Popsophia (2012)

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Volume realizzato con il contributo di

POPSOPHIA ALMANACCO 2012 A cura di Evio Hermas Ercoli Coordinamento editoriale Laura Boccanera Progetto grafico Studio Ruggeri Editore Grafiche Ciocca

Immagini delle mostre De Pisis e il ritorno all'ordine © Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata Tutti i diritti sono riservati Il Vangelo secondo Steve Jobs © Med Store Tutti i diritti sono riservati Bartolini Ciarrocchi Morandi e gli anni 30 © Galleria Centofiorini Big Conscience © Claud Hesse, Carlo De Mattia Giò Rondas © Andrea Ebro Barbarossa Di Solo Parole © Galleria Per Mari e Monti

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Dissonanze. La città non dona luoghi © Eleonora Grilli Marchigiani Pop © Istituto C. Cingolani, Montecassiano Inside Marilyn a cura di Alessandro Icardi, Giuseppe Iavicoli, coordinamento Valeria Paniccia Due dei Sette Giorgio de Chirico e Mario Tozzi a Parigi © Artistic Visions Gallery © ArtClubStudio carrà_gobbi lirismo di-segni astratti © Contemporaneamente Arte

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CIVITANOVA MARCHE dal 12 luglio al 5 agosto 2012

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CON L’ADESIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Patrocini

Presidenza del Consiglio dei Ministri Ministero dell’Interno Ministero dello Sviluppo Economico Ministero per i Beni e le Attività Culturali Università degli Studi di Macerata Accademia di Belle Arti di Macerata Conservatorio di Musica Pergolesi di Fermo Consiglio Nazionale Forense Unione Camere Penali Italiane Ordine degli Avvocati Fondazione Marche Cinema Multimedia Assindustria

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Enti promotori

COMUNE DI CIVITANOVA MARCHE

Assessorato Cultura e Turismo

Con il sostegno di

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Enti Promotori Comune di Civitanova Marche Tommaso Claudio Corvatta Sindaco Giulio Silenzi Assessore alla Cultura Azienda Speciale Teatri di Civitanova Alfredo Di Lupidio Direttore Generale Ideazione e Direzione Artistica Evio Hermas Ercoli

Comunicazione e Relazioni Esterne Andrea Compagnucci per Esserci Laura Boccanera Emanuela Sabbatini Angelica Gabrielli Alessio Ruta Segreteria Sara Francia per Esserci Eventi Alessandra Orazi Laura Giovent첫 Mariella Ranieri segreteria teatri Coordinamento Tecnico Pio Amabili Casting Paolo Notari Angela Tassi per Flexus Eventi

Con la Collaborazione di Umberto Curi Presidente del Consiglio di Indirizzo Giorgio Bolondi Coordinatore Rassegne Scientifiche Lucrezia Ercoli Coordinatrice Rassegne Filosofiche Riccardo Minnucci Coordinatore Rassegne Musicali Gilberto Santini Direttore Artistico Civitanova Danza

Sito Internet Empix multimedia Foto e Video Freelance Video Stampa Grafiche Ciocca

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Popsophia è una manifestazione importante non solo per Civitanova Marche, ma anche per la provincia di Macerata e tutta la regione. All’interno della programmazione culturale cittadina, ne costituisce al contempo la punta di diamante e il collegamento più diretto e viscerale con la cittadinanza. Un Festival del Contemporaneo sperimentale e innovativo nello spirito, che da subito si è imposto per lo spessore dei contenuti e il prestigio degli ospiti, e che sta riuscendo nell’impegnativo intento di aprire ai civitanovesi, e ai numerosi turisti, gli argomenti più alti che il pensiero scientifico e filosofico stanno trattando in questo inizio di millennio. Una cultura declinata in chiave popolare, ma senza perdere spessore accademico e senza essere unidirezionata dall’alto verso il basso, che parla a tutti senza scadere mai nella facile scorciatoia del folclore: che è capace insomma di non sacrificare i contenuti, altissimi, sull’altare della fruibilità. Una cultura, infine, che vuole essere utile – ovvero utilizzabile -, disponibile alla rielaborazione attiva effettuata dai fruitori, che siamo tutti noi, nel nome del dialogo immediato, ovvero non mediato da mezzi di comunicazione: pratica collettiva che definisce le società più civili. Popsophia recupera l’eredità di pensiero della città del letterato Annibale Caro, del maestro di Danza Enrico Cecchetti, del pittore Arnoldo Ciarrocchi, della scrittrice Sibilla Aleramo e del poeta Antonio Santori, solo per fare alcuni dei nomi più prestigiosi che hanno vissuto e operato qui da noi, immergendola nella attualità, coinvolgendo sempre più i giovani, le associazioni e gli intellettuali cittadini, con uno spirito contemporaneamente profondo e alla mano. Ed è proprio questo spirito, profondo e alla mano, che esprime l’anima e la cifra migliore di Civitanova Marche e di noi civitanovesi. Una città che anche in un periodo di grande difficoltà economica, con un bilancio comunale sofferente e di conseguenza con un grande sforzo, continua a riservare alle Idee – stavolta scritte con il maiuscolo – il posto di primo piano che meritano. Mettendo in correlazione i maggiori pensatori con la vita di tutti i giorni, per aiutarci a risolvere, o quantomeno affrontare un po’ meglio, le curiosità intellettuali e i problemi personali di ciascuno di noi. Tommaso Claudio Corvatta Sindaco di Civitanova Marche

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Enti promotori

COMUNE DI CIVITANOVA MARCHE

Assessorato Cultura e Turismo

Con il contributo di

Main sponsor

Official sponsor

Media partner

Sponsor

Sponsor del gusto

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È con grande soddisfazione e piacere che andiamo ad aprire la seconda edizione di Popsophia, il Festival del contemporaneo che, ereditato dalla precedente amministrazione, abbiamo cercato di rendere ancora più vicino alla sensibilità di Civitanova, assecondando e amplificando quella vocazione propria della nostra città a proiettarsi in avanti, a guardare al nuovo, senza dimenticare di indagare il passato e il presente. Un’edizione ricca e articolata, pur nelle ristrettezze economiche e nelle difficoltà di un bilancio che abbiamo trovato bloccato, che si snoderà nei luoghi più belli e significativi della città. Sia l’amministrazione che la direzione artistica, in stretta sintonia, si sono adoperate in modo costante e risoluto per accrescere il progetto culturale e offrire così un appuntamento ricco di contenuti, stimolante, innovativo, provocatorio, con sorprendenti contaminazioni e contributi creativi inediti sull’arte e sul pensiero, immagine e specchio di una società in movimento. Non solo un format da riempire, ma l’anima stessa di una città che ha voglia di rinascere, di aprirsi al mondo, di espandersi, di liberare quella vivacità, quel dinamismo culturale rimasti per troppo tempo soffocati, ma anche pronta e disponibile ad accogliere e assorbire sempre nuovi stimoli e suggestioni. Il successo della prima edizione è un punto di partenza. L’obiettivo ora è quello di rendere Popsophia sempre più rappresentativa della nostra città, coinvolgendo insieme le menti migliori del pensiero contemporaneo e artisti e intelletti del nostro territorio, senza confini senza steccati di alcun tipo. Auguro a tutti i civitanovesi di sentire il Festival come proprio. Il mio saluto è anche un invito a lasciarsi coinvolgere, a farsi toccare l’anima, ad entrare in questo vortice che è Popsophia, un’iperbole di parole, di suoni, di riflessioni, di visioni, di incontri. Giulio Silenzi Assessore alla Cultura del Comune di Civitanova Marche

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Hanno aderito Fulvio Abbate Monia Andreani Fabio Ancarani Claudia Attimonelli Luca Beatrice Remo Bodei Giorgio Bolondi Massimo Cacciari Cesare Catà Piero Cesanelli Arnaldo Colasanti Giobbe Covatta Umberto Curi Antonio De Signoribus Massimo Del Papa Angela D’Ottavio Massimo Donà Paola Dubini Adriano Fabris

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Maurizio Ferraris Eugenio Finardi Emanuele Frontoni Federico Fubini Andrea Fumagalli Umberto Galimberti Alessandro Gambini Enrico Ghezzi Roberto Giacobbo Pierfrancesco Giannangeli Maria Rosaria Gianni Giulio Giorello Enrico Giovannini Gene Gnocchi Antonio Gnoli Angelo Guerraggio Ignazio Licata Laura Anna Macor Vito Mancuso Roberto Manzocco

Pietro Marcolini Giacomo Marramao Rosetta Martellini Andrea Mascherin Pier Luigi Masini Elio Matassi Pietro Modiano Giovanni Morandi Guido Moretti Emidio Morganti Valentina Nappi Salvatore Natoli Renato Nicolini Manuel Orazi Paolo Pagliaro Andrea Panzavolta Salvatore Patriarca Alcide Pierantozzi Pier Luigi Pizzi Emanuela Prandelli

Antonio Preziosi Stefano Poggi Giuliana Poli Massimo Raffaeli Matteo Ricci Francesca Rigotti Igor Righetti Simone Regazzoni Stefano Rodotà Andrea Rurale Roberta Sala Dario Salvatori Isidoro Spernanzoni Valerio Spigarelli Elettra Stimilli Lucia Tancredi Massimo Teodori Fabrizio Tonelli Piero Valdiserra Gianni Vattimo

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Tra le numerose proposte culturali civitanovesi s’inserisce, di buon grado, anche quella di poter ammirare alcuni dei grandi capolavori dell’arte moderna italiana, ubicati nella suggestiva cornice dell’Auditorium di Sant’Agostino a Civitanova Marche Alta, che vanta una lunga e gloriosa tradizione di mostre. De Pisis e il ritorno all'ordine è una delle mostre, in collaborazione con la Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata, che concorre al ricco e variegato programma delle iniziative estive promosse dall’amministrazione comunale di Civitanova Marche. Partendo dall’eclettica e poliedrica figura di uno dei maggiori protagonisti della pittura italiana, Filippo De Pisis, il percorso dell’esposizione intende evidenziarne la differenza nodale rispetto ai suoi contemporanei e nel contempo mira a dare conto di quella compagine di artisti che ruotano all’interno del movimento, meglio conosciuto come Novecento Italiano, teorizzato da Margherita Sarfatti, e coevo al nostro ferrarese. L’oggetto della mostra ha consentito di dare avvio, grazie ad un consistente prestito di opere, alcune delle quali poco conosciute al grande pubblico, a una proficua collaborazione con il Museo Palazzo Ricci e con la Fondazione Carima che ne detiene la proprietà, intensificando quell’impegno da tempo profuso nella valorizzazione e nella promozione delle ricchezze del territorio provinciale. L’occasione di questa rassegna espositiva, inoltre, mi fornisce l’opportunità di esprimere la mia gratitudine all’amministrazione comunale civitanovese per l’attenzione da sempre riservata alla Fondazione che presiedo e alla raccolta di arte italiana del Novecento custodita nello storico edificio maceratese. Franco Gazzani Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata

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Collaborazioni culturali:

Ordine degli avvocati di Macerata · Fondazione Marche Cinema Multimedia· Conservatorio Statale di Musica ‘G. B. Pergolesi’ · Formath Project · Istituto Italiano per gli Studi Filosofici · Musicultura · Alexander Museum Palace HotelPesaro · Associazione Culturale ‘Antonio Santori’ · Associazione Fango & Assami Production · Mukkake Agency · Scuola di Musica ‘Liviabella’ · Associazione Astrofili ‘Alpha Gemini’ · Teleturrudi Scuole: Circolo Didattico via Tacito · C. D. Via Regina Elena · Istituto Sant’Agostino · I. I. S. Leonardo Da Vinci · I. T. C. G. Filippo Corridoni · I. I. S. Virginio Bonifazi Case Editrici: Bollati Boringhieri · Bruno Mondadori · ev · EUM, Edizioni Università di Macerata · HACCA · il lavoro editoriale · Liberilibri · Paravia · Rrose · Quodlibet · Lirici Greci · Comunication Project Librerie: Arcobaleno · Mondadori · Ranieri Contriauti: Leonardo Accattoli · Mariarosa Berdini · Diego De Carolis · Maurizio Croceri · Nicola Di Monte · Walter J. Cassetta · Alessandra Fel · Antonio Frapiccini · Stefania Ghergo · Elena Grossi · Chiara Levantesi · Luca Macellari · Monica Martarelli · Carla Mascaretti · Elisa Mori · Federica Nardi · Manuel Orazi · Carla Paniconi ·Mariella Ranieri · Vando Scheggia · Carla Sagretti · Silvia Santarelli · Giacomo Saracco · Stefania Scaradozzi · Giusy Sorichetti · Don Alberto Spito · Manuela Stizza · Helen Zazzini Staff tecnico, macchinisti: Enzo Cafini · Mirko Paoloni Personale aiuti tecnici: Costantino Arragoni · Pacifico Fagioli · Vincenzo Giustiniani · Roberto Sbaffoni · Daniele Tramannoni · Lorenzo Zucchini Partner: ROAR Magazine

Partner tecnici:

Partner del gusto:

