Lavoro@Confronto - Numero 15

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Numero 15

Maggio/Giugno 2016

Lo smarrimento del bene comune di Fabrizio Di Lalla

SOMMARIO: Lo smarrimento del bene comune Fabrizio Di Lalla

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La fine ingloriosa della privatizzazione nei servizi pubblici

Il mio ultimo scritto apparso sul numero precedente, in cui argomentando sulla perdita dei valori fondanti della nostra società mi dilungavo sulla profonda crisi del movimento sindacale, ha incontrato, com’è giusto che sia, consensi e critiche. Tra queste ultime mi ha colpito la nota di un operatore di un ufficio territoriale (ancora per poco) uno di quelli che tirano la carretta della credibilità della PA. Esprimeva dissenso soprattutto per il tono, secondo lui duro e ingiusto, da me usato nei confronti di un movimento in cui ci sono ancora tanti che lottano, in condizioni altresì più difficili di quelle di un tempo, per l’affermazione dei valori in cui credono. Al mio lettore chiedo scusa se l’amara costatazione della costante decadenza di un’attività che ritengo indispensabile, cui, oltretutto, ho dedicato i migliori anni della mia vita, mi ha inconsapevolmente forzato la mano e la penna. D’altra parte sullo stato di salute delle organizzazioni sindacali penseranno a informarci prossimamente gli stessi leader confederali, nell’ambito del nostro lungo viaggio all’interno di quel mondo, iniziato proprio nel numero scorso. [CO NT INUA A PA G 2 ]

Dario Messineo

20 maggio 2016: diciassette anni dalla scomparsa di Massimo D’Antona Claudio Palmisciano

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Il riposo donato

Luigi Oppedisano ed Erminia Diana

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Vittime di violenza di genere: dal Jobs Act una migliore tutela Sara Vizin

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Neet Generation

Stefano Olivieri Pennesi

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Rilevanza dell’ASSE.CO. nei contratti pubblici Gianna Elena De Filippis

La fine ingloriosa della privatizzazione nei servizi pubblici

20 maggio 2016: diciassette anni dalla scomparsa di Massimo D’Antona

La tutela infortunistica nello sport

di Dario Messineo

di Claudio Palmisciano

Tiziano Argazzi

Il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 segna una svolta nel pubblico impiego sul piano della “contrattualizzazione” del rapporto di lavoro[1]. La cd “privatizzazione” doveva costituire un punto d’arrivo della disciplina pubblicistica, in tal modo la regolamentazione del rapporto di lavoro doveva escludere il potere unilaterale della legge a favore delle regole contrattuali, e conseguentemente privatizzare il potere direttivo, organizzativo e disciplinare della dirigenza. Gli unici valori “pubblicistici” rimasti dovevano concretarsi…

Esattamente 17 anni fa, erano da poco passate le 8 del mattino, in Via Salaria a Roma, a pochi passi dalla sua abitazione da dove era appena uscito per iniziare la sua normale giornata di lavoro, un commando terrorista uccideva Massimo D'Antona. Nella costernazione generale, Massimo D’Antona lascia la moglie Olga e la figlia Valentina.

[CO NT INUA A PA G 3 ]

[CO NT INUA A PA G 9 ]

Come tutti sappiamo, Massimo D’Antona in quegli ultimi anni del suo impegno professionale, oltre ad essere uno stimato docente dell’Università La Sapienza di Roma, operava a fianco…

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Alberto Del Prete

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Lavoro di pubblica utilità come alternativa al carcere [Pag. 25]

Istituti previdenziali e casse pensioni Stefano Stefani

[Pag. 29]

L’evoluzione storica del Terzo Settore: nascita e progressiva affermazione - Prima Parte Paola Di Paolo

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Effemeridi: pillole di satira e costume Fadila

Hanno collaborato a questo numero

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Lo smarrimento del bene comune di Fabrizio Di Lalla [*] Il mio ultimo scritto apparso sul numero precedente, in cui argomentando sulla perdita dei valori fondanti della nostra società mi dilungavo sulla profonda crisi del movimento sindacale, ha incontrato, com’è giusto che sia, consensi e critiche. Tra queste ultime mi ha colpito la nota di un operatore di un ufficio territoriale (ancora per poco ) uno di quelli che tirano la carretta della credibilità della PA. Esprimeva dissenso soprattutto per il tono, secondo lui duro e ingiusto, da me usato nei confronti di un movimento in cui ci sono ancora tanti che lottano, in condizioni altresì più difficili di quelle di un tempo, per l’affermazione dei valori in cui credono. Al mio lettore chiedo scusa se l’amara costatazione della costante decadenza di un’attività che ritengo indispensabile, cui, oltretutto, ho dedicato i migliori anni della mia vita, mi ha inconsapevolmente forzato la mano e la penna. D’altra parte sullo stato di salute delle organizzazioni sindacali penseranno a informarci prossimamente gli stessi leader confederali, nell’ambito del nostro lungo viaggio all’interno di quel mondo, iniziato proprio nel numero scorso. Voglio comunque rassicurarlo perché il mio articolo non è stato il frutto di un raptus qualunquista, purtroppo oggi imperante, ma il tentativo di analizzare le cause dell’attuale crisi dei valori e degli strumenti creati per metterli in atto, che hanno permeato il nostro modo d’essere per oltre un trentennio dalla nascita della repubblica. Il motivo, in altri termini, dello smarrimento del concetto di bene comune da parte di una consistente componente della nostra società. Questo ideale ha rappresentato il fine ultimo delle ideologie o delle dottrine religiose imperanti: il mercato perfetto, l’uguaglianza come base di partenza, la ricompensa ultraterrena. Le ideologie si sono sempre rivolte alla gran parte degli uomini ma non a tutti perché necessitano anche dell’avversario da sconfiggere. L’attrazione dell’idea di bene comune deriva dal fatto che i suoi elementi sono in gran parte, assimilabili con i desideri individuali. Persino il più povero degli uomini può condividere l’idea di un mercato perfetto in cui possa far valere le sue capacità; il più grande peccatore può credere nell’idea della redenzione. Ma le ideologie, anche quando sembrano universali ed eterne, sono pur sempre elaborazioni umane e quindi hanno un loro percorso che si conclude quando vengono soppiantate, nel corso della storia, da altre che penetrano in profondità nel comune sentire. L’attuale crisi della nostra società, però, non trae origine da tutto ciò; piuttosto dal tradimento delle classi dirigenti nello strumentalizzare i valori fondanti della nostra società per dare spazio esclusivo ai propri interessi. Di conseguenza, hanno fatto di tutto per screditare gli organismi che potevano impedire questa deriva, favorendo la moda dell’effimero e del particolare. Così con progressione si è diffuso a macchia d’olio in strati sempre più vasti della società individualismo ed edonismo. L’affievolirsi del concetto di bene collettivo ha arrecato danni nella gestione della cosa pubblica, dalla base al vertice, dagli enti locali agli organismi di vertice del nostro paese. Un esempio per tutti è lo stato comatoso in cui si trova il nostro sistema scolastico e i recenti episodi di violenza verificatisi tra gli attori di questo scenario, riportati dalle cronache sono lì a confermarlo. E’ solo un elemento aggiuntivo alla dimostrazione del degrado esistente. Oggi basta accostarsi a questa istituzione fondamentale per il futuro del nostro paese per costatarne la decadenza materiale e spirituale, sottolineata, d’altra parte, dalle valutazioni degli organismi internazionali. Agli edifici spesso di difficile agibilità per l'indifferenza della classe dirigente che non fornisce le risorse necessarie alla manutenzione e per lo stesso atteggiamento irriguardoso versi questi beni pubblici tenuto dagli utenti, si aggiunge la scarsa attenzione data all’insegnamento, basato ancora in gran parte su un nozionismo che si può apprendere oggi per altre vie, mentre invece è colpevolmente trascurato l’insegnamento delle virtù civiche. Eppure anche in uno stato così desolante e desolato non mancano quelli che credono e si battono per il bene comune. E sono tanti, sebbene frantumati e dispersi come singoli individui o aggregati in realtà, limitate per fini e confini, come la nostra fondazione: una piccola, grande istituzione che consente a donne e uomini di buona volontà di svolgere azioni di solidarietà. C’è, dunque, ancora la speranza di rendere nuovamente vivibile la nostra società attraverso la creazione di corpi intermedi di vasta aggregazione o il ripristino della credibilità di quelli esistenti. Bisogna far presto, tuttavia, perché il tempo sta scadendo e con esso il rischio di consegnare alle nuove generazioni le macerie di una società senza ideali per i quali in tanti ci sono battuti nel corso della storia. [*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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La fine ingloriosa della privatizzazione nei servizi pubblici di Dario Messineo [*] Il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 segna una svolta nel pubblico impiego sul piano della “contrattualizzazione” del rapporto di lavoro [1] . La cd “privatizzazione” doveva costituire un punto d’arrivo della disciplina pubblicistica, in tal modo la regolamentazione del rapporto di lavoro doveva escludere il potere unilaterale della legge a favore delle regole contrattuali, e conseguentemente privatizzare il potere direttivo, organizzativo e disciplinare della dirigenza. Gli unici valori “pubblicistici” rimasti dovevano concretarsi nell’imparzialità e nell’indipendenza della funzione che potevano dar vita a codici di comportamento relativi all’etica del funzionario pubblico ed una separazione della politica dalla dirigenza pubblica. La scelta della contrattualizzazione era stata adottata per evitare l’emanazione di farragginose leggi o leggine che potessero creare disparità di trattamento tra pezzi dello stato e permettere un rapido adeguamento flessibile e duttile al mutamento delle regole e ai cambiamenti sociali, secondo gli schemi tipici della disciplina privatistica. La modifica al d.lgs. 165/2001, attuata dal d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 [2] , doveva accentuare questo aspetto ma è andata nel senso esattamente opposto, restringendo i campi di applicazione contrattuale, senza però effettuare una scelta di campo ben precisa e netta. Anche la recentissima cd. Riforma Madia[3] non proponendo alcuna specifica innovazione su questo punto, (anzi al contrario puntando più che altro sulla disciplina pubblicistica) si limita ad intervenire su alcuni punti specifici, in nome della, ormai arci nota, spending review e della lotta agli sprechi e alla corruzione. A questo punto la disciplina del lavoro pubblico non solo appare profondamente diversificata tra i vari comparti pubblici, ma rimane monca delle problematiche connesse al rapporto contrattuale che sarebbero affidate, in parte (e, ribadisco, solo in parte) ad una tornata contrattuale che non vede la luce da un decennio e che desta poco interesse alla politica ed all’opinione pubblica. La netta sensazione, allo stato attuale, è quella che l’avvicinamento che si vuole realizzare alla disciplina privatistica sia l’applicazione dei poteri datoriali tout court (quasi arbitrari), senza alcun riconoscimento delle tutele che vengono attribuite ai lavoratori dipendenti del privato. In questo senso vanno le previsioni di alcuni istituti, attribuiti, con riserva di legge, alla regolazione contrattata tra Aran e organizzazioni sindacali, che adesso devono trovare definizione esclusiva, in mancanza di espressa delega alla contrattazione, nella norma di legge statale[4] . Le considerazioni sopra riportate potrebbero far pensare che si tratti di casi isolati ma purtroppo non è così, tanto che ormai ad ogni cambiamento dei ministri che si occupano della funzione pubblica accade che viene aggiunto un tassello volto a eliminare, non le criticità presenti nelle organizzazioni pubbliche, ma a anestetizzare gli effetti perversi che queste criticità determinano, secondo gli orientamenti, volta per volta, dettati dalla pancia del corpo elettorale. Il pubblico impiego, in sostanza, è utilizzato come argomento per tenere buona l’opinione pubblica scaricando su di esso le ragioni delle disfunzioni o come vero e proprio bancomat del governo per tagliare rapidamente le spese pubbliche. In questo senso vanno le riforme sulle sanzioni disciplinari, che sostanzialmente sono uscite dall’ambito contrattuale, quella sulle visite mediche (che determinano un cambiamento completo dalla disciplina privatistica), quella sul sistema di rilevazione delle presenze (che sembra, in questo momento, costituire l’unico problema da risolvere per i dipendenti pubblici) quella sulla valutazione delle prestazioni ai fini del trattamento economico accessorio, quella sulla mobilità del personale, quella sulle progressioni economiche, quella delle restrizioni alle deleghe sindacali e (quanto alla dirigenza) quella sul conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali e sulla nuova dirigenza pubblica, ecc.. A ciò si aggiunga la volontà della politica di accaparrarsi di interi pezzi della pubblica amministrazione per piegarla ai propri bisogni, talvolta con lo scopo dell’efficientamento, talaltra (e più spesso ) con lo scopo specifico di ridurre i compiti amministrativi a mera attività esecutiva a servizio del politico di turno, senza il rispetto delle più elementari regole di imparzialità e buon andamento che devono indirizzare la pubblica amministrazione. Per fare un esempio concreto basti citare la nota sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di ben 1400 incarichi dirigenziali delle Agenzie fiscali[5] , che erano avvenuti, attraverso regolamenti e leggi ad hoc di natura temporanea, in favore di persone, in alcuni casi, nemmeno in possesso della laurea, che non avevano sostenuto alcun concorso pubblico per esami. Stranamente in questa ipotesi non c’è stata alcuna indignazione pubblica né tantomeno alcuna conseguenza politica. Eppure la previsione della obbligatorietà del concorso pubblico per il raggiungimento degli incarichi dirigenziali, stabilita dall’art. 97 della costituzione, dovrebbe essere un valore acquisito dal nostro ordinamento, e costituire la regola cardine affinchè sprechi e inefficienze Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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fossero banditi dalla normale routine quotidiana della burocrazia italiana. Ma evidentemente l’opinione pubblica non percepisce nettamente il rapporto diretto tra il rispetto delle regole e un’adeguata competenza e direzione dell’azione pubblica. A ciò si aggiunga che alla politica fa gola poter nominare vertici dirigenziali secondo le regole non scritte dell’appartenenza ad una determinata fazione o comunque ad una categoria di persone che non diano eccessivamente fastidio e non siano “troppo” competenti. Poi se i cosiddetti “nominati” operano senza conoscere le norme di legge, calpestando i lavoratori, o peggio, fornendo servizi con pessimi standard qualitativi di efficienza e professionalità, poco importa; tanto nel caso di carenza di controlli adeguati o scelte sbagliate dovute a palese incapacità manageriale basterà varare l’ennesima norma “finta” sulla trasparenza o sui cartellini o attribuire la responsabilità al classico “capro espiatorio” da dare in pasto all’opinione pubblica e tutto sarà risolto! Prevale, quindi, la confusione ed in quest’ambito la cosiddetta area grigia, che sta a metà tra la zona bianca della legalità e nera dell’illegalità, in cui non c’è ordine tra legale ed illegale, in cui sussistono rapporti di scambio estremamente vantaggiosi per gli attori esterni ed interni che assume dei confini incerti. Secondo uno studio sociologico che ha analizzato i fenomeni sociali italiani si può parlare di “un processo di reciproco riconoscimento, in base al quale si scambiano beni e servizi, si avvalgono gli uni delle risorse e delle competenze degli altri, si sostengono per conseguire specifici obiettivi ed in alcuni casi costituiscono alleanze organiche per tutelare o perseguire interessi comuni. In questo modo, tendono a instaurarsi giochi a somma positiva”, cioè con un vantaggio per tutti i partecipanti[6] . In questo stato che possiamo definire di “confusione istituzionale e politica” [7] la prassi che si è osservata in questi anni, tra l’altro, è quella per la quale l’ARAN, con la complicità delle O O.SS. silenti, redige pareri nell’ambito del pubblico impiego che alla fine diventano vere e proprie norme di legge e la funzione pubblica emette note esplicative, che nulla hanno a che vedere con la norma stessa ma che interpretano le norme in modo praeter legem (ed a volte, addirittura, anche contra legem) soprattutto laddove entrano in ballo diritti soggettivi dei lavoratori pubblici “privatizzati”, che sono ben diversi dai lavoratori privati, in tutti i sensi[8] . Di seguito cercheremo di analizzare soltanto alcuni casi emblematici svolti a meglio specificare quanto sopra affermato.

