L'amorosa inchiesta - edizione verde - 3A - Dal secondo Ottocento al primo Novecento

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Edizione verde

L’AMOROSA INCHIESTA EDIZIONE VERDE

L’AMOROSA INCHIESTA EDIZIONE VERDE

1 Dalle origini al Cinquecento + Antologia della Commedia + Scrivere bene + Direzione invalsi codice PAS012P1 isbn 978-88-416-5242-8 1 Dalle origini al Cinquecento + Scrivere bene + Direzione invalsi codice PAS012P2 isbn 978-88-416-5249-7 2 Dal Seicento all’Ottocento codice PAS01202 isbn 978-88-416-5243-5 3A Dal secondo Ottocento al primo Novecento + 3B Il Novecento e oltre codice PAS012P3 isbn 978-88-416-5234-3 Giacomo Leopardi codice PAS00607 isbn 978-88-416-5247-3 Antologia della Commedia codice PAS00613 isbn 978-88-416-5250-3 Percorsi semplificati 1 codice PAS00610 isbn 978-88-416-5255-8 Percorsi semplificati 2 codice PAS00612 isbn 978-88-416-5256-5 Percorsi semplificati 3 codice PAS00611 isbn 978-88-416-5257-2

1 Dalle origini al Cinquecento + Antologia della Commedia + Scrivere bene + Direzione invalsi codice PAS0120P1X isbn 978-88-6706-614-8 1 Dalle origini al Cinquecento + Scrivere bene + Direzione invalsi codice PAS012P2X isbn 978-88-6706-615-5 1 Dalle origini al Cinquecento codice PAS01201X isbn 978-88-6706-600-1 2 Dal Seicento all’Ottocento codice PAS01202X isbn 978-88-6706-601-8 3A Dal secondo Ottocento al primo Novecento + 3B Il Novecento e oltre codice PAS01203X isbn 978-88-6706-602-5 Giacomo Leopardi codice PAS00607X isbn 978-88-6706-605-6 Antologia della Commedia codice PAS00613X isbn 978-88-6706-604-9

PER L'INSEGNANTE L’AMOROSA INCHIESTA EDIZIONE VERDE Risorse 1 L’AMOROSA INCHIESTA EDIZIONE VERDE Risorse 2 L’AMOROSA INCHIESTA EDIZIONE VERDE Risorse 3

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L’amorosa inchiesta Edizione verde

LIBRO CON

L’amorosa 3a inchiesta 3a Novella Gazich Manuela Lori

N. Gazich M. Lori

L’amorosa inchiesta

Anche noi oggi, come il paladino Orlando con Angelica, abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola. L’amorosa inchiesta allude alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone.

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L’AMOROSA INCHIESTA ED. VERDE 3A DAL SECONDO OTTOCENTO AL PRIMO NOVECENTO

COPIA SAGGIO per l’insegnante

Il piacere di apprendere

Gruppo Editoriale ELi

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L’amorosa inchiesta

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Responsabile di progetto e coordinamento Matteo Gorla Redazione Edistudio Milano Revisione redazionale per la presente edizione Lorenzo Bassi Coordinamento redazionale Marco Mauri Art director Enrica Bologni Progetto grafico e copertina Studio Mizar Impaginazione Studio Mizar – ControlX Ricerca iconografica Edistudio Milano Illustrazione di copertina Monica Fucini Contenuti digitali Progettazione, redazione e realizzazione delle mappe e delle carte interattive: Silvia Benigni, Fabio Curzi (Scuola di Dottorato di Ateneo, Università di Macerata). Per tutti gli altri contenuti digitali: Progettazione: Giovanna Moraglia Realizzazione: Alberto Vailati, Giovanna Moraglia, Giuliano Mannini, Camilla Borò, bSmart Lab, ITG Torino Referenze iconografiche Shutterstock, GettyImages, Bridgeman, Alamy, Wikimedia Commons. Tutte le altre immagini provengono dall’Archivio Principato. Per le riproduzioni di testi e immagini appartenenti a terzi, inserite in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. Gli autori hanno condiviso struttura e contenuti del progetto generale dell’opera. A Luisa Rosella Settimo si devono l’annotazione e l’Analisi del testo, di parti del capitolo 15 e di parte delle sezioni 1 e 2 del capitolo 18. Emanuela Del Curto ha collaborato alla revisione didattica dei capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e ha curato la stesura delle seguenti parti: interpretazioni critiche su Collodi nel capitolo 1; interpretazioni critiche su Carducci nel capitolo 3; note e prefazione ai Malavoglia nel capitolo 7; analisi e note di Lavandare, note di Novembre, analisi e note de Il tuono, Per approfondire “Una lettera di Pasolini al suo docente di letteratura Carlo Calcaterra” nel capitolo 10; Prove per l’esame di Stato e Sguardo sul cinema “Un erede moderno di Andrea Sperelli” nel capitolo 11; Prova per l’esame di Stato nel capitolo 14 Laura Trozzi ha collaborato alla revisione didattica dei capitoli 17 e 18 e alla stesura di alcune parti degli stessi. Le schede Arte nel tempo sono di Eleonora Quadri. Gli Sguardi sul cinema OL sono di Alessandro Calligaro. Si ringraziano inoltre per i preziosi suggerimenti le professoresse Francesca Gasperini e Anna Sanchini. Prima edizione: aprile 2024 Printed in Italy © 2024 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi (Centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali), corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi. org. L’editore fornisce – per il tramite dei testi scolastici da esso pubblicati e attraverso i relativi supporti o nel sito www.gruppoeli. it – materiali e link a siti di terze parti esclusivamente per fini didattici o perché indicati e consigliati da altri siti istituzionali. Pertanto l’editore non è responsabile, neppure indirettamente, del contenuto e delle immagini riprodotte su tali siti in data successiva a quella della pubblicazione, dopo aver controllato la correttezza degli indirizzi web ai quali si rimanda. Casa Editrice G. Principato Via G.B. Fauché 10 - 20154 Milano

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La casa editrice attua procedure idonee ad assicurare la qualità nel processo di progettazione, realizzazione e distribuzione dei prodotti editoriali. La realizzazione di un libro scolastico è infatti un’attività complessa che comporta controlli di varia natura. È pertanto possibile che, dopo la pubblicazione, siano riscontrabili errori e imprecisioni. La casa editrice ringrazia fin da ora chi vorrà segnalarli a: Servizio clienti Principato e-mail: info@gruppoeli.it

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L’amorosa inchiesta 3a

Novella Gazich Manuela Lori

Edizione verde

Il piacere di apprendere

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Dal secondo Ottocento al primo Novecento

Gruppo Editoriale ELi

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L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.

La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.

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Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.

La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per lo studente e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.

La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori

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L’amorosa inchiesta Attraverso il libro Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura; 2.Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche; 3. Caratteri e forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale; 4.L’evoluzione della lingua. La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi

di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’ aspetto.

Le rubriche Il testo è corredato di numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o

dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di

approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono;

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ATTRAVERSO IL LIBRO

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• VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre scelti

o per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità; • EDUCAZIONE CIVICA/AGENDA 2030 : l’attenzione a quest’aspetto è stata tradotta in due

direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili all’ educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra seguite da spunti di riflessione o attività didattiche. • LEGGERE LE EMOZIONI : questa rubrica intende stimolare nei giovani la competenza

emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardi su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma

che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura ed altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori, questo

perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone

numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di

riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini;

Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato

suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare” Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame : vengono proposte, sia in itinere che in alcune zone di ciascun

volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C;

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• Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte

attività che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo, Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo: • Per fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei

capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale; • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne

accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici; • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel

processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo; • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di

definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari; • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,

che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso; • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche

e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento; • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano

l’apprendimento.

La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità, può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di autoorientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato ad una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme ad obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.

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La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.

Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire • Documenti critici • Verso il Novecento • Sguardi su… • Contributi audio e video • Gallerie di immagini

Attivazioni operative • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive che consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore. Questi strumenti consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe rovesciata Sistema Digitale Accessibile

Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:

• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento

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Indice Secondo Ottocento Scenari socio-culturali Positivismo e Decadentismo 37 Sguardo sulla storia

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L’Europa a cavallo di due secoli 38 L’età delle nazioni 39 L’Italia: dalla Destra storica all’ascesa di Mussolini 40

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

41

1 Il progresso e la modernità: nuovi miti per la collettività 41 Federico De Roberto online

D1 Contro il mito del progresso L’imperio, cap. IX

PER APPROFONDIRE Belle Époque 42

2 L’avanzata vittoriosa della scienza e della tecnologia 42 3 Un nuovo modo di viaggiare 44 D2 Treni e ferrovie nell’immaginario letterario

45

Emilio Praga D2a La strada ferrata

45

Trasparenze

Giosue Carducci D2b Inno a Satana

46

4 Il tempo e lo spazio 47 5 Gli scrittori e la città moderna 48 I LUOGHI DELLA CULTURA Due grandi centri culturali di riferimento: Parigi e Vienna online

D3 I volti della metropoli

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D3a Un tempio per la civiltà moderna: la Galleria di Milano

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D3b I grandi magazzini di Parigi, nuovi templi della modernità

49

Luigi Capuana Milano 1881 Émile Zola

Al paradiso delle signore

Rainer Maria Rilke online D3c Un’immagine allucinata della grande città I quaderni di Malte Laurids Brigge

Luigi Pirandello online D3d I pensieri di Mattia Pascal nella metropoli milanese Il fu Mattia Pascal

6 Nuovi mondi 51 David Livingstone online

D4 L’emozionante scoperta delle cascate Vittoria The Last Journal of David Livingstone in Central Africa

7 Joseph Conrad e Cuore di tenebra: uno sguardo inquieto sull’Africa del colonialismo 51

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INDICE

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Cuore di tenebra 52 PER APPROFONDIRE I romanzi di avventura nei nuovi mondi 52 Joseph Conrad

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D5 La “tenebra” del colonialismo EDUCAZIONE CIVICA Cuore di tenebra

SGUARDO SUL CINEMA Apocalypse now

53

8 I modelli di comportamento 54 La crisi della concezione romantica dell’amore Emancipazione femminile e nuova immagine della donna: femministe e “donne fatali”

54 55

EDUCAZIONE CIVICA

La battaglia per i diritti delle donne 56

Una donna di Sibilla Aleramo: un romanzo proto-femminista online D6 La visione anti-idealistica dell’amore

56

Camillo Boito online

D6a Il credo materialistico di un anatomista Un corpo

Lev N. Tolstoj online

D6b La dissacrazione dell’amore coniugale La sonata a Kreutzer

D7 Nuove immagini della donna Sibilla Aleramo D7a La presa di coscienza di una donna

57 EDUCAZIONE CIVICA

57

Una donna cap. XXII

Charles Baudelaire online

D7b La donna-vampiro I fiori del male XXXI

9 L’identità e la condizione degli intellettuali nell’età del progresso 59 Il conflitto fra intellettuali e società Gli scrittori italiani verso nuove identità

59 59

Charles Baudelaire

D8 L’aureola perduta

60

Lo spleen di Parigi. Poemetti in prosa, XLVI

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 62 1 Positivismo e evoluzionismo 62 PER APPROFONDIRE Una teoria scandalosa: l’inquietante parentela tra l’uomo e la scimmia

63

Charles Darwin online

D9 Una conclusione indiscutibile L’origine dell’uomo

2 Gli sviluppi dell’evoluzionismo 63 PER APPROFONDIRE L’antropologia criminale di Lombroso

64

3 Il marxismo 65 4 Nietzsche e la teoria dell’“oltreuomo” 66 Friederich Nietzsche online

D10 Io vi insegno il superuomo! Così parlò Zarathustra

3 Generi e forme della letteratura 67 1 Dalla formazione delle nuove generazioni alla crisi degli ideali risorgimentali 67 INDICE

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2 Naturalismo/simbolismo-decadentismo: due tendenze letterarie vicine nel tempo 68 La rivoluzione poetica in Francia 69 La poesia di Pascoli e D’Annunzio 69 Il primato del romanzo 69 La narrativa naturalista e il realismo psicologico russo 70 La narrativa verista 70 Il modello del romanzo estetizzante, i romanzi di D’Annunzio e Fogazzaro 71

4 Una lingua per una nazione 72 74

LIBRI, LETTORI, LETTURA

Lo sviluppo dell’editoria moderna in Italia 74 PER APPROFONDIRE Milano, capitale dell’editoria online

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D11 Gli scrittori e il mercato editoriale Emile Zola

online

D11a Zola Il denaro ha creato la letteratura moderna Il romanzo sperimentale

Ugo Ojetti online D11b D’Annunzio L’«appetito sentimentale della moltitudine» e l’editoria moderna Intervista ARTE NEL TEMPO

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Le poetiche del vero tra Italia e Francia 76 Un pretesto per studiare la luce: la pittura impressionista di Monet 77 Sintesi con audiolettura 78 Zona Competenze 79 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Per approfondire Le rivoluzionarie scoperte in campo medico-biologico La fortuna del personaggio di Salomè I volti nuovi del femminile

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Video I volti nuovi del femminile: femmes fatales e suffragette

1 Modelli educativi e comportamentali per una giovane nazione 81 1 La letteratura al servizio di una giovane nazione:

Cuore e Pinocchio 82

1 Cuore: un libro di successo 83 Edmondo De Amicis T1 Una “scena madre” dal sicuro effetto

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VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

86

2 Carlo Collodi e Pinocchio 87 Carlo Collodi T2 La lezione di vita del grillo parlante

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Stefano Jossa Cuore: il libro degli italiani

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online

Sintesi con audiolettura 92 Zona Competenze 92 Sguardo sul cinema Pinocchio tra letteratura e cinema

2 La Scapigliatura 93 1 Gli scapigliati tra ribellione e ricerca 94 1 La reazione alla crisi degli ideali risorgimentali e romantici 94 PER APPROFONDIRE La bohème 96

2 I protagonisti 98 D1 Identikit degli scapigliati

98

Cletto Arrighi

online

D1a Una casta sui generis... vero pandemonio del secolo La Scapigliatura e il 6 febbraio

Emilio Praga D1b Preludio

99

Penombre

Iginio U. Tarchetti online

T1 Il gusto del macabro Disjecta, Memento

Arrigo Boito

online

T2 Lezione di anatomia COLLABORA ALL’ANALISI Il libro dei versi

3 La narrativa scapigliata 101 I principali filoni tematici in ambito narrativo

101

Camillo Boito

online

T3 Il credo materialistico di un anatomista Un corpo

L’analisi dei lati oscuri della psiche: Iginio Ugo Tarchetti

102

Iginio Ugo Tarchetti

T4 Il primo incontro con Fosca

103

Fosca online

T5 Tra pietà e orrore Fosca

L’espressionismo scapigliato: Carlo Dossi

107

Carlo Dossi online

T6 Una lingua sperimentale LEGGERE LE EMOZIONI L’altrieri, Panche di scuola, I

online

Sintesi con audiolettura 109 Zona Competenze 109

Per approfondire Dossi e la «linea lombarda» Video La parte finale del film di Visconti si può vedere su YouTube

Dal romanzo di Tarchetti il regista Ettore Scola ha preso ispirazione per il film Passione d’amore (1981) Collabora all'analisi Il libro dei versi

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3 Giosue Carducci 110 1 Ritratto d’autore 112 1 Il poeta-professore vate dell’Italia unita 112

2 Le raccolte poetiche 116 Giosue Carducci D1 Congedo

118

Rime nuove

T1 Dinanzi alle Terme di Caracalla EDUCAZIONE 120 CIVICA Odi barbare, IV online

T2 Visione Rime nuove, LX

T3 Pianto antico

124

Rime nuove, XLII

online

T4 Presso una Certosa Rime e ritmi, XXVIII

T5 Alla stazione in una mattina d’autunno

126

Odi barbare, XXIX INTERPRETAZIONI CRITICHE

Mario Martelli È la poesia che svela la realtà

129

online

Sintesi con audiolettura 130 Zona Competenze 130 Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Audio

4 Charles Baudelaire e la nascita della poesia moderna 131 1 Il padre della poesia moderna 132 1 Una vita sregolata 132 2 I fiori del male 133 3 Baudelaire: ultimo dei romantici o padre dei moderni? 134 PER APPROFONDIRE Leopardi e Baudelaire

136

Charles Baudelaire online

T1 Al lettore I fiori del male, Spleen e ideale

T2 L’albatro LEGGERE LE EMOZIONI 138 I fiori del male, Spleen e ideale, II

T3 Corrispondenze

140

I fiori del male, Spleen e ideale, IV

T4 Spleen

142

I fiori del male, Spleen e ideale, LXXVIII

online

T5 Il cigno

I fiori del male, Quadri di Parigi, LXXXIX

Sintesi con audiolettura 144 Zona Competenze 144

14

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online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Per approfondire Baudelaire e il Quarantotto I «paradisi artificiali» e gli artisti Audio Charles Baudelaire L’albatro (lettura in lingua originale) Charles Baudelaire Correspondances (lettura in lingua originale)

158

Charles Baudelaire Spleen (lettura in lingua originale) Traduzioni a confronto L’albatro nella traduzione di Bernard Delmay, Antonio Prete, Luigi De Nardis, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

5 Ritrarre il vero: il Naturalismo e il Verismo 145 1 Il Naturalismo 146 1 La fondazione del Naturalismo 146 Edmond e Jules de Goncourt online

D1 Il diritto-dovere di dare spazio nel romanzo alle classi popolari Prefazione a Germinie Lacerteux

2 Il maestro del Naturalismo: Émile Zola 148 PER APPROFONDIRE Il caso Dreyfus e il coraggioso articolo di Zola

150

Émile Zola

D2 Progresso scientifico e romanzo sperimentale ANALISI PASSO DOPO PASSO 151 Il romanzo sperimentale online

D3 Personaggi «privi di libero arbitrio» Thérèse Raquin

T1 Nanà, protagonista di un mondo degradato EDUCAZIONE 153 CIVICA L’Assommoir online

T2 Un’orgia plebea

online

T3 L’immagine simbolica del treno in corsa

Germinale, parte III, cap. 2 La Bestia umana

3 Il realismo amaro di Maupassant 158 Guy de Maupassant online T4 L’ipocrisia e la grettezza dei ceti dominanti Boule de suif

2 Il Verismo italiano 159 1 La divulgazione del modello naturalistico 159 2 Luigi Capuana 161 Luigi Capuana online

D4 Verga maestro dell’arte dell’impersonalità

3 Federico De Roberto 162 Una visione disperata della storia: I Viceré Federico De Roberto T5 La campagna elettorale di Consalvo Uzeda

163 164

I Viceré, III, IX

3 Oltre il Verismo 168 1 La reazione al documentarismo verista 168 2 Antonio Fogazzaro 168 Antonio Fogazzaro online

T6 Ricerca di conforto in sedute spiritiche Piccolo mondo antico

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Un romanzo di atmosfere arcane: Malombra

170 Antonio Fogazzaro T7 «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice» COLLABORA ALL’ANALISI 171 Malombra, parte I, cap. v

3 Grazia Deledda 176 T8 La Sardegna tra mito e antropologia

178

Grazia Deledda

T8a Una terra arcaica e favolosa

178

Canne al vento, cap. I

Michela Murgia online

T8b Le maledizioni dell’accabadora EDUCAZIONE CIVICA Accabadora

online

Sintesi con audiolettura 181 Zona Competenze 182 Sguardo sul cinema L'ufficiale e la spia Mario Soldati interprete di Fogazzaro Interpretazioni critiche Realismo e denuncia sociale in Zola Verso l'esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivoargomentativo su tematiche di attualità.

Video Intervista al regista Roberto Faenza sulla trasposizione cinematografica da lui diretta de I Viceré. La scena del ritrovamento della lettera si può vedere su YouTube Per approfondire Il romanzo parlamentare

6 Il romanzo realista in Europa 183 1 Uno sguardo critico sull’Inghilterra dello sviluppo capitalistico:

il romanzo di Charles Dickens 184 Charles Dickens

online

T1 La “città del carbone” EDUCAZIONE CIVICA Tempi difficili

2 Realismo epico e romanzo di introspezione psicologica in Russia 188 Lev Tolstoj

186 Lev Tolstoj T2 Il contadino-soldato Platon ANALISI PASSO DOPO PASSO 188 Guerra e pace l. IV, prima parte, cap. XIII

Fëdor Dostoevskij

192

Fëdor Dostoevskij T3 I diritti degli “uomini straordinari”: il credo inquietante di Raskòlnikov

194

Delitto e castigo

online

Sintesi con audiolettura 199 Zona Competenze 199

16

Per approfondire Tolstoj e Gandhi La tecnica dello straniamento: Cholstomer Sguardo sul cinema I temi dostoevskijani nei film di Woody Allen: Crimini e misfatti e Match Point

Verso l'esame di Stato Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra

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7 Giovanni Verga 200 1 Ritratto d’autore 202 1 Un siciliano trapiantato a Milano 202 PER APPROFONDIRE Verga e la fotografia online

D1 Verga e Milano

online

D1a «La grand’aria è la vita di una grande città»

online

D1b Per essere veri bisogna guardare da «una certa distanza»

205

Giovanni Verga Lettera a Luigi Capuana Lettera a Luigi Capuana

2 La poetica e l’ideologia 207 Verga preverista La svolta verista e la poetica dell’impersonalità Una visione della vita pessimistica e fatalistica

207 207 210

PER APPROFONDIRE Verismo vs Naturalismo: Verga e Zola a confronto

211

D2 Dichiarazioni teoriche

212

Giovanni Verga

D2a L’“eclissi” dell’autore

212

Prefazione a L’amante di Gramigna online

D2b La lotta per la vita

Lettera del 21 aprile 1878 a Salvatore Paola Verdura

D3 Una novella “manifesto” tra ideologia e poetica: Fantasticheria 214 Vita dei campi

D4 La presentazione del Ciclo dei vinti e il tema del progresso EDUCAZIONE 221 CIVICA I Malavoglia, Prefazione

2 La nascita di un grande novelliere: Vita dei campi 224 1 La lunga fedeltà a un genere: Verga e la novella 224 2 Vita dei campi 225 I temi

Giovanni Verga T1 Rosso Malpelo

online

225 EDUCAZIONE CIVICA

T2 Cavalleria rusticana

227

EDUCAZIONE CIVICA

3 I Malavoglia 240 1 Le circostanze di composizione 240 2 La vicenda e la struttura 241 3 Il sistema dei personaggi e i luoghi dell’azione 242 4 Il “documento” di un mondo che sta scomparendo 244 5 Le tecniche narrative e le scelte stilistico-linguistiche 245 Giovanni Verga

T3 Presentazione della famiglia Toscano 248 online T4 Alfio e Mena online T4a L’amore alla finestra online T4b Ragioni economiche e convenzioni sociali prevalgono sui sentimenti T5 Addio alla casa del nespolo LEGGERE LE EMOZIONI 251 T6 L’insoddisfazione di ’Ntoni 254 T7 Sradicamento 258 PER APPROFONDIRE La conclusione problematica del romanzo

262

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

La conclusione dei Malavoglia: Russo vs Luperini 262 Luigi Russo La chiusa dei Malavoglia 262 Romano Luperini A proposito della religione della famiglia 263

4 Itinerario verghiano 264 1 Le Novelle rusticane 264 Giovanni Verga T8 La roba 266 online T9 Malaria T10 Libertà 271

2 Dopo le Rusticane 276 Giovanni Verga online

T11 Tentazione! Novelle sparse

3 Mastro-don Gesualdo: il romanzo della “roba” 277 Giovanni Verga T12 Il dramma interiore di un “vinto”

T13 La morte di Gesualdo

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

282

288

5 La fortuna di Verga 301 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Guido Baldi La “regressione” di Verga

302

Sintesi con audiolettura 304 Zona Competenze 307 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 308 Giovanni Verga La Lupa Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 311 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 312 Gallery Verga e la fotografia

Video e Audio www.rossomalpelofilm.it

Per approfondire Il Ballo Excelsior: una rappresentazione allegorica del mondo moderno Metamorfosi di una novella: Cavalleria rusticana a teatro Il racconto di Verga e i fatti storici della rivolta di Bronte

Verso il Novecento Il vigatese di Andrea Camilleri Sguardo sul cinema La terra trema di Visconti

8 Il teatro tra Ottocento e Novecento 313 1 La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 314 1 Verso il teatro moderno 314 2 Il teatro borghese: dalla rappresentazione realistica dei costumi sociali allo svelamento delle “verità nascoste” 316 3 I grandi maestri del teatro europeo tra Ottocento e Novecento 317

18

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Henrik Ibsen

317

Henrik Ibsen online D1 Un interno borghese Casa di bambola

T1 La ribellione di Nora EDUCAZIONE 319 CIVICA Casa di bambola, atto III

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità August Strindberg August Strindberg online

327 327

T2 Una scena naturalista? La signorina Julie

Anton Čechov

328

Anton Čechov T3 Un mondo che finisce online T3a L’inettitudine di Liubov e Gaiev

330

Il giardino dei ciliegi, atto II

online

T3b Il giardino dei ciliegi cambia proprietario Il giardino dei ciliegi, atto III

George Bernard Shaw

330

4 Il panorama italiano 331

online

Sintesi con audiolettura 333 Zona Competenze 334 Per approfondire Il metodo Stanislavskij: verso la moderna recitazione

L’immagine del “giardino dei ciliegi” nell’interpretazione di Strehler

9 Decadentismo, Simbolismo, Estetismo 335 1 Il Decadentismo: un’etichetta controversa 336 2 Il Simbolismo 338 1 Verso la poesia moderna: la rivoluzione poetica in Francia 338 2 Arthur Rimbaud 340 Arthur Rimbaud

online

D1 Il poeta deve farsi veggente Lettera del veggente

T1 Vocali

342

3 Paul Verlaine 343 Paul Verlaine

online

D2 Languore

Jadis et naguère

Paul Verlaine D3 Arte poetica online

344

T2 Piange dentro il mio cuore Romanze senza parole

4 Stéphane Mallarmé 346 T3 Il viaggio come simbolo della creazione poetica

347

Arthur Rimbaud

online

T3a Il battello ebbro

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19

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Stéphane Mallarmé

online

T3b Brindisi

3 L’Estetismo 348 1 Una tendenza del gusto e un fatto di costume 348 2 I romanzi dell’Estetismo 349 Huysmans e A ritroso

349

Joris-Karl Huysmans

T4 L’artificio contro la natura

351

A ritroso, cap. II

Oscar Wilde e Il ritratto di Dorian Gray

353

PER APPROFONDIRE Un processo scandaloso

354

Oscar Wilde

online

D4 Aforismi per i giovani Frasi e filosofie ad uso dei giovani

T5 Il tema del “doppio” e la filosofia dell’Estetismo

355

Il ritratto di Dorian Gray, cap. XI

Robert Louis Stevenson online T6 Un celebre caso di “sdoppiamento”: Jekyll e Hyde Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

PER APPROFONDIRE Il tema del “doppio”

358

online

Sintesi con audiolettura 359 Zona Competenze 359 Per approfondire I «paradisi artificiali» e gli artisti Il simbolismo e la poesia italiana tra Ottocento e Novecento Dai preraffaelliti a Walter Pater: verso l’Estetismo

Il doppio e il cinema Audio Paul Verlaine, Art poétique (lettura in lingua originale)

10 Giovanni Pascoli 360 1 Ritratto d’autore 362 1 Una vita segnata dall’ossessione dei ricordi 362 PER APPROFONDIRE Un’interpretazione psicoanalitica

364

2 La concezione dell’uomo e la visione del mondo 366 Il tema della violenza primitiva e l’utopia della fratellanza Una concezione antipositivistica della realtà online D1 Il mistero indecifrabile della condizione umana

366 367

Giovanni Pascoli

online

D1a Una trasparente allegoria del mistero della vita

online

D1b Mezzanotte

online

D1c Un gatto nero

Primi poemetti, II libro Myricae Myricae

3 La poetica 369 PER APPROFONDIRE Alle radici del “fanciullino” pascoliano: possibili fonti e consonanze

20

370

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Giovanni Pascoli D2 Il poeta “fanciullino” Il fanciullino I, III, XI

EDUCAZIONE CIVICA

371

4 L’ideologia sociale e politica 375 Giovanni Pascoli

online

D3 La via ferrata Myricae

PER APPROFONDIRE Pascoli poeta “vate”

376

Giovanni Pascoli

online

D4 La siepe

online

D5 «La grande Proletaria si è mossa» EDUCAZIONE 423 CIVICA

Primi poemetti

Discorso a Barga

2 Temi e forme della poesia pascoliana 377 1 Un’opera sincronica 377 2 L’universo tematico della poesia pascoliana maggiore 377 3 La sperimentazione stilistica 380 4 Myricae 382 Giovanni Pascoli T1 Lavandare LEGGERE LE EMOZIONI 384 T2 X agosto LEGGERE 385 LE EMOZIONI online T3 Alba T4 Novembre 388 T5 Patria 389 T6 Temporale 390 T7 Il tuono 391 T8 L’assiuolo 392

5 I Canti di Castelvecchio 395 Giovanni Pascoli T9 Il gelsomino notturno 396 online T10 La mia sera T11 Nebbia COLLABORA ALL’ANALISI 399

6 I Poemetti 400 Giovanni Pascoli online

T12 Nella nebbia T13 Digitale purpurea LEGGERE LE EMOZIONI 402 T14 Italy EDUCAZIONE 406 CIVICA SGUARDO SUL CINEMA Nuovomondo, il film

410

EDUCAZIONE CIVICA

La difficile condizione dell’emigrante 411 Giovanni Pascoli online

T15 La vertigine

7 L’inquieto classicismo pascoliano e l’attualizzazione dell’antico 413 Poemi conviviali T16 La reinterpretazione delle figure del mito e dell’antichità classica

413 414

Giovanni Pascoli

online

T16a L’ultimo viaggio

Poemi conviviali, L’ultimo viaggio, canto XXIII, vv. 1108-1158

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21

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online

T16b Alexandros Poemi conviviali

Carmina

414

3 Pascoli e il Novecento 415 1 Dal “poeta per le scuole elementari” all’audace sperimentatore 415 2 L’influenza di Pascoli sulla lirica novecentesca 416 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Romano Luperini 418 Un nuovo ruolo per il poeta

Sintesi con audiolettura 420 Zona Competenze 421 VERSO L'ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario Giovanni Pascoli Dall’argine Tipologia B Analisi e interpretazione di un testo argomentativo Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Video Visita alla Casa Museo Giovanni Pascoli di Castelvecchio Pascoli

422

423 425

Per approfondire Una lettera di Pasolini al suo docente di letteratura italiana Carlo Calcaterra

Interpretazioni critiche Giuseppe Nava Pascoli e il simbolismo europeo

11 Gabriele D’Annunzio 426 1 Ritratto d’autore 428 1 Alla ricerca di una vita inimitabile 428 PER APPROFONDIRE Un brillante cronista mondano PER APPROFONDIRE D’Annunzio e le donne PER APPROFONDIRE D’Annunzio eroe di guerra Gabriele D’Annunzio online D1 Il bisogno del superfluo di un esteta squattrinato Lettera a Maffeo Sciarra online

429 430 432 EDUCAZIONE CIVICA

D2 «Beati quelli che hanno vent’anni»: D’Annunzio superuomo-tribuno Orazione per la Sagra dei Mille (Discorso di Quarto) VII

2 Tra ideologia e poetica 433 Tra estetismo e superomismo

434

PER APPROFONDIRE D’Annunzio imprenditore di sé stesso Gabriele D’Annunzio D3 «Il verso è tutto»: una celebre dichiarazione di poetica

435 437

Il piacere, II, I

online

D4 Le stirpi canore

online

D5 Laus vitae

Alcyone

Laudi, I, vv. 1-21; 43-84

22

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D6 Il compito dei poeti

439

Le vergini delle rocce

2 D’Annunzio prosatore e drammaturgo 442 1 Gli esordi: nel nome di Verga 442 Gabriele D’Annunzio online

T1 L’Abruzzo primordiale di Terra vergine Terra vergine

2 D’Annunzio romanziere 442 3 Il piacere: il romanzo dell’estetismo 443 Gabriele D’Annunzio

T2 Ritratto di un «giovine signore italiano del XIX secolo» ANALISI PASSO DOPO PASSO 447 Il piacere I, II

T3 Tra Elena e Maria: l’immagine della «terza Amante ideale» LEGGERE LE EMOZIONI 452 Il piacere III, III

4 «O rinnovarsi o morire»: dai romanzi “alla slava” al Trionfo della morte 455 Giovanni Episcopo L’innocente Trionfo della morte

455 455 456

SGUARDO SUL CINEMA L’innocente, di Luchino Visconti Gabriele D’Annunzio online T4 Autoanalisi e ossessione funebre

456

Trionfo della morte II, XX

T5 Ritratto di Ippolita, la Nemica

459

Trionfo della morte V, II online

T6 Giorgio Aurispa e Nietzsche Trionfo della morte V, III

5 I romanzi del superuomo 461 Le vergini delle rocce Il fuoco Forse che sì forse che no

461 461 462

6 L’“altro” D’Annunzio e l’esplorazione dell’“ombra” 464 Il Notturno Gabriele D’Annunzio T7 Le prime parole tracciate nelle tenebre Notturno online

T8 La morte del cane

online

T9 «Qui giacciono i miei cani»

464 LEGGERE LE EMOZIONI

465

Libro segreto

Versi d’amore e di gloria

7 D’Annunzio e il teatro 468 La figlia di Iorio

469

Gabriele D’Annunzio

online

T10 Il parricidio EDUCAZIONE CIVICA La figlia di Iorio atto II, scene VII-VIII

3 D’Annunzio poeta 471 1 Dall’esordio alle opere del periodo romano 471 INDICE

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Gabriele D’Annunzio T11 Nuovo messaggio

473

Poema paradisiaco online

T12 Consolazione Poema paradisiaco

2 ll progetto delle Laudi 475 PER APPROFONDIRE La “strofe lunga” Gabriele D’Annunzio T13 «Alba delle città terribili» Laudi, Maia, vv. 295-315

EDUCAZIONE CIVICA

476 477

3 Alcyone 478 Gabriele D’Annunzio T14 La sera fiesolana

481

PER APPROFONDIRE Il “francescanesimo” di D’Annunzio

484

T15 Il tema della metamorfosi

485

Gabriele D’Annunzio

T15a La pioggia nel pineto LEGGERE LE EMOZIONI 485 T15b Stabat nuda Aestas 490 PER APPROFONDIRE D’Annunzio e il mito

492

Gabriele D’Annunzio T15c Meriggio 493 online

T16 Il mito di Icaro

4 L’influenza e l’eredità di un poeta di successo 498 INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Giorgio Bàrberi Squarotti vs Giulio Ferroni Giorgio Bàrberi Squarotti Le ragioni della sperimentazione dannunziana Giulio Ferroni Un abile camaleontismo funzionale al mercato

500 502

Sintesi con audiolettura 505 Zona Competenze 506 VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Gabriele D’Annunzio Nella belletta

507

Alcyone

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

24

Per approfondire Il Vittoriale Interpretazioni critiche Renato Barilli La svolta narrativa del Piacere

507 508

Sguardo sul cinema «Un erede moderno di Andrea Sperelli» Analisi testuale

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Primo Novecento Scenari socio-culturali L’età della crisi e le avanguardie

511

Sguardo sulla storia

512

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 514 1 La crisi della visione democratico-progressista e l’avanzare del nazionalismo 514 2 Un’epoca dominata dal culto della velocità 514 Gabriele D’Annunzio D1 Una nuova epica: il volo dei primi aeroplani

516

Forse che sì, forse che no

3 La metamorfosi dell’idea del tempo 518

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 519 1 L’antipositivismo e i nuovi modelli di pensiero 519 Bergson e il tempo-durata Freud e la rivoluzione psicoanalitica

519 520

PER APPROFONDIRE Da teoria contestata a codice culturale chiave del Novecento Sigmund Freud online D2 È necessario ammettere l’esistenza dell’inconscio

521

Metapsicologia

2 La cultura antipositivistica in Italia 522 Il neoidealismo di Croce. L’arte come “intuizione pura” L’inquieto irrazionalismo delle riviste fiorentine

522 522

Benedetto Croce

online

D3 Gli effetti rovinosi dell’irrazionalismo Storia d’Italia dal 1871 al 1915

3 Generi e forme della letteratura 525 Il Futurismo italiano e le avanguardie 525 La poesia italiana del primo Novecento: “crepuscolari” e “vociani” 525 Il grande romanzo europeo della “crisi” 525 La narrativa di Pirandello, Svevo e Tozzi 526 Il teatro 526

4 L’evoluzione della lingua 527 LIBRI, LETTORI, LETTURA

L’editoria alla conquista di un pubblico nuovo 528 ARTE NEL TEMPO

Il superamento della mimesi 529

online

Sintesi con audiolettura 530 Zona Competenze 530 Per approfondire Cinema e psicoanalisi

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25

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12 Le avanguardie 531 1 Caratteri delle avanguardie 532 2 Il Futurismo 534 Filippo Tommaso Marinetti T1 «Il coraggio, l’audacia, la ribellione...»

537

Manifesto del Futurismo

T2 Una poetica d’avanguardia

540

Manifesto tecnico della letteratura futurista

T3 Un esempio di paroliberismo: Correzione di bozze + desideri in velocità

543

Parole in libertà, Zang tumb tuuum

online

T4 Bombardamento Zang tumb tuuum

Valentine de Saint-Point T5 Ogni donna deve possedere «delle qualità virili»

EDUCAZIONE CIVICA

544

Manifesto della donna futurista

Vladimir Majakovskij

online

T6 La guerra è dichiarata Corrado Govoni D1 Una poesia “visiva”

546

Palombaro

Aldo Palazzeschi Aldo Palazzeschi T7 Lasciatemi divertire L’incendiario

547 LEGGERE LE EMOZIONI

548

PER APPROFONDIRE La cucina futurista

550

3 Le altre avanguardie 551 1 L’Espressionismo 551 Gottfried Benn

online

T8 Una lirica “crudele” Bella gioventù, Morgue, II

2 Il Dadaismo 552 Tristan Tzara D2 Un testo provocatorio sul far poesia

553

Per fare una poesia dadaista

3 Il Surrealismo 554 André Breton

online

D3 Segreti dell’arte magica surrealista Primo manifesto del Surrealismo

online

Sintesi con audiolettura 555 Zona Competenze 556 Gallery Il Futurismo, un movimento “totale” Sguardo sul cinema Il cinema espressionista

Immagine interattiva Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta

13 La poesia in Italia nel primo Novecento 557 1 I crepuscolari: una poesia con la “p” minuscola 558 1 Sergio Corazzini 561

26

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Sergio Corazzini D1 Desolazione del povero poeta sentimentale

561

Piccolo libro inutile

2 Marino Moretti 564 Marino Moretti

online

T1 A Cesena LEGGERE LE EMOZIONI Il giardino dei frutti

2 Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 565 1 Una vita insidiata dalla malattia 565 2 Temi e costanti stilistiche della poesia di Gozzano 566 Il libro dei Colloqui: una moderna Vita nuova

566

Guido Gozzano

online

T2 Alle soglie

I colloqui, strofe I e III

T3 La signorina Felicita, ovvero la felicità T4 Totò Merumeni online T5 L’ipotesi

569 580

Poesie sparse, vv. 111-154

3 I “vociani”. La poesia come vocazione di vita 584 1 I “vociani”: verso la modernità 584 Le principali caratteristiche della letteratura “vociana”

584

2 Clemente Rebora: un poeta espressionista 586 I Frammenti lirici

587

Clemente Rebora online D2 O poesia, nel lucido verso T6 O carro vuoto sul binario morto

588

3 Il Rimbaud italiano: Dino Campana 591 Un’esistenza tormentata I Canti orfici

591 593

Dino Campana

T7 Genova T8 La Chimera online T9 Sogno di prigione online

593

4 Camillo Sbarbaro: la poesia del disincanto 596 Pianissimo I temi e lo stile: tra Leopardi e Baudelaire verso Montale

596 597

Camillo Sbarbaro online

T10 Taci, anima mia T11 Talora nell’arsura della via

598

Sintesi con audiolettura 600 Zona Competenze 601 VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Camillo Sbarbaro Taci, anima stanca di godere Pianissimo

602

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online

Verso il Novecento “Piogge poetiche”… tra Verlaine, D’Annunzio, Moretti e Montale Audio Paolo Poli legge L’amica di nonna Speranza Interpretazioni critiche Eugenio Montale Montale interpreta il successo di Gozzano

online

Giorgio Bàrberi Squarotti La società borghese ripudia la poesia Documento critico Ardengo Soffici Come Campana vendeva i Canti orfici nei caffè Per approfondire Sebastiano Vassalli Ricercando Dino Campana Da Il più lungo giorno ai Canti orfici

14 La Grande Guerra: dal mito alla realtà

1 Dalla retorica all’orrore della guerra 1 Le giovani generazioni e la guerra T1 Il mito del sacrificio per la patria e la sua revisione critica Erich Maria Remarque T1a «Mentre essi continuavano a scrivere e parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi» Niente di nuovo sul fronte occidentale, 10

LEGGERE LE EMOZIONI

Luigi Pirandello

T1b Il dramma di un padre Novelle per un anno, Quando si comprende

T2 La guerra: una «divina necessità» Giuseppe Antonio Borgese T2a «Era il 31 luglio 1914» Rubè

T2b Verso il campo di battaglia Rubè

2 Gli intellettuali e la guerra Giovanni Papini T3 La provocatoria celebrazione futurista del «caldo bagno di sangue» Amiamo la guerra

Vladimir Vladimirovič Majakovskij

T4 Immagini futuriste per condannare la guerra La guerra è dichiarata

Piero Jahier

T5 Per chi morire Dichiarazione

Renato Serra T6 «Si ha voglia di camminare, di andare» Esame di coscienza di un letterato

3 La crudeltà e l’orrore della guerra T7 Il dramma dei soldati in trincea Clemente Rebora T7a La morte invocata Viatico

Giuseppe Ungaretti

T7b Diario di una notte in trincea Veglia

Federico de Roberto

T8 Una grande abbuffata immaginaria: il registro comico per raccontare la guerra La retata

SGUARDO SUL CINEMA La Grande Guerra al cinema

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online

Sintesi con audiolettura Zona Competenze Video e Audio www.centenario1914-1918.it

Per approfondire Immagini dal fronte: la Grande Guerra al cinema

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Emilio Lussu Il nemico da vicino

15 L’ombra del padre: Kafka e Tozzi 605 1 Il conflitto con la figura paterna: un tema centrale

nella letteratura del Novecento 606 PER APPROFONDIRE Il declino del Padre-normativo nella società moderna

606

1 Kafka e Tozzi: due scrittori con sorprendenti affinità 607

2 Franz Kafka 608 1 Un impiegato modello con la vocazione per la letteratura 608 2 La patologia dei rapporti familiari: La metamorfosi 609 PER APPROFONDIRE Praga mitteleuropea, città dell’ebraismo e della magia

T1 La trasformazione di Gregor

LEGGERE LE EMOZIONI

610

613

Franz Kafka online T1a Gregor diventa un insetto T1b La prima sortita di Gregor e la cacciata da parte del padre

613

3 Dal padre al tribunale interiore: Il processo 616 Franz Kafka T2 Il labirinto della giustizia online T3 L’esclusione di Josef K. online T3a L’arresto online T3b L’esecuzione

618

3 Federigo Tozzi 621 1 Una vita breve, dominata dall’“ombra” del padre 621 2 Tra eredità naturalista e sperimentalismo 622 3 Il romanzo della difficile maturazione: Con gli occhi chiusi 623 SGUARDO SUL CINEMA Con gli occhi chiusi, il film Federigo Tozzi online T4 Lo sguardo di Pietro T5 Il contrasto tra Pietro e il padre

624

625

4 Il romanzo dell’inettitudine: Il podere 627 Federigo Tozzi

online online

T6 L’inettitudine di Remigio T7 La crudele lotta per la vita

5 Le altre opere di Tozzi 628 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giacomo Debenedetti Kafka-Tozzi: il tema psicoanalitico del rapporto con il padre 629

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online

Sintesi con audiolettura 631 Zona Competenze 632 Per approfondire La cultura yiddish La metamorfosi come “antifiaba” Il chassidismo

Sguardo sul cinema Il film Delitti e segreti (1991), di Steven Soderbergh, è una libera rievocazione della vita e delle opere di Kafka Il processo di Orson Welles

16 Il romanzo europeo del primo Novecento 633 1 Il tema della crisi e della decadenza 634 1 Oltre il Naturalismo-Realismo 740 2 Caratteristiche del “nuovo romanzo” novecentesco 635 3 Thomas Mann, un testimone del Novecento 637 I temi della decadenza e della malattia T1 La morte a Venezia

638 639

Thomas Mann

T1a Presagi di morte online T1b Un’apparizione di bellezza seducente online T1c Sulla spiaggia online T1d Voglia di partire T1e L’inseguimento dell’amato

639

640

4 Marcel Proust: il romanzo della memoria 645 Il filo narrativo della Recherche Marcel Proust T2 L’esempio più celebre della “memoria involontaria” Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

online

646 LEGGERE LE EMOZIONI

649

T3 «Un essere extratemporale»: un “io” fuori dal tempo» Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato

5 James Joyce: il romanzo della “quotidianità” 653 L’Ulisse: un romanzo senza trama

654

James Joyce online T4 La mattina “qualunque” di Mr Bloom Ulisse

T5 Le libere associazioni di Molly Bloom

657

Ulisse

6 Virginia Woolf: il romanzo dell’interiorità 659 Virginia Woolf

T6 Un’“illuminazione” della signora Dalloway

662

La signora Dalloway

online

T7 Fiammiferi nel buio Al faro

SGUARDO SUL CINEMA The Hours: dal romanzo al film

664

7 Robert Musil: il romanzo-saggio 665 Robert Musil

T8 La casa dell’uomo senza qualità

668

L’uomo senza qualità

online

T9 Un’introduzione molto diversa dalle solite L’uomo senza qualità

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online

Sintesi con audiolettura 671 Zona Competenze 673 Per approfondire La letteratura mitteleuropea L’influenza di Nietzsche The Hours: dal romanzo al film Audio

Interpretazioni critiche Franco Moretti Stream of consciousness: evoluzione di una tecnica Sguardo sul cinema Luchino Visconti Morte a Venezia

17 Luigi Pirandello 674 1 Ritratto d’autore 676 1 «Un personaggio disajutato» 676 PER APPROFONDIRE Pirandello e la Sicilia

678

PER APPROFONDIRE Pirandello e il fascismo Andrea Camilleri online D1 Luigino «figlio cambiato»

679

Biografia del figlio cambiato

Luigi Pirandello

online

D2 Le ultime volontà di Pirandello Saggi, poesie, scritti vari

2 La “filosofia” pirandelliana 680 Luigi Pirandello

online

D3 «Ogni forma è la morte» Novelle per un anno, L’uomo solo, La trappola

3 La poetica umoristica 682 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Romano Luperini L’intellettuale moderno come coscienza critica 683 Luigi Pirandello D4 Vedersi vivere: l’esperienza della spersonalizzazione

684

L’umorismo

D5 La differenza tra comicità e umorismo

685

L’umorismo

D6 L’anti-idealismo dell’arte umoristica

686

L’umorismo

2 Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 688 1 Le novelle: dalla rivisitazione del Verismo al Surrealismo 688 PER APPROFONDIRE La distanza della narrativa pirandelliana da quella naturalista e verista

690

PER APPROFONDIRE Il discorso indiretto libero nella narrativa pirandelliana

690

Luigi Pirandello

T1 La carriola ANALISI PASSO DOPO PASSO Novelle per un anno, La carriola T2 Il treno ha fischiato LEGGERE LE EMOZIONI

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

691

698

Novelle per un anno, IV (L’uomo solo)

online

T3 Ciaula scopre la luna

online

T4 Fuga

online

T5 Una giornata: un racconto fantastico-simbolico

Novelle per un anno, Ciaula scopre la luna Novelle per un anno, Fuga

Novelle per un anno, Una giornata

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online

T6 La patente: dalla novella alla trasposizione teatrale La patente

2 I romanzi: un cammino sperimentale 706 I romanzi “siciliani”: da L’esclusa a I vecchi e i giovani Il fu Mattia Pascal: il manifesto della poetica umoristica I Quaderni di Serafino Gubbio operatore: il cinema come metafora della civiltà delle macchine

707 708 708

Luigi Pirandello

T7 Contro la civiltà delle macchine EDUCAZIONE 710 CIVICA online T8 Il finale «silenzio di cosa» di Serafino VERSO IL NOVECENTO La sfida del lavoro

713

Luigi Pirandello

T9 La tigre e Serafino Uno, nessuno e centomila: dal romanzo all’antiromanzo online

714

Luigi Pirandello EDUCAZIONE T10 La scoperta dell’estraneo LEGGERE 715 CIVICA LE EMOZIONI online T11 La dissoluzione di ogni forma nel flusso vitale della natura

PER APPROFONDIRE L’immagine dello specchio

718

3 Il fu Mattia Pascal 719 1 La genesi e le vicende editoriali del romanzo 719 2 Il titolo, l’intreccio, il protagonista-narratore 719 3 Le caratteristiche narrative e le scelte stilistiche 722 PER APPROFONDIRE L’ossessione del doppio

722

Luigi Pirandello

T12 Mattia Pascal “cambia treno”: la fine del “primo romanzo” T13 Nascita e morte di Adriano Meis: il “secondo romanzo” T13a Mattia Pascal diventa Adriano Meis online T13b Il “suicidio” di Adriano Meis T14 Un «filosofo in pantofole», portavoce dell’autore T14a «Lo strappo nel cielo di carta» T14b La “filosofia del lanternino” T15 La conclusione del romanzo

online

724 724 729 729 731 734

4 Maschere nude: un teatro antitradizionale 736 1 Pirandello e il teatro 736 2 Dalla scelta naturalistica del dialetto alle commedie umoristiche 736 3 Il teatro “nel teatro” / Il teatro “sul teatro” 739 Sei personaggi in cerca d’autore 739

4 La follia in scena: Enrico IV 741 5 Dal pirandellismo al “teatro dei miti” 742 Luigi Pirandello

online

T16 Una conclusione paradossale e umoristica Il giuoco delle parti, atto III, scena III

T17 Una scena irrappresentabile EDUCAZIONE 745 CIVICA Sei personaggi in cerca d’autore

T18 Follia e chiaroveggenza LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

752

Enrico IV, atto II

online

T19 «Non bisogna più ragionare»: l’approdo del teatro pirandelliano alla dimensione dell’irrazionale e del surreale I giganti della montagna, atto II

32

INDICE

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VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Luigi Pirandello L’umorista vede il mondo «per così dire, in camicia»

756

L’umorismo, VI

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 757

online

Sintesi con audiolettura 758 Zona Competenze 761 Per approfondire Pirandello e il cinema Pirandello e il viaggio in treno Mattia Pascal: solo un nome bizzarro? Il tema del doppio nel cinema Spiriti e personaggi: la lunga storia del “personaggio in cerca d’autore”

Interpretazioni critiche Renato Barilli, L’inettitudine di Mattia Mario Ricciardi, Un romanzo sperimentale Giovanni Macchia, Il teatro inquisizione Romano Luperini, L’ultimo Pirandello

18 Italo Svevo 762 1 Ritratto d’autore 764 1 Uno scrittore “europeo” 764 PER APPROFONDIRE La Mitteleuropa

766

2 La visione della letteratura e i modelli culturali 768 online

D1 Il significato della scrittura per Svevo

online

D1a Fuori della penna non c’è salvezza

online

D1b Si scrive per comprendersi meglio

online

D2 Psicoanalisi e letteratura LEGGERE LE EMOZIONI

online

D2a Freud serve più ai romanzieri che agli ammalati

online

D2b Perché curare la malattia che ci rende più umani?

Livia Veneziani Svevo Vita di mio marito Vita di mio marito

Italo Svevo

Lettere Lettere

2 I romanzi di Svevo: viaggio nella malattia dell’uomo moderno 771 1 Una vita 771 Italo Svevo

T1 Alfonso e Macario a confronto: l’inetto e il “lottatore” ANALISI PASSO DOPO PASSO LEGGERE LE EMOZIONI 773

2 Senilità 777 Italo Svevo T2 Il ritratto di Emilio Brentani online

T3 L’epilogo del romanzo

EDUCAZIONE CIVICA

LEGGERE LE EMOZIONI

780

3 L’“altro Svevo”: i racconti, le commedie, l’abbozzo di un nuovo romanzo 783

3 La coscienza di Zeno 785 1 La genesi dell’opera 785 2 Il romanzo della psicoanalisi 785 3 Il titolo, la struttura, il «tempo misto» 786

INDICE

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PER APPROFONDIRE Un riassunto “d’autore”: Montale sintetizza La coscienza di Zeno 788

4 Zeno: il personaggio e il narratore 789 5 I temi 790 PER APPROFONDIRE La teoria dell’“abbozzo” di uomo: un’interpretazione originale della teoria darwiniana

791

6 Le scelte stilistiche e linguistiche 792 PER APPROFONDIRE Il flusso di coscienza di Joyce e il monologo di Zeno

793

Italo Svevo

T4 La “cornice” 794 T5 Il fumo come alibi LEGGERE LE EMOZIONI 795 online T6 Zeno e il padre: un rapporto antagonistico T7 La scena dello schiaffo 798 online T8 Un sostituto paterno per Zeno: ritratto di Giovanni Malfenti T9 Salute e malattia: Zeno e Augusta COLLABORA ALL’ANALISI 801 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Sandro Maxia L’ironia come strumento necessario alla critica delle strutture e dei valori della società borghese di inizio Novecento 804 Italo Svevo

online online

T10 Un «atto mancato»: Zeno sbaglia funerale T11 La rinuncia alla psicoanalisi

Italo Svevo T12 «La vita attuale è inquinata alle radici»: un finale inquietante

EDUCAZIONE CIVICA

806

online

Sintesi con audiolettura 810 Zona Competenze 812 Per approfondire Un inedito “curriculum vitae” di Italo Svevo Cinema e psicoanalisi Psicoanalisi e umorismo ebraico: Zeno e Woody Allen

Interpretazioni critiche Bruno Maier Un antieroe borghese e Giovanna Benvenuti Zeno “cattiva coscienza” della borghesia

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 813 Italo Svevo Preambolo La coscienza di zeno

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 815

INDICE DEI NOMI 817 GLOSSARIO 820 INDICE DELLE RUBRICHE 828

34

INDICE

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Secondo Ottocento

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Secondo Ottocento

Scenari socio-culturali Positivismo e Decadentismo La seconda metà dell’Ottocento è l’epoca del mito del progresso, dell’entusiasmo per le scoperte scientifico-tecnologiche che cambiano radicalmente la vita quotidiana (dall’elettricità ai nuovi mezzi di trasporto). Alla visione idealistico-spiritualista dell’uomo e dell’amore si sostituisce il culto positivistico del sapere scientifico, una mentalità materialista; si formulano teorie a quel tempo sconvolgenti come l’evoluzionismo darwiniano. Sfondo della nuova cultura è la grande città (Parigi, Vienna, Milano) in cui operano gli intellettuali e di cui utilizzano le opportunità (legate al giornalismo e alla nascente industria editoriale), ma di cui colgono anche la spersonalizzazione alienante e la subordinazione dell’artista alle leggi del mercato. L’Italia partecipa al clima ideologico generale, ma è soprattutto impegnata a formare i cittadini della giovane nazione, con l’estensione di una lingua comune e di comuni modelli comportamentali, anche attraverso romanzi come Cuore e Pinocchio.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Generi e forme della letteratura 4 Una lingua per una nazione 3737

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Positivismo e Decadentismo Sguardo sulla storia L’Europa a cavallo di due secoli Dalla grande depressione alla seconda rivoluzione industriale Dopo un periodo di sviluppo economico e industriale in Europa si verifica una congiuntura negativa, la cosiddetta “grande depressione” (1873-1896). Le cause sono molteplici: fallimenti delle banche, carenza di capitali per le imprese, concorrenza delle merci provenienti dagli Stati Uniti. Ne derivano disoccupazione, agitazioni sociali e flussi migratori, con ripercussioni sulle politiche dei governi che adottano misure protezionistiche. La successiva ripresa è indicata dagli storici come “seconda rivoluzione industriale”: si affermano l’industria siderurgica e dell’acciaio, nuove fonti di energia (elettricità, petrolio) e nuovi sistemi di lavoro (catena di montaggio). Il nuovo colonialismo Negli ultimi decenni dell’Ottocento la penetrazione europea in Asia e Africa assume un ritmo accelerato e da espansione commerciale si trasforma in conquista militare. L’espansione è dominata da una concorrenza aggressiva tra le potenze coloniali: alle motivazioni economiche si aggiungono le mire politiche, che fanno delle colonie un elemento di prestigio.