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L’arte è l’espressione più rapida del pensiero. Attraverso le sue forme e i suoi strumenti interpreta il reale e lo trasfigura, invia messaggi, legge la contemporaneità. Ecco perché per la seconda edizione di Popsophia le “contaminazioni” artistiche proseguono il percorso già inaugurato nel 2011 nel solco di una lettura se possibile ancora più ricca e variegata. Le mostre raccolte in questo Almanacco suggeriscono suggestioni ed evocazioni del pensiero moderno, spaziano dagli anni 30 ai linguaggi più sperimentali. Perché forse anche in un pixel del computer e nel segno grafico del fumetto esiste più Arte e genialità che in decine di opere d’arte. Le avanguardie del primo 900 hanno scardinato il concetto di bellezza legata alla classicità, ai criteri di armonia, di misura, per “sporcarsi” con il mondo, con il “popolare”, confutando l’idea che ciò che è popolare è “basso” e mediocre. L’estetica del secolo scorso ha mutato i criteri interpretativi: l’arte è la cartina tornasole per leggere la società, i cambiamenti tecnologici, la politica. Oggi, per dirla con le parole di Bauman, viviamo in una società liquida, fluida, dove i confini si fondono, dove tutto è veloce, dal twitt di aggiornamento del proprio status, fino alla cucina. La filosofia, la moda, l’arte, la musica: tutto fa parte di un unico grande blob che solo nella complessità può dare immagine e significato all’unitarietà del tutto. Il processo estetico e artistico da seguire doveva quindi inglobare la contaminazione fra le arti, la fotografia, la tecnologia touch, un omaggio alla vecchia e sentimentale pittura, l’installazione. E tutto questo c’è anche in Popsophia 2012. “Il Vangelo secondo Steve Jobs” rappresenta l’apice di questa lettura sperimentale: dalla mela come simbolo della conoscenza a “marchio” per iniziati, la filosofia della Apple e il think different possono essere considerati emblema di un linguaggio che si contamina con tecnologia, marketing e pensiero laterale. Così pure come l’installazione Big Conscience che attraverso il rapporto interattivo con lo spettatore si colloca in un’area che potremmo definire di neuroscienza o neuroarte. E come non fare un’incursione anche nel mondo del web: nel blob della rete nascono fenomeni che attraverso il pensiero, senza la necessità di un volto o di un’identità sono capaci di catalizzare l’attenzione delle masse, come Giò Rondas, misterioso fenomeno dell’etere che si svela in prima nazionale proprio a Popsophia. Accanto a questo percorso più sperimentale e di ricerca ci sono le grandi mostre tradizionali che quest’anno focalizzano la lente pop filosofica sugli anni 30. “De Pisis e gli anni 30” indaga l’aspetto dandy ed eclettico del pittore estense, a cavallo tra la scoperta della realtà e la sospensione magica. E poi ancora un omaggio ai grandi incisori civitanovesi e non solo, Ciarrocchi, Bartolini e Morandi. Ci si sposta di qualche decennio più avanti con la mostra “Di solo parole” alla galleria Per mari e monti, dove pennello e colori lasciano il posto alla smaterializzazione dell’arte, rimangono, appunto solo le parole. Incursione nel mondo del fumetto, la nona arte che irrompe a Popsophia grazie ad un civitanovese illustre, più conosciuto nel panorama nazionale che locale, Mauro Cicarè che per la prima volta espone nella sua città le tavole di “Fuori di testa” e “Il Morgante”. Architettura e fotografia si incontrano invece in Di-sonanze, percorso fotografico che pone interrogativi sulla città post metropolitana e sulla necessità di un rapporto più simbiotico tra uomo e luoghi. E infine un omaggio, il più pop per eccellenza: “Marchigiani pop”, esperimento dell’istituto Cingolani di Montecassiano che lega i volti dei marchigiani famosi all’opera di Andy Warhol, e li ritrae come avrebbe fatto il celebre intellettuale de la Factory se oggi fosse qui. Un percorso pensato in maniera eterogenea, perché, come diceva Claes Oldenburg “le distinzioni sono una malattia della civilizzazione”. Evio Hermas Ercoli Direttore artistico

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INDICE Elogio della Popsophia

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De Pisis e il ritorno all'ordine

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Bartolini, Ciarrocchi, Morandi

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carrĂ _gobbi

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Due dei Sette

49

Il Vangelo secondo Jobs

63

Big Conscience

75

Mondo Parallelo

81

Giò Rondas

91

Di solo parole

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Marchigiani Pop

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Dissonanze

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Inside Marilyn

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La filosofia è la perversione dell’amore per il sapere

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Elogio della Popsophia La nottola di Minerva “La filosofia – ammonisce Hegel – arriva sempre troppo tardi.” È la nottola di Minerva. Inizia il suo volo sul far del crepuscolo, appare dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Il presuntuoso proposito della Popsophia è ribaltare questa lapidaria asserzione. La fortunata formula hegeliana, distorta nei suoi originali presupposti, è alla base del pregiudizio che grava sulla filosofia. Siamo abituati a pensare che il filosofo e i suoi sofismi entrino in scena quando le cose sono ormai bell’e fatte. Le sentenze della filosofia sarebbero, cioè, nient’altro che complicati ragionamenti utili a riflettere sui massimi sistemi del passato, ma profondamente inadatti ad affrontare i problemi e le esigenze della vita presente. Un ragionamento riassunto bene dall’antica massima primum vivere deinde philosophari. Oggi, con questo pregiudizio, apriamo il Simposio di Platone o la Metafisica di Aristotele. Capolavori del pensiero che ci parlano di un mondo che è stato. Non solo. I pochi che riescono a decifrare le verità rivelate sono destinati, come eremiti del pensiero, a vivere nascosti, lontani dalla realtà quotidiana. Un pregiudizio, letteralmente un “giudizio che viene prima”, che precede l’incontro con il reale e anticipa la prova dei fatti, non è necessariamente negativo in sé. I pregiudizi sono indispensabili per ogni comprensione. Sono la nostra bussola: derivano dalle nostre esperienze personali, raccolgono la tradizione culturale in cui ci siamo formati, orientano le nostre scelte e ne anticipano le conseguenze. Senza pregiudizi non si aprirebbe nemmeno un orizzonte di senso in cui sia necessario leggere un libro di filosofia. Di conseguenza, non è possibile (e nemmeno auspicabile!) cancellare tutti i pregiudizi per arrivare a una primigenia tabula rasa, al grado zero di ogni esperienza filosofica. La filosofia è anche la storia della filosofia che, per lungo tempo, si è svolta nelle aule universitarie, lontana dal

brusio sviante del mondo. Attenzione, però! Come per tutte le medicine, ci sono le controindicazioni. I pregiudizi, cioè, sono necessari, ma possono diventare pericolosi. Proprio come i farmaci, sono duplici: sono un rimedio e, insieme, un veleno. I pregiudizi crescono uno sopra l’altro. All’inizio sono una lente di ingrandimento che facilita la lettura; alla fine diventano una patina deformante che impedisce l’atto stesso del vedere. Questa filosofia crepuscolare si è allontanata dal reale fino a diventarne la parodia accademica. Una “filastrocca di opinioni” lontana dalla sua origine autentica. Incapace non soltanto di cogliere lo stupore e l’orrore (il thauma di cui parla Aristotele) che caratterizza l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà, ma perfino di confrontarsi fruttuosamente, come pretendeva Hegel, con il suo immediato passato. Il pharmakon Che fare? – si sarebbe chiesto qualcuno più attento alla praxis che alla theoria. Se i pregiudizi diventano una prigione che ci rende recettori passivi, come liberarsene? Di certo non basta la consapevolezza della malattia. Bisogna trovare un rimedio alternativo che ci liberi dagli effetti collaterali della cura precedente. Soltanto a questo punto possiamo introdurre il termine intorno al quale ci stiamo implicitamente interrogando: “Popsophia”. Questo strano neologismo è il pharmakon, l’antidoto contro l’avvelenamento della filosofia che abbiamo appena descritto. Certo, è anch’esso un medicinale, ha molte controindicazioni e avvertenze, ma è utile e necessario per debellare (almeno temporaneamente) questa odiosa malattia. La Popsophia è in grado, cioè, di rompere il paradigma, di rovesciare la forma mentis che ci tiene chiusi in una gabbia culturale asfittica. Ma che cosa significa Popsophia? Letteralmente, è un ossimoro. L’ossimoro è una figura retorica che accosta termini opposti; in greco vuol dire “acuto ottuso”, “furbo stupido”

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o, se ci concediamo una traduzione libera, “acuta follia”. La pop-filosofia, quindi, è un’acuta follia, l’accostamento di due parole che il pregiudizio ha mantenuto separate. Un’unione spregiudicata che produce una novità, una tensione. Ed è in questo scontro/incontro che si rompe la consuetudine e si rovescia il paradigma. La relazione illecita tra il pop e la filosofia rimette in discussione le definizioni, costringe il pregiudizio a sporcarsi con la realtà. La Popsophia è una calamita gettata in un recipiente pieno di aghi di ferro: nascono configurazioni insospettate e stimolanti. Inizia così un viaggio rischioso tra le meraviglie e i pericoli della contemporaneità. Il percorso è tutt’altro che lineare, è ricco di insidie, anche per il timoniere più esperto. Ma il filosofo che non ha paura della contemporaneità si espone, esce in mare aperto e tenta l’impresa con le solide armi del pensiero. Se la vecchia filosofia non ha più le bussole che orientavano il suo viaggio nel passato, deve creare nuovi strumenti adatti per navigare in mare aperto. A Civitanova Marche nel 2011 è nato il primo festival del contemporaneo interamente dedicato alla Popsophia. E quest’anno, con la seconda edizione, continua a farsi sostenitore di questa rivoluzione copernicana. Nelle piazze, nei chiostri e nei teatri della cittadina marchigiana il pop racconta la filosofia. La moda, la pubblicità, il cinema, i telefilm, i fumetti, la musica, il calcio hanno la stessa dignità dei classici del pensiero. I pregiudizi accademici li descrivono come manifestazioni banali e superficiali, immeritevoli di attenzione. Al contrario, sono il veicolo delle domande e dei problemi che da sempre inquietano l’uomo. Popsophia discerne, in mezzo alle infinite sollecitazioni del presente, le esperienze autentiche che attraversano, non viste, la nostra vita quotidiana. Interroga la contemporaneità e, se necessario, scava nella memoria catodica che costituisce l’odierno immaginario mitopoietico. La filosofia accademica, se vuole entrare in quest’arena, è costretta a trasformarsi. Deve uscire dalle aule universitarie e confrontarsi con il grande pubblico. Tornare a discutere nell’agorà, riscoprire il dialogo con le urgenze del contemporaneo. Non può più sottrarsi alle domande scottanti della normalità. Come ricorda il filosofo Umberto Curi: “Nelle sue origini, e nel suo statuto più proprio, la filosofia è pop-sophia”.

Esercizi di stile popsofico La filosofia indaga il pop. Il pop racconta la filosofia. Questo principio di contaminazione spudorata tra pensiero critico e fenomeni popolari ha ispirato la rassegna Pop Filosofia: non basta teorizzare un nuovo metodo filosofico, bisogna metterlo alla prova come strumento pratico di conoscenza. Così filosofi coraggiosi e personaggi poliedrici si mettono in gioco per una carrellata inedita di esercizi di stile... popsofico. Il programma è un arcipelago di argomenti diversi che abbraccia tutti i fenomeni del contemporaneo, dal pop porno al cinema d’autore, dalle soap opera alle partite di calcio. Si parte il 14 luglio con una serata destinata alla Pornosophia. Simone Regazzoni, autore del discusso Pornosophia, filosofia del pop porno, e Valentina Nappi, un’attrice hard con la passione per la filosofia, si cimenteranno in un serrato dibattito sul tema più scabroso dell’attualità. La seconda serata è dedicata a un fenomeno della cinematografia mondiale: David Lynch e la filosofia. Domenica 15 luglio Enrico Ghezzi, il critico cinematografico creatore di Blob, e Roberto Manzocco, autore di Twin Peaks e la filosofia, si confrontano con le pellicole che hanno inquietato una generazione. Sabato 21 luglio un’altra serata dedicata alla contaminazione tra le arti: Soundtrack, la musica al cinema. Massimo Donà, abituato a contaminare filosofia, musica e cinema, e Andrea Panzavolta, critico cinematografico e compositore, rievocano le colonne sonore rimaste indimenticabili. Che cosa c’è di più popolare (e di più filosofico) del fenomeno “calcio”? Domenica 22 luglio: Filosofia del calcio con il filosofo Elio Matassi, appassionato di etica calcistica, il giornalista Massimo Raffaeli e l’arbitro Emidio Morganti. Una serata da Febbre al 90°. Sabato 28 luglio, invece, si parla di un’altra ritualità contemporanea: la soap-opera. E se gli spunti filosofici venissero proprio dagli sceneggiati che vediamo ogni giorno (vergognandoci un po’)? Francesca Rigotti accetta la sfida e si cimenta con “Un posto al sole” e altre piccole cose della vita. Le trame ripetitive di alcune serie-tv, però, ci dicono una cosa: le favole non passano mai di moda. Per questo, la serata di domenica 29 luglio è dedicata a una delle fiabe più simboliche e significative: Biancaneve. Stefano Poggi ricostruisce il senso filosofico di questa antica leggenda consacrata nel nostro immaginario dal cartone della Disney. Concluderà la rassegna il giornalista-filosofo Antonio Gnoli 18

