Sant'Omobono 13 Novembre 2019

S. Omobono

Profeta e testimone del suo tempo

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S. Omobono

Profeta e testimone del suo tempo

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per aver prodotto e confezionato gli omaggi distribuiti agli ospiti della presentazione ufficiale

Commento del Vescovo di Cremona

pag. 5

Antonio Napolioni

Commento del Sindaco di Cremona

pag. 7

Gianluca Galimberti

Presentazione del Coordinatore del progetto

pag. 9

Isidoro Gusberti

Il testamento di S. Omobono.

Rilettura, fantasiosa ma non troppo, dell’eredità spirituale del Patrono di Cremona

pag. 11

a cura di Don Angelo Piccinelli

Il Culto dei Santi nelle celebrazioni liturgiche

pag. 18

a cura di Don Gianni Cavagnoli

Psicologia e Religione: dal sospetto al rispetto

pag. 26

a cura di Don Pier Altero Ziglioli

O padre o tutela. Inno a S. Omobono o... S. Isidoro

pag. 33

a cura di Isidoro Gusberti

Cremona ritrova una perla musicale: l’organo Tezani-Bossi della chiesa di S. Agostino

pag. 39

a cura di Marco Ruggeri

L’ organo Tamburini di S. Ambrogio Trascorsi storici, peculiarità e caratteristiche di uno strumento singolare

pag. 48

a cura di Federico Granata

Sant’Antonio in Sant’Ambrogio: il progetto di un santuario per la città a cura di Michele Bolzoni

pag. 54

La Caritas Cremonese è l’organismo pastorale costituito dalla Chiesa Cremonese al fine di promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica.

Caritas Diocesana di Cremona

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Via Stenico 2/b 26100 Cremona Tel. 0372.35063 caritas@diocesidicremona.it

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er il terzo anno ATENA promuove una pubblicazione intorno al nostro Sant’Omobono, quest’anno contestualizzandolo nell’insieme dei Santi che costellano la vita del popolo di Dio. Mi rallegro per questa iniziativa, anche perché può far riecheggiare localmente l’Esortazione apostolica pubblicata da papa Francesco il 19 Marzo 2018 col titolo “Gaudete et exsultate” sul tema della chiamata alla santità nel mondo contemporaneo.

Il Papa innanzitutto fa guardare ai Santi come i testimoni che ci incoraggiano a “correre con perseveranza nella corsa che ci sta davanti” (Ebrei 12,J), e al n.4 di tale documento ricorda che “i santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione”.

Su questo si fondano le tante forme di venerazione e preghiera rivolte ai Santi.

Ma la proposta che più colpisce, per la semplicità del linguaggio e l’eco che ha suscitato, è quella di non pensare soltanto ai santi già beatificati o canonizzati, ma ai tantissimi “santi della porta accanto”, che nel popolo fedele di Dio sono come “la classe media della santità”.

Mentre contempliamo i giganti come sant’Omobono, non dimentichiamo dunque che si chiamava Tucenghi, che viveva a Cremona, in un dato quartiere, faceva un preciso lavoro, aveva quella moglie e quelle vicende ... insomma, era uno di noi, davvero, diventato santo secondo la via tracciata dal Signore nella sua vita concreta. Come a dirci: “puoi farlo anche tu, perché il Signore chiama anche te”.

Mi auguro che queste pagine, sicuramente dense di saggezza e bellezza, non solo ci facciano guardare con gratitudine e fiducia all’intercessione dei Santi, ma ci facciano riscoprire la potenza del Battesimo e di una vita ad esso improntata: da figli di Dio e da fratelli riconciliati, potremo riconoscerci come “i santi di Dio che vivono in Cremona”, parafrasando il modo in cui spesso l’apostolo Paolo si rivolgeva alle prime comunità.

† Antonio Napolioni Vescovo di Cremona

Sant’Omobonotredicinovembre | 7

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nche quest’anno eccoci al 13 novembre, festa di S. Omobono. Il merito della pubblicazione che ormai da qualche anno accompagna questa giornata centrale per Cremona, proponendo temi nuovi e nuovi approfondimenti, è quello di aiutarci a cogliere il senso profondo di una festa come questa: deve essere nuova ogni anno e ogni anno darci nuovi stimoli di riflessione e di idee. S. Omobono vive in città se la città ogni anno prova a fare un esame di coscienza su se stessa, mentre si riflette e si rispecchia nella sua vita. Altrimenti è solo un rito, magari anche bello e coinvolgente, ma senza quella carica interiore, quel segno di contraddizione che la vita di un Santo deve consegnare e affidare a chi guarda a lui come riferimento o anche solo con il rispetto dovuto a persone che nel quotidiano, difficile e normale, hanno fatto la storia. Che cosa significa oggi la vita di S. Omobono? La sua instancabile tensione di comunione a combattere le tensioni di lacerazione nel tessuto sociale? Per noi che siamo mediamente generatori di tensioni divisive e di scontro a volte inutili, altre volte anche piuttosto sciocche e vanagloriose. Che cosa significa la sua quotidiana e normalissima attenzione ai più fragili e agli ‘invisibili’? Per noi che lasciamo che la paura spesso domini il cuore e la coscienza collettiva o anche, e in modo più ipocrita, che la paura sia il paravento che nasconde in realtà una comoda e rassicurante indifferenza e un tiepido e asfittico individualismo. Che cosa significa la sua spiritualità? Per noi che abbiamo timore del silenzio in cui risuonano domande e la presenza dell’altro o dell’Altro ci provoca e a volte ci lacera.

Ma il tema della pubblicazione ci rimanda anche a un altro sguardo da assumere e ci pone una domanda ulteriore. Chi è un Santo, considerato tale da una comunità? E dove sono i santi oggi?

Se santità significa rimando a un’ulteriorità e un’alterità che apre l’umano oltre la sua misura e gli fa gustare e intravedere orizzonti di senso e anche di felicità, e se questi orizzonti sono segnati da un desiderio profondo di bene condiviso, di apertura di se stessi fino al dono della vita (cose grosse davvero! ma parliamo di santità!), allora chi sono i santi oggi? Io ne vedo tanti! Nelle vie della nostra comunità, nella sue case, nei luoghi più dolorosi e in quelli più normali e sereni. Non li descriverò, non racconterò la storia di alcuni di loro, anche se vorrei farlo, perché raccontare il bene che si incontra e si vede aiuta a crescere. Ma pongo ancora una domanda: abbiamo gli occhi per vedere i santi? Che cosa in fondo è sacro per noi? Navigatori di questo tempo difficile e bellissimo. La santità è questione Politica, questione di costruzione della Polis, della nostra amata Cremona, figlia di S. Omobono, santo e padre di futuro.

Gianluca Galimberti Sindaco di Cremona

Sant’Omobonotredicinovembre | 9

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con particolare piacere che mi accingo a presentare, in occasione della festività di Sant’Omobono patrono della città e della Diocesi, questo volume dal titolo “Sant’Omobono: profeta e testimone del suo tempo”, poiché, se pur ancora ristretta in un breve arco temporale, questa iniziativa di pubblicare una raccolta di studi, saggi, articoli, approfondimenti e considerazioni sulla vita e le opere del nostro Santo Patrono nel giorno della sua festa, può già considerarsi una piccola tradizione e se i primi due volumi dal titolo “ Sant’Omobono :13 Novembre” (2017) e “Sant’Omobono 13 Novembre: i protettori di Cremona” (2018) redatti con la collaborazione dell’Associazione C.r.ar.t, abbiano inteso sviluppare temi legati alla Storia del Santo, della Chiesa a Lui dedicata, all’arte ed alle rappresentazioni storico-culturali della città e fuori da essa, questa nuova pubblicazione, dal titolo “ Sant’Omobono: profeta e testimone del suo tempo” intende ampliare “l’orizzonte della Santità”, al fine di poterne cogliere maggiori e particolari aspetti che possano magari coinvolgere anche sfere ed esperienze personali. E la soddisfazione è, anche, determinata dal fatto di essere riuscito a concretizzare un progetto in animo da tempo e che solo la disponibilità, la collaborazione oltre che la chiara competenza degli autori ha reso finalmente possibile. Gli scritti contenuti nel volume, quindi, intendono offrire più spunti di riflessione su argomenti che, se pur complessi, non vogliano mancare di affascinare il lettore anche solo attraverso quelle dimensioni e dinamiche insite nei temi stessi e proprie delle loro specificità. Inoltre, dopo uno scritto riguardante Inni ed in particolare quello corale-popolare dedicato a Sant’Omobono dal maestro Federico Caudana ve ne saranno due riguardanti il lavoro compiuto sugli organi della Chiesa di Sant’Agostino e Sant’Ambrogio . A chiudere una breve Storia su un grande avvenimento che coinvolse tutta la città: l’ Edificazione del Santuario di Sant’Antonio di Padova annesso alla Chiesa di Sant’Ambrogio in Cremona. Gli autori dei testi sono il professor Don Angelo Piccinelli, parroco della Chiesa di San Siro in Soresina; il professor Don Gianni Cavagnoli, parroco della Chiesa di San Francesco in Cremona, il professor Don Pier Altero Ziglioli collaboratore della Chiesa di San Michele Vetere in Cremona, il maestro Marco Ruggeri, docente al Conservatorio “G. Cantelli” di Novara, organista e conservatore del patrimonio organaro della Diocesi di Cremona, il collaboratore organaro Federico Granata, il professor Michele Bolzoni del Consiglio Pastorale di Sant’Ambrogio in Cremona e lo scrivente, organista della Chiesa di Sant’Agostino e direttore de “Il Continuo”. A tutti vada il mio profondo sentimento di gratitudine.

Isidoro Gusberti

Coordinatore del progetto

Sant’Omobonotredicinovembre | 11

IL TESTAMENTO

DI S. OMOBONO

Rilettura, fantasiosa ma non troppo, dell’eredità spirituale del Patrono di Cremona a cura di Don Angelo Piccinelli

S

ia gloria a Dio, il Misericordioso. Ne celebro l’immensa bontà, imitando debolmente la quale mi sono ritrovato, di fatto e non solo di nome, un “uomo buono”. Gli sono grato per la sua compagnìa discreta, ma costante, negli anni della mia religiosità superficiale e accomodante; per la sua presenza travolgente, vigorosa ed energizzante dopo la mia conversione. Rimpiango di avere perso molti anni ignorando la “perla preziosa” che avevo a portata di mano: proprio io, mercante scaltro e avveduto, non ho intuito, da subito, il più grande “affare” della mia vita.

Ai miei amici, perciò, lascio in eredità, anzitutto, la fede che anch’io ho ricevuto giovanissimo: un talento che, ahimè, ho “trafficato” troppo tardi! Non c’è, infatti, investimento più redditizio per “usare del mondo come se non se ne usasse”; non c’è risorsa più necessaria per qualificare, dal di dentro, i contesti ordinari della “condizione laicale”: la relazione tra gli sposi, l’educazione dei figli, il lavoro, l’impegno politico, l’imprevisto della malattia e il tempo della vecchiaia. Alla scuola del Vangelo ho imparato ad ascoltare la voce di Dio, a distinguerla tra ispirazioni e suggestioni di ogni genere; alla mensa dell’Eucarestia ho gustato l’intimità con Gesù e la comunione con tutti: mi sono lasciato introdurre, insomma, nella vita spirituale. E il frutto dello Spirito è stato, nonostante i miei limiti, meraviglioso e sovrabbondante: amore, gioia, pace, pazienza, bene-

volenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di me. Vorrei che a questo patrimonio attingessero quante più persone possibile: soprattutto coloro che non hanno mai provato ad amare e ad essere amati, a gioire e a perdonare, a contraddire la tentazione di una resa supina alle proprie voglie. A coloro che, giustamente, non si fidano dei loro occasionali slanci interiori, affido il segreto della mia perseveranza nel bene: la “direzione spirituale”. Mi riferisco allo speciale accompagnamento che un prete può offrire per discernere la volontà di Dio nella complessità dei desideri e degli stati d’animo, per sostenere nelle cadute e orientare nei momenti di oscurità. Lascio ai più coraggiosi dei miei concittadini l’abito scuro e penitenziale che indossavo per portare sempre e dappertutto, nel mio corpo e nella mia anima, la morte di Cristo: la via della “ascesi” è una garanzia nella sequela del Signore e uno strumento efficace per esorcizzare il demone della tiepidezza. Il mio crocifisso, davanti al quale ho versato le prime lacrime della mia conversione, sia custodito da coloro che non riescono ancora a piangere per i propri peccati. La mia “borsa”, diventata proverbiale per le monete che vi si moltiplicavano in soccorso dei poveri, sia affidata a chi non si scandalizza della miseria materiale, morale e spirituale dei suoi fratelli: perché possa prolungare, nel tempo, il miracolo di una carità senza pregiudizi e senza frontiere. Dio vi benedica tutti.

Sant’Omobonotredicinovembre | 13

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S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

Omobono di Cremona... ovvero la logica del dono e della croce La santità di Omobono alla luce della “Gaudete et exsultate” di papa Francesco Secondo lo storico medievalista André Vauchet quella di sant’Omobono fu la prima canonizzazione di un laico borghese nella storia della Chiesa: inoltrata personalmente dal vescovo Sicardo presso papa Innocenzo III, la richiesta di riconoscimento della vita santa e l’autorizzazione al culto del mercante cremonese furono accolti e codificati dal pontefice nella bolla “Quia pietas”. Ciò che conosciamo del Patrono di Cremona, dunque, è custodito nella “Cronaca” di Sicardo, nella bolla papale e in alcune “vitae” scritte tra il XII e il XVI secolo, che abbondano di notizie interessanti, alcune delle quali probabilmente leggendarie. Poiché non mi propongo l’analisi critica dell’agiografia di Omobono, ma solo di rileggere, in chiave spirituale, la sua testimonianza alla luce della recente Esortazione Apostolica di papa Francesco “sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo” (“Gaudete et exsultate” del 19. 3. 2018), mi affido “ciecamente” alle “notizie” vagliate e filtrate con rigore dagli studiosi del nostro Santo.

Oserò, inoltre, qualche attualizzazione... affidata al lettore, ovviamente, “con beneficio d’inventario”.

I santi della porta accanto L’espressione, non del tutto originale ma certamente geniale nel contesto in cui viene adottata, è di papa Francesco: “I santi della porta accanto”, infatti, è il titolo di un capitolo della “Gaudete et exsultate” il cui “umile obiettivo - scrive il pontefice - è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità” (GE 2). Il papa, insomma, vuole rimettere nel cuore dei cristiani la voglia di essere “santi”, cioè di vivere secondo il Vangelo. Ed è un fatto straordinario, molto incoraggiante, che il Vescovo di Roma abbia dedicato un documento solenne del suo magistero ad una esperienza - la vita santa – certamente connaturale all’indole del Cristianesimo, ma sospettata di essere troppo esigente e quasi irraggiungibile, da “delegare”, quindi, a persone “speciali”, consacrate o comunque “fuori dal comune”. Quasi che la santità non fosse alla portata di tutti e la “forma” normale dei cristiani “normali”. A scanso di equivoci, il pontefice scrive che «lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio» e aggiunge: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continunano a sorridere... Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (GE 7). La quale, dunque, va cercata nella vita ordinaria e tra le persone a noi vicine, non in modelli ideali, astratti o sovrumani: i santi non sono dei prototipi “perfetti” e inimitabili, ma persone vere, concrete, fragili, che «anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore» (GE 3).