Cronologia interattiva

1861

1870

Proclamazione dell’Unità d’Italia.

La battaglia di Sedan.

1866

1871

Guerra austroprussiana e annessione del Veneto all’Italia.

1860

1865

Roma capitale d’Italia.

1870

1870

1861

Vittorio Emanuele II re d’Italia.

Guerra francoprussiana e fine dell’impero di Napoleone III.

1878

Il congresso di Berlino stabilisce le aree di dominio coloniale delle potenze europee.

1875

1880

1874

Papa Pio IX con il decreto Non expedit vieta ai cattolici la partecipazione alla vita politica.

38 Secondo Ottocento  Scenari socio-culturali

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La nascita del movimento operaio Tra gli operai delle fabbriche nascono i partiti socialisti (ispirati al pensiero di Marx) e le prime associazioni con l’obiettivo di rivendicazioni economiche. Il papa Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum esprime la visione della Chiesa cattolica sulla “questione sociale”.

L’età delle nazioni Prussia e impero autro-ungarico In questa fase storica il contesto europeo è dominato dall’ascesa della Prussia, protagonista di un notevole sviluppo industriale e impegnata a realizzare militarmente l’unificazione della Germania (1866-1871) sotto la guida politica del cancelliere Bismarck. L’impero austro-ungarico, sconfitto nel 1866, è ridotto da potenza europea a potenza locale e rivolge la sua attenzione ai domini nei Balcani. Francia La volontà di predominio europeo della Francia di Napoleone III si scontra con il progetto di unificazione tedesca. La guerra franco-prussiana si conclude con la disfatta francese e la caduta dell’impero (1870). La breve esperienza, repressa nel sangue, della Comune di Parigi propone un modello di governo ispirato ai princìpi socialisti. Inghilterra All’avanguardia nello sviluppo industriale, dopo la conquista dell’India (1858), l’Inghilterra ha il controllo del commercio mondiale e pratica una rigorosa astensione dalle vicende europee, privilegiano l’espansione coloniale. Due nuove potenze sulla scena mondiale Dopo la guerra civile (1861-1865) l’economia degli Stati Uniti cresce in modo straordinario: a fine Ottocento si verificano grandi trasformazioni economiche e sociali che creano un elevato benessere, anche se permangono aree di miseria. In Giappone l’apertura al commercio internazionale avvia un rapidissimo processo di industrializzazione.

1886

1892

Sconfitta dell’esercito italiano a Dogali.

1880

1885

Nascita del Partito dei lavoratori che diventerà il Partito socialista italiano.

1890

1898

I sanguinosi scontri di Milano.

1895

1900

1887

La battaglia di Dogali. 1878

Il congresso di Berlino. 1898

Il generale Bava Beccaris reprime i moti popolari. 1891

Il papa Leone XIII promulga l’enciclica Rerum Novarum.

1896

Sconfitta ad Adua dell’esercito italiano contro l’Etiopia.

Sguardo sulla storia  39

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L’Italia: dalla Destra storica all’ascesa di Mussolini La Destra storica La guida dell’Italia unita è assunta dalla Destra storica: costituita da esponenti delle forze liberali moderate, affronta il risanamento delle finanze pubbliche, ma l’aumento della pressione fiscale colpisce i ceti poveri e radicalizza le differenze sociali esistenti. La formazione di un mercato nazionale aumenta il divario tra il Nord, più industrializzato e con un’agricoltura moderna, e il Sud, dove dominano i latifondi. Nelle regioni meridionali il brigantaggio ottiene adesioni dai settori della popolazione più colpiti dalle misure economiche e dalla nuova leva militare. La dura repressione nei suoi confronti accentua il distacco dei ceti subalterni rispetto allo Stato unitario. Le successive tappe dell’unità: il Veneto e Roma L’annessione del Veneto (1866) è il risultato della partecipazione dell’Italia alla guerra austro-prussiana a fianco della Prussia. Nel 1870 la sconfitta della Francia a opera della Prussia crea le condizioni per la conquista di Roma. I rapporti con la Santa Sede vengono regolamentati con la legge delle guarentigie (1871). Il papa Pio IX con la formula del non expedit (“non conviene”, 1874) esorta i cattolici ad astenersi dalla vita politica italiana. La Sinistra storica Nel 1876 la Destra storica viene battuta alle elezioni dalla Sinistra che si fa portavoce degli interessi di settori della borghesia aperti a riforme sociali e a innovazioni economiche. Per contrastare l’isolamento politico viene stretta la Triplice alleanza con Germania e Austria (1882). In campo coloniale, è avviata la conquista della Somalia, che si conclude però con una pesante sconfitta a Dogali (1887). Il tentativo di costituire un dominio coloniale viene perseguito dal governo Crispi: sostenitore del progetto di uno stato forte, ordina la repressione degli scioperi operai e contadini (1893). La sconfitta ad Adua (1896) contro l’Etiopia determina la sua fine politica. La svolta autoritaria di fine secolo Il decollo industriale e la crisi economica degli anni Novanta danno impulso alla nascita e alla diffusione degli ideali socialisti. Nel 1898, in occasione delle proteste contro il carovita, a Milano il generale Bava Beccaris fa sparare con i cannoni sulla folla dei manifestanti.

Achille Beltrame, Episodio dei moti rivoluzionari alla Foppa, 1900 ca. (Civiche raccolte storiche, Milano).

40 Secondo Ottocento  Scenari socio-culturali

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1 In occasione della prima Esposizione Universale di Londra, nel 1851, venne costruito il cosiddetto Crystal Palace (“Palazzo di cristallo”), un enorme edificio in ferro e vetro, il cui interno è qui riprodotto in una stampa d’epoca.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura Due linee di tendenza Il secondo Ottocento può essere distinto, con qualche semplificazione, in due momenti, seppur assai ravvicinati nel tempo o addirittura in alcuni casi sovrapponibili, a cui corrispondono, almeno tendenzialmente, differenti linee culturali. • Nei primi decenni del secondo Ottocento domina il mito ottimistico del progresso, alimentato da rilevanti scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche di enorme portata, si affermano una visione progressista e ideologie politico-sociali influenzate dal marxismo. Il modello culturale imperante è il positivismo, che da un lato estende a ogni ambito della conoscenza il metodo sperimentale della scienza, e dall’altro respinge ogni riferimento alla trascendenza religiosa e alla metafisica in quanto ambiti astratti, non indagabili razionalmente perché non fondati sull’esperienza. Sul piano letterario domina nettamente la tendenza realistica, che trova la sua piena affermazione nel movimento naturalista e, in Italia, nel verismo. • Già verso il 1880 irrompono nuove inquietudini: gli intellettuali tendono a vedere i risvolti negativi del progresso e della civiltà di massa. Si diffondono rapidamente la sfiducia negli strumenti razionali e la reazione al materialismo scientista, alimentata da nuovi modelli di pensiero che si contrappongono al modello positivistico. Alla prospettiva sociologica, prediletta dai naturalisti, si affianca e tende in breve tempo a sostituirsi l’esplorazione di differenti campi tematici e di nuove dimensioni (dalla preminenza della dimensione estetica, all’interesse per l’occulto e il fantastico, allo scavo nell’interiorità). In ambito letterario, alla tendenza realista si affiancano e tendono a subentrare il simbolismo e l’estetismo. Tutti questi aspetti sono stati convenzionalmente raggruppati dalla critica italiana sotto l’etichetta generica di “decadentismo” (➜ C9).

1 Il progresso e la modernità: nuovi miti per la collettività Un’età di grandi innovazioni L’età del positivismo (che in Italia corrisponde ai primi decenni che seguono la raggiunta unità politica della nazione) vede la massima affermazione della borghesia, sia a livello economico (è la fase del capitalismo industriale) sia a livello politico. In un ristretto arco di tempo avvengono scoperte scientifiche straordinarie e si realizzano grandi innovazioni tecnologiche. Grazie ad esse (e anche, più in generale, ai cambiamenti politico-sociali), vengono sconvolti modi di vita e schemi di comportamento. Per la generazione di fine Ottocento la vita è assolutamente incomparabile non solo con quella dei nonni, ma anche con quella dei padri. È allora logico che si svaluti (come già era avvenuto nell’età dell’illuminismo) il passato come fonte di valori e come guida per l’azione e si esalti il futuro, la modernità e il progresso.

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PER APPROFONDIRE

La pubblicizzazione del progresso tecnologico: le Esposizioni universali La nuova età è simbolicamente annunciata dalle due grandi Esposizioni universali di Londra (1851) e di Parigi (1855): in esse viene esibito il trionfo della tecnica e dell’industria e inizia a diffondersi anche tra le masse, attraonline verso manifesti e slogan pubblicitari, il mito del progresso D1 Federico De Roberto Contro il mito del progresso scientifico e il culto della modernità. Nel 1881 anche in Italia L’imperio, cap. IX si svolge la prima Esposizione nazionale.

Belle Époque Il termine Belle Époque (“l’epoca bella”) è coniato in Francia, a Parigi, ed è frutto della nostalgia e idealizzazione di un’epoca considerata felice, “bella” appunto, quale appare alla generazione che vive l’esperienza traumatica della guerra e una grave crisi economica e di valori. Tale periodo “felice” riguarda gli anni dal 1870-80 appunto al 1914, anno dello scoppio della guerra: un periodo in cui domina un senso di euforica fiducia nel futuro, il dinamismo economico, una vita, almeno per alcuni ceti privilegiati, gaudente, favorita anche dalla lunga assenza di guerre in Europa.

È un periodo fiorente, anche grazie ai nuovi mercati extraeuropei che incrementano le possibilità di arricchimento. Regna la vita mondana, si estende il lusso, all’etica del dovere dominante per secoli tende a sostituirsi il diritto al piacere. I grandi progressi scientifico-tecnologici trasformano la vita, rendendola più comoda, il benessere economico e le esigenze del mercato moltiplicano i consumi a cui iniziano ad accedere anche i ceti medi. Si diffondono i viaggi lussuosi, i grandi alberghi per la ricca aristocrazia e l’alta borghesia, emergono località termali famose e di villeggiatura come la Costa Azzurra. Prospera la vita nottura, a Parigi, la ville lumière, “la città delle luci” simbolo della Belle Époque, si diffondono i caffè concerto, i cabarets, i locali di divertimento come il celebre Moulin Rouge. Ma è anche il periodo in cui regna il cosmopolitismo e la collaborazione tra le nazioni: ne è un indice evidente la prima edizione nel 1896 delle Olimpiadi moderne. Lo scoppio della prima guerra manderà in frantumi questo mondo dorato e aprirà la strada in Europa al tragico tempo delle dittature.

Eadweard Muybridge, Corsa di un cavallo, 1887. Queste immagini furono realizzate grazie a una serie di apparecchi a scatto automatico e rappresentano un passaggio intermedio fra fotografia e cinematografo.

2 L’avanzata vittoriosa della scienza e della tecnologia

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Per approfondire Le rivoluzionarie scoperte in campo medico-biologico

Il medico e lo scienziato: due nuovi modelli umani Il mito del progresso e l’affermazione della cultura positivistica che caratterizzano la seconda metà dell’Ottocento sono motivati innanzitutto dalle numerosissime scoperte nel campo della chimica e della fisica; ma soprattutto rilevanti per l’opinione pubblica furono i progressi nel campo delle scienze biologiche e nella medicina. Di conseguenza la figura del medico, in generale dello scienziato, assume una posizione di primo piano nella considerazione sociale e costituisce un vero e proprio modello umano, che ricorre in molti racconti del tempo. Non a caso nella poetica del naturalismo francese persino il romanziere si atteggia a medico-scienziato e adotta uno sguardo clinico nella diagnosi dei comportamenti umani. L’illuminazione elettrica Negli ultimi decenni dell’Ottocento si diffonde nelle città e nelle abitazioni l’illuminazione elettrica, che è forse il più vistoso dei simboli del progresso: modifica infatti in modo radicale le abitudini di vita e la stessa percezione del trascorrere del tempo (è annullata la naturale distinzione tra giorno e notte).

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Il telegrafo Le ricerche sull’elettricità avevano consentito allo statunitense Samuel Morse di creare fin dal 1837 il telegrafo. Alla fine del secolo (1896) Guglielmo Marconi mette a punto il telegrafo senza fili e nel 1901 invia per la prima volta segnali via onde radio attraverso l’Atlantico. Il telefono Un’altra invenzione destinata a cambiare radicalmente la vita quotidiana e il costume è il telefono, ideato negli anni Settanta (ma occorrerà attendere alcuni decenni perché penetri nel costume). Si tratta di uno strumento capace di abbattere a vastissimo raggio le barriere spaziali e che, una volta affermatosi su vasta scala, costituirà un potente mezzo di omogeneizzazione delle classi sociali. La fotografia Una straordinaria innovazione tecnica che ebbe grande influenza sul costume e anche in campo artistico fu la fotografia. Realizzata nel 1839 da Louis Daguerre (da qui il termine dagherròtipo con cui fu inizialmente battezzata), la fotografia ebbe crescente fortuna nel corso dell’Ottocento contendendo alla pittura il privilegio di fissare il volto di personaggi (celebri i ritratti fotografici di Baudelaire realizzati dal fotografo Nadar) e di riprodurre realisticamente ambienti, categorie sociali, eventi. Per tutto l’Ottocento la fotografia si propone obiettivi essenzialmente documentari; solo in seguito diventerà anche una forma d’arte, un linguaggio autonomo. Nel primo Novecento l’uso della fotografia si diffonde anche tra i ceti meno abbienti: ci si reca dal fotografo per immortalare nozze, nascite, gruppi di famiglia. In Italia il più celebre studio fotografico fu quello dei fratelli Alinari a Firenze, che inizia a ritrarre il volto sociale, architettonico e paesaggistico della nazione. Un appassionato fotografo dilettante fu Giovanni Verga: lo scrittore catanese si dedica alla fotografia (ritrae il mondo contadino siciliano) per le stesse esigenze di ricerca realistica che ispirano la sua poetica (➜ C7). Il cinematografo Nel 1895 nasce il cinematografo, ad opera dei fratelli Lumière. Dopo pochi decenni, da semplice intrattenimento curioso (destinato in origine a divertire il pubblico delle fiere e dei luna park), il cinema diventa una nuova forma d’arte e al contempo un’industria vera e propria, in particolare negli Stati Uniti, dove nascono grandi case cinematografiche ancora oggi attive, come la Metro-Goldwyn Mayer. Inizialmente il cinema è muto e la proiezione delle immagini in movimento (in greco kínema significa appunto “movimento”) è accompagnata da un pianista; il sonoro nascerà solo nel 1927. Nei gusti del pubblico di massa il cinema è destinato nel tempo a soppiantare il teatro: la sala cinematografica è più accessibile e livella classi ed età, non essendoci infatti sezioni diverse per i diversi spettatori, come nel teatro, rito aristocraticoborghese per eccellenza.

Scienza e tecnologia a fine Ottocento ottimismo per il futuro scoperte scientifiche

progresso tecnologico

mito del progresso

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3 Un nuovo modo di viaggiare Il treno Particolarmente rilevanti nella trasformazione della mentalità, per la loro forte incidenza sulla vita quotidiana, sono le innovazioni che riguardano i trasporti, a cominciare dalla prima, e di più forte impatto: il treno. Se fino alla metà dell’Ottocento ci si spostava usando i cavalli (o addirittura a piedi), nella seconda metà del secolo si diffonde la ferrovia (la prima linea ferroviaria viene creata verso il 1830 in Inghilterra per collegare i due maggiori centri dell’industria tessile inglese, Liverpool e Manchester). In Italia la prima linea ferroviaria nasce nel 1839: fino al 1861 lo sviluppo della rete segna il passo, per poi fare un grande balzo in avanti: da 8000 km nel 1870 a 18.500 nel 1905. Già alla fine del secolo in quasi tutta Europa il treno diventerà mezzo di trasporto per tutti, consentendo di viaggiare in modo più comodo e più rapido. Il treno e l’immaginario letterario La costruzione di ferrovie è destinata a modificare fortemente il paesaggio e a incidere sulla vita quotidiana in modo rilevante; non stupisce dunque che il treno e il viaggio in treno verso la fine dell’Ottocento diventino uno dei temi o delle situazioni a cui la letteratura fa più spesso riferimento: dal drammatico racconto lungo di Lev Tolstoj La sonata a Kreutzer (➜ D6b ) ai numerosi racconti dello scrittore naturalista Guy de Maupassant (tra gli altri Boule de suif (➜ C5 T4 OL); In viaggio, Casa Tellier, In treno). Addirittura un intero romanzo di Zola, La bestia umana (1890) si svolge nel mondo della ferrovia (sul quale Zola si era scrupolosamente documentato) e la locomotiva diventa un vero e proprio personaggio (➜ C5 T3 OL). La comparsa della ferrovia in genere non suscita entusiasmo fra scrittori e intellettuali, ma per lo più sconcerto e critiche. Uno dei rari esempi contrari è Carducci che, nell’Inno a Satana (composto nel 1863), fa del treno non solo il simbolo del progresso, dell’avanzata della modernità, ma addirittura della ragione e della libertà di pensiero trionfanti sull’oscurantismo religioso. Nei primi tempi la ferrovia è vista come una novità minacciosa, che sconvolge radicalmente il paesaggio e la vita dell’uomo. Per primi i romantici inglesi (in particolare i cosiddetti poeti “laghisti”) e tedeschi esprimono sgomento e addirittura orrore di fronte alla deturpazione del paesaggio creata dalla ferrovia (e più in generale dall’industrializzazione). Nell’immaginario dell’Ottocento tutto ciò che concerne la ferrovia tende a contrapporsi, in quanto “artificiale”, “brutto”, addirittura “mostruoso”, al mondo armonioso della natura: l’ode La via ferrata (1878) del poeta scapigliato Emilio Praga si apre proprio con un “addio” alla pace serena della campagna minacciata dall’irrompere della ferrovia (➜ D2a ). In relazione al treno e al mondo ferroviario, assai presto si diffondono immagini metaforiche di segno negativo, che poi ricorreranno frequentemente nei decenni successivi: la locomotiva è spesso identificata in un mostro infuocato e fumante. Quando ormai la ferrovia si è radicata anche in Italia, Verga ne dà una raffigurazione particolarmente negativa nella novella Malaria (➜ C7 ): il treno che corre nella piana assolata di Catania, oppressa dalla malaria, è il simbolo dell’indifferenza del progresso alle sorti del singolo, ma anche dell’inconciliabilità fra mondo arcaico del Sud e mondo moderno. Nell’opera di Pirandello il tema del viaggio in treno sarà molto presente: svolge ad es. un ruolo centrale nella vicenda di Mattia Pascal e ricorre almeno in una ventina di novelle. Conterraneo di Verga, Pirandello ne condivide la visione pessimistica: al mondo ferroviario è quasi sempre associata nella sua opera una simbologia angosciosa e negativa.

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D2

Treni e ferrovie nell’immaginario letterario Le differenti rappresentazioni del treno e della ferrovia fornite da questi testi possono dare un’idea di quanto il nuovo mezzo di trasporto abbia colpito l’immaginario di scrittori e intellettuali. Il treno e la sua corsa del resto si prestano facilmente ad assumere significati simbolici, come si può vedere nei testi proposti.

Emilio Praga

D2a

La strada ferrata Trasparenze

E. Praga, Trasparenze, in La poesia scapigliata, a c. di R. Carnero, Rizzoli, Milano 2007

Emilio Praga (1839-1875), uno dei maggiori poeti scapigliati (➜ C2), nella lunga ode La strada ferrata (1877) rappresenta la ferrovia in modo problematico e sostanzialmente ambiguo.

Addio, bosco di frassini ombrosi, ondeggianti campagne di biade! del villaggio tranquille contrade 4 dove giuocano i bimbi al mattin. Addio, pace de’ campi pensosi, solitarie abitudini1, addio; l’operaio sul verde pendìo 8 già distende il ferrato cammin2. La metrica Quartine di decasillabi con schema ABBC; l’ultimo verso è tronco e rima con l’ultimo della strofa successiva. Dal v. 97 alla fine le strofe sono invece di sei versi.

1 solitarie abitudini: riferimento all’a-

2 l’operaio... cammin: si allude alla messa

bitudine di passeggiare da soli in campagna.

in opera dei binari (ferrato cammin) su una verde collinetta.

Concetti chiave Nella prima parte dell’ode la ferrovia è vista in modo negativo, attraverso il punto di vista degli umili, dei contadini, sgomenti e impauriti dalla novità, che sconvolge con rumori inconsueti la pace del paesaggio agreste, le tranquille attività agricole. Nella seconda il poeta assume invece la missione civile di spiegare ai contadini ignoranti che il treno porterà progresso, lavoro, civiltà. Alla fine però prevale un atteggiamento di malinconia di fronte alla fine di ogni bellezza che l’avanzata del progresso inevitabilmente comporta. L’ode si apre con un “addio” a un passato di pace e di serenità agreste.

Claude Monet, La stazione di Saint-Lazare, 1877 (Fogg Museum, Cambridge, Stati Uniti).

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Giosue Carducci

D2b G. Carducci, Levia gravia e Inno a Satana, in Poesie, Zanichelli, Bologna 1931

Inno a Satana In questi versi dell’Inno a Satana (pubblicato nel 1863 con lo pseudonimo di Enotrio Romano) Giosue Carducci rappresenta la corsa della locomotiva come simbolo dell’avanzata del progresso e della libertà di pensiero contro l’oscurantismo religioso. Dall’anticlericalismo giovanile del poeta toscano deriva la provocatoria (e discutibile) equiparazione tra la modernità, di cui la locomotiva è l’emblema, e il trionfo di Satana, emblema della libertà del pensiero.

[…] Un bello e orribile mostro si sferra1, corre2 gli oceani, 172 corre la terra: corusco e fumido3 come i vulcani, i monti supera 176 divora i piani; sorvola i baratri; poi si nasconde per antri incogniti4, 180 per vie profonde; ed esce; e indomito di lido in lido come di turbine 184 manda il suo grido5, come di turbine l’alito spande; ei passa6, o popoli, 188 Satana il grande. Passa benefico di loco in loco su l’infrenabile 192 carro del foco7. Salute, o Satana, o ribellione, o forza vindice8 196 de la ragione! […]

La metrica Quartine di quinari, sdruccioli e piani alternati. 1 Un bello... si sferra: Carducci allude appunto alla locomotiva che si slancia fuori dalla stazione (si sferra) per iniziare il suo viaggio. 2 corre: percorre, attraversa (transitivo). 3 corusco e fumido: fiammeggiante e fumante. 4 antri incogniti: caverne sconosciute; qui si allude alle gallerie. 5 il suo grido: il fischio che segnala il passaggio della locomotiva. 6 ei passa: passa lui, insieme alla locomotiva. 7 carro del foco: la locomotiva è mitizzata attraverso l’associazione con il carro del Sole mitologico. 8 vindice: vendicatrice.

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Concetti chiave Carducci e il treno

Il breve stralcio qui proposto del lungo Inno a Satana evidenzia una tendenza ricorrente nella rappresentazione del treno, cioè la sua trasformazione in essere vivente, che viene addirittura divinizzato nell’immagine di ascendenza mitologica del carro del fuoco. Specifica di questo testo è la simbolizzazione del treno come immagine del trionfo della ragione nel mondo moderno, non più vittima della repressione religiosa. Può lasciare perplessi che la Ragione sia associata a Satana (a cui è dedicato l’Inno), ma la scelta è spiegabile nel clima ideologico dei primissimi anni dell’Unità, in cui Carducci assume, come altri intellettuali, posizioni fieramente avverse al potere temporale, e anche all’egemonia spirituale della Chiesa (non è un caso che Carducci ripubblichi l’Inno, con evidenti intenzioni polemiche, sul «Popolo di Bologna», l’8 dicembre 1869, il giorno dell’apertura del concilio Vaticano I). Anni dopo Carducci utilizza di nuovo, e con risultati artistici ben più convincenti, l’immagine del treno in una delle Odi barbare: Alla stazione, una mattina d’autunno (1875-1876). Il tono è però completamente diverso, addirittura opposto, rispetto alla trionfalistica esaltazione dell’Inno a Satana. La cosa non deve stupire: innanzitutto sono passati non pochi anni dall’intemperanza giovanile e dalle polemiche anticlericali che traspaiono dall’Inno, e inoltre l’occasione che ispira Alla stazione è del tutto privata e associata a un momento doloroso della vita di Carducci: in un malinconico clima autunnale il poeta prende congedo dalla donna amata, che sta per partire in treno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Per ogni testo ( D2a e D2b ) sintetizza l’idea espressa intorno al significato che assume la locomotiva, simbolo del progresso scientifico. ANALISI 2. Individua nel D2b : •  verbi, sostantivi, aggettivi riferiti al treno che lo rappresentano come una creatura vivente e motivane le scelte. •  gli espedienti retorici presenti nel testo, in particolare valuta l’effetto che le anafore producono. Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 10 righe).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Riesci a rintracciare nelle due quartine del testo D2a la presenza di un illustre modello? Per quale funzione l’autore impiega tale modello?

4 Il tempo e lo spazio Nuovi modi di misurare il tempo: ore uffciali Tra il 1880 e il 1914, vengono sconvolti i tradizionali parametri nel modo di esperire il tempo. Il grande incremento degli scambi commerciali e dei trasporti internazionali rende necessario stabilire un’ora ufficiale mondiale (basti pensare che nel 1870 solo negli Usa c’erano 80 differenti ore ferroviarie, con i disguidi che si possono immaginare). Nel 1884 rappresentanze di 25 paesi convenute a Washington stabilirono come meridiano fondamentale quello di Greenwich, divisero la terra in 24 fusi orari separati da un’ora e fissarono un inizio preciso del giorno universale. Si trattava, come è facile immaginare, di una svolta epocale. Un’altra pietra miliare nella misurazione del tempo, destinata a incidere in modo rilevante sulla mentalità e i comportamenti, sarà l’invenzione dell’orologio elettrico moderno (1916): fino a quel momento gli orologi non potevano dare la percezione dello scorrere del tempo, come invece fa la seconda lancetta dell’orologio elettrico che, in un modo a quei tempi certo sconvolgente, lo visualizza.

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Lo spazio tentacolare della metropoli moderna Il modello positivistico, i nuovi valori comportamentali e le nuove forme dell’immaginario dal secondo Ottocento al primo Novecento hanno a che fare innanzitutto con l’ambiente della città, che non a caso costituisce lo sfondo prediletto della narrativa (ma a volte anche della poesia) dal secondo Ottocento al primo Novecento. Le grandi città hanno ormai il volto di vere e proprie metropoli: in particolare, Londra passa nel XIX secolo da uno a sei milioni di abitanti; anche se non nella stessa misura, crescono enormemente anche Parigi, Berlino, Vienna (➜ I LUOGHI DELLA CULTURA, Due grandi centri culturali di riferimento: Parigi e Vienna, PAG. 49), comincia a emergere New York, che diventerà poi, nell’immaginario collettivo, l’emblema della città moderna. Quasi dappertutto vengono demoliti i vecchi quartieri medievali per creare grandi spazi, arterie viarie adatte a un traffico caotico di carri, carrozze e poi automobili; per agevolare gli spostamenti sono costruite le prime metropolitane. Si costruiscono grandi mercati, come Les Halles di Parigi, sorgono i primi grandi magazzini (➜ PER APPROFONDIRE, I grandi magazzini, OL) prima a Parigi e poi in Inghilterra e a New York. Le nuove abitazioni si sviluppano anche in verticale: in particolare negli Stati Uniti, già alla fine dell’Ottocento, l’invenzione dell’ascensore consente di creare costruzioni che svettano arditamente nel cielo, i grattacieli appunto.

Interno dei grandi magazzini “Au bon marché” di Parigi in una stampa del 1876.

Camille Pissarro, Boulevard Montmartre, 1898 (National Gallery, Londra).

5 Gli scrittori e la città moderna Strettissimo in particolare è il legame fra la poesia di Baudelaire e la metropoli parigina, un legame ambivalente, di amore-odio. Se Baudelaire nei Quadri parigini associa a Parigi un’immagine di alienazione, di squallore e di tristezza (come in Il crepuscolo del mattino), la «città brulicante, piena di sogni» (I sette vecchioni), è al contempo per lui fonte vitale di ispirazione. Ispirata a Baudelaire, ma con un’esasperazione quasi espressionistica dei particolari, è l’allucinata descrizione che D’Annunzio nel XVI canto del poema Maia (1903) dedica alle moderne “città terribili”, regno di un’umanità degradata, preda del vizio e della lussuria.

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I LUOGHI DELLA CULTURA

Due grandi centri culturali di riferimento: Parigi e Vienna Parigi Nella seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento cuore della cultura europea è Parigi, ritratta nei romanzi e anche nella poesia, in particolare di Baudelaire, in cui il volto della città è evocato in relazione alla folla e alla solitudine del poeta in mezzo a essa, motivo poi ricorrente nella poesia novecentesca. Alla fine dell’Ottocento Parigi assume il volto di una moderna capitale grazie alla grandiosa ristrutturazione operata da George E. Haussmann (1809-1891) che sostituisce alle medievali stradine tortuose del centro i grandi boulevards a cui si ispireranno altre capitali europee. Parigi ospita due memorabili Esposizioni universali, nel 1889 e 1900: grandiose vetrine del

mito del progresso, attraevano milioni di visitatori che potevano ammirare le meraviglie dell’innovazione tecnica e scientifica. Per l’Esposizione del 1889 fu edificata la Tour Eiffel, prodigio della tecnica del tempo (320 metri in altezza, 15.000 pezzi di profilato di ferro), divenuta il più celebre simbolo della città. La presenza di caffè letterari, di riviste, di teatri, di gallerie d’arte fa di Parigi un polo di attrazione per gli intellettuali delle più varie provenienze: vi approdano, tra gli altri, anche artisti italiani come Ungaretti, Savinio, Modigliani, De Chirico, mentre Marinetti lancerà sul quotidiano «Le Figaro» il proclama del suo movimento futurista.

La sequenza fotografica assembla le fasi progressive (10 agosto 1887-12 marzo 1889) della costruzione della Tour Eiffel.

Vienna Verso la fine dell’Ottocento e nel primo Novecento, sullo sfondo del lento declino dell’impero asburgico, Vienna conosce una straordinaria stagione culturale, in cui coesistono vitalità e creatività, il culto dell’eleganza e della vita mondana al ritmo dei valzer di Johann Strauss figlio, insieme alla sottile percezione della fine imminente di un mondo, che sarebbe poi stata rievocata da scrittori come Joseph Roth (1894-1939). Anche Vienna, come Parigi, è soggetta a un

imponente riassetto urbanistico: già nel 1865 viene creato il viale di circonvallazione del Ring, sono quindi costruiti il nuovo palazzo imperiale (Neue Hofburg) e il Teatro dell’Opera. Nel 1873 Vienna ospita un’Esposizione universale ben più grandiosa di quella di Parigi del 1867. Tra Ottocento e Novecento si viene a creare nella capitale della Felix Austria, come si diceva, un clima culturale affascinante e irripetibile, tra celebrazione di un grande passato e apertura sperimentale alla modernità. C’era un grande dinamismo di idee, un’intensa vita teatrale, inoltre la città ospita, accanto alle istituzioni culturali ufficiali, anche luoghi alternativi, come ad esempio il Cabaret Fledermaus, inaugurato nel 1907 in una zona periferica della città: qui il pittore Oskar Kokoschka presenta per la prima volta le sue opere. Operano a Vienna figure chiave del rinnovamento culturale europeo: Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, ha il suo studio nella Berggasse, il “Circolo di Vienna” (animato da filosofi e scienziati) elabora nuove teorie sulla natura del linguaggio e sulla logica, vi lavorano pittori come Gustav Klimt e Egon Schiele, si sviluppano movimenti d’avanguardia, nasce la musica moderna, da Mahler a Schönberg, padre della musica dodecafonica. Richard Moser, Veduta dell’Elisabethbrücke a Vienna, 1911.

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Per approfondire I grandi magazzini: dalla civiltà del “risparmio” alla civiltà dei consumi

Gli scrittori tendono ad associare la città moderna al progresso, sia nell’esaltazione incondizionata (sarà il caso dei futuristi ➜ C12) sia, ben più frequentemente, nell’interpretazione negativa di entrambi. La città moderna rende infatti particolarmente visibili le gravi contraddizioni sociali create dal progresso e dall’industrializzazione: il degrado dell’ambiente, la povertà dei ceti popolari, l’alienazione e la solitudine, dovute a rapporti umani più impersonali e agli stessi ritmi di vita innaturali. Già Balzac nel primo Ottocento e poi a metà del secolo Dickens (➜ C6) descrivono le difficili condizioni di vita delle classi sociali più umili nel contesto della città; la narrativa naturalista riprende ed enfatizza la rappresentazione critica dell’universo urbano in rapporto alla poetica realista e agli intenti di denuncia sociale propri del movimento naturalista (➜ C5), rivelando impietosamente l’involuzione dei valori e dei rapporti sociali che caratterizza la moderna città industriale. Anche Verga, giunto dalla Sicilia nella metropoli milanese in cerca di affermazione, una volta inserito nella vita cittadina, ha modo di conoscerne da vicino i risvolti negativi e di denunciarli, non diversamente dai naturalisti. Lo testimonia la raccolta Per le vie, scritta quasi contemporaneamente alle ben più note Novelle rusticane: innanzitutto la difficoltà per le classi popolari di vivere, al limite dell’indigenza, in un contesto nel quale i cambiamenti sono repentini, proprio per le innovazioni tecnologiche: è il caso del povero cocchiere di In piazza della Scala (1882) che attende nelle fredde sere invernali i pochi clienti (ormai ci sono gli omnibus e i tram). Nella raccolta verghiana la grande città è soprattutto folla anonima, assenza di vitali rapporti personali e di ogni forma di solidarietà. Anche nella letteratura del primo Novecento la città è scenario imprescindibile: dall’Ulisse di Joyce a molte liriche dei poeti italiani Rebora, Campana, Sbarbaro (➜ C13), nelle quali la città è uno scenario ostile, un deserto degli affetti. Alcuni anni dopo l’immagine della città torna come emblema di alienazione nel poemetto La terra desolata (1922) di Thomas Eliot.

L’ambiente cittadino a fine Ottocento la metropoli moderna

simbolo del progresso e delle sue contraddizioni

alienazione

degrado

online D3 I volti della metropoli D3a Luigi Capuana Un tempio per la civiltà moderna: la Galleria di Milano Milano 1881

D3c Rainer Maria Rilke Un’immagine allucinata della grande città I quaderni di Malte Laurids Brigge

D3b Émile Zola I grandi magazzini di Parigi, nuovi templi della modernità Al paradiso delle signore

D3d Luigi Pirandello I pensieri di Mattia Pascal nella metropoli milanese Il fu Mattia Pascal

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6 Nuovi mondi L’esplorazione dell’Africa e il colonialismo imperialistico Nella seconda metà del XIX secolo si amplia enormemente la conoscenza degli spazi del mondo: in particolare l’Ottocento è il secolo dell’Africa, il “continente nero”, di cui si conoscevano quasi esclusivamente le zone costiere e che ora viene esplorato anche al suo interno, attirando l’interesse delle grandi potenze europee. Gli ultimi due decenni dell’Ottocento, in rapporto alle esigenze economiche del capitalismo industriale, che necessitava di materie prime, di mano d’opera a basso costo e di nuovi mercati dove smistare i prodotti, vedono lo sviluppo di un nuovo tipo di colonialismo, che viene definito imperialistico. Il colonialismo imperialistico prevede la conquista territoriale di vaste zone dell’Asia e dell’Africa e il loro assoggettamento politico all’interno di grandi imperi coloniali. In questo processo è in testa l’Inghilterra (che estende il suo impero fino all’oceano Indiano, alla Malesia e all’Indonesia), seguìta in particolare dalla Francia e dal Belgio, che si spartiscono la maggior parte del continente africano. Parallelamente si affermano ideologie volte a sostenere la superiorità della razza bianca, che difendono il colonialismo come strumento necessario a diffondere in paesi ancora arretrati la “civiltà”, identificata nei modelli di vita e nella cultura dell’Occidente. Il fascino dell’esotico e il successo dei reportages di viaggi Man mano che l’“altrove” entrava in qualche modo a far parte dell’immaginario europeo, i lettori di fine Ottocento erano affascinati dalla dimensione dell’esotico. Hanno grande successo i romanzi di avventure ambientati in terre lontane (cfr Approfondimento), il giornalismo di viaggio, le memorie di personaggi che esplorano zone ancora online sconosciute del pianeta. Anche in Italia hanno molto successo gli articoli di viaggio D4 David Livingstone L’emozionante scoperta di Edmondo De Amicis, scrittore e giornalista (➜ C1), sopratdelle cascate Vittoria The Last Journal of David Livingtone tutto da luoghi esotici come il Marocco o Costantinopoli, in Central Africa l’odierna Istanbul.

Conrad e Cuore di tenebra: 7 Joseph uno sguardo inquieto sull’Africa del colonialismo La biografia Joseph Conrad (pseudonimo tratto dal suo vero nome: Józef Teodor Konrad Korzeniowski) nasce in Ucraina da una famiglia polacca di nobili origini nel 1857. Nel 1874 si imbarca a Marsiglia per la Martinica, iniziando una vita da marinaio che lo porta in giro per il mondo. Arriva a conseguire il grado di capitano della Marina britannica (nel 1886 aveva ottenuto la cittadinanza inglese) e con questo incarico nel 1888 compie un viaggio da Bangkok a Singapore, poi rievocato nel racconto lungo La linea d’ombra. Dal 1894 si dedica esclusivamente alla letteratura: scrive – in una limpida prosa inglese, che arriva a padroneggiare come fosse la lingua madre – oltre quaranta opere, alcune delle quali sono considerate tra i capolavori della narrativa del primo Novecento (Il negro del Narciso, 1898; Lord Jim, 1900; Cuore di tenebra, 1902; Tifone, 1902; Il compagno segreto, 1909; La linea d’ombra, 1916). Conrad ha lasciato anche molte pagine saggistiche. Muore nel 1924 in Inghilterra.

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Cuore di tenebra Il romanzo Cuore di tenebra [Heart of Darkness] di Joseph Conrad (1857-1924) è considerato dalla critica uno dei romanzi più importanti tra Ottocento e Novecento. Pubblicato nel 1902, è ispirato da un’esperienza autobiografica dell’autore, uomo di mare: nel 1890, per conto di una compagnia belga, su un piccolo battello a vapore aveva compiuto un avventuroso viaggio nel cuore dell’Africa lungo il fiume Congo. Da questa esperienza trae ambienti e personaggi per il suo romanzo. Un titolo enigmatico Cuore di tenebra è un libro affascinante e complesso, su cui le varie interpretazioni critiche che si sono succedute non sono riuscite a risolverne completamente gli enigmi. Il romanzo si presta infatti a diverse letture, ciascuna delle quali non esclude le altre; ci si è chiesto, prima di tutto, come interpretare il suggestivo titolo, quale valore simbolico attribuire all’espressione “cuore di tenebra”, anche tenendo conto del fatto che tenebra è la parola chiave ricorrente per tutto il romanzo.

PER APPROFONDIRE

La trama La voce narrante (oltre alla voce di un narratore anonimo) è quella di Charlie Marlow, un marinaio giramondo, che racconta la sua storia a un gruppo di marinai, imbarcati con lui, in attesa di risalire il Tamigi. Marlow racconta un viaggio lungo il Congo su un battello a vapore di cui aveva ottenuto il comando da una compagnia belga che trattava il commercio dell’avorio. Durante il viaggio Marlow vede scenari inquietanti, assiste sgomento a orribili scene di violenza dei bianchi colonizzatori sugli indigeni, finché giunge alla prima stazione fluviale centrale della compagnia. Qui il capo contabile gli parla di Kurtz, un agente di commercio di primo grado, uomo abile e capace, ma molto misterioso, di cui non si hanno più notizie da tempo. Affascinato dal personaggio, Marlow decide allora di andare alla sua ricerca, finché lo ritrova malato e preda della follia, adorato quasi come una divinità dagli indigeni che ne eseguono i comandi. Marlow, nono-

I romanzi di avventura nei nuovi mondi Nella seconda metà dell’Ottocento, in particolare in Inghilterra – la nazione che per prima aveva solcato gli oceani e aveva avviato la colonizzazione – nasce un filone narrativo incentrato sull’esperienza dell’esplorazione dei paesi extraeuropei e la colonizzazione. Accomuna quindi questo tipo di narrazione lo sfondo esotico: dall’India all’Africa, alla Malesia, ma diverse sono le prospettive con cui gli scrittori guardano a questi mondi lontani. Mentre in alcuni romanzi, come in quelli di Kipling, domina il senso dell’avventura in paesi affascinanti e misteriosi, accompagnato dalla fiducia nella missione civilizzatrice dell’uomo bianco, nell’opera di Conrad la prospettiva è un’altra: il mondo esotico, in particolare l’Africa, diventa simbolo del mistero insondabile del cuore umano e le esplorazioni sono l’occasione per una dura condanna dell’ideologia ipocrita che maschera le vere finalità del colonialismo. Kipling e il compito della civilizzazione Joseph Rudyard Kipling (1865-1936) nacque e visse gli anni dell’infanzia in India. Vi ritornò nel 1882 come giornalista e lì scrisse Il libro della giungla (1894) e Il secondo libro della giungla (1895) che hanno come protagonista Mowgli, un ragazzo indiano allevato nella giungla da un branco di lupi (comunemente sono considerati libri per l’infanzia, grazie anche alle versioni dei cartoni animati disneyani, ma è importante precisare che lo scrittore non aveva

certo pensato a questa destinazione). Ad essi segue Kim (1901) in cui si narra dell’educazione di un ragazzo, orfano di un’inglese e di un sergente irlandese, che come l’autore è nato e cresciuto in India. Sebbene nel libro si colga la convinzione della superiorità della razza bianca, a cui spetta «il fardello» (cioè il compito doveroso ma anche gravoso) della civilizzazione, Kipling mostra di apprezzare l’affascinante cultura indiana, i cui caratteri cerca di comprendere e analizzare spassionatamente, al contempo individuando gli aspetti comuni su cui si può reggere una comunità, come ad esempio la solidarietà. Salgàri e la dimensione esotico-avventurosa In Italia la dimensione esotico-avventurosa è rappresentata dall’opera di Emilio Salgàri (1862-1911), fecondo creatore (scrisse circa ottanta romanzi) di avventure esotiche e di personaggi come il Corsaro Nero, Sandokan con i suoi tigrotti della Malesia e Tremal-Naik, che incontrarono a lungo l’apprezzamento del pubblico, soprattutto giovanile. Le mirabolanti avventure di Sandokan o del Corsaro nero mettono al centro un eroe ribelle che si ritrova fuori della legalità per aver subito gravi torti e che lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia. Salgàri viaggiò soltanto con l’immaginazione, creando le sue storie avventurose nella “jungla nera” senza mai muoversi da Torino, la città in cui era nato e in cui visse sempre.

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stante egli si opponga, riesce a portarlo via. Sulla barca Kurtz muore ripetendo per due volte l’esclamazione «Che orrore!» in cui esprime il suo definitivo giudizio sulla sua avventura esistenziale che, mossa all’inizio dall’ambizione e da nobili motivazioni, lo ha portato a conoscere abissi di degradazione. Ritornato in Europa, Marlow consegna alla fidanzata di Kurtz un pacco di documenti affidatigli in punto di morte. Alla domanda della giovane donna di quali siano state le sue ultime parole, Charlie risponde che Kurtz ha pronunciato il suo nome, nascondendole la dolorosa verità. Un libro sul mistero dell’Africa L’Africa è un altro mondo, costituzionalmente “diverso”, nel quale il protagonista avverte di essere fuori posto, mentre gli indigeni bronzei con i loro corpi nudi ne fanno naturalmente parte. La natura stessa, con le pericolose risacche del fiume, sembra ostacolare l’approdo, respingere gli intrusi. In questo senso Cuore di tenebra è innanzitutto un libro sul mistero dell’Africa, su un mondo primordiale, estraneo e ostile alla civiltà. Un libro sugli orrori del colonialismo Cuore di tenebra è anche (e il racconto è stato spesso letto soprattutto in questa chiave) il mondo ottuso, ipocrita e violento del colonialismo europeo, di cui lo scrittore condanna in modo deciso in più punti del romanzo il razzismo, la crudeltà verso gli indigeni, trattati da nemici o addirittura da criminali, l’avidità rapace camuffata da missione civilizzatrice di progresso. Le tenebre, come simbolo di cinica ipocrisia, sono dunque annidate nel cuore stesso della civiltà occidentale che misconosce questo suo volto “nell’ombra” e proietta sulle altre culture la propria negatività. È un male dalle radici antiche: all’inizio del romanzo. infatti Marlow parla dei conquistatori romani della Britannia, le cui gloriose operazioni militari erano sopraffazioni, rapine, omicidi. Un libro sul lato oscuro dell’io Conrad delinea in modo preciso ambienti, situazioni e personaggi, ma la sua opera non può essere definita “realista”, per la costante attitudine a rappresentare la psicologia del profondo e a investire la rappresentazione di complessi significati simbolici. In Cuore di tenebra l’itinerario del protagonista-narratore si struttura nei termini canonici della partenza e del ritorno, entro cui vive un’esperienza di formazione segnata soprattutto dall’ambiguo personaggio di Kurtz, figura chiave del romanzo, anche se appare solo nell’ultima parte. Cercando Kurtz, che è circondato da un alone leggendario, Marlow cerca di penetrare il mistero dell’esistenza e della natura umana: in un viaggio che si configura come una vera e propria “discesa agli inferi”, Marlow incontra in Kurtz un “doppio” di se stesso, o di quello che potrebbe diventare. Kurtz è un superuomo, fiducioso nel progresso, che spinto da nobili motivazioni, poi ha scelto la regressione a un mondo pre-civile istintuale e maonline gico, in cui si appagano brame indicibili. Kurtz rappresenta il D5 Joseph Conrad La “tenebra del colonialismo” lato oscuro, la zona buia e affascinante degli istinti primordiali, Cuore di tenebra il “cuore di tenebra” che è nel profondo di ogni uomo.

Sguardo sul cinema Apocalypse now Nel 1979 Francis Ford Coppola firma Apocalypse now, film ispirato a Cuore di tenebra, ma che il regista statunitense ambienta nel 1969, durante la guerra del Vietnam, con Marlon Brando nel ruolo del colonnello disertore Kurtz, che nella giungla in Cambogia ha creato un suo regno in cui è conside-

rato un dio. Il film «utilizza il viaggio lungo il fiume (“un cavo elettrico che corre attraverso la guerra”) come una discesa visionaria nelle tenebre del cuore. […] È un’apocalittica odissea attraverso i vari tipi di follia della guerra e dell’uomo (la droga, la violenza, il sesso, il terrore)» (M. Morandini).

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8 I modelli di comportamento La crisi della concezione romantica dell’amore La visione organicistica e materialistica dell’uomo Il diffondersi delle conoscenze scientifiche, in particolare lo studio dell’ereditarietà, favorisce l’affermazione nella seconda metà dell’Ottocento di una visione laica, o addirittura materialistica, contrapposta alla visione romantica del mondo e dell’uomo: se il modello culturale del romanticismo era stato essenzialmente spiritualistico, ora l’essere umano è essenzialmente concepito come fisicità, come “organismo”: ne può essere esempio eloquente il racconto Un corpo, scritto da Camillo Boito, uno degli scrittori scapigliati (➜ D6a OL), in cui già il titolo forte e inconsueto allude al rovesciamento dell’idealismo e spiritualismo romantico . Il tramonto del mito romantico dell’amore La crisi dello spiritualismo e dell’idealismo romantico, l’affermazione della visione positivistica e il diffondersi delle conoscenze scientifiche trasformano il modo di concepire e di trattare il tema dell’amore: tramonta il mito della passione nobile, spirituale, esclusiva (com’è nel Werther di Goethe), attraverso cui chi ama scopre le misteriose profondità del proprio io e attinge addirittura all’assoluto (una visione che è propria del poeta tedesco Novalis ). L’identificazione amore-sesso Dell’amore si tende ora a cogliere soprattutto la fisicità, a illuminare il ruolo centrale del sesso. L’opera del grande poeta Charles Baudelaire (1821-1867) è tra le prime testimonianze della fine della visione romantica dell’amore: lo scrittore francese demistifica ogni forma di idealizzazione, illuminando impietosamente la schiavitù dei sensi e l’aggressività distruttiva che nella sua visione è sottesa a ogni relazione amorosa (➜ C4). La narrativa naturalista e verista, nell’ideazione dei soggetti e degli intrecci, dà molto spazio alla sessualità: ad esempio, nei racconti di Maupassant (➜ C5) il sesso è forse la molla principale dei comportamenti, mette in moto la macchina narrativa e diventa nel romanzo Bel-Ami (1885) lo strumento principale di cui cinicamente si serve per la sua scalata sociale il protagonista (un giornalista ambizioso, abile a destreggiarsi fra politica e affari e a manipolare a proprio vantaggio donne influenti). Nella narrativa naturalista la sessualità accomuna le classi, anche se nel caso dei più bassi strati sociali viene rappresentata essenzialmente come abbruttente appetito animalesco (come ad es. nella scena da Germinale di Zola). La cultura italiana è certo più tradizionalista rispetto al resto dell’Europa, ma risente comunque delle nuove tendenze: ad esempio la novella verghiana La Lupa (inclusa nella raccolta Vita dei campi, 1880; VERSO L’ESAME DI STATO, C7) introduce un soggetto decisamente scabroso per la morale del tempo e per più di una ragione: infatti, in primo luogo è una donna a nutrire desideri sessuali, in secondo luogo si tratta di una donna matura, e in terzo luogo essa rivolge le sue brame al giovane genero. Il tema dell’adulterio e la rappresentazione antidealistica del matrimonio Nella narrativa del secondo Ottocento anche il matrimonio è sottoposto a una dissacrante revisione critica: già di per sé la frequenza del tema dell’adulterio – a partire da Madame Bovary (1857) per arrivare a Anna Karenina (1873-77) e al meno noto Effi Briest (1895) del tedesco Theodor Fontane – testimonia la crisi del matrimonio e della sua idealizzazione. Una cruda demistificazione dell’amore coniugale e della relazione di coppia si ritrova nel racconto lungo di Lev Tolstoj (1887-1889) La sonata a Kreutzer (➜ D6b OL), un testo la cui tesi ancor oggi risulta sconvolgente: per il protagonista del

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racconto, l’amore non è altro che una veste seducente che nasconde il puro e semplice desiderio sessuale, una trappola di cui la natura si serve per autoperpetuarsi. Amore e patologia psichica Le suggestioni scientiste da un lato e la diffusione delle prime informazioni psicologiche dall’altro, suscitano negli scrittori l’interesse alle dinamiche fisiopsicologiche (De Roberto pubblica nel 1895 un saggio significativamente intitolato L’amore, uno studio fisiopsicologico) e psicopatologiche dell’amore: è il caso, tra gli altri, di I.U. Tarchetti, scrittore scapigliato, che nel romanzo breve Fosca (1869) narra la passione distruttiva di un giovane per una donna malata e di rara bruttezza (➜ C2); e di Luigi Capuana, il teorico del verismo italiano (➜ C5) che nei romanzi Giacinta (1879) e soprattutto Profumo (1890) esplora il rapporto fra eros e patologia psichica.

Emancipazione femminile e nuova immagine della donna: femministe e “donne fatali” La condizione femminile nel secondo Ottocento Nel secondo Ottocento, in rapporto alla più generale modernizzazione della società, le donne iniziano a prendere coscienza di sé e della propria posizione di inferiorità. Si diffondono le prime associazioni femminili che si battono per la parità delle donne nell’ambito del lavoro, della società, della politica e in alcuni casi avviano una riflessione critica anche sul ruolo della donna all’interno della famiglia e della coppia. In Italia Sibilla Aleramo affida a Una donna (pubblicato nel 1906), un testo che fece molto scalpore, la testimonianza del suo stesso doloroso cammino verso la consapevolezza (➜ D7a ). Sarà un cammino lungo e difficile quello dell’emancipazione femminile, anche perché raramente fu sostenuta dagli intellettuali, che anzi spesso assumono posizioni contrarie o critiche. Persino Pirandello, che mostra in tante sue novelle una straordinaria capacità di esplorare il territorio psicologico del “femminile” e un’evidente adesione alla ricerca dell’autenticità da parte delle donne, scrive una pagina saggistica di chiuso conservatorismo: Feminismo (pubblicato nel 1909). Nel secondo Ottocento i tradizionali pregiudizi relativi a una costituzionale inferiorità del sesso femminile sono per di più paradossalmente ribaditi e consacrati da presunte osservazioni scientifiche, come quelle formulate, sulla base di rilevazioni antropologiche e anatomiche, da Cesare Lombroso, studioso a quei tempi assai autorevole.

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Per approfondire La fortuna del personaggio di Salomè

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Per approfondire I volti nuovi del femminile

La femme fatale Figura chiave nell’immaginario artistico e letterario del tempo è la femme fatale: è una donna affascinante e crudele, che emana un fascino perverso ed esercita, attraverso la seduzione sessuale, un potere terribile, distruttivo e spesso addirittura mortale sull’uomo, rovesciando la tradizionale sudditanza femminile al maschio. L’archetipo di tale figura può risalire al poema di Keats La belle dame sans merci [La bella dama senza pietà, 1820]. Nei Fiori del male (1857) del poeta francese Baudelaire già ricorre questa immagine femminile, associata in una celebre poesia all’immagine del vampiro che succhia il sangue delle sue vittime per alimentarsi. Al modello della femme fatale si richiamano per la maggior parte le donne fascinose e perverse che popolano i romanzi dannunziani, il cui esempio estremo è l’Isabella di Forse che sì, forse che no (1910 ➜ C11), definito dall’autore stesso «un romanzo di passione mortale». Emblema della femme fatale è il personaggio di Salomè, principessa giudaica nella Bibbia che, rivisitato dalla sensibilità decadente come raffigurazione della perversa associazione lussuria/crudeltà, è destinato a grande fortuna nelle opere artistiche e letterarie del tempo.

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EDUCAZIONE CIVICA

La battaglia per i diritti delle donne Nella seconda metà del XIX secolo prendono piede in America e in Europa i movimenti femminili che conducono grandi battaglie per ottenere alcuni diritti fondamentali, in particolare il diritto di voto. La protesta delle donne contro la minorità giuridica e sociale del proprio sesso era iniziata a delinearsi già negli anni della rivoluzione francese. La diffusione di club femminili (che raccoglievano donne di estrazione sociale superiore) avviò un vivace dibattito che sfociò nella stesura da parte di Olympe de Gouges della Dichiarazione dei diritti delle donne. In Inghilterra, nel 1793 Mary Wollstonecraft pubblica La rivendicazione dei diritti delle donne. Nel secondo Ottocento il tema della liberazione e dei diritti delle donne si intreccia con i programmi di rivoluzione sociale: ad es. in America il movimento femminista si sviluppa all’interno del movimento abolizionista che si batte contro la schiavitù dei neri. Fu Elisabeth Stanton a promuovere instancabilmente la battaglia per il suffragio universale. La Stanton usava indossare provocatoriamente i pantaloni (i bloomers dal nome di Amelia Bloomer che li pubblicizzava sul giornale «The Lily»). La battaglia fu lunga e difficile, ma nel 1869 il territorio del Wyoming estese finalmente il voto alle donne. Seguirono via via gli altri stati, finché nel 1920 tutte le donne americane poterono votare. In Inghilterra l’azione dei movimenti femminili (iniziata già verso la fine degli anni Sessanta) si intensifica nel 1905 con azioni di protesta anche violente ed esiti drammatici. L’8 novembre 1911 (noto come il “venerdì nero” del movimento femminista inglese) le suffragette, come erano chiamate, furono brutalmente caricate dalla polizia. In seguito alla violenta risposta delle militanti (incendi, distruzioni), molte donne furono arrestate e le sedi del movimento chiuse.