I “quadri” nel pubblico impiego Un esempio emblematico, che qui si vuole richiamare, è quello dell’area intermedia dei “quadri” nel pubblico impiego ed in particolare, nel comparto stato, osteggiata a tutti i livelli con motivazioni, a dir poco, fantasiose. La legge 13 maggio1985 n. 190, applicabile ai lavoratori pubblici e privati, diede una definizione generica della categoria dei “quadri”[9] , affidando alla contrattazione collettiva il compito di individuare i requisiti di appartenenza[10] . La previsione, occorre precisare, era già presente nell’art. 2095, 2° comma, c.c.. A fronte di una previsione codicistica generica dei “quadri” a fugare ogni dubbio intervenne l’art. 40 del d.lgs.165/2001, che demandò alla contrattazione collettiva di comparto la definizione di una disciplina distinta per le figure professionali che svolgevano compiti di direzione o che comportavano l’iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca[11] . A ciò si aggiunga l’introduzione della legge 15/7/2002 n.145 con la quale il legislatore previde la creazione della separata area della vicedirigenza[12] , che doveva essere disciplinata dalla contrattazione collettiva, dando parziale soddisfazione all’esigenza della creazione dell’area quadri nell’ambito del pubblico impiego statale e con lo scopo specifico di eliminare le differenze tra settore pubblico e privato. Le previsioni normative sopra descritte, dando ampio spazio alla contrattazione, di fatto, determinarono una distinzione netta tra i vari comparti pubblici, creando una situazione a “pelle di leopardo”. Mentre, di fatto, vennero istituite le “posizioni organizzative” negli enti locali e nel comparto Agenzie fiscali, invece nel parastato vennero riconosciuti i “professionals” e forti incentivi attribuiti alle posizioni di responsabilità. Viceversa nel Comparto Ministeri, si diede un forte impulso alle riqualificazioni, non ritenendo opportuno professionalizzare i lavoratori o responsabilizzarli attraverso l’istituzione delle cosiddette “posizioni organizzative” o introducendo le cosiddette “aree dei professionisti”. Ciò ha determinato, in quest’ultimo comparto, come effetto, per molti, ma non per tutti, un incremento economico di modestissimo rilievo [13] , (a seguito del passaggio di categoria all’interno dell’area dal basso verso l’alto ) senza peraltro alcun riconoscimento di uno specifico ruolo nell’organizzazione, ma ha causato, un conseguenziale, e poco proficuo, “generale appiattimento” verso il basso ingenerando, di fatto, confusione di ruoli e competenze professionali. Fatte queste premesse occorre precisare che l’ARAN, interpretando autenticamente l’art. 13 del CCNL comparto Ministeri il 16.02.1999, dichiarava, sul tema, che l’Area dei “quadri” non era necessario costituirla espressamente nel pubblico impiego [14] , in virtù della disciplina speciale prevista dai contratti pubblici (area della vice-dirigenza, posizioni organizzative e area dei professionisti) per i dipendenti che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione o che comportino iscrizione ad albi oppure tecnico - scientifici e di ricerca. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Occorre, altresì, precisare che anche la giurisprudenza italiana [15] , seguì l’orientamento ARAN sopra enunciato, inneggiando all’autonomia del sistema di classificazione del settore pubblico rispetto a quello privato, solo per la presenza di sistemi alternativi di riconoscimento della professionalità, che fondamentalmente sono i seguenti: 1. l’area della vice-dirigenza; 2. le posizioni organizzative; 3. l’area dei professionisti. Ebbene, allo stato attuale l’art. 40, 2 comma, così come richiamato dall’ARAN nella interpretazione autentica dell’art. 13 del CCNL è stato abrogato. Allo stesso modo è stata abrogata l’area separata della vicedirigenza (art. 17 del d.lgs. 165/2001 )[16] . Mentre le posizioni organizzative come abbiamo visto nel comparto ministeri non mai state attuate. Dunque tutte le argomentazioni per le quali l’area dei quadri non si doveva istituire pertanto sono cadute e non sussistono più giustificazioni giuridicamente plausibili per la mancata attuazione nel pubblico impiego dell’area dei “quadri” così come prevista dall’art. 2095 c.c. e dalla legge 190/1985. In conclusione, ad oggi, possiamo dire che siamo ritornati esattamente a venti anni or sono, nel senso che tutte le norme che venivano addotte pretestuosamente quali uniche giustificazioni alla mancata introduzione dell’area dei quadri sono state non solo disapplicate a adesso definitivamente abrogate da legislatore. Come in una sorta di “gioco dell’oca” ci si trova attualmente di nuovo all’“anno zero” e cioè di nuovo più o meno anche nel 1995. Anno nel quale però, si rammenta, la giurisprudenza parlava di contenuto indubbiamente precettivo sia dell’art. 2095 c.c. che della legge 190/1985 sia nel settore pubblico che in quello privato [17] . Nonostante però tale situazione si sia cristallizzata da più di una anno nulla è successo nel pubblico impiego (comparto Ministeri) e nulla probabilmente succederà, considerate le politiche gestionali attuali, poco interessate al merito e alla competenza, se non attraverso nuove sentenze dei giudici che dovranno, loro malgrado, ritornare a dire quanto già affermato tanto tempo fa. L’unico barlume di speranza risiede nel ravvedimento operoso e concreto delle parti sociali presenti al tavolo a seguito della recentissima riunificazione dei comparti contrattuali[18] e nella recondita speranza che la contrattazione, con un improvviso rigurgito delle coscienze, possa ripartire daccapo, secondo regole totalmente innovative e attente alla realtà lavorativa concreta. Occorre, sul punto, ribadire che la previsione di un’area intermedia, che ha il profumo di una rivendicazione sindacale nuda e pura, costituisce, invero, l’ossatura attraverso la quale “funziona” e si “organizza” la pubblica amministrazione. Cioè stabilire nell’ordinamento professionale della P.A: un sistema classificatorio che preveda la linea di comando intermedio che traduca gli indirizzi le assicuri il rispetto delle regole operative in maniera certa, in virtù delle conoscenze degli obiettivi e delle regole procedurali, dà la possibilità, a chi opera all’interno delle aree di avere contezza delle proprie azioni e degli obiettivi da perseguire. Allo stesso tempo coloro che vengono investiti formalmente di un ruolo all’interno della organizzazione datoriale (pubblica o privata che sia) sono utili allo sviluppo della stessa ed implementano l’autostima ed il senso di appartenenza dell’istituzione e del gruppo di lavoro cui appartengono. La mancata creazione delle posizioni organizzative e delle aree dei professionisti, e contestualmente l’abolizione dell’area separata della vicedirigenza, e dell’art. 40 del d.lgs. 165/2001, (che dava origine legale ad un’area quadri) costituiscono “pietre miliari” emblematiche della scarsa conoscenza dei “gangli vitali” del sistema organizzativo del pubblico impiego e una delle cause del declino della organizzazione datoriale verso l’appiattimento delle funzioni e dei compiti. L’assenza completa di una linea intermedia di comando con grande carica motivazionale, che trasformi quotidianamente gli obiettivi dati in azioni concrete sul territorio giustifica un comportamento spesso e volentieri schizofrenico degli organi pubblici sul territorio che distorcono, consapevolmente o inconsapevolmente, le direttive fornite dal vertice. Le conseguenze di questa scellerata idea che il pubblico impiego non abbia bisogno di posizioni intermedie qualificate e professionalizzate, segnatamente nell’ambito del comparto ministeri, ha ingenerato, specificatamente nel comparto predetto, piano piano, un diffuso menefreghismo degli obiettivi dell’azione pubblica, una mancata partecipazione corale alle iniziative provenienti dal vertice, una diffidenza qualunquista a qualsiasi iniziativa politica di innovazione mirata ad implementare l’azione pubblica. Qualunque iniziativa di reingegnerizzazione dei processi produttivi, difatti, prescindendo dalla qualità o meno della stessa, viene considerata oramai volta ad alimentare spot elettorali e non tale da efficientare realmente l’organizzazione del lavoro. La mancata attribuzione del riconoscimento di ruoli di vertice intermedi ha determinato un disinteresse diffuso all’obiettivo, macro, della soddisfazione degli utenti, implementando, invece, l’obiettivo, micro, della assenza di responsabilità. Questo ragionamento ha creato divisione e scarsa collaborazione degli operatori, che poco hanno contribuito all’azione di rinnovamento e hanno determinato un’azione di disgregazione del lavoro di gruppo, della collaborazione e della reciproca attenzione. Tutte le norme introdotte sono state, difatti, viste come peggiorative e volte a deprivare i lavoratori dei diritti acquisiti, senza tener conto del contenuto delle iniziative volte, talvolta, ad implementare i servizi. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Quanto sopra ha appiattito completamente le professionalità intermedie deprofessionalizzando e disorientando i “quadri” ed i “professionals”, presenti, numerosi nelle fila dei lavoratori pubblici. I fattori determinanti di questo insuccesso sono stati lo scarso senso di appartenenza e la mancata immedesimazione dei funzionari pubblici all’amministrazione. A ciò si aggiunga il continuo ricorso degli enti pubblici a professionalità esterne (ad esempio nei processi formativi o negli incarichi dirigenziali, o nella attribuzione di consulenze) che ha delegittimato coloro i quali all’interno ritenevano, fondatamente o meno, di possedere le qualità adeguate a svolgere quelle determinate funzioni e quei determinati incarichi esternalizzati. La politica della “par condicio” nel senso però del “tutti uguali in senso formale” e delle riqualificazione a tutti i costi, è da ritenersi tutt’altro che vincente nella pubblica amministrazione, al contrario, demotiva il personale e porta tutti i lavoratori in una spirale di scarso rendimento creando sacche sempre più numerose di disinteresse e disinformazione. Dall’altra parte spesso i vertici dell’amministrazione e la politica non comprendendo le cause del malessere vedono i lavoratori, qualificati o meno, come “smaniosi” di raggiungere determinati obiettivi, essendo il centro lontano dalle esigenze reali delle classi intermedie e dalla necessità del riconoscimento del ruolo all’interno dell’organizzazione. A questo punto le modifiche sostanziali dell’organizzazione del lavoro volte al raggiungimento del “benessere organizzativo” ed il riconoscimento dei diritti dei lavoratori pubblici passano in secondo piano venendo in evidenza una strategia puntuale volta a denigrare sistematicamente gli operatori del pubblico impiego in una spirale di delegittimazione senza fine (interna ed esterna) che porta a cattive prassi e pessimi servizi pubblici.

Le regole privatistiche in un quadro di impiego privatizzato Nel quadro della cosiddetta “par condicio” tra dipendenti pubblici e privati occorre affrontare ancora un’altra questione, che in questo momento risulta irrisolta, perché non soggetta ad alcuna attenzione delle parti sociali. Se è vero, difatti, che la Comunità europea ha dettato delle regole comuni relative all’orario di lavoro per tutti i dipenditi pubblici e privati[19] , occorre chiedersi come mai queste regole non vengono applicate proprio ai pubblici dipendenti. Ebbene occorre, a ben vedere, fare una distinzione tra “enti pubblici locali” per i quali le indicazioni della funzione pubblica non sono cogenti e le regole, invece, stabilite per gli enti pubblici prettamente statali. Come noto, difatti, il Ministero del lavoro, d’intesa con la funzione pubblica , all’indomani della emanazione del d.lgs. 66 dell’8 aprile 2003, integrato e modificato dal decreto legislativo n. 213 del 19 luglio 2004, emanò la circolare esplicativa n. 8/2005. Come chiaramente indicato in circolare e ribadito dall’ARAN unilateralmente[20] in tema di fruizione delle ferie i termini indicati dal CCNL del 6/7/1995 [21] devono ritenersi prevalenti rispetto a quanto previsto dal d.lgs. 66/2003 e pertanto le stesse non sono da ritenersi fruibili nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione come per tutti gli altri lavoratori. Pertanto il dipendente non può chiedere lo spostamento fino al 18° messe successivo a quello di maturazione, né tale spostamento può essere autonomamente operato dal datore di lavoro come avviene nel rapporto di lavoro privato. Stesso ragionamento può farsi in relazione al diritto del lavoratore a fruire delle ferie per 15 giorni consecutivi nell’anno stesso di maturazione. In conclusione la flessibilità contrattale ha portato gli enti Statali ad un mancato adeguamento della disciplina contrattuale in un arco di tempo di 13 anni, nell’applicazione di una normativa di circa 20 anni fa, (cioè siamo nuovamente al cosiddetto “Anno zero”) alla faccia del rinnovamento e della duttilità del contratto rispetto alla legge, creando, tra l’altro, pericolose disparità di trattamento non solo tra dipendenti pubblici e privati, ma anche tra dipendenti pubblici[22] .

La paternità negata ai pubblici dipendenti Non dissimile è il ragionamento relativo alle giornate di congedo concesso recentemente dalla legge ai lavoratori padri per i dipendenti pubblici e privati. Nello specifico la legge 28 giugno 2012 n. 92, allo scopo di favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia, ha previsto alcune modifiche alle norme sulla maternità e l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, in linea con quanto previsto in altri paesi e con la Direttiva 2010/18/E U. 2 ). La legge suddetta, in particolare l'art. 4, comma 24, della legge n. 92 del 2012, , prevede per gli anni 2013 -2015, l'obbligo (per un giorno ) e la facoltà (per due giorni) per il padre lavoratore di astenersi dal lavoro entro i primi cinque mesi dalla nascita del figlio, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. La normativa è stata estesa dall’art. 1, comma 205, della l. 28/12/2015, n.208, a tutto il 2016 ed il congedo obbligatorio è stato portato a due giorni, più un giorno di facoltativo. n tale ultima ipotesi, per il periodo di due giorni goduto in sostituzione della madre è Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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riconosciuta un'indennità giornaliera a carico dell'INPS pari al 100 per cento della retribuzione e per il restante giorno in aggiunta all'obbligo di astensione della madre è riconosciuta un'indennità pari al 100 per cento della retribuzione. Ebbene, pur essendo la normativa rivolta a tutti i dipendenti, pubblici e privati, anche in tal caso, neanche a dirlo, è intervenuto il Dipartimento della Funzione Pubblica che, con parere del 20/02/2013 n. DFP 0008629 P -4.17.1.7.5., ha stabilito che la norma non si applica ai dipendenti degli enti pubblici statali[23] . In particolare fa specie il parere della funzione pubblica in quanto non dichiara espressamente che il diritto non sussiste (e non si vede come potrebbe farlo vista la chiara indicazione della legge, all’art. 1, comma 7 ) ma precisa che a seguito di un fantomatico combinato disposto, (art. 1, commi 7 ed 8 ) “la normativa non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ma occorre una apposita normativa che individui gli ambiti, le modalità ed i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Come è agevolmente desumibile dalla lettura dell’art. 1, commi 7 ed 8, la normativa non fa esplicito riferimento ad un obbligatorio atto normativo ma stabilisce che si può intervenire “anche mediante iniziative normative”. Ebbene è chiaro che in tali ipotesi lo strumento naturale da adottare era quello contrattuale, e comunque, a fronte di una disciplina transitoria dettata per un periodo brevissimo (3 anni in un primo momento ed un quarto a seguito della recente proroga di applicazione) incombe sulle amministrazioni e sulla funzione pubblica la responsabilità per l’inadempimento contrattuale e/o il vuoto normativo creato. E’ infatti da precisare che nessun atto normativo e/o contrattuale ha fatto seguito alla norma di legge dal 2013 al 2015 (e c’è da scommetterci) non lo farà nemmeno nel 2016. Premesso quanto sopra la domanda potrebbe essere questa: “Forse “le pari opportunità” riconosciute ai lavoratori padri della pubblica amministrazioni dello stato sono diverse da quelle del privato o forse sono “discriminabili” proprio in quanto lavoratori pubblici” Ma a questo punto, in generale ci si potrebbe chiedere se può un parere del dipartimento della funzione pubblica (palesemente praeter legem) negare un diritto soggettivo da cui derivano peraltro obblighi previdenziali e retributivi ai dipendenti dello stato e non a quelli degli enti locali. E, soprattutto, che fine ha fatto la contrattazione nel pubblico impiego? Ad avviso dello scrivente è maturo il tempo affinché si definiscano regole chiare sulla cosiddetta contrattualizzazione e sulle modalità applicative. Ciò non solo per raggiungere il cosiddetto “benessere organizzativo” ma per i l corretto funzionamento e l’organizzazione complessiva di tutto l’apparato della pubblica amministrazione. La certezza dei comportamenti del pubblico impiego si deve basare, difatti, non su scelte datoriali opportunistiche ma su certezze consolidate che implementino la stima e la fiducia che tutti (compresi i pubblici dipendenti) nutrono nei confronti del datore di lavoro pubblico. Questo, ad avviso di chi scrive, costituisce il presupposto indefettibile per un approccio seriamente innovativo alla macchina pubblica, nel rispetto delle regole interne ed esterne e del principio del buon andamento ed imparzialità del pubblico impiego, al di la di ogni slogan politico e propagandistico.

Note [1]

I successivi decreti Bassanini ( Legge 15 marzo 1997, n. 59, Legge 15 maggio 1997, n. 127, Legge 16 giugno 1998, n. 191 Legge 8 marzo 1999 n. 50 ) puntualizzeranno questa “rivoluzione copernicana. [2] Attuativo della legge 4 marzo 2009 n. 15 (cd. Legge Brunetta). [3] Legge 7 agosto 2015 n. 124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, meglio conosciuta come Legge Madia di Riforma della PA. La legge è costituita da 23 articoli, così suddivisi: artt. 1 -7: semplificazioni amministrative; artt. 8 -10: organizzazione; artt. 11 -15: personale; artt. 16 -23: deleghe per la semplificazione normativa. [4] Emblematico in questo senso è, ad esempio, la eliminazione completa della possibilità per i dipendenti pubblici di impugnazione delle sanzioni disciplinari tramite rimedi extragiudiziari (come avviene nel privato attraverso l’applicazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ) e la necessità di ricorrere obbligatoriamente ad un giudice con tutte le conseguenze economiche che da questo derivano. [5] Sentenza n. 37/2015 della Corte Costituzionale. [6] Prof Sciarrone, CO MPLICI, SO CI E ALLE ATI. UNA RICE RCA SULL’ARE A G RIG IA DE LLA MAFIA, su Studi sulla questione criminale, vii, n. 1, 2012, pg. 68. [7] Confusione in quanto non si agisce in base ad un progetto predeterminato ma sulla base di un grande dinamismo privato ed un grande disordine pubblico dove vince la casta più forte in quel momento. Vedi sul punto l’interessantissimo studio sociologico del Prof. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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C.Trigilia, Dinamismo privato e disordine pubblico, in F. Barbagallo, Storia dell’Italia repubblicana. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Einaudi, Torino 1995, pp. 711 -77. [8] Emblematica, in al senso, è la sentenza della Corte Costituzionale n. 178/2015 in merito al blocco dei contratti pubblici, ove i Giudici ermellini evidenziano che siffatto blocco viola il principio di proporzionalità e di adeguatezza della retribuzione rispetto al lavoro prestato. La Corte afferma altresì che il blocco prolungato della contrattazione non può non configurare una violazione della libertà sindacale e della autonomia negoziale. Purtuttavia ritiene che la sentenza non abbia valore retroattivo, ma solo, pro futuro, per i pubblici dipendenti, accantonando velocemente la questione relativa alla parità di trattamento rispetto ai dipendenti privati, per i quali sono invece avvenuti gli incrementi contrattuali e non vi è stato alcun blocco contrattuale. Sul punto la stessa Corte Costituzionale richiama anche l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ( CE DU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per il quale il credito del lavoratore si configura come proprietà. ( Si veda Grande Camera, sentenza 12 novembre 2008, Demir e Baykara contro Turchia, riguardante il diritto di stipulare contratti collettivi nel lavoro pubblico ). [9] Art. 2 l. 190/1985: “La categoria dei quadri è costituita da prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. [10] Lo stesso art. 2095 cod. civ., al II° comma, opera un rinvio alla contrattazione collettiva, senza che in passato ciò abbia mai impedito la rivendicazione delle categorie di operaio, impiegato e dirigente in difetto di uno specifico intervento della disciplina contrattuale collettiva. Sul punto “Il diritto al riconoscimento della qualifica di quadro, istituita dalla legge 13 maggio 1985 n. 190, è configurabile anche se, entro l'anno dall'entrata in vigore della legge, la contrattazione non abbia provveduto, a norma degli artt. 2 e 3, a stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria”. Si veda, in tal senso anche Cass. 27.2.1995 n. 2246, e v. anche, Cass. 2.12.1998 n. 12214 che espressamente sostiene “ Va, dunque, affermato che, laddove la normativa collettiva non provveda con norme proprie a dare attuazione alla legge, il giudice possa attribuire la qualifica di quadro al lavoratore dipendente sulla base delle indicazioni specifiche poste dalla legge n. 190/1985 (...)”. [11] L’art. 40 così come descritto è stato abrogato dall’art 54, comma 1, del D.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. [12] Si veda l’art. 17 bis del d.lgs. 165/2001. [13] Spesso capita che la somma recuperata a seguito di riqualificazione viene riassorbita dal mancato incremento contrattuale degli ultimi sei anni o, peggio ancora, in relazione allo scaglione fiscale di appartenenza, dal cosiddetto “Bonus Renzi” di 8o euro così come previsto dal D. L. n. 66/2014, all’art. 1. [14] L’ARAN e i Sindacati Confederali, in data 21.06.2001:“L'art. 13 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro – Comparto Ministeri – del 16 febbraio 1999 è confermato nella sua attuale formulazione che non prevede la categoria di Quadro, a motivo del fatto che, ai sensi dell'art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, la disciplina speciale prevista nel pubblico impiego per i dipendenti che in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico -scientifici e di ricerca, consente alle parti di non procedere all'automatica trasposizione della legge n. 190 del 1985 nel sistema classificatorio pubblico (ex art. 40 del d.lgs. 165/2001 ). [15] Cfr. sentenza della Corte di Cassazione n. 14193 del 05.07.2005. [16] Vedi art. 5 della legge 7 agosto 2012 n. 135. [17] Vedi giurisprudenza supra. [18] Vedi l’ipotesi di contratto collettivo quadro per la definizione dei comparti di contrattazione e delle relative areee dirigenziali per il triennio 2016/2018 sottoscritta in data 5 aprile 2016. [19] Vedi Direttiva comunitaria n. 93/104/CE e successive modifiche. [20] Vedi parere ARAN del 07/08/2012. [21] Si rammenta che In base a tale accordo le ferie possono essere differite solo per l'eventuale differimento per esigenze personali (entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione) e solo per esigenze di servizio (30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione). [22] Ad esempio gli Enti pubblici locali hanno preferito seguire, in massa, il dettato legislativo, non essendo per essi vincolanti le indicazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica. [23] La nota è stata ripresa dall’INPS con circolare n. 40 del 14/03/2013 di analogo contenuto. [*] Coordinatore amministrativo della D.T.L. di Cuneo e componente del Centro Studi presso la D.G. ispettiva del Ministero del Lavoro. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza.