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con un intervento su I filosofi e la vita. Anche i pensatori che hanno cambiato la storia hanno compiuto scelte personali condannabili e imbarazzanti... Insomma, per la Pop Filosofia niente è intoccabile! Filofiction Ma la mutazione introdotta dalla Popsophia non finisce qui. La philosophia - letteralmente “amore per il sapere” - si è trasformata in philofiction - in “amore per la fiction”. Il pensiero critico, invece di nascondere la testa sotto la sabbia, affronta queste novità e ne mette in luci vizi e virtù. Popsophia dedica un’intera rassegna all’indagine filosofica di tutte le declinazioni contemporanee della fiction: dal best-seller al reality, dalla serialità televisiva alla web-tv.... Il 14 luglio Lucia Tancredi e Monia Andreani si confrontano con la freddezza erotica del romanzo contemporaneo: Il pudore, il vizio della letteratura. Se la spudoratezza è diventata una virtù, il pudore diventa lo strumento seduttivo più temibile. Domenica 15, invece, si parla della saga più amata degli ultimi anni: Filosofando con Harry Potter. Simone Regazzoni e Laura Anna Macor, giovani filosofi appassionati del maghetto, ci guideranno in un mondo dove le grandi questioni della filosofia sono affrontate in punta di bacchetta magica. Dalla letteratura alla televisione. Il 22 luglio è il turno della Filosofia di Maria. Salvatore Patriarca, autore di un saggio filosofico su Maria De Filippi, svela il segreto della popolarità di programmi cult come Uomini e donne, Amici e C’è posta per te. Il successo delle trasmissioni di Fantapolitica è esplosivo. Massimo Teodori il 23 luglio parla dei vizi e delle virtù della politica ai tempi di Porta a Porta e di Parks and recreation. Quando si parla di fiction contemporanea, non si può dimenticare la surreale atmosfera delle trasmissioni quotidiane di “approfondimento”. Ma Fulvio Abbate, ospite fisso della trasmissione di La7 Ahi, Piroso!, è una voce dissonante, l’incarnazione del giornalista popsofico. I suoi interventi sono un concentrato di cinismo e anarchia, dove alto e basso si fondono in una risibile serietà. Il 28 luglio parlerà della sua geniale creazione: Teledurruti, una tv monolocale. Per concludere un appuntamento per i telefilm addicted: To be continued... Il 29 luglio Claudia Attimonelli e Angela D’ottavio, curatrici di una raccolta di saggi sulla serialità americana, ci mostreranno come le serie-tv hanno cambiato il nostro modo di pensare. I modelli estetici, familiari

e sociali sono cambiati (e magari anche migliorati) grazie a Mad Man, Sex & the city o The L word? Insomma, con la Popsophia il pregiudizio dal quale siamo partiti risulta irrimediabilmente sconfitto. Lungi dal rimanere una forma astratta di sapere che si accapiglia sulle ceneri del reale, la popfilosofia è un esercizio d’intelligenza critica che richiede emulazione. Stimola la discussione e scuote le acque paludose del dibattito culturale. È questa la terapia che ci insegna a vigilare sul senso comune, a verificare la consistenza delle nostre convinzioni, a lottare contro la resistenza rocciosa dell’ovvio e dell’abituale. Lucrezia Ercoli

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De Pisis e il ritorno all'ordine

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A cura di Evio Hermas Ercoli Coordinamento Elisa Mori Fondazione Cassa di Risparmio della provincia di Macerata Opere provenienti da Fondazione Cassa di Risparmio della provincia di Macerata Collezioni private Testo in catalogo Emanuela Sabbattini

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Ordine e disordine “È vissuto vicino a noi, in un tempo troppo distratto per accorgersi della eccezionalità di questo personaggio […]. Opera di poesia, l’arte pittorica di de Pisis, tra quelle che più hanno attinto e derivato dalla realtà, proprio per staccarsi da questa ed elevarsi, a prezzo di fantasia e di dolore, sul piano dell’immaginazione” -Giuseppe Raimondi“Lo avete incontrato a Vicenza o a Ferrara, sul crepuscolo, con la grande corniola al dito. A Vicenza vi avrà parlato del Palladio con quel suo accento nasale di prelato garbato. A Rimini di farfalle. Lo avrete certamente incontrato a Venezia su Riva degli Schiavoni come un eroe di De Musset, vestito di velluto, con un colombo sulla spalla. Dimesso e fastoso, con capi di corredo introvabili: l’ombrello verde dei mercati romagnoli, le sciarpette a doppia faccia, la tabacchiera a forma di stivaletto, e camicie di colore tenue sottratte a un fallimento del Secondo Impero.” Questa l’immagine che Raffaele Carrieri dà di Filippo De Pisis il 16 gennaio del ‘41 sul Tempo. Un anno dopo, Ettore Della Giovanna su Stile, aggiunge un altro tratto dell’artista: “Cortesissimo per educazione artistica e per retaggio atavico, onora l’ospite offrendogli liquori rari, ma si occupa soltanto di se stesso: quando mostra le sue cose, le mostra per ammirarle egli stesso”. In due testimonianze, ecco delinearsi una figura complessa, quella certamente di un dandy con consuetudini da umanista, da gentiluomo dell’Ottocento. E al tempo stesso un teatrante, che dalle foto dell’epoca appare ritratto in bizzarri ed eccentrici travestimenti. Eclettico e poliedrico, in ordine di tempo prima poeta e poi pittore, esteta, poseur, innamorato del bello efebico, incantato dalla natura, Filippo Tibertelli, che prenderà il nome di de Pisis, (Ferrara, 11 maggio 1896 – Milano, 2 aprile 1956 ), per omaggiare la nobile casata pisana di discendenza, è un esponente sui generis di quel movimento artistico che prende il nome di Novecento Italiano. Teorizzata da Margherita Sarfatti, la corrente proclama, chiuso il periodo degli avanguardismi, un ritorno alla

costruzione chiara e ferma di una bellezza ideale, legata alla tradizione, nella quale la forma semplice, come scrive la Sarfatti, “anche se non reale deve essere vera”. Sono gli anni che fanno da cuscinetto tra i due conflitti mondiali. Il disordine accumulatosi negli anni della prima grande guerra e la perdita di riferimenti spinge verso l’esigenza fisiologica di un “ritorno all’ordine”. La necessità di ricostruire le proprie identità culturali trova efficace risposta nel recupero dei repertori classici, nel ritorno alle tecniche e alle iconografie della tradizione. In Italia il diffuso sentimento prende strade diverse ma tutte parallele. Se la rivista milanese di Mario Broglio “Valori plastici” del ‘22 si pone come organo di ricerca delle origini dell’arte italiana nel tentativo di elaborare un linguaggio nazionalistico, il movimento dei novecentisti della Sarfatti sceglie come riferimento estetico il modello classico, la pittura rinascimentale e medievale. Il ritorno all’ordine accomuna tutti gli artisti che intendono contrapporsi agli eccessi delle Avanguardie ma convoglia in sé personaggi talmente diversi da sembrare inconciliabili. È il 1926 quando, a Milano, si inaugura la Prima Mostra dei Novecentisti, e de Pisis vi partecipa con tre opere. Eppure, definirlo in una categoria, sia essa una corrente così eclettica, pare un atteggiamento pressappochista. Il suo fare artistico è sciolto da vincoli di scuola, aperto al nuovo e alle incursioni dal passato, in bilico tra nostalgia e mascheramento. Il ritorno all’ordine per De Pisis è una tendenza ordinata al disordine, un volgersi al figurativo che ha ben introiettato l’esperienza impressionista parigina per poi immergere l’ordinata realtà in un guazzabuglio di colori che compongono ordine e disordine con una regia quasi musicale. Si scrive dei suoi dipinti di vasi con fiori: “I fiori, per loro natura, sono frantumati, dispersivi, portati alla confusione, a sconfiggere cioè una salda intelaiatura di piani. Da qui l’inevitabile tentazione, nell’affrontare un tema floreale.” La tendenza all’innamoramento artistico per ciò che naturalmente appare confuso e disordinato, le forme favoleggiate, l’immergere le cose in luci artificiali

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accese di colori improbabili, la tavolozza distonica. La sua esperienza del mondo è resistente alla memoria ma colorata di magia. Persino le nature morte, i fiori, scrutati da una prospettiva che si fondi con la quotidianità delle cose, i colori e profumi che paiono evocazioni del ricorso, si manifestano quasi come movimenti allegorici dell’esistenza dell’uomo, o più propriamente, come una variazione sul tema del reale, plastilina che modifica i dati, siano essi colori e luci, sino a renderli precari. Tutto pare far muovere il marchesino pittore nel mondo incantato del Realismo Magico teorizzato dallo scrittore Massimo Bontempelli, un movimento, questo, che si allarga a macchia d’olio nelle tendenze letterarie di quel tempo. “L’uomo - scrive Bontempelli - può ottenere la maraviglia per due vie: scoprendo le leggi delle cose oppure quando con l’immaginazione riesce a mescolare e sovvertire le leggi scoperte”. E de Pisis la maraviglia la riceve dal mondo e la cede al mondo. Le consuetudini le sovverte continuamente, non solo con una poetica mai accademica, ma anche attraverso una filosofia estetica che fa sì che l’aspetto esteriore rispecchi fedelmente quello interiore: da perfetto dandy, la forma è anche sostanza. E allora potrebbe apparire incongruente l’osservazione che lo stesso artista fa nel 1921 dopo aver visto “Glauco” al Teatro Argentina di Roma: “Mi domandavo per quale strana legge la folla è così suscettibile alla suggestione e come si lascia commuovere anche dal cartone colorato e dai fantocci, e come nei più manca quel senso di ironia che non permette una vera commozione se non davanti alla voce spontanea e pretta o a quella modulata con vera arte.” Il punto è che la forma si colora di magia solo se filtrata dall’arte autentica. Quì la corrispondenza forma-sostanza. E l’arte per de Pisis non predilige soggetti alti o bassi. In questo forse si esprime popsophicamente il pittore. Sul piano formale l’artista ha voglia di impossessarsi dell’intero creato: tutto diventa onorevole, se toccato dal genio dell’artista. E la stessa esecuzione non accademica ma intrisa della confusione contemporanea si fa popsophica: paesaggi, nature morte, figure umane si stagliano sulla tela con pennellate lievi, sincopate e luminose, la cui apparente fragilità è contributo essenziale all’evocazione poetica. Parafrasando Roberto Salvini: “Quella di de Pisis non è eleganza esteriore, relativa al soggetto, è una raffinatezza tutta spirituale”. Il bello non è nell’oggetto scelto ma nella capacità di cogliere quasi spiritualmente, una bellezza oltre natura. La forma come sostanza. Prosegue quest’anno con De

Pisis il discorso aperto lo scorso anno con la filosofia del Bello e il lavoro di ricerca estetica sui temi del dandysmo promossa con la mostra,“D’Annunzio segreto”. Emanuela Sabbatini

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Filippo De Pisis, Chiesetta a Cortina (1925), olio su tela, cm 64 X 49,5 - Collezione Martarelli

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Filippo De Pisis, Vaso di fiori (1933), olio su tela, cm 100 x 74,5 - Collezione Martarelli

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Filippo De Pisis, Natura morta con ostriche e grappolo d’uva (1932), olio su tela, cm 38 x 46 - Collezione Martarelli

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Filippo De Pisis, Modello in riposo (1946), olio su tela, cm 38 x 46 - Collezione Martarelli

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Filippo De Pisis, Vaso di fiori in un interno (1947), olio su tela, cm 61 x 50 - Collezione Martarelli

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Filippo De Pisis, Natura morta (1949), olio su tela, cm 60,5 x 52,5 - Museo di Palazzo Ricci

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Filippo De Pisis, Figura di donna seduta (1940), acquerello su carta, cm 50 x 38 - Museo di Palazzo Ricci

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Filippo De Pisis, Natura morta con bottiglie e vasi (1934), olio su tela, cm 75 x 51 - Museo di Palazzo Ricci

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Virgilio Guidi, Donna pensosa (1941), olio su panno nero, cm 56 x 46 - Museo di Palazzo Ricci

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Giorgio De Chirico, Paesaggio di Napoli (1930 - 1935 c.), olio su tela, cm 30 x 39,5 - Museo di Palazzo Ricci

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Carlo CarrĂ , Spiaggia o Marina con capanni (1955), olio su tela, cm 50 x 60 - Museo di Palazzo Ricci

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Arturo Martini, Torso di giovinetto (1928), bronzo, cm 77 x 20 x 28 - Museo di Palazzo Ricci

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Massimo Campigli, Bozzetto (1940 c.), olio su tela, cm 81 x 99 - Collezione privata

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Arnolfo Crucianelli, Norma (1941),olio su tela, cm 75 x 60 - Collezione privata

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Mario Sironi, Gli amanti (1931), olio su cartone telato, cm 54,5 x 44,5 - Museo di Palazzo Ricci

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Giorgio Morandi, Vaso di rose (1947), olio su tela, cm 18,5 x 17 - Museo di Palazzo Ricci

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Leonardo Dudreville, Studio carattere o Testa d’uomo (1921), olio su tavola, cm 37x 27 - Museo di Palazzo Ricci

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Bartolini, Ciarrocchi, Morandi Paesaggi all’acquaforte

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Galleria Centofiorini via Nazario Sauro 12 Civitanova Marche A cura di Giorgio Luzi e Marta Silenzi Testo in catalogo Marta Silenzi Opere di Luigi Bartolini Giorgio Morandi Arnoldo Ciarrocchi

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I cantori della natura Ci sono terre ricche di panorami, vedute di campagna, scorci paesaggistici genuini, atemporali, che non si confondono con discorsi futuristici di pannelli solari ed energie rinnovabili, che mantengono un’aura d’Arcadia, evocano i calori diurni delle stagioni, gli odori in salita dai terreni, i suoni e i mormorii della natura diffusi dentro silenzi infiniti e distanze profondissime. L’Italia centrale preserva svariati percorsi agresti di vita rurale in cui recuperare sane sensazioni bucoliche e solipsismi emozionali, lunghi cammini per nuovi situazionisti. Lo stare all’aria aperta è connaturato all’uomo, influisce sugli umori, amplifica il suo sentire: ecco la ragione della scelta del plein air, quel calarsi nella terra e tra le piante di pittori e poeti, dagli Impressionisti a Walt Whitman, dai Macchiaioli a Gabriele D’Annunzio. Se poi si passa all’incisione le cose si fanno magnifiche ed intime. Molti maestri si cimentano nell’incisione, scegliendo via via le xilografie, le litografie, le incisioni dirette, con le spine del bulino o della puntasecca, graffianti, dettagliate, da cesellatori; o quelle indirette: l’acquaforte, l’acquatinta, la vernice molle. L’acquaforte è tra le più antiche e le più amate. Molti pensano alle incisioni come ad un’arte minore. Il problema lo crea il pensiero della riproducibilità, la tiratura, il fatto che possano esserci più esemplari insinua l’idea che non siano opere originali, e certo ci sono stati casi clamorosi di fogli firmati in precedenza su cui sono state applicate stampe non autentiche, ma qui, e nella mostra che vado a presentare, parliamo di una squisita ricerca di purezza e perfezione del disegno perseguita con la più antica tecnica calcografica, che per eccellenza genera opere tra le più raffinate e di cui le Marche sono punto nevralgico grazie alla presenza della rinomata Scuola del Libro di Urbino. Tra gli incisori se ne sono scelti tre dei più importanti, tra le loro incisioni quelle di soggetto paesaggistico, per celebrare il ricordo di luoghi amati, per mettere a confronto gli stili e la crescita incisoria e per mostrare quanto vissuto e sensibilità possono celarsi dietro segni, morsure e stampe. Bartolini e Morandi condividono lo stesso periodo storico. Bartolini e Ciarrocchi le origini marchigiane. I loro nomi s’intrecciano e così la loro arte.