Le femministe ebbero la loro martire in Emily Davison, che il 5 giugno 1913 perse la vita per attirare l’attenzione sul gruppo di suffragette che chiedeva a gran voce il voto sotto il palco reale. Solo alla fine della guerra (1918) le donne inglesi ottennero quanto chiedevano. In Francia, dove la battaglia delle donne fu particolarmente legata alla lotta della classe operaia, il diritto di voto fu ottenuto solo nel 1945. In Russia già alla fine del secolo le donne partecipano al movimento che contesta il regime zarista (dal 1873 al 1879 più di trecento donne sono arrestate e processate per cospirazione). La richiesta del voto è portata avanti con decisione l’anno stesso della rivoluzione (1917) dalla Lega per i diritti delle donne. Nel giro di pochissimi anni furono emanate leggi assai avanzate come l’equiparazione dei figli illegittimi, il divorzio, la legalizzazione dell’aborto. Quanto all’Italia, data la più generale arretratezza del paese, il movimento suffragista nacque solo nel 1908, quando fu tenuto a Roma il primo Consiglio nazionale delle donne. In Italia fu particolarmente stretto il legame tra la battaglia per il diritto di voto, condotta da donne intellettuali e di estrazione borghese, con la rivendicazione più generale della parità femminile sul piano economico-sociale, condotta all’interno del movimento socialista. All’interno del movimento socialista le donne condussero in Italia una battaglia volta a rivoluzionare il ruolo passivo della donna nella famiglia e nella società, lottando per una emancipazione globale che implicava un vero cambiamento di mentalità. La richiesta del voto, avanzata fin dal 1871, non ebbe risultati per decenni. Soltanto nel 1946 le donne voteranno per la prima volta in occasione del referendum e delle elezioni della Costituente.

Una donna di Sibilla Aleramo: un romanzo proto-femminista

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Video I volti nuovi del femminile: femmes fatales e suffragette

La biografia Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Rina Faccio (1876 –1960), scrittrice e intellettuale di origine piemontese, il cui nome è legato all’opera autobiografica Una vita (1906), che riflette la sua stessa esperienza: anche Sibilla, come la protagonista, era stata “trapiantata” dal Nord in un piccolo centro (Civitanova nelle Marche, nel 1888), anche lei lavora nella ditta del padre, una vetreria, anche lei è sposa a soli sedici anni, dopo essere stata stuprata da un impiegato dell’azienda che è costretta a sposare. Dopo la nascita del figlio Walter (1895), Sibilla inizia a riflettere sulla condizione femminile e a raccogliere i suoi pensieri; scrive anche articoli e recensioni letterarie. Nel 1902 decide di lasciare la famiglia per trasferirsi a Roma, dove si occupa di attività umanitarie e legge di tutto, da Poe a Strindberg, da Wilde ai russi, Nietzsche, Baudelaire e i simbolisti. Conduce una vita sentimentale molto spregiudicata, legandosi con artisti celebri, come Cena (che sposa e al cui fianco lavora per aiutare i contadini

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dell’Agro romano), Cardarelli, Papini, Boccioni, Boine; quarantenne, ha una focosa relazione con il più giovane Dino Campana, di cui è testimonianza uno straordinario carteggio. Soggiorna a Parigi, aderisce al partito comunista. Muore nel 1960. Una donna Sibilla Aleramo scrive e pubblica nel 1906, a trent’anni, Una donna. Il romanzo narra la vicenda stessa dell’autrice e si colloca a metà fra autobiografia e romanzo-saggio: la scrittrice rievoca con vivezza di particolari la sua infanzia e adolescenza, il matrimonio (che si rivelerà infelice) ancora in giovanissima età, la maternità, il risveglio di interessi culturali fino alla presa di coscienza della propria condizione, cui segue la dolorosa scelta di abbandonare il marito e il figlio per cercare la propria identità di donna e la propria realizzazione. Da quanto detto si comprende che Una donna è una sorta di romanzo di formazione “al femminile”, modellato su una tipologia narrativa che l’Aleramo, appassionata lettrice, certo conosceva. Per il suo contenuto anticonformista, il libro suscitò molto scalpore, non solo in Italia, ma anche all’estero, venendo accostato per evidenti online affinità tematiche ad un altro testo “scandaloso”, cioè Casa D6 La visione anti-idealistica dell’amore di bambola di Ibsen (➜ C8). Fu accolto con sconcerto dalle Presentiamo due testi che, in diverso modo, esemplificano la trasformazione che si stesse femministe che si divisero soprattutto a proposito del verifica nel secondo Ottocento riguardo al finale: alcune di loro ritennero che la vera vittima alla fine tema dell’amore e ai modi di rappresentarlo. D6a Camillo Boito fosse il figlio che la protagonista decide di abbandonare. Il credo materialistico di un anatomista Il romanzo della Aleramo, che fu tradotto in varie lingue Un corpo del mondo (fra cui francese, tedesco, russo, spagnolo), ha D6b Lev N. Tolstoj La dissacrazione dell’amore coniugale oggi soprattutto il valore di un appassionato documento La sonata a Kreutzer sociologico.

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Nuove immagini della donna Dalla voce della protagonista di Una donna leggiamo alcune vibranti considerazioni sul ruolo femminile e sulle rinunce che esso comporta; rinunce che le donne, votate da sempre alla causa del sacrificio, accettano, anche a costo di snaturare la loro identità di persone.

Sibilla Aleramo

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La presa di coscienza di una donna

EDUCAZIONE CIVICA

Una donna, cap. XXII S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 2003

La protagonista ha appena scoperto una lettera sconvolgente della madre: tradita dall’amato marito, aveva meditato di lasciarlo e persino di abbandonare i propri figli, ma il senso del dovere di sposa, e soprattutto di madre, le aveva impedito di compiere questa scelta, che pure avvertiva come necessaria per sé.

Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio1. È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver 5 compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta2. Allora riversiamo sui 1 servaggio: schiavitù. 2 l’olocausto... diletta: il sacrificio della propria madre (la persona diletta).

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nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse 10 dalla vita di lei un esempio di dignità? Allora si incomincerebbe a comprendere che il dovere dei genitori s’inizia ben prima della nascita dei figli, e che la loro responsabilità va sentita innanzi, appunto allora che più la vita egoistica urge imperiosa, seduttrice. Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli elementi necessari alla creazione d’un nuovo essere integro, forte, degno di vivere, 20 da quel momento, se un debitore v’ha da essere, non sarebbe questi il figlio? Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi... Quella notte non dormii. Il confuso problema di coscienza intravisto la prima volta 25 a Roma, mi si imponeva ora con una lucidità implacabile. E per giorni, per settimane maturai nello spirito ciò che in quella notte avevo veduto.

Concetti chiave Il significato della maternità

Che cosa significa essere una buona madre? Il passo è incentrato sulla presa di coscienza («ciò che in quella notte avevo veduto») che porterà la protagonista alla scelta dolorosa di abbandonare suo figlio per cercare la propria identità di persona (come fece la stessa Aleramo). Il passo si apre con due significative domande: la narratrice si interroga sull’origine della connessione maternità/sacrificio, che si tramanda di madre in figlia. Il rimorso per il sacrificio della propria madre, che si teme di non aver abbastanza risarcito di quanto ha fatto per noi, implica la ripresa dello stesso copione con i propri figli, così da rinnovare la “fatale catena”. La narratrice, in cui si rispecchia la Aleramo (che aveva avuto notizia, come si racconta in un precedente capitolo, dei movimenti femministi), ritiene che essere madre non voglia per forza implicare la rinuncia a essere se stesse.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza le considerazioni della protagonista sul significato tradizionale della maternità e su quello per lei corretto. LESSICO 2. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e individua la presenza di termini che appartengono al campo semantico della “costrizione”.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Argomenta (max 10 righe) e descrivi il ruolo femminile della donna secondo la protagonista.

online D7b Charles Baudelaire

La donna-vampiro Il vampiro, Spleen e ideale, I fiori del male XXXI

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9 L’identità e la condizione degli intellettuali nell’età del progresso Il conflitto fra intellettuali e società La “perdita d’aureola” Il secondo Ottocento vede una trasformazione importante del ruolo e dell’identità dei letterati, in rapporto all’imponente avanzamento dell’industrializzazione e, più specificamente, all’affermazione dell’editoria moderna. Da un lato la società industriale tende a considerare “improduttivo” il letterato, a declassarlo o addirittura emarginarlo, dall’altro il configurarsi dell’editoria come impresa (➜ LIBRI LETTORI LETTURA, PAG. 74) tende a integrare il letterato nel sistema produttivo e a subordinarlo alle esigenze di questo sistema: l’editore tende a condizionare gli autori stessi, orientandone la produzione in funzione del possibile successo di pubblico. L’arte diventa così un prodotto commerciale come tanti altri, perde la sua “aura” nobile. Charles Baudelaire, fin dal 1857 (I fiori del male), esprime la perdita di identità dello scrittore di fronte alla crescente “mercificazione” dell’arte, anche perché è un poeta (e la poesia ha una collocazione nel mercato delle lettere più difficile rispetto alla prosa). In rapporto alla società del profitto in cui si vuole sempre più iscrivere anche l’arte, Baudelaire rivendica orgogliosamente la costituzionale “diversità” del poeta, simboleggiata nella celebre poesia L’albatro dalla figurazione del nobile uccello marino fatto prigioniero e schernito dai marinai (➜ C4 T2 ). In un celebre “poemetto in prosa” intitolato significativamente L’aureola perduta (➜ D8 ), lo scrittore francese ritrae, in una sorta di apologo, la nuova condizione del poeta degradato e ormai incapace di esercitare una funzione-guida. La sfida dei poeti “maledetti” e degli esteti Erediteranno la lezione di Baudelaire i poeti “maledetti” (soprattutto Rimbaud e Verlaine ➜ C9) che con i loro comportamenti trasgressivi e provocatori contestano la mediocre società borghese e rispondono alla crescente commercializzazione dell’arte proponendo una poesia raffinata, i cui oscuri simbolismi escludono programmaticamente i lettori comuni. La frattura con il gusto dominante, giudicato volgare, è alla base anche della tendenza estetizzante (rappresentata da Huysmans in Francia e da Wilde in Inghilterra).

Gli scrittori italiani verso nuove identità Già negli ultimi decenni dell’Ottocento per chi scrive di professione si profila la possibilità di ricavare un reddito anche dal mercato del libro e dalla collaborazione a riviste e giornali che, a cavallo tra i due secoli, vanno moltiplicandosi. La maggior parte degli scrittori comprende che è ormai necessario confrontarsi con le case editrici e il mercato editoriale in espansione anche in Italia, ma tale relazione è poi gestita in modo diverso. Giovanni Verga (➜ C7), che pure aveva conosciuto il successo con i suoi primi romanzi, di soggetto mondano, scrivendo I Malavoglia preferisce seguire i dettami della propria poetica anziché le leggi del mercato, anche se era ben consapevole che le scelte narrative e linguistiche dell’opera non sarebbero state facilmente accettate o addirittura comprese dal pubblico. E infatti il romanzo non ebbe alcun successo, suscitando l’amara delusione dello scrittore. A questa scelta si può contrapporre la posizione di D’Annunzio (➜ C11), attento osservatore del mercato, uno dei primi scrittori italiani a rendersi conto delle possibilità anche economiche che offriva: già con il suo primo romanzo (Il Piacere) potrà permettersi di dettare al maggior editore del tempo, Treves, le condizioni sul

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diritto d’autore e l’anticipo delle quote relative dopo le prime mille copie vendute. D’Annunzio punta in modo estremamente pragmatico al successo di pubblico, sa di dover andare incontro all’«appetito sentimentale» del pubblico. È anche abilissimo a fare di se stesso un personaggio in linea con i protagonisti dei suoi libri. Nuove occasioni sono offerte ai letterati anche dal boom dei giornalismo (➜ LIBRI, LETTORI, LETTURA, PAG. 74). La diffusione di quotidiani e periodici implica la richiesta crescente di collaboratori di qualità: molti scrittori italiani collaborano ad esempio con il «Corriere della Sera» (fondato nel 1876). Il relativo ampliamento del pubblico consente ad autori di successo, come Collodi e De Amicis di ottenere cospicui diritti d’autore (Cuore e Pinocchio sono veri e propri bestseller), ma per lo più i letterati in Italia non vivono della loro attività. Sono spesso insegnanti e docenti universitari, come Carducci e Pascoli.

Mostra degli editori Treves all’Esposizione nazionale a Torino, 1898 (stampa dell’epoca).

Charles Baudelaire

D8

L’aureola perduta Lo spleen di Parigi. Poemetti in prosa, XLVI

C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi. Poemetti in prosa, intr., trad. e note di A. Berardinelli, Garzanti, Milano 1999

Si tratta di un poemetto in prosa, pubblicato la prima volta nell’edizione postuma della raccolta Lo spleen di Parigi (1869). La polemica di Baudelaire verso la riduzione dell’arte a merce di consumo è sviluppata attraverso il dialogo provocatorio fra due personaggi, uno dei quali rispecchia l’artista stesso.

«Come! Voi qui, mio caro? Voi in questo brutto posto? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d’ambrosia1! C’è invero di che restare sorpresi. – Mio caro, sapete bene quanto mi terrorizzino le carrozze e i cavalli. Poco fa, mentre attraversavo il viale in tutta fretta, saltellando in mezzo al fango, in quel caos 5 in movimento dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti nello stesso tempo,

1 il bevitore di quintessenze... mangiatore d’ambrosia: la quintessenza è per gli antichi alchimisti la parte più pura delle sostanze, ottenuta in seguito a cinque

distillazioni. L’espressione, così come la successiva, ha valore metaforico per alludere alla squisita sensibilità del poeta, che si “nutre” solo di esperienze privilegiate.

L’ambrosia è il nettare di cui, secondo la mitologia classica, si nutrivano gli dei e da cui traevano la loro immortalità.

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per un gesto brusco l’aureola2 mi è scivolata dalla testa nel fango della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Giudicai meno sgradevole perdere le mie insegne che farmi rompere le ossa. E poi, mi dissi, la disgrazia serve sempre a qualcosa. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere azioni basse, darmi ai bagordi3 10 come i comuni mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete! – Dovreste almeno pubblicare un annuncio della perdita dell’aureola, o fare denuncia al commissariato. – Proprio no! Mi trovo bene, qui. Solo voi mi avete riconosciuto. D’altronde la dignità mi disturba. E poi penso che qualche cattivo poeta la raccatterà e se la metterà 15 in testa spudoratamente. Che piacere far felice qualcuno! Soprattutto qualcuno la cui felicità mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Ah, sarà davvero divertente!». 2 l’aureola: è il cerchio luminoso, talora a raggiera, che nelle raffigurazioni artistiche e nelle immagini circonda il capo di

alcune divinità pagane, di Cristo, dei santi; qui in senso figurato, per alludere all’elevatezza spirituale, alla sacralità della poesia.

3 darmi ai bagordi: abbandonarmi ai vizi.

Concetti chiave Il poeta nella società moderna

Il poemetto può essere utilmente messo a confronto con la celebre lirica L’albatro (➜ C4 T2 ), anch’essa incentrata sul ruolo del poeta nella moderna società borghese, rispetto alla quale questo poemetto costituisce una riproposta ironica. Ogni immagine della prosa può essere letta in chiave allegorica, a cominciare dal protagonista (non si dice chi è, ma rappresenta evidentemente il poeta) e da un luogo equivoco, un «brutto posto», che allude al vizio, ma rimanda anche alla città degradata, preda del caos e del traffico convulso, raffigurata spesso in molti testi baudelairiani. L’aureola, che inavvertitamente scivola nel fango, simboleggia la perdita della funzione elevata e nobile della poesia (a cui alludono anche i riferimenti iniziali alla quintessenza e all’ambrosia), destinata a vivere in un mondo contaminato e squallido. Il poeta-personaggio finge di accettare la realtà e addirittura di apprezzare la possibilità di diventare un uomo comune; in realtà tutto il testo è una desolata protesta, in forma ironica, contro la banalizzazione dell’arte, imposta dalla società moderna. Chi erediterà l’aureola non sarà un nuovo poeta idealista, ma solo un cattivo poeta materialista, un impudente che sfrutterà solo l’aspetto commerciale, mercantilistico dell’arte. Al vero poeta rimarrà solo l’amaro privilegio di smascherare le ipocrisie, di farsi spietata coscienza critica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

STILE 1. Individua le allegorie presenti nel testo e spiegane il significato (aiutati, nel caso, con similitudini funzionali allo scopo ed evocative).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 2. Confronta il poemetto con L’albatro (➜ C4 T2 ), lirica cronologicamente precedente, e indica analogie e differenze. Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe).

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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Positivismo e evoluzionismo Gli indirizzi filosofici che dominano nel secondo Ottocento sono due: il positivismo, essenzialmente di origine francese e l’evoluzionismo, di origine inglese. Non è certo casuale che le due nazioni-guida in campo ideologico siano Francia e Inghilterra, culle dello sviluppo della borghesia, dotate di moderne strutture economiche e politiche. Lo scientismo positivista In entrambi i paesi lo spirito scientifico si diffonde anche a livello di mentalità e la metodologia della scienza si estende a ogni ambito di indagine: dalla storia alla società, dai comportamenti alla psiche, nella vera e propria ossessione di trovare leggi scientifiche in ogni campo. Alla tensione conoscitiva dei romantici verso l’assoluto, al desiderio di infrangere i limiti della realtà contingente, al senso del mistero si contrappone il culto del positivo, una forma di conoscenza che si attiene ai fatti, al “fenomenico”. La fede, la metafisica sono accantonate (se non addirittura negate) in quanto ambiti di conoscenza che non possono essere soggetti all’indagine razionale. Il positivismo di Comte Il pensatore francese Auguste Comte (1798-1857) pubblica il suo Corso di filosofia positiva tra il 1830 e il 1842, ma l’opera esercita la sua influenza soltanto nel secondo Ottocento, quando le idee del filosofo furono pubblicizzate sui giornali e uscirono dall’ambito ristretto del dibattito filosofico. L’idea di Comte è che si possa fondare una società “positiva”, basata sul sapere scientifico. In questa prospettiva Comte individua tre stadi nello sviluppo della civiltà: lo stadio teologico, lo stadio metafisico, lo stadio positivo. STADIO TEOLOGICO l’uomo tende alla conoscenza assoluta, ricerca le “cause ultime” dei fenomeni e le ritrova nel soprannaturale

STADIO METAFISICO l’uomo individua le cause astratte dei fenomeni

STADIO POSITIVO l’intelligenza umana rinuncia a cercare l’essenza delle cose e si limita a indagare, mediante l’uso di ragione ed esperienza, le “leggi” che regolano i fenomeni

Le principali discipline (astronomia, chimica, fisica, biologia) hanno ormai raggiunto il terzo stadio, mentre ancora da costruire è la sociologia (il termine è coniato proprio da Comte), che riguarda le leggi che regolano il comportamento umano nell’ambito della società. Quando si saranno individuate, si completerà il passaggio allo stadio positivo e si attuerà una vera e propria rigenerazione dell’umanità. La teoria evoluzionista di Darwin Nel 1859 il naturalista Charles Darwin (18091882) pubblica a Londra L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale, dopo aver viaggiato per una ventina d’anni in vari paesi del mondo (dal Brasile alla Patagonia alle isole Galápagos) raccogliendo prove scientifiche della sua teoria. La prima edizione dell’opera si esaurì in un solo giorno; in Italia il libro sarà tradotto

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PER APPROFONDIRE

però solo sei anni dopo (1865). La teoria darwiniana confuta la concezione secondo la quale il complesso delle specie viventi sia sempre stato lo stesso, in quanto creato da Dio, e ogni specie si sia mantenuta inalterata nel tempo. Darwin aveva invece scoperto che le specie sia animali sia vegetali si evolvevano, cioè si trasformavano nel tempo grazie a piccoli mutamenti organici e che esisteva la struggle for life, la “lotta” delle varie specie per sopravvivere e adattarsi agli ambienti naturali e alle variazioni ambientali. Secondo Darwin la selezione naturale decreta la scomparsa di alcune specie e privilegia gli individui capaci di maggior adattamento e che trasmettono poi, per via ereditaria, ai discendenti i caratteri per così dire “vantaggiosi”.

Una teoria scandalosa: l’inquietante parentela tra l’uomo e la scimmia In seguito alla pubblicazione di vari libri che, seguendo le premesse darwiniane, estendevano la teoria evoluzionistica alla specie umana, Darwin stesso si decise a prendere posizione sul tema, pubblicando nel 1871 L’origine dell’uomo, che suscitò grande scalpore. Il darwinismo implicava un modo diverso di guardare la storia naturale, non più statico ma dinamico, ma soprattutto un modo nuovo di considerare l’uomo stesso, iscritto a sua volta nei processi evolutivi. Il racconto biblico della creazione veniva contestato o, meglio, ridotto a narrazione mitica. Inoltre, secondo tale teoria, l’uomo era considerato frutto dell’evoluzione da una specie animale, quella dei primati

(le somiglianze anatomiche non lasciavano alcun dubbio in proposito): l’inquietante parentela tra l’uomo e le scimmie scalzava l’uomo dal suo posto privilegiato nell’universo e poteva aprire pericolose falle nell’idea di un progetto divino relativo all’uomo. Fu quest’ultimo aspetto della teoria darwiniana a essere privilegiato nei dibattiti che accesero tutta Europa e anche l’America subito dopo la pubblicazione del libro, tradotto nelle principali lingue. Dibattiti che non rimasero limitati agli ambiti scientifici ma coinvolsero, per le scottanti implicazioni religiose e filosofiche del tema, ampi strati dell’opinione pubblica.

online D9 Charles Darwin

Una conclusione indiscutibile L’origine dell’uomo

2 Gli sviluppi dell’evoluzionismo Una teoria dalla grande influenza I capisaldi della teoria evoluzionistica – in particolare la lotta per la vita e la selezione naturale – alimentarono un grande fervore di studi scientifici, innanzitutto in campo biologico, zoologico, botanico ma anche in vari settori del sapere medico (dall’anatomia alla fisiologia alla psichiatria: la teoria di Lombroso si spiega nell’ambito del positivismo influenzato dalle teorie darwiniane: ➜ PER APPROFONDIRE, L’antropologia criminale di Lombroso PAG. 64). Ma ben presto il darwinismo estese la sua influenza ad ambiti lontani dalla biologia e dalla medicina, coinvolgendo campi come quello socio-politico, storico, giuridico, economico, senza escludere la letteratura: non sono pochi i romanzi, dalla Francia all’Italia, ispirati ai temi della selezione, dell’ereditarietà, della lotta per la vita (I Malavoglia di Verga). Antiegualitarismo, razzismo, colonialismo Tale estensione, e in fin dei conti generalizzazione, del tema evoluzionistico fuori dall’ambito naturalistico in cui era stato concepito, non fu priva di pericolose deviazioni, dovute a inevitabili strumentalizzazioni ideologiche: il darwinismo poté facilmente sposarsi a teorie antiegualitarie che sostenevano l’esistenza nella società di individui “inferiori”, pervenuti a un minor grado di evoluzione, e che quindi necessariamente erano

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condannati a svolgere mansioni inferiori nella scala delle occupazioni e nel ruolo sociale e politico (per principio era così svalutata ogni pretesa di rivendicazione sociale e ogni lotta ugualitaria). Queste posizioni ad esempio saranno fatte proprie da D’Annunzio già nei primi anni Ottanta, alimentando il suo innato culto dell’uomo superiore, un eletto per qualità individuali e cultura, che per natura ha il diritto di imporsi sulla massa. Allo stesso modo fu facile trarne conclusioni indebite relative alle cosiddette razze e alla presunta superiorità nella scala evolutiva di quella bianca: ipotesi destinata a incidere nella storia europea, poiché finì per costituire il supporto teorico a giustificazione della legittimità “naturale” del colonialismo. L’applicazione della teoria evolutiva alla geopolitica legittimava l’espansionismo imperialistico: nel caso degli stati, l’evoluzione e la lotta per la vita implicano la crescita territoriale, la conquista di nuovi spazi.

PER APPROFONDIRE

L’evoluzionismo di Spencer e il mito ottimistico del progresso Nel 1860 Herbert Spencer (1820-1903) pubblica un Prospetto nel quale preannuncia un progetto filosofico generale e ambizioso che avrebbe dato una nuova impostazione di tipo evoluzionistico a ogni campo del sapere. Il progetto si strutturerà in un’opera monumentale (Sistema di filosofia sintetica) di molte migliaia di pagine, articolato a coprire vari ambiti centrali del sapere (dalla biologia alla psicologia, dalla sociologia all’etica) e sarà portato a termine solo nel 1893. Si deve in particolare a Spencer la visione ottimistica del progresso e la divulgazione tra il grande pubblico di una visione materialistica e evoluzionistica: tutto l’universo è per Spencer «materia in movimento» di cui gli scienziati a mano a mano vanno scoprendo le leggi. La storia stessa è concepita da Spencer come evoluzione, cammino progressivo che comporta una crescita della civiltà: lo stadio attuale è il più avanzato per definizione, il più dinamico, grazie allo sviluppo industriale e commerciale, alla competitività, all’individualismo.

L’antropologia criminale di Lombroso Come si è detto, l’evoluzionismo finì per investire campi diversi, a volte lontanissimi dall’ambito della biologia in cui la celebre teoria ebbe origine. Uno degli esempi di applicazione delle teorie evoluzionistiche è la teoria elaborata dallo psichiatra Cesare Lombroso (18351909) riguardo al problema della criminalità, su cui due secoli prima aveva scritto pagine molto importanti Cesare Beccaria. Lombroso conobbe una fama internazionale con il suo scritto L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza, alle discipline economiche (1876) che segna la nascita dell’antropologia criminale. Nel clima ideologico positivistico ed evoluzionistico, si ritiene necessario abbandonare le prospettive filosofiche nello studio della criminalità per privilegiare invece il dato “positivo”: la delinquenza diventa un comportamento che deriva, in modo sostanzialmente deterministico, da precise cause organiche e il delinquente presenta persino particolari tratti somatici. Il delinquente non diventa tale, ma è «delinquente nato» secondo la definizione di Lombroso, caratterizzato da una

precisa conformazione anatomica, in particolare del cranio, esaminato dallo psichiatra e dalla sua scuola, attraverso il craniometro, un apposito strumento tecnico. Secondo Lombroso, il criminale ha una particolare conformazione cranica che rimanda a tappe evolutive remote, a una natura sostanzialmente animalesca, che indurrebbe (e che in un certo senso addirittura “obbligherebbe”) il delinquente a comportarsi seguendo istinti atavici. Dai dati numerici ottenuti dalla misurazione dei crani Lombroso e la scuola che a lui si richiamava deducevano elementi caratterizzanti lo sviluppo cerebrale dei sessi (la donna, poiché il suo cranio è più piccolo, veniva considerata per natura inferiore al maschio!) e delle razze stesse. Tra Otto e Novecento, il diverso modo di intendere il comportamento criminale induce a internare chi delinque per lo più non nelle strutture carcerarie ma nei manicomi, dove gli psichiatri cercano di costruire una casistica analitica dei comportamenti devianti, sottoponendo i reclusi a determinati esami clinici.

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Positivismo ed evoluzionismo rinuncia alla metafisica come mezzo per raggiungere la conoscenza Auguste Comte

sostiene che la conoscenza scientifica è l’unica possibile in ogni ambito del sapere

Charles Darwin

formula la teoria evoluzionista

Herbert Spencer

applica la teoria evoluzionista a tutti gli ambiti (dalla psicologia all’etica)

3 Il marxismo La visione materialistica della storia Nel 1848, a metà del secolo è pubblicato il Manifesto del partito comunista di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (18201895) che segna la data di nascita del marxismo, ideologia storico-politica destinata a influenzare in modo profondo la storia contemporanea. Si tratta di un’ideologia che ben si inserisce nel clima culturale del tempo, poiché si fonda su una visione antidealista e materialista dell’uomo e della storia e perché applica alla società capitalistica un’analisi scientifica, giungendo alla critica radicale dei meccanismi del capitalismo. Il marxismo è una cosiddetta “filosofia della prassi”: non si limita infatti a formulare teorie interpretative, bensì si propone di incidere sulla realtà, guidando la lotta del proletariato per affermare un nuovo modello di società che viene chiamato “comunista” perché si propone di realizzare l’uguaglianza, abbattendo i privilegi di classe: sia Marx che Engels, coerentemente a tale presupposto, parteciparono personalmente ai moti rivoluzionari del 1848 ed ebbero un ruolo importante nell’organizzare la lotta internazionale della classe operaia. L’ideologia marxista si contrappone nettamente all’idealismo hegeliano: per Marx a condizionare il cammino della storia non sono idee e ideali, ma bisogni concreti che si esprimono nella lotta di classe. Nella concezione rigorosamente materialistica di Marx la storia è espressione innanzitutto di interessi economici. Le ideologie (per Marx anche la religione è tale, così come il diritto e l’etica) sono solo “sovrastruttura”, ovvero riflesso della struttura economica che determina i rapporti tra le classi in un determinato momento storico. Se si vuole lottare per realizzare una nuova società non basta dunque la critica alle ideologie dominanti, ma occorre passare all’azione rivoluzionaria che abbatta ogni forma di sfruttamento e di subordinazione sociale. Gli intellettuali da soli, per quanto progressisti, non possono cambiare il mondo, ma devono associarsi alla lotta del proletariato, che ha un ruolo di avanguardia nel processo storico per la liberazione dell’uomo. Le idee di Marx ed Engels si affermano soprattutto tra il 1860 e il 1890, in rapporto allo sviluppo e alle contraddizioni del capitalismo e alla sempre più forte presa di coscienza da parte degli operai dei propri diritti.

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4 Nietzsche e la teoria dell’“oltreuomo” La contestazione del modello positivista Assai presto il modello positivistico e scientista entra in crisi e i principi su cui si fonda vengono discussi nello stesso ambito scientifico. In ambito filosofico già la fortuna postuma di Arthur Schopenhauer, un filosofo del primo Ottocento (Il mondo come volontà e come rappresentazione è del 1818), immette nel pensiero europeo motivi pessimistici e irrazionalistici. Ma è soprattutto il pensiero di Nietzsche a esercitare una grande influenza nell’orientare anche il Italia il pensiero in senso antipositivistico. Ad altre figure, come Bergson e Freud facciamo riferimento nella parte dedicata al primo Novecento. (➜ SCENARI, PAGG. 519-521) Un filosofo “inattuale” Friedrich Nietzsche (1844-1900) è un filosofo tedesco appartato e sdegnosamente sprezzante verso il proprio tempo, cui dedica uno scritto dal titolo dichiaratamente provocatorio: Considerazioni inattuali, 1873-1876. Apollineo vs dionisiaco: la riflessione sulla civiltà greca Nella prima fase del suo pensiero, che coincide con gli anni del suo insegnamento universitario, Nietzsche riflette sulla decadenza della civiltà occidentale prendendo spunto dalla tragedia greca (La nascita della tragedia, 1872, che già contiene i nuclei chiave del suo pensiero). Nietzsche rovescia la tradizionale visione del mondo classico trasmessa dal neoclassicismo di Winckelmann come mondo dell’armonia e dell’equilibrio delle passioni (ciò che per lui è espressione dello spirito apollineo) e mette in luce l’importanza delle pulsioni istintuali, dell’ebbrezza scomposta, cioè dello spirito dionisiaco. Con l’avvento della filosofia socratica il principio apollineo ha la prevalenza e impone il razionalismo, dando inizio alla decadenza della civiltà occidentale che Nietzsche identifica in una cultura repressiva delle energie vitali. Verso una nuova morale Nella seconda fase del suo pensiero Nietzsche è impegnato a smascherare (è questa la fase che più corrisponde all’etichetta di «maestro del sospetto»), con un attacco corrosivo degno dell’illuminismo, le ipocrisie e le mistificazioni della morale e della religione, che negano valore alla vita terrena, considerano il corpo la prigione dell’anima e impongono un’etica della rinuncia e della debolezza. Per Nietsche, dopo la «morte di Dio», di cui l’uomo moderno non sente più il bisogno, non esistono più valori assoluti né in campo conoscitivo né etico, non vi è più spazio per la teologia e per la metafisica. Nietzsche teorizza una civiltà ormai nichilista (in cui ogni valore è ormai annullato), ma per il filosofo tedesco c’è un nichilismo passivo, proprio degli spiriti deboli, che sono incapaci di reagire alla fine dei valori del passato, e un nichilismo attivo, proprio di chi, dopo aver consapevolmente preso atto della fine della morale e della religione, cerca di gettare le basi di una nuova morale. Il “superuomo” Questa consapevolezza “attiva” è propria di quello che Nietzsche chiama «superuomo» (o «oltreuomo», traduzione che oggi tende a prevalere), che emerge con lo scritto “profetico”, strutturato sotto forma di ispirati aforismi, Così parlò Zarathustra (1883-85 ➜ D10 OL) a cui è strettamente collegato lo scritto successivo: Al di là del bene e del male (1886). È sulla figura del superuomo che si è incentrata in particolare l’interpretazione di Nietzsche addirittura come ispiratore dell’ideologia nazista. In realtà nella concezione del filosofo tedesco, il superuomo è un uomo nuovo proteso ad online D10 Friederich Nietzsche affermare la propria volontà di potenza liberandosi dai vincoli Io vi insegno il superuomo! della morale, dalle categorie codificate di male e bene. Così parlò Zarathustra

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3 Generi e forme della letteratura formazione delle nuove generazioni 1 Dalla alla crisi degli ideali risorgimentali In Italia, una volta compiuta, almeno formalmente, l’Unità del paese, occorreva formare agli ideali che avevano animato il Risorgimento le nuove generazioni. A questo obiettivo educativo rispondono romanzi di grandissimo successo come Pinocchio (1883) di Carlo Collodi e Cuore (1886) di Edmondo de Amicis, destinati entrambi a un pubblico di ragazzi. Ben presto si verifica però una crisi degli ideali risorgimentali che avevano animato una intera generazione di intellettuali. In ambito letterario decade rapidamente il modello del Romanticismo, ormai ridotto a estrinsecazioni sentimentali di non elevata qualità letteraria. A questa situazione di stasi si contrappongono da un lato il gruppo di scrittori che afferisce alla Scapigliatura, dall’altro Giosue Carducci. La scapigliatura Gli scapigliati, un movimento letterario che si sviluppa nel Nord Italia negli anni Sessanta-Settanta (➜ C2), rifiutano i modelli consacrati dalla tradizione e, sulla scia della suggestione di Baudelaire (I fiori del male sono del 1857) e insieme, in nome del realismo (parola d’ordine del tempo), introducono nella poesia nuovi contenuti, come la dissacrante “lezione di anatomia” di una celebre poesia di Boito senza però riuscire a incanalare in forme poetiche davvero innovative l’azione di rottura che si proponevano. Più convincente rispetto alla poesia è la narrativa scapigliata, che si richiama comunque a modelli stranieri, guardando da una parte al realismo d’oltralpe e dall’altra riprendendo modelli romantici, per lo spazio dato al fantastico, al tema dell’irrazionale, del mistero. Significative sono in particolare le opere di Tarchetti, sia nella misura breve del racconto, sia nel romanzo: in Fosca lo scrittore tratteggia una malsana e fatale passione di cui è oggetto una donna brutta e malata, allineandosi all’interesse per le patologie psichiche tipico della cultura del secondo Ottocento. La critica assegna un posto di particolare rilievo, tra i narratori scapigliati, a Carlo Dossi, unico ad aver tentato una sperimentazione in campo stilistico-linguistico: l’ardita contaminazione di forme colte con termini dialettali e del parlato, e la creazione di neologismi anticipano le soluzioni di Gadda. La reazione classicistica di Carducci Una scelta opposta compie nello stesso periodo Giosue Carducci (➜ C3), richiamandosi alla tradizione classica, alla poesia “alta” e magniloquente e riproponendo la figura del poeta vate. A una società che ha perso i punti di riferimento morali, che ha tradito i valori eroici del Risorgimento, Carducci contrappone la “sanità”, l’eroismo della Roma classica (ma modelli esibiti nella sua poesia sono anche altre età della storia, come quella dei comuni e lo stesso Risorgimento nelle sue figure emblematiche). Non manca d’altra parte nella poesia più intima e privata di Carducci il senso angoscioso del trascorrere del tempo e della morte, uno spleen moderno che ha la sua fonte letteraria in Baudelaire. Generi e forme della letteratura 3 67

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2 Naturalismo/simbolismo-decadentismo: due tendenze letterarie vicine nel tempo Negli orientamenti letterari che si affermano in Europa dopo la metà del secolo il ruolo guida è rappresentato dalla Francia, culla, con Auguste Comte (1798-1857), del positivismo che domina il panorama filosofico del tempo. È la Francia a indicare alle letterature europee le direzioni e i modelli da seguire, che sono espressi in modo esemplare da due opere fondamentali, entrambe pubblicate nel 1857, Madame Bovary di Flaubert e I fiori del male di Baudelaire: da un lato il forte richiamo a una rappresentazione realistica dell’uomo e della società, condotta con sguardo impassibile, che si afferma con il movimento naturalista (➜ C5); dall’altro il simbolismo e l’estetismo, che rappresentano le manifestazioni fondamentali di quell’orientamento culturale che si è soliti definire “decadente” (➜ C9). È una consuetudine didattica comoda considerare la seconda tendenza come successiva nel tempo alla prima: in realtà naturalismo e simbolismo/estetismo di fatto coesistono, come evidenzia il seguente schema dal quale è possibile notare che testi del naturalismo-verismo sono appunto coevi a testi della cosiddetta cultura decadente.

La coesistenza di realismo e simbolismo-decadentismo: date significative 1865

E. e J. de Goncourt, Germinie Lacerteux

1881

G. Verga, I Malavoglia

1865

S. Mallarmé, Brezza marina

1881

A. Fogazzaro, Malombra

1867

E. Zola, Thérèse Raquin

1884

J.K. Huysmans, A ritroso

1871

A. Rimbaud, Lettera del veggente e Il battello ebbro

1885

E. Zola, Germinale

1874

P. Verlaine, Arte poetica

1886

Manifesto del simbolismo

1877

E. Zola, L’ammazzatoio

1889

G. Verga, Mastro don Gesualdo

1880

E. Zola, Il romanzo sperimentale

1889

G. D’Annunzio, Il piacere

A volte il passaggio dall’una all’altra tendenza avviene addirittura nell’arco della produzione di uno stesso autore, come è il caso di Huysmans, uno dei padri del decadentismo, che dopo aver aderito a quel gruppo di Médan che fonda il naturalismo (1880), pubblica dopo pochissimi anni A ritroso (À rebours) (1884), uno dei romanzi che in modo più vistoso sintetizzano la visione decadente della vita, dell’arte, dell’artista.

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Il tramonto del realismo naturalistico

mutamento delle circostanze storiche e soprattutto dei più generali modelli culturali

atteggiamento di scetticismo verso le possibilità conoscitive della ragione

opposizione al materialismo della cultura positivistica e delle manifestazioni letterarie che vi si ispirano

rifiuto da parte del pubblico di forme di narrazione che turbano le coscienze ed esibiscono aspetti negativi della vita e della società. Preferenza del pubblico per storie incentrate su drammi interiori e personaggi in cui potersi immedesimare

La rivoluzione poetica in Francia È dalla Francia, così come per la narrativa, che vengono le linee guida che ispireranno la poesia moderna. Il modello per tutti i nuovi poeti è Baudelaire (➜ C4) che, con la pubblicazione a metà del secolo dei Fiori del male (1857) fa da vero spartiacque tra poesia della tradizione e poesia della modernità. Nella sua straordinaria opera il poeta francese esplora per la prima volta l’universo del vizio, del male, della degradazione, che fermenta nei bassifondi della città moderna, di cui egli è il cantore. Allo stesso modo dà voce per la prima volta all’angoscia, che egli chiama spleen, dell’uomo moderno, orfano di ideali irrimediabilmente perduti e nostalgicamente rimpianti. Baudelaire è considerato indiscutibile modello dai cosiddetti “poeti maledetti” che inaugurano la poesia moderna, da essi concepita come esplorazione dell’essenza del reale, oltre le parvenze fenomeniche. Per Rimbaud il poeta è il “mago”, il visionario che coglie inusitate “corrispondenze” tra i sensi); per Verlaine la poesia deve farsi “musica”, abbattere gli schemi della tradizione. I nuovi poeti, e soprattutto Mallarmé, utilizzano simboli enigmatici, che corrispondono a una visione elitaria, anticomunicativa della poesia.

La poesia di Pascoli e D’Annunzio In Italia la nuova poesia si afferma con Pascoli (➜ C10) e D’Annunzio (➜ C11). Sicuramente più moderno Pascoli che, da una formazione positivista perviene per vie personali, non suggestionato dai modelli stranieri, al simbolismo e a una poetica dell’“oltre”. Il mondo della campagna e della famiglia, che costituisce il repertorio tematico più ricorrente della poesia pascoliana, è percorso da oscure inquietudini, dal senso del mistero. Al “sublime del quotidiano” cantato da Pascoli si contrappone la poesia “alta” e preziosa, anche nelle scelte linguistiche spesso auliche, di D’Annunzio, che della lezione dei simbolisti francesi fa invece anche troppo tesoro. La sua è però soprattutto una ricerca di musicalità, che fa della parola uno strumento virtuosistico suggestivo, impiegato per “stupire” il lettore, per affascinare.

Il primato del romanzo Nel secondo Ottocento, il romanzo diventa anche in Italia un genere popolare, vincendo la diffidenza degli ambienti culturali più conservatori. Fino al primo Novecento non si producono in Italia esperienze poetiche di livello paragonabile a Foscolo o a Leopardi, mentre la narrativa, anche solo citando il Generi e forme della letteratura 3 69

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nome di Verga (➜ C7), a cui fanno seguito nel primo Novecento Pirandello (➜ C17) e Svevo (➜ C18), può decisamente competere per qualità con la grande narrativa europea. La narrativa italiana del secondo Ottocento elabora le suggestioni che derivano dai modelli europei: il modello indiscusso è fino agli anni Ottanta il naturalismo francese: la conoscenza soprattutto dell’opera di Zola è alla base del rinnovamento in senso realista della narrativa italiana.

La narrativa naturalista e il realismo psicologico russo È molto stretto il legame tra la produzione naturalista e il positivismo, che ha le sue prime radici proprio in Francia con Auguste Comte, sia per il richiamo ai “dati”, ai “fatti” contro ogni slancio idealistico e, ancor più, metafisico, sia per le nuove teorie formulate sull’ereditarietà, sull’evoluzionismo (Darwin) e più in generale per l’applicazione al campo letterario dei metodi di indagine della scienza. Anche lo scrittore allora, come si sforza di fare Émile Zola, deve diventare “scienziato”, analizzare con occhio impersonale i comportamenti, vedendo i condizionamenti che in modo “necessario” li determinano. Nascono da queste premesse i romanzi di Zola appartenenti al ciclo dei Rougon-Macquart, a cominciare dall’Ammazzatoio [L’Assommoir], squallida storia di degrado e di alcolismo (➜ C5). La letteratura, nell’ottica dei naturalisti, deve rappresentare la società anche nei suoi aspetti più deteriori: Zola, e prima di lui in Inghilterra Charles Dickens, pensano che illuminare le condizioni miserrime delle classi popolari possa imporre all’attenzione dell’opinione pubblica tali problemi e quindi contribuire alla loro risoluzione. Minore influenza, almeno per il momento, esercita la lezione del grande romanzo russo (sarà D’Annunzio a recepirne in una fase della sua produzione i modelli, ma in modo tutto sommato superficiale). Più che il realismo epico di un grandioso romanzo storico come Guerra e pace di Lev Tolstoj, esercita influenza sulla nostra cultura la complessa analisi psicologica del personaggio, che ha tratti di grande modernità, presente nell’opera di Fëdor Dostoevskij (➜ C6).

La narrativa verista Luigi Capuana (➜ C5) e Giovanni Verga (➜ C7), i due maggiori rappresentanti del verismo italiano, prendono le mosse dalla poetica naturalista, assimilata in quella Milano che è la culla della nuova cultura e della modernità e dove entrambi operano e scrivono. Rimangono però siciliani e inevitabilmente oggetto della loro rappresentazione è il Sud che la “questione meridionale” poneva al centro dell’attenzione del nuovo stato. Tuttavia non è in primo piano nei nostri narratori l’intento zoliano della denuncia sociale, anche per la mancata condivisione del mito del progresso e la pessimistica visione di una realtà immodificabile, particolarmente evidente nel più tardo tra gli scrittori veristi, anch’egli siciliano: Federico De Roberto. Mentre Capuana spicca soprattutto come teorico e non raggiunge risultati artistici rilevanti (tranne forse nel Marchese di Roccaverdina), Verga realizza a un alto livello la nuova poetica realista. Lo scrittore siciliano, nella sua produzione maggiore (le novelle di Vita dei campi e le Rusticane) e nei Malavoglia, realizza al massimo grado quell’impersonalità della

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narrazione che già il naturalismo aveva prescritto senza però realizzarla pienamente: la formula narrativa dell’eclisse dell’autore e della regressione del narratore consentono a Verga di raggiungere questo obiettivo anche senza assumere i panni del narratore-scienziato. Meno significativa (e a volte folkloristica) è la produzione narrativa di carattere regionalistico, anche se attraverso di essa emerge la sfaccettata realtà dell’Italia postunitaria con i suoi problemi e le sue specificità antropologiche.

Il modello del romanzo estetizzante, i romanzi di D’Annunzio e Fogazzaro Pressoché contemporaneo al naturalismo è un secondo modello di romanzo, rappresentato in particolare da A ritroso (À rebours) di Joris-Karl Huysmans (1884) e Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde. Entrambi i romanzi spostano l’attenzione dalle tematiche sociali all’analisi del soggetto. In entrambi viene proposto un nuovo mito umano, l’esteta: una figura che contrappone al gusto della massa la propria raffinatezza, che antepone a ogni valore, compresi quelli morali, il piacere estetico, il culto di una bellezza artificiosa e complicata, per certi aspetti “malata” e che fa della propria vita (è Wilde a teorizzare questo principio) un’opera d’arte (➜ C9). D’Annunzio è un grande assimilatore delle tendenze letterarie in voga in Europa: i suoi romanzi prendono quindi le mosse proprio dall’estetismo: il protagonista del Piacere (1890), Andrea Sperelli è il prototipo dell’esteta, ma ad esso succedono presto nuovi personaggi modellati invece sul romanzo russo (come L’innocente o Giovanni Episcopo). La principale influenza deriva però a D’Annunzio da un filosofo, e cioè Nietzsche, dalla cui lettura, personale e alquanto fuorviante, D’Annunzio trae suggestioni per le varie figure maschili in vario modo ispirate al “superuomo” che popolano i suoi romanzi (come Il trionfo della morte o Le vergini delle rocce) (➜ C11). Grande successo di pubblico ebbero i romanzi di Fogazzaro, che introduce inquietudini decadenti e figure di personaggi tormentati in un impianto narrativo ancora per certi aspetti tradizionale (➜ C5).

Antonio Fogazzaro.

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4 Una lingua per una nazione All’indomani dell’unità d’Italia: la nuova “questione della lingua” Secondo la nota formula del conte Camillo di Cavour, dopo che si era «fatta l’Italia», occorreva «fare gli italiani». Un compito arduo che, come quasi subito si comprese, riguardava in primo luogo la lingua. Al momento dell’unificazione, infatti, il tasso di analfabetismo era altissimo (più del 70% della popolazione) e, per quanto riguarda la lingua parlata, regnava la più totale frammentazione: solo una percentuale esigua della popolazione parlava infatti “italiano” (circa 200.000 persone su un totale di 20 milioni di abitanti circa!); persino le persone di cultura ricorrevano d’abitudine al dialetto nella comunicazione quotidiana e nelle occasioni familiari o informali. Del resto, fino a quel momento, l’italiano si configurava ancora come lingua essenzialmente letteraria, poco adatta alla comunicazione di medio livello. La formazione dello stato unitario crea l’esigenza imperiosa di una lingua unitaria per l’evidente ragione dei rapporti politici e istituzionali che da quel momento avrebbero collegato i cittadini delle varie zone d’Italia. Si attivò così ben presto un vivace dibattito, ma questa volta la secolare “questione della lingua” uscì finalmente dall’ambito ristretto dei letterati per investire le istituzioni stesse. La posizione di Manzoni In prima linea nell’affrontare la questione e nell’offrire un’ipotesi autorevole per risolverla fu Alessandro Manzoni: un’autorevolezza che gli derivava dalla scelta linguistica “forte” già operata con i suoi Promessi sposi. Lo scrittore milanese aveva infatti scelto per il suo romanzo il fiorentino d’uso, parlato dai ceti colti, proponendo un modello linguistico antiletterario che eliminasse da un lato le forme auliche e dall’altro riducesse, o per lo meno mimetizzasse, le forme idiomatiche regionali. Come modello di lingua nazionale Manzoni propone in sostanza una lingua affine a quella dei suoi Promessi sposi, ricevendo il consenso delle istituzioni grazie anche al grande successo del romanzo, destinato a diventare ben presto e poi fino ai giorni nostri “libro di testo” scolastico, sul quale di formarono nel tempo gli italiani. In qualità di presidente della commissione per la lingua, Manzoni espone la sua proposta nella sua relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (1868): diffondere capillarmente la conoscenza del fiorentino parlato dai colti attraverso un vocabolario (si iniziò a pubblicarlo nel 1872 per volontà del ministro della pubblica istruzione Broglio) e addestrare i maestri di tutta Italia a conoscere il fiorentino. Le obiezioni di Ascoli Se la proposta manzoniana in genere è accolta dalle istituzioni politiche e scolastiche, che si attivano per mettere in pratica il progetto, non mancano oppositori. In particolare attacca la tesi manzoniana il linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), che critica non solo la scelta del fiorentinismo, ma anche l’astrattezza del progetto: una lingua unitaria non nasce per imposizione, dall’alto, ma è il frutto della cultura comune di un popolo. In Italia il livello culturale è basso (è quindi urgente promuovere iniziative capaci di coinvolgere la popolazione) e manca una diffusa coscienza civile comune, a differenza della Francia o della Germania. Senza contare che in Italia non è mai esistita una cultura “media”, ma solo l’alta cultura, dominio del culto formalistico della parola, il «cancro della retorica», come si espresse lo studioso. Sono questi, per Ascoli, i difetti nazionali che non si

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risolvono con un decreto. Obiezioni che appaiono oggi più che motivate: il processo di reale unificazione linguistica sarebbe stato infatti lento e difficile. I fattori che favorirono il processo di unificazione linguistica Certamente però è proprio lo stato unitario a creare le condizioni necessarie per un allargamento dell’uso dell’italiano: la diffusione dell’istruzione elementare, l’amministrazione unificata delle varie regioni, la leva obbligatoria che porta a contatto giovani di diverse regioni, ma anche la crescente urbanizzazione, per lo meno in alcune zone del paese, sono le premesse perché l’italiano iniziasse a diventare da lingua esclusivamente scritta anche lingua parlata. Questo processo avviene in modo diverso, come è ovvio, nelle varie zone d’Italia: centro dell’adozione della lingua nazionale è la Lombardia, la regione economicamente più avanzata, e in particolare Milano. Strumenti importantissimi di diffusione saranno i vocabolari (è interessante che iniziassero a diffondersi anche vocabolarietti a uso pratico e familiare per convertire in italiano i dialettalismi). Non è da trascurare, come fattore linguistico unificante, anche il peso di alcune opere di grande successo, diffuse a livello nazionale: dai Promessi sposi, a cui già si è fatto riferimento, a Cuore (1886) e Pinocchio (1883), veri e propri bestseller. La lingua scritta Anche la lingua scritta, in questo periodo, subisce delle trasformazioni, in particolare la riduzione della frequenza di forme arcaiche, come la desinenza in -a della prima persona dell’imperfetto (io aveva) o pronomi come eglino, e tentativi di stabilizzare e uniformare grafie oscillanti, come quella delle consonanti semplici e doppie. Si verificò nella prassi non una pedestre utilizzazione del fiorentino, ma anzi le forme prettamente toscane sono fatte cadere, mentre vengono accolti nella lingua prestiti da vari dialetti regionali. In generale la dittatura linguistica di Firenze ha vita brevissima e solo in alcuni mediocri epigoni di Manzoni vengono esibiti i toscanismi in un modo che non manca di suscitare critiche negli scrittori meno tradizionalisti. La stampa periodica Incide notevolmente sulla semplificazione antiretorica della lingua la diffusione dei giornali che ci dimostrano una notevole e rapida evoluzione verso un italiano scritto meno letterario e più colloquiale: la lingua giornalistica, sotto la spinta di un pubblico sempre più vasto e socialmente eterogeneo, semplifica la sintassi, inizia a usare il passato prossimo anziché il passato remoto, abbandona forme come poscia che, è d’uopo, imperciocché. Una lingua, quella giornalistica, che sarà considerata non a caso modello da Luigi Pirandello, che consapevolmente ricercherà uno stile antiretorico, una lingua media.

Fissare i concetti Positivismo e Decadentismo 1. P er quali ragioni si afferma nella seconda metà dell’Ottocento il mito del progresso? 2. Quali sono le principali innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche che decretarono il trionfo della scienza? 3. Qual è il significato del termine “positivismo”? E quali sono i principali esponenti di questa corrente filosofica? 4. Che cosa significa il termine Belle Époque, quale periodo identifica e con quale ottica è stato impiegato? 5. Che cos’è la teoria evoluzionistica? Presentala e spiega perché la teoria darwiniana suscitò tanto scalpore. 6. A quale filosofo si deve la divulgazione dell’evoluzionismo e la visione ottimistica del progresso? 7. Quali sono le caratteristiche e le finalità della narrativa per ragazzi negli anni successivi all’Unità d’Italia? 8. Spiega la ragione per cui Marx e Nietzsche sono stati definiti “maestri del sospetto”.

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Libri, lettori, lettura

Lo sviluppo dell’editoria moderna in Italia I fattori che favoriscono lo sviluppo dell’editoria A partire dagli anni Settanta del XIX secolo inizia a svilupparsi un’editoria moderna anche in Italia, in varie zone del paese (Roma, Firenze, Bologna, Torino) ma con centro indiscusso in Milano. Elemento determinante nell’incremento e nella modernizzazione della produzione del libro è certamente la nascita dello stato unitario: ne deriva l’abbattimento delle barriere doganali tra stato e stato e delle strutture preposte stato per stato alla censura, che rende finalmente possibile la circolazione dei libri tra le varie zone d’Italia. Com’è ovvio, anche il crescere del numero di persone alfabetizzate è determinante per la trasformazione dell’editoria in senso imprenditoriale, ma rilevanti sono soprattutto le innovazioni tecniche: in particolare l’invenzione della linotype che meccanizzando i processi di composizione a stampa consentiva di velocizzarli enormemente. Ideato negli Stati Uniti, il nuovo metodo viene introdotto verso la fine dell’Ottocento anche in Italia. In breve tempo il numero dei libri pubblicati raddoppia e tra questi cresce la produzione narrativa: di fatto, lo sviluppo dell’editoria moderna è legato a doppio filo al successo del romanzo, il genere più adatto a un pubblico variegato, anche piccolo-borghese o persino popolare.

Vittorio Matteo Corcos, Sogni, olio su tela, 1896 (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma).

Vittorio Matteo Corcos, Pomeriggio in terrazza, olio su tela, 1895.