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20 maggio 2016: diciassette anni dalla scomparsa di Massimo D’Antona di Claudio Palmisciano Esattamente 17 anni fa, erano da poco passate le 8 del mattino, in Via Salaria a Roma, a pochi passi dalla sua abitazione da dove era appena uscito per iniziare la sua normale giornata di lavoro, un commando terrorista uccideva Massimo D'Antona. Nella costernazione generale, Massimo D’Antona lascia la moglie Olga e la figlia Valentina. Come tutti sappiamo, Massimo D’Antona in quegli ultimi anni del suo impegno professionale, oltre ad essere uno stimato docente dell’Università La Sapienza di Roma, operava a fianco del Ministro del Lavoro per la stesura del Patto sociale e del Piano dell'occupazione; fu ucciso perché – secondo i terroristi - nel conflitto sociale esprimeva il senso della mediazione possibile e perché rappresentava la mente che avrebbe consentito allo Stato di poter funzionare meglio. Fra i tanti studi svolti e gli importanti contributi messi a disposizione delle Istituzioni, delle forze sociali e degli studiosi, Massimo D’Antona, nella sua visione ampia del mondo del lavoro italiano, aveva aperto un fronte di discussione sul ruolo determinante della pubblica amministrazione come fattore essenziale di un equilibrio dinamico tra forze e soggetti che responsabilmente assolvono al loro ruolo di gestione della produzione. Una discussione che, in tema di relazioni sindacali nel pubblico impiego, lo portò a scrivere una delle pagine più importanti della letteratura giuslavoristica pubblica mettendo a disposizione del legislatore importantissimi contributi che hanno regolato positivamente e per tanti anni le relazioni sindacali nel lavoro pubblico. Ricordiamo, infatti, che Massimo D’Antona, ha dedicato innumerevoli scritti alla costruzione sistematica della nuova figura del contratto collettivo nel pubblico impiego, svincolato dal regime pubblicistico e base per la regolazione del rapporto con i lavoratori. Alla fine degli anni ’90, implementando in maniera vigorosa il decreto 29 del 1993, relativo alla delegificazione del rapporto di pubblico impiego, aveva immaginato, fra le altre cose, che la negoziazione e la sottoscrizione di contratti collettivi, rappresentasse, così come avviene per i datori di lavoro privati, un mezzo per esercitare l’autonomia organizzativa attraverso la capacità di diritto privato. D’Antona credeva fermamente nella fonte pattizia, tanto da considerarla insostituibile in quanto unica via per introdurre nell’assetto normativo dei rapporti di lavoro quelle modificazioni, richieste dall’innovazione organizzativa, che non possono essere determinate senza il consenso dell’altra parte, perché formano il contenuto obbligatorio dei contratti individuali. Attraverso i contratti collettivi, sosteneva D’Antona, si ottiene il consenso preventivo dei sindacati su quelle innovazioni organizzative che, rientrando nel potere gestionale dell’amministrazione, possono essere attuate unilateralmente, ma che, se non condivise dai lavoratori interessati, possono essere anche contrastate attraverso il conflitto sindacale. In questo senso, la contrattazione collettiva viene considerata uno strumento delicato da maneggiare ma, sicuramente, efficiente per la gestione consensuale nei processi di innovazione organizzativa. Un capitolo su cui D’Antona si è molto speso è quello della riforma della dirigenza pubblica che costituisce il nodo principale delle innovazioni del pubblico impiego. A D’Antona non sfuggiva, infatti, la necessità di contrattualizzare la dirigenza in modo da spezzare il patto tra “fedeltà ed immunità” che porta alla sostanziale inamovibilità dei dirigenti, anche di quelli incapaci ed improduttivi, ma riteneva che l’alta dirigenza dovesse sottostare a questo processo di privatizzazione pur non invadendo quello statuto di doveri e di garanzie. La citazione di alcuni cenni della copiosa opera di Massimo D’Antona dimostra oggi, anche a distanza di diciassette anni, che buona parte di quell’importante impegno è ancora di straordinaria attualità e ci avvilisce un po’ (per non dire altro ) il pensare di essere passati da quella stagione di forte impegno culturale messo a disposizione del Paese tutto, alla stagione del “fannullonismo” che ha avuto l’unica conseguenza di relegare nell’angolo di una incredibile condanna morale e professionale, in maniera indiscriminata, tutti i pubblici dipendenti. Insomma, oggi ancora di più, credo debba essere fatta una riflessione rispetto al rischio di vedere dispersa tutta l’eredità che ci ha lasciato Massimo D’Antona, attraverso il suo impegno, i suoi studi, le sue ricerche. Un patrimonio che oggi non viene adeguatamente studiato e valorizzato e che invece potrebbe costituire un ottimo punto di riferimento sia per le questioni che attengono al mercato del lavoro come anche per quelle della pubblica amministrazione. E’ per questo che la Fondazione Massimo D’Antona, pur con tutti i limiti che può avere nello svolgimento della sua azione, continua a produrre una serie di sforzi tesi a tenere vivo il ricordo e le opere di Massimo D’Antona. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Il riposo donato Ferie annuali e ferie solidali di Luigi Oppedisano ed Erminia Diana [*]

Ferie annuali In Italia le fonti giuridiche che hanno dato corso al riconoscimento di un periodo di ferie annuali retribuite sono da ricercare nella Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del fascismo il 21/4/1927 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 30/4/1927, n. 100 [1] . Il testo della Carta del Lavoro è stato redatto da Carlo Costamagna, giurista e politologo. Successivamente il testo è stato riveduto e corretto da Alfredo Rocco, ministro di Grazia e Giustizia per il periodo dal 1925 al 1932 e persona ancora oggi ricordata quale estensore del codice penale e del codice di procedura penale. L a Carta del Lavoro doveva rispondere all’esigenza di appoggiare nel suo complesso le riforme sociali in favore dei lavoratori per quanto concerne gli istituti previdenziali, il sostentamento per la vecchiaia, l’indennità di disoccupazione, le garanzie in caso di malattia, la durata massima della giornata lavorativa in otto ore. Il riconoscimento è stato poi sancito dall’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana che ha individuato nei confronti del lavoratore subordinato un diritto, per alcuni versi, possiamo dire certamente dovuto, ma anche speciale: "Il lavoratore ha diritto … a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi". Infatti, con la nascita della Repubblica il legislatore costituente ha voluto comprendere tra i principi costituzionali il diritto per il lavoratore subordinato di fruire di un periodo annuale di ferie retribuite. Il diritto trova fondamento nell’articolo 36, comma 3, della Costituzione Italiana che ne prevede la sua irrinunciabilità [2] . Il diritto di beneficiare di un periodo di ferie annuali retribuite, riconosciuto e voluto anche dai padri costituenti della Repubblica Italiana, ha lo scopo di favorire momenti di benessere sociale e di gratifica ai lavoratori subordinati. Il riconoscimento ai lavoratori di godere di un diritto così forte e dignitoso ha significato per i rappresentanti della Repubblica il voler riconoscere il lavoro come fonte di benessere individuale prima e collettivo poi, quale giusto riconoscimento della penosità psico -fisica che esso comporta. Infatti, la particolare tutela al lavoratore subordinato di poter fruire di un periodo di ferie annuali come diritto fondamentale e irrinunciabile, ha lo scopo principale di consentire il reintegro delle energie fisiche e mentali consumate dal lavoratore stesso nel corso dell’attività lavorativa. Il codice civile, con l’articolo 2109, riprende e sviluppa tale diritto prevedendo che il lavoratore possa godere di un periodo di riposo annuale di “ferie retribuite”, tenuto conto delle esigenze dell’azienda e degli interessi del lavoratore[3] . La disposizione rinvia poi alla legge la regolamentazione concernente la durata del periodo di ferie retribuite stabilendo, inoltre, che l’imprenditore deve preventivamente comunicare al lavoratore il periodo fissato per il godimento delle stesse ferie. All’articolo 2243 del c.c., per quanto riguarda il lavoro domestico, il legislatore ha stabilito la durata minima delle ferie retribuite spettanti al lavoratore in otto giorni[4] . L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato un valido contribuito all’affermazione dell’istituto delle ferie. Infatti, l’articolo 24 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata il 10/12/1948 ha sancito che ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, limitando così le ore di lavoro e prevedendo ferie periodiche retribuite[5] . La Convenzione dell’O IL n. 132 del 24/6/1970, ratificata con legge 10/4/1981, n. 157, ha previsto un periodo di ferie minimo di tre settimane di cui due da godere ininterrottamente[6] . Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 7/12/2000 all’articolo 31 si è occupata delle condizioni di lavoro giuste ed eque prevedendo un periodo di ferie annuali retribuite[7] . Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Inoltre, il D.Lgs. 8/4/2003, n. 66, emanato in attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, all’articolo 10 ha regolamentato l’istituto delle ferie[8] . La Corte Costituzionale non ha mancato di pronunciarsi in merito alle controversie insorte sull’applicazione dell’istituto delle ferie. In particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109 c.c. relativamente all’inciso “dopo un anno d’ininterrotto servizio”[9] e dell’art. 2243 c.c. limitatamente all’inciso “dopo un anno d’ininterrotto servizio” [10] . La disciplina attuale, il D.Lgs. n. 66/2003, ha previsto a favore del prestatore di lavoro il diritto di fruire di un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Il legislatore Italiano si è limitato a confermare quanto già stabilito dalla direttiva 93/104/CE. Infatti, la norma comunitaria all’articolo 7 ha previsto che il lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane. Un aspetto molto importante della normativa è rappresentato dal fatto che il diritto alle ferie è un diritto irrinunciabile per il lavoratore. Ciò significa, molto chiaramente, che sono vietati accordi diretti alla rinuncia delle ferie annuali spettanti ed alla loro monetizzazione. Pertanto, tale principio non lascia alcuna facoltà al lavoratore di poter rinunciare alle ferie in cambio di una somma di denaro. La motivazione sta nel solo fatto che le ferie devono consentire al lavoratore il recupero psico -fisico e perciò lo stesso è tenuto ad assentarsi dal lavoro obbligatoriamente per un determinato numero di giornate annue prestabilite. La maturazione dei giorni di ferie, salvo disposizioni previste della contrattazione collettiva, avviene in proporzione ai mesi lavorati, ovverosia per ogni mese matura un rateo di ferie che è pari a un dodicesimo del totale annuo spettante. Il rateo compete se il mese è lavorato per intero o per una frazione pari o maggiore a 15 giorni. Le ferie maturano anche nei periodi di assenza dal lavoro come il congedo per maternità, per malattia, per matrimonio, ecc. Le ferie non maturano durante le assenze non assimilate al lavoro effettivo, come è il caso delle assenze per astensione facoltativa per maternità[11] , per congedo parentale, assenza per malattia del bambino, aspettativa per i lavoratori chiamati a ricoprire cariche pubbliche elettive o funzioni sindacali, per cassa integrazione a zero ore, congedo straordinario per l’assistenza di familiari disabili e per altre tipologie di assenze non retribuite. I periodi di godimento delle ferie annuali possiamo sicuramente riassumerli secondo lo schema che segue: due settimane - salvo particolari deroghe della contrattazione collettiva che possono prevederne la riduzione per eccezionali ragioni di servizio, come chiarito anche dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale[12 ] - continuative se richiesto dal lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione; altre due settimane possono essere fruite in maniera frazionata, entro 18 mesi dalla conclusione dell’anno di maturazione; ulteriori giorni, eventualmente stabiliti dalla contrattazione collettiva o individuale, fruibili in maniera frazionata, secondo i contratti o gli usi aziendali. La contrattazione collettiva può prevedere condizioni di miglior favore, aumentando il periodo di quattro settimane, ma per nessun motivo, può mai ridurlo. La normativa attribuisce alla contrattazione collettiva un rilevante potere derogatorio in relazione all’obbligo di godimento delle ferie. Pertanto, la contrattazione può intervenire a derogare sia sul periodo delle due settimane di ferie da fruire nel corso dell’anno di maturazione che sul restante periodo di due settimane da fruire entro i successivi 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione. I giorni di ferie eccedenti il periodo minimo legale, se previsti dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale, possono essere fruiti nel termine stabilito dai medesimi accordi o, in mancanza, dagli usi aziendali. Altro fondamentale principio è rappresentato dal divieto di monetizzazione delle ferie. Infatti, in riferimento al periodo minimo di quattro settimane, vige il divieto di retribuire eventuali periodi di ferie non fruiti, ad eccezione del caso in cui intervenga la risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno. Proprio la natura dell’indisponibilità e del principio costituzionale di irrinunciabilità alle ferie annuali, pone il lavoratore nella condizione di non potersi accordare con il datore di lavoro per trasformare in retribuzione i giorni di ferie. Nel merito, per i contratti di lavoro a tempo determinato di durata inferiore all'anno, è ammessa la monetizzazione delle ferie. E' altresì ammessa la monetizzazione delle ferie per i lavoratori italiani inviati all'estero [13] . I contratti collettivi, generalmente, prevedono la monetizzazione delle ferie non godute quando la mancata fruizione sia dipesa da esigenze di servizio o comunque da una impossibilità oggettiva non imputabile alla volontà del lavoratore. Secondo la Cassazione quando le ferie non vengono effettivamente godute, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore una indennità sostitutiva avente natura sia risarcitoria, perché la stessa può risultare atta a compensare il danno costituito dal mancato riposo, sia retributiva, in quanto rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa nel periodo che, pur essendo pagato, doveva essere destinato al godimento delle ferie annuali[14] . Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Le ferie non godute alla conclusione del rapporto di lavoro devono essere sempre pagate con la specifica indennità sostitutiva la quale, tra l’altro, riveste carattere risarcitorio. Infatti, quando il lavoratore è impossibilitato di godere le ferie perché non è più alle dipendenze del datore di lavoro, per licenziamento o per dimissioni ovvero per fine del rapporto a termine, allo stesso spetta l’indennità per ferie non godute. Tale principio non vale per i dipendenti della Pubblica Amministrazione. Infatti, il Decreto Legge 6/7/2012, n. 95, convertito nella Legge 7/8/2012, n. 135, all’art.5, comma 8, ha previsto per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche che le ferie spettanti al personale sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione dei trattamenti economici sostitutivi. Si aggiunge che la normativa non consente la sovrapposizione del periodo di godimento delle ferie con il periodo di prova e con il periodo di preavviso di licenziamento o di dimissioni. Il momento di godimento delle ferie, secondo l’art. 2109 c.c., viene stabilito dal datore di lavoro il quale è tenuto a definire modi e tempi di godimento delle ferie, contemperando le esigenze dell'impresa e gli interessi del lavoratore. A questi deve essere data comunicazione in merito al periodo di godimento delle ferie. Se l’azienda chiude per un certo periodo si parla di ferie collettive. In sintesi possiamo dire che la disciplina sulle ferie non lascia spazi o dubbi interpretativi, essa prescrive con estrema chiarezza che il lavoratore ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiori a 4 settimane, sancisce in modo inequivocabile che tale periodo minimo di ferie non può essere sostituito dalla relativa "indennità per ferie non godute", salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro ed infine, come introdotto dal D.Lgs n. 66/2003 risulta chiaro il divieto di monetizzare il periodo di ferie corrispondente alle quattro settimane previste dalla legge, salvo ovviamente il caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno.

