3. Autori
Le Grazie (1812-1813) Le Grazie sono un poemetto incompiuto in endecasillabi sciolti. L’opera avrebbe dovuto essere dedicata ad Antonio Canova, il grande scultore neoclassico che nel 1812 aveva incominciato a lavorare al grande gruppo marmoreo intitolato appunto Le Grazie. Il poeta lavorò a quest’opera in vari momenti, ma specialmente durante il soggiorno fiorentino del 1812-13, in coincidenza coi tragici eventi della campagna di Russia e del crollo del Regno Italico. Il progetto, più volte rielaborato e mai giunto a una redazione definitiva, era incentrato sulla esaltazione della bellezza (rappresentata da Venere) e sulla funzione civilizzatrice dell’arte (rappresentata dalle Grazie).
Il primo inno è dedicato a Venere, simbolo della bellezza e della segreta armonia dell’universo.
Il secondo inno è dedicato a Vesta, che rappresenta le varie forme dell’operosità umana.
Il terzo inno è dedicato a Pallade, dea delle arti consolatrici.
II poeta ha innalzato un’ara alle Grazie presso Firenze e, alla presenza del Canova, rievoca la storia delle tre dee: giunte in Grecia dal mare insieme con la madre Venere, esse cominciano a diffondervi i sentimenti che presiedono all’incivilimento degli uomini: la modestia, la pudicizia amorosa ecc. Mentre Venere risale all’Olimpo, le Grazie rimangono a consolare gli uomini coi loro doni, l’armonia dell’arte e la verecondia; quindi, dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi, giungono profughe in Italia (si riaffaccia qui, velatamente, il motivo autobiografico dell’esilio).
Il poeta introduce presso l’ara delle Grazie nella villa di Bellosguardo, nelle vicinanze di Firenze, tre bellissime donne (Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti e Maddalena Bignami, incarnazioni rispettivamente della musica, della danza e della poesia), a celebrare i riti sacri alle dee.
Per sottrarre le Grazie all’impeto delle umane passioni, Pallade guida le tre dee nell’isola favolosa di Atlantide, dove fa tessere da Psiche, dalle Ore e da Flora, dea della primavera, un velo che protegga le Grazie dalle offese di Amore e delle Tenebre (cioè dalla passione amorosa e dalle guerre - con polemica allusione alle guerre di conquista napoleoniche). Sul velo le divinità minori intessono scene raffiguranti le “illusioni”, i vincoli sociali e di sangue che guidano il cammino della civiltà - e che sono al tempo stesso i miti più cari alla musa foscoliana: la giovinezza danzante che «discende un clivo onde nessun risale»; la pudicizia, l’amore coniugale (due tortorelle che escono da un bosco di mirto «mormorando ai baci»); la pietà (un guerriero che sogna i «miseri» genitori e al risveglio guarda sospirando i suoi prigionieri); l’ospitalità (ad una festante riunione, il Genio del convito incorona per prime le tazze degli esuli); l’amore materno (una donna veglia di notte il suo nato, temendone i vagiti come presagio di morte). Così, protette dal velo, le Grazie potranno tornare, pur tra la fiamma delle passioni, a consolare gli esseri umani.
Storia e mito nelle Grazie Nel poemetto foscoliano si colgono evidenti richiami alla concezione della storia di Vico, per la funzione civilizzatrice che viene attribuita all’arte, strumento fondamentale per il superamento della primitiva ferocia che caratterizzava gli esseri umani al principio della loro storia. Tuttavia, nei versi di Foscolo mancano riferimenti espliciti agli avvenimenti storici che ne accompagnarono la stesura: il poeta crea una favola mitologica e sembra evitare il confronto con la contemporaneità. In realtà, il mito riveste in Foscolo una funzione “polemica” nei confronti della storia: non è, come in altri poeti neoclassici, un semplice luogo di fuga, ma assume una precisa funzione “etica”, proprio in contrapposizione alla ferocia degli avvenimenti storici. La storia non è dunque assente, ma costituisce un riferimento implicito costante, anche laddove la poesia di Foscolo sembra assumere un carattere di pura evasione.
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