Fedeltà alla terra, alla vita e concretezza: ovvero la spiritualità laicale Anche Omobono di Cremona, presumibilmente, apparve ai suoi contemporanei “semplicemente” un cristiano: ma non uno tra i tanti! Devono avervi riconosciuto il credente “senza falsità”, l’uomo “buono di nome e di fatto”, dal cuore generoso e pieno di compassione, intessuto nelle “viscere” misericordiose di Dio, oltre che il “pacificatore” discreto e il mediatore autorevole. Nulla di straordinario, dunque, nessun “effetto speciale” e miracolistico, nessun fenomeno mistico ha conclamato la santità di Omobono, se non l’intensità della fede, della speranza e della carità: che sono la sostanza della “vita nello Spirito”. E la cui presenza “dinamica”, declinata nella concretezza del quotidiano, non sfugge all’occhio disincantato del “popolo di Dio”. Omobono era un laico: sposato e padre di famiglia, mercante e borghese, cittadino e, forse, politcamente schierato... La secolarità è stata la via della sua santificazione, il mondo il luogo in cui incontrare, adorare e servire Dio. Al proposito risultano ancora illuminanti, benché cronologicamente datate, le parole del teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, martire nel campo di sterminio nazista di Flossemburg (+1945): «Solo perché Dio si è fatto uomo povero, misero, sconosciuto, senza successo... per questo non

ci stacchiamo dal mondo e dall’uomo, per questo amiamo i fratelli. Poiché la fede cristiana è tale che, di fatto, “l’incondizionato è incluso nel condizionato”, l’aldilà è entrato nell’aldiqua per sovrana libertà della grazia, per questo il fedele non è dilacerato, ma in quest’unico luogo, in questo mondo, trova insieme Dio e l’uomo, e da quel momento in poi l’amore di Dio e l’amore del fratello sono indissolubilmente legati» (Bonhoeffer D., Fedeltà al mondo, Queriniana – Brescia, 1995).

E’ il principio dell’incarnazione del Verbo di Dio nella storia ad esigere dai discepoli di Gesù il dialogo con il proprio tempo e il rischio della compromissione: «Un Cristianesimo capace di essere lievito di ogni valore umano – dichiarava negli anni ‘70 del secolo scorso Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura e già Presidente Nazionale di Azione Cattolica, assassinato dalle Brigate Rosse a Roma nel 1980 – e più capace di offrirsi con amicizia a tutti gli uomini perché tutti sa amare, non è un Cristianesimo facile, un Cristianesimo poco rigoroso, un Cristianesimo che rifiuti l’obbedienza al Padre, se necessario fino alla morte e alla morte di croce... Perché è proprio dalla croce che nasce la nostra capacità di partecipare alle gioie e alle speranze e, insieme, alle angosce e alle tristezze dell’umanità» (Bachelet V., Discorsi, Ave – Roma, 1980). La spiritualità laicale è liturgia Sant’Omobonotredicinovembre | 15

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della vita: sacerdozio che sacralizza il profano; regalità che assume il servizio come un privilegio; profezia che osa i sentieri audaci e pericolosi della carità anticipando e intuendo le sorprese dello Spirito.

Conversione, lotta e discernimento Dalle antiche biografie si evince che Omobono di Cremona si “convertì” ad una vita spirituale “audace e fervorosa” in età ormai matura. La sua fu una sorta di “seconda conversione”: ovvero una opzione per Cristo esplicita, radicale e totalizzante, in rottura con la precedente esistenza cristiana piuttosto mediocre, abitudinaria e senza slancio. All’origine del “salto di qualità” - racconta una delle “vitae” - sarebbe risuonato, più convincente che mai, l’appello evangelico di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che hai e dallo ai poveri...”

(Mt. 19, 21). Per dare consistenza e continuità al suo proposito Omobono entrò a far parte di una specie di terz’ordine laicale, in sintonìa con il movimento penitenziale diffuso al tempo, imponendosi un’ascesi senza sconti, con digiuni e flagellazioni, un ritmo di preghiera frequente e regolare, uno stile di sobrietà palesemente in contrasto con la sua condizione benestante, l’esercizio di una carità senza limiti, la docilità ad una guida “nelle cose di Dio”. Omobono deve avere compreso, forse in ritardo e a proprie spese, l’insegnamento della dottrina spirituale di sempre, e che papa Francesco ribadisce, pari pari, nella “Gaudete et exsultate”: «La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo... Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo...» (GE 159). L’esistenza del cristiano, dunque, è fondamentalmente “agonìa”, cioè lotta contro il male e i suoi abbaglianti artifici: il discepolo di Gesù è consapevole di trovarsi in uno stato “permanente” di conversione. Per poter diventare quello che è. Secondo la misura del dono di Cristo.

Non credo alla santità senza preghiera Papa Francesco è perentorio: non si dà santità cristiana al di fuori di una sincera e profonda relazione di amicizia con Dio. Ovvero, senza preghiera: «Il santo – scrive nella “Gaudete et exsultate” - è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio» (GE 147). L’apertura abituale alla trascendenza, dunque, per chi crede in Cristo, è un atteggiamento di fondo, e perciò un modo di essere, una logica di vita: «Il santo è uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi, sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore» (GE 147). Stupefacente! Con poche ed artistiche pennellate il pontefice ridisegna, in modo essenziale ma perfetto, quell’originale immagine della preghiera che gli antichi Padri della Chiesa orientale definivano “il respiro dello Spirito in noi”. L’allegorìa è chiara: se attraverso la respirazione fisica l’ossigeno vitalizza il sangue e viene “trasportato” in tutto il corpo, analogamente la preghiera assorbe lo Spirito Santo e lo fa circolare in tutte le attività del cristiano. Dunque, ha ragione il monaco russo Teofane il Recluso (+1894): “L’orazione è il barometro della vita spirituale”. Ne era assolutamente convinto Omobono di Cremona, di cui le antiche biografie ricordano la fedeltà all’incontro quoSant’Omobonotredicinovembre | 17

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S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

tidiano e prolungato con Gesù–Eucarestia, suffragato da una speciale, intensissima devozione al Crocifisso: per “desiderare Dio” anche in mezzo alle più diverse occupazioni, “tenendo in Lui l’affetto del cuore”. Poiché è necessario - scrive papa Francesco - far «tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio... Diversamente - mette in guardia - tutte le nostre decisioni potranno essere soltanto delle “decorazioni” che, invece di esaltare il Vangelo nella nostra vita, lo ricopriranno e lo soffocheranno» (GE 149 - 150).

Omobono di Cremona... docet!

Dalla parte degli ultimi... e costruttori di pace La mistica di sant’Omobono, ovvero la via dell’unione con Dio, non trascendeva la realtà, ma l’attraversava: per fedeltà al Maestro, alla sua logica, al suo metodo, al principio “divino” della salvezza che è l’incarnazione. Insieme alla cura della dimensione verticale (la preghiera, l’ascolto della Parola, la vita sacramentale), in effetti, la “Gaudete et exsultate” ricorda ai cristiani “chiamati alla santità” l’esigenza di una carità “orizzontale”, ovvero di un impegno appassionato nella società, nell’esercizio della cittadinanza attiva, nella solidarietà con gli ultimi, nella tutela dei deboli, nella lotta alle ingiustizie...

“Essere santi – scrive papa Francesco – non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi... Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi” (GE 96). Il pontefice ammonisce quei credenti che, oggi, riducono il Cristianesimo ad una “organizzazione non governativa” prescindendo “dalla relazione personale con il Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia” (GE 100); ma, non di meno, critica quanti “diffidano dell’impegno sociale... considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista” (GE 101).

Nessuna concessione, dunque, ad un cammino spirituale tutto concentrato sull’intimità del proprio io e quasi infistidito da “certi intoppi”: «Quando incontro una persona che dorme

alle intemperie – spiega la “Gaudete et exsultate” - posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre... Questo è essere cristiani!

O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?»

(GE 98). La stessa domanda, implicita o esplicita, deve avere profondamente e beneficamente inquietato Omobono.

Che non solo non ha ignorato «l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, mentre altri guardano solo da fuori...» (GE 101) ma si è fatto carico delle povertà del suo tempo e, concretamente, dei suoi concittadini afflitti dalla miseria.

Il suo titolo di onore è, infatti, “padre dei poveri”. “In tempi di carestia – scrive il Vauchet in un suo studio sul Santo - egli stesso distribuiva del pane agli indigenti, una specie di torta e del vino che prelevava dai suoi magazzini. Non esitava, inoltre, a curare i malati in casa sua, che era diventata una sorta di ospizio. Non contento di praticare l’elemosina si occupava personalmente dei poveri e di coloro che erano morti senza sepoltura”. Ha praticato, insomma, le opere di misericordia.

Omobono ha usato – secondo la parabola evangelica – della “disonesta ricchezza” prodotta dalla sua scaltra e redditizia attività commerciale, per farsi “amici nel cielo” (Lc 16, 1 - 13).

Ma all’esercizio della carità Omobono univa anche la pratica della giustizia, prendendo posizione nelle lotte politiche che dividevano Cremona e intervenendo per ristabilire la pace tra gruppi antagonisti. Egli fu, dunque, anche “vir pacificus”, cioè un autorevole ed efficace operatore di pace. In lui la dimensione verticale della sequela (contemplazione) e quella orizzontale (carità e giustizia) si sono “incrociate” mirabilmente: per questo ha meritato di lasciare questo mondo inginocchiato davanti al Crocifisso.

La memoria dei Santi, ovvero la pedagogìa dei modelli Ha ancora un senso ricordare i Santi, ovvero quegli uomini e donne, adulti, giovani e perfino bambini, laici, preti e religiosi che, nel tempo, hanno incarnato interpretazioni autentiche e credibili del Vangelo di Gesù? Sono davvero attuali questi “campioni” della fede così incredibilmente “esemplari”? La domanda non è retorica... e la risposta non è scontata. Personalmente ne sono convinto. Se, infatti, è sempre stata importante, per la Chiesa, la pedagogia dei “modelli”, a maggior ragione in una società come la nostra, abbagliata da certo divismo acritico e demenziale, la proposta di “divi” in controtendenza è una necessità assoluta ed una “stuzzicante” offerta di libertà, soprattutto (ma non solo) per le nuove generazioni.

La santità, infatti, è un progetto di “divismo” alternativo e trasgressivo, una vera e propria sfida... I Santi dimostrano che è possibile tradurre in pratica e riscrivere, nel proprio vissuto, l’utopia delle beatitudini evangeliche. La storia della spiritualità insegna che essi non furono dei “mostri di perfezione e infallibilità”, ma persone “in perenne conversione”: in questo senso anche molti dei famigliari e conoscenti che ci hanno preceduto - il cui eroismo è troppo ordinario per essere “pubblicizzato” e ufficializzato – appartengono sicuramente all’esercito dei “benedetti”. Gente straordinariamente “normale” (se la norma è Cristo), fratelli e sorelle che hanno perfezionato la propria umanità recuperandola da ottusità e durezze di ogni tipo, plasmata secondo le esigenze dell’amore a Dio e al prossimo. Papa Francesco li definisce i Santi “della porta accanto” (Gaudete et exsultate, 7). Una espressione sapiente ed emblematica, che riconsegna a ciascun battezzato, in qualunque situazione si trovi, la sua ineliminabile “vocazione alla santità”.

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20 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

Il Culto dei Santi

nelle celebrazioni

a cura di Don Gianni Cavagnoli

L’

espressione più usata per caratterizzare le celebrazioni liturgiche nelle feste/memorie dei santi , anche nella solenne dizione dei libri ufficiali, è “Messa in onore del santo”. Già s. Agostino, parlando della dedicazione di altari, precisava che «non ai martiri sono elevati altari, bensì, in loro memoria, a Dio stesso, che è Dio dei martiri» (Contra Faustum 20,21).

L’insegnamento è chiaro e ricalca, del resto, anche lo specifico modo di pregare cristiano, rispecchiato nella preghiera eucaristica. In essa l’onore viene indirizzato a Dio, mediante Cristo, nello Spirito, mentre si fa memoria del santo con cui si rinsalda la comunione (cfr Lumen gentium 49-50).

Questa è allora la posizione caratteristica di ogni santo nella Chiesa, che il culto deve salvaguardare: ogni persona glorificata viene venerata in quanto memoriale vivente di Dio nella testimonianza che a lui ha donato nel suo pellegrinaggio terreno. Quando si celebra il giorno della morte/ martirio (detto dies natalis) di un santo, si esalta perciò il Padre che si è rivelato in quella persona, riproposta ancora a quella determinata comunità riunita, in quel giorno dell’anno.

liturgiche

1. I santi “sacramenti” di Cristo nella storia “Narrare” quanto il santo ha compiuto, come risulta dai racconti autentici del loro martiri, proclamati nel loro giorno anniversario, significa pertanto non solo rievocarne la figura storica, ma anche avvertire l’attualità della perenne testimonianza a Cristo data da quella persona. La vicenda di quel santo, in altri termini, è riletta e sentita come sacramento di Cristo, inserito nell’insieme del mistero cristiano.

Proprio per l’attualità perenne della testimonianza, la loro figura diventa esemplare, e la Chiesa può proporre ai fedeli i loro esempi da imitare.

In questo contesto la figura di Omobono di Cremona, distolta dall’alone oleografico, di cui è stata contornata in certe biografie locali, e ricondotta alla purezza del suo splendore nelle recenti pubblicazioni scientifiche, risalta per due caratteristiche, proclamate apertamente dalla Parola di Dio. In tal modo questo popolare personaggio si rende non solo simpatico, ma anche di poderoso spessore nella sua originale statura: • anzitutto costituisce l’ideale rappresentante di quanti si sono attenuti, in tutte le loro scelte, alla povertà evangelica, che hanno perseguito vivamente nell’appartenenza ai movimenti penitenziali del proprio tempo. Perciò Omobono si rispecchia egregiamente nella pagina evangelica, che invita a non ritenersi mai padroni della vita («Chi di voi può aggiungere un’ora sola alla sua vita?»: Lc 12,25), lasciandosi pilotare dall’affanno («Non state con l’animo in ansia…»: Lc 12,29), ma totalmente abbandonati alla Provvidenza divina. Per questo l’esistenza stessa, prima delle opere che la contraddistinguono, diviene dono agli altri, attuato con gratuità ed entusiasmo, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Non per nulla la sorgente di questo dono di sé era posta da Omobono nella preghiera incessante e nell’Eucaristia, durante la quale la morte lo ha colto.