Luigi Bartolini (Cupramontana 1892 - Roma 1963), temperamento impetuoso, creatività multiforme e inarrestabile, è un artista sanguigno, libero da ogni vincolo, che preserva una razionalità compositiva entro la quale però si muove spontaneo, cogliendo l’attimo della parola scritta come della tinta scelta, e così pure del segno impresso: se ne va nelle zone di campagna con le lastre sottilissime nella sacca per usarle una dopo l’altra in progressione, anche al rovescio, battendosi “come un cavaliere di ventura, disegnando”, fino ad ottenere la figurazione migliore, da completare in studio con una morsura incauta, nella quale spesso brucia le dita, per rifinire la composizione con la punta delle forbici o del compasso. È un perfezionista che se ne infischia della metodologia e persegue la sua perfezione; è un passionale perso nell’incanto della sua visione di boschi, di case e di fonti con le lavandaie, paesaggi semplici e sentimenti forti, resi col guizzo del tratto, sempre più rado, schizzato, vibrante e nervoso, con grandi respiri di bianco e indagini di luce. Le acqueforti di Bartolini presentate in mostra vanno dal 1921 al’42 e indicano come l’innata sapienza compositiva, che rifiuta la meditazione sul disegno, passi ad ariosità e sintetismi sempre maggiori, coniugando tenerezze ed asperità del linguaggio, e rimanendo tuttavia costante nell’affetto per il paesaggio marchigiano, un po’ ricordato un po’ immaginato anche a distanza, sempre vagheggiato con ardore e insieme cura affettiva, entro i due estremi emozionali caratteristici di questo artista di rara qualità ed originalità, uno degli “spiriti bizzarri in tempi inquieti” di cui parla Roberto Longhi. Di pari intensità ma opposta resa incisoria è la sensibilità di Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964). Gli anni sono gli stessi, l’Italia è sempre quella centrale, ma ciò che è furore ed impeto incontenibile in Bartolini, è inquietudine, calma imposta e vibrante in Morandi; ciò che è eccitazione subitanea e segno nervoso nell’uno, è meditazione, studio, trascorrenza temporale nell’altro. Anche Morandi guarda a Rembrandt, come guarda al Parmigianino, Barocci, Annibale Carracci, ma con indifferenza verso i loro soggetti, riservando invece tutta l’attenzione al loro modo di condurre l’acquaforte. Dopo

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le prime prove incerte del’13, del’15, dagli anni Venti si rivela tutta la qualità della tecnica morandiana, l’importanza non del singolo segno ma dell’insieme, del reticolo attraverso il quale si studia tutta la scala dei grigi, fino al nero più polveroso che oppone il suo effetto tattile al bianco specchiato di intonaci, cieli o stradine sterrate: Paesaggio (Casa a Grizzana) o Paesaggio con il grande pioppo sono espressioni altissime del 1927, cioè l’aprirsi di una stagione feconda che va a comporre i tre quarti dell’intero corpus incisorio; L’orchestrazione dell’immagine è mentale, lo testimonia il fatto che molte lastre hanno uno o pochi stati, raramente ci sono interventi di completamento sostanziali – invece tipici di Bartolini – e comunque il ritocco è impercettibile. Da questo rigore dipendono le setosità dei grigi, le variazioni tonali sottili e preziose, quell’equilibrio e quel conforto dato dalla progressione dei piani per parallelismi che muovono le campagne e digradano in profondità contro i cieli assolati (Paesaggio di Grizzana, 1932). Arnoldo Ciarrocchi (Civitanova Alta 1916 – 2004), l’artista che vuole apprendere l’incisione “con l’impegno di imparare a lavorare artigianalmente” – e Luigi Bartolini lo ricorda infatti “in pannella e camice turchino, da onesto operaio” –, è “l’erede ideale di quello splendido talento che raramente capita d’incontrare e che si è già rivelato in Morandi e Bartolini”, dicono Luzi e Baiocco nel 1981, alla Galleria Centofiorini, in apertura della mostra con ritratti, nature morte e altri soggetti figurativi dei tre incisori. Quest’anno i suoi paesaggi in mostra aprono col 1940: passate già le “lastre nere” ed il periodo urbinate, questo è il momento in cui lavora come torcoliere alla Calcografia Nazionale di Roma e studia i segreti dei grandi incisori passando dal fine segno pittorialista alla Bartolini, fatto di cespugli, figure e brevi accenni delle “lastre bianche” (Ragazze all’acqua acetosa, 1940; Paesaggio con una casa ed un pagliaio, 1947; Alberi lungo il Chienti, 1947), alla cosiddetta “maglia larga” di memoria morandiana, che cerca una costruzione più solida, il segno a rete con gli incroci radi, le case fatte di porzioni bianche dentro un ricco gioco chiaroscurale. Gli si rimprovera l’aver abbandonato lo stile di fine anni Trenta e del noto Paesaggio col pagliaio per seguire le ricerche tonali del maestro bolognese, ma sagacemente Ciarrocchi risponde che “colui che sa leggere è capace di recuperare sotto questa rete ghiaccia quell’umore sottile che c’era nelle mie stampine del ‘38”, e la differenza con Morandi la si vede nel segno incapace di trattenersi saldo, rivelatore di un temperamento più sciolto, che dilata dove Morandi rinserra, che attraversa la fase del tratteggio e dell’incrocio per approdare in seguito al “segno grosso”,

molto incisivo, e molto rappresentativo del tratto ciarrocchiano, quello che si ravvisa anche nei dipinti, anche negli acquarelli, fino alla fine. L’intenso tratteggio poi allenta e gradualmente si tinge di un’ariosa serenità paesaggistica, che attraversa la “maglia larga” delle case di conoscenti e familiari sparse nei terreni asolani (La casa dell’amica straniera, La casa dell’uomo solo, La casa della scrittrice di racconti brevi, 1956, La casa di Rinalda, La casa del veterinario, La casa delle figlie di Crescentina, 1958 ecc.) per affrancarsi più avanti trionfalmente nella scarna schiettezza di linee incise a punta, di segni che nascono sottili e si fanno grossi, come in una china che scrive una calligrafia col pennino. I luoghi cari, la vita all’aria aperta, la poesia delle ‘piccole cose’ di retaggio pascoliniano, sono le componenti dolci e vigorose dell’ “asolitudine” di Ciarrocchi, ma sono anche aspetti comuni ai tre incisori di questa mostra che, nel dare uno sguardo alla tecnica dei grandi del passato, trovano se stessi, il loro tempo, la propria cifra incontaminata, e danno origine a una nuova classicità. Marta Silenzi

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Luigi Bartolini, Fonte San Giorgio (1930) Giorgio Morandi, Paesaggio (casa a Grizzana) (1927) Arnoldo Ciarrocchi, La chiesa della Madonna degli Angeli, II, (1979) Luigi Bartolini, Il fiume chienti (1925)

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carrĂ _gobbi Lirismo di-segni astratti

Due dei Sette Giorgio de Chirico e Mario Tozzi a Parigi

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carrĂ _gobbi lirismo di-segni astratti

Due dei Sette Giorgio de Chirico e Mario Tozzi a Parigi

A cura di Luciano Mei Galleria Contemporaneamente Arte via Conchiglia 29, Civitanova Marche

A cura di Daniele Taddei

Direzione artistica Loredana Garbuglia Testo critico Laura Boccanera

Artistic Visions Gallery Via trento 10, Civitanova Marche Direzione artistica Leonardo Terenzi Opere provenienti da: Collezioni private

Opere di Carlo CarrĂ (collezione privata) opere di Paolo Gobbi

In collaborazione con: ArtClubStudio

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carrà_gobbi lirismo di-segni astratti Come si può pensare di accostare il Realismo e il paesaggio cari alla poetica di Carlo Carrà con le opere del contemporaneo Paolo Gobbi, eteree, rarefatte, severe. Segni grafici che vanno verso la smaterializzazione dell’arte, su supporti quasi mai ordinari come la tela. Come è possibile far entrare in dialogo un autore che ha spaziato dal futurismo alla Metafisica con uno sperimentatore come Gobbi, audace creatore di rimandi simbolici, di giochi di materiali e poesie evocative. Il fil rouge che tesse una trama inedita nel percorso di allestimento curato dalla galleria Contemporaneamente si ritrova nel corto circuito fra “vecchio” e “nuovo”. Pur nel paradosso di un accostamento ardito e ardimentoso i curatori sono risaliti all’asciuttezza degli ultimi lavori di Carrà, ravvisando, specie nelle incisioni, una elementarità di tratti e composizioni che lasciano presagire un’apertura verso l’astrattismo. Una lettura provocatoria per creare una giunzione fra due autori e artisti distanti, ma in dialogo. La mostra attraverso questa conversazione “impossibile” unisce due estremi che altrimenti non si incontrerebbero mai. Carlo Carra’ è stato sempre un attento sostenitore delle tecniche incisorie e dello studio “del bianco e del nero”, promuovendo l’importanza di quest’arte definendola come “espressione genuina e creativa dell’Artista”. La tecnica incisoria utilizzata da Carrà è del tutto personalissima, con segni marcati, duri e attraverso la forza di quei tratti sono nate delle composizioni schematiche, statiche, silenziose,inquietanti, come se all’improvviso lo scenario immaginario si sia fermato di colpo, come in uno

scatto fotografico. Osservando la primitività delle figure e gli straordinari, quanto essenziali paesaggi, si respira un’atmosfera di attesa religiosa. Come mistiche sono le opere di Gobbi che qui duetta con il “Maestro” in uno scambio continuo di rimandi e contrasti intellettivi atti a cercare un dialogo, anche scandaloso, sul conflittuale presente. La finalità vera è quella di far vivere al fruitore un “corto circuito” mentale che vuole incentivare diversi livelli di lettura dell’Arte Contemporanea. Laura Boccanera

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Paolo Gobbi, Senza titolo (2010), grafite e alluminio inciso, cm 30x30x6

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Carlo Carrà, La vela (1924), acquaforte su rame, cm 13,1x15,3

Carlo Carrà, Lago Maggiore (1924), acquaforte su rame, cm 7,1x9

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Paolo Gobbi, Serraglio (2012), alluminio inciso, cm 30x30x6

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Carlo CarrĂ , Figura femminile (1924), acquaforte su rame, cm 13,2x9,4

