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13 La religione romana secondo Polibio: uno strumento di governo Polibio, Storie, VI, 56 Lo storiografo greco Polibio (205-118 a.C.), vissuto in età ellenistica, dedicò il libro VI delle sue Storie, che abbracciano il periodo compreso fra il 264 e il 146 a.C., all’analisi delle istituzioni politiche romane, nel quadro di una più generale teoria delle costituzioni. L’autore sottolinea i vantaggi della società romana rispetto alla sua principale nemica del II secolo a.C., Cartagine: tra i termini di confronto, Polibio esamina anche la differente concezione religiosa.
I Romani hanno, inoltre, concezioni di gran lunga preferibili1 nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c’è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull’Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. Inoltre, a prescindere da tutto il resto, coloro che amministrano in Grecia i pubblici interessi, se viene loro affidato un talento2, nonostante il controllo di dieci sorveglianti, di altrettanti suggelli e del doppio dei testimoni, non sanno conservarsi onesti; i romani invece, pur maneggiando, nelle pubbliche cariche e nelle ambascerie, quantità di denaro di molto maggiori, si conservano onesti solo per rispetto al vincolo del giuramento; mentre presso gli altri popoli raramente si trova chi non tocchi il pubblico denaro, presso i romani è raro trovare che qualcuno si macchi di tale colpa. (Trad. di C. Schick) 1. preferibili: rispetto ai cartaginesi. 2. un talento: antica unità di misura; se si utilizzava come moneta, s’intendeva un talento d’oro (equivalente al peso di una persona).
Analizziamo il testo • Polibio ha una visione pragmatica della storia; volge pertanto la sua attenzione agli aspetti politico-militari e rifiuta l’idea, semplicistica, che siano gli dèi a guidare le vicende dell’umanità. In questo quadro prende corpo l’analisi della religione romana, fatta oggetto di attenzione critica, alla stregua degli altri meccanismi che reggono la vita di una società. • La superiorità della religione romana rispetto alle forme di culto delle altre popolazioni risiede, secondo Polibio, nella sua capacità di divenire strumento di coesione sociale e di dominio delle pulsioni delle masse: essa è insomma un efficace instrumentum regni (“mezzo per governare”). • A Roma, dice l’autore, si è sempre dedicata grande attenzione alle pratiche rituali pubbliche e private, definite da Polibio con l’espressione «superstizione religiosa». Tali pratiche, però, non vanno considerate segni di un’«ingenuità» del popolo romano, ma, semmai, per Polibio, indice di acume politico da parte dei fondatori dello Stato. Essi, infatti, hanno saputo individuare e sfruttare a pieno tutti gli strumenti disponibili al fine del mantenimento dell’ordine sociale: tra questi strumenti vi è appunto la credulità religiosa del popolo. • Alle spalle di questo ragionamento vi è la convinzione, da parte di Polibio, che una nazione non può essere formata da soli sapienti, ma è costituita da una moltitudine che, per sua natura, è volubile, dedita a passioni di