• In questo contesto di fede si percepisce, in tutta la sua singolarità e grandezza, anche la carità concreta (o “elemosina”), proverbialmente significata dalla borsa del santo, di matrice evangelica («Fatevi borse che non invecchiano…»: Lc 12,33). Con due connotazioni: Sant’Omobonotredicinovembre | 21

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S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

- è larga, generosa, come testimonia s. Paolo: «Del resto Dio ha il potere di far abbondare in voi ogni grazia, perché avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene, come sta scritto: Ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno» (2 Cor 9,8-9). L’uomo generoso e buono si rispecchia in questa misericordiosa magnanimità di Dio nei nostri confronti. È, inoltre, mirata alle svariate situazioni, come esemplifica abbondantemente il brano del Siracide, posto come prima lettura (cfr Sir 3,29-4,10). Non sempre ed esclusivamente si limita ad elargire denaro: c’è anche il cuore esasperato (e quanti…), il povero, a cui rispondere con affabilità, e la comunità, quella cristiana compresa, che attende la nostra variegata disponibilità per le sue infinite esigenze.

2 I santi doni sempre nuovi dell’amore di Dio nel tempo L’espressione è mutuata da una preghiera liturgica e intende significare un’altra certezza della Chiesa locale in preghiera: i santi sono argomenti dell’amore di Dio per l’umanità.

Tre sono le caratterizzazioni che questa invocazione comporta: • anzitutto il valore della persona come segno visibile dell’amore divino. All’orizzonte sta tutta una storia, un intreccio d’amore arricchito non solo a livello di singole persone, ma anche di comunità, secondo il vitreo insegnamento conciliare: “Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci mostra il segno del suo regno, verso il quale, avendo davanti a noi una tale schiera di testimoni e una tale affermazione della verità del vangelo, siamo potentemente attirati” (Lumen gentium 50).

Qui trova collocazione veritiera un calendario locale, in quanto i santi in esso venerati esprimono la presenza di Dio in un determinato luogo, qual è quella rappresentata da un popolo. Se la visione dell’Apocalisse segnala l’universalità ecclesiale (cfr Ap 7, 9) e, in essa, della santità, in quella locale si caratterizza, invece, la peculiarità di un popolo/razza/cultura. D’altronde, come insegna la storia, questa è la connotazione più antica, in quanto il testimone di Cristo, a cominciare dal martire, è conosciuto e acclamato santo dal popolo, come testimonia la stessa bolla di canonizzazione di s. Omobono ad opera di papa Innocenzo III (12.1.1199).

• L’altra coordinata, che caratterizza il culto, è il tempo. Si può con ragionevolezza asserire che i santi sono figli del proprio tempo. Senza dubbio assume rilevanza tale specificità, perché, oltre a rispecchiare pienamente un oggi divino, che la liturgia fa proprio, accoglie anche un oggi umano irrinunciabile. L’uomo, infatti, non vive mai fuori del proprio tempo, ma pienamente inserito in esso. Si comprendono, in quest’ottica, sia le particolari configurazioni che le varie tipologie di santità assumono (essere padre di famiglia oggi non combacia perfettamente con esserlo stato due secoli fa…), sia il significato profondo di una “memoria” dei santi, che è anzitutto celebrazione della continua presenza dello Spirito nelle varie epoche, conferendo piena fecondità alla Chiesa, come proclama un eloquente prefazio: «Nella testimonianza di fede

dei tuoi santi tu rendi sempre feconda la tua Chiesa con la forza creatrice del tuo Spirito, e doni a noi, tuoi figli, un segno sicuro del tuo amore» (Prefazio dei Santi II).

Se poi si arguisce che tale fecondità arricchisce una Chiesa locale, si evidenzia ancora meglio come simile specificazione conferisca al tempo il suo profondo valore di continuità rivelativa. In altri termini, si tratta di scoprire una presenza divina che, come quella eucaristica, non si limita a momenti privilegiati, ma abbraccia tutte le epoche.

Si evidenzia così, anche attraverso il santorale, l’autentica

Tradizione, che non è circoscritta ad alcune epoche, esaltate come quelle “vere”, ma si estende fino a comprenderle tutte.

In altre parole, la testimonianza dei santi proclama la totale gratuità dell’amore di Dio per una Chiesa, in tutti i tempi, espresso mediante le opere dei suoi figli, che hanno servito Cristo particolarmente nei poveri e nei sofferenti. E tutto ciò che è stato compiuto non viene immortalato da encomi, lapidi o busti commemorativi, ma dalla presenza viva di una operosità, che fa trasparire l’agire di Dio nella peculiarità di una Chiesa.

• La terza coordinata del culto è la sequela, spesso presentata come imitazione. E’ evidente che, poste le precedenti premesse, tale sequela va riferita a Cristo, di cui il santo è espressione visibile. Proprio l’esperienza da lui descritta, incarnata nello spazio e nel tempo, offre l’opportunità di saper continuare questa esemplarità, non ricopiandone le fattezze storiche, ma cercando di tradurre costantemente la disponibilità allo Spirito, che soffia dove vuole (cfr Gv 3, 8). Proprio questa è la difficoltà, ma anche la bellezza di una sequela, in quanto rende sempre più creativa la Chiesa.

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Si potrebbe affermare che il santorale di una comunità locale ne evidenzia la peculiare carismaticità, in rapporto alle esigenze del luogo, e quindi della particolare cultura.

E, di riscontro, tali personalità costituiscono l’autentica ricchezza di una Chiesa: non per nulla vengono invocate nelle litanie, accanto ai santi di respiro universale, nelle celebrazioni più importanti ed epocali, proprio per garantire, mediante l’intercessione, una protezione incessante.

Pertanto la loro invocazione, nelle feste/memorie liturgiche, disseminate lungo l’anno, costituisce una specie di costellazione a cui fare costantemente riferimento, per crescere e maturare nella conoscenza di Cristo (cfr Ef 3, 17-19).

3. L’intercessione dei santi L’intercessione dei santi, sostanziata di meriti e di preghiere, come spesso si afferma, si colloca subordinatamente a quella di Cristo. Come già il Concilio precisava nei confronti della Vergine, il ricorso ai santi in quanto intercessori, “va inteso in modo che nulla detragga o aggiunga alla dignità e all’efficacia di Cristo” (Lumen gentium 62). Su questo fondamento, confortato dalla liturgia, sarebbero da rivedere gran parte delle preghiere che hanno arricchito il culto popolare, dove primario e preponderante è l’intento esaltativo del santo in se stesso, quale eroe cristiano da invocare, perché continui a procurare dalla dispensazione divina miracoli e grazie in favore dei suoi devoti.

La loro intercessione, frequentemente richiamata nelle orazioni liturgiche, non va primariamente fatta consistere nell’insistente implorazione che essi esercitano presso il Padre, in quanto è Dio stesso «che ci parla e ci mostra il segno del suo regno, verso il quale, avendo davanti a noi una tale schiera di testimoni (cf Eb 12, 1) e una tale affermazione della verità del vangelo, siamo potentemente attirati. E come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio» (Lumen gentium 50).

Ne consegue che l’azione pastorale deve rimettere Dio e

Cristo al primo posto, mostrando che i santi sono i segni visibili e umani della bontà misericordiosa di Dio, perché è Dio stesso che agisce in loro. Perciò le preghiere e gli atti di devozione devono essere diretti a Dio, per l’intercessione dei santi, perché non sono i santi che fanno le grazie, ma Dio per le loro preghiere e la loro intercessione. In secondo luogo, l’azione pastorale deve insistere sulla necessità che la devozione ai santi si traduca anche nella loro imitazione, in quanto essi sono stati dati da Dio alla Chiesa come modelli di vita cristiana ed evangelica.

Più volte è affiorata la convinzione che la comunione dei santi “è una comunità cultuale che, per la viva presenza del Signore Gesù e sul suo modello, fa della propria vita un atto di lode ed una offerta al Padre nella amorosa donazione di sé. Proprio perché l’Eucaristia racchiude sacramentalmente tutta la pienezza dello scambio di amore e di vita possibile fra Dio e il creato, la comunità cultuale non dice una dottrina sulla Chiesa, ma, piuttosto, una dinamica che tutta la percorre e la muove prima e più della assunzione dei modelli storici del suo comportamento. La centralità dell’Eucaristia nella comunione dei santi non dice la centralità del rito, ma la centralità del Cristo e della sua vita per la comunità e per ogni credente” (G. Colzani).

Quando, nella preghiera eucaristica, si fa appello ai santi, si viene sollecitati ad affrontare il buon combattimento della fede, per condividere, al di là della morte, la stessa corona di gloria (cfr Prefazio dei Santi I). La comunione con loro nella celebrazione eucaristica, infatti, non spezza questo vincolo di fraternità, anzi, lo rinsalda. I santi permangono, nel cammino della Chiesa nella storia, modelli esemplari di come si è tradotto il Vangelo nelle varie epoche e nelle varie culture. Perciò vengono invocati anche in altre celebrazioni sacramentali, a cominciare dal Battesimo. Le litanie, che figurano nella Veglia pasquale, non sono un arido elenco di personaggi più o meno lontani nel tempo, ma la sequenza visibile di una continuità storica nell’attuazione dell’esperienza cristiana. In questo senso l’elenco è e rimarrà sempre aperto, ad indicare che è tuttora possibile l’aggiunta di altri nomi, non soltanto desunti dal catalogo di coloro che vengono proclamati tali (santi o beati) dal papa, ma di tante altre Sant’Omobonotredicinovembre | 25

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persone che potrebbero essere invocate quale garanzia, nel momento celebrativo, di testimonianza riuscita.

4 Il linguaggio delle immagini nel culto dei santi Il culto dei santi si avvale anche della venerazione delle immagini. Non è facile trovare, in questo settore, l’equilibrio a cui stimola la Sacrosanctum Concilium, che da una parte auspica di mantenere l’uso di esporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le sacre immagini (Sacrosanctum Concilium 111), dall’altra raccomanda che «si espongano in numero moderato e nell’ordine dovuto, per non destare meraviglia nei fedeli e per non indulgere ad una devozione meno retta» (Sacrosanctum Concilium 125). La critica storica è eloquente al riguardo, e, in una caratterizzazione culturale così strettamente legata al tempo, come quella dei santi, non si può non tenerne conto.

Anche il linguaggio delle immagini, cui andrebbe aggiunto quello musicale, in gran parte da reinventare, ha una importanza grandissima, perché il culto ai santi sia ricondotto in quell’alveo di amore e di comunione, che avvalora in se stesso il nesso/scontro tra santità e vita quotidiana, inna-

to nella vocazione battesimale: «L’immagine-icona incrementa la tensione estetica del rito verso la percezione del Sacro perché si costituisce anch’esso come “urto” rispetto alla normalità del mondo e tende a porsi come messa in scena di un mondo diverso, almeno come apertura sull’aperto. Nell’opera d’arte è in opera lo storicizzarsi della verità» (R. Tagliaferri).

Se un doveroso alleggerimento del calendario ha permesso di ricentrare il cammino della Chiesa in Cristo, unico Salvatore, sarebbe del tutto ingenuo mettere a tacere, dal versante pastorale, quelle forme tipiche soprattutto della pietà popolare, che a modo loro fanno percepire la vitalità del cristianesimo, la quale si dà nell’incontro tra la carne dei santi e la carne dei cristiani.

Non scandalizzarsi di fronte a questo significa accogliere i modi della religiosità che, al ragionamento sottile, preferiscono la contemplazione dell’icona, il bacio della reliquia o del corpo, il procedere con l’immagine del santo per le vie della città o del paese, l’acclamazione orante rivolta al santo, il contatto con la «moltitudine dei testimoni» (Eb 12,1), come si vede, ad esempio, nelle raccolte di santini

custoditi nei portafogli o anche nelle case di tante persone, dove si guarda loro per essere da loro guardati. Non deve affatto stupire una certa commistione tra la liturgia e gli usi popolari perché la prima indica la direzione verso Cristo, il “solo Santo” e la fonte di ogni santità, e i secondi conferiscono al celebrare quel calore e quella vitalità che permettono ai fedeli di sentirsi davvero non più forestieri nella città di Dio, ma «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).

In definitiva, per ispirare convenientemente le scelte liturgico-pastorali circa il culto dei santi, è da auspicare e salvaguardare in ogni caso la centralità della celebrazione eucaristica, dal carattere veramente “popolare”, nel senso che va favorita la partecipazione del maggior numero di fedeli. Scultoreo, ma efficace, il giudizio di uno studioso relativo alle feste dei santi, soprattutto patronali, meritevole di citazione: «In questo campo, come in molti altri, la liturgia si rivela una maestra di fede e regolatrice della devozione: essa continua a ricordarci che l’omaggio più autentico che il popolo di Dio possa tributare a un santo, oggi come al tempo delle persecuzioni, è di celebrare

il suo anniversario con un’assemblea sacra attorno alla mensa del Signore» (P. Jounel).

Essa ci immette, infatti, in quello spirito di accoglienza che, come per l’ambito liturgico, fa da chiave di volta a tutto l’edificio della pastorale, in quanto si indirizza alle persone colte nella loro specifica situazione di fede.

Pertanto, se è da rifiutare «la tendenza iconoclasta che crede di rimodernare la vita cristiana facendo necessariamente piazza pulita di quanto c’era finora, come se soltanto partendo da zero si potesse fare qualcosa, pastorale dell’accoglienza non vuol dire accettare indiscriminatamente tutto, o quasi, quanto ci ha tramandato il passato per paura di far crollare l’edificio intero, spostando o togliendo un mattone. L’accoglienza deve rispettare un principio, ovvio nella sua enunciazione meno nella realtà dei singoli casi; e cioè che la fede e quindi la religiosità deve essere vissuta secondo le possibilità e le capacità del popolo» (V. Bo).

Con tale prerogativa di fondo ci si pone ancor oggi in linea con l’azione pastorale di colui che «annunziava al popolo la Parola, come potevano intendere» (Mc 4,33).

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Psicologia e Religione:

dal sospetto al rispetto a cura di Isidoro Gusberti a cura di Don Pier Altero Ziglioli

S

ebbene il rapporto tra psicologia e religione sia stato, nel tempo, un po’ travagliato, attualmente, l’atteggiamento religioso non è più visto con sospetto o disinteresse da parte della psicologia, ma è preso come oggetto di studio meritevole di rispetto, tant’è che è sorta una psicologia della religione. Questa si occupa di comportamenti e atteggiamenti qualificati come religiosi in quanto collegati con la fede in un essere soprannaturale o con la dimensione del sacro e prova a individuarne gli aspetti motivazionali. Dall’altra parte, anche la Chiesa non vede più con diffidenza le scienze umane, anzi, sembra ormai incamminata verso una proficua collaborazione con esse. Tuttavia in passato non sono mancati pronunciamenti in cui il Magistero ecclesiastico aveva espresso non poche riserve rispetto alla visione che la psicologia e in particolare la psicoanalisi aveva assunto nei riguardi degli aspetti religiosi. Pio XII fece diversi interventi contro la psicoanalisi. In particolare, sul bollettino del clero romano del 1952, qualificava come peccato mortale ogni pratica di psicoanalisi.

Giovanni XXIII nel 1960, in occasione del Sinodo Romano, inserì un articolo per mettere in guardia dalla tendenza a mettersi nelle mani degli psicoanalisti, mentre l’anno dopo fece emettere un Monitum dall’allora Sant’Uffizio per smentire la necessità di avvalersi della psicanalisi per ricevere l’ordine sacro o per l’esame attitudinale dei candidati al sacerdozio.