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Due dei Sette Giorgio de Chirico e Mario Tozzi a Parigi Siamo agli inizi degli anni ’20, Parigi da più parti veniva riconosciuta come l’indiscussa capitale dell’Arte e della Cultura europea. Già alcuni artisti italiani si erano affacciati su questa città aperta al nuovo, pronta ad interagire con coloro che avevano desiderio di scoprire nuovi linguaggi ed accogliere gli altri che fermi nelle loro posizioni cercavano di affermare le proprie proposte fedeli ai propri sentimenti. Tra tutti gli Italiani colui che fungerà da vero “traghettatore” dell’Arte Italiana a Parigi è Mario Tozzi. Grazie al suo spirito organizzatore riuscì a mettere assieme un sodalizio di Artisti sebbene non omogenei tra loro per linguaggi e percorsi individuali, che animò per alcuni anni la Parigi di quel tempo, recuperando e riaffermando tutti quei valori che erano insiti nell’arte italiana. Sostenitore di questa teoria fu Waldemar George che si fa portabandiera di un “rappel à l’ordre” europeo, partendo dal ritrovato spirito dell’Arte Contemporanea Italiana che si era letteralmente liberata dall’influenza dell’Impressionismo Francese. Si ritrovarono in “sette”, Tozzi, de Chirico, Savinio, Severini, Campigli, Paresce e de Pisis e da qui nacque “Le Groupe de Sept”, sette grandi Maestri italiani che diedero vita ad una nuova stagione artistica europea, non nascondendo mai la matrice italiana, testimoniando in più occasioni proprio la centralità della nostra Arte e della nostra Cultura in ambito europeo. Tozzi è stato il vero catalizzatore del gruppo, colui che in diverse occasioni ha sostenuto e rimarcato la necessita del “gruppo” inteso come centro di incontro e confronto, tenendo più volte “a bada” personalità di rango come de Chirico. Mario Tozzi una volta a Parigi divenne subito riconosciuto artista talentuoso e sebbene giovanissimo ottenne l’ammissione al “Salon d’Automne” con un’opera che poi verrà collocata nel Grand Palais. Da quel giorno la critica francese si occupò favorevolmente del nostro Artista, considerato tra i massimi esponenti del “Novecento” italiano per modernità e spiritualità. Grande organizzatore di mostre ed eventi, diede l’opportunità a molti artisti italiani di esporre a Parigi, rafforzando il “clima italiano” in quella città. Appartenente al “Gruppo dei Sette” troviamo Giorgio de Chirico, sicuramente la figura di spicco del sodalizio per storicità e cultura, fresco

della straordinaria esperienza metafisica. Proprio questo linguaggio in qualche modo ha dato l’opportunità al movimento di vivere questa esperienza parigina, perché lo troviamo, in forme diverse ed in spazi differenti, presente in tutti i lavori dei sette del Gruppo. Giorgio de Chirico aveva una forte personalità e la sua profonda conoscenza degli studi classici lo portava spesso a “polemizzare” su quelle teorie che andavano aprioristicamente ad identificare prese di posizioni o giudizi affrettati. L’inizio per lui a Parigi, anzi il ritorno, non fu dei migliori in virtù dell’accoglienza riservatagli dai “surrealisti” che da prima sostenitori della sua ricerca metafisica, acquistando numerose sue opere, divennero nemici dopo l’abbandono di quel linguaggio tante volte osannato. Breton da prima fervente sostenitore dell’opera di de Chirico, una volta tradito, si pensa che organizzò “il funerale” dell’amico stampando manifesti a lutto allo scopo di una speculazione economica. La risposta di de Chirico non si fece attendere alimentando la conflittualità con Breton e i surrealisti francesi che da li in avanti boicottarono sempre l’attività di de Chirico in territorio francese. In questa brevissima presentazione si è voluto unicamente “riparlare” di un periodo magico ed affascinante dell’Arte Italiana, grazie a dei grandi protagonisti che insieme, ferme restando le marcate individualità, hanno voluto recuperare, salvaguardare e promuovere la nostra arte e la nostra cultura nel mondo intero. Giorgio de Chirico e Mario Tozzi sono stati tra questi. Daniele Taddei

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Giorgio De Chirico, Piazza d’Italia con efebo (1972), litografia

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Giorgio De Chirico, I cavalli di Achille (1971), litografia

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Giorgio De Chirico, Il guanto (1975), litografia

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Mario Tozzi, Composizione (1979), litografia a 14 colori su foglio, cm 69,5x 49

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Mario Tozzi, L’attesa (1977), litografia a 20 colori su foglio, cm 80x60

Mario Tozzi, Le due sorelle (1978), litografia a 21 colori su foglio, cm 70x50

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Il Vangelo secondo Jobs Apple tra tecnica e filosofia

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Ideazione Andrea Compagnucci Stefano Parcaroli A cura di Sara Francia Emanuele Frontoni In collaborazione con Med Store - Stefano Parcaroli Organizzazione Azienda dei teatri

Testi in catalogo Sara Francia Emanuele Frontoni Emanuela Sabbatini Contributi iconografici Marc Burckhardt Contributi video Riccardo Minnucci

Ufficio stampa Angelica Gabrielli Emanuela Sabbatini Allestimenti Scocco cultura comunicazione Immagini Corbis Med Store

Contributi grafici Juri Radossevich Guido Conforti

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Quando trent’anni fa un giovane Steve Jobs muoveva i primi passi nel mondo della tecnologia informatica con la sua nuova impresa, la Apple, iniziava anche la nostra avventura. Quella di Med Computer, una delle prime aziende italiane ad aver distribuito i prodotti di Cupertino, quando ancora Apple Italia non esisteva e i prodotti dovevano essere importati dagli Stati Uniti. Erano anni diversi in cui Apple orientava le proprie energie soprattutto verso il mercato professionale. Così, anche noi, all’inizio della nostra storia, ci siamo dedicati a clienti come ingegneri, architetti e grafici. Di quegli anni ricordo tutto, da quando acquistammo il primo Apple II, alle successive evoluzioni fino ai periodi bui del marchio. Si sono succeduti tempi di grandi speranze, attese, successi e anche flop, come quelli negli anni dell’assenza di Jobs, nei quali anche noi siamo stati costretti a guardarci intorno e investire in settori nuovi, come quello dell’informatizzazione ospedaliera, ottenendo comunque un discreto successo su scala internazionale. In ogni caso posso affermare che la nostra impresa è cresciuta insieme a Apple e grazie al suo fondatore. Steve Jobs l’ho conosciuto personalmente, nel 1985, quando ancora non era il mito che sarebbe diventato. Aveva intuizioni e genialità fuori dal comune ed era un personaggio dall’elevato carisma. Mi mostrò la fabbrica del Macintosh, dove mi spiegò come dopo solo pochissimi anni dalla nascita, Apple produceva già una macchina ogni 27 secondi. Tuttavia la grandezza del personaggio che oggi celebriamo con questa mostra va al di là del prodotto e si può comprendere solo guardando i cambiamenti che questi oggetti culturali hanno prodotto nella società. Negli ultimi anni qualità e design hanno disegnato la strada di Apple verso il mercato consumer e anche la Med si è fatta portavoce della crescente esigenza di prodotti tecnologicamente avanzati. Così abbiamo avviato un nuovo progetto: una catena di punti vendita sul territorio nazionale. Sono nati i Med Store di Macerata, Civitanova Marche, Ancona, Pesaro, Perugia, Ascoli e Teramo. Questi ultimi cinque addirittura come Apple Premium Reseller, la massima qualifica che Apple può assegnare a un negozio non di sua proprietà. In totale sette negozi aperti nei centri storici di importanti città o nei più bei centri commerciali. E il progetto Med Store non si fermerà di sicuro qui. Festeggiare oggi il nostro trentennale significa quindi rendere tributo ed omaggio al fautore, alla mente e al cuore di Apple e questa mostra vuole rappresentare un punto di arrivo e di partenza, risposte ed interrogativi per continuare a essere “affamati e folli”. Sandro Parcaroli

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Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate Steve Jobs

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Il nuovissimo testamento “Credo che oggi l’automobile sia l’equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche: voglio dire una grande creazione d’epoca, concepita appassionatamente da artisti ignoti, consumata nella sua immagine, se non nel suo uso, da tutto un popolo che si appropria con essa di un oggetto perfettamente magico” così scriveva il noto semiologo francese Roland Barthes oltre mezzo secolo fa in Miti d’oggi ragionando su una delle più grandi invenzioni del XIX secolo: l’automobile. E dallo stesso magico connubio fra tecnologia e arte prende le mosse questa mostra dedicata a Steve Jobs, uno dei padri di un’altra macchina rivoluzionaria: il computer. Non un percorso cronologico tra i prodotti Apple ma un viaggio iniziatico verso la ricerca della massima purezza: una ricerca ostinata e continua, che sin dagli inizi degli anni Settanta, periodo della sua conversione al buddismo zen e della creazione dell’introvabile Apple I, ha accompagnato e ispirato Jobs in tutto il suo percorso professionale e personale. Con un’instancabile riflessione intorno alla ricerca socratica dell’unità del valore fra giusto, vero e bello e al principio bauhausiano del less is more, il padre fondatore di colossi mondiali come Apple e Pixar, ha rivoluzionato non solo l’hardware ma soprattutto il rapporto tra tecnologia e arte, fondendole in un perfetto equilibrio fra essenza e funzione. Un percorso visivo e multimediale che riassume la parabola di un un uomo che ha cambiato il modo di vedere le cose: è questo Il Vangelo secondo Steve Jobs, mostra dedicata al Steve Jobs e alla sua filosofia. “La gente non sa quello che vuole finché non glielo si mostra”. Di questo era convinto e da qui partiva per pensare tutti quei dispositivi che avrebbero per sempre mutato il rapporto fra tecnologia e arte e le distanze fra tecnologia e vita. Nonostante un carattere difficile, una personalità quasi border-line, un atteggiamento intransigente, Jobs è riuscito come nessun altro a svuotarsi di ogni pregiudizio e a comprendere, o plasmare, la mente dei consumatori. Non meri prodotti tecnologici ma creazioni di bisogni. Steve Jobs, morto a 56 anni per una malattia combattuta a lungo, è, come già scritto da Wired, “risorto a eterno genio informatico” -ma- “non siederà alla destra di nessun padre perché non ha predecessori né compagni ad attenderlo”. A vent’anni, durante una delle sue consuete diete a base di frutta, scelse come simbolo la mela perché disse: “ero appena tornato dal meleto” e “mi sembrava un nome simpatico, vivace, che non metteva in soggezione”. Con quella

mela, in pochi anni, avrebbe avrebbe rovesciato i canoni sacri riuscendo a creare un “paradiso” per tutti coloro che cercano riparo nel suo frutto proibito. Sono sei le sezioni di questa mostra che racconta parallelamente lo sviluppo della tecnologia Apple e la spasmodica ricerca estetica e filosofica di un uomo che ha sempre visto nella “purezza” di pensiero, di materiali e di forma, l’unica verità possibile. Un percorso che parte dal Nuovo Testamento scritto da Jobs a fine anni ‘70, con la creazione dei primissimi Apple, e approda alla rivelazione del nuovo Millennio, l’Apocalisse del digital lyfestyle e delle quattro I – Imac, Ipod, Iphone, Ipad. Il tutto non senza passare per le produzioni aprocrife del decennio della Apple priva di Jobs, nel periodo a cavallo fra anni ‘80 e’90 e per il ritorno del figliol prodigo, dopo l’esilio forzato: un ritorno sulle ali del motto “Sorry, no beige!” caratterizzato dalla morbidezza delle forme e dalla giocosità del colore. Con quelle scelte la relazione con la tecnologia doveva diventare immediata per tutti. Utente e dispositivo dovevano stringere un legame intuitivo, amichevole. Nelle ultime due sezioni, infine, la lettura della mostra passa attraverso il simbolico riferimento alla prima e alla seconda lettera ai Corinzi: due momenti dedicati a chiarire i cardini della dottrina di Jobs. Più di cinquanta i contributi video in mostra che allontanano il Vangelo secondo Steve Jobs dai tradizionali canoni espositivi per sincronizzare l’esposizione con lo sconfinato mondo delle App, un altro pezzo dell’eredità quotidiana lasciate da Jobs sia ai suoi seguaci che ai pagani. Un’applicazione creata ad hoc per accompagnare il visitatore in un percorso di avvicinamento ai fondamenti della nuova dottrina tecnologica e digitale. Tutto ciò mentre sull’altare centrale si celebra l’ultimo miracolo di Jobs, l’Ipad, e sullo sfondo il messia della tecnologia veste i panni del santo, in una grande opera firmata dall’artista americano Marc Burckhardt, immolandosi a nuova icona mediatica, tecnologica e non solo. Sara Francia

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Jobs cacciatori di innovazione “Non smettete di desiderare. Non abbiate paura di fare cose insensate. “ Potrebbe essere il “primo comandamento” della ricerca e dell’innovazione ed è una delle tante citazioni note di uno dei geni del nostro tempo. Steve Jobs si rivolgeva con quelle frasi ai neo laureati di Stanford. Lo stesso potremmo fare noi verso i nostri giovani, i nostri figli, gli imprenditori e tutti colori che ogni giorno si svegliano a caccia di nuove idee. Jobs è e sarà una perenne ispirazione per tanti cacciatori di innovazione e l’idea che vogliamo dare in questo percorso alla scoperta dell’uomo Jobs e delle sue idee è tradotta in tante realizzazioni, idee più o meno visibili, pezzi di design, software. Da quel “comandamento” nascono pezzi memorabili della storia dell’informatica: il primo computer, gli Apple I e II, il Macintosh, i primi esempi di sistemi operativi a finestre. Altre idee sono frutti della passione per il bello: i font, l’evoluzione nella stampa digitale, o grandi monitor, il design unico e perfetto. Tutte però derivano da una continua ricerca non dettata da paradigmi, ma tesa alla libertà di “fare cose insensate”. E la ricerca scientifica e tecnologica è tutta in questo concetto: libertà di pensare, di creare di costruire e sfasciare, di sognare soluzioni geniali ma non realizzabili. Libertà di “fare cose insensate”. Solo dopo averle fatte forse le troveremo utili e il tempo e la storia ci sveleranno se saranno utili, geniali e innovative e se produrranno un avanzamento tecnologico. ll progresso tecnico e scientifico della nostra società è davanti agli occhi di tutti ed è così rapido che le trasformazioni che ieri sembravano sostanziali e talvolta rivoluzionarie oggi sono già superate. Pensiamo semplicemente al modo di comunicare e a quanto è difficile far credere a nostra nonna che quella sullo schermo dell’iPhone è realmente sua nipote a centinaia e centinai di chilometri di distanza. Sembra un abisso quello che ci separa dalla generazione dei telefoni con la cornetta e della carta da lettere. La linea del tempo che troverete nella mostra è proprio uno dei segni della genialità di un uomo e di un gruppo che da Cupertino ha segnato la storia tecnologica degli ultimi decenni: vedrete oggetti descritti da un nome ed una data e sarà difficile credere a quanto attuali siano quelle idee che presero forma in oggetti tecnologici nel 1984 o del 1996. Grazie all’uso della sua creatività l’uomo ha compiuto passi da gigante e ciò è stato e sarà ancora possibile grazie alla ricerca scientifica e alla sua potenziale capacità di fornire innovazione che insieme contribuiscono direttamente alla prosperità e al benessere individuale e collettivo e

accrescono la conoscenza. Jobs in questo ci insegna anche che occorrono pochi concetti da seguire, idee semplici in cui credere fermamente che diventino presupposto di tutte le nostre realizzazioni ed azioni. La complicazione sta proprio nel poterle sintetizzare in concetti che portino a innovazioni uniche. Tutto va poi condiviso perché è difficile fare da soli. E così Apple nasce dall’incontro di sue persone e continua sino a occupare migliaia e migliaia di uomini e donne che lavorano nei dipartimenti di ricerca e sviluppo e che sono chiamati all’arduo compito di inventare. È interessante notare come questa spinta sia sempre viva nella storia di Jobs e della sua azienda e sia ancora attuale: pensate che uno dei più grandi gruppi di ricerca al mondo, per numero di menti impiegate, è proprio quello che in Apple lavora a SIRI: un’assistente virtuale che risponde alla nostra voce che costituisce una delle novità dell’iPhone 4S. Uuna nuova interfaccia che dal mouse, attraverso il touch, ci porterà al solo uso della voce? Non lo sappiamo e solo il tempo ci dirà dove si collocherà questa nuova idea. Sicuramente una buona idea, semplice ed efficace… che forse nasce come “insensata”, ma potrebbe anche cambiare il mondo. Finito di sfogliare questa rivista, prendete anche voi un foglio bianco e cercate di farvi venire un’idea strampalata e tentate di metterla in pratica. Datevi da fare, sognate … e forse fra qualche anno Popsophia vi dedicherà una mostra. * Written on a Mac Emanuele Frontoni