Ferie solidali Il nostro ordinamento giuridico si è arricchito di un nuovo istituto sociale: si tratta delle ferie solidali. I lavoratori possono cedere gratuitamente i giorni di riposo aggiuntivi, quelli eccedenti il tetto minimo previsto dalla legge, a colleghi che hanno un figlio minore e che necessita di presenza fisica per cure continue a causa delle particolari condizioni di salute. La novità è contenuta nell’articolo 24 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 dove è stato previsto per i lavoratori la possibilità di cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie[15] . La norma trova ispirazione nella legge francese 9/5/2014, n. 459 “c.d. Loi Mathys” nome del bambino gravemente ammalato di tumore che non poteva essere assistito giornalmente dal padre poiché lo stesso aveva esaurito le ferie ed i riposi. I compagni di lavoro del genitore misero a sua disposizione una parte delle proprie ferie e dei riposi e l’iniziativa sfociò in un accordo aziendale, divenendo poi una norma che stabilì il principio in base al quale i lavoratori possono donare parte delle ferie e dei permessi non fruiti ad altri colleghi di lavoro. Le ferie ed i riposi solidali non rappresentano un fatto del tutto nuovo nel contesto lavoristico italiano. L’istituto era già in fase di sperimentazione in Italia. Al riguardo, vedasi l’accordo dell’8 settembre 2015 tra la Giunta regionale Sarda e le organizzazioni sindacali circa l’introduzione delle ferie solidali; l’accordo stipulato dall’Arpa abruzzese con la previsione della cessione a titolo gratuito di un massimo di tre giorni da parte dei lavoratori a colleghi a abbiano esaurito il periodo massimo di 18 mesi di malattia, le ferie ed i permessi; l’accordo integrativo del 30 marzo 2015 firmato dalla Lardini SpA, secondo il quale è previsto un meccanismo di solidarietà tra lavoratori che consiste nella possibilità di poter cedere volontariamente rol e permessi a colleghi che per gravi e provati motivi dimostrabili, abbiano finito la propria dotazione contrattuale. L’originalità dell'accordo consiste nel fatto che l'azienda, a fronte di ogni ora donata, si impegna a sua volta a donare una ulteriore ora. Tali iniziative potranno trovare giusta regolamentazione nella contrattazione collettiva. Tra esse si potranno stabilire ulteriori casi, ad esempio nulla vieterà agli accordi di prevedere l’applicazione dell'istituto anche nei confronti dei figli maggiorenni o di congiunti stretti essendo una condizione migliorativa rispetto alla normativa - ovvero l’adesione dell’azienda alla catena di solidarietà, come il caso della Lardini SpA. Comunque, le future soluzioni solidaristiche che saranno adottate non potranno essere ritenute sostitutive degli interventi che necessariamente appartengono alle competenze statali. Il primo CCNL che recepirà i principi dettati dall’art. 24 del D.Lgs. n. 151/2015 sulla cessione dei riposi e delle ferie è quello per gli addetti all’industria chimica, chimico -farmaceutica, delle fibre chimiche e dei settori abrasivi, lubrificanti e gpl di cui all’accordo di rinnovo Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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del 15/10/2015. L’accordo demanda alla contrattazione aziendale la disciplina della misura e delle modalità per la cessione collettiva di ferie e riposi da parte dei lavoratori e l’accantonamento delle relative ore per le finalità solidaristiche previste dalla norma predetta.

Sistema sanzionatorio Il D.Lgs. 19 luglio 2004 n. 213, con l’inserimento dell’articolo 18 bis al D.Lgs. 66/2003, ha introdotto specifiche sanzioni amministrative per i comportamenti omissivi del datore di lavoro in materia di orario di lavoro, di riposi giornalieri e settimanali, di lavoro notturno e di ferie annuali. L’attuale legislazione, secondo il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale [16] , prevede in capo ai datori di lavoro tre obblighi. Essi sono: obbligo di concedere un periodo di ferie di due settimane nel corso dell’anno di maturazione; obbligo di concedere due settimane consecutive di ferie, se richiesto dal lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione. La richiesta del lavoratore dovrà intervenire nel rispetto dei principi dell’art. 2109 del c.c. e, pertanto, anche in assenza di norme contrattuali sul punto, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro; fruizione del restante periodo minimo di due settimane nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha opportunamente chiarito che la sanzione si applica solo nel caso di mancata fruizione del periodo minimo legale di 4 settimane stabilito dalla legge e non anche per l’eventuale periodo più ampio previsto dalla contrattazione collettiva[17] . Dall’entrata in vigore del D.Lgs. 213/2004, nei limiti della previsione legale, le violazioni in materia di ferie annuali previste dall’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003, comma 3, sono punite con la sanzione amministrativa da 130 euro a 780 euro, per ogni lavoratore e per ciascun periodo cui si riferisca la violazione”. L’attuale schema sanzionatorio previsto per la mancata concessione delle ferie annuali (art. 10, comma 1 del D.Lgs. n.66/2003 ) con la legge 10/11/2010, n. 182 (c.d. Collegato Lavoro ) prevede un sistema progressivo. La sanzione aumenta all’aumentare dei lavoratori interessati alla violazione ed al periodo di tempo interessato dalle violazioni stesse. Esse risultano così diversificate: una sanzione base che va da un minimo di € 100 ad un massimo di € 600 e si applica ove i lavoratori coinvolti non siano più di 5 e il periodo di riferimento non raggiunga i due anni; una sanzione più grave che va da € 400 ad € 1.500 e riguarda i casi in cui sono coinvolti da 6 a 10 lavoratori o il periodo di riferimento va da dai due anni ai tre; una sanzione ancor più grave che va da € 800 ad € 4.500 e la stessa è prevista quando sono superati o il numero di 10 lavoratori interessati o il parametro dei periodi di riferimento (almeno 4 anni). Conformemente a quanto previsto per le sanzioni in materia di riposo giornaliero o settimanale, in tali ipotesi il legislatore ha espressamente previsto la non applicabilità dell’istituto della diffida prevista dall’art. 13 del D.Lgs. n.124/2004 e quindi il pagamento della sanzione amministrativa in misura minima. Pertanto, nei confronti del datore di lavoro che viola la normativa sulle ferie sarà applicato l’istituto previsto dall’articolo 16 della legge 689/1981, che prevede l’irrogazione di una sanzione amministrativa in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione o, se più favorevole, al doppio del relativo importo. Non si esclude, a parere degli scriventi, che nei confronti del datore di lavoro inadempiente alla concessione delle ferie annuali ai propri dipendenti, oltre all’applicazione della sanzione amministrativa, potrebbe applicarsi anche la disposizione prevista dall’art. 14 del D.Lgs. 23/4/2004, n. 124, affinché il lavoratore possa godere delle ferie annuali maturate.

Note [1]

Il X VI punto della Carta del Lavoro prevedeva: “Dopo un anno di ininterrotto servizio il prestatore d’opera, nelle imprese a lavoro continuo, ha il diritto ad un periodo annuo di riposo feriale retribuito”. [2] Il comma 3 dell’art. 36 della Costituzione Italiana prevede: “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

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[3]

L’art. 2109 del c.c. stabilisce: “Il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica. Ha anche diritto [dopo un anno d'ininterrotto servizio ] ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità. L'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie. Non può essere computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell'art. 2118”. [4] L’art. 2243 del c.c. prevede: “Il prestatore di lavoro, oltre al riposo settimanale secondo gli usi, ha diritto [dopo un anno d'ininterrotto servizio ] ad un periodo di ferie retribuito, che non può essere inferiore a otto giorni”. [5] La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10/12/1948 - all’art. 24 ha stabilito: “Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite”. [6] L’art. 3 della Convenzione del O IL n. 132 del 3/6/1970 prevede: 1. Tutte le persone cui si applica la convenzione avranno diritto a un congedo annuale pagato di una determinata durata minima. 2. Ciascun Membro che ratifichi la convenzione dovrà specificare la durata del congedo in una dichiarazione annessa alla ratifica. 3. La durata del congedo non dovrà in alcun caso essere inferiore a tre settimane di lavoro per un anno di servizio. [7] L’art. 31, al punto 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 7/12/2000 ha previsto che: “Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”. [8] L’art. 10 del D.Lgs. 30/4/2003, n. 66 stabilisce: “1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 2109 del codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all'articolo 2, comma 2, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. 2. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro. 3. Nel caso di orario espresso come media ai sensi dell'articolo 3, comma 2, i contratti collettivi stabiliscono criteri e modalità di regolazione”. [9] Corte Costituzionale – Sentenza 10/05/1963, n. 66. [10] Corte Costituzionale – Sentenza 27/02/1969, n. 16. [11] Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza 26/9/2011 n. 19628. [12] Risposta del MLPS del 18/10/2006 all’interpello della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e media impresa di Bologna in merito alla nuova disciplina delle ferie. [13] Risposta del MLPS del 10/6/2008 all’interpello dell’Associazione Sindacale dell’Industria Dell’Energia e del Petrolio in merito ai lavoratori italiani inviati all’estero. [14] Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza 29/01/2016 n. 1756. [15] L’art. 24 del D.Lgs. 14/9/2015, n. 151, dal titolo cessione dei riposi e delle ferie, stabilisce: “Fermi restando i diritti di cui al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, i lavoratori possono cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro maturati ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto di lavoro”. [16] MLPS - Circolare 3/3/2005, n. 8 riguardante “Disciplina di alcuni aspetti dell’organizzazione dell'orario di lavoro ( D.Lgs. n. 66/2003 e D.Lgs. n. 213/2004 ). [17] MLPS - Circolare 3/3/2005, n.8. [*] Il dott. Luigi Oppedisano è ispettore del lavoro e responsabile dell’Area operativa vigilanza ordinaria n. 5 della D.T.L. di Cosenza. La dott.ssa Erminia Diana è funzionario area amministrativa e giuridico contenzioso, responsabile dell’area pianificazione e controllo direzionale della DTL di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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Vittime di violenza di genere: dal Jobs Act una migliore tutela di Sara Vizin [*] Nei nove mesi successivi alla sua approvazione, la Legge 10 dicembre 2014, n. 183, Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro (volgarmente conosciuta con il nome di ‘Jobs Act’) è stata dettagliata con i seguenti decreti attuativi: D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22 Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti D.lgs. 15 giugno 2015, n. 80 Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni D.lgs. 14 settembre 2015, n. 148 Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro D.lgs. 14 settembre 2015, n. 149 Disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione dell'attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale D.lgs. 14 settembre 2015, n. 150 Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive D.lgs. 14 settembre 2015, n. 151 Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità. Tra questi temi, tutti fondamentali per migliorare la qualità della vita – professionale e non – di lavoratori e lavoratrici, quello recante misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro mette bene in luce come la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e il loro sviluppo professionale siano condizioni irrinunciabili per la crescita del Paese. Il dispositivo 15 giugno 2015, n. 80 , infatti, si focalizza sulla tutela della maternità e la valorizzazione dell'esperienza genitoriale per lavoratrici autonome, libere professioniste e imprenditrici agricole, genitori adottivi o affidatari e donne vittime di violenza di genere. Di particolare interesse è l’articolo 24 che prevede il congedo indennizzato per un periodo massimo di 90 giornate di prevista attività lavorativa per quest’ultime proprio al fine di permettere loro lo svolgimento di percorsi di protezione certificati dai servizi sociali del comune di residenza, dai centri antiviolenza o dalle case rifugio. Tale diritto di astensione dal lavoro è rivolto alle lavoratrici dipendenti del settore pubblico e privato, escluse le lavoratrici del settore domestico, mentre alle lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa è concessa la sospensione del rapporto contrattuale. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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C o n Circolare n. 65 del 15 aprile 2016 INPS ha fornito le istruzioni contabili e operative per accedere a tale congedo indicando, tra l’altro, l’iter obbligatorio per la lavoratrice: presentazione della domanda alla struttura territoriale INPS, entro il giorno stesso di inizio del congedo; preavviso al datore di lavoro almeno 7 giorni prima dell’inizio del congedo, salvi casi di oggettiva impossibilità, con l’indicazione dell’inizio e della fine del periodo richiesto; consegna al datore di lavoro della certificazione relativa al percorso di protezione. Durante il periodo di congedo la lavoratrice potrà percepire un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione e il periodo risulterà coperto da contribuzione figurativa e computato ai fini dell'anzianità di servizio, della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto. Il congedo potrà essere fruito entro l’arco temporale di 3 anni su base oraria o giornaliera, secondo quanto previsto dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nel caso di fruizione a base oraria, essa sarà consentita in misura pari alla metà dell'orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo. Inoltre, per tutta la durata del congedo la lavoratrice avrà il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale e viceversa. Il diritto di usufruire del congedo per le donne vittime di violenza completa idealmente – a livello nazionale – la Legge 27 giugno 2013, n. 77 Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011 e – a livello regionale – la Legge regionale 16 agosto 2000, n. 17 Realizzazione di progetti antiviolenza e istituzione di centri per donne in difficoltà, con la quale la Regione Friuli- Venezia Giulia promuove, coordina e stimola iniziative per contrastare il ricorso all'uso della violenza tra i sessi, intervenendo con azioni efficaci contro la violenza sessuale, fisica, psicologica e/o economica, i maltrattamenti, le molestie e i ricatti a sfondo sessuale in tutti gli ambiti sociali, a partire da quello familiare.

Con l’emanazione del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 80, quindi, il tema della violenza di genere assume un ruolo rilevante nell’ottica della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro e contribuisce a diffondere l’attuazione del principio di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione che rimane uno dei pilastri delle politiche europee. [*] Psicologa del lavoro e delle organizzazioni. Interessata particolarmente a orientamento al lavoro, pari opportunità e stress occupazionale. Attualmente ricopre la carica di Consigliera di Parità della provincia di Gorizia.

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Neet Generation di Stefano Olivieri Pennesi [*] … Per non sentirsi “generazione perduta” e parafrasando la “Beat Generation” statunitense, nella versione del termine in uso per gli antenati afroamericani di: oppressi, abbattuti, stanchi e per questo non beati. Ma anche Beat intesa come ribellione… L’acronimo inglese Neet, senza andare ad indagare, approfonditamente, sul significato semantico del termine in uso, significa “Not in education, employment, or training” più semplicemente, però, questa entità si individua nella collettività sociale di giovani, compresi tra i 15 e i 29 anni, che non frequentano scuola o università o altri corsi di studi, ossia privi di impieghi lavorativi, come anche non interessati da percorsi di formazione o aggiornamento professionale. La dimensione di tale “coorte” e la sua composizione e distribuzione territoriale, in Italia, raggiunge quote da primato anche confrontandole a livello europeo, infatti, come emerge da una recente indagine del Prof. Rosina, dell’Università Cattolica di Milano, nel 2014 nel nostro Paese si è toccata la punta di ben 2.400.000 giovani Neet, quando nel 2008 erano ancora 1.850.000. Anche la distribuzione territoriale evidenzia notevoli differenze, in Italia, ciò si evidenzia con il consistente divario esistente tra il 19% del nord e il 35% del sud. Questa potenziale, ancorché inutilizzata, rilevante forza lavoro, nei fatti resta inattiva, marginalizzata dai processi formativi, già fuoriuscita dai percorsi di istruzione, che contemporaneamente incontra, altresì, difficoltà ad entrare, proficuamente, nel mondo del lavoro. Di grande utilità sarebbe quindi indagare, approfonditamente, su come sia composito questo ormai evidente esercito silenzioso: dove è maggiormente concentrato, come si distribuisce sul territorio, quali titoli di studio sono stati acquisiti maggiormente, ecc. Per questo, però, ritengo, non sia sufficiente effettuare delle mere rilevazioni statistico -numeriche, del fenomeno. È giusto e necessario andare nel fondo della storia dei singoli, per delinearne identità, problematiche e volti di una collettività formata da “nuovi esclusi”, e se realmente si smette di cercare una qualsivoglia occasione lavorativa, oppure, molto più verosimilmente, se si viene censiti pur appartenendo a quella massa, privata di dignità, che alimenta le zone grigie del nostro mercato del lavoro, fatte da persone troppo spesso impegnate in attività lavorative al nero, comunque saltuarie e/o precarie, che sfuggono alle statistiche ufficiali, troppe volte asettiche ed impersonali, che evidenziano numeri e categorie sociali, con rigide rilevazioni, tali da non evidenziare le molteplici sfumature presenti nei sistemi sociali in osservazione. Certamente, tra i giovani Neet possiamo identificare coloro che hanno terminato l’istruzione obbligatoria e magari lavorano in nero, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Altresì esiste una percentuale di cosiddetti “demotivati”, coloro i quali, cioè, hanno interrotto la ricerca attiva di un impiego, poiché scoraggiati dal non aver potuto trovare rapidamente una occupazione, al termine del percorso di studi, entrando così subito, nel mercato del lavoro. Abbiamo anche la categoria di giovani che hanno concluso corsi di studio universitari, umanistici come scientifici, che non riescono a trovare adeguate occasioni occupazionali in Italia e magari tentano di approcciare il mercato del lavoro, oltreconfine, meno incline a soggiacere alle cosiddette raccomandazioni o scorciatoie, che soprassiedono agli aspetti e requisiti puramente meritocratici, dove le opportunità e chances non hanno nomi e/o volti predefiniti. È evidente, quindi, il rischio, per tale categoria di giovani, di trasformare il proprio stato di inoccupati/inattivi in “disoccupazione strutturale” che non può risolversi soltanto con formule quali il “reddito di cittadinanza”, valide certamente per i cittadini che fanno fatica ad arrivare a fine mese, o anziani che non riescono a curarsi o comprare medicinali o a pagare un mutuo; in una parola saper aggredire al meglio il fenomeno della povertà. I giovani hanno bisogno di continui stimoli come anche di opportunità concrete per poter camminare con le proprie gambe. In questo l’introduzione, con il Jobs Act, dell’Agenzia per il lavoro, Anpal e con essa la riforma strutturale e operativa dei Centri per l’Impiego pubblici, deve risultare un punto fermo ed irrinunciabile. Anche il Consiglio Europeo, con le proprie raccomandazioni, sottolinea la necessità, per l’Italia, di progredire rapidamente con i piani di miglioramento dei servizi di collocamento, rafforzando i servizi pubblici per l’impiego. Verifica dei requisiti soggettivi ed accompagnamento al lavoro, sono alcune delle funzioni cardine che dovranno svolgere i nuovi CpI. Ad onor del vero, però, il “reddito di cittadinanza” sarebbe una ulteriore opportunità per affrontare anche il tema Neet, in quanto esso stesso finalizzato a contrastare, fattivamente, la povertà, le disuguaglianze e l’esclusione sociale, e garantire il diritto al lavoro, anche con la sua libera scelta, garantire istruzione, formazione, informazione, cultura, ricorrendo a politiche finalizzate al sostegno economico e inserimento sociale per tutti i soggetti a rischio emarginazione, dalla società e dal mondo del lavoro. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Parimenti, con detto strumento, quale politica di sostegno sociale, si potrebbe contrastare maggiormente, lo stesso lavoro nero, sottraendo i soggetti anche al ricatto del lavoro sottopagato, riducendo gli ambiti di precarietà in un contesto generale di rispetto della dignità della persona. I Neet, o volendo spingersi più in la, i giovani della menzionata “generazione perduta” rappresentano una vera e propria deriva sociale, anche considerando le perdite economiche e lo spreco di capitale umano che incarnano. Dietro questi termini, al contempo, si celano storie ed esistenze le più diverse, l’Italia, infatti, come già sopra accennato, detiene un non invidiabile primato europeo per quantità di giovani che non studiano ne lavorano, vale a dire soggetti che non riescono a trovare una collocazione utile al mercato del lavoro, e di conseguenza nella società. Parliamo, al contempo, di ragazzi che pur alla soglia dei ventinove anni risultano fuori da circuiti scolastici/formativi come anche lavorativi, o che di fatto gravano inevitabilmente sulle famiglie di origine, in maniera improduttiva, relegati in una deriva umana intollerabile. In Italia la galassia Neet rappresenta circa il 26% degli individui compresi tra i 15 e i 29 anni e sono quasi il doppia della media europea che si attesta a circa il 15% con percentuali ulteriormente inferiori rilevate in Germania con l’8% e in Francia col 13%. Con l’entità Neet ci troviamo di fronte ad un nuovo modello di vita, nella stragrande maggioranza dei casi certamente subita, e per tale ragione ritengo possa definirsi collocata in un oggettivo “disagio sociale”. Essi vivono una particolarissima fase della vita umana, con probabile assenza di sogni, con scarsa speranza per il futuro, vivendo alla giornata, combattendo un vuoto esistenziale senza riuscire a dare un senso alla propria esistenza. È bene sottolineare, però, al contempo, che la cosiddetta condizione di Neet non è necessariamente permanente, anche se la crisi economica, sviluppatasi successivamente al 2008, ha reso tale stato, nella sua sussistenza, relativamente più lungo. Questo fenomeno, particolarmente grave e preoccupante è evidentemente incrementato anche a causa della stessa “dispersione scolastica”, molto accentuata nel nostro Paese ed in particolare nel meridione, tale che varie ricerche hanno evidenziato che circa ¼ dei Neet ha abbandonato precocemente gli studi. Da tutto quanto sopra detto, è di assoluta evidenza che serve rinforzare, o per meglio dire realizzare, un ponte tra scuola e lavoro (oggi è presente, o meglio più precisamente si è avviato, il cosiddetto programma di “alternanza scuola-lavoro” rivolto agli Istituti di istruzione superiore per le terze e quarte classi, voluto con la nuova ultima riforma scolastica). Un bene sarebbe, al riguardo, poter disporre nelle nostre istituzioni formative e scolastiche, di figure come allenatori-tutor di vita, che dovrebbero avere un ruolo di orientatori nelle scelte giovanili, che sappiano confrontarsi, motivare, promuovere i ragazzi, soprattutto quelli non adeguatamente supportati dalle loro realtà di appartenenza, in quanto, ad esempio, inseriti in contesti familiari iperprotettivi, o, al contrario, facenti parte di famiglie completamente assenti e/o spesso disaggregate. Ritengo, per quanto sopra accennato, che la evidente criticità, del fenomeno che stiamo trattando, della generazione Neet, trova una iniziale ragion d’essere proprio nella diversità e problematicità dei contesti familiari vissuti. Spesso essere figli di famiglie benestanti, con genitori affermati, conduce gli stessi giovani a non sapersi adattare o scegliere impieghi o percorsi professionali qualsiasi. Come d’altro canto ragazzi appartenenti a classi meno agiate, con un vissuto magari in quartieri difficili, si spingono volontariamente al di fuori di esse, con la speranza di raggiungere livelli accettabili di indipendenza, pur rimanendo, però, spesso, legati agli stessi ambienti sociali di provenienza, con il rischio di intraprendere percorsi di “devianza” se non anche al di fuori della legalità, con una spinta oggettiva a delinquere.