Inoltre vietò ai religiosi di predicare la psicanalisi e ai seminaristi di ricorrervi. Anche Paolo VI criticò la psicanalisi in diverse occasioni, rimproverandola soprattutto d’essere una “psicologia dal basso”, visto che l’uomo può raggiungere sublimi vette mediante l’ascesi. Ciò nonostante, il Concilio Vaticano II iniziò a cercare una collaborazione con la psicologia e le scienze umane in generale. Guardando a tutta la psicologia, e non più alla sola psicoanalisi, la Chiesa iniziò a riconoscere il contributo che questa disciplina poteva dare all’uomo. A tal proposito il documento “Gaudium et spes” al n.62 afferma: «Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché i fedeli

siano condotti a una più pura e più matura vita di fede». Dal Concilio si è dunque aperta la strada per la ricerca di un dialogo proficuo delle scienze umane (e psicologiche) con la Chiesa rispetto alle esperienze religiose e alla dimensione vocazionale.

Dal punto di vista psicologico, questa ritrovata convergenza è frutto di un lungo cammino contrassegnato da autori che hanno cercato di indagare secondo il loro quadro teorico di riferimento la dimensione religiosa nei suoi atteggiamenti e comportamenti. Vale la pena presentare alcuni tra i più noti personaggi che hanno trattato il tema religioso come oggetto di studio nel campo della psicologia.

All’inizio del ‘900, Freud (1856- 1939) arrivò a paragonare la religione ad una nevrosi ossessiva, interpretandola come il tentativo, da parte dell’uomo, di ridurre la tensione tra le istanze psichiche (Es, Io e Super-Io), con la messa in atto di un processo di rimozione che però, alla fine, genererebbe angoscia. Per ridurre questa angoscia, il soggetto utilizzerebbe una serie di cerimoniali, di rituali, da cui l’analogia tra religione e ossessione. A livello individuale, il padre della

psicoanalisi analizza il comportamento religioso alla luce del complesso edipico non risolto. Dio, secondo Freud, sarebbe una rappresentazione della figura paterna e il rapporto con Dio una proiezione della relazione padre-figlio. Il Dio onnipotente e giusto altri non è, psicologicamente parlando, che un padre innalzato, una sublimazione del padre terreno.

«Il Dio della religione si configura, per ognuno, secondo il proprio rapporto con il padre carnale, in modo che Dio riceva i tratti di un padre a livello più alto». Un tale Dio deve essere rifiutato dall’uomo adulto, conscio delle sue possibilità umane e dei suoi limiti. Alla luce di questi elementi, la religione rappresenta nient’altro che una pura illusione, destinata a scomparire con la piena maturazione intellettiva dell’umanità.

In sintesi per Freud la religione è fondata sulla nostalgia di un padre consolatore e sarebbe un delirante sistema di dottrine e di processi che offre all’uomo una visione rasserenante del mondo, retto da una provvidenza benevola. Il perno di questa illusione è la fissazione o regressione ad un infantilismo psichico. La religione perciò sarebbe un freno ed un ostacolo alla maturazione dell’individuo e della collettività, al progresso scientifico, allo sviluppo di un maturo senso critico, alla ricerca della felicità umana. Non solo: in una lettera a Fliess del 1887, Freud asserisce che l’immortalità, la ricompensa eterna, l’aldilà non sono altro che dei prodotti, dei desideri della psiche e che costituiscono una “psico-mitologia”.

Fin qui si è descritto il pensiero di Freud sulla religione comunemente conosciuto e divulgato. Tuttavia nella sua ultima opera sulla religione, “L’uomo Mosé e la religione monoteistica” pubblicato poco prima della morte nel 1939, Freud ammette che l’insieme di tutti gli elementi psicologici che costituiscono una religione è sempre inadeguato e che vi è qualcosa di veramente unico riguardo al sentimento religioso: “Tutto ciò che concerne la creazione di una religione presenta qualcosa di grandioso che forse le nostre spiegazioni non hanno chiarito. Ad esso deve partecipare qualche altro elemento che ha pochi analoghi e nessun parallelo: qualcosa di unico, all’altezza di ciò che ne è derivato”. In quest’opera Freud fa un passo avanti nella sua riflessione sulla religione ed arriva a riconoscere l’esistenza di un “altro elemento”, ovvero di qualcosa di “unico” che caratterizza la religione.

Sembra quasi che Freud, nonostante il suo ateismo, arrivi ad aprirsi ad una realtà insondabile per la scienza psicologica, qualcosa che conduce l’uomo alla soglia del mistero. Freud non arriva all’atto di fede, ma la percezione del mistero sembra essere comunque un buon passo in questa direzione.

Alfred Adler (1870-1937), allievo di Freud, si distanzia dalle idee del proprio maestro. Pensa, infatti, che la nozione di Dio riassuma l’aspirazione dell’uomo alla perfezione. Assunto base della sua teoria è che l’uomo provi a superare il suo personale senso d’inferiorità. D’altra parte, Adler nota come, per molti, la tematica religiosa corra il rischio di diventare un rifugio e un alibi per il proprio egocentrismo. È come se alcuni si costruissero una religiosità solo di facciata, senza cambiare il loro comportamento, mettendo Dio alle loro dipendenze, in una prospettiva essenzialmente egocentrica.

Scrive infatti Adler che queste persone trattano «Dio come un qualunque essere umano, (si rivolgono) a Lui piangendo e lamentandosi senza impegnarsi per risolvere loro i problemi».

L’altro importante allievo di Freud, Carl G. Jung (1875-1961), dopo un’iniziale adesione alla teoria freudiana sull’espeSant’Omobonotredicinovembre | 29

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rienza religiosa, se ne allontana. Per Jung l’uomo non è solo spinto da impulsi ma anche motivato da scopi da raggiungere. Infatti considera l’uomo non come frutto esclusivo di determinismi biologici e di legami infantili, ma come il prodotto e la sintesi di quanto l’intera umanità ha vissuto.

In tal senso, la religione, i miti, i riti acquisiscono un ruolo di trasmissione di esperienze passate. Tutto ciò costituisce quello che Jung chiama inconscio collettivo, i cui contenuti sarebbero gli archetipi e tra questi ci sarebbe Dio. Con Jung si verifica un passaggio importante: a differenza di Freud, Dio non è più la proiezione di un’esperienza paterna ma «il rapporto col padre terreno può assumere un significato religioso proprio perché esiste una disposizione ereditaria, una struttura universale della paternità divina». In definitiva, a differenza di Freud che considera la religione come sintomo di nevrosi, Jung ritiene che ad essere sintomatica è invece la sua assenza.

Anche per Gordon W. Allport (1897 - 1967), uno dei maggiori esponenti della corrente umanistica, l’interesse religioso occupa un posto di rilievo. Anzitutto per questo autore la religione costituisce il motivo unificante della vita di un individuo. Tuttavia, distingue in base a una diversa maturità, due tipologie di religione: una “religione estrinseca” e una “religione intrinseca”. La prima viene praticata per far fronte a bisogni infantili e crescere nello status sociale. Per alcune persone, infatti, la religione è una sorta di abitudine monotona o un ornamento da mettere per cerimonie di circostanza, per comodità familiare o per sollievo personale. È, dunque, qualche cosa da usare ma non da vivere. La “religione intrinseca”, invece, è quella che viene vissuta in profondità e che abbraccia tutta la persona sia a livello esperienziale sia in ciò che lo trascende e che ha una forza unificante per tutta la vita di una persona.

Secondo Allport le radici della religione sono molteplici e non può essere spiegata da un singolo fattore, da un singolo istinto, da una singola emozione. Infatti, la religione dal punto di vista soggettivo si determina in funzione di quattro elementi costitutivi ciascuno dei quali può essere analizzato singolarmente, ma solo la loro sintesi dà origine al sentimento religioso.

1. Le necessità corporee Per Allport in alcuni soggetti il sentimento religioso riemerge quando i bisogni fondamentali sono a rischio e la vita cede alla precarietà. La consapevolezza religiosa è quindi maggiormente percepita nei momenti di avversità della vita così che molti sono religiosi solo nei periodi di crisi.

Tuttavia l’aspetto più significativo è che tali desideri carenti possono determinare la stessa concezione di Dio in quanto gli attributi divini si conformano ai desideri inappagati e l’accostamento alla divinità è determinato dai bisogni del momento.

2. Le componenti temperamentali Anche il temperamento di una persona può incidere sensibilmente su credenze, atteggiamenti e riti collegati all’esperienza religiosa. Coloro che conducono una vita all’insegna della sofferenza e della melanconia, tenderanno a rimarcare più gli aspetti sfavorevoli. Coloro che vivono un’esistenza contraddistinta da fiducia tenderanno a conservare una visione positiva anche in condizioni avverse. Nel momento in cui entrambe queste tipologie di persone cercano una modalità religiosa per affrontare i problemi e le traversie della vita seguiranno strade differenti secondo la qualità dello stato d’animo prevalente con una diversa visione di Dio

e con preferenze rituali dissimili (ad esempio tendenza ad espiare per il temperamento malinconico; affidamento o richiesta d’aiuto fiduciosa per il temperamento ottimista).

3. I valori psicogenici o spirituali Oltre ai desideri corporei, Allport individua i desideri “psicogenici” o spirituali che si riferiscono alla verità, al bene, al bello e sono implicati nella generazione di valori e capaci tanto di appagare, quanto di allargare l’orizzonte dell’essere umano. Nella visione di Allport la religione nasce dal bisogno di custodire e diffondere tali valori. Anzi nel momento in cui vengono minacciati la religione assolve ad un compito di ripristino e conservazione dei valori stessi.

4. La ricerca del significato Per Allport l’uomo è alla continua ricerca di un significato da dare alla propria vita e si pone interrogativi a cui spesso non riesce a trovare risposte. Per molti la religione potrebbe nascere dal bisogno di trovare una verità che soddisfi i propri interrogativi esistenziali.

Data la pluralità degli elementi alla base della religione e l’estrema variabilità del loro influsso sulla vita dei singoli, ne deriva che il sentimento religioso può variare enormemente da persona a persona ed assumere forme diverse: «In alcuni uomini è frammentario, superficiale, addirittura vacuo; in altri è profondo, dilagante, saldamente ancorato all’intera struttura dell’essere. Il sentimento religioso varia non soltanto in profondità e ampiezza bensì anche nel suo contenuto e nelle sue modalità operative. In effetti giacché ogni personalità è unica, il sentimento religioso nella vita di ognuno deve assumere una forma irripetibile».

All’interno della corrente esistenziale, contemporanea a quella umanistica, merita particolare attenzione Viktor Frankl (1905- 1997) psicologo e psichiatra viennese. Anzitutto questo autore mantiene un reale rispetto delle credenze della persona e mette in guardia la psicologia dal superare nel metodo, nella forma e nel contenuto i limiti del proprio potenziale esplicativo nei riguardi della religione. Spiegare la religione e la fede esclusivamente in prospettiva intrapsichica sarebbe infatti riduttivo.

Il suo illuminante e profondo pensiero teorico prende le mosse da una visione antropologica in cui l’uomo è inteso come un unità psico-fisico-spirituale nella quale è proprio la dimensione spirituale a rendere l’uomo veramente tale.

Anzi è proprio la connotazione spirituale a fondare l’unità e la totalità dell’essenza dell’uomo e a renderlo un essere orientato verso la ricerca del suo compito nella vita.

La persona umana in questa ricerca è intesa fondamentalmente come libera e responsabile. Per quanto riguarda la libertà, Frankl considera l’uomo come essere sempre libero di scegliere. Non nega l’effetto dei condizionamenti esterni ma riserva all’essere umano la libertà di scegliere come comportarsi rispetto ad essi. E il fine ultimo di questa libertà è la responsabilità da esercitarsi dinanzi all’umanità, alla società, alla propria coscienza e anche di fronte a Dio. Per Frankl, l’uomo non è guidato primariamente dal principio di piacere come affermava Freud. L’uomo infatti non è spinto dalle pulsioni, è invece attirato dai valori, ma soprattutto è guidato da una volontà di senso. Il senso è ciò per cui vale la pena vivere, è l’orientamento fondamentale che si imprime alla vita, e che non può essere dato, ma deve essere trovato.

Ed è così importante che, nel pensiero di Frankl, ricercare il senso vuol dire esistere. Nessuna situazione della vita anche quella più drammatica è realmente priva di significato. È il caso della “tragica triade dell’esistenza umana”, formata dal Sant’Omobonotredicinovembre | 31

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dolore, dalla colpa e dalla morte: «Il dolore si può trasformare in prestazione,la colpa in elevazione, la transitorietà dell’esistenza umana in stimolo per un agire responsabile».

Frankl sostiene che il vero problema esistenziale oggi è quello di non riuscire a trovare il significato per la propria vita, il che conduce a un senso di inutilità e a sperimentare delle ricadute nevrotiche.

Un concetto significativo di Frankl è l’esistenza, accanto all’inconscio pulsionale evidenziato da Freud, di un “inconscio spirituale” o trascendente, che porta con sé una religiosità inconscia. Per Frankl il sentimento religioso è infatti da rintracciarsi in questo specifico inconscio, come relazione inconscia con un Dio che si rivela come un Tu trascendente.

L’inconscio spirituale dunque porta in sé l’impronta del trascendente.

Questa religiosità inconscia può restare tale o essere repressa, ma la repressione di questa relazione con la trascendenza è alla radice di problemi psichici. Lo psicoterapeuta senza voler convertire il paziente, sarà chiamato ad interessarsi alla manifestazione spontanea della religiosità nei soggetti.

E sebbene non concepisca la religione come strumento di guarigione, tuttavia riconosce che la religione può contribuire efficacemente alla salute psichica.

Per quanto riguarda l’idea di Dio insito nel suo pensiero sulla religione, Frankl capovolge l’interpretazione freudiana del rapporto fra immagine di Dio e padre, criticando la tesi secondo cui le concezioni religiose sarebbero solamente proiezioni psichiche rispondenti a esigenze di tipo nevrotico. Se per la psicoanalisi Dio è una pura immagine paterna, Frankl afferma invece l’opposto: «Dio non è un’immagine del padre, bensì il padre è un’immagine di Dio. Il padre non è l’archetipo della divinità, ma è vero il contrario: Dio è l’archetipo di ogni paternità».

L’interesse della psicologia per la religione nasce intorno a delle questioni fondamentali: Quando l’uomo dice Dio, che cosa veramente dice? A chi pensa? Come le risposte che trova si specificano nei vari ambiti della sua vita?

Come si costruisce l’identità religiosa?

Propriamente, la psicologia studia non la religione, ma il credente. O, meglio ancora, l’uomo e il suo atteggiamento verso la religione, quale che esso sia, tanto nel senso dell’adesione di fede, quanto nel senso del rifiuto ateo.

Il breve excursus sul pensiero psicologico nei riguardi della religione che abbiamo compiuto ha inteso accennare come da differenti posizioni teoriche diversi autori abbiano cercato di trovare delle risposte che, nonostante i grandi passi in avanti, lasciano spazio ad ulteriori approfondimenti i quali potrebbero essere agevolati da un clima di avvicinamento tra psicologia e Chiesa.

