L'appetito | Serena Guidobaldi

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~atropo ¡ narrativa~ 23




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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali e Francesca Bianchi Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali, Francesca Bianchi Illustrazione di copertina: Giuseppe Palumbo © Copyright 2020, Eris (Ass. cult. Eris) © Serena Guidobaldi Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Maggio 2020 ISBN 9788898644629




«Milord, un soldo, ho tanta fame.» «Felice te che hai fame, briccone! Non ho mai avuto la fortuna di aver fame, io. Vedete bene di quale gioia è privato il ricco. Compiangiamolo1.»


«Milord! Par pitié, un sou, j’ai bien faim!» «Tu es bien heureux d’avoir faim, drôle! Je n’ai jamais eu le bonheur d’avoir faim, moi. Voyez pourtant de quelle jouissance le riche est privé: il n’a jamais eu faim, lui. Plaignons le riche», da J.P. Arago, Comme on dîne à Paris, Berquet et Pétion, Parigi 1842, p XVIII, trad. it. di Emilio Faccioli, La Francia a Tavola, Einaudi, Torino 1978, p. 222-223. 1



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Prologo

01. «È morto!» «È morto, filiamo!» Bardasso aveva fretta di andarsene, ma Ciriola lo trattenne per l’avambraccio. «Aspetta! Voglio essere sicuro!» «Ti dico che è morto! Squajamose!» «E io ti dico che voglio essere sicuro. Avvicina il moccolo!» Alla luce tremolante di quella candeluccia fioca, con un’estremità del maglio appena usato per la mazzolatura, Ciriola girò in su quel che rimaneva della faccia dell’uomo mascherato da Arlecchino che giaceva ai loro piedi. Lo spettacolo era ripugnante: aveva il naso fracassato, i denti disintegrati, la mascella spaccata e l’orecchio destro asportato di netto con un coltello. Avvolto come un bozzolo in una trama di sangue, terriccio, capelli,

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ossa, confetti, bava, sego, coriandoli, merda di topo e scarti di cibo, non dava segni di vita. A sinistra dal Corso e a destra dal Babuino arrivavano gli ultimi sprazzi luminosi della festa dei moccoletti ma, più che rischiarare il buio, rendevano via di Gesù e Maria ancora più angusta e cupa e la scena sinistra. Le urla scomposte, le risate, gli schiamazzi, gli strepiti di quell’ultima notte del Carnevale romano del 18**, che fino a pochi secondi prima avevano sovrastato e coperto i rumori delle ossa che cedevano sotto i colpi del bastone, erano diventati un brusio lontano. Incurante dell’ansia crescente di Bardasso, Ciriola si accosciò per farsi più vicino al corpo. Rimase in quella posizione per una manciata di secondi, fissando l’ammasso umano disteso sul selciato. Non sentiva niente, non pensava a niente, non vedeva niente. Aveva solo nella testa il momento in cui quel tipo si era piegato dopo il primo colpo sui femori. Senza un fiato. Senza un lamento. Senza l’invocazione di soccorso. Si era semplicemente inginocchiato, sussurrando «Comment ça va, Ciriola?» E da quel sussurro aveva raggiunto le sue narici un sentore di mela dolce che gli fece l’effetto di un cazzotto sulle costole e lo rimandò indietro di sei anni.

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Aveva quasi tredici anni all’epoca; dalla Renella, dove era andato a fare il bagno, stava tornando verso via della Lungaretta quando fu catturato da un odore familiare di frutta cotta. Si guardò intorno cercando di capire la provenienza e la scia lo condusse verso una porticciola aperta: sembrava un’osteria, ma non lo era; sembrava una bottega, ma non lo era; sembrava una casa, ma non lo era. Si avvicinò per sbirciare dentro, un tizio di spalle era intento a togliere da un forno una grande teglia. Ciriola si ritrasse per non essere visto ma questi lo notò. «Hai fame?» gli chiese, con un accento che non era romano. Era biondo, coi capelli a covone, di corporatura normale, d’aspetto giovane, con due grandi occhi azzurri e una specie di neo rosso rubino, che sembrava un ornamento, sporgente sul bordo dell’orecchio destro. «Nun sei de Roma.» «Sono di Parigi.» «Ah, un froscio2.» «No, un francese.» Vd. uso in G.G. Belli, Sonetti romaneschi, pubblicati dal nipote Giacomo, 1886, nota a p. 62: «Le fròsce (da non confondersi con fròssce, flosce) sono “froge”; “froscio” dunque: “uomo con le froge grosse”, si applica particolarmente ai tedeschi e agli austriaci.» 2