L’avvento della “politica editoriale” La moderna editoria trasforma in modo radicale la produzione dell’opera letteraria: assai presto, anche in Italia l’editore non è più chi recepisce le proposte degli autori, ma colui che, sulla base delle prime indagini di mercato (anche se imparagonabili a quelle sofisticate di oggi), commissiona opere, contatta gli autori di successo o quelli che potranno diventarlo. Si inizia anche a curare le copertine, a preparare le recensioni, a pubblicizzare libri e autori, trasformandoli spesso in “personaggi” (esemplare il caso di D’Annunzio) (➜ D11 OL). Il boom del giornalismo Un aspetto fondamentale della trasformazione di cui stiamo parlando (anche per le nuove possibilità di impiego che apre ai letterati) è lo sviluppo del giornalismo. In risposta all’espansione del pubblico le testate si moltiplicano, i giornali si diffondono e, almeno i principali, cominciano a essere organizzati e strutturati al loro interno in settori diversi per le notizie sull’estero, l’interno, le cronache locali, lo sport ecc. in modo simile agli odierni quotidiani. Dal primo Novecento compare anche la “terza pagina”, dedicata espressamente ad argomenti di

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Libri, lettori, lettura

carattere culturale, nella quale si inserirà l’“elzeviro”, un breve testo di carattere narrativo o riflessivo in cui gli scrittori danno prova di raffinatezza di scrittura rivolgendosi a un pubblico più elitario rispetto ad altre sezioni del giornale. Nel 1876 è fondato il «Corriere della Sera», prototipo per eccellenza del giornale moderno che si rivolge alla moderna borghesia imprenditoriale, alla maniera del «Times» londinese, a cui originariamente si ispira. Già nel primo decennio del Novecento il «Corriere» tocca le 200.000 copie; dal 1900 e fino al 1925 è magistralmente diretto da un grande giornalista, Luigi Albertini. Derivata dal Giuseppe Verdi legge il giornale in piazza della Scala. «Corriere», «La domenica del Corriere» si rivolge a un pubblico vasto, anche popolare, che cerca di attrarre con le celebri “copertine” disegnate, dedicate a fatti di attualità. Accanto ai giornali si collocano le riviste culturali, che soprattutto nel primo Novecento e con particolare riguardo a Firenze, acquisteranno un ruolo di primo piano, come si è detto, nel dibattito ideologico. online D11 Gli scrittori e il mercato editoriale D11a Emile Zola

Zola Il denaro ha creato la letteratura moderna Il romanzo sperimentale

PER APPROFONDIRE

D11b Ugo Ojetti D’Annunzio L’«appetito sentimentale della moltitudine» e l’editoria moderna Intervista

Milano, capitale dell’editoria In Italia la capitale dell’editoria è Milano, dove è più avanzato rispetto al resto d’Italia il processo di industrializzazione e dove le strutture produttive sono più moderne. È a Milano che già nel 1861 nascono case editrici importanti come Treves e Sonzogno: quest’ultima si specializza in testi divulgativi e di narrativa popolare, mentre la prima (il maggior editore italiano fino al 1915) punta invece sulla narrativa di alta qualità, assicurandosi tutti i grandi nomi del momento (da Fogazzaro a Grazia Deledda, da D’Annunzio a De Amicis, di cui pubblica il bestseller Cuore). Per questa casa editrice ricercare il successo commerciale non comporta sacrificare la qualità del prodotto, perché le interessa conquistare un pubblico medio che vuole elevarsi. Treves pubblica anche «L’illustrazione italiana», un settimanale in cui l’uso delle immagini serve per conquistare un pubblico più ampio. Nel 1894, sempre a Milano, è fondato il Touring Club Italiano, la cui produzione di guide e cartine serve un

mercato in continua crescita: sono gli anni in cui nasce il turismo inteso in senso moderno, c’è un pubblico sempre più attratto dalla dimensione del viaggio, appassionato anche di resoconti (autore assai apprezzato nel genere è De Amicis). Nel 1910, poi, viene fondata la Mondadori, destinata a diventare un colosso editoriale. Nello stesso anno il progresso tecnologico porterà alla nascita delle prime riviste a colori (i rotocalchi): nello sfruttamento commerciale di questo nuovo prodotto editoriale si distinguerà presto l’editore Rizzoli. Se l’editoria milanese è senz’altro quella più dinamica sul mercato, anche in altre zone d’Italia, come a Torino o a Firenze, esistono grandi case editrici ma sono perlopiù interessate a una saggistica di qualità, di livello accademico, pensata per la formazione delle classi dirigenti, o impegnate nelle varie collane dei classici (qualche nome: Le Monnier, Sansoni, Barbera).

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Arte nel tempo

Le poetiche del vero tra Italia e Francia

A metà Ottocento, contemporaneamente alle tensioni sociali del 1848 e al diffondersi delle idee socialiste, si afferma in Francia un movimento pittorico che mette al centro la rappresentazione del lavoro delle classi sociali subalterne. La pittura realista rifiuta le gerarchie della pittura di storia, i personaggi mitologici e le storie religiose; in polemica con l’emotività romantica disdegna il pathos e l’espressività e si pone come obiettivo la ricerca di una rappresentazione oggettiva, distaccata e di denuncia della realtà. Se Gli spaccapietre del francese Gustave Courbet (1819 - 1877) sono un manifesto poetico di questa nuova tendenza pittorica, le opere di Telemaco Signorini (1835 1901) sono una dimostrazione di come queste istanze pittoriche attente al vero e a costruire uno sguardo sul quotidiano si affermano anche in Italia, in particolare tra quei pittori toscani chiamati Macchiaioli.

di Gustave Courbet 1 eGliLespaccapietre pescivendole di Telemaco Signorini

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849, olio su tela, 1849.

Telemaco Signorini, Le pescivendole, olio su tavola, 1874 (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma).

Gli spaccapietre, distrutto da un bombardamento su Dresda durante la Seconda guerra mondiale, era un dipinto del 1849 in cui Courbet aveva rappresentato la fatica del lavoro con sguardo diretto, riuscendo a creare un’opera in cui la necessità di ritrarre il reale nella sua verità si coniugava con la forza simbolica della scena. Al centro del dipinto stanno monumentali due figure maschili poveramente vestite e intente al lavoro. Il giovane regge un pesante cesto con le pietre lavorate, mentre l’uomo più anziano è genuflesso, ritratto mentre sta sollevando il martello per sminuzzare le pietre. Il paesaggio arso e secco sembra fare eco alla cruda fatica che, come suggeriscono le età dei due uomini le cui azioni sembrano una il prosieguo dell’altra, dura un’intera vita. Lo stessa umanità al lavoro viene scelta come soggetto da Signorini nel dipinto Le pescivendole: lo scorcio di Lerici, a cui fa da sfondo un mare in lontananza, è abitato da un gruppo di donne intente a vendere il pesce mentre alcuni uomini stanno appoggiati al muro di pietra che delimita la strada. La stesura del colore per zone di colore contrastanti, che non definiscono i dettagli, ma anzi li suggeriscono in una visione atmosferica, dà corpo a una scena pittorica in cui la matericità del colore ravviva la sensazione di immediatezza suggerita dall’inquadratura.

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e tesa a voler restituire la momentaneità della realtà.

Arte nel tempo

La pittura della seconda metà dell’Ottocento vede affermarsi le sperimentazioni Un pretesto sul colore che già nella pittura di Turner avevano portato a una prima disgregazione della solidità dei volumi e della precisione nella resa del dettaglio. Gli artisti per studiare sono sempre più interessati a pratiche pittoriche che, pur non rinunciando a voler la luce: rappresentare il reale, non lo fanno più solo imitandolo, ma interpretandolo, senza seguire i canoni pittorici tradizionali e impiegando la pittura come uno strumento la pittura di espressione individuale e di riflessione ontologica sui meccanismi del visibile. impressionista Tappa fondamentale è la mostra che nel 1874 si svolge nello studio del fotografo Nadar, la prima della Société Anonyme, formata da coloro che saranno poi chiadi Monet mati Impressionisti, fautori di una pittura stesa in modo veloce per piccoli tocchi

2 Le cattedrali di Rouen di Claude Monet È da un dipinto di Claude Monet (1840 - 1926) che derivò il termine Impressionismo: nella mostra del 1874 era infatti esposta una sua veduta del porto di Le Havre all’alba con il titolo Impressione, levar del sole. Il termine impressione fu poi recuperato da Louis Leroy che lo usò in modo sprezzante in un articolo per sottolineare la rozzezza della pittura di Monet, senza capire che l’interesse dell’artista era quello di rendere le vibrazioni della luce tra mare e cielo, restituendo l’atmosfera e le condizioni di luce di un preciso momento della giornata. Lo studio della luce e di come essa cambia la percezione del reale è centrale nella pratica pittorica di Monet che tra il 1892 e il 1894, trasferitosi a Rouen, realizza trentun tele in cui ritrae la cattedrale gotica della città dalla finestra dell’Hotel de l’Angleterre dove

si era stabilito. Le tele rappresentano la cattedrale dallo stesso punto di vista con tagli leggermente diversi in differenti condizioni di luce. L’inquadratura è ravvicinata e “taglia” la facciata come fosse una fotografia. Il soggetto pittorico diventa un pretesto: quello che interessa a Monet non è la cattedrale in sé, ma è come essa cambia nel tempo. Viene affermata in questo fare pittorico seriale (serialità che diventerà un metodo di indagine visiva per tutto il ’900) la natura mutevole della realtà e il suo essere in costante trasformazione. La pittura di Monet diventa una ricerca sul visibile e sui suoi limiti: l’occhio ritornando sullo stesso dettaglio lo vede sempre in modo diverso e la pittura ogni volta afferma la necessità di essere “ricominciata” da capo come se non potesse mai esaurire la realtà.

Claude Monet, Le cattedrali di Rouen, 1892 - 1894 (le prime due tele al Musée d’Orsay, Parigi; la terza al Pola Museum of Art, Hakone, Giappone).

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Secondo Ottocento Scenari socio-culturali Positivismo e Decadentismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

L’età del positivismo vede la massima affermazione della borghesia, sia a livello economico (è la fase del capitalismo industriale) sia a livello politico. Le nuove forme dell’immaginario hanno a che fare con l’ambiente urbano. Gli scrittori tendono ad associare la città moderna al progresso, sia nell’esaltazione incondizionata (come nel caso dei futuristi) come nell’interpretazione negativa. La città rende infatti particolarmente visibili le contraddizioni sociali create dall’industrializzazione. Nel secondo Ottocento le donne iniziano a prendere coscienza di sé e della propria posizione di inferiorità. Si diffondono le prime associazioni femminili che si battono per la parità delle donne nell’ambito della società e della politica. La seconda metà dell’Ottocento vede anche una trasformazione del ruolo e dell’identità dei letterati, in rapporto all’affermazione dell’editoria moderna, che si configura come impresa: l’arte è diventata anch’essa un prodotto commerciale.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Gli indirizzi filosofici che dominano nel secondo Ottocento sono due: il positivismo e l’evoluzionismo. Il positivismo nasce dalle opere di Auguste Comte: l’idea del filosofo francese è che si possa fondare una società “positiva”, basata sul sapere scientifico. La teoria elaborata da Charles Darwin afferma che le specie sia animali sia vegetali si evolvono, cioè si trasformano nel tempo grazie a piccoli mutamenti organici. La selezione naturale privilegia gli individui più adatti, che trasmettono ai discendenti i caratteri “vantaggiosi”. La teoria evoluzionistica ben presto estese la sua influenza ad ambiti lontani dalla biologia, coinvolgendo campi come quello socio-politico, storico, economico. Nel 1848 è pubblicato il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Nella concezione materialistica di Marx la storia è espressione di interessi economici e le ideologie sono solo un riflesso della struttura economica che determina i rapporti tra le classi. Il modello positivistico e scientista viene messo in crisi dal pensiero di Friedrich Nietzsche. Per Nietzsche, con la fine dei valori del passato, di cui l’uomo moderno non sente più il bisogno, non esistono più valori assoluti né in campo conoscitivo né etico.

3 Generi e forme della letteratura

Gli scapigliati, movimento letterario degli anni Sessanta-Settanta, rifiutano i modelli della tradizione, ma senza riuscire a tradurre in forme poetiche innovative la loro azione di rottura. Una scelta opposta compie nello stesso periodo Giosue Carducci, richiamandosi alla tradizione classica: non manca però nella sua poesia più intima e privata il senso del trascorrere del tempo e della morte. In Francia nel 1857 sono pubblicate due opere fondamentali, Madame Bovary di Gustave Flaubert e I fiori del male di Charles Baudelaire. Con il romanzo di Flaubert si afferma

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il movimento naturalista; i componimenti di Baudelaire conducono verso il simbolismo e nella sua opera il poeta francese dà voce per la prima volta all’angoscia, lo spleen, dell’uomo moderno. In Italia la nuova poesia si afferma con Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Nel primo il mondo della campagna e della famiglia, che costituisce il repertorio più ricorrente dei suoi versi, viene percorso da oscure inquietudini. D’Annunzio invece fa della parola uno strumento virtuosistico, impiegato per affascinare il lettore. Con Giovanni Verga si afferma la poetica realista. Lo scrittore siciliano, nella sua produzione maggiore, arriva al massimo grado dell’impersonalità della narrazione, che già il naturalismo francese aveva prescritto senza però realizzarla pienamente. Accanto al naturalismo è un secondo modello di romanzo, rappresentato dalle opere di Huysmans e Wilde, dove i protagonisti antepongono a ogni valore, compresi quelli morali, il piacere estetico; in Italia sarà D’Annunzio il maggiore rappresentante di questa tendenza.

4 Una lingua per una nazione

Al momento dell’unificazione italiana il tasso di analfabetismo è altissimo (più del 70% della popolazione). È proprio lo Stato unitario a creare le condizioni necessarie per un allargamento dell’uso dell’italiano: la diffusione dell’istruzione elementare, l’amministrazione unificata, la leva obbligatoria sono le premesse perché l’italiano iniziasse a diventare da lingua esclusivamente scritta anche lingua parlata. Non è da trascurare, come fattore unificante, anche il peso di alcune opere di grande successo, diffuse a livello nazionale: dai Promessi sposi a Cuore (1886) e Pinocchio (1880). Sulla semplificazione della lingua italiana incide la diffusione dei giornali, che conducono a una rapida evoluzione verso un italiano scritto meno letterario e più colloquiale.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Presenta le diverse sfaccettature, per molti aspetti innovative, con cui la figura femminile viene proposta nella letteratura e nell’arte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo.

Testi a confronto

2. Individua e stabilisci gli elementi di parallelismo tra i romanzi d’appendice e le moderne fiction televisive in merito alla costruzione delle vicende, alle modalità di diffusione, alle tecniche di fidelizzazione. Costruisci una tabella, quindi commentala oralmente.

Esposizione orale

3. In un intervento orale di 5 minuti illustra, con precisi riferimenti ai testi che hai letto, gli atteggiamenti e gli stati d’animo con cui alcuni scrittori guardano all’atmosfera delle più importanti metropoli.

Scrittura

4. Illustra le componenti fondamentali del mito del progresso e della modernità che si diffondono nell’immaginario collettivo e nella letteratura tra Otto e Novecento, facendo riferimento ai testi che hai esaminato (circa 15 righe).

Esposizione orale

5. Spiega per quali motivi le riviste fiorentine del primo Novecento rientrano nell’orientamento culturale e filosofico antipositivista (intervento orale di max 3 minuti).

Sintesi

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Remo Ceserani, Treni di carta: l’immaginario in ferrovia, l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Bollati Boringhieri, Torino 2002

È possibile, partendo da una buona campionatura dei testi, tentare la costruzione di un sistema delle strutture semantiche e metaforiche dell’immaginario ferroviario dell’Ottocento. […] Fra le polarizzazioni principali di questo sistema semantico ci sono: 5 […] La contrapposizione, nelle descrizioni della locomotiva, fra organismo naturale dotato di forza animale, bello e armonioso, e macchina metallica, dotata di forza artificiale, perturbante e mostruosa, nata nelle profondità della terra, nelle miniere, che utilizza per i suoi movimenti una via metallica e che spesso dentro la terra ritorna con i suoi tunnel. Da una parte il cavallo, dall’altra la 10 vaporiera: di qui tutta una serie di contrapposizioni, ma anche di immagini metaforiche che si trovano in quasi tutti i testi, sia in positivo che in negativo, e che attribuiscono alla locomotiva le caratteristiche e gli attributi di un cavallo artificiale e mostruoso (il calore e il fuoco interiore, le narici sbuffanti, gli occhi spalancati, la criniera di fumo ecc.) o di un animale favoloso come il drago o 15 persino di uno esotico come l’elefante. […] La contrapposizione fra il movimento naturale, lento, avventuroso e magari anche tortuoso dell’uomo nel mondo (e in particolare di quella specie di incarnazione dell’uomo romantico che fu il Wanderer [il viaggiatore]) o anche il movimento agile e veloce degli uccelli, delle nuvole, del vento e per contro il 20 movimento diritto, determinato, obbligato del treno sui binari e del tracciato del treno, fra una stazione e l’altra, attraverso le più varie scene di natura, senza fermarsi davanti a nessun tipo di ostacoli, e quindi anche dei viaggiatori, spettatori immobili, che si vedono passare davanti agli occhi, inquadrati dai finestrini, i paesaggi della natura, con un movimento veloce e un montaggio 25 quasi cinematografico. Questa contrapposizione, che tocca uno degli elementi centrali della mitologia letteraria romantica, mi pare una di quelle più profonde strutturalmente e più importanti nella ricognizione dei nuclei centrali e fondamentali dei due mondi culturali contrapposti.

Il mito e la suggestione del treno – che hanno così profondamente e diffusamente impregnato l’immaginario artistico-letterario, e la stessa mentalità comune, del secondo Ottocento – possono trovare un corrispettivo oggi, nella nostra civiltà tecnologicamente avanzata? Oppure l’incalzante succedersi di scoperte e dispositivi sempre più sofisticati e potenti ci ha assuefatti, soffocando la nostra capacità di stupirci e di immaginare? Rifletti e discuti la questione, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

1 Modelli educativi e comportamentali per una giovane nazione

Nella seconda metà dell’Ottocento, l’Italia post-unitaria si vede impegnata a formare i cittadini della giovane nazione, proponendo modelli positivi di comportamento. A questo obiettivo rispondono i romanzi Cuore e Le avventure di Pinocchio, espressione di una narrativa per ragazzi con finalità pedagogiche.

letteratura al servizio 1 Ladi una giovane nazione: Cuore e Pinocchio

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1

Silvestro Lega, La lezione della nonna, olio su tela, 1880-1881 (Galleria d’arte moderna Achille Forti, Verona).

La letteratura al servizio di una giovane nazione: Cuore e Pinocchio La centralità del problema scolastico ed educativo in Italia Dopo l’Unità emerse in Italia come primario il problema dell’istruzione. In questo ambito la situazione nel paese era drammatica: infatti nel 1861 il 70% della popolazione era analfabeta e non esisteva ancora un sistema statale di formazione e reclutamento degli insegnanti. Esistevano inoltre enormi divari tra le diverse zone d’Italia: a regioni all’avanguardia in campo pedagogico (come il Piemonte), si contrapponevano zone, specie del Sud Italia, arretrate (come la Sicilia). Il problema urgente che si pose al neonato stato italiano, perciò, era quello di estendere, laicizzare e centralizzare l’istruzione di base. La valorizzazione della figura del maestro e del mondo della scuola La riconosciuta importanza dell’educazione per il futuro della nazione induce a esaltare presso la popolazione il ruolo formativo della scuola e a promuovere lo sviluppo di una narrativa per i ragazzi di carattere pedagogico. Era infatti necessario formare i cittadini della nuova Italia, sviluppando e diffondendo tra i piccoli alunni valori comuni: la devozione alla patria (con la conseguente mitizzazione del Risorgimento), il rispetto delle istituzioni e dell’autorità, il culto della famiglia, l’etica del dovere e del sacrificio, la solidarietà verso i più svantaggiati (ma insieme anche il rispetto delle gerarchie sociali). Rispondono a questi obiettivi di formazione degli italiani due romanzi del tempo: Cuore di De Amicis e Pinocchio di Collodi, accomunati dalla creazione di situazioni e personaggi che potessero assumere un’evidente funzione esemplare. Entrambi i romanzi ebbero uno straordinario successo già al tempo della pubblicazione, evidentemente perché avevano saputo dare risposta alle esigenze del paese, che richiedeva modelli comportamentali in cui riconoscersi.

Problema scolastico educativo diffondere la lingua

insegnare valori

rafforzare l’identità nazionale

Collodi, Pinocchio De Amicis, Cuore

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1 Cuore: un libro di successo Edmondo de Amicis e Cuore Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 - Torino 1908), di origine ligure, trascorre l’infanzia a Cuneo. Nella prima parte della sua vita seguì la carriera militare partecipando alla terza guerra di indipendenza (1866). Frutto di quell’esperienza sono i bozzetti La vita militare (1868) che lo fecero conoscere nel mondo letterario; dal 1870 fu corrispondente di viaggio per il quotidiano «La Nazione» e scrisse apprezzati libri di viaggio (Spagna, Marocco, Costantinopoli). Dal 1875 visse a Torino e qui pubblicò Cuore (1886), che gli diede grande notorietà. Avvicinatosi alle idee del socialismo, si iscrive al Partito socialista, immettendo istanze sociali anche nelle opere narrative scritte dopo Cuore: Sull’Oceano (1889, sull’immigrazione) e Romanzo di un maestro (1890, che presenta una visione del mondo della scuola meno edulcorata rispetto al più celebre romanzo), oltre a interessanti saggi linguistici (L’idioma gentile, 1905). Cuore: la struttura e i contenuti Cuore fu pubblicato nel 1886 a Milano da Treves. Il libro ebbe un successo incredibile per i tempi, così che si può parlare di vero e proprio best seller: l’anno stesso della pubblicazione vide ben 40 edizioni. Il romanzo è strutturato sotto forma di un diario, scandito in mesi e giorni, in cui il piccolo Enrico Bottini racconta un intero anno scolastico (dall’ottobre 1881 al luglio 1882) della sua classe, una terza elementare, presentandone avvenimenti e personaggi, cioè i suoi compagni e il maestro Perboni. Alle pagine del diario si alterna il commento (segnalato dal corsivo) dei genitori di Enrico, volto a rafforzare il messaggio pedagogico del libro, lodando o condannando i comportamenti in nome di un severo codice morale e ideologico. Ogni mese è completato da un racconto edificante, dettato dal maestro ai ragazzi della classe; sono nove racconti, o ispirati a vicende patriottiche risorgimentali o ambientati in situazioni esemplari, che hanno per protagonisti dei ragazzi eroici: i più celebri sono La piccola vedetta lombarda, Il tamburino sardo, Il piccolo scrivano fiorentino, Sangue romagnolo, Dagli Appennini alle Ande. Un titolo d’effetto L’efficace titolo di Cuore fa diretto riferimento a quella componente patetico-sentimentale che costituisce il registro pressoché costante del romanzo e che certo contribuì al suo successo. Non è un caso che Cuore si apra proprio su una scena lacrimevole: un ragazzino ha cercato di salvare un compagno più piccolo che stava per essere investito da un omnibus e il piccolo eroe ne ricava in cambio un piede rotto (il critico Asor Rosa parla di «uso abile e spregiudicato di una effettistica lagrimevole» per realizzare gli obiettivi formativi che De Amicis si propone). La letteratura al servizio di una giovane nazione: Cuore e Pinocchio 1 83

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Il messaggio ideologico Il messaggio ideologico del romanzo, legato all’obiettivo pedagogico dell’autore, si costruisce attraverso le varie vicende narrate, ma è esplicitato apertamente anche nelle lettere “commentative” e “ammonitrici” del padre e della madre di Enrico, nelle quali maggiormente si esprime la retorica sentimentalpatriottica propria del romanzo. Attraverso la presentazione del microcosmo della classe e la valorizzazione di alcune figure all’interno di essa, si coglie l’intenzione dello scrittore di enfatizzare come protagonisti della nuova storia e della nuova nazione i ceti piccolo-borghesi e popolani (ferrovieri, fabbri, droghieri…). Il modello a cui tutti guardano, il “primo della classe”, la figura positiva per eccellenza è il figlio di un negoziante, Derossi. I personaggi che invece incarnano senza possibilità di riscatto la negatività e sono anche costituzionalmente emarginati dalla classe, il ribelle Franti e il superbo Nobis, non a caso appartengono rispettivamente al sottoproletariato e all’aristocrazia (le cui reazioni, come osserva Asor Rosa, significativamente spesso sono coincidenti). Nel messaggio ideologico del libro le disuguaglianze sociali sono considerate inevitabili ma viene sostenuta, attraverso parabole a volte così patetiche da diventare stucchevoli, la necessità di una comunicazione tra le classi fondata sul rispetto e sulla solidarietà per chi è svantaggiato.

Cuore GENERE

romanzo sotto forma di diario

CONTENUTO

esperienze di una classe di terza elementare, durante un intero anno scolastico (1881-1882); presenza di racconti edificanti

DATA

1886

FINALITÁ

obiettivo pedagogico

Edmondo De Amicis

T1

Una “scena madre” dal sicuro effetto Cuore

E. De Amicis Cuore, a c. di L. Tamburini, Einaudi, Torino 1972

Per dare un’idea della prospettiva ideologica che ispira il romanzo di De Amicis presentiamo un passo (dal mese di febbraio 1882) che ha per protagonista Precossi, figlio diligente di un fabbro ubriacone e violento, che però riuscirà a redimersi, proprio con l’aiuto del figlio. Costui è presentato come un ragazzino piccolo, smorto, spesso picchiato dal padre, che egli cerca ugualmente di difendere. Il narratore ci fa assistere dal vivo alla scena commovente della consegna delle medaglie che premiano gli alunni più meritevoli. La prima, come al solito, è data all’ottimo Derossi, ma la seconda viene assegnata proprio a Precossi.

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Una medaglia ben data 4, sabato. […] Il Sovrintendente1 guardò con attenzione quel visino color di cera, quel piccolo corpo insaccato in quei panni rimboccati e disadatti, quegli occhi buoni e tristi, 5 che sfuggivano i suoi, ma che lasciavano indovinare una storia di patimenti; poi gli disse con voce piena di affetto, attaccandogli la medaglia alla spalla: – Precossi, ti dò la medaglia. Nessuno è più degno di te di portarla. Non la dò soltanto alla tua intelligenza e al tuo buon volere; la dò al tuo cuore, la dò al tuo coraggio, al tuo carattere di bravo e buon figliuolo. – Non è vero, – soggiunse, voltandosi verso la 10 classe, – che egli la merita anche per questo? – Sì, sì, – risposero tutti a una voce. Precossi fece un movimento del collo come per inghiottire qualche cosa, e girò sui banchi uno sguardo dolcissimo, che esprimeva una gratitudine immensa. – Va’, dunque, – gli disse il Sovrintendente, – caro ragazzo! E Dio ti protegga! – Era l’ora d’uscire. La nostra classe uscì avanti le2 altre. Appena siamo fuori dell’uscio... chi 15 vediamo lì nel camerone, proprio sull’entrata? Il padre di Precossi, il fabbro ferraio, pallido, come al solito, col viso torvo, coi capelli negli occhi, col berretto per traverso, malfermo sulle gambe. Il maestro lo vide subito e parlò nell’orecchio al Sovrintendente3; questi cercò Precossi in fretta e, presolo per mano, lo condusse da suo padre. Il ragazzo tremava. Anche il maestro e il direttore s’avvicinarono; molti 20 ragazzi si fecero intorno. – Lei è il padre di questo ragazzo, è vero? – domandò il Sovrintendente al fabbro, con fare allegro, come se fossero amici. E senz’aspettar la risposta: – Mi rallegro con lei. Guardi: egli ha guadagnato la seconda medaglia, sopra cinquantaquattro compagni; l’ha meritata nella composizione, nell’aritmetica, in tutto. È un ragazzo pieno d’intelligenza e di buona volontà, che farà molto cammino; 25 un bravo ragazzo, che ha l’affezione4 e la stima di tutti; lei ne può andar superbo, gliel’assicuro. – Il fabbro, che era stato a sentire con la bocca aperta, guardò fiso5 il Sovrintendente e il Direttore, e poi fissò il suo figliuolo che gli stava davanti, con gli occhi bassi, tremando; e come se ricordasse e capisse allora per la prima volta tutto quello che aveva fatto soffrire a quel povero piccino, e tutta la bontà, tutta la 30 costanza eroica con cui egli aveva sofferto, mostrò a un tratto nel viso una certa meraviglia stupida, poi un dolore accigliato, infine una tenerezza violenta e triste, e con un rapido gesto afferrò il ragazzo per il capo e se lo strinse sul petto. Noi gli passammo tutti davanti; io l’invitai a venir a casa giovedì, con Garrone e Crossi; altri lo salutarono; chi gli facea una carezza, chi gli toccava la medaglia, tutti gli 35 dissero qualche cosa. E il padre ci guardava stupito, tenendosi sempre serrato al petto il capo del figliuolo, che singhiozzava. [Al patetico episodio edificante seguono le riflessioni di Enrico, ispirate al rimorso per la sua pigrizia, che lui stesso giudica indegna delle aspettative del suo maestro 40 e di suo padre.]

1 Il Sovrintendente: il funzionario mandato dal ministero della Pubblica istruzione come ispettore nella scuola. 2 avanti le: prima delle.

3 parlò… Sovrintendente: evidentemente il maestro mette il Sovrintendente al corrente della difficile situazione economica e familiare dell’alunno.

4 affezione: affetto. 5 guardò fiso: osservò con attenzione.

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Analisi del testo Una pedagogia fondata sul “cuore” La scena che abbiamo presentato è esemplare di una scelta narrativa ricorrente nel romanzo: proprio per i fini educativi che si propone, De Amicis spesso affida il messaggio che vuole trasmettere a scene melodrammatiche, “scene madri” (come quella che apre il libro cui si è già accennato), alle quali assiste in genere un pubblico che è il primo destinatario dello “spettacolo”. In questo caso, la scena dell’incontro tra il padre degenere di Precossi e il suo lodevole bambino, appena premiato dall’autorità scolastica, e le parole del Sovrintendente, a cui segue la commossa reazione dell’uomo (una sorta di “conversione” che getta le basi dell’inevitabile ravvedimento che seguirà) suscitano l’immediata reazione positiva degli scolari che vi hanno assistito e che sono i primi beneficiari dell’episodio edificante. La “lezione” (e il messaggio pedagogico a essa connesso) continua poi nelle righe successive (qui non riportate) in particolare per Enrico, la voce narrante del romanzo: la scena a cui ha assistito attiverà in lui un salutare rimorso (in cui, pur essendo complessivamente laica la visione del romanzo, si avverte il retaggio cattolico) per la fiacchezza e debolezza della sua volontà. Com’è evidente da questo breve episodio, per comunicare i suoi messaggi De Amicis fa leva sul sentimento e sull’emotività dei lettori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi l’episodio in 5 righe e indicane il tema centrale. COMPRENSIONE 2. Quali conseguenze produce sul narratore la scena a cui ha assistito? ANALISI 3. Il ritratto fisico del fabbro ferraio ti sembra ispirato a realismo o connotato anche moralmente? STILE 4. Evidenzia come la reazione del padre alle parole del Sovrintendente sia costruita in crescendo.

Interpretare

LA LETTERATURA E NOI 5. De Amicis, pur avendo goduto di grande successo di pubblico, fu «fieramente bistrattato da alcuni»; ad esempio da Carducci, che lo definì «Edmondo dai languori», cioè il rappresentante estremo di un romanticismo languoroso. Eppure, afferma il critico Giuseppe Petronio, De Amicis «fu lo scrittore che con più chiarezza si pose il compito di unificare nel sentire e nel parlare gli italiani». Commenta le opinioni espresse, soffermandoti sul messaggio pedagogico del libro e in particolare sul fatto che a suo modo rispondeva a un’esigenza di educazione nazionale. SCRITTURA 6. Ritieni che la lettura dell’opera di De Amicis possa essere ancora assegnata a un ragazzo di oggi o pensi che i valori e le situazioni in essa rappresentate siano anacronistiche e inattuali? Esprimi le tue considerazioni in un testo di massimo 15 righe.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il brano proposto dal libro Cuore è un esempio illuminante della tendenza di De Amicis a indulgere, nella sua narrativa, al sentimentalismo e a far leva sull’emotività, suscitando per questo giudizi particolarmente severi da parte della critica. Abbiamo assistito, nondimeno, in questi anni, al diffondersi di programmi televisivi che, per ragioni evidentemente commerciali, sfruttano in modo palese la componente emozionale per coinvolgere il pubblico. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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2 Carlo Collodi e Pinocchio Un vero classico Il romanzo Le avventure di Pinocchio (con il sottotitolo Storia di un burattino di legno) del toscano Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini (Firenze 1826 - Firenze 1890) è l’altro best seller italiano per i ragazzi del secondo Ottocento. Pubblicato a puntate sul «Giornale dei bambini» fra il 1881 e il 1883, uscì anche in volume nello stesso 1883. Carlo Lorenzini (lo pseudonimo Collodi deriva dal nome del paese natale della madre, Collodi, in provincia di Pistoia) partecipò come volontario alle prime due guerre risorgimentali, fu giornalista e autore di varie opere, alcune delle quali sono dedicate ad argute rappresentazioni di costume (ad esempio Occhi e nasi, 1881). Inizia a interessarsi alla letteratura per bambini e ragazzi dopo aver tradotto dal francese Le fiabe di Perrault. Nel 1881 pubblica a puntate il celeberrimo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di legno, ambientate in un contesto ben diverso da Cuore: non nella Torino industriale e progredita, ma nei piccoli borghi rurali della Toscana, in cui la vita degli abitanti è segnata da ristrettezze e privazioni, se non addirittura da vera povertà. La vitalità di Pinocchio è risultata nel tempo maggiore rispetto a Cuore, certo grazie alla componente fantastico-fiabesca (basti pensare al personaggio della Fata Turchina o al Grillo parlante ➜ T2 ). Mentre il libro di De Amicis rivela pienamente ormai la sua storicità e risulta molto lontano dal gusto dei lettori d’oggi, per i valori proposti ma soprattutto per il registro spesso patetico-sentimentale, Pinocchio è invece un classico d’ogni tempo e conosce oggi nuova fortuna, anche in ambito critico: si moltiplicano sofisticate letture interpretative del libro di Collodi in chiave sociologica, narratologica, psicanalitica e così via. Fiaba o “romanzo di formazione”? Anche Pinocchio nasce con precise intenzioni pedagogiche, legate alla necessità di formare cittadini italiani nel difficile periodo post-unitario: anche nella vicenda del burattino di legno che, dopo innumerevoli avventure, diventa un bambino in carne e ossa, si può leggere infatti un valore esemplare. Pinocchio è quindi solo apparentemente una fiaba (della fiaba utilizza certo in modo consapevole temi e schemi narrativi; del resto, Collodi ben conosceva il genere, avendo tradotto le fiabe di Perrault). In realtà è soprattutto un “romanzo di formazione”, incentrato sulla metamorfosi positiva di Pinocchio, realizzata attraverso prove molto dure, una metamorfosi che coincide anche con il passaggio del personaggio dall’infanzia all’adolescenza. Il personaggio del burattino di per sé non è negativo, ma è incapace di rispettare i buoni propositi, è ribelle, rifiuta la disciplina e la fatica dello studio, è attratto dall’avventura e quel che più gli garba fare è: «mangiare, bere, dormire, divertir[si] e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo» (➜ T2 ). La sua irrequietezza può diventare pericolosa e condurlo sulla cattiva strada se diventa un tratto stabile del carattere; per questo va corretta per tempo anche con sistemi duri: per riscattarsi Pinocchio dovrà conoscere la fatica fisica, il dolore, la perdita degli affetti, rischierà di morire impiccato, vivrà addirittura metamor-

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online

Sguardo sul cinema Pinocchio tra letteratura e cinema

fosi animalesche (in asino). Solo alla fine di un difficile percorso potrà diventare un bambino vero: nell’implicita morale del romanzo ciò significa diventare “un bambino buono e obbediente”. Vincente è quindi la severa etica del dovere che pone in primo piano i valori di obbedienza, rispetto per la famiglia, ossequio all’autorità e attaccamento allo studio.

Le avventure di Pinocchio GENERE

romanzo di formazione sotto le vesti di una fiaba

DATA

1883

FINALITÁ

formazione dei cittadini dell’Italia post-unitaria

TEMI

valorizzazione dell’etica del dovere

Carlo Collodi

T2

La lezione di vita del grillo parlante Pinocchio, cap. IV

C. Collodi, Pinocchio, intr. di F. Tempesti, Feltrinelli, Milano 1972

Pinocchio è appena “nato”, scolpito dal falegname Geppetto, e subito fa capire di voler fare di testa sua… Cerca di sfuggire al suo artefice, ma è alla fine raggiunto da Babbo Geppetto che si propone di dargli una lezione appena rientrati in casa. Pinocchio però inizia a lamentarsi, così da passare per vittima agli occhi della gente del paese. Il carabiniere allora arresta Geppetto, mentre Pinocchio se ne torna da solo a casa. Ma lo attende un incontro inaspettato.

[La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro.] Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, 5 se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi1 altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua; tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori. Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro e, 10 appena ebbe messo tanto di paletto2, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza. Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece: – Crì-crì-crì! – Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito. 1 greppi: balzi.

2 ebbe… paletto: ebbe chiuso bene con il paletto.

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– Sono io! – Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro. – Dimmi, Grillo, e tu chi sei? – Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da più di cent’anni. – Oggi però questa stanza è mia, – disse il burattino, – e se vuoi farmi un piacere, 20 vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro. – Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo, – se prima non ti avrò detto una gran verità. – Dimmela e spicciati. – Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capriccio25 samente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente. – Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché, se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi 30 toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido. – Povero grullerello3! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te? – 35 – Chetati4, Grillaccio del mal’augurio! – gridò Pinocchio. Ma il grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di5 questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce: – E se non ti garba di6 andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane? 40 – Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. – Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio7. – E questo mestiere sarebbe? – Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo. 45 – Per tua regola, – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma, – tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono quasi sempre allo spedale8 o in prigione. – Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza9, guai a te! – Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!... – Perché ti faccio compassione? 50 – Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. – A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare cri-cri-cri, e poi 55 rimase lì stecchito e appiccicato alla parete. 15

3 grullerello: scioccherello, da grullo “sciocco”, uno dei frequenti toscanismi nella lingua del romanzo. 4 Chetati: stai buono, tranquillìzzati.

5 aversi a male di: offendersi, prendersela per. 6 se non ti garba di: se non ti piace. 7 mi vada a genio: mi piaccia.

8 spedale: ospedale (con aferesi). 9 mi monta la bizza: mi arrabbio.

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Analisi del testo Un maestro singolare L’episodio narrato, pur nella sua brevità, illumina con chiarezza la volontà pedagogica che sta alla base dell’ideazione del romanzo di Collodi. Interessante, e coinvolgente per i ragazzini, lettori a cui l’opera è idealmente destinata, è l’idea di affidare il messaggio a un grillo, che però, come appunto gli animali nelle fiabe, è capace di parlare. La saggia lezione di vita del grillo-pedagogo si scontra con la natura ribelle e indolente di Pinocchio, che rivendica il suo diritto a una vita facile e spensierata.

Disegno di Attilio Massimo per l’edizione delle Avventure di Pinocchio del 1911 (Editori Bemporad, Firenze).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza (massimo 5 righe) il contenuto del dialogo tra Pinocchio e il Grillo parlante. COMPRENSIONE 2. A chi si rivolge direttamente il narratore? Il destinatario è rilevante nell’orientare la prospettiva del racconto? In che senso?

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Interpretazione

SCRITTURA 3. Individua nel testo gli aspetti che fanno di Pinocchio un romanzo pedagogico. Quali valori basilari vuole proporre Collodi? In che modo l’autore riesce a fondere ed equilibrare l’attrazione del fantastico e il didatticismo? Argomenta in una breve trattazione (max 20 righe).

Stefano Jossa Cuore: il libro degli italiani Presentiamo un estratto dell’articolo, pubblicato su doppiozero.com il 9 ottobre 2021, di Stefano Jossa (1966, critico letterario e docente di letteratura italiana all’Università di Palermo), in merito a un libro di Marcello Fois (1960, scrittore e commediografo) dedicato a Cuore di De Amicis: L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore, Einaudi, Torino 2021.

Si può davvero tornare a Cuore, il libro di De Amicis del 1886, dopo che la cultura italiana dominante a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso lo ha tacciato di sentimentalismo, lacrimosità, buonismo e retorica? Marcello Fois sostiene di sì; anzi, di più: si deve. Proprio all’insegna di quelle accuse: che vanno capovolte in punti di 5 forza. Lo fa in un piccolo e rapido libretto che è un esperimento con l’etica prima che con la letteratura. Proviamo a capire perché. Il «libro Cuore», come per decenni è stato chiamato, come se lo statuto di «libro» ne potenziasse il genere letterario (che non poteva essere quello del romanzo, prodotto di finzione per eccellenza, ma neppure quello del diario o memoriale, che avrebbe presupposto una verità docu10 mentaria), ha influenzato l’immaginario di generazioni e generazioni, costituendo lo stampino dentro il quale si è svolta la narrazione della e sulla scuola, pure oltre l’Italia, fino ad approdare agli anime giapponesi. Che tale stampino abbia determinato la retorica pubblica del discorso sugli italiani, sempre così carico di eroismo,

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come dimostra soprattutto la cronaca sportiva, è l’assunto da cui parte Fois: non c’è 15 pagina giornalistica italiana che non grondi sentimentalismo e retorica, nel nome di «madri separate, figli eroici, padri lontani, ricongiungimenti da oltre oceano, atti di microeroismo». Siamo intrisi di «cuorismo». Non è difficile immaginare perché. […]. Rappresentarsi eroici svincola dalla responsabilità di esserlo, affidando a chi si suppone tale quell’eroismo di cui noi stessi mai saremmo capaci, come diceva 20 già la dedica al lettore di quello che è il primo grande romanzo della nazione italiana, Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Cuore offre una magnifica occasione per identificare l’italiano con quell’astrazione buonista che il libro rappresenta e che la retorica patriottica avrebbe accolto: generoso, altruista, umile, rispettoso, accogliente, affezionato, ecc. Fin qui, il male di Cuore, risaputo; ma Fois va ostinatamente 25 alla ricerca anche del bene. La retorica della brava gente, infatti, dimentica che Cuore non racconta la realtà dell’italiano, ma un altro mondo possibile, come già evidenziavano Pino Boero e Giovanni Genovesi in un bel libro di circa un decennio fa. Cuore è forse il primo romanzo utopico della letteratura italiana, proiettato nel futuro anziché nel presente, perché gli italiani di De Amicis sono desiderati anziché 30 rispecchiati. Non esistevano allora e non sono mai esistiti dopo. Il libro dà voce a un ideale anziché al reale, come gli è stato a più riprese rimproverato. Risultando infine più complesso di quello che può sembrare, perché non è un catechismo laico di istruzioni per la vita associata, ma il prodotto dello stridere continuo tra l’insufficienza del mondo e l’assoluto dell’etica. Tutt’altro che quel manuale perbenista e 35 piccoloborghese che tanto dispiaceva a Umberto Eco in apertura degli anni Sessanta, quando libertà, anticonformismo e soggettività risultavano parole senz’altro più affascinanti di integrazione, rispetto e dedizione. De Amicis ha fondato quell’idea di scuola come comunità dell’accoglienza, inclusiva, si direbbe oggi, che allora non c’era e che dopo è stata tradita. Due ne sono le 40 caratteristiche fondamentali: il maestro e la classe. Il maestro è colui che impartisce una lezione morale e dà il buon esempio, ma sa anche ascoltare e imparare dai bambini, proponente e raccoglitore insieme […].

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Quali accuse sono state mosse a Cuore, a partire dagli anni Sessanta? 2. Quale legame c’è, secondo Fois, tra la cronaca sportiva e Cuore? 3. Che cosa sostiene Fois quando dice che gli italiani sono «intrisi di cuorismo»? 4. Che cosa si intende affermare nell’articolo quando si dice che Cuore «non è un catechismo laico di istruzioni per la vita associata, ma il prodotto dello stridere continuo tra l’insufficienza del mondo e l’assoluto dell’etica»? 5. P artendo dalle parole di Stefano Jossa «De Amicis ha fondato quell’idea di scuola come comunità dell’accoglienza, inclusiva, si direbbe oggi, che allora non c’era e che dopo è stata tradita. Due ne sono le caratteristiche fondamentali: il maestro e la classe. Il maestro è colui che impartisce una lezione morale e dà il buon esempio, ma sa anche ascoltare e imparare dai bambini, proponente e raccoglitore insieme» (rr. 38-42), rifletti sul ruolo di maestri e discenti nella scuola di oggi. Esponi le tue considerazioni in un testo argomentativo coerente e coeso.

Fissare i concetti Modelli educativi e comportamentali per una giovane nazione 1. Quali modelli educativi e comportamentali propongono Cuore e Pinocchio? 2. Quale messaggio ideologico è contenuto in Cuore? Quale tono prevale nel romanzo? 3. Per quale motivo Pinocchio può essere definito un romanzo di formazione?

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Secondo Ottocento Modelli educativi e comportamentali per una giovane nazione

Sintesi con audiolettura letteratura al servizio di una giovane nazione: 1 La Cuore e Pinocchio Le esigenze educative della nuova Italia Nel periodo post-unitario si manifesta in modo significativo l’esigenza di educare e istruire il neonato Stato italiano, la cui popolazione versa ancora in uno stato di forte analfabetismo, senza contare l’enorme divario, anche a livello pedagogico, tra il Nord e il Sud d’Italia. L’opera di formazione avvenne tramite la diffusione, a partire dai banchi di scuola, di valori comuni (la devozione alla patria, il rispetto delle istituzioni e dell’autorità, il culto della famiglia, l’etica del dovere e del sacrificio, la solidarietà verso i più svantaggiati). Si sviluppa in questi anni anche una letteratura narrativa per ragazzi con fini pedagogici e formativi, di cui fanno parte due romanzi di straordinario successo: Cuore di Edmondo De Amicis e Pinocchio di Carlo Collodi. Cuore: un libro di successo Pubblicato nel 1886, è il libro di maggior successo di Edmondo De Amicis (1846-1908). È strutturato sotto forma di un diario, in cui il piccolo Enrico Bottini, un bambino che frequenta la terza elementare, racconta un intero anno scolastico (dall’ottobre 1881 al luglio 1882) della sua classe. Il libro ha un dichiarato obiettivo pedagogico e veicola un forte messaggio ideologico promuovendo i valori del nuovo Stato italiano e soprattutto sostenendo la necessità di un dialogo tra le classi sociali della nuova nazione fondato sul rispetto e sulla solidarietà. Carlo Collodi e Pinocchio L’altro best seller italiano per i ragazzi del secondo Ottocento è Pinocchio, del fiorentino Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini; 1826-1890). Il romanzo è stato pubblicato a puntate sul «Giornale dei bambini» fra il 1881 e il 1883 e in volume nello stesso 1883. La fortuna di Pinocchio è risultata nel tempo maggiore rispetto a Cuore, certo grazie alla componente fantastico-fiabesca, ma anche per la sua caratteristica di classico senza tempo, di cui vengono proposte continue riletture e riscritture (si pensi soltanto alle numerose trasposizioni cinematografiche del racconto). Anche Pinocchio nasce con intenzioni pedagogiche, legate alla necessità di formare cittadini italiani nel difficile periodo postunitario: anche nella vicenda del burattino di legno che, dopo numerose avventure, diventa un bambino in carne e ossa, si può leggere infatti un valore esemplare. Pinocchio è quindi solo apparentemente una fiaba, in realtà è soprattutto un “romanzo di formazione”, incentrato sulla trasformazione positiva di Pinocchio, che attraversando l’infanzia approda all’adolescenza.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Scrivi un breve racconto di formazione sotto forma di favola, ispirandoti al modello di Pinocchio (max 20 righe).

Recensione

2. Scrivi due brevi recensioni su Cuore di De Amicis: una per consigliarne la lettura e metterne in evidenza le caratteristiche che ne rendono ancora attuale la lettura; un’altra che ne sottolinei, al contrario, l’inattualità.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

2 La Scapigliatura

Nel secondo Ottocento nel Nord Italia, in aperta reazione alla crisi degli ideali risorgimentali e all’esaurimento del romanticismo, si sviluppa il movimento artisticoletterario della Scapigliatura. Gli scapigliati esprimono il loro disagio intellettuale, opponendosi al grigiore dei tempi con scelte di vita trasgressive e anticonformistiche e con il rifiuto dei modelli della tradizione.

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Gli scapigliati tra ribellione e ricerca 1 La reazione alla crisi degli ideali risorgimentali e romantici Il disagio degli intellettuali “orfani” dei valori risorgimentali Nel decennio successivo all’unità d’Italia e fino circa agli anni Ottanta dell’Ottocento si sviluppa nel Nord Italia (Lombardia, Piemonte e in parte Liguria), con epicentro a Milano, il movimento letterario-artistico della Scapigliatura. Più di ogni altra tendenza letteraria del periodo post-risorgimentale (il verismo, la poesia carducciana), la Scapigliatura esprime il disagio dell’intellettuale, la sua difficile ricerca di una nuova identità una volta privato del ruolo-guida assunto durante il Risorgimento. Tramontato ormai nel secondo Ottocento il ruolo romantico dell’artista come guida e edificatore della patria, lo scrittore è infatti obbligato a confrontarsi con una realtà deludente e al contempo con le richieste del mercato editoriale, e pertanto deve cercare nuovi contenuti e nuove modalità narrative: non può più essere, infatti, un osservatore privilegiato che, dotato di uno sguardo onnisciente, “mette ordine” nella realtà che rappresenta, secondo il modello manzoniano. Milano, epicentro della Scapigliatura La Scapigliatura trova la sua sede elettiva a Milano, in una realtà sociale ed economica ormai industrializzata, dominata dalla legge del profitto, che tende a emarginare l’arte o a considerarla esclusivamente come un prodotto commerciale. Gli autori più rappresentativi della Scapigliatura milanese sono Giuseppe Rovani (1818-1874), i fratelli Arrigo e Camillo Boito (18421918 e 1836-1914), Emilio Praga (1839-1875), Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869), Carlo Dossi (1849-1910), Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906); della Scapigliatura piemontese fanno parte Giovanni Camerana (1845-1905), Giuseppe Giacosa (1847-1906) e Roberto Sacchetti (1847-1881).

LE CORRENTI LETTERARIE: DAGLI SCAPIGLIATI AI CREPUSCOLARI

Origine del termine Il termine Scapigliatura (letteralmente “scapigliato” significa “con i capelli arruffati, in disordine”) fu usato per la prima volta nel 1862 da Cletto Arrighi, per identificare una categoria di individui che egli definisce «pandemonio del secolo», nell’introduzione al suo romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio: si tratta di un romanzo “tradizionale”, di carattere ancora amoroso-patriottico, ispirato dalla rivolta operaia del 6 febbraio 1853, a Milano (➜ D1a OL). L’interesse del romanzo (e del suo stesso autore) è oggi esclusivamente quello di aver fornito, nelle prime pagine, un ritratto umano, psicologico e sociale dei primi artisti scapigliati per cui Arrighi utilizza, come sintetica definizione, appunto, il termine “Scapigliatura”, destinato a larga fortuna. La protesta scapigliata La Scapigliatura fu prima di tutto un fatto di costume e il suo significato principale a livello storico è stato l’attacco ai modelli e ai valori della classe borghese, classe a cui peraltro gli stessi scapigliati appartenevano. Tale polemica si traduce in scelte di vita ribellistiche, volutamente anticonformiste che si ispirano direttamente alla bohème francese (➜ PER APPROFONDIRE La bohème PAG. 96): ai rassicuranti binari della vita borghese gli scapigliati contrappongono la propensione all’alcool e alla droga, al mondo dei salotti le squallide osterie, in una sorta di

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voluta autoemarginazione dal mondo del successo e del progresso, che si traduce per alcuni di loro in autodistruzione: muoiono alcolizzati Praga e il romanziere Rovani, muoiono suicidi Pinchetti e Camerana. Anche in ambito letterario gli scapigliati sono accomunati innanzitutto da una volontà di contestazione, affidata molto spesso a “poesie-manifesto” (➜ D1b ). La contestazione scapigliata è rivolta innanzitutto al ruolo “impegnato” dell’intellettuale, che non poteva più essere riproposto nel vuoto di valori e nel clima di grave delusione che seguì l’unificazione del Paese. In alcuni versi di Alla Musa (1873), Emilio Praga, uno dei poeti più rappresentativi della Scapigliatura, enuncia (attraverso il riferimento a Cesare e Bruto) il rifiuto programmatico di una poesia compromessa con la politica e che si confronta con gli eventi nel corso turbinoso della storia, negando persino spazio alla satira: «[...] non un verso a Bruto o a Cesare, / non un sol gettato ai venti / in cui freme e rugge e turbina / la bufera degli eventi! // Non un solo all’empia Satira, / alla livida Ironia... / Diedi il braccio alla mia patria, / le negai la poesia». Il rifiuto della tradizione letteraria e la ricerca di un’arte nuova Anche al di là dell’impegno politico, quella degli scapigliati non può più essere in alcun modo una letteratura “costruttiva”, propositiva, il cui emblema per eccellenza è stato Manzoni, ancora vivente in quegli anni. Il rapporto degli scapigliati con il grande romanziere milanese, assurto ormai a “monumento”, a vera e propria icona dell’età romantico-risorgimentale, è ambiguo: da un lato lo si dissacra («Casto poeta che l’Italia adora [...] / tu puoi morir!... Degli Antecristi è l’ora», scrive Praga in Preludio ➜ D1b ); dall’altro si invidia la sua forza morale, la sua fede indiscussa, negata agli scapigliati dai tempi squallidi in cui si trovano a vivere, che nessun ideale trascendente può più illuminare. Gli scapigliati avvertono il forte bisogno di creare un’arte nuova, che rompa gli schemi, che sia lontana dall’accademismo retorico proprio della nostra tradizione letteraria, da essi rifiutata polemicamente (secondo Gadda – che per certi aspetti è stato l’erede novecentesco della polemica scapigliata – la Scapigliatura «ha buttato nelle spazzature l’accademia come un limone spremuto»).

Federico Faruffini, La lettrice, 1865 circa (Galleria d’Arte Moderna, Milano).

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Il tema del conflitto D’altra parte gli scapigliati avvertono un senso di impotenza, non si sentono (e non furono) capaci di traghettare veramente la poesia italiana verso il moderno, sono dilaniati e combattuti fra attrazione del nuovo e nostalgia del rassicurante passato (è il caso in particolare di Praga): significativamente il tema del conflitto è ricorrente nella loro opera, come è enunciato con lucidità nella prima strofa della celebre poesia Dualismo di Arrigo Boito: «Son luce ed ombra; angelica / farfalla o verme immondo, / sono un caduto chèrubo / dannato a errar sul mondo, / o un demone che sale, / affaticando l’ale, / verso un lontano ciel».

PER APPROFONDIRE

Apertura alla cultura straniera e ampliamento dei confini del poetabile La contestazione sia del sentimentalismo tardo-romantico, sia dell’austero moralismo manzoniano, induce gli scapigliati a cercare i loro modelli e punti di riferimento altrove, nella cultura straniera, in particolare francese, che alcuni di loro hanno la possibilità di conoscere direttamente attraverso soggiorni a Parigi. Nelle scelte di vita e nei comportamenti gli scapigliati si richiamano alla bohème parigina, ritratta nel romanzo di Henri Murger Scene della vita di bohème (➜ PER APPROFONDIRE La bohème); inoltre sono suggestionati dallo scrittore francese Champfleury, da cui derivano la polemica contro i valori borghesi (nel suo libro Gli eccentrici Champfleury aveva delineato il modello umano dell’anticonformista) e il richiamo al realismo in campo artistico. Realismo per gli scapigliati non vuol dire, come sarà per i veristi, tecniche di rappresentazione impersonale e scelte stilistiche, ma attenzione ad aspetti che

La bohème Il termine francese bohème rimanda letteralmente a una zona dell’Europa centrale, la Boemia, che si riteneva terra d’origine del popolo degli zingari. Nel corso dell’Ottocento divenne sinonimo di una vita (come quella degli zingari appunto) libera da vincoli e schemi e, con un’ulteriore estensione di significato, anticonformista e ribelle alle convenzioni borghesi. Verso la metà dell’Ottocento, la bohème si identifica nel circolo parigino fondato da Champfleury (Jules–François-Félix Husson, 1820-1889), che si fa portavoce del realismo in campo artistico (fa parte del circolo anche il pittore Gustave Courbet) e della critica ai valori della società borghese (il lavoro, il denaro, la realizzazione sociale) e, per contro, dell’esaltazione di un modello umano caratterizzato dalla voluta emarginazione e dal ribellismo: un modello che affascina i nostri scapigliati. Del circolo fa parte anche lo scrittore Henri Murger (1822-1861), autore delle Scene della vita di bohème (1847-1849). Il romanzo presenta vari episodi che hanno come protagonisti un pittore, un poeta, un musicista, che vivono miseramente, sempre inseguiti dai creditori. Dal romanzo fu tratto un testo teatrale di successo: è a quest’ultimo che si ispira poi il libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per l’opera lirica La bohème di Giacomo Puccini, rappresentata a Torino nel 1896. Dal romanzo di Murger il melodramma di Puccini riprende l’ambientazione, Parigi, le squallide soffitte dove artisti geniali e incompresi vivono giorno per giorno, in miseria. Commosse il pubblico la drammatica vicenda amorosa che lega lo scrittore Rodolfo alla fioraia Mimì, fino alla morte della fanciulla, stroncata dalla tisi. Locandina per la prima rappresentazione della Bohème di Puccini.