Infatti, anche se permangono sacche di diffidenza reciproca, la posizione dominante nella Chiesa cattolica è quella che si esprime in un atteggiamento di collaborazione tra le scienze psicologiche e quelle religiose ciascuna con i propri ruoli, metodi, competenze e obiettivi. Del resto la dimensione spirituale e quella psicologica non sono separate, ma certamente sono distinte: l’una influenza l’altra, la crescita umana consente di accogliere con maggior pienezza il dono della fede, la crescita spirituale aiuta e sostiene la dimensione umana.

Sant’Omobonotredicinovembre | 33

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O Padre o tutela Inno a Sant’Omobono o... a Sant’Isidoro? a cura di Isidoro Gusberti

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antare o il sentir cantare la coinvolgente melodia di “ O Padre o tutela gentil di Cremona....” in occasione della Festività di Sant’Omobono, può, forse, contribuire ad alimentare maggiormente i già vivi sentimenti di preghiera, di devozione e di gratitudine verso il nostro Santo Patrono. La condivisione corale di questo canto, ormai entrato nella comune pratica esecutiva e in una più ampia sensibilità religiosa, può, altresì, proporsi non solo come testimonianza di una sentita tradizione popolare ma, anche, come manifestazione di una radicata dimensione di identità e di appartenenza ad una fede e ad una comunità. Inoltre, aggiungendo a tutto ciò, che, questa, sia una delle pagine più belle scritte dal mai dimenticato maestro Federico Caudana, organista e maestro di cappella della Cattedrale per buona parte del secolo scorso, ecco che il significato profondo di tale forma poeticomusicale, che potrebbe essere definita una “preghiera cantata” e che , solo la sapienza

e la saggezza di Santi ispirati e colti le hanno consentito di giungere fino ai nostri giorni, si può dire che trovi il suo giusto compimento.Va detto che, nella sua più che millenaria storia, molte siano state le traversìe, le tribolazioni, i cambiamenti e le evoluzioni che ebbe a subire, ciò nonostante la sua pratica e la sua diffusione non venne mai meno. E così, l’ Inno”,definizione con la quale viene qualificata questa forma poetico – musicale, ancora oggi riassume ed esprime, con inalterata efficacia, il suo essere espressione di lode, di devozione, di contemplazione,di ringraziamento.Non si intende certamente qui, argomentare sulla genesi dell’”Inno” né di tutto ciò che l’ abbiano portato ad essere mirabile rappresentazione di una devozione religiosa e popolare, perché significherebbe dover risalire alle condizioni di antiche civiltà e analizzarne, di ciascuna, i contesti socio-culturali e religiosi, talvolta complessi e molto articolati, sovente diversi o addirittura in contrapposizione fra di loro; qui si vuole sottolineare Sant’Omobonotredicinovembre | 35

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soltanto, quanto questi ne abbiano contribuito a determinare elementi importanti ai fini della sua nascita, crescita e sviluppo. Partendo dall’era cristiana possiamo annotare come, fin da subito, l’Inno a carattere religioso avesse riscontrato una grande accoglienza presso le comunità, soprattutto perché ritenuto un facile mezzo di trasmissione dei principi dottrinali fondamentali. Gli Inni dei primi anni del cristianesimo, infatti, erano rivolti esclusivamente a Dio ed alla Sua Maestà Divina, pertanto, i contenuti letterari dovevano assolvere a questa funzione di lode e di ringraziamento. Nonostante questa “preghiera cantata” trovasse sempre più spazio e diffusione presso i cristiani, la Chiesa ritenne di ufficializzarla solo nel periodo medioevale, più certamente attorno al XIII secolo e inserendola esclusivamente nella Liturgia delle ore. Dunque, da ciò, si può ben dedurre quante e quali indecisioni o decisioni ” dottrinali” l’inno abbia provocato e, di converso, subito all’interno della Chiesa “Ufficiale” prima di veder riconosciuta la sua preziosa funzione orante. Funzione che, nei secoli, più di un Concilio dovette occuparsene e, alla fine, se pur partiti da una iniziale diffidenza, soprattutto per la ritenuta poca attinenza dei testi alle Sacre Scritture, più tardi si arrivò persino a negare l’ordinazione presbiterale a coloro che non avessero conosceze di Inni a memoria.

Dunque, se gli Inni siano riusciti a resistere nel tempo, si è già scritto che, di ciò, debba essere dato merito alla volontà e alla determinazione di Santi ispirati e colti i quali seppero, di essi, coglierne l’importanza culturale ed il valore religioso. Questi Santi sono numerosi ma qui, ci si limiterà a considerarne alcuni fra i principali. Il primo è senza dubbio Sant’Ambrogio (ca. 340-397) grazie al quale l’Inno ebbe una svolta storica. Oltre ad esserne promotore, Sant’Ambrogio fu anche autore di molti di questi e, alcuni, sono tutt’ora eseguiti negli “inni ambrosiani”. Ma la sua grande intuizione fu quella di destinare” la preghiera cantata” anche verso la Venerazione dei Santi. Quindi non più soltanto come Lode a Dio ma, anche, come gesto devozionale verso la Santità. Questa svolta contribuì ancor di più a dare popolarità all’Inno il quale, da quel momento in poi, non conobbe più alcun ostacolo in termini di pratica esecutiva.Non si può nemmeno tralasciare l’apporto dato da Sant’Efrem di Edessa (ca. 305-373), da Sant’Agostino di Ippona (354-430), da Sant’Ilario di Poitiers (310367), da San Prudenzio (?-405/410) e da Venanzio Fortunato di Poitiers (VI sec.),unitamente ad altri, alla diffusione e allo sviluppo della pratica degli Inni,fino a farli diventare, persino, i Canti Corali e Processionali per eccellenza in seno alle Celebrazioni Liturgiche. “O Padre o tutela....”, pur con tutte le evoluzioni avvenute, per merito di altri Santi e Dottori della Chiesa, rientra anch’esso in questa sfera di popolarità e di eccellenza ma, prima di addentrarci in una sua analisi e su annotazioni circa il maestro Federico Caudana, si ritiene,qui,molto opportunamente, compiere una

premessa quale quella che ci permetta di sottolineare come, la musica del maestro Caudana, abbia avuto modo di conquistare sentimenti di devozione popolare ben oltre i nostri confini diocesani. Chi non conosce i Canti Processionali del “Pange lingua” o del ”Lauda Sion” oppure la Messa “Laus tibi Christe”, la celebre “caudanina”? Però va anche considerato come anche fra le sue musiche ve ne possano essere di meno conosciute ma apprezzabili e, comunque, collegate alla vita religiosa cittadina. Fra queste vi potrebbe essere l’Inno “A S.Antonio di Padova

Sant’Omobonotredicinovembre | 37

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composto per la inaugurazione del nuovo Tempio dedicato al Santo in Cremona” su parole di Nello Lombardo e pubblicato dalla Casa Musicale Vittorio Carrara di Bergamo nel 1938 e che, quindi, per dare un saggio di come fosse l’estro poetico degli Inni in generale e di questo in particolare, si riporta, qui di seguito, la prima strofa con il ritornello: Strofa O Santo dei miracoli decoro della Chiesa tu se’ l’emblema fulgido di rara castità.

La tua parola vivida accende in ogni petto un foco inestinguibile di fede e di virtù Ritornello Discese il Divin Pargolo dal suo Celeste Regno a Te, ch’eri il più degno, o fior di purità.

E il volto tuo serafico, accanto a quel sorriso, splendor di paradiso, svelò all’umanità.

Federico Caudana nacque a Castiglione Torinese il 4 Dicembre 1878 e,a seguito della sua inclinazione verso la musica fu avviato a studiare presso il Conservatorio di Milano.

Diplomatosi in organo nella primavera del 1907, partecipò nel luglio dello stesso anno al Concorso per l’assegnazione del posto di primo organista e maestro di Cappella della Cattedrale di Cremona, vincendolo. Assunse l’incarico nel mese di Novembre, incarico che ricoperse fino alla morte sopraggiunta a San Mauro Torinese il 29 Luglio 1963. Ebbe anche incarichi di docente di gregoriano e canto corale presso il Seminario Vescovile e quello di canto corale e pianoforte presso il Collegio della “Beata Vergine”. Inoltre fu direttore della Banda Civica e della Corale “Amilcare Ponchielli” oltre che socio fondatore della Società dei Concerti”.L’Inno a Sant’Omobono,pubblicato nel 1930 dalle Edizioni Vittorio Carrara di Bergamo, rappresenta senza dubbio una delle sue composizioni più popolari anche se, l’autore, più genericamente lo intitola “ Al Santo Patrono - Inno-Marcia Processionale per Canto e Banda”. La ragione è da ricercare nel fatto che, come esposto in partitura - ossia in quel libro su cui legge il direttore- la parte musicale abbia valenza per due testi differenti, uno “Per Cremona” e uno “Per qualunque Patrono”, inoltre nella nota a piè pagina viene espressamente indicato che “Questo Inno si può eseguire come Marcia Religiosa anche senza coro”.

L’organico strumentale è quello tradizionale di una banda di fine ottocento-primi anni del secolo scorso comprendente i seguenti strumenti :Clarinetto piccolo in mi bemolle; Clarinetti soprani in si bemolle; Corni

in mi bemolle; Cornette in si bemolle; Tromboni tenori in si bemolle; Flicorni Soprani, Flicorni Tenori, Flicorni Baritoni in si bemolle; Flicorni bassi gravi in Fa; FlicorniContrabbassi in si bemolle;Tamburo, Cassa e Piatti e il Coro. Si vuole, qui di seguito, proporre i due testi esposti in partitura, tralasciando le altre strofe, perché, questo scritto intende concludersi con una curiosità che, se pur in linea con una tradizione innaria volta spesso a mescolare testi e melodie oppure anche a far sì che gli stessi venissero interscambiati fra di loro o stravolti con altri testi e/o di altre melodie, ha lasciato un po’ sorpreso chi scrive. Nelle ricerche compiute per la stesura di questo testo ci si è imbattuti nell’inno dedicato a Sant’Isidoro agricoltore (ca.1070/80-1130) patrono di Farnese (Viterbo) il quale si presenta con la stessa musica del maestro Federico Caudana con due ininfluenti varianti melodiche alle battute 21 e 25 e con un testo leggermente adattato rispetto al “nostro cremonese”. La tradizione di mutuare temi e testi da Inni diversi, come accennato sopra, è sempre esistita , ma questa casuale scoperta lascia spazio a prossimi ulteriori approfondimenti: Per Cremona Strofa O Padre o tutela gentil di Cremona festoso il tuo nome fra gl’inni risuoni scampati i tuoi figli da mille perigli degl’inni, de’ grandi t’acclaman i cor Per qualunque Patrono Strofa O grande che il cielo di lauri incorona solenne il tuo nome tra gl’inni risuoni nell’ansie supreme di fervida speme di giubil rapiti t‘applaudono i cor Inno a Sant’Isidoro Strofa O Padre o tutore gentil di Farnese festoso il tuo nome fra gl’inni risuoni scampasti i tuoi figli da mille perigli O Santo Isidoro deh! Guidaci ai cieli Ritornello Discordie ed errori ne (deh!) sgombra dall’alma Ridona la calma, la pace, l’amor.

Sant’Omobonotredicinovembre | 39

40 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

Cremona ritrova una perla musicale:

l’organo Tezani-Bossi della chiesa di S. Agostino

C

a cura di Marco Ruggeri

ome ben sappiamo, la Cremona musicale non è soltanto legata alla liuteria ma, sempre di più, al suo inestimabile patrimonio organario. Ciò che contraddistingue gli organi presenti in città è una sorprendente rappresentanza di tutte le epoche storiche, un campionario che va dai tempi più lontani (l’inizio del Cinquecento) sino ai nostri giorni, passando per il pieno Rinascimento (l’organo Maineri di S. Sigismondo e quel che resta dell’Antegnati di S. Maria del Campo), il primo Seicento (gli organi antegnatiani di S. Vincenzo, S. Marcellino, S. Lucia, SS. Trinità), il Barocco (S. Omobono), l’Ottocento (il Lingiardi “orchestra” di S. Pietro al Po), il Cecilianesimo primo novecentesco (il Rotelli di S. Luca) sino ai tempi più recenti (organi Mascioni della Cattedrale e di S. Abbondio).

Negli ultimi anni, grazie a coraggiosi restauri, tale patrimonio comincia ad emergere e farsi sentire. Così è stato, ad esempio, per l’organo cinquecentesco Maineri (con ampliamento ottocentesco di Acerbis) della chiesa di S. Sigismondo, nel 1994; oppure, per l’organo “orchestra” Lingiardi 1877 di S. Pietro al Po, restaurato una decina d’anni fa, il cui recupero ha portato in luce per la prima volta in Italia questa particolare e rara tipologia di strumenti, singolare miscela di elementi italiani e francesi. Oppure per quel piccolo gioiello che è l’organo sei-settecentesco di S. Omobono, restaurato nel 2004, il cui autore ancora non è stato identificato, anche se potrebbe appartenere alla famiglia degli organari cremonesi Picenardi, attivi sul nostro territorio per circa due secoli, dal primo Seicento agli inizi del XIX secolo.

A questa serie così preziosa è stato aggiunto ora un tassello a dir poco spettacolare: l’organo Tezani-Bossi della chiesa di S. Agostino. Lo strumento, pur appartenendo in gran parte all’opera del bergamasco Francesco Bossi del 1853, contiene al suo interno una parte rilevante, antichissima, ancora risalente all’organo costruito oltre tre secoli prima, nel 1533, dal cremonese Nicolò Tezani.

Quest’ultimo dato è già di per sè eccezionale in quanto, alla luce delle conoscenze attuali, il cospicuo nucleo di canne di Tezani - quasi 200, tra cui la parte centrale del maestoso prospetto di facciata - rappresenta il materiale più antico conservato negli organi della diocesi di Cremona. La figura di Nicolò Tezani era già conosciuta grazie agli studi di Oscar Mischiati, il maggiore organologo italiano, che una trentina d’anni fa aveva pubblicato proprio il contratto per la costruzione dell’organo di S. Agostino. Recentemente, le ricerche archivistiche di Marino Paganini hanno svelato che Tezani aveva costruito un organo, nel 1531, dunque poco

prima di S. Agostino, in val Seriana, ad Albino (Bergamo).

Ciò che rende singolare l’opera di questo organaro è la sua vicenda biografica immediatamente successiva al lavoro di S. Agostino. Poco tempo dopo, infatti, egli si recò a Roma per costruire l’organo della chiesa di S. Spirito in Saxia, a due passi dalla Basilica Vaticana, probabilmente collaborando, per la progettazione della cassa, con il noto architetto Antonio da Sangallo. L’importanza di questo strumento risiede non tanto nelle sue caratteristiche foniche, quanto nella novità architettonica del prospetto, in forma di arco trionfale classico a tre campi proprio come a S. Agostino e non, come consueto, nella suddivisione a cinque settori (come possiamo vedere, a Cremona, negli organi di S. Sigismondo, SS. Trinità e S. Ilario). Occorre notare che quest’ultima conformazione - in articolati prospetti lignei a 5 campate - era normalmente seguita, secondo un modello che aveva origini nei prospetti tardomedievali a torri merlate. Adottando invece il prospetto a 3 campi, si abbandona questa tradizione per accoglierne un’altra, sulla quale ancora poco si è indagato ma che pare più legata ad altre strutture lignee, quelle per i polittici e le ancone d’altare, molto diffuse in tutta Italia in quel periodo.

