha (foto).

5 MAGGIO 2016

FABRIQUE E BALLROOM INTERNAZIONALI BNL D’ITALIA Spicca anche quest’anno nel vasto programma di eventi collaterali agli Internazionali BNL d’Italia di Tennis al Foro Italico la collaborazione tra Fabrique e Ballroom. Il 5 maggio serata all’insegna di musica e visual con Kerri Chandler, gigante della scena house internazionale.

DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 CINEMA TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 CAFFÈ LETTERARIO | Via Ostiense, 95 CIRCOLO CARACCIOLO | Via F. Caracciolo, 23a DOPPIO ZERO | Via Ostiense, 68 GIUFÀ | Via degli Aurunci, 38 KINO | Via Perugia, 34 KINO MONTI | Via Urbana, 47 LE MURA | Via di Porta Labicana, 24 MAMMUT | Circonvallazione Casilina, 79 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2

24-26 MAGGIO 2016

MASTERCLASS TO PRODUCERS Una masterclass per il cinema di domani. È stata la proposta di AGPCI, in mediapartnership con Fabrique, per formare i protagonisti del nuovo cinema: un workshop di tre giorni mirato a spiegare come presentare il proprio progetto a un produttore nella maniera più efficace per vederlo realizzato.

A guidare i panel di approfondimento docenti come i registi Gabriele Mainetti, Matteo Garrone e Matteo Rovere, e la casting director Beatrice Kruger.

FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO PRIMAVERA

2015

Numero

13

OPERA PRIMA

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

“Il genere è lo strumento con cui raccontare la contemporaneità”

ICONE

RUGGERO DEODATO

L’avventuriero del cinema italiano che ha ispirato Stone e Tarantino

FUTURES

VINCENZO ALFIERI

“Questo è decisamente il momento di stare in Italia”

DELL’ARTISTA DA GIOVANE

RITRATTO Oggi si esprime in teatro, nella pubblicità, in TV, sul web, al cinema. Come Stella Egitto

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 PIADE IN PIAZZA | P.zza Meda, 5 SCUOLE NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20 Milano

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL

Cortinametraggio Festival Internazionale del Film di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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