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erano rimasti esclusi (per ragioni insieme etiche ed estetiche) dalla rappresentazione artistica, aspetti anche deteriori e sgradevoli, come nel caso della sconcertante e provocatoria Lezione di anatomia di Arrigo Boito (➜ T2 OL). Modello principale degli scapigliati è sicuramente Baudelaire, i cui Fiori del male erano stati pubblicati nel 1857. Baudelairiano è certamente il tema del conflitto tra “ideale” e “reale” che si è visto in Dualismo di Boito, il senso della “diversità” costituzionale del poeta (L’albatro (➜ C4 T2 ), la dissacrazione dell’amore romantico, evidente, tra gli altri esempi, nel testo Vendetta postuma di Praga, ripreso da una lirica di Baudelaire. Pre-decadentismo o secondo romanticismo? Gli scapigliati sono però lontani dalle intuizioni pre-simboliste di Baudelaire. Forse è più evidente e significativo in loro il recupero di temi e situazioni del romanticismo tedesco: in particolare l’interesse all’onirico, al patologico, al macabro (➜ T1 OL e ➜ T2 OL) e all’irrazionale, che si ritrova ad esempio nei racconti fantastici di Tarchetti; aspetti che, nel nostro romanticismo, interessato esclusivamente al tema storico-patriottico e dominato dal magistero razionalistico e morale di Manzoni, erano stati emarginati. In questa prospettiva, secondo alcuni critici, la Scapigliatura più che una testimonianza di pre-decadentismo può essere piuttosto considerata un “secondo romanticismo”, più vicino a quelli stranieri. Una «avanguardia mancata» La critica ha osservato che gli scapigliati si sono limitati a contrapporre nuovi temi a temi tradizionali: ai valori i disvalori, al bello il brutto e il degradato; ma l’assenza di un chiaro retroterra filosofico conoscitivo (istanze positivistico-scientifiche coesistono con irrazionalismo e spiritualismo) e soprattutto un’insufficiente riflessione sugli aspetti formali impedisce agli scapigliati di dare realizzazione artistica alle loro esigenze di sprovincializzazione e innovazione. La sproporzione evidente tra programmi e risultati ha indotto il critico Elio Gioanola a parlare di «avanguardia mancata» per la Scapigliatura, che non per nulla si esaurisce nel giro di pochi anni. Sul piano linguistico la loro è infatti addirittura una poesia pre-manzoniana (Tarchetti scrive come il Foscolo dell’Ortis) e paradossalmente il classicista e conservatore Carducci finisce per produrre esiti più rivoluzionari con le sue Odi barbare! Fa eccezione lo scrittore considerato oggi più interessante tra gli scapigliati, Carlo Dossi (➜ T6 OL): egli traspone sul piano propriamente stilistico l’opposizione degli scapigliati alla tradizione, operando una violenta deformazione del linguaggio, piegato a esiti grottesco-caricaturali di grande interesse, che ha indotto il critico Dante Isella ad assegnargli un ruolo di primo piano nella linea espressionista che arriva fino a Gadda.

Scapigliatura Scapigliatura

elementi di novità

• anticonformismo • realismo • gusto per il fantastico

elementi di continuità

• lingua e stile tradizionali

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2 I protagonisti Emilio Praga Emilio Praga (1839-1875), figura di riferimento della Scapigliatura milanese, nacque a Gorla (all’epoca un centro rurale nei pressi di Milano) da una ricca famiglia borghese. Nella prima giovinezza, in occasione dei suoi viaggi in Europa, ebbe la possibilità di conoscere la cultura parigina d’avanguardia, appassionandosi alla lirica di Baudelaire da cui deriverà non poche suggestioni. In seguito alla morte del padre, che determinò nella famiglia un grave dissesto economico, dovette però cercarsi un lavoro per vivere, ma non riuscì mai ad adattarsi a una vita regolare. Dedito all’alcool e agli stupefacenti, si ridusse in miseria e morì a soli 36 anni, abbandonato dalla moglie e dal figlio. Soprattutto nella prima giovinezza Praga alternò l’attività letteraria a quella di pittore: uno sguardo figurativo è presente nella sua prima raccolta poetica, Tavolozze (1862), a cui segue Penombre (1864), l’opera più “scapigliata” nei toni polemici e nei temi; nella successiva raccolta Fiabe e leggende (1867) Praga ritorna invece a motivi romantici. Nell’ultima produzione, Trasparenze (postuma, 1878), dominano la confessione intima e un tono di stanca rassegnazione. Praga scrisse anche il romanzo Memorie del presbiterio, lasciato incompiuto e poi completato dall’amico Roberto Sacchetti, nel 1881. Arrigo Boito Arrigo Boito nacque a Padova nel 1842. Nella prima parte della sua vita è vicino agli ambienti della Scapigliatura e diventa amico di Emilio Praga, con il quale fonda la rivista «Figaro» (1864). Nel 1865 pubblica il poemetto Re Orso (una fiaba ispirata ai motivi del romanticismo tedesco) e nel 1877 il Libro di versi. Allentati i legami con il movimento scapigliato, i suoi interessi principali si rivolgono alla musica: compone libretto e musica del Mefistofele (1868) e si inserisce nei circuiti della cultura ufficiale. Scrive libretti di importanti melodrammi verdiani come Otello e Falstaff e riveste numerosi incarichi; nel 1912 è nominato senatore. Muore nel 1918 a Milano. Camillo Boito Camillo Boito (1836-1914), fratello di Arrigo, fu un critico d’arte, insegnante all’Accademia di Brera. Scrisse vari racconti, ispirati al gusto dell’orrido e del patologico. Importante il racconto lungo Senso (1883), da cui Luchino Visconti trasse un importante film nel 1954.

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Identikit degli scapigliati I due passi proposti tracciano un significativo ritratto degli scapigliati. Il primo si deve a Cletto Arrighi che introduce per primo il termine “Scapigliatura”. Il secondo è di uno dei poeti scapigliati più noti, Emilio Praga, e delinea la condizione dei giovani poeti scapigliati, orfani dei valori risorgimentali e desiderosi di dar vita a una poesia nuova.

online D1a Cletto Arrighi Una casta sui generis... vero pandemonio del secolo La Scapigliatura e il 6 febbraio

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Emilio Praga

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Preludio Penombre

La Scapigliatura, a c. di E. Gioanola, Marietti, Torino 1975

Preludio, tratto dalla raccolta Penombre, è uno dei testi più noti non solo di Emilio Praga, ma dell’intera produzione scapigliata. Più che per il suo valore letterario (non certo rilevante), la lirica di Praga è interessante come autoritratto di una generazione ormai incapace di aderire a valori, anche letterari, inesorabilmente tramontati e desiderosa del nuovo, ma anche preda del dubbio e del disagio esistenziale.

Noi siamo i figli dei padri ammalati1: aquile al tempo di mutar le piume2, svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume3. 5

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Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già all’idolo d’or torna l’umano, e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano; s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario, e invan l’esausta vergine s’abbraccia ai lembi del Sudario4...

Casto poeta che l’Italia adora, vegliardo in sante visïoni assorto, 15 tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora! Cristo è rimorto5! O nemico lettor6, canto la Noia7, l’eredità del dubbio e dell’ignoto,

La metrica Strofe di quattro versi, i primi tre endecasillabi, il quarto alternativamente settenario e quinario (ABAB).

1 i figli dei padri ammalati: il termine ammalati è probabilmente da riferirsi ai figli: Praga identifica nella malattia interiore la caratteristica della sua generazione. Con padri Praga si riferisce alla generazione che aveva partecipato al Risorgimento, i cui ideali evidentemente non era riuscita a trasmettere ai figli. 2 aquile... piume: la scelta dell’immagine metaforica che paragona la muta delle aquile con la condizione di chi, come gli scapigliati, vive un’età di trapasso, è molto efficace. 3 agonia di un nume: presumibilmente Praga allude al tramonto dei valori religio-

si, concetto ripreso più sotto (vv. 5-8) dove il poeta, usando immagini metaforiche bibliche, dice che lo splendore dell’Arca santa di Israele (simbolo qui della religione) è ormai solo nebbia e l’uomo torna a adorare l’idolo d’or (con allusione al materialismo della società contemporanea), mentre invano si attende che Mosè (il patriarca) torni dal Sinai, il monte sacro, per enunciare le norme morali. 4 s’attende invano... del Sudario: anche questi versi sono dedicati al tramonto della dimensione cristiana: la musa bianca e l’esausta vergine che abbraccia il sudario di Cristo presumibilmente alludono alla poesia cristiana, per la quale non c’è più posto nel mondo moderno. 5 Casto poeta... Cristo è rimorto: Praga si rivolge qui ad Alessandro Manzoni,

esaltato da tutti gli italiani, ma la cui lezione morale è inesorabilmente destinata a scomparire in un mondo in cui Cristo è nuovamente morto (rimorto) e trionfano gli antecristi (gli “anticristi”, qui sinonimo di tutti quelli che, magari in nome delle verità scientifiche, negano Dio). 6 O nemico lettor: Praga si rivolge qui al lettore, apostrofandolo come nemico, probabilmente perché gli scapigliati non cercano il consenso ma intendono provocare, anche scandalizzando, i loro lettori. Baudelaire stesso, modello degli scapigliati, nel componimento iniziale dei Fiori del male si rivolge al lettore in modo provocatorio: hypocrite lecteur, cioè “lettore ipocrita” (➜ C4). 7 la Noia: non quella leopardiana, ma piuttosto quella (ennui) baudelairiana.

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il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo, e il tuo loto8! Canto litane di martire e d’empio; canto gli amori dei sette peccati che mi stanno nel cor, come in un tempio, inginocchiati9.

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Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro10, e l’Ideale che annega nel fango... Non irrider, fratello, al mio sussurro, se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone, 30 odio il minio e la maschera al pensiero, giacché canto una misera canzone, ma canto il vero11!

8 il tuo re... il tuo loto: la noia, riconosciuta come tema chiave della realtà moderna, è re, pontefice perché governa l’uomo moderno e insieme è il suo boia perché lo tortura. Egli è dilaniato tra l’aspirazione all’alto (cielo) e l’abiezione (loto, “fango”). È evidente il richiamo a Baudelaire. 9 Canto litane... inginocchiati: anche in

questa strofa è evidente l’influsso baudelairiano nella contaminazione tra sacro e profano, tra religioso e blasfemo; «line di martire e d’empio» vale “litanie di martiri e di empi”. 10 bagni d’azzurro: immagine metaforica che allude agli ideali puri in cui il poeta si immerge.

11 giacché... il vero: la poesia si chiude con un’importante dichiarazione: Praga dice di odiare, più del proprio tormento interiore (pallido demone), le mistificazioni, le menzogne (il minio è il fard, il belletto che le attrici mettono sulle guance) e di volere una poesia magari squallida ma vera.

Concetti chiave Un testo-manifesto

Il testo costituisce un documento programmatico della visione scapigliata. È diviso in due parti simmetriche, costituite ognuna da sedici versi. La prima fa riferimento alla generazione di poeti di cui fa parte Praga ed esprime con la prima persona plurale (“Noi”) il rifiuto dei valori del passato, in cui i giovani scapigliati non possono più riconoscersi. Si tratta di valori innanzitutto etico-religiosi: gli scapigliati non riescono più a aderire al credo cristiano (a questo tramonto della religiosità alludono le immagini bibliche della seconda e terza quartina). I vv.13-16 fanno riferimento al poeta cristiano per eccellenza, e cioè Alessandro Manzoni, che all’epoca era ancora vivente e rappresentava un’indiscussa autorità in campo letterario): Praga lo invita a scomparire di scena, il nuovo tempo è quello degli “antecristi”. Si avverte il gusto della provocazione irriverente, quasi blasfema, che gli scapigliati derivano dalla poesia di Baudelaire. Nei versi successivi si passa dal “noi” all’“io” e Praga enuncia i caratteri della nuova poesia a cui intende dare vita: anche in questo caso si avverte l’eco della lezione di Baudelaire, innanzitutto nella volontà di scandalizzare il lettore (di cui non si cerca il consenso) attraverso la proposta di contenuti inediti per la cultura italiana. Nell’ultima strofa, attraverso immagini metaforiche che alludono al teatro, alla “maschera”, Praga rivendica l’adesione sincera al “vero” (che si contrappone all’idealismo proprio della letteratura romantica).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo del componimento (max 5 righe), precisando il tema della poesia. COMPRENSIONE 2. Quale contenuto ha la poesia moderna di cui Praga è portavoce? E quali contenuti non può più avere? 3. Alla fine del componimento è contenuta una dichiarazione poetica: in che cosa consiste? ANALISI 4. Il testo è particolarmente ricco di metafore: individuale e spiega quelle impiegate per definire: a. la condizione interiore della generazione di cui il poeta fa parte; b. la perdita di valori etico-religiosi; c. i nuovi contenuti della poesia. LESSICO 5. Quali campi semantici prevalgono nel componimento? A quali temi sono collegati?

Interpretare

SCRITTURA 6. La poesia di Praga è estremamente significativa per ricostruire l’identikit del poeta scapigliato. Dopo aver letto anche il passo di Arrighi che ritrae la generazione scapigliata ( D1a OL), traccia un profilo psicologico-sociale e letterario degli scapigliati in rapporto al contesto dell’Italia postrisorgimentale.

online

online

Collabora all’analisi

T1 Iginio U. Tarchetti

Il gusto del macabro Disjecta, Memento

T2 Arrigo Boito Lezione di anatomia Il libro dei versi

3 La narrativa scapigliata Gli esiti letterari più interessanti della Scapigliatura si ritrovano nella narrativa: libera da vincoli metrici e dagli stereotipi della tradizione letteraria, la narrativa era più adatta a una rappresentazione critica della società contemporanea nel solco del realismo (non sono pochi i rapporti con gli scrittori veristi). Gli scapigliati sperimentano vari generi e tipologie della prosa: autobiografia, romanzo, racconto, bozzetto, saggio, frammento, taccuino di viaggio. Sul piano tematico la loro volontà di reagire al manzonismo di maniera, stigmatizzato anche da Carducci, e di esplorare nuovi ambiti li porta a prediligere il difforme, il brutto, il bizzarro, l’irrazionale, anche il macabro, per cui sembrano avere un’attrazione particolare.

I principali filoni tematici in ambito narrativo Il versante civile e sociale Da una parte, una narrativa di carattere sociale (che la accosta al verismo), incentrata sulla denuncia dei vizi della borghesia cittadina e del governo post-risorgimentale. Testimonianza di questo versante civile, democratico e impegnato del gruppo (il cui organo ufficiale è il «Gazzettino rosa») è l’opera collettiva, coordinata da Cletto Arrighi, Il ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale per cura di una società di letterati (1888), un viaggio nella Milano di fine secolo, dal titolo chiaramente zoliano (Il ventre di Parigi, 1873). Gli scapigliati tra ribellione e ricerca 1 101

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Il versante psicologico ed esistenziale Dall’altra, la narrativa di carattere psicologico, con l’analisi di tormenti esistenziali, spesso dovuti al contrasto, già presente nel romanticismo, tra ragione e sentimento, ma con incursioni in zone più oscure della psiche e nel territorio del fantastico. Frequenti sono i recuperi memoriali, le narrazioni in prima persona spesso a opera di un “io” turbato e confuso, come in Fosca (1869) di Ugo Tarchetti, L’alfier nero (1867) di Arrigo Boito, Memorie dal presbiterio (1881) di Emilio Praga. In qualche caso, come in alcuni ricordi di Dossi, siamo alle soglie del “flusso di coscienza” novecentesco.

Una strada del centro di Milano.

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Video La parte finale del film di Visconti si può vedere su YouTube

Lo sperimentalismo linguistico Alcuni autori più isolati, come Giovanni Faldella e Carlo Dossi, incentrano la loro attenzione sullo sperimentalismo linguistico: in questi l’opposizione alla realtà storico-sociale si manifesta con la reazione alla prosa grigia e impersonale del tempo attraverso una ricerca stilistica plurilinguista, innovativa e audace. Senso di Camillo Boito La Scapigliatura segna la fine delle spinte propositive risorgimentali, che si rispecchiavano nei numerosi racconti incentrati sul binomio amore e patria. Da questo punto di vista è emblematica la novella Senso (1883) di Camillo Boito (la cui notorietà è legata soprattutto alla raffinata pellicola tratta da Luchino Visconti nel 1954). Infatti l’amore viene descritto esclusivamente nel suo aspetto materialistico, come oggetto dei sensi; il fascino del protagonista maschile (un ufficiale austriaco) sembra addirittura accentuato dal cinismo e dalla viltà (è un disertore e convince Livia, una contessa veneziana, a tradire i patrioti antiaustriaci) e la vicenda, in cui i protagonisti sono lontani da qualsiasi possibilità di redenzione, si conclude con una crudele vendetta personale da parte della nobildonna.

online T3 Camillo Boito

Il credo materialistico di un anatomista Un corpo

L’analisi dei lati oscuri della psiche: Iginio Ugo Tarchetti Iginio Tarchetti, che deciderà di farsi chiamare Ugo in omaggio al Foscolo, nasce nel 1839 a San Salvatore Monferrato (Alessandria) da famiglia benestante. Nel 1859 inizia la carriera militare, partecipando alla repressione del brigantaggio in Puglia e in Campania; nel 1865 si dimette dall’esercito (alla vita sotto le armi è ispirato il romanzo antimilitaristico Drammi di vita militare, pubblicato a puntate in appendice su una rivista e poi in volume con il titolo Una nobile follia). A Milano si inserisce nell’ambiente scapigliato, collaborando a numerose riviste. Influenzato dal cupo romanticismo nordico ma nello stesso tempo aperto alle nuove sollecitazioni in campo artistico, scrive racconti fantastici, “neri” e umoristici come Le leggende del castello nero, La lettera U, Uno spirito in un lampone. Temi privilegiati della sua produzione sono la malattia, la nevrosi, la follia. Il suo capolavoro resta Fosca, romanzo scritto tra il 1866 e il 1869 a Milano e uscito a puntate sulla rivista «Il Pungolo», nel 1869. Nel 1869 lo scrittore, ammalato da tempo di tuber-

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colosi, muore di tifo a soli 29 anni in casa dell’amico Farina che lo ospitava e che termina con l’ultimo capitolo il romanzo lasciato incompiuto. Fosca Fosca è un romanzo breve, ispirato a una vicenda autobiografica. Giorgio, il protagonista-narratore, racconta una sua sconvolgente esperienza amorosa, in cui è stato vittima di un desiderio inconsapevole di annientamento che lo ha portato ad assoggettarsi a un legame torbido e tirannico con una donna malata. La narrazione Condotta in prima persona e interamente focalizzata sul punto di vista del protagonista, ricostruisce l’ultima parte della sua vita, riportandone anche lettere e appunti. Giorgio, un ufficiale dell’esercito, dopo aver vissuto a Milano un rapporto di intensa passione con Clara, una donna sposata, è trasferito in una cittadina di provincia dove conosce Fosca, la cugina del colonnello. Già i nomi delle due donne indicano una tensione fra due opposte pulsioni: quella per il bene, la semplicità, la luminosità (Clara) e quella per l’inquietudine, il tormento, i recessi oscuri dell’anima (Fosca) che alla fine prevale. Un dualismo, quello cui dà voce il romanzo, che è tipico degli autori scapigliati. La giovane Fosca, malata di isterismo, secondo il medico, di una «bruttezza orrenda» e morbosamente ipersensibile, si innamora di Giorgio, così aggravando però la sua condizione di salute. Il medico invita Giorgio, dapprima diviso fra ribrezzo e pietà, ad assecondarla per evitarne la morte, ma ben presto la situazione si trasforma per lui in un incubo assurdo e angosciante da cui gli è impossibile uscire. Dopo la prima, e unica, notte d’amore tra i due, Fosca muore e il protagonista si rende conto di aver contratto, spiritualmente e mentalmente, la stessa malattia della donna. Il romanzo ebbe un forte impatto sui contemporanei e influenzò anche il giovane Verga che ne riprese temi e caratteri in Tigre reale.

Iginio Ugo Tarchetti

T4

Il primo incontro con Fosca Fosca

U. Tarchetti, Fosca, Mondadori, Milano 1981

La presentazione della protagonista del romanzo di Tarchetti è ritardata per creare nei lettori un clima di attesa, fino all’inizio del capitolo, quando Giorgio la incontra inaspettatamente da solo a casa del colonnello. Al termine del colloquio Fosca cadrà in preda a violente convulsioni e il giovane uscirà dalla casa «quasi insensato», in preda a un grande turbamento.

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono 5 beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze1, – ché anzi erano in parte regolari – quanto per una magrezza 1 fattezze: forme.

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eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo 10 d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una 15 beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualche cosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta2; i suoi modi erano 20 così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso. Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissi25 mularlo, e per non rinunziare a quegli artifizi, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo. Me le era presentato3 da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza: «Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di cono30 scervi4, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre così malata!» Fui colpito dalla soavità5 della sua voce, più ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza. 35 «Ora mi sembrate però guarita» risposi io. «Guarita!» esclamò ella sorridendo «mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato6, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni 40 nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.» Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle. «Non sapete» riprese ella dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce 45 «che quel romanzo di Rousseau7 mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti8, ma non l’aveva mai letto.» «Avete avuto troppa premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.» «È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.» «Parmi anzi utile.»

2 le donne... distinta: le donne sensibili e nate da buona famiglia. 3 Me le era presentato: mi ero presentato.

4 Desiderava di conoscervi: desideravo conoscervi. 5 soavità: dolcezza. 6 normalità... stato: intende la malattia.

7 romanzo di Rousseau: si riferisce a Giulia o la nuova Eloisa. 8 sunti: riassunti.

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«Utile sì, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per... me. Vi sono delle letture che mi fanno male.» «Voi sapete» io dissi per tenermi da capo sulle generali «che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota9 di Parigi?» Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse 55 voluto dire: “Altro è l’uomo, altro le sue opere”, e riprese: «Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci princìpi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute op60 poste, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce al suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obbiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia – non 65 la testa che si guasta, non il cuore che sanguina – ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?» «Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri sieno innocenti?» «O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisogne70 rebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.» «Queste teorie hanno tanto di specioso10 quanto hanno poco di vero» io dissi «ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della 75 lettura.» «Sorvolo sui libri» rispose ella mestamente «come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo 80 né per imparare, né per pensare – abborro11 i libri di morale e di metafisica – leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete» aggiunse ella con aria di mesta ironia «il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete 85 che a guardarmi.» 50

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Video Dal romanzo di Tarchetti il regista Ettore Scola ha preso ispirazione per il film Passione d’amore (1981)

9 ruota: è la ruota degli esposti, un cilindro di legno situato nel vano di una finestra di conventi ed altre istituzioni religiose: vi

venivano abbandonati i neonati per essere dati in adozione nel più completo anonimato non solo per la madre ma anche per

chi ve li aveva lasciati. 10 specioso: vero solo in apparenza. 11 abborro: odio.

online T5 Iginio Ugo Tarchetti

Tra pietà e orrore Fosca

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Analisi del testo Un ritratto anticonvenzionale del femminile: la donna brutta e malata

George Hendrik Breitner, L’orecchino, 1893 (Museo Boijmans Van Beuningen, Rotterdam).

Nella descrizione della protagonista, indubbiamente anticonvenzionale, Tarchetti ribalta gli stereotipi estetici: l’ineffabilità della bellezza della donna cantata dalla tradizione poetica (dallo stilnovismo in poi) si trasforma qui in “ineffabilità del brutto”. Questo sentimento di orrore ha un valore altrettanto assoluto quanto la meraviglia provata di fronte allo splendore della donna idealizzata. Le componenti della bellezza femminile su cui da sempre si è incentrata la lode dei poeti sono gli occhi e i capelli: quelli di Fosca sono entrambi nerissimi. Gli occhi sono di una bellezza sorprendente (e quindi inquietante), che non può però attenuare l’insieme deforme di una bruttezza spaventosa; i capelli, lunghissimi e folti, hanno una sensualità che ricorda alcuni ritratti femminili di Baudelaire. C’è qualcosa di innaturale e di sproporzionato in Fosca – il collo esiguo, la testa grossa – che è l’estrinsecazione sul piano fisico della sua malattia interiore. Ma ciò che soprattutto rende orrenda la donna è la sua estrema magrezza, che ne lascia addirittura intravedere lo scheletro: Fosca non è semplicemente brutta ma rappresenta l’immagine stessa della morte, la cui immagine perturbante né la grazia né l’eleganza della donna possono esorcizzare. I due passi ci mostrano poi l’ambigua personalità della donna: se in ➜ T4 i modi di Fosca sono amabili e gentili, in ➜ T5 OL la vediamo esercitare con forza un potere tirannico e nefasto su Giorgio, che arriva ad annullarne la volontà, a succhiarne la vitalità stessa, secondo il copione della “donna vampiro” inaugurata da Baudelaire (➜ C4).

Dalla descrizione di un caso clinico all’attrazione per la malattia e la morte In un certo senso Fosca è la descrizione di un caso clinico (è l’autore stesso a definire il romanzo «diagnosi di una malattia»), di cui è raccontata la patologia come in molte narrazioni naturaliste. Da questo punto di vista si può osservare la precisione quasi veristica con cui vengono ritratte le sofferenze psichiche della donna, che si riflettono nella lenta consunzione del suo corpo. Attraverso il personaggio del medico (in questi brani non appare) che diagnostica nella malattia di Fosca uno squilibrio nei rapporti tra anima e corpo, Tarchetti ci offre un documento significativo di come nel secondo Ottocento era affrontato dalla scienza positivistica il disagio psichico. Ma la malattia di Fosca è soprattutto per Tarchetti l’occasione per trattare il tema già romantico amore-morte con tratti esasperati e morbosi che sembrano anticipare tematiche decadenti. In tutta la produzione di Tarchetti e di molti autori scapigliati è d’altronde presente questa ossessione di morte, un’attrazione verso la dissoluzione sia fisica sia psichica. Qui il rapporto del protagonista con la donna malata è percepito subito come pericoloso, è un’attrazione fatale da cui, nonostante il ribrezzo che prova verso di lei, non riesce a staccarsi: Fosca lo attira inevitabilmente verso la sua stessa sorte di malattia e di morte. Non si può non pensare a Baudelaire e al continuo richiamo, contenuto nei Fiori del male (➜ C4), alla caducità e al disfacimento nascosti dietro alle apparenze di bellezza e al fascino femminile.

Lo sdoppiamento dell’io del protagonista

Come si vede nel secondo testo, Giorgio sostiene di fingere di corrispondere all’amore per Fosca su richiesta del medico, ma il lettore avverte che il giovane è in realtà diviso tra attrazione e repulsione verso la donna. L’io narrante appare smarrito, quasi sdoppiato, e non comprende appieno i propri stati d’animo, anzi sembra descriverli proprio per cercare di chiarirli (come avverrà, con risultati artistici di ben diverso livello, nella Coscienza di Zeno di Svevo). Le emozioni che emergono dal suo racconto vanno infatti da una sensazione ossessiva di ineluttabilità («era impossibile… impossibile», «inesorabilmente necessario», «aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi»), a un timore che va al di là delle giustificazioni razionali e che indica una forte passione, uno stato di eccitazione (terribile, atterrito, gravissima, spaventevoli, ecc.), alla pietà che gli «lacerava il cuore», all’affermazione finale per cui «a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia».

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La compresenza all’interno dell’io narrante di sentimenti e pulsioni contrastanti e ambigui costituisce indubbiamente un elemento di modernità pre-novecentesca.

Una riflessione metaletteraria: la rinuncia alla funzione educativo-morale della scrittura e della lettura In un passo del primo testo (rr. 65-68) Tarchetti, in polemica con Manzoni, e più che altro con i mediocri seguaci manzoniani, esalta, attraverso le parole di Fosca, il ruolo primario dei romanzi dell’immaginazione e della libera fantasia, rispetto agli obiettivi della razionalità e della morale («Sono convinta» asserisce Fosca «che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare nuoce, rr. 64-65). È certo una dichiarazione molto forte e provocatoria, anche se poi Tarchetti non riesce a dire del tutto addio all’intento morale: Fosca dopotutto ammette teoricamente che vi possa essere un libro educativo, ma deve essere davvero «tale da installarci princìpi retti e da fortificarvici». È chiaro, in ogni caso, che le parole del personaggio riflettono la caduta di valori morali collettivi propri dell’età post-risorgimentale. Ma il testo prospetta anche un altro senso del leggere: «per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un’eco […]; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Individua nella descrizione di Fosca gli elementi che, nonostante la sua bruttezza, sembrano attrarre il protagonista (➜ T4 e ➜ T5 OL). Quali sono maggiormente evidenziati? COMPRENSIONE 2. In che senso Fosca afferma di non essere malata (➜ T4 )? LESSICO 3. Analizza le scelte lessicali operate dall’autore e individua i termini relativi al lessico dell’attrazione e le espressioni che, invece, rimandano alla repulsione verso la bruttezza e poi fanne una schedatura. Quale rapporto si può istituire tra i due campi semantici? TECNICA NARRATIVA 4. Quale tipologia di narratore è presente? Qual è il punto di vista dell’autore?

Interpretare

LA LETTERATURA E NOI 5. Fosca è la storia di un amore patologico, che soggioga e rende succubi della persona “amata”. Rifletti su questo tema, facendo riferimenti anche all’attualità, che ogni giorno ci pone di fronte a relazioni di coppia, le quali inducono ad annullare la propria volontà, in nome di un amore “malato”. SCRITTURA 6. Fosca è un personaggio femminile complesso e affascinante: prova a tracciare un ritratto del personaggio sulla base degli indizi testuali e individua gli elementi che consentono di ricondurre Fosca alla tipologia, ricorrente tra Otto e Novecento, della femme fatale.

L’espressionismo scapigliato: Carlo Dossi

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Per approfondire Dossi e la «linea lombarda»

La scelta dello sperimentalismo linguistico Scrittore appartato, difficile, aristocratico, Dossi rappresenta, insieme ai piemontesi Faldella e Cagna e al campano Imbriani, l’area espressionistica della Scapigliatura, in cui l’interesse per lo strano, il bizzarro e la critica sarcastica verso la società sono espressi attraverso scelte linguistiche di ardito sperimentalismo (➜ T6 OL). Proprio per il suo stile Dossi è stato uno degli artisti scapigliati più studiati dalla critica, sulla via tracciata da Gianfranco Contini e Dante Isella, che hanno visto in lui un precursore di Carlo Emilio Gadda. Una vita “normale” La vita di Dossi, nella sua normalità, è lontanissima dalle scelte bohémiennes degli scapigliati. Alberto Carlo Pisani Dossi (1849-1910) nasce Gli scapigliati tra ribellione e ricerca 1 107

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a Zenevredo, nell’Oltrepò pavese, da una famiglia di proprietari terrieri. Studia giurisprudenza a Pavia e collabora a numerose riviste letterarie. Dopo il 1870 si trasferisce a Roma e intraprende una carriera diplomatica di successo, che lo porterà a viaggiare in vari Paesi del mondo fino al 1895. Dopo la caduta del governo Crispi si ritira a vita privata nella sua villa Dosso Pisani, sul lago di Como, e lì muore nel 1910. Le opere La prima opera di Dossi, L’altrieri. Nero su bianco, è pubblicata nel 1868 (quando l’autore ha solo 19 anni) ed è già un libro di rottura, subito segnalato come un caso letterario dall’Arrighi: Dossi si distacca dalla tradizione letteraria ottocentesca e manzoniana in nome di una lingua per cui rivendica il diritto alla creatività a tutto campo, come ben si può notare nel testo proposto (➜ T6 OL). Si tratta di un racconto autobiografico, che recupera da un “tempo perduto” episodi dell’infanzia e dell’adolescenza, immagini e sensazioni. Tra le altre opere ricordiamo Vita di Alberto Pisani scritta da C.D. (1870), La desinenza in A (1878), Goccie d’inchiostro (1880). Gran parte della vita di Dossi, infine, è percorsa dalla stesura delle Note azzurre: si tratta di oltre 5000 annotazioni, definite dallo stesso Dossi «granai di riserva per le probabili carestie» (ovvero possibili spunti per momenti di carenza di idee), uno zibaldone caotico di appunti, raccolti in quaderni dalla copertina azzurra (da qui il titolo Note azzurre), tutti pubblicati postumi. La poetica della negazione Lo scrittore lombardo, nel modo umoristico che gli è proprio, sintetizza nella negazione il fulcro della sua poetica: in effetti l’opera di Dossi presuppone il rifiuto del romanzo come genere letterario ormai codificato, nega alla letteratura un ruolo autorevole nella crisi di valori dell’Italia post-risorgimentale, contesta la prosa media incolore. Da questo preliminare atteggiamento di scetticismo ideologico e di rifiuto delle convenzioni letterarie e non, nasce un’opera assai originale, costituita da frammenti, aneddoti, raccontini e incentrata sull’analisi critica e spesso ironica della propria biografia. Il plurilinguismo L’aspetto più interessante di questo autore è certamente la lingua, che in modo espressionistico si serve dei registri più disparati, mescolando liberamente toscanismi, forme dialettali (si ricordi che al tempo, nelle case dell’aristocrazia lombarda, si parlava comunemente il dialetto), voci rare e preziose, arcaismi e stranierismi, termini latini e greci, veri e propri neologismi. I modelli lombardi I modelli di Dossi appartengono all’area lombarda: dallo stesso Manzoni, di cui apprezza l’umorismo (e, sotto il profilo linguistico, soprattutto la ventisettana, ovvero la stesura dei Promessi sposi precedente online alla quarantana, con la “risciacquatura dei panni in Arno”) al T6 Carlo Dossi Una lingua sperimentale Porta, in cui trovava una lezione di plurilinguismo espressivo L’altrieri, Panche di scuola, I e di potente comicità.

Fissare i concetti La Scapigliatura 1. Dove si sviluppa prevalentemente il movimento della Scapigliatura? 2. Quali sono gli elementi di novità che caratterizzano la Scapigliatura? Quali gli elementi di continuità con il passato? 3. Perché la Scapigliatura può essere definita un’avanguardia mancata? 4. Quali sono i principali esponenti della Scapigliatura?

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Secondo Ottocento Duecento e Trecento La Scapigliatura letteratura cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura scapigliati tra ribellione e ricerca 1 Gli La reazione alla crisi degli ideali risorgimentali e romantici Scapigliatura e anticonformismo Tra il 1870 e il 1880 nel Nord Italia, in particolare a Milano, si sviluppa la Scapigliatura, un movimento che non ha obiettivi ideologici o estetici precisi, ma esprime la condizione di giovani intellettuali insoddisfatti e frustrati, non più motivati da una grande causa come era stato il Risorgimento, e delusi dal presente. Gli scapigliati contestano il perbenismo borghese con scelte di vita anticonformiste, ispirate alla bohème francese. Sul piano letterario rifiutano il gusto sentimentale del tardo romanticismo, ma anche l’impegno politico e il moralismo manzoniano. Gli scapigliati danno spazio a temi nuovi, ispirati a un crudo realismo o al gusto fantastico, che durante il romanticismo era rimasto estraneo alla cultura italiana. Non riescono però, a parte rari casi, a realizzare una vera rivoluzione, in particolare sul piano stilistico. Gli scrittori scapigliati Delusi dal Risorgimento, di cui rifiutano la retorica, adottano atteggiamenti e stili letterari anticonformisti; amano descrivere il brutto o il bizzarro. I principali autori che si riconoscono sotto questa definizione, tutti di area lombarda o piemontese, sono Igino Ugo Tarchetti, Cletto Arrighi, Emilio Praga, i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Carlo Dossi. Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869) scrive numerosi racconti, i cui temi dominanti sono la malattia, la nevrosi, la follia. La sua opera più interessante è il romanzo Fosca (1869), incentrato sul torbido legame del protagonista con una donna malata, da cui non riesce a staccarsi. Carlo Dossi (1849-1910) esprime la sua critica verso la società attraverso un’ardita sperimentazione formale: il rifiuto del romanzo come genere letterario lo porta alla scrittura di frammenti, aneddoti, raccontini, dominati dall’ironia; l’intento espressionista gli fa adottare un plurilinguismo (mescolanza di forme linguistiche e di registri).

Zona Competenze Esposizione orale

1. In un intervento orale di massimo tre minuti esponi le principali caratteristiche della Scapigliatura.

Scrittura creativa

2. Scrivi un componimento ispirato ai contenuti dissacranti della poesia scapigliata.

Sintesi

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Secondo Ottocento 109

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Secondo Ottocento CAPITOLO

3 Giosue Carducci CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo Carducci visto da Giovanni Pascoli… Il poeta Giovanni Pascoli nel seguente testo ci fornisce un ritratto fisico e morale di Giosue Carducci.

Nessuno scrittore è stato così perfettamente compagno della sua patria, e in un decorso di storia così mosso e vario di grandi vicende, come Giosue Carducci fu dell’Italia, della quale egli ha veramente in se patita la storia novissima. Egli sembra, anche nell’aspetto, una di quelle foreste sul lido del suo mare, le quali anche nella più quieta serenità pare che si contorcano alle raffiche del libeccio. G. Pascoli, Il maestro e poeta della terza Italia

… e da sé medesimno Carducci stesso in questo testo ripercorre quelli che ritiene i suoi modelli.

Mossi, e me ne onoro, dall’Alfieri, dal Parini, dal Monti, dal Foscolo, dal Leopardi; per essi e con essi risalii agli antichi, m'intrattenni con Dante e co’l Petrarca; e a questi e a quelli, pur nelle scòrse [scorrerie] per le letterature straniere, ebbi l’occhio sempre. G. Carducci, Confessioni e battaglie

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Nel Secondo Ottocento, nel medesimo contesto storico nel quale si sviluppa il movimento della scapigliatura, in aperta opposizione alla cultura tardoromantica, si colloca anche Giosue Carducci, che ripropone la grande lezione dei classici come antidoto alla mediocrità del presente. Questa fedeltà alla lezione morale e stilistica dei classici non costituisce però l’occasione di una fuga dal presente: la naturale volontà propositiva e un’indole polemica rendono Carducci un interprete attivo del proprio tempo. Attraverso un lungo e prestigioso insegnamento universitario, il ruolo di poeta “pubblico” lo porta ad esercitare grande influenza culturale e civile, fino alla nomina a senatore e al conferimento del premio Nobel.

1 Ritratto d’autore 2 Le raccolte poetiche 111

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1 Ritratto d’autore 1 Il poeta-professore vate dell’Italia unita L’infanzia e la formazione Giosue Carducci nasce nel 1835 in Toscana, a Valdicastello, piccolo paese della Versilia, da una famiglia della piccola borghesia: il padre è un medico condotto di accese idee democratiche. Molto importanti nella sua formazione, oltre all’influenza delle idee paterne, sono gli anni trascorsi a Bolgheri, in Maremma, dal 1837 al 1848: il paesaggio forte e selvaggio in cui il poeta vive l’infanzia e l’adolescenza si radica fortemente nel suo immaginario come emblema di vitale energia e di “sanità”. Già da ragazzo rivela un’indole combattiva e insofferente, legge con passione i classici che – nel clima mediocre del tardo-romanticismo e nella caduta, già dopo il ’48, degli ideali patriottici – gli appaiono depositari di valori etici e di una concezione eroica della vita. Una personalità combattiva e polemica La fedeltà alla lezione morale e stilistica dei classici lo porta a fondare con alcuni amici, dopo la laurea alla Normale di Pisa (1856), la Società degli Amici pedanti, che ha come scopo appunto la difesa dei classici contro i gusti degenerati della cultura italiana del tempo. Già si individua in questa scelta quella volontà polemica che è il tratto forse dominante della combattiva personalità di Carducci. In fiera contrapposizione a quello che considera «un popolo di eunuchi», egli tende a proporre se stesso come “personaggio esemplare”: un modello di uomo e di poeta che si eleva sopra la mediocrità del presente e ne denuncia il vuoto di valori, richiamandosi alla lezione dei classici antichi e all’esempio di Dante, Alfieri, Foscolo e del Leopardi “eroico” (quello della Ginestra).

Cronologia interattiva

1878 Il congresso di Berlino

1874 Il decreto

non expedit vieta ai cattolici la partecipazione alla vita politica. 1866 Guerra austro-prussiana e annessione del Veneto all’Italia.

1861 Proclamazione dell’Unità d’Italia.

1840

1870 Guerra franco-prussiana

1835

1850

1860

È nominato professore di letteratura italiana all’Università di Bologna. 1871

1863

1857

Pubblica l’Inno a Satana.

Suicidio del fratello Dante. 1838-49

1870

1860

Si laurea alla Normale di Pisa, inizia l’insegnamento e fonda la Società degli Amici pedanti.

Trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Maremma.

1871 Roma capitale d’Italia.

e fine dell’impero di Napoleone III.

1856

Nasce in Versilia.

stabilisce le aree di dominio coloniale delle potenze europee.

1859

Sposa Elvira Menicucci.

1870

Muore il figlio Dante, di tre anni.

Avvia una relazione con Carolina Cristofori Piva durata fino alla morte di lei (1881).

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Il classicismo attivo di Carducci Proprio per questa volontà propositiva e per questo carattere costituzionalmente polemico, il classicismo carducciano non va visto come una semplice operazione nostalgica: se di restaurazione si tratta, è una restaurazione non certo concepita come fuga dal presente ma, al contrario, come proposta attiva rivolta al proprio tempo. E Carducci è del resto, a pieno titolo, uomo del proprio tempo: in rapporto alle concezioni diffuse nella cultura del secondo Ottocento, la sua visione della vita è infatti nettamente contraria allo spiritualismo romantico e allo stesso credo cristiano, accusato di aver allontanato l’umanità dalla sanità pagana, è laica e materialistica, favorevole al progresso delle conoscenze scientifiche e della tecnica (come dimostra il discutibile, ma significativo Inno a Satana).

L’Inno a Satana di Carducci in un’edizione del 1873.

Il professore universitario: un punto di riferimento per le giovani generazioni Carducci fu un autorevole punto di riferimento per le giovani generazioni, non solo attraverso le composizioni poetiche, inserite via via nelle diverse raccolte, ma anche attraverso le lezioni tenute nei lunghi anni in cui occupa la cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna (1860-1904). Riceve il prestigioso incarico appena venticinquenne dal ministro della Pubblica istruzione per aver scritto alcune poesie in occasione della seconda guerra d’indipendenza: è il primo riconoscimento della indubbia capacità di Carducci di interpretare il proprio tempo, assumendo il ruolo di poeta “pubblico”. Terrà la cattedra per più di quarant’anni esercitando una grande influenza per la sua cultura (Carducci fu un filologo di rilievo e scrisse importanti saggi critici) ma soprattutto per il suo indiscutibile carisma: egli seppe costruire attorno al suo “personaggio” l’ampio consenso non solo degli studenti, ma anche di un pubblico eterogeneo, che sempre più numeroso accorreva alle sue lezioni. 1886

Sconfitta dell’esercito italiano a Dogali.

1892 Nascita del Partito dei

1896 Sconfitta ad Adua dell’esercito italiano contro l’esercito etiope.

lavoratori che diventerà il Partito socialista italiano.

1891 Il papa Leone XIII

1898 Il generale Bava Beccaris reprime i moti popolari.

promulga l’enciclica Rerum Novarum.

1900 Il re Umberto I viene ucciso dall’anarchico Bresci.

1880

1890

1900

1890

È nominato senatore.

1907

1878

Dopo aver conosciuto a Bologna la regina Margherita, le dedica l’ode Alla regina d’Italia.

Muore a Bologna.

1906

Riceve il premio Nobel.

Ritratto d’autore 1 113

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La dimensione “pubblica” e la visione etico-politica nella poesia carducciana Nella poesia di Carducci sono fortemente presenti le tematiche etico-politiche e la cosa non è certo casuale, ma corrisponde a una precisa vocazione del poeta toscano, presente fin dagli anni giovanili: assumere attraverso la poesia il ruolo di guida dei destini della nazione, diventare il “vate” degli italiani, un ruolo che Carducci interpreta quasi sempre con enfasi retorica, anche se in misura minore o maggiore a seconda dei tempi, del mutare delle circostanze storiche e della sua stessa ideologia politica. È un’ideologia considerata dai critici abbastanza astratta, nutrita com’è soprattutto di letteratura: anche se impegnato nel suo tempo, Carducci è pur sempre un “professore”, un letterato, il suo stesso patriottismo nazionalistico è tutto letterario: comunque si orienti la sua visione politica, che subisce nel tempo un’indubbia evoluzione, egli rimane soprattutto un fautore della grandezza dell’Italia (che è per lui anche la grandezza della sua cultura e della sua illustre tradizione letteraria). All’inizio egli vede questa grandezza minacciata dalla mediocrità e dall’opportunismo e cerca quindi di difenderla e risuscitarla con la voce della sua poesia; verso la fine del secolo, invece, celebra con enfasi retorica tale grandezza, diventando di fatto il cantore ufficiale della monarchia sabauda. L’iter della poesia carducciana e il compito che il poeta si assegna potrebbero essere così sintetizzati: dal mito tradito da esaltare e difendere (gli ideali eroici del Risorgimento) al mito da costruire (l’Italia unita, avviata a grandi destini). Negli anni della giovinezza la visione politica di Carducci è democratica, giacobina, repubblicana: mitizza la rivoluzione francese, legge i classici del pensiero democratico (Mazzini) e laico (da Voltaire a Diderot e Rousseau, da Michelet a Proudhon). Questa visione ispira ampia parte di Giambi ed epodi, la sua opera più polemica, l’unica nella quale i motivi privati ed esistenziali sono del tutto assenti: in questa raccolta Carducci usa un registro particolarmente sferzante, sarcastico, diretto, per colpire il tradimento degli ideali risorgimentali, l’emarginazione dei garibaldini, il connubio tra Chiesa e monarchia sabauda. In Via Ugo Bassi, un sonetto scritto per ricordare il supplizio di un sacerdote che aveva preso parte alla difesa della Repubblica romana, Carducci fa suo lo sdegno di Dante: «Quando porge la man Cesare a Piero [il potere temporale si allea con quello religioso], / da quella stretta sangue umano stilla: / quando il bacio si dan Chiesa ed Impero, / un astro di martirio in ciel sfavilla». A un presente svilito Carducci contrappone i momenti della storia passata in cui più forti sono stati gli ideali e più gloriosa la patria. In Giambi ed epodi si rispecchia la delusione post-risorgimentale, la “nostalgia dell’eroico” che sicuramente accomunava larghi strati della popolazione. L’idealizzazione della storia passata: dal polemista al mitografo della grandezza dell’Italia In altre raccolte la nostalgia non si limita a esaltare il Risorgimento (in testi spesso enfatici e retorici come Piemonte o Cadore), ma si articola nella celebrazione di varie età (e anche di personaggi) della

Giosue Carducci pronuncia il suo discorso sul Tricolore a Reggio Emilia nel 1897 (copertina della rivista «L’Illustrazione italiana»).

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storia passata, depositarie di valori etici, civili e politici, la cui evocazione attraverso la poesia possa servire di modello e di sprone agli uomini del suo tempo: l’età dei comuni (Il comune rustico, Il parlamento), la rivoluzione francese (Ça ira), ma soprattutto la Roma antica (Le fonti del Clitumno, Dinanzi alle Terme di Caracalla ➜ T1 ). L’esaltazione di Roma per ragioni nazionalistiche e politiche è del resto ricorrente in pensatori che pure appartengono a diversi schieramenti politici: da Mazzini a Gioberti, da Cavour a Crispi e ritornerà, con nuova forza, a sostenere le velleità imperialistiche del fascismo. Di fatto, una volta smorzata la vis polemica, già a partire dagli anni Settanta (dopo il completamento dell’unificazione con l’annessione di Roma), le posizioni politiche di Carducci si fanno più morbide: accetta la monarchia considerandola un argine alla minaccia operaia (Carducci è ostile al socialismo) e una garanzia dell’unità del paese contro spinte centrifughe. Il fiero repubblicano democratico di un tempo finirà addirittura per appoggiare la politica di Crispi e inaugurare circoli monarchici. La celebrazione di eventi passati, che è una costante dell’opera carducciana, non assume allora più un senso polemico ma corrisponde al ruolo conclamato di Carducci come poeta vate, cantore della nazione, creatore dei miti collettivi a cui gli italiani devono ispirarsi e che possano favorire la coesione tra le classi sociali. Da questo ruolo sempre più ufficiale deriveranno al vecchio poeta, ormai “icona” della nazione, onori, conferenze pubbliche, la nomina a senatore del regno (1904) e lo stesso premio Nobel (1906). Muore a Bologna nel 1907. La dimensione “privata” e il mito della giovinezza: l’“altro” Carducci Durante la vita di Carducci e fino a tutta l’età del fascismo, che ne eredita la retorica nazionalistica, i componimenti più amati dalle autorità e dal pubblico furono quelli di carattere oratorio-patriottico, a cui fino ad ora ci siamo riferiti e che sono responsabili dell’immagine del poeta che si è tramandata nel tempo. Oggi invece sono in genere più apprezzati, e vi si riconosce un maggior valore poetico, i componimenti relativi alla sfera privata che, nelle varie raccolte (a eccezione di Giambi ed epodi), fanno quasi da contrappunto al versante politicooratorio. Nelle composizioni “private” il fiero e combattivo poeta mostra il suo volto più intimo e non di rado indulge alla tristezza, al pessimismo esistenziale, al rimpianto della giovinezza o, addirittura, a una sorta di spleen, di moderno malessere, che ha fatto parlare di “pre-decadentismo” (del resto Baudelaire fa parte delle letture di Carducci). Sembra quasi che il tedio esistenziale sia la conseguenza di un’insoddisfazione profonda verso sé stesso, le scelte imposte dal ruolo pubblico di poeta di successo e ormai lontane dai genuini ideali giovanili. La giovinezza, associata all’amato paesaggio maremmano, diventa a sua volta mito nostalgico, cantato però con note sommesse e sincere. Si tratta a volte di note ispirate anche da dolorosi eventi biografici, come la morte del figlioletto, che è al centro di poesie come il celebre Pianto antico (➜ T3 ) o Funere mersit acerbo, o dell’amata Lidia, il nome oraziano con cui Carducci canta in poesia la donna amata (Ballata dolorosa). Il giovane Giosué Carducci.

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2 Le raccolte poetiche Le raccolte poetiche di Carducci, a parte le prime prove, si sovrappongono nel tempo poiché l’allestimento delle stesse prescinde dalla cronologia ed è invece motivato da criteri di affinità tematica o da analogie metrico-linguistiche. Non è dunque possibile ricostruire direttamente dalle raccolte un’evoluzione della poesia carducciana. Juvenilia e Laevia gravia Le due prime raccolte, prodotte rispettivamente negli anni 1850-60 e 1861-71, costituiscono l’apprendistato poetico di Carducci, ispirato fin dal titolo latino al modello dei classici: Juvenilia (“cose della giovinezza”) e Laevia gravia (“cose leggere, gravi”). Testimoniano nel loro complesso, anche per il linguaggio aulico e per i riferimenti dotti, l’adesione incondizionata di Carducci al classicismo e la polemica antiromantica. Giambi ed epodi Scritta nel periodo 1867-79, la raccolta è costituita da 32 componimenti ed è l’unica in cui i temi sono esclusivamente politici e attuali. È la raccolta più polemica, una polemica scaturita dalla delusione e dallo sdegno del poeta per il tradimento degli ideali eroici del Risorgimento, a causa di una classe dirigente pavida e corrotta. Il titolo, classicheggiante – richiamandosi ai versi satirici del poeta greco Archiloco in metri giambici e agli sferzanti Epodi del poeta latino Orazio –, sottolinea l’ispirazione fondamentale della raccolta. Stimolato dall’attualità scottante dei contenuti, Carducci opta qui per un linguaggio che accosta termini aulici a prosaici e grotteschi, usa espressioni duramente sarcastiche e una sintassi spezzata e disarmonica. Rime nuove È una raccolta in metri della più antica tradizione letteraria (sonetto, canzone petrarchesca, terzina dantesca ecc.). È la sua raccolta più ampia: comprende 105 componimenti, scritti in un arco di tempo (1861-87) di più di venticinque anni. Da qui la varietà del repertorio tematico. Spiccano i quadri storici ispirati a una rievocazione nostalgica di epoche passate che il poeta idealizza (Il comune rustico, Faida di comune, Ça ira). Nella raccolta sono presenti molte celebri liriche ispirate alla vita privata di Carducci: dalla rievocazione dell’infanzia e della giovinezza, spesso associata al ricordo dell’amato paesaggio maremmano (Visione ➜ T2 OL, Davanti San Guido, Traversando la Maremma toscana, Idillio maremmano), al tema della morte del figlioletto Dante (Funere mersit acerbo, Pianto antico ➜ T3 ).

La raccolta Giambi ed epodi in una edizione del 1910.

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Odi barbare È una raccolta di 50 poesie, anch’esse composte in un lungo arco di tempo (1877-89). Le tematiche possono essere accomunate nel loro insieme a quelle delle Rime nuove: nostalgia del passato, esaltazione della Roma antica (Dinnanzi alle Terme di Caracalla ➜ T1 , Nell’annuale della fondazione di Roma, Nella piazza di San Petronio), spunti autobiografici (Alla stazione in una mattina d’autunno ➜ T5 ), meditazione sul tema della morte (Mors, Nevicata, Ave). La scelta metrica di questa raccolta suscitò molto scalpore: nell’ambito del suo più generale progetto di restaurazione del rigore stilistico, Carducci si propone di riprodurre i metri usati dalla poesia latina. Questa operazione è di per sé impossibile, perché l’accentazione nella metrica greco-latina è quantitativa: si fonda cioè sull’alternanza di sillabe brevi e lunghe, mentre la metrica italiana (come quella delle altre lingue romanze) si fonda sul ritmo creato dalla disposizione degli accenti tonici. Carducci dunque cerca di riprodurre le cadenze dei metri classici combinando in vario modo versi italiani ed eliminando la rima. Il risultato è da lui stesso definito «barbaro», perché “barbari” sarebbero sembrati i suoi versi a un latino o a un greco. L’oltranza classicista che ispira la sperimentazione delle Odi barbare, paradossalmente, si traduce in un’innovazione metrica che apre la strada al verso libero (in particolare per l’assenza della rima). Rime e ritmi È una raccolta di 29 poesie scritte in due anni (1887-89). Il titolo fa riferimento alle scelte metriche: rime sono le poesie in metri tradizionali, ritmi allude alle poesie che seguono la metrica “barbara”. Le due direzioni della produzione carducciana maggiore (dimensione privata e culto delle memorie storiche) sono presenti anche in quest’ultima raccolta: emerge però la tendenza ad accentuare l’enfasi celebrativa nazionalista (Piemonte, Cadore) e per contro affiora sempre più la triste consapevolezza della decadenza e dell’imminenza della morte (Presso una Certosa ➜ T4 OL).

Le raccolte di Carducci Raccolta

Data

Juvenilia

1850

Laevia gravia

1861-1871

Giambi ed epodi

1867-1879

• celebra il passato glorioso • condanna la meschinità del presente • ripropone il modello del poeta vate

Rime nuove

1861-1887

• mette in poesia aspetti riguardanti una dimensione privata • propone una grande varietà di repertorio

Odi barbare

1877-1889

prende a modello i classici

Rime e ritmi

1887-1889

accentuazione dell’enfasi celebrativa nazionalista e allo stesso tempo consapevolezza dell’imminenza della morte

apprendistato poetico di Carducci, ispirato ai modelli classici

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Giosue Carducci

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Congedo Rime nuove

G. Carducci, Poesie 1850-1900, Zanichelli, Bologna 1928

Congedo fu iniziato nel 1873 e completato solo una quindicina di anni dopo, nel 1887. Collocato in chiusura della raccolta Rime nuove (da qui il titolo), il testo ha il carattere di un vero e proprio “manifesto” di poetica. È in questa prospettiva che lo presentiamo come documento assai significativo, nonostante la qualità artistica decisamente modesta. Riportiamo le strofe centrali (vv. 19-60) del componimento.