Neet e volontariato Esiste anche un altro modo per attenuare i nefasti effetti legati allo stato sociale di appartenenza alla categoria Neet. Sto parlando della realtà del “ Volontariato” che tanto e particolarmente si è diffusa e radicata nel nostro Paese. Ebbene, molti giovani pur trovandosi nella condizione di assenza dal lavoro e/o non più impegnati in percorsi di studio/formazione sono, ciò stante, attratti verso un impegno da esplicitarsi in una delle varie associazioni e realtà di volontariato, al fine di poter vedere portare a frutto il proprio tempo, in modalità spesso libere da rigidi impieghi, ma pur sempre utile agli altri, ma aggiungerei, al contempo, necessario per poter sentirsi parte di una comunità, con il proprio portato esperienziale e di attitudini operative, tali da rappresentare un tassello utile in una struttura organizzata. Sulla connessione che è possibile instaurare tra Neet e realtà del Volontariato e del terzo settore, ritengo interessante fare una speciale menzione della buona pratica messa in campo dalla Regione Toscana. Mi riferisco segnatamente al recente “progetto” Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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denominato “GiovaniSi”, finanziato nell’anno 2015 attraverso un Bando sperimentale rivolto appunto, ai Neet. Esso si estrinseca in ben 17 Progetti dislocati su tutte le province del territorio Toscano, che hanno visto coinvolgere Associazioni e Cooperative sociali, operanti appunto nell’ambito del terzo settore e del volontariato. Questi progetti hanno individuato delle modalità per intercettare circa 2 mila giovani Neet, previa elaborazione di strategie e modalità per far emergere, per così dire, questi ragazzi dall’oblio. Obiettivi concreti risultano quindi essere: Identificazione e presa in carico del giovane neet per accompagnarlo in un percorso di crescita personale e professionale, al fine di facilitare il suo inserimento nel mondo del lavoro o in percorsi educativi/formativi. Creare reti locali, per mezzo dei presidi territoriali, per costruire azioni integrate rivolte ai neet. Dare evidenza alle competenze acquisite dai giovani partecipanti ai percorsi realizzati e realmente svolti. Coinvolgere il contesto sociale presente sul territorio inserendo le proposte progettuali nelle reti locali, sia pubbliche che private. Integrare tutte le politiche regionali che siano rivolte ai neet. I giovani beneficiari degli interventi dovranno essere coinvolti nelle attività svolte dai Centri per l’Impiego al termine dei percorsi e inseriti nei canali comunicativi e informativi presenti nel territorio Toscano. Con il Progetto GiovaniSi, della Regione Toscana, si è inteso pertanto dare, come obiettivo principale, la possibilità di garantire maggior dinamismo ed opportunità ad una generazione che rischia di non potersi affermare o meglio autodeterminare, in termini di sviluppo delle capacità individuali, anche con una fruttuosa ricerca di qualità, ma viepiù stabilizzazione del lavoro, emancipazione, partecipazione sociale attiva. L’aspetto fondamentale che si tende a perseguire è “ridare un futuro” nei fatti, in particolare ai giovani che non dovrebbero rappresentare semplicemente dei soggetti da assistere, ma bensì una importante risorsa su cui investire. Per tali ragioni questo progetto sperimentale, realizzato dalla regione Toscana, offre un pacchetto di opportunità finanziato con risorse europee, nazionali e regionali e strutturato in sei macroaree che sono: lavoro, studio e formazione, fare impresa, servizio civile, tirocini, casa. Torniamo ora a tratteggiare la figura del giovane neet, in particolare chi sono e perché. Come ormai acclarato stiamo parlando di soggetti che non studiano, non hanno un lavoro, non sono impegnati in percorsi formativi e ciò nonostante devono proiettarsi nella transizione verso l’età adulta, e si trovano in una fase della vita in cui si dovrebbe passare dall’essere giovani al divenire adulti. Gli studiosi della Sociologia hanno spiegato, con particolare riferimento, però, alle società occidentali, che questa transizione si vivifica in cinque tappe fondamentali: uscita dalla casa di origine, completamento del percorso formativo, ingresso nel mercato del lavoro, formazione di un nucleo familiare autonomo, assunzione di responsabilità verso figli nuovi nati. È quindi palese che si diventa adulti, o meglio si passa alla dimensione adulta, anche senza percorrere tutte le suddette cinque tappe, proprio perché dagli anni settanta/ottanta questa fase, che dovrebbe essere di passaggio, ha iniziato ad essere sempre più dilatata temporalmente, tanto da disarticolare il percorso lineare scuola-lavoro -famiglia, rendendolo, ai giorni nostri, più difficoltoso, non prevedibile, e molto personalizzato. Oggi è evidente, l’evoluzione (involuzione) sociale, la grandissima difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, ha cambiato i paradigmi. È un fatto che il livello di istruzione si sta progressivamente elevando, quantitativamente e qualitativamente, come anche la mobilità delle persone è nettamente aumentata, si viaggia di più in Italia e all’estero, si dedica più tempo e più attenzioni allo svago, alla cultura personale, allo sport, al tempo libero, alla cura della persona, ecc. Tutto questo incide profondamente sui tempi di vita delle giovani generazioni, in particolare, anche al fine ultimo di passaggio alla cosiddetta ed agognata età adulta. Semplicemente si notano quanto influenti siano questi mutamenti sociali, economici e culturali, soprattutto per la Neet generation. In conclusione mi permetto di fare menzione di una frase che ritengo illuminante, per l’argomento trattato, frutto dell’immaginazione e dell’intelletto di un importante e aggiungo fondamentale personaggio, per la nostra epoca, il compianto Steve Jobs “nomen omen”. “L'unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. Se non hai ancora trovato ciò che fa per te, continua a cercare, non fermarti, come capita per le faccende di cuore, saprai di averlo trovato non appena ce l'avrai davanti. E, come le grandi storie d'amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continua a cercare finché non lo troverai. Non accontentarti. Sii affamato. Sii folle”. [*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Rilevanza dell’ASSE.CO. nei contratti pubblici di Gianna Elena De Filippis [*] Nel precedente articolo pubblicato sul numero 13 di Lavoro@Confronto ed intitolato Una importante certificazione per le aziende ha avuto inizio la nostra analisi relativa a questo innovativo istituto di competenza dei Consulenti del Lavoro. Si ricorda, infatti, che il Protocollo d’Intesa stipulato tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in data 15/01/2014 ha formalmente dato vita alle ASSE.CO.. A due anni dalla sua “nascita”, oggi, l’istituto inizia una fase di effettiva “stabilizzazione” con uno scetticismo ormai quasi superato dalle imprese e dai consulenti del lavoro stessi. I numeri sono ancora bassi[1] , la notorietà mediatica altrettanto ma alcune piccole e medie imprese hanno preso consapevolezza della rilevante premialità riconducibile alla Asseverazione di Conformità dei rapporti di lavoro [2] . Molto significativo il recente Protocollo d’Intesa stipulato tra la Regione Sicilia, Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro e il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in data 4 marzo 2016 a Sciacca, in provincia di Agrigento. Attraverso questo Protocollo anche in Sicilia si sviluppa un rilevante percorso di sinergie tra enti. Il Dipartimento regionale del lavoro, dell’impiego, dell’orientamento, dei servizi e delle attività formative e il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei CdL istituiscono, tra gli altri, un tavolo di lavoro congiunto, a cadenza almeno semestrale, per monitorare l’attività di rilascio delle ASSE.CO. e studiare integrazioni o modifiche al Protocollo nazionale originario. L’ASSE.CO., in sostanza, inizia a diffondersi al meglio anche “geograficamente” grazie al ruolo propulsore degli ordini provinciali dei Consulenti del Lavoro ed inizia coesistere benissimo con le altre formule di certificazione di qualità dell’impresa. Essa non è un evento d’impresa fine a se stesso, non è un’etichetta “ferma” ma ha ed avrebbe risvolti concreti di allettante calibro verso l’esterno ed anche verso gli enti pubblici. Proprio riguardo al rapporto tra imprese ed enti pubblici, una disposizione di grande risonanza è contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 7, Effetti dell’Asse.Co., del citato Protocollo. Questa disposizione stabilisce, in dettaglio, che La ASSE.C O. può essere utilizzata da soggetti terzi, pubblici e privati, ad ogni fine ritenuto coerente con le finalità perseguite dal presente protocollo e riconducibili al riconoscimento della regolarità dei comportamenti del datore di lavoro in materia di lavoro e legislazione sociale. Il contenuto risulterebbe di enorme spessore e risonanza se gli enti pubblici iniziassero a valorizzare seriamente il requisito della ASSE.CO. quale requisito essenziale da richiedere alle imprese per poter partecipare alle procedure di scelta del contraente nell’affidamento e nella esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture. Ferma la legge n. 241/1990 e stanti il d.lgs. n. 163/2006 e il correlato regolamento attuativo D.P.R. n. 207/2010, l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture devono garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; vanno, altresì, rispettati i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità. Il diritto amministrativo, come noto, ha insito in sé l’obiettivo prioritario ed indissolubile dello jus promovendi salutem publicam, oltre che dello jus avertendi mala futura. Nella tentata realizzazione del nobile fine di “promozione della salvezza pubblica”, così tradotto in senso Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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letterale, in senso lato, dunque, nella tentata realizzazione di promozione del nobile fine di impulso, sostegno e garanzia del “benessere” generalizzato, ogni ente pubblico ovvero ogni ente pubblico privatizzato deve potere utilizzare gli strumenti tecnici e giuridici che certificano ed attestano la genuina attività di una impresa che vuole negoziare con esso laddove, aspetto fondamentale, l’attività o l’opera da realizzare ha ripercussioni immediate sull’utenza, alias sugli individui. L’ampiezza degli interessi cui un ente deve assicurare tutela e soddisfacimento corrisponde alla ampiezza delle tutele garantite nella nostra Carta Costituzionale e nel notevole apparato normativo europeo ed internazionale. L’argomento delle ASSE.CO., allora, può divenire altamente qualificante soprattutto nelle procedure di affidamento denominate “ristrette”, ovvero nelle procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture alle quali ogni operatore economico può chiedere di partecipare e in cui possono presentare un’offerta soltanto gli operatori economici invitati dalle stazioni appaltanti, secondo il Codice dei contratti pubblici. Alle procedure ristrette per l’affidamento dei lavori sono invitati tutti i soggetti che ne abbiano fatto richiesta e che siano in possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal bando. Al Capo II, artt. 34 -52, Requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento, d.lgs. n. 163/2006, sono ampliamente menzionati, tra gli altri, i “requisiti di ordine generale” richiesti ai partecipanti alle procedure di affidamento. Alcuni di questi requisiti riguardano proprio le violazioni in materia di sicurezza ed ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro (lett. e), nonché violazioni gravi di norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali (lett. i) e violazioni sull’inserimento lavorativo dei disabili (lett. l). Nulla esclude che in un bando venga menzionato proprio il requisito della ASSE.CO. che è senz’altro molto ampio, sia come contenuti sia come garanzia e derivazione, provenendo da un professionista ad hoc abilitato (il consulente del lavoro asseveratore). Il legislatore ha sempre avuto massima considerazione del rispetto dei vincoli lavoristici e previdenziali soprattutto quando l’impresa è chiamata alla realizzazione di attività per conto dell’ente pubblico. Il carattere premiale del DURC, Documento Unico di Regolarità Contributiva, ad esempio, è stato di considerevole impatto. Nel caso in cui esso risulti negativo, infatti, pregiudica non solo l’aggiudicazione del contratto con l’amministrazione pubblica ma anche il pagamento degli stati di avanzamento lavori e prestazioni relative a servizi e forniture. Quindi, la premialità correlata all’esatto adempimento degli obblighi riguardanti i rapporti di lavoro fa sì che quell’esatto adempimento di obblighi lavoristici per l’impresa sia, in realtà, un vero e proprio atto dovuto nell’interesse proprio e, in via secondaria, nell’interesse dell’intero ordinamento giuridico. L’articolo 40 del d.lgs. n. 163/2006 richiede, inoltre, ai soggetti esecutori di lavori pubblici una “qualificazione” rilasciata dalle SO A, Società Organismi di Attestazione, qualificazione che attesti la qualità, la professionalità e la correttezza delle attività eseguite da un’impresa. In questo contesto ovvero nella fase di accertamento dei requisiti di ordine generale di cui all’articolo 38 già menzionato, potrebbe essere inserito e richiesto il documento che dimostra l’avvenuta Asseverazione di conformità dei rapporti di lavoro, quale “bollino” preferenziale per chi prende parte delle competizioni nel libero mercato dei servizi, delle forniture e dei lavori pubblici. Così concludendo, si prospetta, pertanto, la necessità di “riempire” di maggiore contenuto attuativo l’ultimo comma dell’articolo 7, Effetti dell’Asse.Co., del citato Protocollo. E’ un istituto potenzialmente molto utile nell’associare la premialità dell’impresa sana e onesta ad un innalzamento complessivo dei livelli di qualità del lavoro e della legalità.

Note [1] [2]

Così dott. Paolo Stern, Consigliere nazionale dell’Ordine dei CdL. Vedasi Lavoro@Confronto n. 13/2016.