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«Me sembravi tedesco. Comunque è la stessa cosa.» Rimasero zitti per un po’, il francese a riflettere su cosa intendesse per froscio e il ragazzino a sniffare il dolce. Poi il tizio spezzò il silenzio. «Come ti chiami?» «Ciriola.» «Allora, hai fame Ciriola?» Il ragazzino lo guardò male. «Ti sembro uno che ha fame?» In effetti aveva una fame che quasi non gli pareva di averla, ma la strada gli aveva insegnato che nessuno ti dà niente per niente, tantomeno da mangiare. Per non cedere alle lusinghe della pancia mormorò fra sé e sé quello che ripeteva sempre suo padre quando a casa non c’era di che fare cena: «Ricordate che er vero romano se more de fame ma nun stenne la mano.» Quasi per riflesso, quindi, mise le mani dietro la schiena, tenendole ben nascoste; sia mai che qualcuno passando avesse frainteso, e rimpianse di non avere il coltello con sé, altrimenti non avrebbe avuto alcun dubbio a sottrarre il cibo al froscio senza dargli il tempo di reclamare qualcosa in cambio. Intanto questi era rientrato lasciandogli sotto il naso la grande teglia profumata. Ciriola ne inspirò l’aroma: un fiotto di acquolina gli invase la bocca, ebbe quasi un mancamento, sputò e come un gatto

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che per sua natura non può fare a meno di mangiare di nascosto anche il cibo che gli viene offerto, dopo essersi sincerato che il francese non lo vedesse, arraffò un pezzo di dolce e lo ingurgitò. Sapeva di mele, pane, miele: ne staccò un altro pezzo, e un altro ancora, finché non ne rimase meno della metà. Finito che ebbe, stava per andarsene senza tanti complimenti quando il francese dalla soglia gli chiese «Comment ça va, Ciriola?» Imbarazzato per essere stato nutrito, Ciriola, ripetendo il suono dell’ultima parola senza saperne il significato, rispose savà e se ne andò. Non rivide mai più il froscio di Francia. A dirla tutta, si scordò di lui molto presto. Ma di quel giorno gli rimase per sempre nelle narici il profumo della mela dolce. Ciriola tolse il sostegno e il viso della sua vittima ricadde pesantemente sul lato. Rialzandosi intoppò in una mela ammaccata, forse la causa di quel ricordo non voluto; la pestò, e ripestò, e ripestò con forza. Savà. Savà. Savà. Bardasso, sempre più impaziente, giocherellava nervosamente con il fagottino insanguinato che teneva in mano, la prova da portare al loro mandante per dimostrare di aver eseguito il lavoro. «Allora?» «È morto.»

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02. «È morto.» Don Riccardo Pattumelli, per il rione anche don Monnezza o il Bagarozzo de Regola, chiuse il breviario. Aveva calcolato che il tempo di recitazione della compieta copriva esattamente il tempo che serviva a mazzolare a morte un uomo. Posò il libricino consunto dalla devozione sul suo tavolo da lavoro, sistemò senza convinzione alcune carte e andò in cucina per la cena. Sulla stufa quasi spenta il tegame con i maccarelli arrosto e le patate era ancora caldo. Don Pattumelli lo portò in tavola, spillò un chierichetto3 di vino, neanche un quinto di litro, e si sedette. Fece il segno della croce. I maccarelli, dalla pentola, lo guardarono con l’occhio vitreo. Don Pattumelli ricambiò, vitreo, il loro sguardo. «È morto.»