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Big Conscience

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Autori Claud Hesse (Artista) Carlo De Mattia (Architetto) Con Simone Alessandrini (Designer&Artigiano) Emanuele Frontoni (Engineering) Collaboratori Valerio Placidi (Azienda GROTTINILAB) Marco Rossi (Azienda GROTTINILAB) David Maccaroni (Azienda GROTTINILAB) Mirko Pupilli (Azienda P.M.) Andrea Arcangeli (Azienda EST) Giorgio De Mattia (CAD designer) Michele Mobili (supporto logistico)

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L’empatia della materia Big Conscience, presentata in anteprima nell’aprile 2012 all’Istituto Italiano della Cultura di Berlino presso il palazzo dell’Ambasciata Italiana, è un’installazione che non vuole solo essere contemplata ma anche provocata; i suoi globi (“neuroni”) reagiscono al suono con segnali luminosi e vibrazioni dando vita a una vera e propria esperienza multisensoriale. Big Conscience restituisce al visitatore l’azione sonora sotto un’altra forma. Ogni “neurone” ha una propria capacità di ascolto e risposta agli stimoli sonori; avvicinandosi e parlando si potrà interagire con essi e arrivare a scoprirne, toccandoli, la sostanza morbida e calda al tatto. Il risultato è l’instaurarsi di una relazione di empatia tra l’installazione e il visitatore; ciò avviene in primis attraverso il carattere cyber di questi oggetti sintetici e dalla consistenza quasi carnosa, ogni vibrazione assume una connotazione biomorfa. In secundis grazie alla percezione del “sé” che il visitatore sperimenta muovendosi attorno all’opera con cui esplora il suo spazio peripersonale, ovvero quell’ambito subito fuori dal nostro corpo che consideriamo di pertinenza propria. In questo modo la nostra rete neuronale, considerata come la sfera intima ove risiede la coscienza, viene idealmente ribaltata attraverso la sua figurazione, portandola all’esterno e amplificandone le dimensioni. Questa rappresentazione è potenziata dalla capacità

interattiva donata alla materia siliconica che porta l’opera ad un cortocircuito di senso: rivolger(si) la parola nell’esplorar(si) crea un gioco di relazioni riflesse in cui rincorriamo la nostra consapevolezza. L’opera porta inoltre a riflettere su quale sia la reale natura di ciò che è dotato di un corpo fisico e di un’”anima” digitale. In futuro ci abitueremo a considerare come attive gran parte delle cose che useremo e degli spazi che abiteremo; sarà fondamentale appropriarsi di un nuovo paradigma in cui saremo parte di un sistema di relazioni attive e reattive prima ancora che di un mondo oggettuale. Innescheremo rapporti empatici, spesso basati sulla sinestesia, con gli oggetti attorno a noi; in questo il cuore dell’innovazione portata da Steve Jobs sta tutta nell’aver dato una forma tangibile e familiare alla natura del digitale. Infine Big Conscience nasce nel 2011 dall’incontro tra Carlo De Mattia, attivo nell’esplorare e ibridare i confini tra spazio fisico e spazio del flussi informativi, e Claud Hesse, autrice di una propria ricerca interdisciplinare in cui indaga i confini tra arte e scienza, i cui saperi sono solo apparentemente distanti tra loro. Per dirla con le parole del fisico teorico Ignazio Licata: “Questa condivisione del giocare con filtri cognitivi, che non

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vanno confusi con la “verità” ultima del mondo ma ci richiamano piuttosto alla responsabilità delle nostre scelte e dei nostri linguaggi, è ciò che unisce, a monte, il lavoro di scienziati ed artisti”. Così Big Conscience è, allo stesso tempo, un’opera d’arte e un esempio di artigianato tecnologico in cui pensiero artistico, design dell’interazione e ingegneria hanno agito in continuità. Uno degli aspetti più interessanti emersi nel portare a termine l’arduo lavoro di coordinamento, confronto e dialogo tra discipline e capacità tanto distanti è stato l’aver sperimentato in modo olistico la techné contemporanea: materiali e tecniche produttive derivate dalla produzione industriale sono stati modulati e interpretati secondo modalità manuali e artigianali. Big Conscience è profondamente contemporanea nell’esser frutto del saper fare di quell’uomo artigiano a cui Richard Sennet affida oggi una parte importante del nostro futuro. Carlo De Mattia

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Mondo Parallelo Disegni Pop di Mauro Cicarè

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Illustrazioni e fumetti di Mauro Cicarè Coordinamento Alessandra Orazi Testi in catalogo Emanuela Sabbatini Il saluto di Vincenzo Mollica è stato pubblicato per gentile concessione di Mauro Cicarè Con il contributo di

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Un genio “Fuori di testa” Cicarè tra fumetto e illustrazione Ho una grande ammirazione per l’arte di Mauro Cicarè, mi piacciono i suoi colori, i suoi scenari, le sue macchine, le facce che materializza, le donne che il destino fa incrociare nelle sue strisce. Mi piacciono le sue storie masticate dalla vita, i suoi sogni fumettistici che sono ponti che portano alla fonte dei sentimenti. Mi piace anche pensare che Cicarè sia un mago o meglio un illusionista che sta inventando, con pazienza certosina, un mondo parallelo al nostro, un universo in cui ci potremo infilare abbandonando questa contemporaneità che sempre più spesso fa rima con volgarità. Sono benedizioni le immaginazioni di Cicarè, sono benedizioni pittoriche che sciolgono la vista e allargano gli orizzonti, sono benedizioni poetiche che arrivano ai cervelli inquinati come boccate d’ossigeno. Mi piace perdermi nei riverberi della letteratura disegnata di Mauro Cicarè e spero che tutto questo piaccia anche a voi. Vincenzo Mollica

Entrare nel mondo disegnato di Mauro Cicarè è come valicare la porta spazio-tempo che conduce in un’altra dimensione. E si tratta di un mondo che non trancia i contatti con la nostra realtà bensì ne amplifica taluni tratti sino a farli divenire dominanti e dunque vagamente paradossali. Lo stesso Vincenzo Mollica conferma questa sensazione quando nel 1998 in occasione dell’uscita del fumetto “L’enigma del condominio” suggerisce l’idea che l’artista sia “un mago che sta inventando un mondo parallelo, un universo in cui ci potremo infilare”. Gli anni di Frigidaire e L’Eternauta sono gli anni della belle epoque del fumetto italiano e Cicarè li attraversa sino a giungere all’universo variegato dell’illustrazione. Le sue tavole dunque trattengono in sé sia le luci fascinose del fumetto d’autore che l’impianto di costruzione del reale tipiche dell’illustrazione. La descrizione degli ambienti diviene dunque un punto focale del suo costitutivo di mondo. I dettagli, le atmosfere, persino odori e sensazioni sembrano essere suggerite da un tratto deciso e rumoroso, mai affastellato e barocco sebbene pieno di particolari. Gli ambienti cioè sono spazi vivi che esistono al di là del riquadro bidimensionale su foglio di carta, e le voci vanno oltre le lettere contenute nei baloon, divengono corporali. Se le tavole di “Fuori di testa” conducono in un mondo colorato sino all’irreale ma ancora privo di tutte le costruzioni dell’autore, in “Morgante” il colore perde un po’ del parossistico mentre acquista dimensionalità la narrazione. Con “Fuori di testa” del 1991 ci muoviamo nelle prime

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produzioni di Cicarè, una realtà leziosa ma realistica, con il paradosso letterario di Zzywwnruth che anticipa di molto i problemi sul copyright dei software traslando per assurdo al mondo del linguaggio il problema del diritto: se il linguaggio fosse brevettato e per usarlo dovessimo pagare una tassa saremmo tutti schiavi. Ma per il software, linguaggio universale della società dell’informazione, questo è già accaduto. “Morgante” invece fa parte di una produzione recentissima, quella stessa che cuce a doppio filo la tradizione classico-letteraria di altissimo livello, e la narrazione per immagine che si fa representamen naturale dell’evocazione prodotta dalla parola scritta. Cicarè entra nella storia dell’uomo. Lo fa con l’Odissea, con l’Eneide, con l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata e arriva al romanzo epico di Luigi Pulci. Il Morgante riprende la guerra e ne fa grande opera d’arte. Perché il fumettista civitanovese è un eroe di guerra, un sopravvissuto alle pagine di battaglie e di amori, e di tradimenti che attraversano la nostra letteratura. Il movimento allora assume un tratto connotante l’intero processo creativo: esso è senso della narrazione. Appoggia il fragore del colore vivace e contrastante tipico dei tauves. E non è solo la tradizione letteraria a rinvigorire ricordi ma gli stessi colori e l’elaborazione illustrata accendono nella mente immagini sopite. Ed ecco che gli eserciti che si scontrano e i duelli aprono scenari da pittura del ‘600, riportando alla mente la Gerusalemme Liberata di Paolo Finoglio o il complesso dei pittori napoletani battaglisti del XVII e XVIII secolo. L’uomo stesso in Cicarè è un combattente, col naso da pugile e tratti duri. Forse il leitmotiv dell’artista è proprio questo: sia essa una realtà fittizzia, aumentata o semplicemente replicata, lo stare al mondo è lotta, pulsione vitale tonante che anche quando si fa amore mantiene quel suo tratto vigoroso. Emanuela Sabbatini

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Giò Rondas

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Concept e cura Andrea Ebro Barbarossa Organizzazione generale Stefania Scaradozzi Graphics Serena Moretti Music Agostino Maria Ticino Web&Digital Lorenzo Paciaroni VideoArt Andrea Ebro Barbarossa Writers FFWD prod

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I sentimenti all’epoca di Facebook La reale virtualità di Giò Rondas Nell’era del Web 2.0 è nato spontaneamente il fenomeno Giò Rondas: una creatura della rete che capta sensazioni, le vive, le asseconda, le brucia in poche righe, condivise dai suoi sempre più numerosi fans. Ogni giorno il profilo Facebook di Giò Rondas acquista nuovi amici che attendono i post, li commentano e chiedono il permesso di utilizzarli. Con il solo sito web www.giorondas.com e il profilo Facebook, Giò Rondas scrive frasi, riflessioni, spesso crude, verità in cui tanti si rispecchiano. Pensieri che toccano talmente nel segno da essere riprodotti nelle mura urbane dagli utenti o che rimbalzano nella rete, da profilo a profilo. Chi è Giò Rondas? Perché questo mistero sulla sua identità? La scelta è provocata dal solo fatto di volere far parlare le parole, i pensieri senza che una foto, un nome, un percorso di vita o di lavoro li possano contaminare. In una società come la nostra, dove spesso l’immagine o il nome spiccano sui contenuti, Giò Rondas vuole far emergere questi ultimi: da nuovi strumenti di comunicazione nascono nuove forme di comunicazione che riescono a tradurre in poche righe sentimenti, pensieri, sensazioni. Il progetto editoriale che valorizza Giò Rondas è articolato in vari mezzi elaborati da uno staff composto da grafici, esperti di social network, illustratori, professionisti delle media relation che si sono incontrati, contaminati e hanno interpretato i pensieri di Giò Rondas. Ogni pensiero ha una vita autonoma ed è stato interpretato graficamente: da qui è nato il primo libro “Giò Rondas”, una sequenza di frasi dove il disegno, l’immagine, la fotografia, i colori, sono l’anima visiva delle parole che interpretano, le vere protagoniste. Il libro ora è acquistabile on line sul sito www.giorondas.com e in alcune librerie segnalate sul sito. L’eco dell’uscita del libro ha suscitato l’interesse di aziende specializzate nella produzione e distribuzione di materiali tra cui Cartilia con cui Rondas ha firmato un contratto triennale per la produzione in esclusiva di prodotti per librerie, cartolibrerie bookshop tra cui agende, calendari, taccuini, quaderni, segnalibri, puzzle, t-shirt e gadgets di vario tipo. Alla “Bologna Children’s Book Fair” (Fiera del

Libro per ragazzi a Bologna) è stato lanciato proprio da Cartilia il progetto editoriale dedicato a Giò Rondas che di diritto entra nel novero delle più importanti e significative presenze nel mondo della cultura letteraria del terzo millennio. Nei prossimi mesi Giò Rondas sarà presente nei più importanti bookshop delle strutture museali del Paese, nei circuiti Felitrinelli, Giunti, Rizzoli, Mondadori ed altri. Giò Rondas esce per la prima volta allo scoperto a Popsophia. Perchè questa scelta? Perchè la filosofia di fondo e la mission del Festival di Popsophia è più di ogni altro evento rispettoso del pensiero di Giò Rondas, della sua idea nuova di comunicare, di quella ideale volontà di guardare alla società del terzo millennio non come società del consumismo, ma come società della conoscenza, del pensiero profondo, di una nuova idea di cultura. Andrea Ebro Barbarossa

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Di solo parole

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A cura di Francesca e Gino Monti Per mari e monti arte contemporanea Viale Vittorio Veneto, 53 Civitanova Marche (MC) Testo in catalogo Laura Boccanera Opere di Vincenzo Agnetti - Alighiero Boetti - Claudio Cintoli - Tano Festa - Fathi Hassan - Robert Indiana Emilio Isgrò - Joseph Kosuth - H.H.Lim - Miltos Manetas - Yoko Ono - Valeria Paniccia Claudio Parmiggiani - Emilio Prini - Salvo - Gerard Schneider - Mario Schifano - Ben Vautier.