[*] Consulente del Lavoro - www.sibillaconsulting.com. La Dr.ssa Gianna Elena De Filippis ha vinto nel 2012 il Premio Massimo D’Antona

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La tutela infortunistica nello sport di Alberto Del Prete [*] Gli istituti assicuratori del rischio – In merito ai soggetti assicuratori del rischio, ossia coloro che istituzionalmente sono stati, in passato, ovvero sono tuttora, preordinati alla tutela infortunistica degli sportivi, si possono individuare lo SPO RTASS, l’INAIL, le società professionistiche e le Federazioni sportive. Lo SPORTASS – La Cassa di Previdenza per l'Assicurazione degli Sportivi ( SPO RTASS) fu istituita, in seno al CO NI, quale ente morale con il R.D. n. 2047/1934. Successivamente, con il D.P.R. n. 1451/1952, di approvazione dello Statuto della SPO RTASS, venne autorizzata quest’ultima all’esercizio dell'attività di assicurazione, senza fini di lucro, nei confronti di tutti gli sportivi e gli ausiliari sportivi (giudici, arbitri, ufficiali di gara, cronometristi, allenatori, sanitari, accompagnatori, massaggiatori ecc.) contro i danni derivanti dagli infortuni e i danni arrecati a terzi ed a cose di terzi che si verifichino durante l'esercizio, individuale o collettivo, dello sport da ciascuno praticato e la cui assicurazione da parte della Cassa sia espressamente autorizzata dalla legge. Con il D.P.R. n. 250/1978 venne ribadita la natura di ente pubblico necessario (ai fini dello sviluppo economico, civile, culturale e democratico del Paese) della SPO RTASS, che fu inserita nella categoria I – E NTI CHE G E STISCO NO FO RME O BBLIG ATO RIE DI PRE VIDE NZ A E ASSISTE NZ A – della tabella allegata alla Legge n. 70/1975. Le competenze ed il ruolo della Cassa di Previdenza non subirono limitazioni neppure a seguito dell’entrata in vigore della già citata Legge n. 91/1981, cosicché, almeno fino all’entrata in vigore del già citato D.Lgs. n. 38/2000, la SPO RTASS poteva garantire – e di fatto garantiva – la copertura assicurativa a tutti gli sportivi, sia professionisti che dilettanti, purché iscritti alle rispettive federazioni sportive nazionali aderenti al CO NI o alle organizzazioni sportive sulle quali quest'ultimo esercitava il proprio potere di vigilanza. La situazione mutò, però, con l’introduzione della suindicata normativa che, prevedendo l'obbligo assicurativo presso l'INAIL di tutti gli sportivi professionisti dipendenti, decretò, per tali soggetti, la fine della competenza esclusiva della SPO RTASS che, invece, rimase inalterata per gli sportivi dilettanti. Un successivo decreto ministeriale del 17/12/2004, e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 97 del 28/04/2005, ha previsto l'assicurazione obbligatoria presso la Cassa di Previdenza per l'Assicurazione degli Sportivi denominata SPO RTASS di tutti gli sportivi dilettanti tesserati con la qualifica di atleta, tecnico, dirigente alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate ed agli enti di promozione sportiva. Tale decreto ministeriale sollevò immediatamente aspre critiche provenienti sia dal mondo sportivo, che da quello politico, considerato che, attraverso l’affidamento ad un unico soggetto di tutte le polizze assicurative, veniva ad essere violata la libertà di scelta degli sportivi e delle società, nonché quella di concorrenza tra le compagnie assicuratrici prevista ed imposta dalla normativa comunitaria. La Federazione Italiana Gioco Calcio e la Lega Nazionale Dilettanti, con l'intervento ad adiuvandum di altri Enti di promozione sportiva ( Uisp, Csi, Aics, Endas, Csen, Usacli, Acsi, Csn Fiamma, Asi, Cusi, Mspi, Csn) ebbero a presentare un ricorso al T.A.R. ivi richiedendo l’annullamento del predetto decreto ministeriale poiché lo stesso, tra l'altro, creava un'inammissibile posizione di monopolio legale a beneficio di un ente pubblico, in contrasto con gli artt. 10, 82 e 86 del trattato CE E posti a tutela della libertà di concorrenza in ambito imprenditoriale e della libera circolazione dei servizi. In sede politica, invece, le critiche sfociarono in una mozione presentata al Senato che impegnava il governo a soprassedere all'entrata in vigore dell'obbligatorietà dell'assicurazione alla SPO RTASS. Tutte le suindicate iniziative portarono comunque alla sospensione, ai sensi dell'art. 6, IV° comma, D.L. n. 115/2005, dell’operatività dell’obbligo assicurativo fino al 31/12/2006. Tale disposizione venne poi modificata, in sede di conversione, ex art. 6, IV° comma, Legge n. 168/2005, ma sostanzialmente confermata, seppur con diversa articolazione. In considerazione di ciò le federazioni e gli enti di promozione sportiva potevano scegliere, a quel punto, la compagnia assicuratrice con cui stipulare le nuove convenzioni per gli sportivi dilettanti, senza dover attendere l’emanazione del decreto ministeriale. A ben vedere, tuttavia, la previsione di un obbligo assicurativo di fonte legale potrebbe avere ripercussioni ai fini dell'individuazione del giudice competente per materia a conoscere delle controversie in esame, specie in considerazione dell'orientamento assunto dalla Corte di Cassazione, in sede di regolamento di competenza, su fattispecie analoghe, allorché sia stata individuata dalla Suprema Corte la competenza del giudice ordinario nel caso della richiesta di indennizzo per un infortunio subito da un calciatore dilettante, atteso che nella situazione sottoposta al suo esame le istanze proposte trovavano la loro genesi in un rapporto di natura negoziale, ossia in una tipica espressione dell'autonomia privata e non già in un contratto la cui stipulazione sia stata voluta dalla contrattazione collettiva per il perseguimento di fini sociali. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Da questa decisione, quindi, si ricava a contrariis che, se la stipulazione del contratto di assicurazione derivasse da un obbligo di legge, la controversia dovrebbe assumere natura previdenziale, con conseguente devoluzione della competenza al giudice del lavoro. Ed in effetti la conferma di ciò si è avuta in una successiva sentenza della Corte avente per oggetto, stavolta, una domanda dell'erede di un calciatore professionista nei confronti della (ex)società di appartenenza del de cuius che aveva indebitamente riscosso una parte dell'indennizzo corrisposto dall'assicurazione, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 91/1981, per la morte del giocatore avvenuta a seguito di incidente stradale. Questa soluzione – relativa all'obbligo assicurativo di fonte legale per gli sportivi professionisti – dovrebbe quindi trovare applicazione per quelli dilettanti, posto che anche per costoro vi è una previsione legislativa (art. 51, Legge n. 289/2002 ) che impone la stipulazione di un contratto di assicurazione. Pertanto anche le controversie relative alla tutela antinfortunistica degli sportivi dilettanti sarebbero attratte dalla competenza del giudice del lavoro. La conclusione, tuttavia, a ben vedere, lascia perplessi per entrambe le categorie di sportivi. Invero, sia per gli sportivi professionisti, che per quelli dilettanti si è in presenza di un contratto di assicurazione di diritto privato, stipulato da un soggetto privato (le società per i primi, le federazioni sportive nazionali e gli enti di promozione sportiva per i secondi) con un altro (la compagnia di assicurazione) che di certo non è un ente previdenziale. Orbene, la Costituzione, nel riconoscere e tutelare all'art. 38 la previdenza ( II° comma) e l'assistenza ( I° comma), ha espressamente specificato al quarto comma che “Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Il che, tuttavia, non avviene nelle ipotesi in precedenza illustrate. Pertanto la previsione legale di un obbligo assicurativo non è di per sé sufficiente a far assumere alla controversia la natura “previdenziale o assistenziale”, richiedendosi sempre la presenza di un soggetto pubblico che gestisca forme di previdenza o di assistenza in attuazione di quanto disposto dal IV° comma dell'art. 38 Cost. Nelle ipotesi che ci interessano, poiché manca tale soggetto, ne consegue che la competenza dev’essere attribuita al Giudice ordinario, anziché a quello del lavoro. Nel 2007 si conclude, infine, la storia della SPO RTASS per effetto della soppressione dell’Ente, così come previsto dall’art. 28 I° comma D.L. n. 159/2007, convertito in Legge n. 222/2007, nell’ambito di un più ampio intervento finalizzato al riassetto del bilancio dello Stato, a causa del suo dissesto finanziario e del forte arretrato nella gestione e liquidazione dei sinistri. Per l’effetto le relative competenze, unitamente al personale, ai beni mobili ed immobili dello stesso, vennero trasferite all’INPS per il ramo previdenziale ed all’INAIL per il ramo assicurativo. L’INAIL – Quest’ultimo Ente, tuttavia, già prima della definitiva cessazione dell’attività dello SPO RTASS, aveva ampliato le proprie competenze mediante la previsione di una tutela antinfortunistica per gli sportivi professionisti, introdotta con il D. Lgs. n. 38/2000, che, in attuazione del disposto di cui all'art. 55, I° comma, lettera i) Legge delega n. 144/1999, ha sancito, all'art. 6, l'obbligo assicurativo presso l'INAIL, a decorrere dal 16/03/2000, data di entrata in vigore del decreto, per gli sportivi professionisti dipendenti e ciò anche nell’eventuale vigenza di previsioni, sia contrattuali, che di legge, di tutela con polizze privatistiche. Nel periodo precedente all’introduzione della norma di cui sopra, invece, la tutela antinfortunistica degli sportivi professionisti trovava attuazione in conformità alla disposizione di cui all’art. 8 Legge n. 91/1981, che poneva a carico delle singole società sportive l’obbligo di stipulare in loro favore una polizza assicurativa individuale contro il rischio di morte e contro gli infortuni che avrebbero potuto pregiudicare il proseguimento dell’attività sportiva professionistica. La legittimità del sistema di tutela introdotta dal D.Lgs. n. 38/2000 dev’essere, però, valutata anche alla stregua dei principi del diritto dell’Unione Europea specialmente in materia di concorrenza, rilevato che la normativa nazionale attribuisce all’INAIL, in relazione all’obbligo assicurativo degli sportivi professionisti dipendenti, una vera e propria posizione di monopolio. Seppur non nell’ambito specifico dello sport, della questione è stata investita la Corte di Giustizia della Comunità Europea a seguito di una domanda di pregiudizialità sollevata dal Tribunale del lavoro di Vicenza. Il Giudice a quo in particolare chiedeva alla Corte se costituisse un'impresa, ai sensi degli articoli 81 e ss. del Trattato, un ente assicurativo pubblico senza scopo di lucro, quale l'INAIL, cui viene affidata secondo criteri di economicità e di imprenditorialità la gestione monopolistica di un regime di assicurazione fondato su un sistema di iscrizione obbligatoria e, in caso di risposta affermativa, se comportasse una violazione degli articoli 86 e 82 del trattato CE E il fatto che tale Ente potesse pretendere il pagamento dei premi anche nel caso in cui il soggetto fosse già assicurato presso una compagnia privata contro gli stessi rischi per cui sarebbe coperto affidandosi al suddetto Ente previdenziale. La Corte, dopo aver sottolineato che la nozione di impresa comprende qualsiasi entità che eserciti un’attività economica a prescindere dallo status giuridico della stessa e delle modalità del suo finanziamento, intendendosi per attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, soffermandosi sui sistemi previdenziali dei singoli stati membri, tra le altre cose, ha rilevato che il regime legale di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali di cui trattasi nella causa Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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principale persegue uno scopo sociale che è messo in luce dalla circostanza che le prestazioni vengono erogate anche quando i contributi dovuti non sono stati versati, ed ha considerato il controllo esercitato dallo Stato sull’attività dell’INAIL, provvedendo, di fatto, a fissare l’importo sia delle prestazioni, che dei contributi, concludendo che, poiché l’INAIL concorre alla gestione di uno dei rami tradizionali della previdenza sociale, adempie una funzione di carattere esclusivamente sociale, di guisa che la sua attività non è un’attività economica ai sensi del diritto della concorrenza e, quindi, tale ente non costituisce un’impresa, ai sensi degli artt. 85 e 86 del Trattato. Poiché è pacifico che gli elementi che stanno alla base della decisione del giudice comunitario – perseguimento di uno scopo sociale, attuazione del principio di solidarietà e controllo da parte dello Stato – sono presenti anche nell’assicurazione obbligatoria degli sportivi professionisti di cui al D.Lgs. n. 38/2000, ne consegue la piena compatibilità di detta disciplina con i principi di diritto comunitario in tema di concorrenza. Le società sportive professionistiche – Ma i soggetti su cui, in ultima analisi, grava l’onere derivante dall’obbligo assicurativo ex art. 6 del D.Lgs. n. 38/2000 sono, in effetti, le società destinatarie delle prestazioni sportive e cioè le società professionistiche operanti nell’ambito delle discipline sportive suindicate, secondo quanto previsto anche dall’art. 8 Legge n. 81/1991. Le stesse sono tenute, dunque, alla stregua di qualunque altra tipologia d’impresa, sotto questo profilo, ad inviare le prescritte comunicazioni all’INAIL ed a pagare quanto richiesto dall’Ente per l’espletamento della propria attività assicurativa. Proprio in previsione di tale obbligo, anche al fine di poter offrire adeguate garanzie, il legislatore ha anche previsto che, ai sensi dell’art. 10, I° comma, Legge n. 91/1981, tali società devono essere costituite nella forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata ed ottenere, prima del deposito dell’atto costitutivo, l’affiliazione da una o più federazioni sportive nazionali riconosciute dal CO NI. Le Federazioni sportive – Infine, dal tenore letterale dell’art. 6 del D.Lgs. n. 38/2000, emerge con chiarezza l’insussistenza di un obbligo assicurativo a carico delle federazioni sportive nei confronti dell'INAIL per gli sportivi professionisti – ed in special modo per gli atleti – per l'attività svolta da quest’ultimi in favore delle squadre nazionali. Al riguardo, l’elemento ostativo, a ben vedere, non è costituto dalla natura giuridica delle predette federazioni, tenuto conto che le stesse, avendo la natura di associazioni con personalità di diritto privato, rientrano senz’altro nella categoria dei soggetti di cui all’art. 9 D.P.R. n. 1124/1965 quali destinatari del citato obbligo assicurativo, quanto piuttosto dalla previsione normativa che i beneficiari della tutela antinfortunistica siano solamente “gli sportivi professionisti dipendenti”, legati cioè da un rapporto di subordinazione con i soggetti di cui al suindicato art. 9. Ciò premesso è da escludersi che le prestazioni che l’atleta professionista svolge a favore della propria nazionale possano essere ricondotte nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato, costituendo, al contrario, oggetto di contratto di lavoro autonomo ex art. 3 II° comma lett. a) Legge n. 91/1981 trattandosi di “attività [...] svolta nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo” con la conseguenza che la prestazione del calciatore, legato da un rapporto di lavoro subordinato ad una società sportiva, per la federazione deve ritenersi resa nell'ambito di un rapporto di lavoro autonomo. Ed allora, se non è giuridicamente configurabile un obbligo assicurativo delle federazioni, ne discende che non potrà esserci copertura assicurativa da parte dell’INAIL per gli eventi connessi alle attività sportive delle nazionali. In conclusione, allo stato della disciplina vigente non si rinviene alcuna norma che imponga alla FIG C di assicurare presso l'INAIL, o una compagnia assicuratrice privata, i calciatori per le prestazioni che costoro svolgono per la squadra nazionale, anche se recentemente, nell’ambito dell'ordinamento calcistico è stata registrata una certa, seppur informale, apertura nei confronti delle istanze delle società calcistiche di indennizzi per gli infortuni subiti da propri tesserati in occasione o a causa di prestazioni sportive rese per le squadre nazionali. ( La prima parte è stata pubblicata nel n. 14 )

Bibliografia Aldo De Matteis – Infortuni sul lavoro e malattie professionali – Giuffrè Editore – Milano 2011. Avv. Angelo Guadagnino – La tutela antinfortunistica nello sport: i rapporti di competenza www.laprevidenza.it/news/documenti/infortunistica_sport/1105#A.

I.N.A.I.L./SPORTASS

– su

[*] Avvocato, Funzionario Area Amministrativa e Giuridico – Contenzioso – F5 in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Teramo. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per la relativa Amministrazione di appartenenza.

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Lavoro di pubblica utilità come alternativa al carcere di Tiziano Argazzi [*]

1. Premessa Nel sistema penale italiano il lavoro di pubblica utilità (nel seguito LPU) è regolato da una pluralità di norme, riguardanti fattispecie e situazioni eterogenee ma accomunate dal comune denominatore della individuazione di pene alternative al carcere. Il LPU, all’inizio ricompreso fra le pene accessorie, dal 2000 con l’assegnazione al Giudice di Pace di alcune competenze in materia penale[1] ha acquisito i caratteri di pena principale e poi, successivamente anche di pena sostitutiva della pena principale a favore di soggetti tossicodipendenti come meglio si vedrà in seguito. Quindi il LPU nelle intenzioni del legislatore è uno strumento sanzionatorio multiforme ad ampio spettro utilizzabile con grande frequenza per situazioni e finalità fra loro oltremodo diverse. Nel 2014 l’interesse verso tale tipologia di sanzione penale alternativa al carcere è stato ribadito. Infatti all’articolo 1 della Legge 28.04.2014 n. 67 recante “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili” è stato previsto che per i reati dove è prevista la pena dell’arresto fino a cinque anni il giudice, sentiti l’imputato ed il pubblico ministero, possa applicare anche la sanzione del LPU. La stessa legge inoltre ha ribadito che il LPU non possa essere inferiore a dieci giorni e deve consistere nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso Enti od Organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Il LPU può anche rientrare nel programma di trattamento del detenuto ammesso al lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21, comma 4 ter dell’ordinamento penitenziario recentemente introdotto dal D.L. 1 luglio 2013, n. 78, convertito nella legge 9.08.2013 n. 94. Per quest'ultima tipologia la competenza è dell'istituto di pena dove la persona è detenuta[2] . Il citato comma testualmente prevede che “I detenuti e gli internati di norma possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalità e attitudini lavorative, nell'esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso” i soggetti detti. I detenuti e gli internati possono essere inoltre assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. L'attività è in ogni caso svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei detenuti e degli internati. Ma procediamo con ordine.

2. LPU come pena accessoria La prima apparizione dell’istituto risale al 1981 quando con la c.d. legge di “depenalizzazione” [3] è stato sancito (art. 102 co.2 ) che nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire non fosse superiore ad un milione di lire, la stessa – a richiesta del condannato - potesse essere convertita in lavoro sostitutivo [4] . Tale tipologia di lavoro (art. 105 ) consisteva, come già detto in premessa “nella prestazione di un’attività non retribuita, a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, l e Regioni, l e Province, i Comuni, o presso Enti, organizzazioni o co rp i di assistenza, di istruzione, di protezione civile e d i tutela dell'ambiente naturale o d i incremento del patrimonio forestale, previa stipulazione, ove occorra, di speciali convenzioni da parte del Ministero di Grazia e Giustizia, che può delegare il magistrato di sorveglianza”. Tale attività doveva svolgersi, di norma, nell'ambito della provincia in cui il condannato risiedeva, per una giornata lavorativa per settimana, salvo che lo stesso soggetto avesse chiesto di essere ammesso ad una maggiore frequenza settimanale”. Successivamente il D.L. n. 122/1993 [5] ha introdotto la possibilità per il giudice, di condannare l’autore del delitto di costituzione di un'organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 3 della Legge 13.10.1975 n. 654 ) e di istigazione, tentativo, commissione o partecipazione a fatti di genocidio ( Legge 9.10.1967 n.962 ) allo svolgimento, quale pena accessoria (da aggiungersi quindi alla pena principale) di una attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Il LPU come pena accessoria trova poi ulteriore riconoscimento nel 2004 quando viene introdotto nel codice penale e nello specifico nell’art. 165 concernente gli “Obblighi del condannato” come meglio precisato nel successivo paragrafo 5.

3. LPU come pena principale Come si è già avuto modo di evidenziare è solo nel 2000 che il LPU assume i caratteri di pena principale. Ciò avviene con il D.Lgs. n. 274/2000 ed in particolare con l’art. 54 con cui viene dapprima stabilito, comma 1, che “il giudice di pace può applicare la pena del LPU solo su richiesta dell’imputato”[6] e poi, comma 2, che il medesimo LPU non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Detta attività viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato [7] e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. È appena il caso di rilevare che, in ragione dell’art. 55 del medesimo provvedimento, la conversione in LPU può avvenire solo su richiesta del condannato ed a condizione che a causa dell’insolvibilità dello stesso non sia stato possibile eseguire la pena pecuniaria[8] .