[Strofe 1-3 (vv. 1-18) Rivolgendosi al «vulgo sciocco», Carducci prima definisce cosa non è il poeta: il poeta non è un «buffone di corte» che si ingrazia il pubblico con lazzi sguaiati, e neppure è un perdigiorno svagato col naso in aria (probabile allusione ai sognatori romantici), né scrive versi che assecondino servilmente le aspettative del pubblico. Formula poi la sua idea di poeta.] Il poeta è un grande artiere1, 20 che al mestiere fece i muscoli d’acciaio2: capo ha fier, collo robusto, nudo il busto, duro il braccio, e l’occhio gaio. Non a pena l’augel pia3 e giulìa4 ride l’alba a la collina, ei co ’l mantice ridesta fiamma e festa 30 e lavor ne la fucina5; 25

e la fiamma guizza e brilla e sfavilla e rosseggia balda audace, e poi sibila e poi rugge 35 e poi fugge scoppiettando da la brace. Che sia ciò, non lo so io6; lo sa Dio che sorride al grande artiero. La metrica Canzonetta anacreontica con strofe di sei versi, di cui il primo, il terzo, il quarto e il sesto sono ottonari, mentre il secondo e il quinto sono quaternari. Lo schema delle rime è AaBCcB. 1 artiere: artigiano (artiero al v. 39). Suc-

cessivamente l’immagine assumerà tratti metaforici più definiti, associando il lavoro del poeta a quello del fabbro che forgia i metalli. 2 che al mestiere... d’acciaio: i cui muscoli si irrobustirono attraverso il lavoro. 3 l’augel pia: l’uccello cinguetta.

4 giulìa: giuliva (forma arcaica); è riferito all’alba.

5 la fucina: è l’ambiente in cui lavora il fabbro, che qui metaforicamente rimanda all’elaborazione della poesia. 6 Che sia ciò, non lo so io: si allude al mistero della creazione poetica.

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Ne le fiamme così ardenti gli elementi de l’amore e del pensiero

egli gitta, e le memorie e le glorie 45 de’ suoi padri e di sua gente7. Il passato e l’avvenire a fluire va nel masso incandescente8. Ei l’afferra, e poi del maglio 50 co ’l travaglio9 ei lo doma su l’incude10. Picchia e canta. Il sole ascende, e risplende su la fronte e l’opra rude11. Picchia. E per la libertade12 ecco spade, ecco scudi di fortezza13: ecco serti di vittoria14 per la gloria 60 e diademi a la bellezza. […] 55

7 gli elementi... sua gente: il poeta-fabbro forgia nel fuoco i fondamenti di tutto ciò che per Carducci diventa poesia: amore, idee, ma anche le gloriose memorie delle passate generazioni e della nazione (de’ suoi padri e di sua gente).

8 nel masso incandescente: nella massa informe del metallo fuso. 9 del maglio… travaglio: colpendo con fatica con il grosso martello. 10 su l’incude: sull’incudine. 11 rude: dura, faticosa.

12 libertade: libertà. 13 scudi di fortezza: scudi resistenti (utili per la vittoria).

14 serti di vittoria: corone da offrire ai vincitori (come avveniva nel mondo antico).

Concetti chiave Un’immagine eloquente del ruolo e dell’identità del poeta

In questi versi Carducci dà corpo all’idea di poeta che era andato maturando: attraverso una serie di metafore si delinea un’immagine di uomo forte, dotato di sicura moralità, che non si piega all’adulazione dei potenti e del pubblico (le prime due strofe, qui non riportate) e che concepisce la sua attività come un faticoso mestiere al servizio della collettività. Per esprimere la sua concezione dell’attività poetica Carducci ricorre alla metafora del lavoro del fabbro, che forgia i metalli nella sua officina (Carducci rivisita un’immagine antica, che ricorre anche nella poesia provenzale). Non è certo casuale la presentazione del poeta-fabbro come forte, muscoloso, possente: a un’epoca debole e rinunciataria (ricordiamo che Carducci usava l’espressione «popolo di eunuchi»), egli oppone l’immagine virile del poeta-artiere che ha un ruolo attivo e creativo. Un’immagine che può utilmente essere contrapposta al ritratto del poeta che emerge da Preludio di Praga (➜ C2 D1b ). Oggi colpisce (e non certo positivamente) l’enfasi retorica di questo autoritratto carducciano che anticipa la mitografia fascista dell’uomo forte, incarnato più di tutti dal Duce stesso (i versi carducciani fanno venire alla memoria certe immagini fotografiche di Mussolini a torso nudo, mentre miete il grano). Particolarmente significativi per comprendere questa visione del Carducci sono i vv. 37- 48: il poeta fonde nel fuoco della sua fucina «le memorie / e le glorie / de’ suoi padri e di sua gente»: il poeta è dunque vate, è colui che foscolianamente tramanda le memorie gloriose della sua patria. Ma il poeta (vv. 55-60) è anche colui che crea strumenti, con le sue parole, per la difesa della libertà, un ruolo che non esclude, ma anzi implica, la trasmissione della bellezza.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dei versi proposti. ANALISI 2. Individua, trascrivi e spiega con parole tue le metafore che designano il poeta e la poesia.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Confronta l’immagine di poeta qui presentata con il ritratto dei poeti scapigliati delineato da Praga in Preludio (➜ C2 D1b ). Metti in evidenza le possibili differenze e analogie in un breve testo (max 15 righe), riflettendo in particolare sulla nuova figura di poeta proposta da Carducci.

Giosue Carducci

T1

Dinanzi alle Terme di Caracalla

EDUCAZIONE CIVICA

Odi barbare, IV G. Carducci, Poesie 1850-1900, Zanichelli, Bologna 1919-21

Scritta e pubblicata nel 1877, fa parte della raccolta Odi barbare ed è ispirata dal fascino delle imponenti rovine delle terme che l’imperatore Caracalla fece costruire nel 212 d.C. in prossimità dell’inizio della via Appia. La contemplazione delle rovine offre al poeta l’occasione per deprecare la meschinità del presente, indifferente verso un passato glorioso. La seconda parte della poesia è un’invocazione alla febbre malarica (una divinità per le popolazioni preromane) affinché tenga lontani da questa sacra zona gli insensibili uomini del tempo di Carducci.

Corron tra ’l Celio fosche e l’Aventino1 le nubi: il vento dal pian tristo2 move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di neve. 5

A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo3.

Continui, densi, neri, crocidanti4 10 versansi5 i corvi come fluttuando contro i due muri ch’a più ardua sfida levansi enormi6. La metrica Ode saffica, resa con strofe di tre endecasillabi piani (accenti in 4a, 8 a e 11 a sillaba) più un quinario (accenti sulla 1a e 4a sillaba).

“Vecchi giganti, – par che insista irato l’augure stormo7 – a che tentate8 il cielo?” 15 Grave9 per l’aure vien da Laterano10 suon di campane.

1 Celio... Aventino: le terme di Caracalla si trovano in una valletta tra i due colli del Celio e dell’Aventino. 2 pian tristo: la pianura attraversata dalla via Appia era allora infestata dalla malaria (tristo, qui “malsano”, attribuito a pian). 3 A le cineree... al tempo: il poeta descrive con efficacia realistica l’attempata turista inglese (una britanna) che, sollevato il velo

che copriva le trecce grigie (cineree), cerca informazioni su una guida turistica (libro) relative alle terme antiche, che sembrano con la loro mole maestosa minacciare il cielo e sfidare il passare inesorabile del tempo. 4 crocidanti: gracchianti. 5 versansi: si riversano. 6 ch’a più… enormi: che si ergono gigan-

teschi, rendendo la sfida ancor più ardita (in riferimento ai vv. 7-8). 7 l’augure stormo: si riferisce ai corvi, dal cui volo al tempo dei romani venivano ricavate delle profezie. 8 tentate: sfidate. 9 Grave: cupo, solenne. 10 Laterano: la basilica di San Giovanni in Laterano, ai piedi del Celio.

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Ed un ciociaro11, nel mantello avvolto, grave fischiando12 tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco13, 20 nume14 presente. Se ti fûr15 cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, dal reclinato capo de i figli16: 25

se ti fu cara su ’l Palazio eccelso17 l’ara vetusta18 (ancor lambiva il Tebro l’evandrio colle19, e veleggiando a sera tra ’l Campidoglio

e l’Aventino il reduce quirite20 30 guardava in alto la città quadrata21 dal sole arrisa22, e mormorava un lento saturnio carme23); Febbre, m’ascolta24. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose25: 35 religïoso è questo orror26: la dea Roma qui dorme27. Poggiata il capo28 al Palatino augusto29, tra ’l Celio aperte e l’Aventin le braccia, per la Capena30 i forti omeri31 stende 40 a l’Appia via. 11 ciociaro: qui probabilmente nel senso generico di “contadino, uomo di campagna”. La Ciociaria è una regione del Lazio. 12 grave fischiando: modulando una triste melodia. 13 Febbre... t’invoco: il poeta si rivolge a una divinità antichissima a cui i romani dedicarono un tempio sul Palatino (a cui si allude ai vv. 25-26) perché allontanasse il pericolo della malaria dalle campagne che circondano Roma. L’invocazione è strutturata secondo i modi dell’epica classica («Se ti fûr cari... se ti fu cara»). 14 nume: divinità. 15 fûr: furono. 16 te deprecanti... de i figli: che ti pregavano di allontanarti dal capo dei figli reclinato per la febbre malarica. 17 Palazio eccelso: il Palatino (uno dei colli di Roma) eccelso “elevato”. 18 l’ara vetusta: l’antichissimo altare. 19 ancor lambiva... colle: sono rievocati i tempi leggendari della prima Roma: il Tevere (Tebro) allora, quando fu edificato

il tempio alla dea Febbre, ancora bagnava il colle del re Evandro (il Palatino). Evandro era il mitico re che accolse Enea al suo arrivo in Italia. 20 il reduce quirite: il cittadino romano (quirite) che tornava dalla guerra (risalendo il corso del Tevere). 21 la città quadrata: la prima Roma, fondata da Romolo, il cui perimetro era quadrato. 22 arrisa: allietata (da arridere). 23 un lento... carme: un componimento poetico in versi saturni. Il saturnio era un antichissimo metro italico dal ritmo lento e solenne. 24 m’ascolta: ascoltami. 25 Gli uomini... cose: allontana da qui (quinci), da questo luogo sacro, gli uomini di oggi e le loro meschine attività. Può essere interessante ricordare la precisazione che Carducci fece molti anni dopo (nel 1893) in una nota relativa ai vv. 33-34: il poeta spiega che con l’invocazione alla Febbre non intendeva augurare a nessuno

la malattia, ma intendeva «imprecare alla speculazione edilizia che già minacciava i monumenti, accarezzata da quella trista amministrazione la quale educò il marciume che serpeggia a questi giorni nella capitale». 26 religïoso è questo orror: questo luogo desolato reca le tracce di un’antica sacralità. 27 la dea... dorme: Roma è personificata in una dea che dorme (ma il cui risveglio glorioso il poeta auspica). 28 Poggiata il capo: con il capo appoggiato (costrutto latineggiante). 29 augusto: nobile, illustre. 30 Capena: la porta da cui partiva la via Appia, la più antica strada romana (collegava Roma a Capua e poi a Brindisi). 31 forti omeri: spalle (omeri) robuste. Roma è personificata in una possente figura femminile, il cui corpo abbraccia tutto il territorio della città.

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Analisi del testo Il mito di Roma e la critica del presente La poesia è divisa in due parti: alla prima (vv. 1-19) corrisponde la descrizione delle grandiose rovine delle terme romane; la seconda (vv. 19-40) è occupata dall’invocazione alla dea Febbre. Il quadro paesaggistico iniziale delinea con precisione l’ambiente che circoscrive le terme di Caracalla, ma al contempo evoca un’atmosfera triste, per certi aspetti lugubre: le nubi che corrono veloci sono fosche, il vento è umido, il piano tristo, stormi di neri corvi svolazzano sulle maestose rovine. In questo clima ben si inseriscono le due figure umane che Carducci evoca (una ricca, anziana turista inglese e un povero contadino proveniente dalla campagna laziale): pur nella loro abissale diversità, le due figure sono impiegate da Carducci con la stessa funzione: sia la dama inglese sia il ciociaro sono infatti entrambi estranei allo spettacolo grandioso che si staglia davanti ai loro occhi: la turista cerca notizie curiose sulla sua guida, il contadino «passa e non guarda». È il poeta, invece, a cogliere il messaggio silenzioso delle rovine e a farsi interprete della «dea Roma»: essa dorme un sonno secolare (ma forse un giorno la grandezza di Roma potrà risorgere), un sonno che non deve essere turbato e oltraggiato dai contemporanei, indegni di quel passato glorioso. Da qui l’invocazione alla Febbre: se un tempo le madri romane pregavano la dea di allontanarsi dai loro figli, ora invece il poeta chiede alla dea di tenere lontani da questa zona sacra gli «uomini novelli» e «lor picciole cose». L’evocazione della Roma quadrata, la città ancora piccola fondata da Romolo, è in stretta relazione con l’invocazione alla Febbre: nella poesia carducciana è infatti assai spesso presente il confronto polemico tra passato e presente. Al presente gretto e meschino, in cui dominano bassi interessi economici, Carducci contrappone l’immagine positiva (non a caso si tratta della parte più poetica) della città antica, in alto sul colle, illuminata dagli ultimi raggi del sole e contemplata dalla figura del romano che torna dalla guerra e rivolge un canto solenne alla sua città.

La simbologia della luce e del sole Si è detto che la visione carducciana della vita non si ispira allo spiritualismo cristiano ma è sostanzialmente pagana, legata alla dimensione terrena, “fisica”. Per Carducci la vita è energia, forza, calore e colore; al contrario la morte (anche in senso metaforico, di rovina) è freddo, buio, perdita del calore e del colore. A prescindere dalle tematiche trattate, siano esse etico-politiche o private ed esistenziali, in Carducci ricorre sempre, associata a condizioni o eventi o situazioni di positività, la simbologia del sole/calore/colore: lo si è visto nell’evocazione della Roma «quadrata / dal sole arrisa», lo si ritrova ad esempio nel celebre Comune rustico, in cui il poeta immagina il costituirsi di un piccolo comune di montagna: «Un fremito d’orgoglio empieva i petti, / ergea le bionde teste; e de gli eletti / in su le fronti il sol grande feria» e, nella conclusione: «E le rosse giovenche di su ’l prato / vedean passare il piccolo senato, / brillando su gli abeti il mezzodì». La simbologia ricorre anche in Presso una Certosa (➜ T4 OL) e, in modo quasi esemplare, in Pianto antico (➜ T3 ).

Il classicismo carducciano Dinanzi alle Terme di Caracalla è un testo assai significativo per esemplificare gli elementi tipici del classicismo carducciano che ha un carattere “attuale”, si confronta cioè sempre con il presente: la rievocazione nostalgica di un grande passato, in questo caso il mito della grandezza di Roma, si associa sempre a una critica del presente, o comunque a un possibile impiego nel presente, come stimolo e proposta attiva, del mito stesso. Ma il classicismo è anche, e soprattutto, nelle scelte formali che Carducci compie negli stessi anni della scapigliatura, e che sono evidenti anche in questo testo, a cominciare dalla scelta metrica, che ripropone il ritmo della strofe saffica greca e latina (una scelta che caratterizza l’intera raccolta delle Odi barbare). Carducci utilizza immagini classiche e riferimenti culturali dotti (la dea Febbre, la dea Roma, il volo dei corvi interpretato dagli auguri, il saturnio carme), costrutti e termini spesso latineggianti («te deprecanti», «il reduce quirite»).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo della poesia, precisandone il tema. ANALISI 2. Ai vv. 26-32 è introdotto un riferimento ai primi tempi della storia di Roma, avvolti nella leggenda: si tratta semplicemente di una rievocazione nostalgica? In che modo il poeta rivive il mito di Roma? STILE 3. Quale figura retorica puoi individuare negli ultimi versi dell’ode? Quale funzione ti sembra rivesta nel complesso dell’ode? LESSICO 4. Individua e trascrivi esempi del lessico aulico e più propriamente latineggiante usato da Carducci.

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

TESTI A CONFRONTO 5. Nello stesso 1877 Carducci compone anche Nell’annuale della fondazione di Roma (sempre in Odi barbare) in cui celebra la missione di Roma (anche qui personificata nella “dea Roma”) e quella dell’Italia unita, figlia eletta di Roma. Vi si ritrova un’espressione di acceso nazionalismo (vv. 15-16), un tempo assai celebre: «e tutto che al mondo è civile, / grande, augusto, egli è romano ancora» (tutto ciò che nel mondo vi è di civile, grande, nobile, è romano). Cerca in rete il testo dell’ode Nell’annuale della fondazione di Roma, poi mettila a confronto con Dinanzi alle Terme di Caracalla sul piano sia contenutistico, sia formale. Poi rifletti in una breve trattazione (max 15-20 righe) su alcuni di questi aspetti: a. la diversa rappresentazione del mito di Roma; b. il culto della romanità tenuto sempre vivo nell’Ottocento da politici di diversi schieramenti (Mazzini, Gioberti, Cavour, Crispi); c. l’esaltazione di Roma e la cultura nazionalistica dell’Italia dei primi anni del ventesimo secolo; d. Carducci e l’impegno morale post-risorgimentale. ARTICOLO 9 DELLA COSTITUZIONE 6. Carducci avverte il fascino delle rovine delle Terme di Caracalla e ci riporta nel passato mitico di Roma. Rifletti sull’importanza della conservazione dei beni culturali e scrivi le tue considerazioni in merito alla salvaguardia del nostro patrimonio storico-artistico, minacciato dal degrado e dall’incuria (max 15 righe).

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Visione Rime nuove, LX

Rovine romane in una foto d’epoca.

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Giosue Carducci

T3

Pianto antico

online

Audio

Rime nuove, XLII G. Carducci, Poesie 1850-1900, Zanichelli, Bologna 1928

Nel novembre 1870 muore, a soli tre anni, il piccolo Dante, il figlio di Carducci, che, straziato dalla disgraziata vicenda, scrive nel 1871 Pianto antico, forse la sua più celebre poesia. Alla morte del bambino è anche dedicata Funere mersit acerbo, scritta il giorno stesso della scomparsa.

L’albero a cui tendevi la pargoletta1 mano, il verde melograno2 da’ bei vermigli3 fior, 5

10

nel muto orto solingo4 rinverdì tutto or ora e giugno lo ristora di luce e di calor. Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita tu de l’inutil vita estremo unico fior5,

sei ne la terra fredda sei ne la terra negra; 15 né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor6. La metrica Strofette anacreontiche in quartine di settenari, di cui il secondo e il terzo in rima baciata (il quarto ha rima identica in tutte le quartine). 1 pargoletta: piccola (termine letterario, di ascendenza dantesco-petrarchescotassiana).

2 il verde melograno: effettivamente nell’orto della casa di Carducci a Bologna si trovava un melograno. 3 vermigli: rossi. 4 muto... solingo: giardino silenzioso e solitario (perché il bambino non vi si reca più). 5 Tu fior... unico fior: il poeta si rivolge al

suo bambino usando metafore del mondo vegetale: il bambino era il fiore tardivo (estremo) di una pianta (il padre) ormai colpita dai dolori della vita e priva di linfa vitale (inaridita), la consolazione di una vita priva ormai di significato. 6 amor: è il soggetto di ti risveglia.

Analisi del testo Il titolo Nella sua apparente semplicità, il titolo condensa un significato profondo: innanzitutto pianto non va probabilmente inteso in senso letterale, ma potrebbe alludere a un genere poetico medievale: il planctus (definito nella poesia provenzale plahn) che consisteva nel lamento per un lutto o un grave dolore. Quanto al suggestivo termine antico, il poeta ha voluto forse alludere al carattere “universale” del suo dolore e del suo lamento di padre che ha perduto un figlio, presente in ogni tempo, in ogni cultura.

La struttura La breve poesia è costruita sull’antitesi tra le prime due e le ultime due quartine: mentre il melograno è tornato verde al sole di giugno (vv. 1-8), il piccolo Dante, che tendeva le manine ai frutti colorati dell’albero, è sepolto nella terra nera (negra) e fredda, né il sole lo può più rallegrare né l’amore del padre lo più riportare alla vita (vv. 9-16).

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L’antitesi prevede espliciti rimandi precisi tra le due parti, secondo l’asse simbolica, ricorrente nella poesia carducciana, luce-calore-colore vs perdita di luce-calore-colore. Il collegamento tra le due parti è affidato al termine chiave fior.

Una visione materialistica e pagana della vita e della morte Carducci aderisce pienamente al clima culturale del suo tempo, orientato verso posizioni scientiste e materialistiche: è significativa già l’immagine naturalistica del fiore e della pianta per rappresentare il figlio e il padre. Per il laico Carducci, la morte non apre gli orizzonti alla vita eterna, ma è la fine di tutto. Anche Carducci considera la morte come perdita dell’energia vitale, del calore, come irrompere del buio. La poesia è interamente costruita su questa “privazione” che contrappone il risveglio dell’albero in primavera, connotato coloristicamente (verde, vermigli, rinverdì) attraverso il riferimento alla luce e al calore del sole, alla perdita della luce e del calore, ribadita attraverso le secche anafore («sei ne la terra») e la doppia negazione («né [...] né») che hanno il sapore di una sentenza irrevocabile. Lo stesso binomio oppositivo si ritrova anche in Funere mersit acerbo (1870), in cui il poeta chiede al fratello, morto suicida nel 1857, di accogliere il piccolo Dante nell’aldilà, visto paganamente come luogo buio e freddo: «Ahi no! giocava per le pinte aiole, / e arriso pur di visïon leggiadre / l’ombra avvolse, ed a le fredde e sole / vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre [nere] / sedi accoglilo tu, ché al dolce sole / ei volge il capo ed a chiamar la madre» (vv. 9-14).

Una testimonianza autobiografica In una lettera del 14 novembre 1870 a Giuseppe Chiarini (uno degli “Amici pedanti”) Carducci comunica la morte, avvenuta da pochi giorni, del piccolo Dante. Le parole del poeta ci fanno comprendere come egli abbia vissuto quel grave lutto e illuminano il retroterra autobiografico, l’insieme di emozioni e sentimenti che sta dietro la composizione di Pianto antico: «io avevo avviticchiate intorno a quel bambino tutte le mie gioie tutte le mie speranze tutto il mio avvenire: tutto quel che mi era rimasto di buono nell’anima lo aveva deposto su quella testina. Quando mi veniva innanzi, era come se mi si levasse il sole nell’anima; quando posavo la mano su quella testa, scordavo ogni cosa trista, e l’odio, e il male; mi sentivo allargare il cuore, mi sentivo buono. Povero il mio bambino, e povero me: come vuol essere tristo quest’altro pezzo di vita, quest’altro pezzo di vita che io mi ero avvezzato come tutta data a lui e da lui rasserenata e confortata. Mi pareva che dovessimo camminare insieme; io a insegnargli la strada, lui a sorreggermi, finché io mi riposassi, ed ei seguitasse più puro e meno triste di me».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto dei versi, precisando il tema della poesia. COMPRENSIONE 2. Con quale gesto è identificato il bambino di cui nulla si dice? ANALISI 3. Illustra in tre righe gli aspetti che accostano il padre e il figlio rispettivamente all’albero e al fiore. LESSICO 4. Carducci usa sapientemente l’aggettivazione: commenta la scelta dei due aggettivi al v. 5. STILE 5. Ci sono allitterazioni? Anafore? Quale funzione svolgono?

Interpretare

SCRITTURA 6. Leggi attentamente il passo della lettera di Carducci proposto nell’Analisi del testo in cui lo scrittore confessa a un caro amico il suo doloroso stato d’animo in occasione della morte del piccolo Dante. In un testo di massimo 15 righe metti in luce i legami tra la lettera e il testo poetico.

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Presso una Certosa Rime e ritmi, XXVIII

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T5

Alla stazione in una mattina d’autunno Odi barbare, XXIX

G. Carducci, Poesie 1850-1900, Zanichelli, Bologna 1928

L’occasione dell’ode (composta tra il 1875 e il 1876) è la partenza da Bologna, in una triste mattina autunnale, di Carolina Cristofori Piva, amata dal poeta e cantata con il nome di Lidia. Al clima malinconico si contrappone il ricordo dei gioiosi momenti dell’estate, in cui rifulgeva la bellezza della donna. Significativa è l’ambientazione del componimento, inusuale per la poesia, cioè una stazione ferroviaria, e la mitizzazione (in questo caso negativa) del treno a vapore che porta Lidia lontano dall’amato.

Oh quei fanali come s’inseguono accidïosi1 là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce2 su ’l fango! 5

10

Flebile, acuta, stridula fischia la vaporiera3 da presso. Plumbeo il cielo e il mattino d’autunno come un grande fantasma n’è intorno4. Dove e a che move questa, che affrettasi a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente5? a che ignoti dolori o tormenti di speme6 lontana?

Tu pur7 pensosa, Lidia8, la tessera al secco taglio dài de la guardia, 15 e al tempo incalzante i begli anni dài, gl’istanti gioiti e i ricordi9.

La metrica O d e alcaica in strofe di quattro versi ciascuna, rese da due doppi quinari, un novenario e un decasillabo.

Van lungo il nero convoglio e vengono incappucciati di nero i vigili10, com’ombre; una fioca lanterna 20 hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei freni tentati11 rendono un lugubre rintocco lungo: di fondo a l’anima

1 Oh... accidïosi: oh, come si susseguono pigramente quei lampioni (fanali). Carducci attribuisce al paesaggio (in particolare qui ai lampioni del viale che conduce alla stazione) connotazioni che in realtà si riferiscono al suo stato d’animo: l’accidia è qui corrispettivo dello spleen di Baudelaire. 2 sbadigliando la luce: riversando la luce (la scelta, già ardita e molto moderna, del verbo sbadigliare, è accentuata dal fatto

che è reso transitivo).

3 la vaporiera: il treno a vapore. 4 n’è intorno: ci circonda. 5 Dove... gente: dove e a che cosa si dirige questa gente, stretta nei propri mantelli (ravvolta) e silenziosa, che si affretta verso le scure carrozze ferroviarie. 6 speme: speranza. 7 Tu pur: anche tu. 8 Lidia: la donna amata dal poeta, in partenza dalla stazione di Bologna.

9 la tessera... e i ricordi: il poeta crea una suggestiva associazione: Lidia consegna il biglietto (la tessera) al controllore che lo perfora, e allo stesso modo consegna, partendo, al passato momenti della giovinezza, gioie e ricordi. 10 i vigili: gli addetti al controllo dei freni, rappresentati come presenze funebri. 11 tentati: colpiti (dalle mazze di ferro dei frenatori); è un latinismo.

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un’eco di tedio12 risponde doloroso, che spasimo pare. 25

E gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l’ultimo appello13 che rapido suona: grossa scroscia su’ vetri14 la pioggia.

Già il mostro15, conscio di sua metallica 30 anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pe ’l buio gitta il fischio che sfida lo spazio. Va l’empio16 mostro; con traino orribile17 sbattendo l’ale gli amor miei pòrtasi. 35 Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo salutando scompar ne la tènebra. O viso dolce di pallor roseo, o stellanti18 occhi di pace, o candida tra’ floridi19 ricci inchinata20 40 pura fronte con atto soave! Fremea la vita nel tepid’aere, fremea l’estate quando mi arrisero21; e il giovine sole di giugno si piacea22 di baciar luminoso 45

in tra i riflessi del crin castanei la molle guancia: come un’aureola più belli del sole i miei sogni ricingean la persona gentile23.

Sotto la pioggia, tra la caligine24 50 torno ora, e ad esse vorrei confondermi25; barcollo com’ebro26, e mi tócco, non anch’io fossi dunque un fantasma27.

12 tedio: qui vale “angoscia profonda”; al

16 empio: spietato (perché rapisce al po-

v. 60 “stanchezza dolorosa”. 13 l’ultimo appello: l’ultimo invito a salire sul treno prima della partenza. 14 su’ vetri: sono quelli della tettoia della stazione, oppure dei finestrini dei vagoni. 15 il mostro: il treno viene trasformato in una orribile creatura, dagli occhi fiammeggianti, cui di seguito sono attribuiti fiammei occhi, ale e comportamenti, come lo sbuffare, lo scuotersi, l’ansimare.

eta la donna amata). 17 con traino orribile: si allude alla serie dei vagoni; per orribile, cfr. nota a empio. 18 stellanti: luminosi come stelle. 19 floridi: folti. 20 inchinata: chinata. 21 Fremea... mi arrisero: quando mi sorrisero (gli occhi e il bel volto di Lidia) palpitava (fremea) la vita nell’aria tiepida. 22 si piacea: si compiaceva.

23 ricingean la persona gentile: avvolgevano la sua delicata figura.

24 caligine: nebbia fitta. 25 ad esse... confondermi: vorrei confondermi con esse. 26 com’ebro: come un ubriaco. 27 mi tócco... un fantasma: mi tocco per essere sicuro di non essere anch’io un fantasma.

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O qual caduta di foglie, gelida, continua, muta, greve, su l’anima28! 55 io credo che solo, che eterno, che per tutto nel mondo è novembre. Meglio a chi ’1 senso smarrì de l’essere, meglio quest’ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi 60 in un tedio che duri infinito.

28 O qual... su l’anima: la caduta delle foglie diventa metafora della caduta, nell’animo del poeta, dei sogni e delle illusioni.

Analisi del testo Lo scenario della stazione e l’immagine del treno L’ode carducciana rappresenta nella poesia italiana di fine Ottocento un esempio assai originale: non era ancora usuale rappresentare sentimenti personali in uno scenario come una stazione ferroviaria. La stazione è uno degli ambienti-simbolo della modernità, ma nell’ode di Carducci il riferimento alla stazione non è finalizzato ad alcuna trionfalistica esaltazione del progresso dei tempi moderni: al contrario, associandosi all’evocazione di una triste piovosa mattina autunnale, la stazione, con i suoi carri foschi è qui simbolo negativo, ambiente quasi luttuoso in cui si rispecchia la cupa condizione interiore del poeta. Immagine negativa è innanzitutto quella della folla anonima dei viaggiatori che si affrettano ai treni, ognuno col proprio fardello di speranze deluse e di pene che rimangono sconosciute agli altri. Connotati negativamente sono anche le figure stesse del mondo della stazione e i gesti della routine ferroviaria: gli addetti al controllo dei freni sono quasi sinistre presenze funebri, il suono delle mazze sulle ruote produce «un lugubre rintocco lungo». In primo piano è l’immagine del treno: mentre anni prima, nell’Inno a Satana, Carducci aveva esaltato il treno come simbolo del progresso umano, qui il treno è trasfigurato in una figura animalesca e mostruosa con infernali occhi di fiamma, che «sbuffa crolla, ansa» lanciando nell’aria il suo terribile fischio.

La struttura Centro dell’ode è la rappresentazione della stazione e la descrizione della partenza del treno che conduce la donna amata lontano dal poeta (vv. 5-36). La prima strofa (vv. 1-4) e le ultime tre (vv. 49-60) focalizzano rispettivamente l’avvicinamento alla stazione e l’allontanamento da essa del poeta dopo l’addio struggente alla donna, ma soprattutto inquadrano la scena centrale in un clima di desolata tristezza. La malinconia della buia mattina autunnale è il paesaggio elettivo per l’anima del poeta, preda non solo e non tanto del dolore prodotto dal distacco, ma di un profondo senso di tedio esistenziale (vv. 53-60). Al buio che domina la maggior parte della composizione si contrappone con forza l’evocazione della bellezza luminosa della donna, associata al tempo felice dell’estate (vv. 37-48).

Una poesia decadente? Alla stazione in una mattina d’autunno è una delle poesie più moderne di Carducci, per la quale si è parlato di vicinanza al gusto e alle tematiche decadenti e al simbolismo di tardo Ottocento. Domina il testo una condizione spirituale che, come detto, non si può ascrivere semplicemente al dolore per la partenza di Lidia, ma appare piuttosto lo smarrimento esistenziale (il poeta è «chi ’l senso smarrì dell’essere»), il “tedio” tipico della modernità. Una condizione interiore simbolicamente trasposta nell’angoscioso paesaggio autunnale e negli elementi che appaiono via via allo sguardo dell’io lirico. Il tema del tedio che percorre la poesia potrebbe richiamare lo spleen di Baudelaire, ma derivato dal poeta francese potrebbe essere anche il tema della folla anonima: Carducci possedeva tutta l’opera di Baudelaire anche se non si può assolutamente parlare di qualche influenza diretta. È comunque indubbio che – sia per le spiccate componenti simboliche, sia per la modernità della condizione psicologica dell’io lirico – questa lirica rappresenti un volto inusuale della poesia carducciana.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del componimento (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Perché il treno è definito «l’empio mostro»? ANALISI 3. I contrasti luce/ombra, calore/freddo, passato/presente sono ricorrenti nell’immaginario poetico carducciano: puoi ritrovarli anche in questo testo? A che proposito? STILE 4. Nel testo sono frequenti le allitterazioni, e in genere c’è una particolare attenzione al valore evocativo degli effetti fonici: individua queste presenze e fanne precisi riferimenti.

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Interpretare

SCRITTURA 5. In che modo Carducci riesce a coniugare il suo amore per la tradizione classica con elementi di modernità? Quali elementi fanno di Alla stazione un testo “moderno” e originale? Argomenta le tue riflessioni con opportuni riferimenti ai versi.

Mario Martelli È la poesia che svela la realtà M. Martelli, Rime nuove di Giosue Carducci, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, I, Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995.

In questa breve pagina, Mario Martelli (1925-2007), filologo e critico letterario, riflette sul rapporto tra natura e classicismo nell’opera di Carducci.

Non è […] che il Carducci si scelga gli elementi del paesaggio per suggerimento di fonti letterarie. Le cose stanno in tutt’altra maniera: è piuttosto il paesaggio reale – lecci e mandorle ed uccelli tripudianti e margherite – che veramente reale diviene per lui solo attraverso il vetro colorato della poesia pregressa, come se non fosse 5 la poesia di imitare la realtà, ma la realtà ad imitare la poesia. Non si può, proprio per questo parlare di “fonti”, ed il farlo sarebbe gravissimo errore. È, infatti, un paesaggio reale che colpisce l’occhio di Carducci: ma quel paesaggio reale gli si dispone davanti come significante coagulo di luoghi letterari: Virgilio, Ovidio, Petrarca, Dante, Leopardi […]. Per lui non la letteratura che si sostituisce alla vita e si costi10 tuisce come valore autonomo, ma la vita, con tutti i suoi affetti e i suoi ideali e le sue passioni e i suoi dolori, che è tuttavia esprimibile solo attraverso la letteratura.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Riassumi il brano proposto nei suoi snodi tematici essenziali. 2. Quale tesi sostiene Martelli? 3. Cosa intende Martelli, quando parla di «significante coagulo di luoghi letterari»? 4. Sulla base dei testi di Carducci che hai affrontato nel tuo precorso di studi, esprimi la tua posizione in merito al rapporto tra natura e classicismo nell’opera carducciana.

Fissare i concetti Giosue Carducci 1. Quali valori propone la poesia di Carducci? 2. Perché Carducci può essere definito il “vate” dell’Italia unita? 3. Come viene rappresentata la storia passata nell’opera carducciana? 4. Quale valenza assume il classicismo nella poetica carducciana? 5. Come viene rappresentata da Carducci la dimensione privata?

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Secondo Ottocento Giosue Carducci

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La poesia di Giosue Carducci (1835-1907), come quella della scapigliatura, trae origine dal contesto del periodo post-risorgimentale: si inquadra e si spiega nel vuoto di ideali che si era creato dopo l’unità d’Italia e nella delusione per una realtà meschina e prosaica. A differenza però degli scapigliati, Carducci, personalità forte e combattiva, assume un ruolo importante nel suo tempo, anche come carismatico docente universitario (a Bologna insegna per più di quarant’anni) e incarna, con la sua stessa vita e figura, il modello del poeta vate, modello per le giovani generazioni. In questo ruolo Carducci celebra, con toni spesso enfatici e retorici, gli eroi e i valori del passato antico e recente. Per contro, condanna la meschinità e l’opportunismo del suo tempo, soprattutto nella sua prima produzione. Negli anni più tardi della sua vita, smorzati gli spiriti polemici, Carducci diventa il poeta “ufficiale” della nazione, insignito nel 1906 del premio Nobel. Come esempio di sanità morale ed eccellenza letteraria Carducci ripropone la poesia dei classici, a cui guarda con un atteggiamento propositivo e non nostalgico e di cui, in Odi barbare (1877-89), cerca di riprodurre la metrica in modo originale, aprendo così la strada al verso libero. Le poesie oggi più apprezzate fanno riferimento alla dimensione privata, in cui il poeta dà spazio alla rievocazione della giovinezza (Visione), all’esperienza lacerante del dolore (come nella celebre Pianto antico, ispirata dalla morte del piccolo figlio) o anche a un tedio esistenziale pre-decadente (Alla stazione in una mattina d’autunno).

2 Le raccolte poetiche online

Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Le raccolte carducciane Le prime raccolte, Juvenilia (1850-60) e Laevia gravia (1861-71) testimoniano l’adesione incondizionata di Carducci al classicismo e la polemica antiromantica. Giambi ed epodi (1867-79) è la raccolta più polemica e l’unica con temi esclusivamente attuali e politici. La raccolta Rime nuove (1861-87) è la più ampia, nonché la più varia a livello tematico, e riprende i metri della tradizione letteraria (sonetto, canzone petrarchesca, terzina dantesca ecc.). Comprende celebri liriche ispirate alla dimensione privata della vita di Carducci. La raccolta Rime e ritmi (1887-89) fa riferimento nel titolo alle scelte metriche del poeta: rime sono le poesie in metri tradizionali, ritmi quelle che seguono la metrica “barbara”.

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo di massimo 15 righe spiega in che modo viene rappresentata la natura nella poesia di Carducci.

Competenza digitale

2. Dopo aver fatto una ricerca in rete, trascrivi in un PowerPoint le principali posizioni critiche sull’opera di Carducci e presentale alla classe.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

4 Charles Baudelaire e la nascita della poesia moderna

La pubblicazione dei Fiori del male (1857) di Charles Baudelaire chiude l’epoca romantica e apre la strada alla poesia moderna, di cui il poeta francese è considerato l’indiscusso maestro. Già con le sue scelte di vita Baudelaire inaugura un nuovo mito umano che fa da modello per l’estetismo decadente e per i poeti “maledetti”: in costante polemica con il conformismo e l’ipocrisia della società borghese, Baudelaire vive una vita spregiudicata e irregolare, ai limiti dell’autodistruzione e al contempo raffinata e attenta ai valori estetici. Come intellettuale rifiuta la logica del profitto che mercifica l’arte ed emargina i poeti. Nella sua opera poetica Baudelaire ribalta deliberatamente l’idealismo romantico, scegliendo di trattare per lo più di una realtà “bassa” (il vizio, il sesso, la degradazione morale). Cantore impareggiabile della moderna angoscia esistenziale e delle contraddizioni della civiltà metropolitana, Baudelaire mette al centro della sua poesia il contrasto ineliminabile fra attrazione verso il peccato e la perdizione e tensione verso il sublime e l’elevazione dello spirito.

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1 Il padre della poesia moderna 1 Una vita sregolata Una difficile situazione familiare Charles Baudelaire nasce a Parigi nel 1821. A sei anni rimane orfano del padre e si lega profondamente alla madre, di cui vive in modo traumatico il secondo matrimonio, nel 1828, con il colonnello J. Aupick. Le profonde inquietudini del poeta, l’angoscia esistenziale che caratterizza la sua opera, hanno probabilmente le loro radici nella storia familiare e nel complesso rapporto con la figura materna. Una vita bohémienne Presto Baudelaire si avvicina all’ambiente della bohème letteraria parigina, iniziando quella vita libera e disordinata, dedita all’arte e agli eccessi, che lo ha reso un modello per l’estetismo decadente e per i poeti “maledetti”. Poco più che ventenne, inizia una relazione con la donna chiamata nei suoi versi “Venere nera”, la creola Jeanne Duval, a cui rimarrà legato fino al 1861, nonostante le reciproche infedeltà. A causa dei suoi comportamenti trasgressivi la famiglia decide di interdirlo, e per tutta la sua vita lo scrittore dovrà fare fronte a difficoltà finanziarie.

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Per approfondire Baudelaire e il Quarantotto

Un rivoluzionario antiborghese Nel 1847 esce un racconto (l’unico della sua produzione), Le Fanfarlo, in cui si presenta come giovane letterato dandy. Conosce l’opera di E.A. Poe, dalla quale rimane folgorato e che traduce interamente nell’arco di diciassette anni, contribuendo in modo determinante a far conoscere lo scrittore americano in Francia. L’anno successivo vive uno slancio rivoluzionario, che lo porta sulle barricate durante le giornate del 1848 parigino. Non si riconoscerà però nell’idea di “progresso borghese” che stava alla base della rivoluzione del ’48 e, in seguito, rinnegherà quel momento di entusiasmo, proclamandosi, provocatoriamente, conservatore e cattolico. I fiori del male Il 1857 è l’anno chiave della vita di Baudelaire: muore l’odiato patrigno e la madre si trasferisce a Honfleur (pittoresco porto normanno, buen retiro nell’Ottocento di pittori e scrittori) dove il poeta andrà spesso a trovarla; e soprattutto viene pubblicata la sua opera principale, Les fleurs du mal (I fiori del male). I contenuti anticonformistici dell’opera suscitano scandalo e il risultato è un processo per oltraggio al pudore.

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Per approfondire I «paradisi artificiali» e gli artisti

Gli ultimi anni Nel 1860 pubblica I paradisi artificiali, un saggio sugli effetti esercitati dall’alcool e dalle droghe sulla psiche umana. Il suo fisico è sempre più minato dall’abuso di sostanze stupefacenti e di alcool, e dalla sifilide, malattia contratta in gioventù. Colpito da un ictus che lo paralizza e gli toglie l’uso della parola, Baudelaire muore nel 1867, a 46 anni, tra le braccia della madre. Postumi sono pubblicati alcuni saggi in difesa dell’autonomia dell’arte (raccolti in Curiosità di Parigi (1869), estetiche e L’arte romantica, 1868); le prose liriche dello Spleen riflessioni provocatorie sul mondo e in particolare sulla Parigi moderna e sui suoi abitanti; i diari intimi, con i titoli di Razzi e Il mio cuore messo a nudo (1887).

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2 I fiori del male Un titolo affascinante per un libro scandaloso L’opera a cui indissolubilmente è legato il nome di Baudelaire è Les fleurs du mal, una raccolta di circa cento componimenti poetici, pubblicata per la prima volta nel luglio del 1857. In un primo tempo l’opera avrebbe dovuto intitolarsi I limbi, con riferimento alla malinconica indefinitezza di una condizione esistenziale che per Baudelaire era diffusa nella società moderna. Con la scelta di I fiori del male Baudelaire vuole suscitare scalpore fin dal titolo: una specie di ossimoro, che accosta la bellezza e insieme la fragilità della poesia – rappresentate dai fiori – al male che domina il mondo. Ma forse il poeta intende suggerire che anche il male ha i suoi “fiori”, le sue bellezze, spesso più seducenti di quelle del bene. L’opera non ebbe vita facile: alla pubblicazione i moralisti ne rimasero scandalizzati, accusandola di oscenità. La magistratura – che aveva appena proceduto per oltraggio alla morale contro Flaubert e la sua Madame Bovary (1857), assolvendolo – intentò un processo contro Baudelaire. La sentenza sui Fiori del male si concluse con il pagamento di una penale da parte del poeta e dell’editore e con la soppressione di sei poesie. Queste furono sostituite nella seconda edizione (1861) da trentacinque nuove liriche. Nel 1868 fu pubblicata, postuma, una terza edizione dei Fiori del male (Nuovi fiori del male), con aggiunta di alcune poesie e modifiche nell’ordine di successione. Un “poema”, non una semplice raccolta Definire I fiori del male una semplice raccolta è certamente riduttivo: la struttura interna del libro, con la ripartizione tematica delle poesie in sei sezioni titolate (a partire dall’edizione del 1861, curata dallo stesso Baudelaire), indica infatti già di per sé l’intenzione dell’autore di realizzare un’opera unitaria, un vero e proprio “poema”. Più volte lo scrittore sottolineò l’importanza del disegno architettonico dell’opera: «Il solo elogio che sollecito per questo libro è che si riconosca che non si tratta di un semplice album e che possiede un inizio e una fine». La collocazione delle singole liriche all’interno delle sezioni non è casuale, né risponde a criteri meramente cronologici, ma è frutto di precise scelte dell’autore: non di rado ad esempio le poesie sono associate per antitesi, come nel caso di L’albatro (➜ T2 ), preposto a Elevazione (➜ VERSO L’ESAME DI STATO OL).

Parola chiave

I titoli delle sezioni I titoli delle sezioni sono indicativi dei temi principali: Spleen e ideale (Spleen et idéal); Quadri di Parigi (Tableaux parisiens); Il vino (Le vin); I fiori del male (Les fleurs du mal); La rivolta (La révolte); La morte (La mort). Le poesie hanno infatti come argomento l’amore, la donna, la droga, la depressione o la malinconia, la metropoli (Parigi), la ribellione, la morte. Sono popolate di nevrosi, ossessioni, odi, rimorsi e orrori, e sono spesso giocate su contrasti: in particolare quello fra lo slancio verso il sublime e un’amara cupa malinconia, di cui si nutrono le antitesi tra immagini nobili e aspetti volgari della vita, tra l’amore e una passione sensuale vissuta come degradante, tra la natura incontaminata dei paesaggi esotici e quella corrotta della città, che induce fatalmente al male.

Spleen Il termine Spleen (in inglese “milza”, l’organo dove la medicina dell’antica scuola di Ippocrate collocava uno dei quattro umori corporei, la bile nera, l’umore nero che provocava la malinconia) è usato da Baudelaire, alternato spesso con il francese ennui “noia”, nel senso di “depressione, disgusto

della vita”. Spleen è anche il titolo di un gruppo di quattro liriche della prima sezione dell’opera (➜ T4 ), in cui è evocata una condizione esistenziale, che è insieme disgusto, frustrazione, noia, una sorta di moderno “male di vivere”.

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Spleen et idéal Nel titolo della prima sezione, la più vasta (consta infatti di ottantacinque testi), Baudelaire accosta, con una scelta analoga a quella compiuta per il titolo complessivo della raccolta (fleurs-mal), due termini opposti, affiancando il peso opprimente della malinconia all’aspirazione all’ideale. In entrambi i casi, l’antitesi riflette la conflittualità, la lacerazione interiore dell’autore. Una parte importante di questa sezione è dedicata al ruolo del poeta nel mondo contemporaneo e accoglie alcune delle più famose e significative liriche di Baudelaire, come L’albatro e Corrispondenze (➜ T3 ).

Honoré Daumier, Nottambuli, olio su tavola 1847 (National Museum of Wales, Cardiff).

Le altre sezioni: l’immagine del “poeta maledetto” Le successive tre sezioni fanno riferimento ai diversi modi tentati dal poeta per evadere dalla sua condizione depressa e malinconica: nel caso dei Quadri di Parigi l’immersione nella vita della metropoli (➜ T5 OL), nel caso del Vino l’abbandono agli effetti di alcool e droghe, nel caso dei Fiori del male la fascinazione di un erotismo corrotto. Quest’ultima sezione è quella che più ha contribuito alla mitizzazione di Baudelaire come “poeta maledetto” e contiene alcune delle liriche che avevano scandalizzato i giudici durante il processo: poesie in cui si parla di cadaveri di prostitute dalla testa mozzata, «gioia colpevole, strane feste, infernali baci», donne dannate «simili a suore», «Dissolutezza e Morte» personificate come due «buone sorelle». Al “male di vivere” non si può sfuggire attraverso la religione, che diventa anzi l’oggetto polemico di una provocatoria protesta nella quinta sezione, La rivolta, composta di sole tre liriche: in Il tradimento di san Pietro, Baudelaire afferma che Pietro doveva rinnegare Cristo poiché non si era ribellato al Dio che lo aveva abbandonato; in Abele e Caino il poeta si schiera dalla parte di Caino; infine nelle Litanie di Satana rivolge a Satana una blasfema preghiera modellata sulle litanie alla Vergine. Nell’ultima sezione, La morte, il poeta rappresenta l’estrema soluzione per evadere dalla condizione dell’esistenza umana, la morte appunto, mostrando ormai una visione irrimediabilmente pessimista sulla possibile ricerca di orizzonti salvifici. Aperta con un trittico: La Morte degli amanti, La Morte dei poveri, La Morte degli artisti, la sezione (e l’intera raccolta) si conclude con Il Viaggio, in cui il poeta concentra le sue accuse verso la visione positivista del progresso.

3 Baudelaire: ultimo dei romantici o padre dei moderni? Sia la critica sia poeti come Mallarmé, Valéry, Eliot sono concordi nel riconoscere il ruolo assolutamente centrale di Baudelaire nella fondazione della poesia moderna. Nei versi di Baudelaire indubbiamente permangono alcuni aspetti e temi propri della produzione romantica, ma essi sono interpretati con una personalissima sensibilità ed estremizzati, così da anticipare la poesia moderna. Ne indichiamo sinteticamente i principali. Il contrasto fra ideale e reale Si tratta di un conflitto già presente nella cultura romantica, ma in Baudelaire l’ideale si configura sostanzialmente come mito no-

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stalgico: i valori morali, la bellezza non sono più recuperabili nella prosaica realtà moderna, la tensione verso l’ideale risulta così frustrata in partenza. A sua volta il “reale” non si connota più nella sua poesia semplicemente come mondo dei pragmatici valori borghesi (come poteva essere per Werther), ma come regno della degradazione, dell’abiezione avvilente da cui inesorabilmente l’io del poeta è attratto. Il rapporto conflittuale con il pubblico e la cultura di massa La poesia di Baudelaire nasce dalle contraddizioni e lacerazioni che l’artista vive nella società moderna, e in particolare nel contesto della metropoli (➜ T5 OL): egli si trova a confrontarsi con una nuova realtà in cui l’arte diviene una merce e l’artista perde la sua identità (➜ T2 ). Anticipato dai romantici, il conflitto artista-società è portato da Baudelaire alle estreme conseguenze, fino alla consapevole ricerca della provocazione e dello scandalo: in questo Baudelaire prefigura atteggiamenti successivi, dai “poeti maledetti” all’avanguardia. L’elevazione del brutto e del “malato” al piano del bello Il crudo realismo di molte liriche baudelairiane radicalizza alcune tendenze già presenti nel Romanticismo, soprattutto nordico, e anticipa i temi della letteratura decadente (in Italia in modo particolare degli scapigliati ➜ C2). La concezione quasi mistica del ruolo del poeta Nel Romanticismo (in particolare tedesco, con Novalis ➜ VOL 2 C17) si era affermata una visione mistica della poesia, concepita come intuizione e rivelazione del mistero dell’essere. Così, anche per Baudelaire, il poeta deve scoprire il senso riposto nelle «foreste di simboli» del mondo (➜ T3 ). Ancora una volta è anticipata una visione, in questo caso la poesia come intuizione a-logica che va oltre le apparenze fenomeniche, visione che sarà propria dei simbolisti francesi (Lettera del veggente di Rimbaud ➜ C9 D1 ).

Dal romanticismo alla poesia moderna Aspetti e temi della poetica romantica, interpretati da Baudelaire secondo una nuova sensibilità ed estremizzati, così da anticipare la poesia moderna

contrasto tra ideale e reale

rapporto conflittuale con il pubblico e la cultura di massa

il reale è connotato come regno della degradazione, dell’abiezione avvilente da cui inesorabilmente l’io del poeta è attratto

portato da Baudelaire alle estreme conseguenze, fino alla consapevole ricerca della provocazione e dello scandalo, in anticipo su atteggiamenti successivi, dai “poeti maledetti” all’Avanguardia

elevazione del brutto e del “malato” al piano del bello

concezione quasi mistica del ruolo del poeta

con una radicalizzazione di tendenze già nel Romanticismo, e anticipazione dei temi della letteratura decadente, in Italia degli scapigliati

anticipa la visione della poesia come istituzione a-logica che va oltre le apparenze fenomeniche

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Una ricerca ossessiva di perfezione formale A differenza però degli autori romantici, Baudelaire rifiuta l’idea della poesia come ispirazione travolgente e, in diverse occasioni, ne teorizza la natura “artificiale”: il poeta è definito un commediante, un giocoliere, o meglio ancora un alchimista, che dosa sapientemente i diversi componenti per ottenerne un distillato perfetto. Il suo lavoro formale testimonia una ricerca della perfezione quasi ossessiva, che senza dubbio risente della reazione dei parnassiani, e si contrappone agli eccessi delle effusioni sentimentali della letteratura di primo Ottocento. Tra simbolismo e allegorismo Nei Fiori del male sono presenti due linee di tendenza che caratterizzeranno la poesia nei decenni successivi e nel Novecento: il simbolismo e l’allegorismo. Entrambe le scelte presuppongono il drastico rifiuto di Baudelaire dell’incipiente omologazione e mercificazione dell’arte e il conseguente tentativo di restituire alla poesia un ruolo alto, un valore conoscitivo. Alla società di massa, che non comprende ed emargina il vero artista (➜ T2 ), Baudelaire risponde creando un linguaggio poetico oscuro e allusivo, fondato su immagini cariche di valenze simboliche, su libere associazioni analogiche, che restituiscono alla poesia la sua magica onnipotenza. Grazie all’intuizione del poeta, si ricostruisce il rapporto armonico fra uomo e natura, tra soggetto e universo: traducono questa intuizione le molteplici sinestesie (poi ricorrenti nei versi di Verlaine, Rimbaud, Mallarmé), in cui i messaggi di diverse aree sensoriali sono arditamente fusi (emblematico in tal senso Corrispondenze, ➜ T3 ). In questa direzione Baudelaire anticipa il simbolismo moderno.

PER APPROFONDIRE

Carlos Schwabe, illustrazione per I fiori del male, 1907.

Leopardi e Baudelaire Non è un caso che Baudelaire risulti inattuale nel suo tempo, così come già era accaduto a Leopardi: anche se le tematiche affrontate dai due poeti sono diverse (ma ci sono non poche analogie tra la condizione interiore che Leopardi definisce “noia” e lo spleen baudelairiano), entrambi si rifiutano di mascherare l’angoscia esistenziale

dietro facili speranze e scontate illusioni (come il mito del progresso). Entrambi sfidano coraggiosamente l’opinione pubblica, prospettando nelle loro opere scomode verità. Una scelta che li condannò a essere incompresi dal pubblico contemporaneo.

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Charles Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, 1862 ca.

Ma il poeta francese prefigura anche una tendenza per certi aspetti opposta al simbolismo: l’allegorismo, che sarà proprio di non pochi poeti novecenteschi (come Montale ed Eliot ad esempio). Ovviamente non si tratta di una riproposta dell’allegorismo medievale, fondato su un patrimonio immaginativo codificato e immediatamente decifrabile (come la selva oscura, o le tre fiere della Commedia). In questo caso le allegorie sono inusitate, ardite, e richiedono al lettore uno sforzo razionale per decifrarle e comprenderle: è il caso delle molteplici allegorie presenti nella lirica Il cigno (➜ T5 OL), in cui il poeta affida a “emblemi”, consapevolmente costruiti come tali (Andromaca in esilio, il cigno fuggito dalla gabbia che si aggira nella metropoli, l’emigrante negra che sogna i paesaggi africani), il concetto della “perdita”, della “privazione”, create dalla snaturante civiltà moderna.

online T1 Charles Baudelaire

Al lettore I fiori del male, Spleen e ideale

Charles Baudelaire modello per

simbolismo

estetismo decadente

• poesia come intuizione • realtà come “foresta di simboli” • uso della metafora, del simbolo, della sinestesia

• stile di vita sregolato e raffinato • polemica con la società di massa • ricerca dello scandalo

Fissare i concetti Charles Baudelaire 1. Qual è il senso del titolo scelto da Baudelaire per la sua raccolta poetica? 2. I fiori del male furono processati e censurati: per quali ragioni? 3. A quale idea di pubblico fa riferimento l’opera? 4. Quali sono i titoli delle sezioni dell’opera? Indicali e spiegane il contenuto.