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Una delle misure romane del vino in vetro.

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03. «È morto!» «È morto! È morto!» «Il Carnevale è morto!» «Sia ammazzato il Carnevale!» «Sia ammazzato chi non porta il moccolo!» La festa imperversava lungo il Corso. Come uno sciame impazzito, le maschere si mescolavano in un turbinio di colori e frastuono, tutti con la candela accesa in mano formando una scia di fiammelle che faceva risplendere la notte. Disordine e caos, vero e falso, trasgressione e divertimento, cattiveria e gentilezza, luce e tenebra convergevano nell’orgia del Martedì Grasso. L’indomani sarebbe stata penitenza. L’indomani, però. E l’indomani era ancora lontano. «Sia ammazzato il Pulcinella!» «Sia ammazzato il beccaccione!» Teresa ululava, fuori di sé dal divertimento, e spintonava, e rideva, seguendo il flusso della folla. Era giovane, era innamorata, e anche se aveva infranto il precetto di non uscire di casa dall’Ave Maria alla levata del sole pena la traduzione alle Carceri Nuove, il suo solo pensiero in quel momento era di fare in modo che non le spegnessero la candela.

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«Sia ammazzata la ciociara!» «Sia ammazzato l’accattone!» Teresa impazziva, tenendo per mano il suo amante, e saltava da una parte all’altra della strada, saliva sul predellino delle vetture, soffiando su ogni moccolo, senza tregua, fino allo sfinimento. «Sia ammazzato il Cassandrino!» «Sia ammazzata la gran dama!» «Sia ammazzato il brigante!» Teresa si sfiatava e non c’era lucina, fiammella, scintilla che le sfuggisse. In quel momento alcuni garzoni tedeschi barcollanti la urtarono violentemente spegnendole la candela e facendola cadere in terra: «Sia ammazzato chi non porta il moccolo!» cantilenarono in coro allontanandosi. «Morammazzati a voi» imprecò lei ridendo. «Vieni, aiutami a rialzarmi…» e con le dita cercò il sostegno del braccio dell’amante. Ma lui non c’era. «Onesto?», chiamò. Si alzò di scatto. «Honnête?!» urlò. Ma sì, lui doveva essere rimasto indietro, quando l’avevano spinta. Cercò ancora con lo sguardo. Si mise in punta di piedi, si girò intorno, allungandosi come poteva sopra le teste.

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Lui non c’era. In quel momento, un Meo Patacca e un quacquero la presero ai due lati sottobraccio e la trascinarono via sbeffeggiandola. «Sia ammazzato chi non porta il moccolo! Sia ammazzato chi non porta il moccolo!» Teresa diede uno strattone e si liberò dalla presa, ma intanto si era allontanata ancora di più. Cercò di tornare indietro facendosi largo fra quella colluvie di sconosciuti. Dame, poveracci, cani randagi, garzoni, artisti, ciarlatani, accattoni, ciociare, zingari, befane, assassini, matti, quacqueri e briganti le scorrevano accanto. Cassandrini, Don Pasquali, Colombine, Don Piloni e Gambalunga le ridevano contro. Il rosso, il blu, il giallo, il verde, gli alti, i bassi, la cera, il fuoco, il buio, la luce, il fumo, le puzze e i fiati: tutto era confusione ora, solo confusione. E il carnevale non era più divertente. «Sia ammazzato l’Arlecchino!» «Sia ammazzato l’Arlecchino!» Due, abbigliati da assassini, sbucarono all’improvviso dal lato del Corso all’altezza di via di Gesù e Maria, e la circuirono4. Ispirato a un fatto di cronaca accaduto davvero il 23/02/1846, riportato il 27/02/1846 su Nicola Roncalli, Cronache di Roma 1844-1870, (S.ROM.3A Roncalli 2/1 Bibl. Naz. Roma). 4

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«Sia ammazzato chi non porta il moccolo!», gridarono. Un brivido. «Sia ammazzato il Carnevale!» ghignarono. Un presentimento. «Il Carnevale è morto!» sibilarono. Una lacrima. «È morto...»

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