Evidentemente l’esperienza di S. Agostino fu soddisfacente per Tezani il quale, giunto a Roma, ebbe l’occasione di ripeterla, per di più con un architetto del calibro di Sangallo.

Sta di fatto che questa soluzione delle facciate d’organo “a tre campi” non si limitò alla chiesa di S. Spirito ma divenne l’archetipo del modello di facciata d’organo prevalentemente diffuso a Roma e nell’Italia centrale.

Tornando all’organo cremonese, le tappe successive a Tezani ci sono note ma con minor precisione e dovizia di particolari. Dopo un restauro di Giovanni Francesco Maineri nel 1566, l’organo venne probabilmente rifatto dagli Antegnati, celebri organari bresciani attivi nell’Italia settentrionale per tutto il XVI secolo ed oltre. Nel trattato L’Arte Organica di Costanzo Antegnati, pubblicato nel 1608, nell’elenco degli organi costruiti dalla bottega viene citata anche la chiesa di S. Agostino: mancano, tuttavia, documenti più precisi che indichino con esattezza l’anno di costruzione e le caratteristiche di quell’organo.

Basandosi sul canneggio rimasto, grazie alle analisi di laboratorio effettuate durante il restauro, va osservato che le canne di Antegnati sopravvissute (una quarantina) costituiscono un nucleo meno rilevante rispetto a quello del più antico strato attribuibile al Tezani, a dimostrazione del fatto che il rifacimento di Antegnati fu probabilmente solo parziale, quantomeno eseguito conservando una buona parte del materiale preesistente. D’altra parte, questo modo di proSant’Omobonotredicinovembre | 41

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cedere, ossia di ricostruire la struttura generale di un organo conservando le canne di buona fattura esistenti, è tipico della maggior parte degli organari in ogni epoca, così come dimostra lo stesso Bossi che, in pieno Ottocento, non ebbe problemi a riutilizzare il materiale trovato, ossia canne costruite tre secoli prima, integrandole nel nuovo strumento.

A parte i normali e periodici interventi di manutenzione – eseguiti più volte dagli organari cremonesi Picenardi – lo strumento di Antegnati-Tezani rimase sostanzialmente intatto fino alla metà dell’Ottocento, quando venne restaurato e, soprattutto, ampliato dall’organaro bergamasco Francesco Bossi. Mostrandosi molto rispettoso dello status quo, lo stesso Bossi nel contratto dichiara di voler conservare le canne del vecchio strumento, anzi, ce ne offre perfino una sintetica descrizione: ripieno, flauti in VIII e XII, voce umana, cornetto e contrabbassi, confermando così, ad eccezione di questi due ultimi registri, lo schema classico dell’organo rinascimentale.

Bossi apparteneva ad una delle più gloriose botteghe della storia organaria italiana. La famiglia, attiva sin dal Cinquecento, era di origine comasco-ticinese e si trasferì a Bergamo all’inizio del Settecento. Nel 1720 questi artefici costruirono l’organo del duomo di Bergamo, ad imitazione di quello edificato 70 anni prima dal fiammingo Wilhelm Hermans nella cattedrale di Como. In tal modo, i Bossi inglobarono nella loro tradizione costruttiva, tipicamente lombarda, elementi della tradizione nord europea, ancora riconoscibili nei loro strumenti tardo ottocenteschi.

La famiglia Bossi si ramificò notevolmente, sempre continuando l’attività organaria ma arrivando, verso la metà

dell’Ottocento, a suddividersi in tre botteghe: quella di Adeodato, quella del fratello Felice (trasferitosi in Piemonte) e quella di “Angelo II e Nipoti”, cui appartiene Francesco, costruttore dell’organo di S. Agostino. Quest’ultimo ramo fu assai presente nel territorio cremonese, a differenza di Adeodato che edificò soltanto gli organi di Olmeneta (ancora presente) e Vescovato (non più esistente). Numerosi furono invece gli organi di Angelo II Bossi, almeno una trentina, con molti strumenti ancora sopravvissuti e, in alcuni casi, recentemente restaurati (Ca’ de’ Stefani, Polengo, duomo di Casalmaggiore, Derovere, Annicco). Alta qualità, solidità di realizzazione e prezzi più accessibili rispetto agli organi del cugino Adeodato o dei più celebri Serassi furono le ragioni del sorprendente successo cremonese di questi artefici. E così, anche borghi rurali di piccole dimensioni, verso la metà dell’Ottocento, grazie alla perizia e all’onestà dei Bossi, riuscirono a collocare nelle proprie chiese organi di pregio. A testimonianza di tutto ciò, può essere utile riportare l’elenco (probabilmente non ancora completo) delle località nelle quali questi organari bergamaschi furono presenti: Fengo, S. Marino, Casanova d’Offredi, Castelponzone, Binanuova, Pieve Delmona, Vidiceto, Cremona (S. Facio, S. Imerio, S. Agostino), Persico, Cingia de’ Botti, Acquanegra, Ca’ de’ Stefani, Dosimo, Levata, Voltido, Castelverde, Gussola, duomo di Casalmaggiore, Isolello, Derovere, Soresina (S. Francesco), Castelvisconti, Cella Dati, Castelfranco d’Oglio, Malagnino, Pieve S. Giacomo, Ca’ de’ Soresini, Paderno Ponchielli...

La tipologia di questi organi era quella del cosiddetto organo “orchestra”: infatti, accanto ai tradizionali registri organistiSant’Omobonotredicinovembre | 43

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ci (Principale, Ripieno, Voce umana, Flauti), essi possedevano un gran numero di registri ad imitazione degli strumenti dell’orchestra, quali il Fagotto, l’Oboe, la Tromba, il Flauto traverso, il Violoncello, il Clarinetto, la Viola, il Corno Inglese, l’Ottavino, i Campanelli, la Banda Turca e così via.

Dunque, la Fabbriceria di S. Agostino decise nel novembre 1851 di affidare i lavori della costruzione del nuovo organo a Francesco Bossi il quale presentò un progetto per un organo di notevoli dimensioni. Inizialmente esso doveva possedere due tastiere, poi ridotte ad una, sostituendo la seconda tastiera con la “fisarmonica”, ossia un particolare registro ad ancia simile alla cornamusa chiuso in cassa espressiva.

Oltre all’organo, era necessario ampliare sul retro la cassa per far posto ai numerosi nuovi registri. L’opera lignea venne realizzata dal falegname Pietro Balzarini per il prezzo di 239 lire austriache, cui se ne aggiunsero altre 400 circa per varie opere murarie. L’organo invece costò 9000 lire.

L’inaugurazione del nuovo strumento avvenne il 16 giugno 1853 e fu tenuta da don Cesare Paloschi e da un giovanissimo Vincenzo Petrali, appena ventitreenne ma all’epoca già organista titolare della Cattedrale. Va ricordato che Petrali, nato a Crema nel 1830, divenne il più importante organista italiano del suo tempo, il primo vero concertista d’organo di fama nazionale. Divenuto organista della cattedrale di Cremona nel 1849 (a soli 19 anni!), subito si fece notare per le sue eccezionali doti di virtuoso e di improvvisatore, intraprendendo una carriera concertistica che non di rado lo allontanava dal servizio liturgico. Proprio per questo motivo, più o meno nello stesso periodo del concerto a S. Agostino Petrali maturava l’intenzione di dimettersi dall’incarico in cattedrale, cosa che effettivamente fece il mese successivo.

Il concerto di Petrali a S. Agostino (unitamente alla bontà dell’organo) fu elogiato a tal punto che un anonimo autore locale - simbolicamente firmatosi “Melophilus” - compose un accademico distico latino, pubblicato sulla «Gazzetta di Cremona», e che può essere interessante riportare.

Vincentio Petralio in collaudatione organi eccl. divi Augustini Cremonae die 16 Junii a. 1853 A Francisco Bossio Bergomensi egregie restituti et aucti.

Distichon Organa cum pulsas, revera, Magne Petrali, Orphei Threicii personat ipsa lyra.

Sed nunc intumuit vox, et fragor intonat ingens; A longe deinceps blandula corda movet; Jamque tonans caelo Saturnius aethera scindit Fulgura dejiciens, cunctaque terra tremit.

Sic fallis calamis, ut nunc, crepitantibus armis, Ante urbis muros praelia crediderim; Et nunc delecter queruli modulamine cantus, Non secus ac noctu cum Philomela canit.

Innumeris praeclara tubis sic organa fingat Bossius iste, decus, Bergome, et ipse tuum.

Altrix ingenii semper, nullique secunda Artibus et studiis itala terra fuit!

Sulla stessa «Gazzetta», qualche giorno dopo, a firma di un anonimo “Parrocchiano”, comparve un resoconto del concerto, altamente elogiativo per organaro ed organista.

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Il nuovo organo di sant’Agostino Nel giorno 16 del corrente mese gran folla di gente, e buon numero di distinte Signore traevano alla Chiesa Prepositurale di S. Agostino per sentirvi l’Organo ricostrutto ed ampliato dal Sig. Francesco Bossi di Bergamo, il quale se per molte altre sue opere collocate in varie Chiese di questa Provincia, ed altrove, si fece ammirare distinto fabbricatore, seppe con questa confermarsi vieppiù nella fama di valentissimo. E per dir vero quest’Organo ingrandito come fu presentemente non poteva meglio appagare la comune aspettazione, tanto per la maestà e robustezza del suo ripieno, come per la delicatezza dei varj stromenti di cui fu arricchito; ed il chiarissimo Sig. M.° Vincenzo Petrali, ed il Sacerdote Don Cesare Paloschi invitati da quella Fabbriceria a farne il collaudo, dichiararono concordemente «essere il lavoro eseguito con ingegnosi meccanismi suggeriti dalle più moderne regole dell’arte, solido, ben intuonato, ben accordato, gli stromenti a lingua di ottimo impasto, e di felice imitazione, epperciò sia per la giusta proporzione dei suoni, come per l’eccellente e ben calcolato effetto del tutto insieme degno del maggior encomio, e del più favorevole collaudo.»

Tutti poi che ebbero la bella sorte di sentire in quel giorno, e nella successiva Domenica, toccare quest’Organo dalle magiche dita dell’incomparabile Organista della nostra Cattedrale sig. M. Petrali, hanno potuto comprenderne e gustarne tutta la bontà. Le deliziose e svariate armonie che colla potenza della sua fantasia ne traeva, rapivano ad ogni istante l’affollato uditorio, suscitando nell’anima i diversi affetti che il suonatore esprimeva.

Perché devono andarne lieti tutti che infervorati pel maggior decoro del Culto Divino generosamente concorsero ad accrescere di sì pregevole opera questa grandiosa Chiesa, siccome devesi uno speciale tributo di lode al zelantissimo Parroco, ed alla Spettabile Fabbriceria, che nel promoverla, e condurla in breve tempo a sì buon fine, seppero, in un col provvedere ad un bisogno, accrescere di un distinto ornamento questo Tempio insigne.

L’organo subì un primo intervento di manutenzione generale pochi anni più tardi, nel 1864, ad opera degli stessi Bossi (Gabriele, subentrato al defunto Francesco). Nell’occasione venne sostituita la pedaliera, precedentemente più piccola (con ottava corta), ora di tipo cromatico esteso.

Quattro anni dopo compare una notizia curiosa. Riportata sul «Corriere Cremonese» del 19 dicembre 1868, riguarda non tanto un intervento tecnico sullo strumento, ma un concerto d’organo effettuato dall’organista friulano Giacomo Carlucci. La notizia è insolita e molto interessante perché ci rivela anche il programma dettagliato del concertista, lucida testimonianza dell’impostazione dei concerti d’organo ottocenteschi, non basati sull’esecuzione di brani di letteratura storica ma sull’improvvisazione, con particolare riferimento ai temi d’opera o alla descrizione dei fenomeni naturali.

Concerto d’organo nella Chiesa di S. Agostino. Il prossimo Lunedì (21 dicembre) a un’ora e mezza pom. Giacomo Carlutti di Palmanova, cieco nato e celebre suonatore d’organo darà nella Chiesa di S. Agostino un concerto, sul seguente Programma 1. Preludio d’Organo in stile fugato.

2. Gran Fantasia sulla Norma del M. Bellini.

3. Pensieri sull’Opera la Traviata del M. Verdi.

4. Concerto fantastico di varie imitazioni cioè del Diluvio Sant’Omobonotredicinovembre | 47

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Universale, della Primavera, del Canto degli Uccelli con Finale e Marcia trionfale accompagnata dagli evviva popolari.

Certamente gli «evviva popolari» non hanno contraddistinto la storia successiva dello strumento. Purtroppo, infatti, come in molti altri organi antichi, anche lo strumento di S. Agostino, nel periodo tra Otto e Novecento, ha subito alterazioni consistenti. Fortunatamente la struttura generale è rimasta intatta, ma diversi registri sono stati eliminati per far posto ad altri secondo il gusto dell’epoca ceciliana, molto in contrasto con le sonorità caratteristiche dell’organaria ottocentesca. Anche la pedaliera di Gabriele Bossi (cromatica ma con i tasti corti, cosiddetta “a leggìo”) venne eliminata, sostituita da una moderna concavo-radiale.

Con tali alterazioni, oltre ad uno stato di progressivo degrado, lo strumento è giunto sino ai nostri giorni. Il resto è storia recente. Nel 2016 il rettore-parroco don Giuseppe Ferri, con intervento coraggioso e lungimirante, ha voluto intraprendere l’iter per il restauro completo del grande strumento, basandosi sulle valutazioni storico-tecniche dell’Ufficio diocesano per i Beni Culturali. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Servizio Tutela Organi del Segretariato Regionale di Milano, sono stati richiesti i preziosi contributi della CEI (fondi dell’8 per mille) e della Fondazione Comunitaria di Cremona, cui si sono aggiunte le generose offerte della parrocchia stessa.

I lavori sono stati affidati all’organaro Pietro Corna di Leffe (Bergamo) e hanno comportato lo smontaggio integrale dello strumento, il restauro di ogni componente, la ricostruzione di alcuni registri originali mancanti e della pedaliera cromatica a leggìo (corrispondente a quella inserita nel 1864 da Gabriele Bossi), accordatura, intonazione e regolazione di tutti i meccanismi.

Durante il periodo di lavorazione nel laboratorio di Leffe, la possibilità di esaminare l’intero strumento smontato ha portato nuove ed interessanti conoscenze. Innanzitutto, grazie alla consulenza dell’organologo Maurizio Isabella, esperto conoscitore delle segnature, è stato quantificato a circa 200 il numero delle canne più antiche, attribuibili all’organo di Nicolò Tezani. L’ispezione di questo materiale ha rilevato una manifattura del tutto particolare, molto diversa dalle consuetudini cinquecentesche, quasi espressione di una tradizione ancor più antica: canne scurissime, ma soprattutto di grande peso dovuto ad uno spessore della lastra metallica come mai si era visto.