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Charles Baudelaire

T2

LEGGERE LE EMOZIONI

L’albatro I fiori del male, Spleen e ideale, II

C. Baudelaire, Opere, a c. di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996

In questa celebre lirica, che nell’edizione del 1861 segue la dedica al lettore (➜ T1 OL), l’immagine dell’albatro, il grande uccello marino che attraversa l’azzurro con le sue grandi ali spiegate, diventa metafora della condizione del poeta, che regna beato sul suo mondo di poesia, ma sulla terra, tra uomini che non possono capirlo, non può essere che esule.

Spesso, per divertirsi, i marinai prendono degli albatri, grandi uccelli dei mari, indolenti compagni di viaggio delle navi 4 in lieve corsa sugli abissi amari. L’hanno appena posato sulla tolda1 e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, pietosamente accanto a sé strascina 8 come fossero remi le grandi ali bianche. Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! E comico e brutto, lui prima così bello! Chi gli mette una pipa sotto il becco, 12 chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! Il Poeta è come lui, principe delle nubi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; esule in terra fra gli scherni, non lo lasciano 16 camminare le sue ali di gigante.

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Audio Charles Baudelaire L’albatro (lettura in lingua originale)

1 tolda: ponte superiore della nave.

Analisi del testo Il paragone tra l’albatro e il poeta In questa celebre poesia l’autore istituisce un paragone tra la condizione di un albatro, catturato dai marinai di una nave che lo stuzzicano e lo scherniscono, e quella del poeta: come l’albatro, il poeta è capace di volare in alto e di sovrastare con la grandezza della poesia gli altri uomini, ma quando deve confrontarsi col mondo, banale e meschino, diventa un essere debole e indifeso, a cui fa da ostacolo la sua stessa grandezza («le sue ali di gigante»). L’uccello, schernito dai marinai che lo catturano per divertirsi, finisce per diventare una figura comica: questa è anche la sorte del poeta, la cui aureola ormai è scivolata nel fango come viene detto in modo decisamente ironico da Baudelaire in un celebre passo in prosa (Perdita d’aureola). Per tre quarti del testo il poeta si sofferma sulla descrizione dell’albatro. Solo nell’ultima strofa, attraverso l’esplicito paragone («Il poeta è come lui»), comprendiamo che la lunga descrizione serve in realtà per ritrarre la condizione del poeta, estraneo ed esiliato in una società che, costituzionalmente, non può comprenderlo.

Una metafora della condizione dell’artista nella società moderna Il contrasto tra l’artista e la società era un tema presente già nella letteratura romantica, ma per lo più era sviluppato con senso di orgoglio, di superiorità, quasi con autocompiacimento da parte del poeta. In Baudelaire invece la superiorità ed elevatezza della poesia fa del poeta un “diverso”, condannato a una dolorosa condizione di esclusione e incomprensione (non a caso il termine esule ritornerà in molti componimenti dei Fiori del male, (➜ T5 OL Il Cigno). Gli uomini dell’equipaggio, che simboleggiano la gente comune che vive accanto al poeta, si comportano in un modo ottuso e crudele, ridicolizzando l’albatro-poeta che si accampa al

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centro della rappresentazione come una figura triste e goffa, lontanissima dall’orgogliosa immagine della propria solitaria superiorità. La connotazione più marcatamente pessimistica del conflitto artista-società in Baudelaire, oltre che della sensibilità personale del poeta, è frutto di una situazione storica in cui domina il mito del progresso e prevalgono le ragioni dell’utilitarismo e del conformismo borghese su quelle della Bellezza e della Poesia.

La ricerca dell’armonia e della musicalità Ognuna della quattro quartine di alessandrini è chiusa dal punto, e anche ogni singolo verso ha una sua autonomia sintattica; l’unico enjambement, rispettato nella traduzione, si trova tra il 1o e il 2o verso e separa i marinai dal loro gesto (prendere gli albatri) facendo convergere su albatros l’attenzione. I versi accuratamente bilanciati nei due emistichi (Souvent, pur s’amuser, / les hommes d’équipage, v. 1), la presenza di coppie di aggettivi (maladroits et honteux, v. 6; gauche et veule, v. 9) e di precise corrispondenze tra le espressioni che riguardano l’uccello e il poeta (rois de l’azur, v. 6; prince des nuées, v. 13; grandes ailes blanches, v. 7; ses ailes de géant, v. 16; le due relative dei vv. 3 e 14) realizzano l’ideale di perfezione formale perseguito dal poeta. Per comprendere la studiata costruzione stilistica di questa lirica, in cui ogni suono e ogni rima concorrono all’armonia dell’insieme, è necessaria la sua lettura nell’originale francese: basti qui mostrare a mo’ di esempio come nella prima quartina il primo termine souvent (spesso) sia fortemente ripreso dal punto di vista fonico da suivent (v. 3, seguono), e nello stesso tempo in tono minore dagli altri due verbi prennent (v. 2, prendono) e glissant (v. 4, che scivolano), l’allitterazione tra s’amuser (divertirsi) e les hommes (gli uomini) del primo verso, la rima ricca tra mers (v. 2, mari) e amers (v. 4, amari) ecc.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in cinque righe il contenuto della poesia. COMPRENSIONE 2. Che cosa significa che il poeta, allo stesso modo dell’albatro, «sta con l’uragano e ride degli arcieri»? ANALISI 3. La lirica è strutturata su un sistema di opposizioni. Individuale e interpretane il senso. STILE 4. Quali figure retoriche ritrovi nella lirica? 5. Basandoti sull’originale francese della poesia e aiutandoti con la traduzione, metti in evidenza la sua struttura sintattica e musicale in una breve analisi testuale.

Interpretare

SCRITTURA 6. Dopo aver letto (o riletto) anche il passo in prosa L’aureola perduta (➜ SCENARI PAG. 60 D8 ), esponi qual è l’immagine del poeta che viene proposta da Baudelaire con riferimento al contesto socio-culturale. TESTI A CONFRONTO 7. Confronta la traduzione del poeta Giovanni Raboni con le altre traduzioni italiane che ti proponiamo online e stabilisci un confronto, analizzando in particolare le differenze: a. sul piano dell’interpretazione poetica; b. sul piano stilistico (retorico-ritmico); c. sul piano delle soluzioni letterarie adottate (lessico, uso di metafore ecc.); Attraverso precisi riscontri testuali, evidenzia differenze e analogie in una trattazione (max 20 righe).

LEGGERE LE EMOZIONI

LETTERATURA E NOI 8. Nella poesia Baudelaire mostra la condizione del poeta che si sente esiliato e incompreso nella società del secondo Ottocento. Ti è mai capitato di sentirti escluso dal contesto nel quale vivi? Come ti rapporti alla mentalità predominante del tuo tempo?

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Traduzioni a confronto L’albatro nella traduzione di Bernard Delmay, Antonio Prete, Luigi De Nardis, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci

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Charles Baudelaire

T3

Corrispondenze I fiori del male, Spleen e ideale, IV

C. Baudelaire, Opere, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1996

Corrispondenze (Correspondances) è uno dei testi più celebri dei Fiori del male di Baudelaire. I poeti simbolisti consideravano questa poesia un fondamentale modello per la rivoluzione poetica da essi poi portata avanti.

È un tempio la Natura1 dove a volte parole escono confuse da viventi pilastri2; e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli 4 che gli lanciano occhiate familiari3. Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’unità profonda e oscura, vasta come le tenebre o la luce 8 i profumi, i colori e i suoni si rispondono4. Profumi freschi come la carne d’un bambino, dolci come l’oboe5, verdi come i prati 11 – e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza, con tutta l’espansione delle cose infinite: l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino6, 14 che cantano i trasporti della mente e dei sensi. 1 È un tempio la Natura: certo non a caso Baudelaire scrive Natura con la maiuscola: a una concezione scientifica del mondo naturale il poeta francese contrappone una visione sacrale della natura, evidenziata dall’identità natura-tempio. 2 dove... pilastri: dove pilastri viventi (probabilmente si allude agli alberi) mormorano parole allusive, indeterminate,

oscure (come il linguaggio degli oracoli antichi). 3 tra foreste... familiari: immagine densa di significato: con foreste di simboli si allude alla difficoltà di decifrare l’essenza del reale, pur apparentemente familiare all’uomo che vi si trova immerso. 4 Come echi… si rispondono: in questa visione, comune alla grande poesia

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Audio Charles Baudelaire Correspondances (lettura in lingua originale)

romantica tedesca, i vari elementi della natura sono collegati da misteriose corrispondenze e costituiscono un’unità profonda in cui si fondono profumi, colori, suoni. 5 l’oboe: strumento musicale a fiato dal suono leggero e penetrante. 6 l’ambra… il benzoino: profumi dall’aroma intenso e sensuale.

Analisi del testo Un testo programmatico Nella raccolta I fiori del male, Corrispondenze è collocata tra le prime poesie, a testimonianza dell’importante valore programmatico che Baudelaire attribuiva a questo testo. La poesia nell’originale francese è un sonetto in versi alessandrini, in cui l’articolazione dei temi segue la partizione tra quartine e terzine: la prima parte (vv. 1-8) delinea il tema, la seconda (vv. 9-14) costituisce un’esemplificazione e specificazione, in particolare dell’ultimo verso della seconda quartina. La prima quartina è densa di immagini metaforiche che rimandano inizialmente a una visione sacrale della natura, immaginata come un tempio, con colonne non di pietra ma viventi (gli alberi) che mandano messaggi misteriosi. Il linguaggio della natura è simbolico ed enigmatico, ma al contempo familiare per chi lo sa decifrare. Baudelaire parla dell’uomo in genere, ma più propriamente allude qui al poeta che, solo, sa davvero interpretare il linguaggio della natura: del resto proprio Baudelaire ebbe a dire: «Cos’è il poeta se non un traduttore, un decifratore?». La poesia è dunque magia, rivelazione del mistero del reale, come già in Novalis (➜ VOL 2 C17).

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La seconda quartina introduce un nuovo concetto, a cui propriamente si lega il titolo della composizione: Baudelaire rappresenta l’unità profonda della natura, in una sorta di visione mistica, da cui però è escluso ogni valore religioso (ed è, questa, una differenza importante rispetto ai poeti romantici tedeschi e inglesi, che esprimono nelle loro poesie una visione mistico-panteista della natura): solo un discorso superficiale può vedere gli elementi della natura come separati; in realtà esistono misteriose corrispondenze che legano ogni elemento al tutto così che un profumo si collega a un suono, un suono a un colore e così via. Le due terzine costituiscono un unico blocco tematico e anche sotto il profilo sintattico sono legate in un unico periodo. Baudelaire enuncia una serie di corrispondenze, che esemplificano l’unità profonda che lega ogni elemento della natura. Domina i sei versi l’associazione (la “corrispondenza” appunto) fra dimensioni sensoriali diverse: i profumi (odorato) sono freschi (tatto) come la pelle di un bambino, dolci (gusto) come il suono dell’oboe (udito), verdi come i prati (vista). Nel testo di Baudelaire l’associazione si sviluppa attraverso similitudini, pur originalissime. Nella poesia dei simbolisti, e più in generale nella poesia moderna che da essi prende le mosse, la corrispondenza assumerà la forma dell’ardita metafora sinestetica (la sinestesia è presente spesso anche in Pascoli: ad es. nel sintagma «Là, voci di tenebra azzurra» il poeta associa sensazioni uditive e visive). Ne è un esempio quasi paradigmatico Vocali di Rimbaud.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato del titolo scelto dal poeta: Corrispondenze. ANALISI 2. Spiega il significato dei vv. 3-4 in rapporto al contesto. STILE 3. La seconda parte della poesia è dominata da immagini sinestetiche: spiega in che cosa consiste la sinestesia facendo puntuali riferimenti al testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. La visione scientista del tempo concepisce la natura come insieme di singoli fenomeni descrivibili con metodo oggettivo e procedimenti razionali: quale immagine della natura vi contrappone Baudelaire? È casuale che il poeta scriva Natura con la maiuscola? Rispondi in un intervento orale di massimo tre minuti. SCRITTURA 5. Scrivi un tuo commento alla poesia di Baudelaire e spiega perché è possibile affermare che essa rappresenti una delle chiavi di lettura di tutta la poesia simbolista.

Illustrazione di Carlos Schwabe per un'edizione francese dei Fiori del male.

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Charles Baudelaire

T4

Spleen

LEGGERE LE EMOZIONI

I fiori del male, Spleen e ideale, LXXVIII C. Baudelaire, Opere, a c. di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996

La poesia, appartenente alla sezione Spleen e ideale, è l’ultima (e la più celebre) di quattro poesie tutte intitolate Spleen: vi ritroviamo la definizione di uno stato d’animo che sarà una delle tematiche fondamentali di tanta letteratura novecentesca.

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve schiaccia l’anima che geme nel suo tedio infinito, e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte 4 fa del giorno una tristezza più nera della notte;

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Audio Charles Baudelaire Spleen (lettura in lingua originale)

quando la terra si muta in un’umida segreta dove sbatte la Speranza, timido pipistrello, con le ali contro i muri e con la testa 8 nel soffitto marcito; quando le strisce immense della pioggia sembrano le inferriate d’una vasta prigione e muto, ripugnante un popolo di ragni 12 dentro i nostri cervelli dispone le sue reti, furiose a un tratto esplodono campane e un urlo tremendo lanciano verso il cielo che fa pensare al gemere ostinato 16 d’anime senza pace né dimora. online T5 Charles Baudelaire

– Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali a lungo, lentamente nel mio cuore: Speranza piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra, 20 va a piantarmi sul cranio la sua bandiera nera.

Il cigno I fiori del male, Quadri di Parigi, LXXXIX

Analisi del testo Il ritratto dell’angoscia esistenziale In Baudelaire il termine Spleen è sempre sinonimo di angoscia esistenziale, come è particolarmente evidente in questa lirica. Per esprimere questa condizione Baudelaire sceglie di far riferimento alla realtà naturale (dal cielo plumbeo alla terra umida, alla pioggia battente) e alla fisicità del proprio corpo: lo Spleen pianta «sul cranio la sua bandiera nera». Ogni immagine utilizzata per tradurre l’impossibilità di sfuggire allo Spleen è opprimente e claustrofobica: il «cielo basso» pesa come un coperchio, la terra sembra un’«umida segreta», una prigione dove il pipistrello (qui simboleggia la speranza) vola sbattendo le ali sulle pareti e picchiando la testa sul soffitto, la pioggia che scende ricorda le sbarre di un carcere, e per analogia evoca le ragnatele tese nei nostri cervelli da ragni ripugnanti. Le campane, a cui si associa un’idea di pace e serenità, sono connotate in negativo: il loro «urlo tremendo» (un’immagine inusitata per questo suono) esplode, squarciando l’angosciante silenzio. Dopo l’evocazione di un’immagine di morte (i funerali che sfilano lentamente nel cuore del poeta), la poesia si chiude con una rappresentazione di grande forza evocativa. «L’ultima strofa e in particolare l’ultimo verso, supera tutti i precedenti […] per l’efficacia con cui viene rappresentata in stile eccelso un annichilimento totale […] il vincitore si chiama Angoscia, e del poeta non rimane l’anima ma il suo cranio […]. Egli ha perduto ogni dignità, non davanti a Dio, poiché Dio non c’è, ma davanti all’Angoscia» (Auerbach).

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La compresenza degli opposti Caratteristica della poesia di Baudelaire è la sua capacità di accostare termini appartenenti a campi semantici opposti per esprimere la compresenza nell’uomo di opposte tensioni, a cominciare da quella, fondamentale nella sua poesia, tra Spleen e ideale. Il procedimento è ben visibile in questa lirica, dove già nel primo verso il termine cielo (associato normalmente a una idea di immensità, infinito, elevazione) è unito a due aggettivi (basso e greve) che, al contrario, indicano finitezza, decadimento, costrizione; nel v. 2 l’anima geme in una miserevole condizione da reietto. Evidente è poi al v. 4 il contrasto fra giorno e notte («tristezza più nera della notte», nell’originale francese è un ossimoro: jour noir, giorno nero).

La forza dello stile L’angoscia e i tormenti del poeta sembrano poter trovare un riscatto solo nella perfezione e nella compostezza della forma poetica, verificabile dalla seguente analisi. •  La metrica Strutturata in quartine di alessandrini, rimati secondo lo schema ABAB, la composizione risulta compatta e ordinata: le prime quattro strofe costituiscono un unico periodo, formato da tre subordinate temporali, che iniziano tutte con quando, e da una proposizione principale che si dispiega nella IV strofa. Nella V, quasi staccata, prevale la paratassi. •  La sintassi e il ritmo Nelle prime tre strofe la ripetitività della struttura sintattica, insieme al fatto che le subordinate sono tutte e tre anteposte alla proposizione principale (IV strofa), costruisce un climax ascendente e crea un clima di forte attesa. La tensione accumulata lungo le tre prime strofe, pesanti nella struttura e per i contenuti, culmina nella principale della IV strofa («furiose a un tratto esplodono campane»). Nell’ultima quartina, dove è rappresentata la conseguenza di quanto detto nelle strofe precedenti, cade la tensione, ma non c’è una svolta positiva: la lirica si chiude “al rallentatore” con alcuni fotogrammi che testimoniano il cupo trionfo dello Spleen. Come ha messo in evidenza il critico Leo Spitzer (1887-1960), la struttura ritmico-sintattica e il contenuto si articolano in modo tale da creare un ritmo particolare: lento e pesante all’inizio (strofe 1-3), poi improvvisamente forte (strofa 4), infine lentissimo (strofa 5), tanto da ricordare uno schema di sonorità musicale che segue l’alternanza piano-fortissimo-pianissimo. •  Le figure e il lessico Dal punto delle immagini il poeta da un lato utilizza ampiamente metafore e simbologie, dall’altro si serve di un lessico realistico e a volte crudo (l’anima è schiacciata da un coperchio, la speranza è paragonata a un pipistrello imprigionato in una cella umida, gli incubi della mente sono ragni, la vittoria dell’Angoscia è rappresentata dal gesto duro della bandiera nera piantata sul cranio del poeta, che rende l’idea di un dolore fisico oltre che psicologico) con lo scopo di rappresentare con evidenza sensibile un dramma interiore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 5 righe il contenuto della poesia. ANALISI 2. La lirica è composta da una serie di immagini che servono all’autore per concretizzare l’idea dell’angoscia: individuale e analizza quelle che ti paiono più efficaci. 3. Individua nel brano le antitesi presenti e riportale in uno schema che evidenzi il conflitto su cui si incentra il componimento. STILE 4. Quale differenza riscontri sul piano sintattico tra le prime quattro strofe e l’ultima?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. Quale rapporto c'è in questo testo (e in generale nelle liriche di Baudelaire) tra contenuto e forma? Ti sembra vera l’affermazione secondo cui la ricerca della perfezione formale è un modo per contenere l’angoscia? Argomenta con opportuni riferimenti ai testi letti (max 20 righe). SCRITTURA 6. L’angoscia esistenziale, la sensazione di isolamento, l’assenza di desideri e la mancanza di fiducia nel futuro sono l’espressione di un disagio diffuso nel mondo giovanile. Ti è mai capitato di incontrare con coetanei afflitti dallo spleen? Rispondi in un testo di massimo 15 righe.

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Secondo Ottocento Charles Baudelaire e la nascita della poesia moderna

Sintesi con audiolettura

1 Il padre della poesia moderna

La concezione della poesia Charles Baudelaire (1821-1867) ebbe un ruolo centrale nella fondazione della poesia moderna ed esercitò una grande influenza sulla scuola simbolista e su tutta la successiva poesia europea, fino alla metà del Novecento. La sua vita sregolata e al contempo raffinata, in costante polemica con il conformismo borghese, rappresenterà un modello per l’estetismo decadente. Del romanticismo riprese e portò alle estreme conseguenze: – la concezione della poesia come intuizione, con la creazione sia di simboli e “corrispondenze” di grande efficacia rappresentativa, sia di complesse allegorie; – il contrasto tra l’artista e la nascente moderna società di massa, con una consapevole ricerca dello scandalo; – l’elevazione del “brutto” a materia poetabile, con la rappresentazione degli aspetti più oscuri e scabrosi della vita. Baudelaire rifiutò però un eccessivo sentimentalismo e la fiducia nel progresso tipici di una parte degli artisti romantici. La sua poesia è il prodotto di un accanito e quasi ossessivo lavoro formale, sul piano sia del linguaggio sia della metrica.

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Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

I fiori del male Baudelaire fu autore di un unico fondamentale libro di poesie, Les fleurs du mal. Alla sua pubblicazione, nel 1857, artista e editore furono processati per oltraggio alla morale. Egli continuò a lavorare al suo “poema” sino alla fine della vita e nel 1861 ne pubblicò una seconda edizione. Nel 1868 uscì postuma l’ultima definitiva versione. Il titolo è un ossimoro: la bellezza e la fragilità della poesia sono rappresentate dai fiori, ma il contenuto dei versi è legato al male che domina nella società e attrae il poeta. La struttura del libro, ripartito in sei sezioni tematiche, rivela l’intenzione di realizzare un’opera unitaria. Gli argomenti delle sezioni sono: il contrasto tra una tormentata malinconia e gli slanci verso l’ideale (Spleen e ideale), la vita della metropoli (Quadri di Parigi), il tentativo di liberarsi da una condizione opprimente per mezzo dell’alcool (Il vino), l’attrazione nei confronti di donne dissolute e ambienti corrotti (I fiori del male), la ribellione contro la religione (La rivolta), la fine della vita come unica vera possibile liberazione (La morte).

Zona Competenze Scrittura

1. Baudelaire è stato definito l’ultimo dei romantici e padre dei moderni: motiva questo giudizio in un testo di massimo 10 righe.

Esposizione orale

2. In un intervento orale di massimo 5 minuti, spiega perché il titolo Spleen et idéal scelto dall’autore per una sezione dell’opera sintetizza un tema chiave della poesia baudelairiana.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

5 Ritrarre il vero: il Naturalismo e il Verismo

È in Francia, sulla scia del grande modello di Madame Bovary di Flaubert (1857), che si sviluppa negli ultimi decenni del secolo il Naturalismo: un movimento la cui figura di riferimento è Émile Zola, autore del saggio Il romanzo sperimentale (1880) e la cui visione del mondo si fonda sullo scientismo e il materialismo, propri della cultura positivistica dell’epoca dominante. Il Naturalismo cerca di fare del romanzo uno strumento di indagine scientifica della realtà sociale e dei comportamenti umani. Nell’analisi di questi dà grande peso all’influenza dell’ereditarietà. La necessità di una scrupolosa documentazione “obbliga” lo scrittore naturalista a rinunciare, in nome dell’impersonalità, al filtro delle proprie idee ed emozioni. Al Naturalismo francese si ispira il Verismo italiano, che trova in Giovanni Verga il suo più grande interprete e in Luigi Capuana il suo teorico. Caratteristica specifica del Verismo è la dimensione regionalistica, il ridimensionamento della fiducia nella scienza e nel progresso sociale, e, per lo meno in alcune novelle verghiane e nei Malavoglia, una fedeltà radicale al canone dell’impersonalità.

1 Il Naturalismo 2 Il Verismo italiano 3 Oltre il Verismo 145

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1 Il Naturalismo 1 La fondazione del Naturalismo Il termine “Naturalismo” (coniato nel 1858 dal critico Hippolyte Taine) identifica un movimento letterario francese, che esercita poi grande influenza anche su altri Paesi europei. Émile Zola (1840-1902) svolge un ruolo centrale nell’affermarsi di questa corrente letteraria: attorno a sé lo scrittore raccoglie il primo nucleo di naturalisti nella sua villa a Médan, presso Parigi (tra di essi Huysmans e Maupassant). Dalle loro discussioni nasce il volume collettivo di novelle Le serate di Médan (1880), in cui ogni scrittore del gruppo si cimenta nella trattazione di uno stesso tema, cioè la guerra franco-prussiana (di uno di questi racconti, Boule de suif di Maupassant, presentiamo uno stralcio significativo in ➜ T4 OL). Iniziatori del movimento sono i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, con il romanzo Germinie Lacerteux (1865) accompagnato da un’importante prefazione (➜ D1 OL). Modelli e insieme precursori del Naturalismo sono due grandi autori del primo Ottocento: Honoré de Balzac (1799-1850) e Gustave Flaubert (1821-1880 ➜ VOL 2 C18). Centro della produzione e anche della rappresentazione artistica è Parigi (ma Maupassant ambienta molti suoi racconti anche nella provincia francese). Caratterizza i naturalisti (così che si può parlare di un vero e proprio “movimento”) una forte volontà programmatica, che si traduce in scritti teorici, “manifesti” di una nuova forma d’arte e in frequenti autodifese motivate dagli attacchi subìti a causa delle novità introdotte che, in molti casi, scandalizzano il pubblico (➜ D1 OL D2 D3 OL). La scientificità dell’arte Alle spalle del Naturalismo sta un insieme di fattori concomitanti, di tipo storico-sociale e ideologico-culturale. Innanzitutto la poetica naturalista sarebbe inconcepibile senza gli orientamenti più generali della cultura del secondo Ottocento, dominata dalla filosofia positivistica, con il suo marcato carattere anti-idealistico e materialistico, ma anche senza il progresso delle conoscenze scientifiche che connota l’epoca: in ambito fisiologico, psicologico e sociologico (➜ SCENARI, PAG. 62 ss.). Il trionfo della mentalità scientifica, la visione positivistica e la tendenza a ridurre le stesse facoltà spirituali a fisiologia inducono alla convinzione che si possono (e si debbano) estendere alla letteratura i metodi dell’indagine scientifica (formulazione di ipotesi, verifica sperimentale, enunciazione di una legge) facendo del romanzo una sorta di “esperimento” volto a indagare i fenomeni psicologici e sociali e facendo dello scrittore una sorta di scienziato. È quanto sostiene Zola nel celebre saggio Il romanzo sperimentale (1880 ➜ D2 ) che suscitò al tempo molto scalpore. Il canone dell’impersonalità Corollario di questa equiparazione della letteratura alla scienza è il canone dell’impersonalità e la rinuncia alla formula narrativa del narratore onnisciente e soprattutto giudicante: lo scrittore deve rappresentare in modo freddamente oggettivo documenti umani, squarci di vita (tranches de vie), che si impongano da sé, senza frapporvi il filtro del proprio sistema di valori. Per Flaubert, a cui i naturalisti si ispirano, tale scelta era innanzitutto una questione

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di perfezione stilistica (evitare le sbavature derivate da una partecipazione emotiva dell’autore); per i naturalisti diventa un vero e proprio obbligo (per la verità non sempre rispettato) conseguente all’adozione di un’ottica “scientifica”. La visione deterministica dei comportamenti I narratori naturalisti si richiamano nelle loro opere al concetto di “uomo naturale” e alla visione deterministica dei comportamenti umani delineata dal critico Hippolyte Taine (1828-1893), in particolare nell’introduzione alla sua Storia della letteratura inglese (1864). Taine individua tre elementi materiali che condizionano i comportamenti individuali e di cui il romanziere dovrà tenere conto nel costruire i suoi personaggi, se vuol fare un’opera “vera”. Alla libertà assoluta dello spirito rivendicata dal romanticismo si contrappone una visione materialistica e deterministica: l’uomo non è affatto libero, le sue azioni non dipendono da motivazioni spirituali ma soggiaciono a precisi condizionamenti. Questi sono: • la race Il primo e più determinante, che Taine chiama race (razza), è il determinismo biologico legato all’ereditarietà, che rende un individuo costituzionalmente diverso da un altro non solo nel fisico ma anche nell’indole, così come avviene nelle altre specie viventi (cani, cavalli ecc.); • il milieu L’uomo non vive isolato, ma è inserito in un ambiente, geografico e anche climatico (Taine rileva differenze psicologico-comportamentali, dipendenti dal clima, tra i popoli nordici e quelli latini) e in un contesto socio-politico, e questo insieme di fattori è appunto il secondo elemento condizionante (che Taine chiama milieu, cioè ambiente); • il moment Un terzo elemento di differenziazione è il preciso momento storico, l’insieme degli eventi epocali entro cui si iscrive la vita di un individuo (moment). Queste dovranno diventare le coordinate da rispettare nella costruzione del personaggio. Anche solo da questi cenni risulta evidente che questa visione deterministica porta alla fine del personaggio romantico, rappresentante della libertà soggettiva dell’artista e specchio in molti casi dell’io dell’autore.

Gustave Caillebotte, I piallatori di parquet, 1875 (Musée d’Orsay, Parigi).

Nuovi contenuti per una nuova funzione della letteratura Quindici anni prima del saggio di Zola Il romanzo sperimentale, i fratelli de Goncourt pubblicano il romanzo Germinie Lacerteux (1865), preceduto da una prefazione (➜ D1 OL) che costituisce uno dei documenti più significativi della poetica naturalista: il concetto più importante enunciato dai Goncourt è il diritto a una rappresentazione letteraria “seria” o addirittura “tragica” delle classi basse, a cui nella tradizione letteraria era spesso riservato il registro comico. L’emergere nei romanzieri (e soprattutto in Zola) dell’interesse verso le classi popolari, e in particolare verso il proletariato urbano, non è certo casuale: i drammatici problemi del quarto stato si impongono all’attenzione della collettività, si diffondono le idee marxiste, la borghesia si trova a dover fronteggiare la questione sociale e le lotte operaie. Lo scrittore realista si assume allora il diritto-dovere di rappresentare la povertà, la degradazione morale, le piaghe dell’alcolismo (come nel più noto romanzo di Zola, L’Assommoir ➜ T1 ), effetti rovinosi dell’industrializzazione e della sopraffazione sociale. Il Naturalismo 1 147

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Di fronte a questi gravi problemi è soprattutto Zola ad assumere esplicitamente il ruolo dell’intellettuale impegnato e progressista, che si propone fini non solo documentari ma di vera e propria denuncia degli abusi prodotti dalla società industriale, nella convinzione che il romanzo possa offrire un contributo rilevante nell’indicare problemi sociali che spetta poi ai politici risolvere. I contenuti scottanti e spesso scabrosi trattati dai naturalisti non mancarono di suscitare polemiche e scandalo nei lettori, motivo per cui questi autori si trovarono spesso nella necessità di giustificare le loro scelte agli occhi del pubblico e di discolparsi dall’accusa di immoralità come si può vedere dalla prefazione di Zola al romanzo Thérèse Raquin (➜ D3 OL). online D1 Edmond e Jules de Goncourt

Il diritto-dovere di dare spazio nel romanzo alle classi popolari Prefazione a Germinie Lacerteux

Alle origini del movimento naturalista il romanziere Gustave Flaubert

il filosofo Hippolyte Taine

romanzo realista

Positivismo

criterio dell’impersonalità

Naturalismo

metodi scientifici da applicare anche alla letteratura

Edmond e Jules de Goncourt, Emile Zola

2 Il maestro del Naturalismo: Émile Zola Un protagonista della cultura parigina Émile Zola nasce a Parigi nel 1840. Dopo aver vissuto l’infanzia e la giovinezza in gravi ristrettezze economiche, lavora come giornalista presso la casa editrice Hachette, attività che saltuariamente continuerà a praticare negli anni. L’agiatezza economica gli deriva però dall’attività di romanziere, che lo porta in poco tempo alla ribalta della vita culturale parigina. Già con Thérèse Raquin (1867) Zola inaugura uno stile narrativo che ne farà il maestro indiscusso del Naturalismo. I principi chiave della nuova letteratura sono enunciati da Zola nel saggio Il romanzo sperimentale (1880), che ebbe vasta risonanza. Il ciclo dei Rougon-Macquart Per meglio evidenziare i condizionamenti a cui soggiace l’essere umano secondo la visione deterministica di Taine, in particolare quello dell’ereditarietà (che significa anche e soprattutto la presenza di tare ereditarie), Zola nel 1868 progetta una serie di venti romanzi, un “ciclo” a cui lavora per due decenni, I Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero (1871-1893). Il ciclo è incentrato sull’analisi delle conseguenze che le tare ereditarie hanno su un ceppo familiare visto nel succedersi delle generazioni. All’interesse per i meccanismi fisiologici («il lento succedersi degli accidenti nervosi e sanguigni che si rivelano in una stirpe») l’autore affianca sempre quello

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Émile Zola, fotografo.

storico e sociale: «questi individui partono dal popolo, s’irradiano in tutta la società contemporanea, raggiungono tutte le posizioni, in seguito a quell’impulso essenzialmente moderno che spinge le classi inferiori a salire entro la società, e costituiscono così la storia del Secondo Impero come sintesi dei loro drammi individuali». Tra i romanzi più famosi del ciclo ricordiamo: Il ventre di Parigi (1873), sulla vita dei quartieri popolari della capitale; L’Assommoir (L’ammazzatoio, 1877), sulla piaga dell’alcolismo; Nanà (1880), sulla prostituzione e l’ipocrisia della borghesia parigina; Germinal (Germinale, 1885) sulla vita dei minatori (il titolo prende il nome da un mese del calendario rivoluzionario che corrisponde all’inizio della stagione primaverile); La bête humaine (La bestia umana, 1890), sul mondo della ferrovia e la follia omicida; La disfatta (1892), sulla guerra e la caduta del secondo impero. Il risultato del grandioso progetto di Zola è un affresco disincantato della società francese di fine Ottocento, che costerà allo scrittore numerosi attacchi dalla destra francese (per le rivendicazioni sociali contenute in particolare in Germinale), e anche dalla sinistra (per la descrizione impietosa delle classi subalterne nell’Assommoir). Naturalismo ma non solo L’intento di Zola è quello di rappresentare la realtà così come essa è, senza prese di posizione. Tuttavia, è indubbio che in lui prevale una componente pessimista: l’ereditarietà finisce per equivalere alla trasmissione di tare, l’ambiente sociale è inevitabilmente malsano e patogeno. Così il ferroviere Jacques Lantier, protagonista della Bestia umana, soffre di un male che gli induce istinti omicidi; né va meglio al fratello Claude, pittore, protagonista dell’Opera (1886), la cui ansia creativa è determinata dalle stesse tare ereditarie, che lo spingeranno al suicidio. Ma anche Gervaise, la madre, protagonista dell’Assommoir, di per sé onesta, virtuosa e in buona salute, è vittima dell’ambiente in cui vive e delle condizioni sociali, che la portano all’alcolismo e all’abbrutimento; e, per analoghe condizioni, sua figlia Nanà imboccherà la strada della prostituzione e morirà di vaiolo. Inoltre, nonostante la chiarezza di intenti e le ripetute dichiarazioni programmatiche, non sempre l’opera di Zola è coerente con l’impersonalità che avrebbe dovuto essere propria del “romanzo sperimentale” da lui teorizzato (➜ D2 ): accanto alle istanze naturaliste, permangono suggestioni romantiche o emergono spunti già decadenti. La prosa stessa di Zola risente per certi aspetti di un’enfasi retorica ancora memore della maniera romantica (soprattutto di Victor Hugo), per altri della nuova emergente sensibilità decadente. D’altra parte, secondo alcuni critici, è proprio quando l’autore abbandona un’astratta scientificità che diventa capace di offrirci quadri straordinariamente efficaci e penetranti: le sue descrizioni delle miniere, dei mercati, della borsa, dei campi di battaglia, dei teatri, delle corse di cavalli rimangono impresse nel lettore, più che per la loro oggettività, per la grandiosità delle scene e per il significato simbolico che a volte assumono oggetti e situazioni (la locomotiva nella Bestia umana ➜ T3 OL). Un intellettuale impegnato Rilevante è il ruolo di Zola come intellettuale impegnato, in prima linea nella difesa delle correnti artistiche innovative, come l’impressionismo, ma autorevolmente presente anche nell’ambito civile e politico: lo dimostra la netta presa di posizione a favore degli innocentisti – con la lettera

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Sguardo sul cinema L’ufficiale e la spia

aperta J’accuse... ! – nel caso Dreyfus che divise l’opinione pubblica francese (➜ PER APPROFONDIRE, Il caso Dreyfus e il coraggioso articolo di Zola). Una presa di posizione che gli costò la condanna a un anno di prigione, evitato riparando temporaneamente in Inghilterra. Muore misteriosamente a Parigi nel 1902 per le esalazioni di una stufa (si parlò di un attentato).

PER APPROFONDIRE

Alcune opere di Zola su locandine e riviste dell’epoca.

Il caso Dreyfus e il coraggioso articolo di Zola Nel 1894 il capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus (1859-1935), di origine ebraica, era stato accusato di spionaggio a favore della Prussia. Dopo un processo sommario, avvenuto a porte chiuse, l’ufficiale era stato riconosciuto colpevole di tradimento e condannato alla deportazione a vita nella colonia penale della Caienna, nonostante si dichiarasse innocente (come anni dopo si dovette riconoscere). L’opinione pubblica si divise in innocentisti e colpevolisti: se i primi, tra i quali figuravano gli intellettuali progressisti e democratici come Zola, chiedevano la riapertura del processo, nei colpevolisti pesava la violenta campagna antisemita scatenata dagli ambienti militari, dalla finanza e anche dal clero più reazionario, una campagna volta a fare di Dreyfus un traditore della nazione per definizione, proprio perché ebreo. La condanna fu confermata in appello, mentre il vero colpevole veniva scandalosamente scagionato. Il 13 gennaio 1898 il giornale socialista «L’Aurore» pubblica una lettera aperta titolata J’accuse... ! (“Io accuso”) in cui Émile Zola, forte della sua notorietà in Francia, si rivolge al presidente della Repubblica Félix Faure. In essa Zola denuncia con enfasi e passione civile le colpevoli irregolarità del processo contro Alfred Dreyfus che avevano portato alla sua condanna, invocando giustizia per un innocente. La dura presa di posizione dello scrittore che accusa i vertici dell’esercito, facendone espressamente i nomi, scatena la reazione dei militari e degli ambienti conservatori. Lo scrittore viene accusato, come del resto si aspettava, di diffamazione nei confronti delle forze armate, condannato a pagare una multa e le spese del processo, oltre che a un anno di carcere, che riuscì a evitare rifugiandosi in Inghilterra.

Tuttavia, la sua lettera fece riaprire il caso, che però si risolse veramente solo molti anni dopo, nel 1906, quando la corte di cassazione annullò la sentenza e Dreyfus poté essere riammesso nell’esercito. Il suo coraggioso difensore, Émile Zola, era morto ormai da qualche anno. La degradazione di Alfred Dreyfus sulla prima pagina del "Petit Journal", domenica 13 gennaio 1895.

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Analisi passo dopo passo

D2

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Progresso scientifico e romanzo sperimentale Il romanzo sperimentale

É. Zola, Il romanzo sperimentale, trad. di I. Zaffagnini, Pratiche, Parma 1980

Zola pubblica il saggio Il romanzo sperimentale nel 1880 quando sta già lavorando da tempo al monumentale progetto del ciclo dei Rougon-Macquart (nel 1877 aveva pubblicato uno dei romanzi più importanti, L’Assommoir): ci troviamo quindi di fronte non tanto a una enunciazione programmatica di poetica ancora da attuare, quanto alla schematizzazione di princìpi che Zola stava gradualmente applicando nella prassi della sua scrittura. Ne presentiamo un brano che, pur nella sua brevità, documenta le idee dello scrittore sulla necessità di un nuovo tipo, sperimentale, di romanzo, capace di assimilare i metodi della scienza.

Ecco dunque il progresso della scienza. Nel secolo scorso un’applicazione più esatta del metodo sperimentale fa sorgere la chimica e la fisica che si liberano degli elementi irrazionali e soprannaturali. Si scopre, grazie 5 all’analisi, che vi sono leggi immutabili; si diventa padroni dei fenomeni. Poi un nuovo passo è compiuto. Gli organismi viventi, nei quali i vitalisti1 ammettevano una forza misteriosa, sono a loro volta ricondotti entro il meccanicismo che 10 regola tutta la materia. La scienza prova che le condizioni di esistenza di un fenomeno sono le stesse negli organismi viventi e nei corpi bruti2; ed allora la fisiologia assume a poco a poco la certezza della chimica e della fisica. Ma ci si fermerà a questo punto? Certamente no. 15 Quando avremo provato che il corpo dell’uomo è una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà ben passare alle manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Da quel momento entreremo 20 nel dominio che, fino ad ora, apparteneva alla filosofia ed alla letteratura; sarà la conquista decisiva, da parte della scienza, delle ipotesi dei filosofi e degli scrittori. Vi sono la fisica e la chimica sperimentali; vi sarà la fisiologia sperimentale e, più tardi ancora, si avrà il 25 romanzo sperimentale3. Si tratta di una progressione inevitabile ed è facile prevederne fin da ora il termine finale. Tutto è collegato,

1 vitalisti: il vitalismo era una dottrina filosofica diffusa nel XIX secolo, soprattutto in Germania, che vedeva la presenza di una forza vitale immateriale negli organismi viventi. 2 bruti: inanimati. 3 romanzo sperimentale: romanzo che

utilizza il metodo sperimentale. Più avanti Zola ne definisce le caratteristiche: «E ciò costituisce il romanzo sperimentale: possedere il meccanismo dei fenomeni umani, mettere in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali ed intellettuali quali li spiegherà la fisiologia, sotto

Zola esalta le conquiste avvenute durante l’illuminismo: la visione della natura è stata liberata da concezioni irrazionalistiche e dai dogmi religiosi.

Il cammino della scienza ha poi portato a scoprire che anche il funzionamento degli organismi viventi è soggetto a precise leggi meccanicistiche. Ma il procedere delle conoscenze non si arresterà certo, nuove conquiste si profilano. È evidente nelle parole di Zola l’adesione al mito positivistico del progresso. Il metodo scientifico verrà applicato presto anche allo studio delle componenti emotive e intellettuali dell’uomo e necessariamente entrerà in un universo dominato dalle teorie filosofiche e dalle interpretazioni letterarie. Dovrà perciò per forza nascere una nuova forma di romanzo “sperimentale” in cui vengano applicati i metodi della scienza.

le influenze dell’ereditarietà e delle circostanze ambientali, poi mostrare l’uomo mentre vive nell’ambiente sociale che lui stesso ha prodotto, che quotidianamente modifica ed in seno al quale subisce a sua volta una continua trasformazione».

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bisognava partire dal determinismo4 dei corpi inanimati per arrivare al determinismo degli organismi viventi; e 30 poiché scienziati come Claude Bernard5 dimostrano ora che leggi immutabili regolano il corpo umano, si può annunciare, senza timore di ingannarsi, il momento in cui a loro volta saranno formulate le leggi del pensiero e delle passioni. Un identico determinismo deve regolare 35 il ciottolo della strada ed il cervello dell’uomo. Questa opinione è espressa nell’Introduzione. Non ripeterò mai troppo che da Claude Bernard traggo tutte le mie argomentazioni. Dopo aver spiegato che fenomeni del tutto particolari possono essere il risultato 40 dell’unione o dell’associazione sempre più complessa degli elementi organizzati, egli scrive: “Secondo me gli ostacoli che si incontrano nello studio sperimentale dei fenomeni psichici sono dovuti in gran parte a difficoltà di questo genere; perché nonostante la natura 45 sorprendente e la delicatezza delle loro manifestazioni, è impossibile che essi non rientrino come tutti gli altri fenomeni biologici nelle leggi del determinismo scientifico”. È chiaro; più avanti indubbiamente la scienza scoprirà il determinismo delle manifestazioni cerebrali 50 e passionali dell’uomo. Da quel momento la scienza entra dunque nel terreno che appartiene a noi romanzieri che, ora, analizziamo l’uomo nella sua azione individuale e sociale. Con le nostre osservazioni ed i nostri esperimenti portiamo 55 avanti il lavoro del fisiologo, il quale ha portato avanti quello del fisico e del chimico. In qualche modo facciamo della psicologia scientifica per completare la fisiologia scientifica e, per condurre a termine l’evoluzione, non dobbiamo fare altro che uti60 lizzare nei nostri studi sulla natura e sull’uomo lo strumento decisivo del metodo sperimentale. In una parola, dobbiamo operare sui caratteri, sulle passioni, sui fatti umani e sociali come il fisico ed il chimico operano sui corpi inanimati e come il fisiologo opera sugli organismi 65 viventi. Il determinismo regola l’intera natura. L’investigazione scientifica, il procedimento sperimentale combattono ad una ad una le congetture6 degli idealisti e sostituiscono i romanzi di pura immaginazione con i romanzi di osservazione e di esperimento.

4 determinismo: concezione che vede un legame di necessità tra fenomeni e precise cause. 5 Claude Bernard: lo scienziato francese

(1813-1878) che fondò la moderna fisiologia: la sua opera principale, a cui qui e anche in seguito allude Zola, è l’Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865), in

È significativo che Zola veda il nuovo romanzo non come libera creazione dello scrittore ma come saggio di «psicologia scientifica» che continua e completa l’opera del fisiologo. In questa prospettiva è del tutto logico che il romanzo sperimentale combatta ogni forma di idealismo.

cui viene introdotto il metodo sperimentale anche nel campo della fisiologia e si abbandona ormai la visione vitalistica. 6 congetture: teorie.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A che cosa si riferisce Zola, quando parla di psicologia scientifica? STILE 2. Analizza la struttura argomentativa e il lessico del testo evidenziando, attraverso qualche esempio, la volontà di Zola di mimare i caratteri della prosa scientifica.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di massimo tre minuti, spiega cosa intende Zola con «romanzo sperimentale». SCRITTURA 4. Tradizionalmente (e ancora oggi) scienziati e scrittori di romanzi appartengono a due universi non solo differenti ma addirittura contrapposti. Zola invece vede un rapporto di continuità tra fisici, chimici, fisiologi e romanzieri: su quali basi concettuali fonda questa idea? Motiva la tua risposta in un testo di massimo 15 righe.

online D3 Émile Zola

Personaggi «privi di libero arbitrio» Thérèse Raquin

Émile Zola

T1

Nanà, protagonista di un mondo degradato

EDUCAZIONE CIVICA

L’Assommoir E. Zola, L’Assommoir, tr. di F. Bruno, Garzanti, Milano, 1999

Tra le opere più note e discusse di Zola, subito apprezzata in Italia dal critico De Sanctis, L’Assommoir affronta la condizione delle classi umili e in particolare il tema dell’alcolismo. Il titolo (letteralmente “L’ammazzatoio” o “Il mattatoio”, termine gergale per indicare le osterie) allude alla bettola che è luogo d’incontro dei personaggi, tutti destinati a cadere nel vizio del bere. La protagonista è Gervaise, una lavandaia abbandonata dall’amante Lantier, da cui ha avuto due figli. La sua condizione sembra migliorare quando conosce l’operaio Coupeau e lo sposa. Ma questi, a seguito di un infortunio sul lavoro, a poco a poco si dà al bere. Ricompare Lantier, che riprende la relazione con Gervaise, ma trascina alla rovina la donna con sé, facendosi mantenere da lei. Gervaise, povera e a sua volta abbrutita dal bere, muore sola e in miseria, mentre Nanà, la figlia avuta da Coupeau, inizia a prostituirsi. Il brano presentato descrive le condizioni di vita della famiglia Coupeau fino alla fuga di Nanà.

Per tutto il primo mese Nanà si divertì non poco alle spalle del suo vecchio1. Bisognava vederlo, sempre a ronzarle attorno! Un vero furbacchione che le palpava da dietro le sottane, anche in mezzo al marciapiede, fra la folla, come se nulla fosse. E le sue gambe! degli stecchi da carbonaio, dei veri zolfanelli! E sulla zucca nemmeno 5 più l’ombra di un pelo, quattro capelli che gli stavano ritti sul collo, tanto da farle venir sempre la tentazione di domandargli l’indirizzo del parrucchiere che gli faceva la piega. Ah! che vecchiaccio! era davvero uno spasso! Poi, a forza di trovarselo sempre fra i piedi, cominciò a sembrarle meno divertente. Aveva una paura sorda di lui, si sarebbe messa a urlare se si fosse avvicinato. Spes10 so, quando si fermava davanti a un gioielliere, sentiva a un tratto che le sussurrava

1 suo vecchio: il suo amante, un maturo commerciante di bottoni.

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delle cose da dietro. Ed era vero quello che le diceva. Avrebbe voluto avere una croce con un nastrino di velluto al collo, oppure degli orecchini di corallo, ma così piccoli da poter sembrare gocce di sangue. E pur senza desiderare dei gioielli, non voleva restare per sempre una stracciona. Era stufa di rattopparsi con gli avanzi dei 15 laboratori di rue du Caire; soprattutto non ne poteva più del suo berretto, di quello zucchetto su cui i fiori rubacchiati da Titreville facevano lo stesso effetto delle pillacchere2 che pendono come campanelli dal deretano di un povero. Allora, trotterellando nel fango, inzaccherata dalle carrozze e abbagliata dallo splendore delle vetrine, aveva delle voglie che l’afferravano allo stomaco, glielo stringevano come nei morsi 20 della fame; delle voglie di essere ben vestita, di mangiare nei ristoranti, di andare a teatro, d’avere una camera tutta per sé con tanti bei mobili. Si fermava tutta pallida di desiderio; sentiva salire dal selciato di Parigi un calore che le arrivava fino alle cosce, una smania rabbiosa di addentare tutti i piaceri verso cui si vedeva sospinta, nella grande folla che invadeva i marciapiedi. E immancabilmente, era proprio in 25 momenti del genere che il vecchio le mormorava all’orecchio tutte le sue profferte. Ah! come sarebbe corsa a becchettargli sulla mano3, se solo non avesse avuto tanta paura di lui, un’intima ribellione che l’irrigidiva nei suoi rifiuti, offesa e disgustata dall’ignoto dell’uomo, nonostante la sua naturale malizia. Ma quando giunse l’inverno, l’esistenza divenne impossibile in casa Coupeau. 30 Ogni sera Nanà riceveva la sua razione di botte. Quando il padre era stanco di batterla, la madre la prendeva a ceffoni, così, per insegnarle a comportarsi bene. E spesso erano baruffe generali; mentre il primo la picchiava, la seconda la difendeva, e finivano tutti e tre per accapigliarsi sul pavimento, in mezzo alle stoviglie rotte. E per di più, mai che riuscissero a levarsi la fame; crepavano di freddo. Se 35 la piccola si comprava qualcosa di grazioso, un fiocco, dei gemelli, i genitori glielo confiscavano e andavano a venderlo. Non aveva di suo se non quella rendita di scappellotti, prima d’infilarsi nel brandello di lenzuolo in cui tremava sotto la gonnellina nera che si tirava addosso come una coperta. No, non poteva continuare a vivere in quell’inferno; non voleva rimetterci la pelle. Ormai da molto tempo il 40 padre non contava più nulla; quando un padre si ubriaca come il suo s’ubriacava, non è più un padre, è una bestia immonda di cui ci si vorrebbe al più presto sbarazzare. E adesso anche la madre si rendeva indegna della sua stima. Si era messa a bere anche lei. Entrava come per caso, cercando il suo uomo, da papà Colombe4, soprattutto per farsi offrire qualche bicchierino; e vi si piazzava ormai 45 del tutto a suo agio, senza ostentare l’aria di disgusto della prima volta, scolando i bicchieri a garganella, trascinando i gomiti per ore intere, prima d’andarsene con gli occhi fuori della testa. E quando Nanà, passando davanti all’Assommoir, vedeva la madre in fondo alla sala, con il naso nell’acquavite e abbrutita in mezzo a quegli uomini che gridavano, impallidiva di rabbia, perché la gioventù, che ha 50 la testa rivolta a ben altri spassi, disapprova la passione del bere. Quelle sere le si presentava davvero un bel quadro: il padre ubriacone, la madre ubriacona, una stamberga maledetta in cui non c’era mai niente da mangiare, appestata dall’alcool. Insomma, nemmeno una santa sarebbe rimasta lì dentro. Tanto peggio! se

2 pillacchere: schizzi di fango. 3 sarebbe corsa… sulla mano: volentieri avrebbe voluto spillargli dei soldi. 4 papà Colombe: il gestore dell’Assommoir.

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un giorno se la fosse squagliata, i genitori avrebbero potuto recitare il mea culpa e dire che loro stessi l’avevano cacciata di casa. Un sabato, tornando a casa, Nanà trovò il padre e la madre in condizioni vergognose. Coupeau russava sdraiato di traverso sul letto; e Gervaise, rannicchiata su una sedia, dondolava la testa con occhi confusi e irrequieti, spalancati sul vuoto. Si era dimenticata di scaldare la cena, un avanzo di stufato. Una candela, che non veniva 60 mai smoccolata, illuminava la squallida miseria di quel tugurio. «Sei tu, ranocchietto?», biascicò Gervaise. «Bene! ci penserà tuo padre a metterti a posto!». Nanà non rispondeva; guardava tutta pallida la stufa fredda, la tavola senza piatti, quella lugubre stanza in cui i due ubriaconi esalavano l’ignobile orrore del loro 65 sfacelo. Non si levò il cappello; fece il giro della camera; poi a denti stretti riaprì la porta e andò via. «Esci di nuovo?», le domandò la madre senza poter volgere il capo. «Sì, ho dimenticato una cosa. Risalgo subito... Buonasera». E non si fece più vedere. Il giorno dopo i Coupeau, passata la sbornia, si bastona70 rono, rinfacciandosi l’un l’altro la fuga di Nanà. 55

Edgar Degas, L’assenzio, olio su tela, 1875-1876 (Musée d’Orsay, Parigi).

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Analisi del testo Una realtà degradata Nei suoi romanzi Zola descrive la vita di donne e uomini ai gradini più bassi della scala sociale. Quella che rappresenta ai suoi lettori è una realtà degradata, osservata e analizzata nei suoi minimi particolari, anche i più sgradevoli, da un narratore che vuole assumere il ruolo dello scienziato: l’estrema povertà dei personaggi, che vivono in un tugurio, senza cibo sufficiente, battendo i denti dal freddo e dormendo tra lenzuola a brandelli, porta inevitabilmente a una loro degradazione anche morale: nel caso dei genitori, a bere e a sfogarsi in atti di violenza gratuita, nel caso di Nanà, a vendersi pur di scappare da quella vita. Ancora più disgustosa la figura del vecchio furbacchione, che approfitta della situazione della ragazza e dei suoi momenti di debolezza per sussurrarle all’orecchio le sue sconce offerte.

La città Sfondo della vicenda è la città di Parigi, di cui si intravede la folla che sciama per i marciapiedi. Da una parte i negozi (le gioiellerie da cui Nanà è così attratta, simbolo di un mondo a cui vorrebbe accedere ma non può), i ristoranti, i teatri. Dall’altra lo squallore del tugurio in cui vivono i protagonisti della vicenda, simile alle abitazioni dei poveri della capitale. La descrizione della città e delle differenze sociali, spesso stridenti, che in essa soprattutto si evidenziano, nelle opere di Zola non è fine a sé stessa, ma è funzionale al suo intento di denuncia e al suo impegno politico perché venissero migliorate le condizioni di vita delle classi più disagiate.

Tecniche narrative Nell’Assommoir Zola mette da parte il narratore onnisciente del periodo romantico per attuare le tecniche del “metodo sperimentale”. Il narratore esterno naturalista descrive con minuzia ogni particolare che possa restituire oggettivamente un quadro sociale e umano. Non solo osserva i dettagli degli oggetti che si trovano sulla scena, ma riproduce anche le sensazioni fisiche, i rumori e gli odori. Si tratta sempre di osservazioni relative ad aspetti sensoriali e materiali della vita, mentre viene programmaticamente escluso il riferimento a qualsiasi componente di carattere spirituale e persino psicologico. Il narratore non spiega infatti le ragioni per cui Nanà decide di andarsene dalla casa dove vive coi suoi genitori, non analizza i sentimenti della ragazza attraverso un’introspezione psicologica. La scena disgustosa, rivista ancora una volta, dei genitori ubriachi, uno riverso sul letto, l’altra rannicchiata su una sedia, all’interno dello squallore più assoluto, provoca la sua reazione, ma non ci vengono riferiti i pensieri di Nanà, che possiamo solo immaginare. I gesti dei personaggi, il loro comportamento sono sufficienti per l’autore naturalista a farcene comprendere la psicologia. Significativo è anche l’uso che Zola fa di espressioni popolari e gergali, che il traduttore cerca di riprodurre (il «suo vecchio», «sempre a ronzarle attorno», «sarebbe corsa a becchettargli sulla mano», «una stamberga maledetta», «se la fosse squagliata»), ma che naturalmente potrebbero essere meglio apprezzate nella lettura in lingua originale.