4. Determinazione delle modalità di svolgimento del LPU

In ragione di quanto stabilito dal comma 6 del precitato art. 54 che reca “Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato in base all’art. 54, comma 6, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n° 274”[9] è stato emanato il DM 26.03.2001. L’art. 1 prevede che il LPU abbia ad oggetto prestazioni di lavoro: 1. a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato operanti, in particolare, nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex-detenuti o extracomunitari; 2. per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, ivi compresa la collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche; 3. in opere di tutela della flora e della fauna e di prevenzione del randagismo degli animali; 4. nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia; 5. altre attività di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato. Le attività (che sono tassativamente non retribuite) sono svolte sulla base di convenzioni da stipulare con il Ministero della Giustizia o, su delega di quest’ultimo, con il Presidente del tribunale, nell’ambito e a favore delle strutture esistenti in seno alle amministrazioni, agli enti o alle organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Le convenzioni disciplinano nel dettaglio le attività in cui può consistere il LPU e vengono individuati i soggetti incaricati, presso le amministrazioni, gli enti o le organizzazioni interessati, di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest’ultimo le relative istruzioni. Le medesime convenzioni individuano altresì le modalità di copertura assicurativa del condannato contro gli infortuni e le malattie professionali nonché riguardo alla responsabilità civile verso i terzi, anche mediante polizze collettive. I relativi oneri sono posti a carico delle amministrazioni, delle organizzazioni o degli enti dove vengono inseriti i condannati ammessi ai LPU. Durante lo svolgimento di dette prestazioni l’ente, l’associazione e l’organizzazione dove vengono svolti i LPU debbono assicurare il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati, curando altresì che l’attività prestata sia conforme a quanto previsto dalle precitate convenzioni. In nessun caso l’attività può svolgersi in modo da impedire l’esercizio dei fondamentali diritti umani o da ledere la dignità della persona. Vengono inoltre garantiti ai condannati impegnati nei LPU le stesse condizioni praticate per il personale alle dipendenze delle amministrazioni, degli enti e delle organizzazioni interessati relativamente a trattamento terapeutico e misure profilattiche e di pronto soccorso.

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5. LPU come pena sostitutiva Nel 2005 con un provvedimento legislativo volto al contrasto del traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti e psicotrope (art. 73 co. 5 bis D.P.R. 309/1990 ) e poi nel 2010 per la guida sotto l’effetto dell’alcool (art. 186 co. 9 bis D.Lgs. n. 285 del 1992 “Codice della Strada” come modificato dalla Legge n. 120/2010 ) è stata introdotta la possibilità, a certe determinate condizioni, di sostituire la sanzione detentiva e pecuniaria applicata con il LPU. Per quanto concerne la prima fattispecie, l’art. 73 comma 5 bis del DPR n. 309/1990 - applicabile solo in presenza di reati “commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope” - indica chiaramente che la “sostituzione” può avvenire solo contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento [10] . Da ciò discende che la richiesta dell’imputato deve essere formulata in via preventiva e comunque prima che il giudice emetta la sentenza di condanna. Il fatto illecito, per essere meritevole di applicazione della suddetta sostituzione, deve essere ascrivibile fra quelli di lieve entità di cui al comma 5 del medesimo art. 73 [11] . Invece relativamente alla guida in stato di ebbrezza, gli artt. 186 co. 9 bis e 187 co. 8 bis del Codice della Strada, così come modificati dalla Legge n. 120/2010, contemplano la possibilità di sostituire le pene dell’arresto e dell’ammenda con il LPU sempre che non ricorra l’aggravante dell’incidente stradale provocato e che il condannato non abbia già usufruito di tale “sostituzione”. Per quanto invece riguarda la sospensione condizionale della pena, il giudice, in ragione dell’art. 165 CP, nel disporre la sospensione condizionale della pena può “condizionarla”, se il condannato non si oppone, allo svolgimento di una “prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate nella sentenza di condanna”[12] . In tal modo vengono, di fatto, dichiarati applicabili gli art. 44 e 54 (commi 2, 3, 4 e 6 ) del D.Lgs. 274/2000 e le relative convenzioni. Tale fattispecie però, a parere di chi scrive, ricorre solo con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

6. Guida in stato di ebbrezza e LPU Infine alcune parole sulla possibilità per i condannati per guida in stato di ebbrezza (art. 186 comma 9 bis del Codice della Strada) di sostituire le pene classiche dell’arresto e dell’ammenda con la pena del LPU di cui all’art. 54 del D.Lgs n. 274/2000. La sanzione viene disposta dal giudice su richiesta dell’imputato, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art 444 del CPP (patteggiamento ). Con la sentenza di condanna il giudice (e non il condannato ) individua il tipo di attività, nonché l’ente o l’amministrazione (scegliendola fra quelle che hanno sottoscritto apposita convenzione con il Tribunale), dove deve essere svolto il LPU. Interessanti sono gli effetti premiali (validi anche per la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e psicotrope) che hanno portato ad una significativa rivitalizzazione dell’istituto. Infatti in caso di svolgimento positivo dell’attività di pubblica utilità, il giudice dichiara l’estinzione del reato, dimezza il periodo di sospensione della patente di guida e revoca la confisca (obbligatoria) del veicolo condotto dal reo e posto sotto sequestro. Per tale fattispecie il LPU, in deroga a quanto stabilito dall’art. 54 del DPR n. 274/2000 ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro (inteso come due ore di lavoro di pubblica utilità) per LPU. Al riguardo giova sottolineare che, per il condannato, è fondamentale la puntuale ottemperanza degli obblighi connessi allo svolgimento del LPU. Infatti, per la fattispecie descritta in questo paragrafo, l’avvio del LPU costituisce una sorta di “messa in prova” del condannato, il quale potrebbe adempiere con successo ai propri obblighi (in tale ipotesi vi sarebbe l’estinzione del reato con connessa revoca della confisca del veicolo e riduzione alla metà della sospensione della patente) oppure violare le prescrizioni impartite dal giudice determinando la revoca della sanzione sostituita. Va da sé che la revoca non è automatica. Infatti il giudice che procede o quello dell'esecuzione, d’Ufficio o a richiesta d e l pubblico ministero, con le formalità di cui all'articolo 666 del CPP ( Procedimento di esecuzione), tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, può disporre la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca del veicolo. Avverso tale provvedimento è ammesso ricorso per Cassazione, che però non ha effetto sospensivo. Da ultimo si evidenzia che non tutti i condannati per guida in stato di ebbrezza possono usufruire del LPU. Infatti la norma pone due condizioni ostative: la prima è di avere provocato un incidente stradale in ciò ricomprendendo non solo la collisione fra due veicoli ma anche qualunque situazione che esorbiti dalla normale marcia del veicolo in area aperta alla pubblica circolazione, con pericolo per l'incolumità altrui e dello stesso conducente [Cassazione penale sezione IV - sentenza 16.02.2012 n. 6381 ]. E quindi nella nozione di Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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incidente stradale sono da ricomprendersi sia l’urto del veicolo contro un ostacolo sia la sua fuoriuscita dalla sede ed anche qualsiasi significativa turbativa del traffico potenzialmente idonea a determinare danni [Cass. Pen., Sez. IV, 31 ottobre 2012, n. 42488 ]. La seconda è di avere in precedenza già prestato attività di LPU.

Note [1]

D.Lgs. 28.08.2000 n. 274 “Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468”; [2] L’Ordinamento penitenziario è disciplinato dalla Legge 26.07.1975 n. 354 recante « Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» più volte modificato ed integrato da ultimo dalla Legge 16.04.2015 n. 47. [3] Legge 24.11.1981 n. 689 recante “modifiche al sistema penale” artt. 102 – 105. La Corte Costituzionale con sentenza n.206/1996 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 102, nella parte i n cu i non consente che il lavoro sostitutivo, a richiesta del condannato, sia concesso anche nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire sia superiore ad un milione di lire; [4] la conversione della pena della multa e dell’ammenda nella libertà controllata (per un periodo massimo, rispettivamente, di un anno e di sei mesi) o nel lavoro sostitutivo poteva avvenire solo in caso di insolvibilità dell’imputato; [5] D.L. 26.04.1993 n. 122 “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa” convertito con modificazioni nella Legge 25.06.1993 n. 205, art. 1 co. 1 bis; [ 6 ] Nella relazione accompagnatoria al provvedimento, si legge che il Governo sul punto della applicabilità del LPU solo previo consenso del reo, ribadisce la convinzione che la sanzione penale, “proprio perché fondata su un facere, implica il consenso del condannato per conseguire apprezzabili risultati sul terreno dell'effettività. Non è un caso, del resto, che tutti gli ordinamenti (continentali e non) che prevedono questo tipo di sanzione, ne subordinano l'applicazione al consenso del reo, nella convinzione che non sarebbe seriamente immaginabile una sua esecuzione senza l'esistenza di un atteggiamento «collaborativo » del condannato, che costituisce la spia di una volontà di rieducazione e che, nel contempo, legittima appieno l'irrogazione della sanzione detentiva nel caso di violazione della sanzione”; [7] La Corte Costituzionale, con sentenza n. 179/2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del co.3 dell’art. 54 del D.Lgs. n. 274/2000 nella parte in cui non prevede che, “Se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall'ambito della provincia in cui risiede”; [8] L’LPU non potrà essere inferiore a 10 giorni e non superiore a sei mesi. La prestazione “de quo” non potrà eccedere le sei ore di lavoro settimanali da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro. Ai fini della conversione un giorno di LPU equivale a lire venticinquemila di pena pecuniaria; [9] Le modalità di svolgimento del LPU sono determinate con decreto dal Ministro della Giustizia d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997 n. 281; [10] Art. 73 co.5 bis DPR n. 309/1990 “Il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anzichè le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste”; [11] Art. 73 co.5 DPR n. 309/1990 “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329”. [12] Art.2 Legge 11.06.2004 n. 145 “Modifiche al codice penale e alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato”. [*] Tiziano Argazzi è Funzionario attualmente in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Rovigo. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero personale dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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Istituti previdenziali e casse pensioni di Stefano Stefani [*] Gli impiegati con più anni di servizio certamente ricordano quando era il Ministero del Tesoro a pagare gli stipendi dei dipendenti statali. Il Ministero tratteneva anche i contributi pensionistici e pagava le pensioni. Dal punto di vista pensionistico questa situazione configurava il sistema pensionistico degli statali come un fondo "esclusivo" (dell’Assicurazione Generale Obbligatoria presso l’INPS) perché gli oneri delle prestazioni pensionistiche erano sostenuti interamente dallo stesso soggetto che pagava gli stipendi e tratteneva i contributi. La situazione è cambiata radicalmente nel 1996 con la costituzione dell’INPDAP e la istituzione in esso della gestione separata dei trattamenti pensionistici degli statali con creazione della Cassa Trattamenti Pensionistici Statali ( CTPS), che provvedeva ad incamerare i contributi pensionistici a carico dello Stato ( Ente datore di lavoro ) e dell’impiegato (lavoratore) e a pagare le pensioni. Presso l’INPDAP erano confluite anche le Casse pensioni già esistenti presso il Ministero del Tesoro: la Cassa pensioni sanitari ( CPS), la Cassa pensioni ufficiali giudiziari ( CPUG ), la Cassa pensioni dipendenti enti locali ( CPDE L) e la Cassa pensioni insegnanti di scuole elementari parificate ( CPI), amministrate dalla Direzione Centrale degli Istituti di Previdenza. Nel 2012 l’INPDAP è stato sciolto e le sue competenze, così come tutte e cinque le casse pensioni, sono confluite nell’INPS. Come è certamente noto, presso l’INPS esistono anche altre Casse e Fondi pensione distinte secondo le varie categorie di lavoratori. A titolo di esempio: il fondo per i lavoratori dipendenti delle imprese industriali ( FPLD), per i soci di cooperative, per i lavoratori delle miniere, per i commercianti, per i dipendenti dell’ex Ente poste, per gli iscritti al fondo volo, per gli iscritti alla gestione separata, ecc. Oltre all’INPS esistono anche altre Casse e Fondi pensioni che non sono incardinate nell’Istituto ma seguono discipline proprie ed autonome come, ad esempio, quelle dei liberi professionisti: la Cassa avvocati, la Cassa ragionieri e periti commerciali, la Cassa ingegneri, ecc. Sulla base delle semplici considerazioni esposte, per ciascun lavoratore risulta allora più importante avere presente a quale Cassa o Fondo pensione risultano accreditati i contributi pensionistici, piuttosto che riferirsi genericamente all’Istituto presso il quale gli stessi sono stati versati. Tale conoscenza permette di valutare l’opportunità di accentrare i contributi in una sola Cassa oppure mantenerli in Casse separate, con le conseguenti implicazioni a livello sia degli eventuali oneri da pagare per avere tale accentramento, sia dell’importo della pensione che verrà percepita in futuro. In conclusione, un breve esempio per meglio chiarire quanto esposto. Un impiegato statale (contributi CTPS) in passato ha svolto collaborazioni coordinate e continuative (contributi gestione separata) e ha lavorato come dipendente di Azienda privata (contributi FPLD) e di impiegato a tempo determinato presso un Comune (contributi CPDE L). Per accentrare le varie posizioni assicurative presso la CTPS deve chiedere all’INPS la ricongiunzione onerosa per i contributi FPLD e la ricongiunzione gratuita per i contributi CPDE L; i contributi alla gestione separata non si possono ricongiungere e per essi andrà chiesta all’INPS la totalizzazione con quelli CTPS al momento del pensionamento. Viceversa, il mantenimento dei contributi in ciascuna Cassa nei quali sono stati versati comporterà la richiesta della totalizzazione al momento del pensionamento. L’accentramento delle posizioni assicurative, ancorché comporti un onere da pagare all’INPS, comporterà una pensione che (presumibilmente) sarà di importo più elevato rispetto a quello ottenuto con la totalizzazione. [*] Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Stefano. Attualmente in servizio presso una Pubblica Amministrazione ove ha realizzato una lunga esperienza nel settore dei trattamenti di pensione del personale. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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L’evoluzione storica del Terzo Settore: nascita e progressiva affermazione Prima Parte