Solo una quarantina le canne di fattura Antegnati; oltre un centinaio quelle sei-settecentesche attribuibili agli interventi manutentivi dei Picenardi. Va notato che su una ventina di canne di fattura Bossi è comparsa la scritta incisa «Voltido»: si tratta di materiale inizialmente destinato a Voltido (ove Bossi stava costruendo uno strumento, tuttora esistente e bisognoso di restauro) poi, per errore o per necessità, inviato a Cremona. Complessivamente, l’imponente strumento contiene circa 2100 canne, distribuite su una tastiera di 69 tasti e una pedaliera di 22 pedali.

Nel luglio 2019, dopo un paio d’anni di lavoro, il prestigioso organo Tezani-Bossi di S. Agostino è stato completamente rimontato, e dunque è ritornato disponibile nella sua pienezza per l’uso liturgico e per le attività culturali, prezioso tassello nella storia dell’arte musicale della città e dell’intera diocesi cremonese.

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50 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

L’organo Tamburini di S.Ambrogio Trascorsi storici, peculiarità e caratteristiche di uno strumento singolare a cura di Federico Granata

L

a storia dell’organo Tamburini collocato in S. Ambrogio trae le proprie origini nella prima metà del secolo scorso e al di fuori della provincia di Cremona. Lo strumento non venne fabbricato appositamente per la chiesa suddetta: infatti, da fonti scritte, sappiamo che venne costruito nel 1936 per la Basilica del Sacro Cuore di Cristo Re a Roma, realizzata su progetto dell’architetto Marcello Piacentini a cavallo degli anni ’20 e ‘30, ed inaugurata nel 1934. Non sono state rinvenute altre notizie per quanto riguarda la sua primitiva collocazione, se non che venne sostituito nel 1963 da un grande organo moderno, sempre costruito dalla ditta Tamburini di Crema, tuttora presente e funzionante.

D’altra parte, il catalogo delle opere dell’azienda cremasca ci rivela altre notizie molto importanti ai fini di una corretta analisi storica dello strumento. Oltre a citare la sua prima collocazione nella suddetta basilica romana come opera n.167, troviamo questa breve annotazione: “Organo già esposto alla Fiera del Levante di Bari […] In seguito trasferito al S. Cuore di Firenze”.

Pur non avendo incontrato alcuna corrispondenza per quanto riguarda la presenza all’esposizione fieristica barese, dopo svariate ricerche abbiamo notato la presenza di un organo Tamburini, costruito negli anni ’70, collocato nel citato tempio fiorentino del Sacro Cuore. Si può ipotizzare, quindi, che l’organo sia stato installato provvisoriamente presso la chiesa del Sacro Cuore di Firenze per qualche tempo, nell’attesa che venisse costruito quello tuttora presente. In definitiva, possiamo proprio dire che

il Tamburini abbia viaggiato per buona parte del nostro Paese, ma senza trovare una collocazione stabile nei suoi primi 40 anni di vita.

Per di più, alcune testimonianze verbali ci hanno informato circa un accordo per destinare l’organo Tamburini alla Cattedrale di Tripoli (Libia) verso la fine degli anni ’70.

Una probabile controversia burocratica tra le parti fece sì che lo strumento rimanesse smontato presso il magazzino della ditta, pronto per trovare definitiva collocazione presso la chiesa cremonese di S. Ambrogio.

Nei primi periodi del 1979 Padre Benedetto Ghidotti, parroco di S. Ambrogio e rettore del convento francescano, volle definitivamente trovare un’alternativa a quel piccolo organo provvisorio utilizzato ormai da parecchi anni per accompagnare le celebrazioni che si svolgevano nella grande chiesa. Circa la paternità di tale strumento, è stata rinvenuta una preziosa testimonianza scritta, presente sul numero natalizio del giornalino parrocchiale del 1979: “La chiesa è attualmente dotata di un organo artigianale, realizzato nel 1780 da un costruttore fiorentino”.

Pur rimanendo ignota la firma del fabbricatore, l’articolo spiega che lo strumento presentava due difetti non trascurabili: il primo, riguardante la potenza sonora insufficiente al volume dell’edificio sacro in cui venne inserito; il secondo, inerente al costo d’ affitto, gravante in modo non indifferente sui conti parrocchiali. La cifra, infatti, dalle 60.000 lire iniziali, sarebbe ammontata, in seguito ad una stima fatta da un esperto e a partire dall’anno 1980 a ben 1.200.000 lire annue, andando a costituire un onere improponibile per le casse della parrocchia. Teniamo a Sant’Omobonotredicinovembre | 51

52 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo Giovanni Tamburini, nato nel 1857 a Bagnacavallo (RA) da umili origini, cominciò il proprio apprendistato come riparatore e costruttore di fisarmoniche, successivamente come falegname, per giungere ad un perfezionamento artistico presso la fabbrica di pianoforti “Battista Brialdi” di Faenza. L’avvicinamento al campo organario avvenne nel 1884 con la sua assunzione presso la ditta Trice-Anelli di Codogno.

Forte di tale esperienza, veniva assunto nel 1887 dalla fabbrica del Cavalier Pacifico Inzoli di Crema, con lo specifico incarico di trovare soluzione ai problemi di ordine meccanico rimasti insoluti o non del tutto superati nella precedente produzione organaria. Trascorso a Milano un periodo di formazione presso la Società Elettrica Industriale, ideò l’importante trasformazione dell’organo da meccanico a elettrico.

Nel 1893 fondò la propria fabbrica d’organi, con sede a Crema. Da quel momento si dedicò alla costruzione di strumenti grandiosi, ma non solo, installati a Roma, a Milano, nelle più rilevanti cattedrali italiane ed estere. I suoi collaudatori furono insigni maestri: basti citare Bossi, Perosi, Tebaldini, Baronchelli, Ravanello, Matthey, Vignanelli, Germani, ecc. Il giudizio comune in occasione di ogni collaudo o concerto, come si evince dalla cronaca dell’epoca, fu sempre di lode e di ammirazione. Decorato della Croce di Cavaliere Pontificio dell’Ordine di S. Silvestro da Papa Benedetto XV nel 1921, nel 1931, dopo il collaudo del grandioso organo di Santa Croce a Firenze, gli venne conferito il titolo di Cavaliere del Regno. In seguito all’inaugurazione del monumentale organo del Duomo di Milano, avvenuta nel 1938, ottenne la nomina di Commendatore. Giovanni Tamburini morì il 23 novembre 1942, con la benedizione del Papa Pio XII e del Vescovo di Crema, Mons.

Francesco Maria Franco. L’eredità professionale è passata ai discendenti Umberto Anselmi e i figli Franco e Luciano Anselmi Tamburini.

Attualmente la ditta prosegue la sua attività presso la sede di Pianengo (CR), sotto la guida di Saverio Anselmi Tamburini, figlio di Franco.

Liberamente tratto dal sito lombardiabeniculturali.it

precisare che non viene specificato, né in questo né in altri documenti, il nome della ditta noleggiante.

Dato questo presupposto, Padre Benedetto si rivolse alla Pontificia Fabbrica d’Organi Comm. Giovanni Tamburini di Crema, deciso ad acquistare un nuovo organo da installare in modo permanente nel grande edificio sacro. La ditta cremasca propose lo strumento di cui sopra proveniente da Roma e Firenze, rimasto fermo e smontato nel magazzino della ditta da qualche anno.

Più precisamente, in data 23 maggio 1979 la Ditta invia alla Parrocchia il progetto per un “organo a trasmissione elettrica”. In questo documento viene specificata la

parole, permette di comandare gli stessi registri, ossia le stesse “file di canne”, da due tastiere differenti. Quindi, grazie a questo sistema, la presenza degli stessi registri su entrambe le tastiere non risulta essere né un banale duplicato né una ripetizione, bensì aumenta in modo esponenziale le possibilità esecutive a disposizione dell’organista.

Altra caratteristica peculiare è quella di essere dotato di una doppia cassa espressiva.

La cassa espressiva è un sistema, sviluppato e perfezionato nel XIX secolo, che serve a modulare l’intensità sonora dell’intero organo o della parte di esso ivi con-

sua provenienza: “costruito da Giovanni Tamburini per la Chiesa di Cristo Re in Roma e successivamente sostituito da un nuovo grande organo”, a conferma di quanto abbiamo già riscontrato nelle prime battute di questo capitolo.

In questo progetto troviamo, inoltre, un’esauriente scheda tecnica dello strumento proposto alla Parrocchia e il relativo costo di installazione, oltre ad una serie di dettagliate caratteristiche costruttive.

tenuto. In poche parole, le canne sono collocate in una grande cassa ermetica di legno di grosso spessore, la quale possiede dei pannelli verticali oppure orizzontali (chiamati gelosie o griglie) apribili e chiudibili a comando ed a piacere dell’organista, grazie ad una “staffa” posta in consolle. Questi pannelli, una volta aperti, lasciano propagare il suono verso l’esterno o, se chiusi, lo mantengono il più possibile all’interno della cassa stessa. In tal modo si possono creare piacevoli effetti di crescendo e di pianissimo, con tutte le sfumature intermedie possibili, conferendo così ulteriore dinamismo allo strumento e ampliando notevolmente la sua vera e propria espressività fonica.

L’organo di S. Ambrogio, oltre ad essere interamente chiuso in cassa espressiva, è stato predisposto per servire due locali divisi e a sé stanti, quindi possiede non uno ma ben due ordini di gelosie: uno appena dietro la facciata visibile in Chiesa, l’altro dietro quella in Santuario. Grazie ad un particolare sistema elettro-pneumatico e ad un comando posto in consolle, l’organo Tamburini è

Di seguito il progetto trascritto integralmente: *** L’organo sopra descritto si compone di due tastiere e pedaliera, in linea con la filosofia costruttiva degli anni ’30 del secolo scorso ed è dotato di tutti i comfort e le modernità tipiche dell’organaria dell’epoca.

Tuttavia, sono da sottolineare un paio di particolarità che lo rendono unico senza alcun dubbio nel panorama organario cremonese, ma non solo.

La prima particolarità è quella di possedere il cosiddetto “somiere a doppio scompartimento”. Questo,in poche

in grado, quindi, di servire questi due ambienti in modo distinto. Ancor più, la cassa espressiva opposta a quella utilizzata si chiude automaticamente non appena si sceglie quale comandare. Il tutto per enfatizzare l’effetto prodotto dall’apertura/chiusura delle gelosie comandate dall’organista. Insomma, un vero e proprio gioiello della meccanica, tanto complesso quanto delicato.

Ma proseguiamo nell’illustrare la storia del nostro strumento. In seguito alla presentazione di questo progetto troviamo, in data 15 giugno, una lettera che attesta la disponibilità ad eseguire il lavoro da parte della ditta Tamburini: “Nel ringraziare per la gradita visita fattaci a Crema, siamo a confermare la nostra disponibilità per l’esecuzione del compito affidatoci per il S. Natale 1979”.Inoltre, la ditta cremasca chiede di trovare un accordo il prima possibile, “anche per trovare poi la possibilità di vendere lo strumento di nostra proprietà da anni”, ulteriore conferma di quanto asserito precedentemente.

Tuttavia, sia Tamburini che la Parrocchia dovranno aspettare ben 4 mesi, ossia fino al 10 di ottobre di quell’anno, per ricevere il nulla osta da parte del Ministro Provinciale dei Francescani, con sede a Milano nel convento di S. Angelo. Dopo tale data, i lavori poterono finalmente cominciare.

Dopo due mesi, precisamente il 14-12-1979, Tamburini spedì ai Padri due disegni: uno relativo alla fisionomia esterna dell’organo visto dalla Chiesa, oltre ad una interessante vista dall’alto delle due facciate; l’altro riproducente la sezione dello strumento. Nel primo è interessan-

te notare che le canne dimostra predisposte per essere collocate su entrambe le facciate, o perlomeno inserite in questo progetto di collocazione, fossero 27, al contrario delle attuali 47.A seguire, nel mese di dicembre troviamo alcuni documenti riguardanti il costo dell’organo e i vari acconti versati, per un totale di 15 milioni di lire. Allo stesso modo è stata rinvenuta un’attestazione di versamento di 5 milioni di lire da Padre Benedetto a favore di Franco Anselmi Tamburini, titolare della ditta in quel periodo.

Interessante è il carteggio che troviamo datato 5 maggio 1980. È stato infatti rinvenuto un documento riassuntivo del costo dell’organo, pari a 26.540.000 Lire. In calce a questo, Franco A. Tamburini scrisse di suo pugno: “mi impegno di consegnarlo funzionante per il 31/5/80 – e per il 15/6/80 la finitura esterna (cassa).”.

Non sappiamo se queste date siano state rispettate o meno, ma siamo certi che l’organo venne finito entro il mese di ottobre del 1980. Infatti, il 5 e il 19 del mese ebbero luogo i due concerti inaugurali, adopera dei maestri

SCHEDA TECNICA L’organo sito presso la chiesa parrocchiale dei Santi Ambrogio ed Antonio in Cremona venne costruito dalla ditta Comm.

Giovanni Tamburini di Crema negli anni ’30 del secolo scorso.

Già esposto presso la Fiera del Levante di Bari, venne collocato nel 1936 presso la Basilica del Sacro Cuore di Cristo Re a Roma come opera n.167. Successivamente trasferito presso il Sacro Cuore di Firenze, venne installato definitivamente presso la chiesa di S. Ambrogio in Cremona negli anni 1979-1980.

COLLOCAZIONE L’ organo trova collocazione in navata, nell’arco corrispondente alla seconda volta di destra, su una soletta portante costruita appositamente. Serve entrambi gli ambienti della Chiesa e del Santuario.

FACCIATA I due prospetti si compongono ciascuno di 47 canne, in zinco alluminato, disposte in una campata formanti tre cuspidi.

Le bocche sono allineate e il labbro superiore è a mitria. Tutte le canne sono mute.

CONSOLLE L’ elegante consolle placcata in noce trova collocazione nella navata, nel corridoio sottostante il corpo fonico dello strumento. È provvista di ruote e di un tubo flessibile per la trasmissione, che le permettono di essere spostata nelle vicinanze, entro un raggio di alcuni metri. Le due tastiere hanno un’estensione di 61 note (Do1-Do6) ed i tasti sono rivestiti in materiale plastico. La pedaliera concavo-radiale è di 30 pedali (Do1-Fa3) in legno di quercia, con i cromatici ricoperti con materiale plastico termoindurente.

Sono presenti, sopra la pedaliera, 6 pistoncini e due staffe per:  Unione I Tastiera al Pedale  Unione II Tastiera al Pedale  Unione II Tastiera alla I Tastiera  Combinazione Libera Generale Staffa per l’Aumentatore o Staffa per l’Espressione  Ripieno  Forte Generale Sotto la seconda tastiera trovano collocazione i seguenti pistoncini:  Annullatore  1-4 Combinazioni fisse  Combinazione libera particolare I seguenti, invece, si trovano sotto la prima tastiera:  Annullatore  1-5 Combinazioni Fisse  6- Combinazione libera particolare  7- Combinazione libera generale È presente, sulla destra, un bottoncino a scatto per la cassa espressiva, orientabile tra Santuario o Chiesa.