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Vedere le parole Quando l’arte si esprime con la scrittura Quando l’arte passa attraverso la parola. Dalle avanguardie fino ai giorni nostri numerosi sono stati gli artisti che hanno provato ad interpretare il cambiamento sociale e culturale attraverso una maniera inedita di intendere l’arte. Dall’era della riproducibilità tecnica teorizzata da Benjamin l’arte si manifesta nel concetto, non nell’esecuzione e la lingua diventa un linguaggio da manipolare, disegnare, riprodurre. Quale medium è più efficace per diffondere contenuto e al tempo stesso più riproducibile della parola? Dal futurismo a Fluxus sono molti gli artisti che lo hanno capito e che hanno sperimentato un cambiamento che passa attraverso un nuovo modo di intendere e rappresentare l’arte e la vita. Solo con la parola. Scritta, declamata, cancellata, la relazione parola/immagine ha dato vita alle più audaci forme espressive, apportando un originale contributo d’innovazione sia alla pittura, che alla forma più tradizionale del testo scritto, poetico, letterario e naturalmente artistico. Con alterne vicende, ora defilata, ora emergente, la scrittura ha attraversato l’arte di tutto il secolo XX, e anche oggi l’ambiguità della sua relazione con l’immagine, è più che mai al centro dell’interesse dei giovani artisti. Grazie alla presenza di opere d’altissima qualità la mostra “Di solo parole” è l’occasione per rileggere l’arte del secondo ’900 con una nuova lente critica che pone al centro non più “la pittura”, “la materia” o “la natura”, ma la parola. Parole parole parole, cantava Mina, forse ignorando che la parola stessa è a sua volta significante e significato e gli artisti giocano sul dualismo semiotico che si crea usando di volta in volta la lettera o come elemento estetico di divagazione o come portatore di senso. In

Fluxus anche la parola diventa performance ed azione. Il movimento di Maciunas a conferma dell’interdisciplinarietà dei linguaggi trova massima espressione nell’assemblage di cose e parole, di materiali e segni, capaci di intercettare l’esperienza della vita quotidiana nel suo flusso incessante e di congelarla per un istante. In altri invece la scrittura diventa esercizio calligrafico e il segno si articola come la pittura, la parola diventa stile e ricerca le stesse suggestioni pittoriche dell’opera tradizionale. Ma è con il concettuale e con la narrative art che la parola si fa pensiero e fin dall’inizio degli anni 70 il rapporto con la scrittura è fondamentale per l’opera d’arte che non è più specifica materialità, ma principalmente idea e pensiero, registrando frammenti di vita quotidiana realmente accaduti o solo immaginati. Laura Boccanera

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Maurizio Taioli, 4volteM� (2012), scultura in ferro, cm 45x50

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Ben Vautier, Tout est dans ma tete (2009), olio su tela, cm 54x64

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Salvo, La tartaruga e l’aquila (1972), lapide in marmo, cm 45x65

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Valeria Paniccia, Love (2012), installazione, cm 30x40

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Marchigiani Pop

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A cura di Istituto C. Cingolani di Montecassiano Coordinamento Nicola di Monte Con la collaborazione dei docenti Elisabetta Rocco Laura Gentilucci Ombretta Capradossi Gianluca Gentili Opere di Studenti classi terze A.S. 2011/2012

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Se Andy Warhol avesse incontrato Leopardi... “Ai primi d’agosto del 1962 cominciai con le serigrafie. Volevo qualcosa di più forte, che comunicasse meglio l’effetto di un prodotto seriale. Con la serigrafia si prende una foto, la si sviluppa, la si trasferisce sulla seta mediante colla e poi la si inchiostra, cosicché i colori penetrano attraverso la trama salvo che nei punti dove c’è la colla. Ciò permette di ottenere più volte la stessa immagine, ma sempre con lievi differenze. Tutto così semplice, rapido, casuale: ero eccitatissimo. Poi Marilyn morì quello stesso mese, e mi venne l’idea di trarre delle serigrafie da quel suo bel viso, le mie prime Marilyn.” Andy Warhol

Marchigiani pop, a cura I. C. Cingolani di Montecassiano. Una citazione importante rivitalizzata a distanza di anni dalla freschezza e dalla genialità di alcuni giovanissimi studenti. Un lavoro sul ritratto. Per realizzarlo sono stati selezionati quindici personaggi nati o vissuti nelle Marche che con le loro idealità, l’originalità creativa, l’impegno civile e il lavoro hanno dato prestigio, lasciando un’impronta durevole, alla nostra realtà locale, ma anche regionale, italiana e in molti casi mondiale. Sono diventati, insomma, vere e proprie “icone” capaci di testimoniare un’identità culturale e di diffondere un’immagine alta delle Marche e dell’Italia. Per capire l’operazione occorre la macchina del tempo. 1950-1960. Il secondo conflitto mondiale si è concluso. Le nazioni affrontano il dopo guerra e oltre oceano, la Potenza Statunitense vive le tensioni della Guerra Fredda e inaugura i tempi bui del Maccartismo. Ma nelle case spopola la tv, mentre pubblicità accattivanti ripropongono sullo schermo i prodotti che pullulano tra gli scaffali dei supermarket. Alla radio impazza Elvis e al cinema si culla il sogno proibito e carnale di Marilyn Monroe. Dare un’immagine di quella che era la vita a quei tempi poteva essere cosa dura, specie per l’arte, alle prese con

l’intellettualismo dell’espressionismo astratto nel quale la figurazione, delegata ai nuovi media (tv, cinema, fotografia), veniva abbandonata in favore della potenza del segno espressivo. In questo clima colorato emerge la figura di Andy Warhol, colui che, parafrasando Danto “creò un’immagine iconica di ciò che significava la vita, quando nessun altro artista aveva mai fatto nulla di simile”. Nell’era dell’antifigurativo, Warhol ritorna alla figurazione ripescando il genere antico e desueto del ritratto, ma non dimentica di agire nell’epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica. Ed allora il suo fare artistico si svolge come negazione dell’atto creativo, eliminando il concetto di stile e polemizzando sulla figura dell’artista-demiurgo. La filosofia di Warhol sta lì dove si incrocia con il mondo pop: trasfigura l’ordinario rappresentandone i simboli, le icone, i supereroi così come sono. Le serigrafie in policromia di Marilyn Monroe, Mao Tse Tung e Liz Taylor nascono dalle pagine dei giornali e dai film al cinema. L’immagine del divo tratteggia un’epoca. Reiterarla significa privarla della carica semantica. Nella tradizione occidentale, il ritratto è ‘lo specchio dell’anima’. Il ritrattismo warholiano non è un atto di mimesis come quello del pittore al cospetto della modella. Warhol interviene sulla realtà già mediata. Lavora sull’immagine cinematografica o su quella delle riviste. Breve è il passo dal mito al rito: la ripetizione del divo diviene meccanismo mantrico di preghiera e il volto di Marilyn contornato d’oro nella mostra del ‘62, cede ad un certo fascino religioso. Il meccanismo ritrattistico per reiterazione non si oggettiva solo sul soggetto umano. Dopo aver esplorato in lungo e in largo il divismo e il culto della personalità, Warhol ritorna al suo primo amore: la pubblicità. Aveva ben capito in principio che la “natura morta” di una Campbell Soup descriveva meglio di qualunque paesaggio urbano la società del consumismo omologato. Nel 1985, due anni prima della sua morte, Warhol ci regala un’ultima delle sue mirabilanti intuizioni. Gli ultimi “ritratti” che fa si compongono di 10 serigrafie sui simboli del consumismo e, per la prima volta, compare il computer, in particolare un Macintosh della

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Apple, una delle icone incontrastate del nostro secolo. Anche la chiave di lettura della mostra Marchigiani Pop è duplice: quella della tecnica e quella dell’estetica, ripercorse attraverso la storia dei volti e la loro funzione nel nostro immaginario. Da questo connubio inscindibile sono nati i pop ritratti e il contagio non finisce alle dieci proposte in mostra. Il richiamo alla pop art è delizioso. I nostri Marchigiani sono divenuti “Pop” contrapponendo i colori di base alla reiterazione della icona fotografica secondo un linguaggio figurativo che incrocia marketing industriale, fumetto e pittura espressionista del ‘900. Per dirla con il prof. Nicola Di monte che porta la mostra a Popsophia: Non è stata, almeno nelle intenzioni di chi l’ha proposta e realizzata, un’operazione irriverente, ma un gesto affettuoso che ha cercato di far conoscere e rendere contemporanei ai ragazzi grandi uomini sì, ma che li fissavano un po’ severi e distanti da ritratti quasi unicamente in bianco e nero. Gesti come scegliere il colore, il dettaglio che caratterizza il personaggio, tracciare i contorni del viso, sottolineare un’espressione hanno reso familiari volti, in qualche caso, poco conosciuti e lontani, riportandoli ad una nuova vita. Evio Hermas Ercoli

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Dissonanze La cittĂ non dona luoghi

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A cura di Eleonora Grilli Fotografie e postproduzione Eleonora Grilli

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Un percorso per il ripensamento radicale dello spazio urbano Cosa ci immaginiamo quando parliamo di città? L’idea di città fin dalle origini della nostra civiltà è legata alla polis. Nella lingua greca il termine polis rimanda immediatamente ad un’idea forte di radicamento: la polis è il luogo dove una gente determinata specifica per tradizioni e costumi ha sede, ha il proprio éthos, ed è caratterizzata da leggi (nòmos) e da limiti ben precisi. I romani vedono fin dall’inizio che la civitas è il risultato del mettersi insieme sotto le stessi leggi di persone al di là di ogni determinatezza etnica o religiosa ed è la chiave per poter comprendere la forza politica della storia romana. La città postmoderna è governata dal paradigma dell’individualismo e ha la sua essenza nella velocità e nei rapporti di produzione e consumo. Quello a cui noi assistiamo nella città contemporanea è uno sviluppo senza meta, il cui fine è quello di rispondere ad una logica di mercato, cioè di consumo e produzione. Come si può abitare territori? Territorio infatti deriva da terreo, cioè avere terrore. La città vuole diventare angelica, cioè determinata da uno spazio omogeneo, dall’eliminazione del particolare, una perfetta de-territorializzazione. “… Il mito o l’ideologia della perfetta deteritorializzazione si accompagna a quello di una forma im-mediata di comunicazione.” Questo lancia una sfida alla vita comunitaria. Lo spazio diviene una forma a priori, omogenea, uguale per tutti. È possibile vivere senza luoghi? Il luogo non è un alloggio, è una sosta nell’abitare. Ma questo genera una contraddizione: Lo spazio senza luogo. Come può lo spazio essere senza luogo quando noi stessi per nostra physis dimoriamo in un luogo che è il corpo? Se siamo luogo, come possiamo non cercare luoghi? Dovremmo forse seguire l’insegnamento del territorio post-metropolitano trasformandoci in pure anime? Da qui, si pone un ulteriore problema: quello sulla natura del luogo postmoderno. La metropoli diviene pura forma, le masse degli edifici assorbono energia, gli edifici possono azzardare questa analogia: “…le nuove costruzioni sono massicce, dominano, sono fisicamente ingombranti, grandi contenitori la cui essenza consiste però nell’essere mobili, nel dinamizzare tutta la vita… Producono un’energia mobilitante,

scardinante, sradicante… Mettono fra parentesi quelle presenze simboliche tradizionali che si riducono al centro storico… Mentre la città si articola ormai in base alla presenza dominante e centrale delle produttive e di scambio. La memoria diventa museo e cessa di essere memoria, perché la memoria ha senso quando è immaginativa, ricreativa, se no diventa appunto una clinica in cui mettiamo i nostri ricordi. Abbiamo ospedalizzato i nostri ricordi nel centro storico, che ha la funzione così di cronicario dei ricordi.” Prima di discutere sulle scelte urbanistiche è bene porci la domanda cosa chiediamo alla città: Chiediamo di essere uno spazio dove ogni forma di ostacolo al movimento alla mobilitazione e allo scambio venga ridotta ai minimi termini o chiediamo ad essa di essere uno spazio in cui ci siano luoghi di comunicazione, portatori di attenzione all’otium? Oggi, queste due richieste vengono pretese entrambe, ma non possono essere proponibili insieme. È questo che determina la nostra posizione schizofrenica nei confronti della città. È necessario partire dalla contraddittorietà di questa domanda e cercare di valorizzarla in quanto tale, facendola esplodere. È meglio fare dei progetti di architettura e urbanistica in cui mettere in evidenzia di fronte al pubblico il carattere contraddittorio della sua domanda, senza coprire e mistificare questa situazione, senza credere di superarla con qualche fuga in avanti o ritornando al passato di Atene. La risposta a tutto questo secondo Koolhaas non può più essere il concetto di non-luogo, ma qualcosa di più vasto. Il Junkspace è infatti una nuova categoria di pensiero per aprire gli occhi sullo spazio in cui viviamo. Le mutazioni prodotte dalle scoperte tecnologiche e dalla tecnica stessa non provocano più la nascita di nuove specie architettoniche, piuttosto si risolvono in un continuum di infinite connessioni: Il Junkspace distrugge il significato di edificio e si spinge a diventare l’infrastruttura della società. “Il Junkspace finge di unire, ma in realtà divide. Crea comunità a partire non da interessi condivisi o dalla libera associazione ma da statistiche identiche e dati demografici inevitabili, una trama opportunistica di interessi acquisiti. Ogni uomo diventa un bersaglio individuale,