di Paola Di Paolo [*] Il concetto di Terzo Settore fa riferimento all’esistenza di un primo settore costituito dal mercato e di un secondo settore costituito dallo Stato. Tutto ciò che rientra nel Terzo Settore non è mercato né Stato. Il concetto si riferisce all’insieme di organizzazioni private che operano, senza scopo di lucro, per finalità di utilità sociale in vari settori. “Terzo settore” può essere definito come l’area delle iniziative autonome, di aiuto alle situazioni di bisogno. Esso è un insieme di organizzazioni: formali in quanto dotate di uno Statuto che regola l’accesso dei membri, le relazioni reciproche e la stabilità nel tempo; private, in grado di decidere in autonomia; non profit che non prevedono distribuzione dei profitti ai soci; aconfessionali e non schierate politicamente, ossia non coinvolte direttamente in attività di partiti politici e di promozione di dottrine religiose. Il criterio fondamentale è che le organizzazioni operino per il “bene pubblico” e siano incluse nel settore del volontariato, la cui interpretazione è importante elemento di definizione di charity. [1] In Italia, a partire dal Medioevo, l’assistenza ai poveri, era stata solitamente affidata all’iniziativa privata ed alle Congregazioni Religiose; e nel corso dei secoli erano nate numerose compagnie di beneficenza, finalizzate all’assistenza degli infermi, alla tutela degli orfani ed alla sepoltura dei morti. Il passaggio a forme pubbliche di assistenza si ebbe soltanto a partire dal ’600 quando fu emanata, in Inghilterra, la Poor Law (legge per i poveri), che attribuì alle parrocchie, sotto il controllo pubblico, la riscossione dei contributi obbligatori destinati ai bisognosi; inoltre creò laboratori per i poveri privi di lavoro e costituì un fondo per gli invalidi. In Italia, tale cambiamento investì l’intera società e la sua organizzazione assistenziale, costituita da una rete di istituzioni, largamente autonoma, che rappresentava la forma ordinaria di risposta ai bisogni emergenti, in una sorta di Terzo settore auto organizzato e basato sulla continuità dei lasciti e delle donazioni[2] . I primi riscontri significativi si ritrovano nel Piemonte di Vittorio Amedeo II che, teorizzando sistemi di controllo della povertà e dell'emarginazione urbana, era pervenuto alla fondazione delle Congregazioni di carità. Nel 1716 a Torino con André Guevarre, gesuita riformatore degli istituti caritativi, fu creato un nuovo sistema che istituzionalizzava la carità individuale di tipo spontaneo sotto il controllo statale, mentre il potere civile sostituiva il clero nella gestione dell'assistenza. Si registrarono, però, posizioni contrastanti tra diversi economisti del tempo a proposito della carità legale. L’economista inglese Thomas Malthus sosteneva, infatti, che la tutela pubblica dei poveri si rivelasse controproducente, in quanto la costante assistenza garantita al lavoratore ed alla sua famiglia, inducevano la popolazione all’ozio. Egli sosteneva che dovessero essere abolite tutte le forme di assistenza pubblica. In Italia la posizione malthusiana venne accolta da molti economisti, tra i quali Melchiorre Gioia, che criticava le forme di assistenza ai poveri, sia pubbliche che private, in quanto le stesse aumentavano il numero degli assistiti e propose, come soluzione al problema dei poveri, la creazione di occasioni di lavoro e di reddito. Le autorità pubbliche avrebbero dovuto programmare le forme di job creating, lasciandole però in gestione ai privati[3] . Stesse posizioni furono assunte da Gian Domenico Romagnosi che individuava la causa della povertà non nell’irrazionale spinta alla riproduzione, ma nella violazione del naturale equilibrio economico [4] , poiché la concentrazione della proprietà fondiaria e le misure protettive dell’industria e del commercio avevano prodotto una diffusa condizione di povertà che non poteva certo essere affrontata abolendo le “poor laws”. La libera concorrenza avrebbe prodotto, invece, un equilibrio tale che il pauperismo si sarebbe ridotto a fenomeno marginale. Carlo Ilarione Petitti di Roreto sosteneva il diritto – dovere del governo di prestare aiuto alla miseria quale tutore comune ed al tempo stesso del necessario equilibrio nei confronti delle istituzioni di cui andava rispettata l’autonomia[5] . Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Il problema della gestione della mendicità doveva essere affrontato con l’obiettivo di arrivare ad una corretta gestione amministrativa, assicurando il sostegno assistenziale a tutti coloro che erano effettivamente incapaci di provvedere a se stessi (poveri invalidi) ma anche a coloro che in situazioni congiunturali rimanevano disoccupati, e che erano disposti, perciò, a prestare il loro lavoro nelle “case d’industria”. Emerge come elemento comune, l’esigenza di circoscrivere l’area dell’assistenza e di potenziare la prevenzione. In quest’ottica viene ad assumere rilevanza la dottrina del “self help” in base a cui le classi bisognose venivano messe in grado di aiutarsi da sole. Si diffonde attraverso una intensa propaganda giornalistica l’ideologia della laboriosità, della previdenza e del risparmio. La responsabilità della miseria, in questa prospettiva, veniva così attribuita all’operaio imprevidente. Nella seconda metà dell’800 in Italia il “sistema di carità”, nei diversi Stati della Penisola, era articolato in una rete di Opere Pie – così come vennero chiamate nella Gran Legge n. 753/1862, che comprendeva “i luoghi pii”, elemosinieri come espressione dell’associazionismo confraternale, gli “Ospedali maggiori”, di fondazione quattrocentesca, i “Monti di pietà”, sorti ad opera della predicazione francescana, le strutture nate dalla riforma cattolica, quali orfanotrofi, ospizi e “ritiri” femminili che scaturivano dalla tradizione medioevale[6] . Inoltre erano presenti le corporazioni di mestiere che svolgevano una specifica attività assistenziale basata sulla mutua solidarietà[7] . In Piemonte si venne a manifestare il modello del “glorioso Piemonte della carità” con una ricchezza di iniziative che rendevano Torino una risposta a un gravissimo disagio economico e sociale. Si evidenziava un concreto interesse per la solidarietà sociale, da cui originavano opere di grande rilievo per l’intera società italiana, come quelle attivate da Giuseppe Benedetto Cottolengo e da don Giovanni Bosco. Accanto a questi personaggi eccezionali c’erano altre figure di benefattori, spesso appartenenti al mondo aristocratico; tra essi Giulia di Barolo che si impegnò in particolare nella tutela del mondo femminile. Ad essa si deve la fondazione di opere di assistenza per le recluse nella prigione femminile e per le donne traviate che intendessero cambiar vita, di ospedali per le donne, di educandati per le orfane, di scuole femminili e di Associazioni di dame per la visita ai poveri a domicilio. L’assistenza privata era affidata quindi ad istituti di derivazione medioevale. Dal 1807 nacquero le Congregazioni di Carità che unificarono la gestione dell’assistenza e della sanità sul piano Comunale. Il controllo statale, esercitato tramite le Prefetture, era molto stretto ma la gestione era di fatto delegata ai notabilati locali che nominavano i membri delle Congregazioni stesse e i benefattori[8] , intorno alle quali si sviluppò un vasto piano di sostegno ai poveri “validi” con le “case d’industria” ed ai poveri “invalidi” con le “case di ricovero” [9] . Le Congregazioni di carità istituite nel 1807 sul modello francese dei bureaux de bienfaisance erano di composizione mista laico –ecclesiastica, con funzione di amministrazione in ogni Diocesi, i conservatori, gli ospedali e le fondazioni di carità. Alle Congregazioni, presiedute dal Prefetto, dal Podestà o dal Sindaco, partecipavano il Vescovo ed altri membri designati tra i proprietari, i commercianti e chi esercitava le professioni forensi. L’attività di queste Congregazioni di carità portava ad una perdita d’autonomia degli enti assistenziali non avendo più un proprio organismo d’amministrazione, trovandosi a dipendere dalla Congregazione[10] . Erano distribuite in tutto il territorio della Penisola ma in gran parte localizzate nelle regioni del Nord. Sono stati individuati vari modelli autonomi, i maggiori dei quali erano quello Piemontese, quello del Ducato di Modena, del Ducato di Parma, della Toscana, dello Stato Pontificio ed uno del Regno delle Due Sicilie. Il ruolo statale era contenuto, e le istituzioni di beneficenza erano pubbliche, nel senso di “aperte al pubblico, accessibili a tutti, non riservate”. Lo Stato non “assisteva” direttamente, limitandosi a garantire il buon funzionamento e la sorveglianza della consistenza patrimoniale delle Opere Pie[11] . Con la Gran Legge n.753/1862, si arrivò ad una forma unitaria alla disciplina delle Opere Pie che per trent’anni vide confrontarsi orientamenti diversi, ossia scuole di pensiero come il liberalismo moderato, la sinistra democratica ed il cattolicesimo sociale. I giudizi furono, ovviamente, molto diversi ma unanimemente la legge rappresentò un primo tentativo di istituzionalizzazione del Terzo settore su tutto il territorio nazionale al di fuori di indebite ingerenze governative[12] . La legge si proponeva due scopi: unificare la legislazione italiana sulle Opere Pie e di beneficenza ed emanciparle dall’ingerenza governativa, affidandole a loro stesse, fidando nella libertà[13] . Unità e libertà erano i principi ispiratori di questa prima soluzione legislativa, condivisa da moderati e cattolici, ma ritenuta contraddittoria dalle correnti di sinistra, che sostenevano che la beneficenza privata non poteva che produrre forme di patronage familiare. L’art.1 della Gran Legge definì le organizzazioni sottoposte alla legge stessa, che si individuavano “negli Istituti di carità e di beneficenza, e qualsiasi Ente morale avente in tutto od in parte il fine di soccorrere le classi meno agiate e prestare loro assistenza”. Ogni Opera Pia era sottoposta al controllo della relativa Deputazione Provinciale a cui doveva trasmettere tutta una serie di atti per l’approvazione. L’intento perseguito dal legislatore era stato indirizzato in varie direzioni: quello di varare un sistema basato sul disimpegno della finanza pubblica, che non generava diritti a favore di coloro che necessitavano dell’assistenza; quello dell’indipendenza degli istituti; quello della debole ingerenza governativa, con i ristretti limiti di controllo provinciale. Ma in seguito la disciplina del 1862 si rivelò un fallimento, rappresentato dall’insufficienza dei controlli e dalle responsabilità gravi dei soggetti interessati: il Ministero dell’Interno non esercitava la vigilanza, le Deputazioni Provinciali non assicuravano la tutela ed i Comuni erano restii nel proporre le trasformazioni pur previste dalla Legge. Si riscontrava, una forte sperequazione fra aree geografiche diverse, a sfavore di quelle Meridionali e delle Isole. I Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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compartimenti settentrionali del Piemonte, della Liguria, della Lombardia e del Veneto detenevano una consistenza patrimoniale di gran lunga maggiore rispetto alla situazione del Mezzogiorno dove, in alcune aree, c’erano, oltre che drammatiche carenze di risorse, anche mancanza di interventi di organizzazione sociale. Vennero alla luce gravi problemi amministrativi, sperequazioni di vario tipo, eccessiva incidenza delle spese di gestione in un periodo segnato da una grave crisi economica. Nel 1890 fu approvata la legge n. 6972/1890, nota come Legge Crispi, che stabiliva che tutti gli Enti privati, finalizzati a prestare assistenza, dovessero assumere la veste giuridica di “Istituzioni pubbliche di beneficenza”, ovvero trasformarsi in enti pubblici con regole minuziose sull’assetto organizzativo e amministrativo, la gestione dei patrimoni, la contabilità e la tutela della vigilanza da parte dei pubblici poteri. L’art 1, definendo le Opere Pie, “Istituzioni pubbliche di beneficenza”, non prevedeva per esse la possibilità di mantenere una natura privata o ecclesiastica, escludendo dalle stesse soltanto i Comitati di Soccorso e le fondazioni private, cosicché l’insieme del Terzo settore, nella sua varietà e ricchezza, veniva ricondotto ad una sola figura giuridica, almeno fino alla Costituzione Repubblicana. Si trattava di un azione nuova per l’epoca, poiché lo Stato entrava con la propria autorità in qualsiasi campo, anche in quello della beneficenza, fino ad allora quasi estraneo all’azione pubblica, gestito esclusivamente dalle attività caritatevoli della Chiesa cattolica e dalla libera iniziativa di cittadini filantropi. La Legge Crispi rappresentava una forma di controllo e di disciplina uniforme dello Stato sulla beneficenza privata, con cui lo Stato non affermava una responsabilità diretta del potere pubblico nella garanzia del bisogno economico sociale dei più disagiati, ma consentiva la sottrazione delle Opere Pie al controllo della Chiesa Cattolica e permetteva di estendere i controlli anche su detti organismi cui lo Stato liberale guardava con diffidenza. Il ridimensionamento del potere della Chiesa fu drastico, con l’esclusione dei parroci dalla composizione delle Congregazioni di carità istituite in ogni Comune, che accrescevano il proprio ruolo rappresentando il centro propulsore dell’attività assistenziale a livello locale. Altro elemento importante della riforma fu quello che imponeva un raggruppamento delle Opere Pie elemosiniere nella Congregazione di carità, chiamata ad amministrarne i patrimoni. Quanto agli effetti della legge sulla libertà dei cittadini, la trasformazione in Istituzioni pubbliche di beneficenza di enti e organizzazioni private compresse fortemente i diritti di libertà associativa. I cambiamenti e le trasformazioni che la riforma Crispina imponeva richiedevano una vigilanza costante sugli Enti nei rispettivi territori tanto che, negli anni successivi all’entrata in vigore, la sua applicazione procedette in modo blando, soprattutto per l’opposizione della Chiesa. Nell’opinione pubblica non si accettava, il radicalismo che aveva portato all’abolizione delle fondazioni di culto e all’esclusione dei parroci dalle Congregazioni di carità, “vera offesa” alla libertà e all’eguaglianza. La Legge Crispi è rimasta in vigore per oltre un secolo, essendo stata formalmente abrogata soltanto dalla legge n. 328/2000, “Legge Quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”[14] .

Bibliografia [1]

Kendal J. – Knapp M. “The voluntary sector in the U.K.”, Manchester United Press, 1992, Manchester UK. Zardin D. “Corpi fraternità e mestieri nella storia della società europea”, Roma, Bulzoni. [3] Cherubini A. “Storia della previdenza sociale in ltalia”, Ed. Riunite, Roma. [4] Levra U. “L’altro volto di Torino risorgimentale 1814–1848”, Torino, 1988. [5] Zamagni V. “Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi”, Bologna, Il Mulino, 2000. [6] Guenzi A. – Massa P. – Moioli A. “Corporazioni e gruppi professionali nell’Italia moderna”, Milano, F.Angeli,1999. [7] Bressan E. “Povertà e assistenza in Lombardia nell’età napoleonica”, Milano, Cariplo Laterza, 1985. [8] Woolf S.J. “Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna”, Roma – Bari, Laterza, 1988. [9] Silvano G. “Origini e sviluppi del Terzo settore italiano”, in “Società e Terzo settore. La vita italiana”, Bologna, Il Mulino, 2011. [10] Piccialuti Caprioli M. “Opere pie e beneficenza pubblica: aspetti della legislazione piemontese da Carlo Alberto all’unificazione”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico n. 3, 1980. [11] Silei G. “Lo Stato sociale in Italia. Storia e documenti”, vol. I°, Bari – Roma, P.L. 2003. [12] Villari P. “La riforma della beneficenza” in Scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, 1902. [13] De Siervo U. “Le trasformazioni della legislazione in tema di IPAB”, in “Giurisprudenza Costituzionale” I 1985. [14] Pastori G. “Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000”, Giuffrè, Milano. [2]

[*] Funzionario Area Amministrativa e Giuridico – Contenzioso in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Teramo. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per la relativa Amministrazione di appartenenza.

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Effemeridi: pillole di satira e costume L’alba di un nuovo giorno di Fadila Qualche tempo fa, mentre smanettavo al computer dopo il mio consueto rientro serale, ho trovato nella casella di posta elettronica un messaggio proveniente da Auckland, in Nuova Zelanda. Era di una ricercatrice italiana, docente alla locale università, che voleva chiarimenti su un argomento trattato nei miei libri. Nonostante fossero le nove di sera, l’ho contattata e tramite skype, abbiamo iniziato la nostra conversazione, osservandoci in diretta come fossimo nello stesso ambiente e non a quell’enorme distanza tra due luoghi agli antipodi. Dalla mia finestra si poteva scorgere ancora, lungo l’orizzonte disteso a occidente, qualche tenue filo di luce del crepuscolo; alle spalle della mia interlocutrice, invece, c’era la luminosità dell’alba nel momento in cui il sole sta per sorgere e iniziare il suo cammino nel nuovo giorno. Le condizioni in cui si stava svolgendo la nostra conversazione avevano per la mia mente qualcosa di surreale. Passi per la distanza azzerata dagli strumenti tecnologici, ma sul fatto che la mia interlocutrice avesse vissuto dieci ore in più non riuscivo a capacitarmene. Forse solo Einstein redivivo sarebbe riuscito a ficcarmi in testa la questione della relatività. Noi comuni mortali beneficiamo dei risultati delle intuizioni dei geni, ma facciamo per lungo tempo fatica a capirne l’essenza. Alzi la mano chi è in grado di spiegarmi con parole semplici i principi della relatività generale dopo un secolo dalla sua enunciazione. Quel giorno era il 26 di aprile, trentesimo anniversario della nascita di internet quasi in contemporanea con la iniziale diffusione del telefonino che hanno rappresentato l’alba di un nuovo giorno per l’umanità. Quelle invenzioni all’epoca erano pressoché ignote ai più e sembravano senza un grande futuro. Il cellulare era talmente ingombrante che i pochi fortunati facevano uno sforzo non lieve a portarselo dietro; di dimensioni ragguardevoli, era simile ai walkie talkie usati dai marines nella seconda guerra mondiale come ci appaiono nei film sull’argomento. Oggi il loro numero è quasi uguale agli abitanti del nostro pianeta e in Italia, paese ad alta loquacità, è di molto superiore; uno dei pochi primati in nostro possesso come la densità dei corrotti per abitante. E’ certo che molti genitori interpretano il primo vagito del neonato come richiesta pressante di cellulare. Se non sarà in grado di farsi comprendere dovrà aspettare la fanciullezza e l’inizio del suo percorso scolastico. Noi avevamo la merenda nel panierino, loro il cellulare in tasca. A ciascuno il suo, con una gran bella differenza. Al di là delle battute, va detto che queste scoperte sono una pietra miliare nel cammino dell’uomo e sicuramente hanno cambiato e migliorato il mondo come il fuoco, la ruota, la scrittura, la radio, i viaggi nello spazio, l’energia atomica e lo iul, tanto per citarne alcune. Da allora nulla è stato più come prima e chi è nell’età di mezzo, sa a cosa mi riferisco. Non che senza internet mancassero i mezzi di comunicazione. Tra tutti la televisione ormai aveva la preminenza e i telespettatori potevano già da tempo vedere in diretta programmi trasmessi anche dall’altro capo del mondo. Ma quella comunicazione era a senso unico, senza dialogo come il cinematografo, mentre la radiotelegrafia per le lunghe distanze era ancora per pochi che ne potevano sopportare i costi; per le persone normali, la massa, la posta la faceva da padrona. C’era, è vero il telefono fisso, ma si usava quasi esclusivamente verso le utenze locali. Le interurbane o le intercontinentali, per le loro tariffe proibitive, venivano utilizzate solo per eventi eccezionali. Chi scrive e sta ben oltre l’età di mezzo, ricorda che qualche decennio prima del 1986, la comunicazione aveva ambiti ancor più limitati, decrescente per cerchi concentrici all’ambiente circostante, parenti, amici, conoscenti del quartiere o del villaggio. Le notizie, è vero, non mancavano grazie alla radio e ai giornali, ma la loro diffusione era lenta, trasmessa per passa parola a partire dai pochi in possesso delle fonti e molto spesso in questo lungo percorso arrivavano alla fine anche distorte. Ai tempi della fanciullezza, la mia famiglia aveva la fortuna di possedere una radio, uno di quei cassettoni enormi con “l’occhio magico” come si possono vedere a volte dai rigattieri, che troneggiava nel salotto simile a un totem, tenuta amorevolmente come un gioiello di gran valore da mia madre e imbellettata da centrini immacolati. Grazie a essa e alle informazioni fornitemi la considerazione dei compagni nei miei confronti era lievitata di molto. La domenica, poi, il salotto diventava un piccolo stadio gremito di folla formata da parenti e amici per ascoltare le radiocronache di Nicolò Carosio. Le nuove generazioni prima di disprezzare o compiangere la loro situazione dovrebbero essere informati, magari da una scuola efficiente, di come vivevano i loro padri e le generazioni precedenti. Capirebbero che non è mai esistita un’età dell’oro da rimpiangere. Una vita migliore è dovuta al progresso creato dalle capacità e intelligenza dell’uomo che non è solo il più temibile e crudele degli esseri viventi della nostra Terra. Andando di questo passo non è detto che non si arrivi, prima o poi, alla velocità di Superman e alla trasmissione del pensiero senza l’ausilio di questi che un giorno saranno considerati strumenti ingombranti. Lavoro@Confronto - Numero 15 - Maggio/Giugno 2016

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Hanno collaborato a questo numero

Tiziano Argazzi Gianna Elena De Filippis Alberto Del Prete Erminia Diana Fabrizio Di Lalla Paola Di Paolo Fadila Dario Messineo Stefano Olivieri Pennesi Luigi Oppedisano Claudio Palmisciano Stefano Stefani Sara Vizin

Alcune immagini di questo numero sono tratte da manifesti, quadri e cartoline pubblicate a cavallo del X IX e X X secolo sul Primo maggio forniteci da Fabrizio di Lalla

LAVO RO @CO NFRO NTO Via Quintino Sella, 23 00187 Roma www.lavoro -confronto.it LAVO RO - CO NFRO NTO @fondazionedantona.it Numero 15 • Maggio/Giugno 2016 Rivista bimestrale on line della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ( Onlus) Registrazione Tribunale di Udine N. 4/2014 - In data 27 febbraio 2014

Direttore Editoriale: Claudio PALM ISC IANO Direttore Responsabile: Renato NIBBIO Capi Redattori: Palmina D’ONOFRIO, Annunziata ELIA Redazione: Michele C AV ALIERE, Fabrizio DI LALLA, Roberto LEARDI, Dario M ESSINEO, Claudio PALM ISC IANO, Stefano OLIV IERI PENNESI, Elena RENDINA

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