REGISTRI I registri sono inseriti da placchette, di tre differenti colori, disposte su due file sopra la seconda tastiera.

La fila soprastante, riportante solo il numero ordinale da sinistra, è relativa alla combinazione libera.

Diciture su tondi di porcellana originali al centro delle placchette, in ordine da sinistra a destra: I Tastiera (in giallo) Ripieno 5 file | Ottava 4’ | Principale 8’ | Bordone 8’ | Gamba 8’ | Flauto 4’ | Flauto in XII | Concerto Viole Unioni ed Accoppiamenti (in giallo, in arancione gli ultimi quattro) Unione I-P | Sopra I-P | Unione tastiere | Sopra I | Sopra II-I | Grave II-I | Unione II-P | Sopra II | Grave II | Tremolo II Tastiera (in arancione) Voci Corali | Concerto Viole | Flauto in XII | Flauto 4’ | Gamba 8’ | Bordone 8’ | Principale 8’ | Ottava 4’ | Ripieno 5 file Pedale (in verde) Contrabbasso 16’ | Subbasso 8’ | Basso 8’ Totale canne: 1005, di cui 911 suonanti e 94 mute.

SOMIERI Il somiere maggiore è del tipo a valvole coniche e doppio scompartimento, con azionamento elettrico-pneumatico. I somieri delle basserie, invece, sono a sistema pneumatico con valvole coniche.

MANTICERIA L’impianto della manticeria è composto da due mantici a vasca.

L’aria è prodotta da un elettroventilatore posto in cassa fonoassorbente. Il flusso di aria in entrata è regolato da una valvola a tendina

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54 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

Ernesto Merlini e Giuseppe Zanaboni, sotto la direzione artistica del m° Isidoro Gusberti.

Finalmente la chiesa di S. Ambrogio poté vantarsi di possedere uno strumento tutto suo, costruito da una delle ditte più rinomate d’ Italia. Forte di questo entusiasmo, Padre Benedetto scrisse: “il nuovo organo ci permette di svolgere con solennità e gusto le funzioni religiose sia in Chiesa che nel Santuario[…] sarà per tutti una gioia grande perché concretizzazione di una lunga speranza”.

Dopo qualche tempo, intorno alla metà degli anni ’90, troviamo documenti relativi a progetti volti ad“ammodernare” l’organo Tamburini, tuttavia secondo canoni diversi rispetto a quelli attuali e correnti,sia estetici che fonici.

Lasciate perdere, da parte del Parroco e del Consiglio pastorale parrocchiale,queste proposte destabilizzanti l’armonia costruttiva del manufatto, lo strumento giunge al nuovo millennio sempre più in affanno e bisognoso di una pulitura radicale. Grazie alla determinazione del parroco Don Carlo Rodolfi, in tempi recenti l’organo Tamburini è stato sottoposto a vari interventi. In primo luogo, nel

2012 venne effettuata da parte della Bottega Organara di Cremonesi e D’Arpino di Soncino una revisione all’apparato pneumatico relativo alle trasmissioni del somiere maggiore: vennero sostituite tutte le membrane di pelle usurate, non più funzionanti o in precario stato di conservazione,con altre di nuova produzione.

Infine, recentemente, la stessa ditta soncinese è stata incaricata di eseguire un’importante pulitura,operazione che si è svolta durante le prime tre settimane dello scorso mese di maggio 2019.

Durante questa manutenzione straordinaria è stata smontata gran parte dello strumento. In primo luogo si è proceduto con la rimozione delle 94 canne appartenenti alle due facciate. Successivamente, una volta creato un adeguato passaggio per entrare all’interno nella cassa, sono state tolte dalla loro sede tutte le canne metalliche e la quasi totalità di quelle lignee, escluse le prime sei del Contrabbasso 16’ (perché talmente grandi che sembra che l’organo sia stato costruito attorno ad esse: la prima misura infatti quasi5 metri di lunghezza!). Da queste

è stata asportata solo la cosiddetta “valvola bitonale” per sostituirne il pellame usurato.

In seguito si è proceduto al trattamento delle canne di metallo: sono state pulite, lavate, riparate e rimesse in forma ove necessario. Durante quelle settimane, il Santuario (utilizzato come deposito e bottega temporanea da parte degli organari) ha visto l’avvicendarsi di alcuni esperti del settore che hanno potuto apprezzare l’ottima fattura dell’intero organo e dei suoi complessi apparati meccanici, ma in particolar modo delle canne: oltre alla lega utilizzata per la maggior parte di esse (il cosiddetto stagno tigrato, ossia composto da 50% di stagno e 50% di piombo), sono notevoli lo spessore e di conseguenza il peso. Infine, queste sono state accuratamente ricollocate nella loro sede. Dopo ciò, si è proceduto alla delicata e meticolosa operazione di intonazione ed accordatura, che ha interessato tutte le 911 canne sonore. È giusto precisare, infatti, che le canne totali dello strumento sono 1005, ma le 94 appartenenti alle due facciate sono mute.

Nel mentre sono state rinnovate tutte le trasmissioni

elettro-pneumatiche non soggette alla manutenzione effettuata nel 2012, oltre ad una rimessa in funzione di tutte le componenti inservibili da tempo, come per esempio il complesso meccanismo della doppia espressione.

Per finire, questa operazione straordinaria è stata un’occasione per mettere in pratica un importante ammodernamento della consolle. Questa è stata dotata, infatti, di un impianto d’illuminazione all’avanguardia fornito di luci a led sia per il leggio e le tastiere che per la pedaliera.

I lavori sono terminati in tempo per due eventi significativi vissuti dalla comunità parrocchiale nel mese di giugno 2019: la tradizionale festa di S. Antonio e il 60° anniversario di ordinazione di don Goffredo Crema, apprezzato sacerdote musicista cremonese, che proprio nella chiesa di S. Ambrogio celebrò la prima Messa. A fianco di questi eventi, caratterizzati da momenti concertistici in cui l’organo è stato protagonista, vi è l’ordinaria vita liturgica della parrocchia, all’interno della quale l’organo Tamburini continua regolarmente a far sentire la propria voce, come avviene da ormai 40 anni.

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56 S. Omobono profeta e testimone del suo tempo

Sant’Antonio in Sant’Ambrogio: Il progetto di un santuario per la città a cura di Michele Bolzoni

N

egli anni Trenta del secolo scorso molti architetti e progettisti furono coinvolti per la realizzazione del nuovo complesso parrocchiale di S. Ambrogio, che non prevedeva solamente la costruzione di una chiesa per la comunità di fedeli che abitava il nuovo quartiere periferico in rapida evoluzione, ma doveva costituire “un’idea complessa di sintesi tra l’Aula Sacra, Santuario, Convento, Oratorio, Battistero e uno spazio per convegni sottostante alla chiesa”.1 Era previsto il Convento perché la parrocchia sarebbe stata retta non più dal clero diocesano ma dai Frati minori francescani, il cui carisma avrebbe accresciuto la devozione dei cremonesi – non solo dei parrocchiani – nei confronti di sant’Antonio di Padova, il “santo dei miracoli” appartenuto al loro ordine religioso. Per questo le cronache di quegli anni che si riferivano al nuovo complesso parrocchiale parlavano di santuario di Sant’Antonio anziché di chiesa di Sant’Ambrogio.

L’intitolazione fu presto regolata dall’Arcivescovo di Cremona Giovanni Cazzani congiuntamente con il Provinciale dei Frati minori di Lombardia, Dionisio Mazzola:

“La nuova chiesa conserverà il titolo di Sant’Ambrogio come la parrocchia; se si vuol aggiungere il titolo di S. Antonio si chiamerà S. Antonio in Sant’Ambrogio”.2 La devozione a S. Antonio era presente da secoli a Cremona;3 in particolare nella vecchia chiesa di S. Ambrogio (poi demolita) posta in via Filzi si può ricostruire – attraverso il verbale della visita del vescovo Alessandro Litta nel 1723 – la presenza, a sinistra dell’altare maggiore, di una cappella dedicata a S. Antonio.

La posa della prima pietra del nuovo complesso parrocchiale, secondo il progetto dell’architetto milanese Giovanni Muzio (1893-1982), avvenne il 9 giugno 1935, in prossimità della festa di S. Antonio (13 giugno), e alla vigilia di questo evento l’arcivescovo Cazzani augurava “che questa impresa, benedetta dalla Divina Provvidenza e secondata dalla generosità dei buoni cremonesi, e particolarmente dei parrocchiani di Sant’Ambrogio, possa giungere presto al suo felice compimento. Al quale sono ottimi auspici i due nomi gloriosi di sant’Ambrogio, padre e dottore della Chiesa, oltre che titolare della parrocSant’Omobonotredicinovembre | 57

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Particolare della stele in marmo scolpita da Dante Ruffini sull’altare del Santuario dedicato a S. Antonio di Padova.

chia, e di sant’Antonio di Padova, taumaturgo e apostolo della riforma francescana, gloria e protettore dell’ordine Minoritico. Già in altri tempi associati nella vita religiosa di codesta parrocchia, ottengano, i due santi insigni, con la loro potente intercessione, che la nuova chiesa parrocchiale determini un profondo rinnovamento religioso nei parrocchiani e che il fervido apostolato dei figli di san Francesco giovi al risveglio della vita cristiana in tutta questa città e diocesi”.4 In questo estratto dalla lettera di mons. Cazzani al parroco di Sant’Ambrogio abbiamo, oltre ad un altro riferimento alla devozione verso S. Antonio nella vita parrocchiale del passato, l’invito alla generosità rivolto non solamente ai parrocchiani ma – in generale – a tutti i cremonesi. Le cronache riportano infatti tante iniziative cittadine volte a reperire fondi: per esempio la raccolta di offerte sotto forma di derrate alimentali, l’organizzazione di una pesca benefica, la conferenza al teatro Ponchielli del padre francescano Vittorino Facchinetti, primo predicatore radiofonico in Italia. La generosità arrivò anche da parte dello stesso arcivescovo Cazzani e del ras Roberto Farinacci, che implorava S. Antonio per la protezione dei soldati italiani in Africa.

Nonostante il sostegno dell’intera città, non mancarono problemi economici legati soprattutto alle vicende politiche di quegli anni, al punto che i frati decisero di accelerare la costruzione della chiesa e del convento, posticipando il resto del progetto. Così, il 12 giugno 1938 (sempre in prossimità della festa di S. Antonio), dopo tre anni di lavori, vi fu l’inaugurazione della nuova chiesa, seppur priva della parte absidale prevista nel progetto del Muzio. Erano presenti il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in rappresentanza dell’Ordine dei Frati Minori, e tutti coloro che avevano sostenuto l’impresa.5 Le solenni celebrazioni inaugurali non comprendevano tuttavia la consacrazione dell’altare, perché quello previsto dal progetto del Muzio, posto nell’abside sotto un ciborio sormontato dalla cupola, non era stato realizzato. E non lo fu nemmeno in seguito, quando – terminate la guerra e le difficoltà del dopoguerra – fu possibile riprendere i lavori: nel 1959 si preferì infatti realizzare la cappella di S. Antonio che, nel progetto del Muzio, era esterna alla chiesa, ad essa affiancata sul lato destro, allineata con la strada (via Ponte dei due Occhi, oggi via san Francesco d’Assisi). Di questa cappella – che d’ora in poi chiameremo “santuario” – erano state gettate le fondamenta ed era stato costruito il protiro, che già permetteva l’accesso laterale alla chiesa.

Le offerte dei fedeli, in particolare quelle della vedova dell’industriale Pietro Negroni e di Vito Gosi, titolare della Ceramica che donò il materiale per la pavimentazione, fecero sì che in due anni il santuario fosse costruito secondo il progetto originale degli anni Trenta, ritenuto ancora valido dallo stesso Muzio, che realizzò una variante solamente per la cupola.6 Interessante segnalare che, per ricavare le tre porte e le 42 finestrelle ad arco che mettono in comunicazione la chiesa con il santuario, fu demolita parte della parete laterale della chiesa7 ed eliminato un altare dedicato proprio a S. Antonio, unico segno di devozione al santo che fino ad allora la chiesa possedeva. L’11 giugno 1961, antivigilia della festa di S. Antonio, il vescovo di Cremona mons. Danio Bolognini Sant’Omobonotredicinovembre | 59

inaugurava il santuario consacrandone l’altare.

In conclusione, si ritiene importante sottolineare che, se tra il 1938 e il 1961 non aveva più senso – vista l’incompiutezza del lavoro – parlare di “santuario di S. Antonio”, negli anni Sessanta si può tornare a farlo indicando tuttavia non già l’intero complesso, ma soltanto la nuova cappella “distinta fisicamente dalla chiesa parrocchiale di Sant’Ambrogio, anche se parte integrante di essa”.8 Se dunque la costruzione postuma del santuario non per-

metteva più all’intero complesso di essere considerato un grande santuario antoniano cittadino, era comunque presente un cuore pulsante di devozione verso il santo dei miracoli. Ancora oggi, nonostante da quasi trent’anni la parrocchia non sia più retta dai religiosi francescani ma da sacerdoti diocesani, la festa di S. Antonio è un momento importante per la comunità, valorizzato da celebrazioni liturgiche, in chiesa e in santuario, da eventi culturali ed iniziative benefiche.

NOTE 1L UCIANO RONCAI L’architettura di Giovanni Muzio, in S. AMBROGIO in Cremona - Una chiesa per la comunità, pag. 49 2 Atto di convenzione di erezione della nuova chiesa in Sant’Ambrogio, punto 4° - Cremona, 22 marzo 1935, Arch. Parrocchiale di S.Ambrogio 3 Segnaliamo l’esistenza di una cappella – costruita nel 1503 per volontà del marchese Giovanni Cavalcabò – dedicata a S. Antonio nella chiesa di san Francesco, che divenne sede della confraternita “Veneranda Compagnia di Sant’Antonio” dal 1620 al 1775, anno in cui la chiesa fu destinata a sede del “Vecchio ospedale”.

4 Lettera di mons. Cazzani al parroco di S. Ambrogio p. Sigismondo Bottarelli del 29 maggio 1935, Arch. Storico Diocesano di Cremona

5 Cfr. WALTER MONTINI La cerimonia della solenne inaugurazione del 1938, dal libro S. AMBROGIO in Cremona - Una chiesa per la comunità 6 Cfr. MARIELLA MORANDI L’edificazione del Santuario di S. Antonio, dal libro S. AMBROGIO in Cremona - Una chiesa per la comunità 7 Un’altra porzione di muro, posta sotto l’arco che sovrasta la seconda porta tra la chiesa e il santuario, fu abbattuta nel 1980 per fare spazio alla cassa dell’organo a canne (v. articolo a cura di FEDERICO GRANATA). Furono di conseguenza rimosse 12 delle 42 finestrelle.

8 Ivi, pag. 76 ■

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S. Omobono

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