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viene separato da tutto il resto. Il teatro preferito non è più politico ma è spettacolo”. Lo spettacolo dunque organizza dei sistemi ermetici di totale esclusione e concentramento: “Giochi d’azzardo di concentramento, campi di golf di concentramento, assemblee di concentramento, film di concentramento, cultura di concentramento, vacanze di concentramento.” L’architettura quindi diviene un’enorme contenitore, massa della metropoli che non si trasforma in energia ma anzi la consuma. Il contenuto dell’architettura inoltre è svuotato, l’architettura perde la sua autonomia, parla il linguaggio del sistema, diviene dispositivo, come lasciava intendere Bataille, diviene diga. L’architettura quindi è uno specchio, da una parte riflette la società, dall’altra la influenza, ma al di là dello specchio può diventare una trappola, un dispositivo di separazione, opposta al desiderio di socialità. Viviamo in due paradigmi che si sovrappongono, l’esclusione e l’inclusione. Nell’esclusione cerchiamo di trovare una netta divisione tra il fuori e il dentro. L’altro, l’inclusione, è completamente diverso, si tratta di dividere, sorvegliare e controllare ogni quartiere, ogni strada. Il potere politico della modernità è il risultato dalla convergenza e della sovrapposizione di questi due paradigmi. Se applichiamo questo duplice paradigma allo spazio urbano abbiamo un primo schema complesso al cui interno vi sono dispositivi semplici di esclusione e divisione che convivono con l’articolazione complessa degli spazi e dei loro abitanti. Oggi, lo spazio e il tempo distruggono questa centralità, è la complessità del mercato mondiale che configura e riconfigura la forma della città. Dove scompare il concetto di pubblico, la metropoli diviene frattale, anomica, enorme, multinazionale. L’architettura si rivela come parente della moda e del cinema e questo si estende in tutti i settori della produzione architetturale che “decompone e ricompone secondo logiche che, in realtà, nascondono la volontà di disarticolare ogni possibile antagonismo dei soggetti e delle conoscenze e inondano di luce artificiale tutti gli spazi dove sfruttamento e dolore non possono essere mostrati. Il razionalismo e il funzionalismo sono diventati molli, ciò nondimeno efficaci nell’opera di mistificazione.” Il postmodernismo dunque attacca la storia ma è storicizzante, attacca la rendita, il profitto, il salario, come una stratificazione archeologica, ma non potendola distruggere, la eredita, finendo con il riprodurla. Diveniamo schiavi dell’ideologia. Dunque l’architettura è un’arte tesa alla salvaguardia della comunità riconoscendo così il suo mandato sociale. L’architettura perciò ha un duplice aspetto:

essere in sé poiché oggetto autoreferenziale ma è anche l’essere-per-gli-altri. Dal momento che all’interno dell’ architettura ci muoviamo, ne consegue, che l’architettura è l’arte dello spazio, ma anche un’arte del tempo. Gli spazi, i corridoi ci guidano, ci inducono a lasciarci andare, a muoverci liberamente e questa è una capacità che è nelle mani dell’architetto. Gli spazi guidano, seducono, danno libertà ma il percorso non deve diventare un labirinto, poiché è progettato, è misurato. Il luogo è dove sostiamo; è pausa, è analogo al silenzio in una partitura. Non si dà musica senza silenzio. Il territorio post-metropolitano ignora il silenzio; non ci permette di sostare, di raccoglierci nell’abitare. Appunto non conosce, non può conoscere distanze. Le distanze sono il Nemico. In quanto architetto ho incentrato la mia ricerca sul ruolo dell’architettura come creatrice di luoghi e sul fatto che abitare non avviene dove dormiamo e dove mangiamo, il luogo dell’abitare è la città. In questo contesto l’architettura acquista responsabilità. Il progetto “dissonanze” è un lavoro fotografico svolto nella cittadina di Civitanova Marche, città litorale nella provincia dell’Italia centrale, in cui gli effetti della perdita di identità dei luoghi pubblici si rispecchia nella società cittadina. Le immagini non vogliono essere un sentimentalismo ai tempi passati, piuttosto una sovrapposizione di tempi, vite, incontri. Eleonora Grilli

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Inside Marilyn

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A cura di Alessandro Icardi, Giuseppe Iavicoli Coordinamento di Valeria Paniccia Opere in mostra di Enrico Aliberti - Daniele Alonge - Andy - ArtCode – Akab - Giampaolo Atzeni Sebastiano Balbo - Angelo Barile - Thomas Bee - Stefano Bressani - Alberto Bongini Stefano Bordieri - Enrico Camontelli - Federico Comelli Ferrari - Mr. Degrì Marco De Barba - Nizzo De Curtis - Pietro Di Lecce - Christian Evallini - Mariano Franzetti Giampiero Gasparini - Gianni Gianasso - Duty Gorn - Beppe Trx - Legamenti Emanuele Mannisi - Pep Marchegiani - Alda Merini - Millo - Ezio Minetti - Marco Minotti No Curves - Danica Ondrejovic - Stefano Stefanini - Valeria Paniccia - Alain Payet Pietro Puccio - Mimmo Rotella - Ugo Nespolo - Sigis Vinylis - Diego Scursatone Giuditta Solito - Vania Elettra Tam - Angelo Volpe - Mr. Wany - Andy Warhol - Fabio Weik – Xel. In collaborazione con

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Essere Marilyn Quando il mito si fa arte Cinquanta artisti interpretano Marilyn Monroe, spaziando dalla street art alla pittura su stoffa, dai ritratti realizzati con i “gratta e sosta” del parcheggio di Milano ma anche con un farmaco d’uso comune, una pasticca colorata, per metà bianca e per metà azzurra. Inside Marilyn, dentro Marilyn, celebra una leggenda, scomparsa da due lustri, ma amata ancora da tutti. Nella collettiva Inside Marilyn, curata da Alessandro Icardi e Giuseppe Iavicoli, con il coordinamento di Valeria Paniccia, non potrà mancare, tra le opere, la rilettura delle locandine dei film della star mondiale, strappate via a brandelli. La tecnica serigrafica di Andy Wharol tratta dalla pubblicità del film Niagara (1953), che ha inaugurato la stagione Pop dell’arte visiva, sarà presente nella mostra. La collettiva racconta una visione post-pop, in tutte le sue espressioni visive ed emotive, magnetiche e vitalistiche e al tempo stesso fragili dell’attrice. Un video con un nuovo copione tratto dai suoi film che affianca la vera voce a quella della sua doppiatrice italiana, un quadro che ne riassume la formulazione chimica dell’ “essere Marilyn”, un dittico digitale che interpreta la star con una visione transgender, un fumetto dai colori acidissimi e luminosi. Bastano pochi segni per restituirci Marilyn Monroe, persino su una tela di sacco. Ma c’è anche chi costruisce un’installazione con un sepolcro, senza la data di morte, naturalmente. C’è invece chi ricostruisce un puzzle di minuscoli frammmenti delle sequenze del film Inside Marilyn diretto nel 1985 da Walter Molitor o chi vede John Kennedy come coautore della caduta di Marilyn o chi immagina il momento privato della sua dipartita o chi attraverso, le applicazioni tridimensionali, elabora un codice a barre. C’è chi inventa

due comode poltrone dove sprofondare per immaginare di essere in una parte del corpo della diva. Cosa sarebbe oggi se Marilyn quella notte del 5 agosto 1962 non avesse deciso di mettere fine alla sua esistenza? Un enorme lenzuolo bianco su un cavalletto alto più di tre metri per mostrarci il mito oggi e come sarebbe divenuta se fosse rimasta in vita, l’attrice più fotografata al mondo, a 86 anni. La collettiva nata presso la Pow Gallery di piazza Castello a Torino, dopo una tappa milanese al Combines XL Gallery, a via Montevideo, zona Navigli, approda all’Auditorium San Paolo di Civitanova Marche Alta per la seconda edizione di PopSophia, Festival del Contemporaneo, dal 12 luglio a domenica 5 agosto. Valeria Paniccia, per questa occasione, ha chiesto a 6 artisti marchigiani di esprimersi sull’icona leggendaria.

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La Pinacoteca civica Marco Moretti nata nel 1972 per volere del maestro elementare Luciano Moretti, intitolata al figlio prematuramente scomparso, dal 1998 trova idonea collocazione nella casa natale del letterato rinascimentale Annibale Caro, nel cuore di Civitanova Marche Alta. La Pinacoteca Moretti, in linea con le più aggiornate esperienze museali, realizza un articolato progetto finalizzato alla divulgazione dell’Arte e affianca, all’esposizione permanente, laboratori d’incisione calcografica, seminari, mostre temporanee e un’intensa attività culturale rivolta a diverse tipologie di fruitori. La raccolta si divide in tre sezioni: la Quadreria che conta opere che vanno dal ‘500, con la Madonna del Soccorso di Baldo de Serofini, alle tele settecentesche di Filippo Ricci, un folto gruppo di incisioni e disegni compone la seconda sezione dove si possono ammirare i lavori di Fattori, Bartolini, Licini, Castellani, Carrà, Dottori, Viviani, Morandi, Tulli, fino ad Andy Warhol, una silloge di prima grandezza che si completa con gli olii di Quaglia, Monachesi, Tamburi, Sdruscia, Omiccioli, Manfredi, Cantatore, Brindisi e Ciarrocchi Maestro civitanovese, poeta del paesaggio marchigiano, reputato da Federico Zeri tra i grandi del ‘900 italiano. La casa di Annibale Caro, contenitore di Storia e di Arte, vede oggi attuato il motto che si scioglie nell’iscrizione latina, collocata nel Settecento dal conte Giovanni Graziani nel cortile d’ingresso e tradotta nel 1943 da Salvatore Quasimodo: "Questa è la casa di Annibale Caro, dove felicemente abitarono Pallade e le Muse e le Grazie”.

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Baldo De’ Serofini, Madonna del soccorso, sec. XVI, tempera su tela

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Giorgio Morandi, Natura morta con vasetto e tre bottiglie, acquaforte

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Mario Sironi, Figure, disegno a matita acquerellato

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Sante Monachesi, Cinque ponti di Parigi, olio su tela

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Osvaldo Licini, Angelo ribelle, disegno a matita su carta

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finito di stampare nel mese di luglio 2012 presso Grafiche Ciocca Š Tutti i diritti riservati

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La Pinacoteca civica Marco Moretti nata nel 1972 per volere del maestro elementare Luciano Moretti, intitolata al figlio prematuramente scomparso, dal 1998 trova idonea collocazione nella casa natale del letterato rinascimentale Annibale Caro, nel cuore di Civitanova Marche Alta. La Pinacoteca Moretti, in linea con le più aggiornate esperienze museali, realizza un articolato progetto finalizzato alla divulgazione dell’Arte e affianca, all’esposizione permanente, laboratori d’incisione calcografica, seminari, mostre temporanee e un’intensa attività culturale rivolta a diverse tipologie di fruitori. La raccolta si divide in tre sezioni: la Quadreria che conta opere che vanno dal ‘500, con la Madonna del Soccorso di Baldo de Serofini, alle tele settecentesche di Filippo Ricci, un folto gruppo di incisioni e disegni compone la seconda sezione dove si possono ammirare i lavori di Fattori, Bartolini, Licini, Castellani, Carrà, Dottori, Viviani, Morandi, Tulli, fino ad Andy Warhol, una silloge di prima grandezza che si completa con gli olii di Quaglia, Monachesi, Tamburi, Sdruscia, Omiccioli, Manfredi, Cantatore, Brindisi e Ciarrocchi Maestro civitanovese, poeta del paesaggio marchigiano, reputato da Federico Zeri tra i grandi del ‘900 italiano. La casa di Annibale Caro, contenitore di Storia e di Arte, vede oggi attuato il motto che si scioglie nell’iscrizione latina, collocata nel Settecento dal conte Giovanni Graziani nel cortile d’ingresso e tradotta nel 1943 da Salvatore Quasimodo: "Questa è la casa di Annibale Caro, dove felicemente abitarono Pallade e le Muse e le Grazie”.

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Baldo De’ Serofini, Madonna del soccorso, sec. XVI, tempera su tela

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Giorgio Morandi, Natura morta con vasetto e tre bottiglie, acquaforte

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Mario Sironi, Figure, disegno a matita acquerellato

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Sante Monachesi, Cinque ponti di Parigi, olio su tela

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Osvaldo Licini, Angelo ribelle, disegno a matita su carta

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EDIZIONE 2012

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