Il punto di vista di Nanà Spesso, soprattutto attraverso l’utilizzo del discorso indiretto libero, Zola descrive la realtà dal punto di vista dei suoi personaggi. Ad esempio, nella descrizione del vecchio amante la prospettiva narrativa coincide con quella di Nanà (rr. 1-7), anche nel caso dei paragoni (rr. 4-5). Suoi sono i desideri davanti alle vetrine luccicanti, come suo lo sguardo che si sofferma per l’ultima volta sui genitori ubriachi, l’avanzo della cena, la stufa fredda nella stanza illuminata da una candela che «non veniva mai smoccolata». Se Zola ci descrive la stanchezza della giovane per la miseria, la violenza, lo squallore dell’ambiente in cui vive, il suo scopo però non è suggerire l’identificazione con il personaggio, ma darne una rappresentazione completa e oggettiva.

L’“intrusione” dell’autore Ma nonostante l’intenzione di dare una descrizione oggettiva della realtà, l’autore non riesce a regredire completamente – come farà Verga, al livello dei suoi personaggi – e inevitabilmente, in alcuni punti, se ne avverte la presenza. Ad esempio il commento «la gioventù, che ha la testa rivolta a ben altri spassi, disapprova la passione del bere» non può essere certo attribuito a Nanà, così come l’uso dei termini nell’espressione «esalavano l’ignobile orrore del loro sfacelo» con cui vengono descritti i due genitori alcolizzati.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il testo in non più di 5 righe. COMPRENSIONE 2. Perché Nanà, dopo essere rincasata, decide di uscire nuovamente? Quali sono i sentimenti della ragazza nei confronti dei genitori? TECNICA NARRATIVA 4. Individua i passi caratterizzati dal discorso indiretto libero. STILE 5. Individua similitudini o espressioni metaforiche e cerca di spiegarne la funzione stilistica. ANALISI 6. Spiega come la scelta degli ambienti, descritti attraverso un gran numero di dettagli, assuma in Zola una valenza simbolica.

Interpretazione

EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 7. Una delle tematiche principali del brano è la degradazione delle classi umili nella società dell’epoca: da quali elementi lo si può ricavare? Motiva la tua risposta mettendo in luce le tue opinioni in un breve commento al testo (max 15 righe). ESPOSIZIONE ORALE 8. La dipendenza da alcol, droghe, fumo e dalle nuove tecnologie è considerata un importante fattore di rischio per sé stessi e per la salute pubblica. Fai una ricerca in rete sull’argomento e individua gli organismi statali, le associazioni pubbliche e private che hanno come scopo la prevenzione dalle dipendenze. Presenta poi il risultato della tua indagine alla classe in un intervento orale, corredato da slide esplicative.

online T2 Émile Zola

Un’orgia plebea Germinale, parte III, cap. 2

online T3 Émile Zola

L’immagine simbolica del treno in corsa La Bestia umana

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Interpretazioni critiche Erich Auerbach Realismo e denuncia sociale in Zola

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Verso l'esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivoargomentativo su tematiche di attualità

Édouard Manet, Ritratto di Émile Zola, olio su tela, 1868 (Musée d’Orsay, Parigi).

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3 Il realismo amaro di Maupassant Guy de Maupassant nasce nel 1850 da una ricca e nobile famiglia vicino a Dieppe, in Francia. Amico e discepolo di Gustave Flaubert, egli ha modo di conoscere a casa sua Émile Zola e altri esponenti della letteratura francese. Il volume collettivo, Le serate di Médan (Les soirées de Médan, 1880), frutto di questi incontri, contiene tra le altre la novella di Maupassant Palla di sego (Boule de suif, ➜ T4 OL), considerata da Flaubert «l’opera di un maestro». È l’inizio del successo e di una frenetica produzione letteraria. La salute dello scrittore, segnata da malattie ereditarie, alla fine non regge più i forsennati ritmi di vita e di lavoro: dopo un tentativo di suicidio, Maupassant è ricoverato in una clinica psichiatrica, dove muore nel 1893, a 43 anni. Dal 1880 fino alla morte, Maupassant scrive almeno trecento racconti, che costituiscono uno straordinario ritratto sociale, soprattutto della provincia francese, affidato a scene di vita ritratte con oggettività, e sei romanzi: Una vita (Une vie, 1883), in cui ripercorre e trasfigura i luoghi e i ricordi della sua infanzia, attraverso la vicenda di una donna, Giovanna, moglie di un uomo infedele e arido; Bel-Ami (1885), storia di un arrampicatore sociale, un cinico seduttore; Mont-Oriol (1887); Pierre e Jean (1888), da molti ritenuto il suo capolavoro, storia di due fratelli che, in seguito a un’eredità, scoprono di essere figli di padri diversi; Forte come la morte (Fort comme la mort, 1889), storia del declino artistico e umano di un pittore alla moda; Il nostro cuore (Notre coeur, 1890). La cura formale, il rigore dello stile e l’interesse per i ritratti psicologici dei personaggi avvicinano Maupassant a Flaubert, di cui si considerava allievo. I suoi racconti sono contraddistinti da un amaro realismo, dettato da una visione pessimistica dell’esistenza umana, in cui non vi è traccia né di progresso né della possibilità di un riscatto. online T4 Guy de Maupassant

L’ipocrisia e la grettezza dei ceti dominanti Boule de suif

Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892 (Museo Munch, Oslo).

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2 Il Verismo italiano 1 La divulgazione del modello naturalistico Già all’inizio degli anni Settanta si diffonde anche in Italia la conoscenza della filosofia positivistica e del romanzo naturalista. Il centro di irradiazione delle nuove idee e tendenze non poteva essere che Milano, moderna capitale dell’editoria (➜ SCENARI PAG. 75), la cui struttura socio-politica ed economica non era troppo distante, come invece la maggior parte dell’Italia, dalla realtà urbana industrializzata che aveva prodotto il naturalismo e nella quale i romanzi stessi erano in genere ambientati. È a Milano che opera il critico Felice Cameroni (1844-1913), primo, convinto divulgatore dell’opera di Zola. Una superficiale assimilazione del modello straniero si ritrova già in qualche scapigliato, come nel caso del romanzo di Cletto Arrighi, dal titolo anche troppo scopertamente debitore di Zola, Nanà a Milano (1880). Ma una lettura acuta e critica del modello naturalista si ebbe solo con due scrittori siciliani trapiantati a Milano, Luigi Capuana (1839-1915) e Giovanni Verga (1840-1922) (➜ C7). La teorizzazione del Verismo italiano Fu Capuana a far conoscere L’Assommoir di Zola a un vasto pubblico, attraverso la sua recensione sul neonato «Corriere della Sera». Capuana stesso sarà il teorico delle posizioni del Verismo – questo il nome assunto in Italia dal Naturalismo –, mentre Verga ne sarà l’indiscusso interprete a livello artistico, seguito dal conterraneo De Roberto. La “svolta verista” di Verga con la novella-capolavoro Rosso Malpelo (1878) segue di un solo anno L’Assommoir di Zola e già dimostra la specifica interpretazione delle innovazioni naturaliste che viene data dal Verismo italiano, l’esempio più significativo del quale rimangono I Malavoglia, pubblicati nel 1881(➜ C7). È proprio fondandosi sui Malavoglia che Capuana definisce nei suoi interventi critici la poetica del Verismo italiano, di cui evidenzia e valorizza la tipicità e la portata dei risultati artistici rispetto al Naturalismo. La dimensione regionalistica Il nostro Verismo ebbe carattere marcatamente regionalistico: tale scelta, derivante dalla particolare realtà italiana, differenziata in ambiti regionali profondamente diversi l’uno dall’altro, è un corollario della poetica realista, come scrive Capuana parlando di Verga: «Non gli basta che quei suoi personaggi siano italiani – il contadino italiano è un’astrattezza – egli va più in là, vuole che siano siciliani: molto di più e di più concreto. Credete voi che n’abbia assai? Nemmeno per sogno. Ha bisogno che siano proprio d’una provincia, d’una città, d’un pezzettino di terra largo quanto il palmo della sua mano. Allora soltanto si ferma» (Per l’arte). Il Verismo maggiore fu siciliano, sia per gli autori (Verga, Capuana, De Roberto), sia per la realtà a cui essi fanno riferimento nelle loro opere. La cosa non stupisce perché, all’indomani dell’Unità d’Italia, fu proprio la questione meridionale a imporsi con particolare urgenza. Con risultati artistici meno rilevanti rispetto ai siciliani, vari altri scrittori di diverse zone d’Italia ritrassero il volto sfaccettato del Paese appena unificato dalla politica, ne registrarono i problemi maggiori, le usanze, i tipi umani e anche i diversi linguaggi, in polemica contro la forzata unificazione anche linguistica del Paese Il Verismo italiano 2 159

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(la scelta è in genere quella di inserire in un testo base italiano termini dialettali per dare una sorta di “colore locale”). Si verificò così una vera e propria scoperta, anche sociologica, delle varie Italie: dalla Napoli di Matilde Serao alla Toscana di Renato Fucini e Mario Pratesi, alla Genova di Remigio Zena, alla Milano di Emilio De Marchi. Anche il veneto Antonio Fogazzaro (1842-1911) e la sarda Grazia Deledda muovono da istanze veristico-regionalistiche, ma i loro romanzi maggiori (Piccolo mondo antico, 1895 ➜ T6 OL; Canne al vento, 1913 ➜ T8a ) si iscrivono ormai in un clima letterario diverso. Il pericolo comune, non sempre evitato, a questa osservazione dei diversi ambienti regionali è la possibilità di cadere nel bozzettismo folkloristico (è il caso ad esempio di Renato Fucini), pericolo che invece Verga nei suoi capolavori riesce magistralmente a evitare. L’interesse alle classi subalterne In genere gli scrittori veristi, sia per influsso del modello naturalistico, sia per l’emergere dei gravi problemi sociali all’indomani dell’Unità d’Italia, incentrano il loro interesse sulle classi popolari; ma nel nostro Paese, data la quasi generale arretratezza delle strutture economiche, questo significa far riferimento essenzialmente alle masse contadine e non tanto, come invece in Francia, al proletariato urbano. Per lo meno come programma, non si esclude però l’analisi di altre classi sociali, come nel caso del ciclo, rimasto interrotto, di Verga (De Roberto analizza invece il declino di una famiglia siciliana dell’alta nobiltà). Il pessimismo nei confronti del progresso Rispetto al Naturalismo, nel Verismo italiano è molto meno presente – se non addirittura assente – l’impegno politicocivile dello scrittore e l’obiettivo di una denuncia sociale; manca soprattutto la fiducia che i problemi sociali si possano risolvere anche grazie al contributo della nuova letteratura, manca la fede nel progresso, grande mito del tempo, che Verga rovescia pessimisticamente nel suo ciclo dei Vinti e nella importante prefazione ai Malavoglia (➜ C7 D4 ). Nei romanzi di De Roberto domina addirittura un cupo fatalismo, che nel divenire storico e sociale vede soltanto il crollo delle illusioni. Una visione pessimistica, dunque, quella dei due grandi scrittori siciliani, che ha indubbiamente a che fare con un contesto socio-politico come quello italiano, ancora molto arretrato rispetto alla Francia di Zola. L’impersonalità, tratto distintivo del Verismo maggiore Il nostro Verismo accoglie pienamente le istanze realistiche del Naturalismo e si schiera contro la tradizione retorica propria della letteratura italiana, ma d’altra parte rifiuta la troppo stretta equazione scienza-letteratura, il rapporto deterministico tra fisiologia e comportamenti, l’applicazione troppo meccanica ai personaggi letterari delle leggi dell’ereditarietà. Per Capuana, la vera svolta introdotta dal Naturalismo, e anticipata da Flaubert e Balzac, è il principio dell’impersonalità della narrazione: qualcosa quindi che non riguarda tanto i contenuti, ma piuttosto la “forma”, le modalità della rappresentazione realistica. Per Capuana solo Verga, ben di più di Zola, è riuscito a realizzare una narrazione caratterizzata da una perfetta impersonalità ( D4 OL). Giacomo Favaretto, Mercato di Campo san Polo, 1883 (Collezione privata).

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In effetti nell’opera di Zola l’autore, pur cercando di evitare un coinvolgimento diretto in ciò che narra, è comunque presente, mentre Verga, in novelle come Rosso Malpelo e nei Malavoglia, adotta una prospettiva ben più radicale, che lo porta ad annullare il suo punto di vista, i suoi orizzonti ideologici, per assumere integralmente il punto di vista del mondo popolare narrato. A sua volta, anche De Roberto ricerca l’oggettività della narrazione, ma ricorre più che altro a una intensificazione della presenza dei dialoghi tra i personaggi, così da annullare il più possibile la presenza di una voce narrante che commenta.

Naturalismo e Verismo a confronto

Naturalismo

proletariato cittadino

questione operaia

impegno e denuncia sociale

fiducia nel progresso

Verismo

mondo rurale

questione meridionale

visione pessimisticofatalistica

mentalità politica ed esistenziale conservatrice

Il rapido tramonto del realismo naturalistico Di fatto il gusto realistico tramonta assai rapidamente: se si considera l’ambito della narrativa, più che attraverso il mutamento delle circostanze storiche e dei più generali modelli culturali, la cosa si spiega perché il pubblico non risponde positivamente a una forma di narrazione che turba le coscienze e sbatte in faccia il negativo, il “marcio” della società e preferisce nettamente i drammi interiori e le vicende di personaggi eletti, al di sopra anche socialmente della comune umanità, personaggi e vicende in cui potersi immedesimare. Si fa strada rapidamente anche un atteggiamento di scetticismo verso le possibilità conoscitive della ragione e di rifiuto verso l’arido materialismo della cultura positivistica e delle manifestazioni letterarie che vi si ispirano: una svolta che in Italia può essere ben rappresentata dall’insuccesso dei romanzi verghiani maggiori, alla cui nuda testimonianza il pubblico preferisce i drammi interiori di Fogazzaro e soprattutto i fascinosi personaggi dannunziani.

2 Luigi Capuana Luigi Capuana (1839-1915) è il più importante teorico del movimento verista. La sua amicizia con Verga (sono entrambi catanesi) con cui condivise soggiorni a Firenze e a Milano e di cui incoraggiò e sostenne sempre le scelte, è fondamentale per la nascita della nuova poetica – sviluppatasi anche grazie all’incontro a Milano con Cameroni e Sacchetti (➜ C2). La produzione di Capuana spazia in molti campi: si dedica al giornalismo (collabora con il «Corriere della Sera», e poi, trasferitosi a Roma, dal 1882 dirige «Il Fanfulla della Domenica»), scrive saggi importanti, racconti e romanzi, opere teatrali e persino favole (una produzione quest’ultima, che testimonia il suo interesse per il folklore e gli studi etnografici). L’interesse per casi umani patologici Tema chiave della produzione narrativa di Capuana è l’attenzione verso casi di comportamento disturbato e patologico in uno Il Verismo italiano 2 161

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studio di quella che potremmo definire psicopatologia quotidiana dell’individuo. L’attenzione è puntata quasi esclusivamente su un protagonista, un caso umano, il cui carattere è seguito dalla sua genesi nella sua crescita, vivisezionato e smontato nei minimi particolari secondo le premesse poste da Zola e dalla scuola naturalista. Giacinta, il primo romanzo verista italiano Un esempio di quanto detto è il romanzo Giacinta, pubblicato nel 1879 con una dedica a Zola. Il romanzo suscita un tale scandalo, da costringere lo scrittore a ridimensionare le parti più scabrose (1886); l’ultima edizione è del 1889. Il romanzo ruota attorno alla complessa personalità di Giacinta, che, da bambina, è stata vittima di uno stupro. Per quanto la donna abbia cercato di rimuovere il ricordo della violenza, la sua vita ne rimarrà segnata per sempre: i suoi comportamenti risulteranno contraddittori e autolesionisti proprio perché mossi da oscure pulsioni. A causa di un irrazionale senso di colpa, Giacinta rifiuta infatti le nozze con Andrea, l’uomo che ama, per sposare invece un nobile decaduto; ma la sera stessa delle nozze si concede ad Andrea, ne diventa l’amante e in seguito avrà una figlia da lui. Quando però la bambina muore, capisce che Andrea si sta sempre più allontanando da lei, e si uccide, lucidamente consapevole del proprio destino di autodistruzione. È del 1891 la pubblicazione del romanzo Profumo, in cui Capuana, attraverso l’analisi di una relazione di coppia, esplora il complesso rapporto tra sessualità e psicologia. Il marchese di Roccaverdina Nel 1901 Capuana pubblica il suo romanzo più riuscito, Il marchese di Roccaverdina, sempre di solido impianto realista, ma con aperture verso la psicologia e uno spiccato interesse per l’occulto (uno dei personaggi pratica lo spiritismo) impensabili vent’anni prima. Il protagonista, che racconta la sua storia attraverso un lungo flash back, è ossessionato dal rimorso per aver dato in sposa la sua serva-amante a un suo sottoposto per salvare le apparenze e successivamente averlo ucciso per gelosia, lasciando incolpare un altro contadino. Dopo essersi confessato al parroco del paese che gli nega l’assoluzione, incubi e senso di colpa lo portano alla follia e alla morte. online D4 Luigi Capuana

Verga maestro dell’arte dell’impersonalità

3 Federico De Roberto Federico De Roberto (1861-1927) appartiene alla seconda generazione di scrittori veristi, successiva a quella dei capiscuola Verga (di cui pubblicò l’unico capitolo rimasto della Duchessa di Leyra) e Capuana. Nato a Napoli, studia e vive a Catania, lavorando come consulente editoriale, giornalista e critico letterario. Ha una fitta corrispondenza con Verga e Capuana e, a partire dagli anni Ottanta, aderisce al Verismo con la produzione di novelle in cui adotta il canone dell’impersonalità. Anch’egli attratto dalla vivacità e dal fermento culturale della metropoli milanese, vi si trasferisce nel 1888: qui collabora col «Corriere della Sera», frequenta Verga e l’ambiente scapigliato, scrive romanzi, tre dei quali si iscrivono in un “ciclo” dedicato alle vicende di una nobile

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famiglia siciliana di origine spagnola, gli Uzeda: L’illusione (1891), I Viceré (1894) e L’imperio (che rimane incompiuto e uscirà postumo nel 1928). Tornato a Catania nel 1897, vive appartato, deluso dallo scarso successo delle sue opere, esercitando l’attività di bibliotecario e soprintendente per i monumenti della provincia e dedicando gli ultimi anni agli studi sull’opera di Verga. Si può affermare che De Roberto continui la lezione di Verga, che considerava il suo maestro, accentuandone se possibile la vena pessimistica, dal punto in cui si era interrotta con La duchessa di Leyra. Punta dunque l’attenzione sulla descrizione del mondo della nobiltà siciliana cinica, arrogante e parassitaria.

Una visione disperata della storia: I Viceré

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Video Intervista al regista Roberto Faenza sulla trasposizione cinematografica da lui diretta de I Viceré.

La storia della famiglia Uzeda De Roberto descrive nel suo romanzo più importante, I Viceré (scritto tra il 1891 e il 1893, pubblicato l’anno successivo), le vicende di una importante famiglia nobile con colori cupi e impietosi senza lasciare alcuna speranza sulle sorti della società italiana. La vicenda è ambientata in Sicilia nel periodo che va dai moti risorgimentali alle elezioni per il parlamento italiano del 1882 (le prime a suffragio allargato). Gli Uzeda, principi di Francalanza, che per secoli hanno esercitato la carica di viceré, nonostante gli odi e le rivalità interne affrontano i cambiamenti del processo unitario coalizzati nel difendere i privilegi della famiglia e ne escono infatti più ricchi e potenti di prima. Adottando la pratica diffusa del trasformismo, don Blasco – che la ragione di famiglia ha costretto a una monacazione forzata, e per questo vive nutrendo un odio rancoroso verso tutto e verso tutti – da acceso borbonico qual era, dopo il 1860 festeggia la presa di Roma e ne approfitta per acquistare a poco prezzo i beni della Chiesa. Sfoggiando un’identica attitudine di spudorato opportunismo, don Gaspare, duca d’Oragua, si arricchisce corrompendo le nuove amministrazioni e viene eletto deputato tra le file dei liberali, così come alla fine del romanzo anche l’ultimo degli Uzeda, il principino Consalvo, con spregiudicatezza intraprende la carriera politica candidandosi alle elezioni parlamentari (➜ T5 ). L’unico tentativo di cambiamento, destinato al fallimento, è rappresentato da Giovannino Radalì, cugino di Consalvo Uzeda, che, avendo combattuto nelle file garibaldine, crede veramente nella possibilità di un rinnovamento della classe dirigente del paese. Giovannino sperimenta una duplice sconfitta: alla delusione per

Giuseppe De Nittis, Il pranzo del vescovo, 1863 (Museo di Capodimonte, Napoli).

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un mancato ricambio della classe politica italiana, si unisce il fallimento sul piano sentimentale allorché il giovane vede svanire la possibilità di unirsi all’amata Teresa, sorella di Consalvo, che la famiglia Uzeda gli nega in matrimonio per concederla a suo fratello Michele, di orrido aspetto ma titolare del diritto di primogenitura e dunque erede delle fortune dei Radalì.

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Per approfondire Il romanzo parlamentare

L’immagine di una società immobile e moralmente corrotta A dispetto delle speranze di Giovannino, in conseguenza dell’Unità d’Italia si acuiscono le secolari condizioni di arretratezza e clientelismo del Sud, mentre gli squilibri tra “galantuomini” e contadini invece di affievolirsi sembrano accentuarsi. De Roberto ribadisce la concezione già verghiana (e che sarà ripresa a metà del Novecento nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, 1896-1957 ➜ VOL 3B C9) dell’immobilità della storia e dell’impossibilità dei cambiamenti. All’interno di questo grande affresco negativo di un mondo in sfacelo, lacerato e corrotto, è rappresentata in modo realistico, e a volte anche angoscioso e visionario, la degenerazione patologica e morale dell’antica famiglia i cui membri sono minati da tare ereditarie e in cui si intrecciano vizio e impulsi di follia.

Il Verismo MAGGIORI ESPONENTI

Verga e Capuana

CARATTERISTICHE

• prende le mosse dal Naturalismo • studio del "vero" • temi sociali post-unitari

OPERE MAGGIORI

• Capuana, Giacinta (1879) • Verga, I Malavoglia (1881) • Verga, Mastro-don Gesualdo (1888) • De Roberto, I viceré (1894) • Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901)

Federico De Roberto

T5

La campagna elettorale di Consalvo Uzeda I Viceré III, IX

F. De Roberto, I Viceré, in Romanzi, novelle e saggi, Mondadori, Milano 1984

È l’ultimo capitolo del romanzo. Siamo nel 1882: Consalvo Uzeda, principe di Francalanza, dopo essere stato eletto sindaco di Catania si candida a deputato e sarà eletto al parlamento italiano. Nel successivo romanzo, L’imperio, rimasto incompiuto, sarà chiamato a importanti incarichi di governo. Qui lo vediamo impegnato nella campagna elettorale, che Consalvo conduce senza troppi scrupoli, confermando la sua amoralità di fondo.

La legge della riforma era ancora dinanzi al Senato che già ogni sera riunivasi gente in casa del principe: nobili parenti, impiegati comunali, maestri elementari, avvocati, sensali1, appaltatori: un veglione. Il quartiere di gala era aperto al pubblico; egli non relegava gli elettori nelle stanzette buie dell’amministrazione, come aveva fatto suo 1 sensali: intermediari per la vendita di prodotti agricoli e bestiame.

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zio; spalancava le nobili Sale Gialla e Rossa, il Salone degli specchi, la Galleria dei ritratti. Tutti erano animati dal più vivo entusiasmo; la gente minuta che veniva per la prima volta a palazzo, che sedeva sulle poltrone di raso sotto gli sguardi immobili dei Viceré, si sarebbe fatta tagliare a pezzi per quel candidato che prometteva mari e monti, il bene generale e quello particolare d’ogni singolo votante. Un perito agri10 mensore2 compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glie lo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio3. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com’era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede. Un infi15 nito disprezzo di quel gregge4 lo animava, e un rancore violento contro chi tentava sbarrargli la via. Perché, infatti, come l’agitazione cresceva, gli attacchi della Lima5 divenivano più acri6, e una quantità di fogli, foglietti e bollettini elettorali, sorti per sostenere questa o quella candidatura, o per specular sulla curiosità che induceva la gente a buttar via i soldini in carta sporca, lo aggredivano mattina e sera, glie ne 20 dicevano di cotte e di crude. Dinanzi alle persone ne rideva; dentro s’arrovellava: potendo, avrebbe messo il bavaglio a quei libellisti7, li avrebbe banditi, imprigionati. Ma l’accusa che più lo feriva, che lo faceva veramente sanguinare, era quella che cominciavano a lanciare: “Elettori, il candidato che noi vi presentiamo non ha feudi né blasoni, non oro da corrompere le coscienze; ma voi, cittadini, dimostrerete che 25 la vostra coscienza è un tesoro troppo grande perché un pugno di monete possa comprarla”. Era una menzogna, giacché egli non spendeva altri quattrini se non quelli della stampa, della posta, delle carrozze; ma poteva trovar credito più delle altre, ed egli voleva esser eletto per l’attitudine alla vita pubblica di cui aveva dato prova per la coltura che s’era affannato ad acquistare. Poi, rammentando l’impegno 30 preso con sé stesso di restar calmo, di lasciar dire, scrollava le spalle, dominava gli impeti di sdegno, i moti di corruccio8; diceva: «Mi eleggano pel blasone9 e pei feudi, che m’importa? Purché mi eleggano!». E agli intimi che s’arrabbiavano per lui vedendolo aggredito a quel modo: «Hanno ragione!» rispondeva, sorridendo: «il mio più grande titolo all’elezione è quello di principe!». 35 Ciò che egli esprimeva con la facezia10 era la verità. «Principe di Francalanza»: queste parole erano il passaporto, il talismano che operava il miracolo di aprirgli tutte le vie. Egli sapeva che le dichiarazioni di democrazia non gli potevano nuocere presso gli elettori della sua casta, poiché costoro non lo credevano sincero ed erano sicuri di averlo, al momento buono, dalla loro; dall’altro canto sentiva che le accuse di 40 aristocrazia non lo pregiudicavano molto presso la gran maggioranza di un popolo educato da secoli al rispetto ed all’ammirazione dei signori, quasi orgoglioso del loro fasto e della loro potenza. Per lui, il buon popolo che si lasciava taglieggiare11 dai Viceré era stato pervertito da false dottrine, da sciocche lusinghe: egli era sicuro che prendendo a quattr’occhi uno di quelli che più vociavano «libertà ed eguaglianza» 5

2 perito agrimensore: un tecnico esperto

5 gli attacchi della Lima: «La Lima»,

nella gestione di campi agricoli e terreni. 3 il collegio: elettorale. 4 gregge: questo è il popolo per Consalvo, in quanto non ha coscienza né capacità di iniziativa autonoma.

come scrive De Roberto, era un giornaletto che aveva preso di mira Consalvo «chiamandolo il “nobile principe, il sire di Francalanza”» e accusandolo di una fede democratica insincera per il suo passato di aristocratico borbonico.

6 acri: pungenti. 7 libellisti: autori di scritti diffamatori. 8 corruccio: collera. 9 blasone: stemma che attesta la nobiltà. 10 facezia: motto di spirito. 11 taglieggiare: imporre pagamenti illegittimamente.

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e dicendogli: «Se foste al mio posto, gridereste così?» il fiero repubblicano sarebbe rimasto in un bell’impiccio. La quistione, dicevano alcuni, era che questi posti eminenti, queste situazioni privilegiate non dovevano più esistere: ma allora Consalvo sorrideva di pietà. Quasiché, ammessa pure la possibilità d’abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il do50 mani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l’audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole! Nondimeno piegavasi, concedeva tutto, a parole, allo spirito dei nuovi tempi. I giornaletti arrabbiati lo mordevano tenacemente con l’accusa di muffosità «spagnolesca»12, di orgoglio «organico»13; egli diceva agli 55 elettori che gli davano del «signor principe» a tutto spiano: «Io non mi chiamo signor principe, mi chiamo Consalvo Uzeda...». Metteva adesso una specie di zelo nello spogliarsi di tutto ciò che poteva offendere il sentimento dell’uguaglianza umana, non parlava più dei «miei viaggi» e dei «miei feudi», pareva volersi scusare del suo titolo e delle sue ricchezze, quasi vergognoso del grande stemma infisso sull’arco 60 del portone, della rastrelliera14 del vestibolo, dei ritratti degli avi, come d’altrettante macchie, d’altrettanti attestati d’indegnità. Ma egli faceva questo a tempo e luogo, dinanzi ai radicali sinceri, ai repubblicani puri; la più gran parte del tempo sapeva d’avere intorno persone che chiamandolo «principe», mostrandosi in sua compagnia, credevano di partecipare in qualche modo al suo lustro. 45

12 muffosità «spagnolesca»: modo di comportarsi antiquato e simile a quello in uso sotto la dominazione spagnola.

13 «organico»: connaturato all’apparte-

14 rastrelliera: struttura a ripiani adibita

nenza alla propria classe, quella nobiliare.

all’esposizione di armi o altri oggetti di rappresentanza.

Analisi del testo Il Risorgimento tradito Il successo di Consalvo è dovuto a un’abile opera di demagogia, con cui si finge democratico e addirittura estremista pur di ottenere un largo consenso popolare («prometteva mari e monti», «metteva adesso una specie di zelo nello spogliarsi di tutto ciò che poteva offendere il sentimento dell’uguaglianza umana»). Ma nella realtà l’ambiziosissimo e cinico nobile Uzeda conserva la propria arroganza («potendo, avrebbe messo il bavaglio a quei libellisti»), la persuasione della propria superiorità, il disprezzo per le masse («un infinito disprezzo di quel gregge lo animava», lo stesso disprezzo per la democrazia che anima Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere di D’Annunzio), un’esclusiva motivazione dettata dalla volontà di potere («Purché mi eleggano!»). Tema centrale nel romanzo – che lo differenzia dall’opera di Verga (➜ C7)– è quello politico del tradimento degli ideali risorgimentali, dovuto all’avvento della pratica del trasformismo adottata dalla classe dirigente italiana. Infatti, la vecchia classe borbonica, rappresentata dagli Uzeda, è riuscita abilmente a mantenere la sua posizione di predominio: fingendo in modo spregiudicato un cambiamento, ha ottenuto che nulla cambiasse.

Un’abile campagna elettorale Interessante è vedere l’attenta analisi che fa De Roberto delle modalità con cui il giovane Uzeda architetta la sua campagna elettorale, spendendo quattrini esclusivamente nella stampa, nella posta e nelle carrozze. I suoi discorsi sono demagogici nei confronti del popolo a cui promette «mari e monti»; di fronte ai sinceri democratici fa professione di idee di uguaglianza, ma nello stesso tempo fa intendere a quelli della sua classe che difenderà sempre

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i loro interessi. Egli mette a frutto la sua origine nobile, in quanto la gente si sente onorata di poter mostrare confidenza con un principe ed entrare nei saloni della sua dimora. Si serve infine della stampa per diffondere un opuscolo pieno di elogi smisurati nei suoi confronti, facendo affidamento sulla credulità popolare.

Una concezione fatalista del mondo Così come in Verga, anche in De Roberto è presente una concezione immobile della storia e il senso di fatale tragicità del destino umano. De Roberto reagisce alla corruzione fisica e morale della società adottando lo strumento, il più possibile scientifico, dell’inchiesta conoscitiva; ma il suo esperimento narrativo, pur mantenendo un tono realistico e oggettivo, si risolve infine in un pessimismo radicale e in un sarcastico disincanto. A dominare sono i potenti di sempre che attraversano le trasformazioni apparenti della storia senza esserne intaccati. Le leggi materiali che reggono la storia sono infatti sempre quelle della sopraffazione del più forte nei confronti del più debole, con la conseguente impossibilità di un trionfo della giustizia: «Quasiché, ammessa pure la possibilità d’abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l’audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole!». Non c’è un disegno, nessuna finalità e nessun progresso nella storia, ma una ripetizione di fenomeni sempre uguali dovuta al gioco delle ambizioni e delle rivalità degli uomini di potere. Mentre nelle opere di Verga domina un senso di assoluta rassegnazione, la prosa di De Roberto esprime una rabbia impotente, che si esercita soprattutto nelle forme del sarcasmo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi è Consalvo Uzeda, il protagonista del brano? Perché può essere considerato il personaggio chiave del romanzo? COMPRENSIONE 2. Che cosa significa l’affermazione di Consalvo: «il mio più grande titolo all’elezione è quello di principe»? ANALISI 3. Analizza le modalità della propaganda elettorale del principe di Francalanza e dei suoi avversari, dopo aver rintracciato nel testo i passi nei quali vengono esplicitate.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Attraverso le vicende degli Uzeda, De Roberto intende rappresentare l’esito fallimentare del Risorgimento nel meridione d’Italia, una prospettiva in parte fallita, un’occasione perduta. Confronta questa interpretazione con quella dei memorialisti garibaldini e svolgi un approfondimento storico su questo tema sotto forma di relazione (max 15 righe). SCRITTURA 5. Alla luce di quanto hai letto e studiato dell’opera di Manzoni, commenta e discuti, in circa 20 righe, questa affermazione del critico Vittorio Spinazzola, in relazione alla trascendenza, una prospettiva importante in Manzoni, ma certamente lontana dalla visione di De Roberto: «come Manzoni, De Roberto intende deprimere [svilire] la raffigurazione dei grandi della terra, negandole ogni eticità [spessore morale], collocandola a mezza via tra il drammatico e il grottesco, risalendo addietro nel tempo e nelle generazioni per privare di ogni nota di vera grandezza anche l’effige dei progenitori [l’immagine degli antenati] di coloro che la letteratura d’altre età soleva fare oggetto di alti panegirici e di cortigianesche lodi. Ma proprio queste riconoscibili concordanze [tra presente e passato] pongono maggiormente in risalto il ben diverso spirito con cui De Roberto dipingeva il fosco quadro di un’umanità che nessuna luce di trascendenza poteva riscattare nel suo vano dibattersi contro la cieca forza dell’invincibile destino».

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3 Oltre il Verismo 1 La reazione al documentarismo verista Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, parallelamente all’esperienza verista (o subito dopo), si manifestano, e trovano immediata rispondenza nei gusti del pubblico, una reazione e una volontà di rivincita nei confronti di un presente avvertito come squallido, e al contempo un’insoddisfazione per i temi e i modi rappresentativi del Verismo. Ne nascono esperienze letterarie diverse: dall’inquieto spiritualismo di Fogazzaro (Malombra ➜ T7 , il suo primo romanzo, esce nel 1881, lo stesso anno dei Malavoglia) all’estetismo di D’Annunzio (Il Piacere, pubblicato nel 1889 come il Mastro-don Gesualdo, ma con un successo ben più grande). Se D’Annunzio riproporrà la figura del romanziere come vate e modello da seguire (➜ C11), Fogazzaro, scrittore allora popolarissimo, si fa interprete delle inquietudini di un largo pubblico, dell’attrazione per il mistero, l’occulto, l’irrazionale, del desiderio di recuperare, di contro al materialismo positivistico, la dimensione religioso-morale. Un «sollevamento dell’anima contro l’aridità, contro l’asprezza di un naturalismo male inteso» scrive Matilde Serao, rivolgendosi ad Antonio Fogazzaro, in un suo articolo pubblicato su «Il Mattino» dell’8 luglio 1894 e significativamente intitolato I cavalieri dello spirito. Sia nel caso di D’Annunzio sia di Fogazzaro, protagonisti dei romanzi sono personaggi complessi, dotati di caratteristiche non comuni, proiettandosi nei quali il lettore può fuggire la mediocrità del presente. Non a caso anche il narratore abbandona l’impersonalità, riprendendo un ruolo onnisciente, seppur rivisitato: più che rappresentare, come in Manzoni, una visione superiore, è molto spesso solidale con il punto di vista del protagonista, il quale è un uomo o una donna d’eccezione. Ma se da una parte questi autori propongono una visione elitaria della letteratura e della società, utilizzando spesso un linguaggio sostenuto o altisonante, nello stesso tempo si mostrano attenti al vasto pubblico e alla promozione di vere e proprie campagne pubblicitarie di casi letterari.

2 Antonio Fogazzaro Antonio Fogazzaro (1842-1911), nato a Vicenza, si laurea in legge a Torino. Soggiorni torinesi e milanesi lo mettono in contatto con gli ambienti scapigliati; intreccia rapporti di amicizia, tramite Giacosa, con Luigi Gualdo e Arrigo Boito e subisce l’influenza del filone fantastico presente nei Racconti fantastici di Tarchetti. Accusato di aderire allo spiritismo e a credenze eterodosse al di fuori del cristianesimo (come la metempsicosi), egli stesso afferma di essersi immerso nell’occultismo prima di scrivere Malombra (1881) e di aver subìto il fascino di una filosofia nella quale il misticismo indiano si mescolava con quello cristiano. Tormentato a lungo da una crisi religiosa, alla fine abbraccia il cattolicesimo liberale, che prevede un attivo impegno in campo politico, come professato nel romanzo di idee Daniele Cortis (1885).

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Piccolo mondo antico Nel 1895 Fogazzaro pubblica Piccolo mondo antico, affettuosa rievocazione del mondo della sua infanzia in Valsolda (dove Fogazzaro trascorreva le vacanze estive nell’amata villa di famiglia sul lago), ma anche romanzo di forti intenti morali e religiosi. Il filtro della memoria nella descrizione di un mondo che appartiene al passato (gli eventi si svolgono tra il 1848 e il 1859) consente all’autore uno sguardo distaccato e nel contempo partecipe, un dominio della storia non sempre presente negli altri romanzi, un tono medio con cui celebrare la poesia della casa e della vita domestica che dà coesione a tutto il racconto. Questi aspetti rendono Piccolo mondo antico secondo la maggior parte dei critici, l’opera artisticamente più riuscita di Fogazzaro. Il romanzo è insieme il racconto di un mondo e la storia di una famiglia lombarda tra il 1848 e il 1859. Il nobile Franco Maironi ha sposato l’amata Luisa Rigey in segreto perché osteggiato dalla nonna, la marchesa Maironi, da cui lo dividono modi di vedere la vita, interessi familiari e simpatie politiche (lui è un patriota, lei è filoaustriaca). Ben presto però il rapporto con Luisa si fa conflittuale, mettendo in luce i contrasti di carattere fra i due coniugi e l’estrema diversità del loro modo di concepire l’esistenza. La relazione tra i due giovani precipita davanti alla tragedia della morte di Ombretta, la loro figlioletta, che affoga nel lago. Franco è un intellettuale cattolico liberale, la cui fede semplice e rigorosa sembra renderlo agli occhi della moglie fin troppo passivo (ai limiti dell’inettitudine), ma gli consente di superare anche le più gravi difficoltà, come la morte di Ombretta. Luisa, energica e razionale, indifferente alla religione e animata da un forte senso di giustizia, non riesce a darsi pace per la tragica scomparsa della figlia e cerca disperatamente di comunicare con lei anche attraverso sedute spiritiche. Il conflitto tra i due coniugi diventa insanabile e Franco si allontana dalla moglie trasferendosi a Torino, dove trova un lavoro e si impegna nei preparativi della guerra contro l’Austria. Ma in un incontro avvenuto alla vigilia della partenza di Franco come volontario per la seconda guerra di indipendenza, marito e moglie si riconciliano, Luisa si apre alla religione cattolica e dal loro rapporto nascerà un figlio che sarà protagonista del romanzo successivo dedicato alla famiglia Maironi: Piccolo mondo moderno (1901). online

Sguardo sul cinema

Parola chiave

Mario Soldati interprete di Fogazzaro

Gli ultimi romanzi L’adesione di Fogazzaro al modernismo e il tentativo di conciliare scienza e fede gli creano diversi problemi con la Chiesa: Il Santo (1905) è messo all’Indice dal Sant’Uffizio e Fogazzaro ripiega su posizioni più moderate; Leila (1910) è quasi una ritrattazione ma verrà ugualmente messo all’Indice poco dopo la sua morte nel 1911.

modernismo Corrente di pensiero nata all’interno del cattolicesimo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, col fine di rinnovare la Chiesa. Essa si basava sull’idea di una continua evoluzione del messaggio cristiano nel corso della storia, per adattarsi ai tempi e luoghi diversi, e pertanto cercava di conciliare la filosofia moderna e il progresso scientifico (ad esempio la teoria evoluzionistica di Darwin) con la teologia cristiana e, dal punto di vista politico, le istanze cattoliche con lo stato liberale.

Il termine “modernismo”, coniato dai suoi detrattori intorno al 1904, fu ripreso nella lettera enciclica Pascendi Dominici gregis di papa Pio X del 1907, in cui il pontefice descrive gli errori del modernismo e condanna decisamente questa dottrina definendola «sintesi di tutte le eresie». I principali esponenti del modernismo vennero scomunicati, sospesi o sollevati dagli incarichi di insegnamento; alcuni ritrattarono le loro idee, altri abbandonarono la Chiesa cattolica.

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Un romanzo di atmosfere arcane: Malombra La vicenda Pubblicato nel 1881, Malombra ebbe subito un discreto successo. Protagonista del romanzo è la marchesina Marina Crusnelli di Malombra, donna colta (nella sua biblioteca ci sono Byron, Poe, i Fiori del male…), sensuale ed eccentrica; altri personaggi sono il conte Cesare d’Ormengo, nella cui villa (sulle sponde montuose lombarde del lago di Lugano) si svolgono la maggior parte degli avvenimenti; Corrado Silla, ospite del conte, un piccolo artista mancato, che nella sua inettitudine a vivere si lascia trascinare dagli eventi; la figlia del segretario del conte, Edith Steinegge, una giovane ingenua e molto religiosa. Marina trova per caso una lettera di Cecilia Varrega, moglie del conte Emanuele d’Ormengo, padre di suo zio Cesare che la ospita nella villa, in cui l’antenata affida a una sua futura reincarnazione il compito di vendicarsi del marito che l’aveva segregata nella stessa villa dopo aver scoperto il suo amore per un altro uomo. In un crescendo di esaltazione che la porta alla follia, Marina si convince di essere la reincarnazione dell’antenata e sarà causa della morte dello zio Cesare e di Corrado in cui crede di riconoscere l’antico amante. Un’inquieta figura femminile La marchesina di Malombra domina il romanzo: dalla descrizione di Marina emerge il ritratto di una donna dalla bellezza misteriosa, impenetrabile, e dal temperamento volitivo e sensuale: due caratteristiche che la rendono un personaggio inquietante, lontano dalla banale “normalità”. La stessa follia di Marina costituisce un tratto che le conferisce una sorta di superiorità, consentendole di mettere in atto la propria volontà di dominio, che si accompagna al disprezzo per il mondo e le persone comuni. Non si può fare a meno di pensare ad alcune donne “fatali” che emergeranno nei romanzi di D’Annunzio, ma anche alle figure femminili del primo Verga (Tigre reale, 1875), cui manca però la profondità psicologica del personaggio di Fogazzaro. Due opposte immagini del “femminile” In Malombra emerge l’alternativa tra due personaggi femminili: uno puro e positivo, rappresentato da Edith Steinegge, l’altro – incarnato da Marina – torbido e affascinante, in grado di portare il protagonista maschile alla rovina (Corrado Silla anticipa la figura dell’artista decadente inetto alla vita). Questo dualismo tra le figure femminili si manifesta in diversi romanzi del tempo, come Fosca (1869) e Il Piacere (1889); nel caso di Fogazzaro il tema è strettamente legato a un contrasto profondo, presente nello scrittore stesso, tra spiritualità e moralità cattolica e attrazione della sensualità. Suggestioni pre-decadenti Fogazzaro è indotto dalle sue stesse inquietudini a esplorare gli aspetti più oscuri e misteriosi della psiche e certamente questa propensione avvicina lo scrittore vicentino alla cultura decadente. Ma Fogazzaro è anche maestro, come testimoniano più pagine di Malombra, nella creazione di atmosfere arcane (seppure non del tutto avulse dalla realtà) in rapporto alla rappresentazione della natura. «Quando noi, poeti spiritualisti, ascoltiamo le voci occulte delle cose e sentiamo una vita oscura, germi ed orme di tristezze e di gioie quasi umane nei venti, nelle onde, nelle selve, nelle acque correnti, nelle forme delicate dei fiori, nelle linee espressive delle rupi, nei dorsi delle montagne, pensose, voi ci dite talvolta che online andiamo sognando, ed è vero, ma come tutti i sogni anche il T6 Antonio Fogazzaro Ricerca di conforto in sedute spiritiche nostro ha un’origine di realtà»: così scrive l’autore di Malombra Piccolo mondo antico in un articolo del settembre 1892 (Per la bellezza di un’idea).

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Antonio Fogazzaro

Collabora all’analisi

«Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice»

T7

Malombra, parte I, cap. v È il momento chiave del romanzo: Marina trova la lettera della sua antenata: l’irrazionale irrompe nella realtà, preparato comunque nelle pagine precedenti dalla descrizione del paesaggio notturno dove, di fronte alla contemplazione del lago, la contessina aveva avuto una sensazione di «già visto, già accaduto».

A. Fogazzaro, Malombra, a c. di V. Branca, Rizzoli, Milano 1974

Ne li trasse ad uno ad uno1. Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d’argento, una ciocca di capelli biondi legati con un brandello di seta nera, e un guanto. Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della 5 candela. I capelli erano finissimi; parevano d’un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l’atto d’una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l’aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa sperando trovare uno scritto, 10 ma senza frutto. Riprese a esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d’essi si struggesse di parlare, di gridarle: – Intendi!– Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s’avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta: «io – 2 maggio 1802»

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Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell’anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al Palazzo la infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guanto, quei capelli erano reliquie sue. Ma nascoste da chi? 20 Marina, quasi senza sapere che si facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine. Ne cade un foglio ripiegato, tutto, tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge: 2 maggio 1802 per ricordarmi

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«Ch’io mi ricordi, nel nome di Dio! Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice. Avanti di nascere hai sofferto tanto, tanto (questa parola 30 era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia. «Ricordati! Maria Cecilia Varrega di Camogli, infelice moglie del conte Emanuele d’Ormengo. 1 Ne li trasse... uno: Marina ha casualmente fatto scattare la molla di apertura di uno scomparto segre-

to del mobiletto (più avanti stipo) della sua stanza e ora ne trae fuori alcuni oggetti.

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«Ricordati la sera del 10 gennaio 1797 a Genova in casa Brignole; ricordati il viso bianco, il neo sulla guancia destra della santa zia, suor Pellegrina Concetta. 35 «Ricordati il nome Renato, l’uniforme rosso e azzurro, gli spallini e i ricami d’oro al collo e la rosa bianca al ballo Doria. «Ricordati il carrozzone nero, la neve e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me. «Ricordati la visione avuta in questa camera, due ore dopo mezzanotte, le parole 40 di fuoco sfolgoranti sulla parete, parole d’una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui fra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei riamata da lui: dicevano un’altra cosa buia, incomprensibile, indeci45 frabile; forse il nome che egli porterà allora. «Vorrei scrivere la mia vita intera, non ne ho la forza; bastino quei cenni. «Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch’egli ami Cecilia! «Questo stipo2 era di mia madre; nessuno ne conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d’argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro3. Mi vi 50 sono guardata a lungo, a lungo; lo specchietto ritiene la fisonomia dell’ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello. «Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d’amore, senza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra. 55 «Anche tu, piccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La bacio. Addio! «Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l’ora, non ho orologio. «Le finestre sono aperte. Ecco le mie sensazioni: un’aria tepida, un odor di bosco, 60 un cielo verdognolo, così soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile non le ricordi? «Anima mia, imprimi bene in te stessa questo. Il conte Emanuele d’Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fiore, per un sorriso, per una calunnia! Oh, ma adesso no! Adesso con la 65 volontà, col desiderio immenso, son tutta sua, tutta! «Son cinque anni e quattro mesi che son qui, che essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi porteranno in chiesa, ci verranno anche loro, forse. Saranno vestiti a lutto, mostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua luceat ei4. Allora, allora vorrei rizzami sul cataletto5 e parlare! 70 «Madre mia, padre mio, è vero che siete morti, che non potete difendermi? Ah, d’Ormengo, vili, vili, vili! Almeno non soffrono. «Debbo arrestarmi un momento. I miei pensieri non mi obbediscono, si muovono tutti in una volta, si aggrappano qui in mezzo alla fronte, vi fanno una smania che non ha sollievo.

2 stipo: armadietto. 3 Cagliostro: Alessandro conte di Cagliostro (1743-1795), avventuriero, alchimista e mago, celebre in tutta Europa.

4 lux... ei: richiamo alla preghiera funebre nella liturgia cattolica,

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis («L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua»). 5 cataletto: bara.

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«Addio, sole; a rivederci. «Porta nera, porta nera, non aprirti ancora! «Calma. Alcune regole per quel giorno. «Quando nella seconda vita avrò ritrovato e letto il presente manoscritto, m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio; quindi, paragonati i miei capelli d’adesso a 80 quelli d’allora, provato il guanto e, guardata la immagine nello specchio, spezzerò a quest’ultimo il vetro che dev’essere rinnovato per poter servire un’altra volta; e riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull’uncino per far tornar su il piano orizzontale. «Aver fede cieca nella divina promessa: lasciar fare a Dio. 85 «Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarla, qui.» Cecilia. 75

Marina lesse avidamente e non intese. Rilesse. Al passo: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima 90 mia infelice», si fermò. Prima non le aveva notate. L’occhio suo si fermò su quelle parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero petrificate. Giunta alle parole «m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio», chiuse il manoscritto tenendovi dentro l’indice della mano destra e rimase immobile in piedi, 95 con la testa china sul petto. Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevano più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea; non v’erano scritte né incredulità, né fede, né pietà, né paura, né meraviglia. 100 Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso; chiuse con impeto la ribalta6 dello stipo e si slanciò alla porta. Era Fanny che aveva un passo da corazziere7. «Vattene» disse Marina. «Ah, Signore, che furia, cos’è accaduto?» 105 «Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto» ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò. Marina stette in ascolto de’ suoi passi finché la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo. Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d’avorio intarsiato 110 nell’ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta. Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l’ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l’accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si 115 rassomigliano affatto.

6 la ribalta: il piano di chiusura, costituito da un’asse

7 da corazziere: pesante, militaresco.

su una cerniera orizzontale, così da potersi alzare e abbassare.

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Prese il guanto. Come n’era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo piccolo. Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con 120 i pezzi dello specchietto e premette forte sull’uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili; 125 si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all’orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno 130 a sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d’infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l’anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall’uso del mondo non l’avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva 135 sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama8 di acque stagnanti, si era squarciato e disperso nell’incomprensibile turbamento di spirito che l’aveva assalita tornando al Palazzo. La sua prima impressione nell’afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento. L’avea vinta subito con un atto di volontà, con il proposito 140 di esaminar freddamente, d’intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse: «No, non è vero.» E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse 145 passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietro, fargli rifare, passo passo, la via. Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand’anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto 150 di una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un’ispirazione superiore, far prendere sul serio le visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che l’infelice poteva assai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l’aveva afferrata, ne aveva tratto il suo ristoro, ne aveva vis155 suto: l’idea era diventata, a questo modo, sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò ch’ella chiedeva loro con la più grande online energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezVideo za? No. Che significavano i capelli, il guanto, lo specchio? Perché far paragonare La scena del ritrovamento della la mano, i capelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o lettera si può vedere su di risorgere? YouTube 8 una crittogama: un’alga (nella classificazione vegetale, le crittogame sono le piante prive di organi di riproduzione visibili, come alghe, funghi, licheni).

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Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il fascino nei confronti dell’occulto è un elemento caratteristico di Fogazzaro, che lo accomuna a molti autori tra Otto e Novecento. E il romanzo Malombra è tutto incentrato sul gioco di rimandi alla suggestione della possibilità della reincarnazione, legata alla forza della vendetta. Marina tenta di opporsi ai fantasmi della sua mente con ragionamenti logici, ma finisce per farsi impressionare da coincidenze più immaginarie che reali, e addirittura a rispondere con una pseudo-logica ai propri dubbi iniziali. L’abilità dell’autore sta nel far penetrare il lettore all’interno delle allucinazioni mentali della donna fino esserne a sua volta irretito. 1. Ricostruisci i passaggi attraverso i quali Marina da un tentativo di razionalizzazione giunge a una condizione di allucinazione e di delirio. «Ecco le mie sensazioni: un’aria tepida, un odor di bosco, un cielo verdognolo, così soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile non le ricordi?» (rr. 59-61). Nella lettera destinata alla donna in cui si reincarnerà, Cecilia si appella a percezioni uditive e sensoriali, odori, voci che confida saranno ritrovate come già vissute in una vita precedente. 2. Rintraccia all’interno della lettera gli elementi su cui fa leva Cecilia per convincere la sua discendente di essersi reincarnata in lei. Quali ti sembrano avere più efficacia sull’animo di Marina? I sensi, particolarmente sviluppati nelle creature d’eccezione come Marina, acuiscono la percezione delle manifestazioni della natura e dell’espressione artistica fino a inebriare, a suggestionare chi prova quelle sensazioni, allontanandolo dalla ragione. 3. Evidenzia come la sensualità sia presente nelle descrizioni di luoghi, atmosfere e personaggi. Poni attenzione in particolare alla componente della musica, che per i poeti simbolisti sarà l’unico modo di comunicare l’inesprimibile, su come viene vissuta e definita dai personaggi. L’atmosfera notturna, gli elementi della natura, le cose stesse sembrano evocare il mistero. La fiamma della candela che «aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili» (r. 123) e alla fine si spegne, rappresenta la lotta nell’animo di Marina tra lo scetticismo e la suggestione di ossessioni provenienti, oltre che dalla situazione contingente, dal suo inconscio. 4. Trova altri punti in cui la natura sembra animarsi e voler dare dei segnali, che possono essere interpretati – questa volta dal lettore – come avvertimenti, o indici, di una situazione straordinaria. Se molte tematiche nell’opera di Fogazzaro anticipano elementi del decadentismo, dal punto di vista delle tecniche narrative il romanzo non presenta particolari novità: la voce narrante è astratta e onnisciente e il punto di vista coincide quasi sempre – come in questo caso – con quello della protagonista. La lingua è letteraria, talvolta aulica o comunque della tradizione poetica sia nel lessico (attonita, s’avvide) che nella morfosintassi («Ne li trasse»), pur con tratti di una certa domesticità («caratteri giallognoli»). 5. Evidenzia gli elementi che permettono di affermare che il romanzo è narrato da una voce esterna e onnisciente. 6. All’interno del brano è presente però anche una narrazione in prima persona: quale punto di vista esprime? Attraverso quale mezzo parla? 7. Rintraccia nel testo esempi di lessico marcatamente letterario; spiega che funzione hanno nella definizione di un’atmosfera o di un personaggio.

Interpretare

8. In un testo di massimo 15 righe, ricostruisci un ritratto di Marina e della sua personalità che già in questo brano comincia a essere sdoppiata.

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3 Grazia Deledda Fra gli scrittori attivi da fine Ottocento agli anni Venti del Novecento ricordiamo Grazia Deledda (1871-1936), scrittrice appartata e difficilmente classificabile, che risente della lezione verista. “Documentando” la realtà rurale sarda, senza la prospettiva dell’impersonalità, analizza nel contempo con sensibilità novecentesca le inquietudini dell’animo umano. La Sardegna mitica e rurale di Grazia Deledda Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871 da una famiglia borghese, studia irregolarmente, raggiungendo la sola licenza elementare (cosa normale per molte ragazze della sua epoca). Dal 1888 inizia a collaborare a riviste femminili e nello stesso anno pubblica la sua prima novella, Sangue sardo, che suscita scandalo nella cittadina natale e l’opposizione della famiglia al suo desiderio di coltivare la letteratura. Ma Grazia continua nella sua passione e nel 1890 esce il suo primo romanzo, Stella d’Oriente, mentre del 1893 esce il saggio Tradizioni popolari di Nuoro. Con La via del male, romanzo di ambientazione sarda che riceve gli apprezzamenti di Capuana, la scrittrice comincia a essere conosciuta anche fuori dall’isola. Nel 1900, in seguito al matrimonio con un impiegato statale, si trasferisce a Roma dove collabora a riviste come «Nuova Antologia», «La Sardegna», «Roma letteraria». In questo periodo scrive i suoi romanzi più significativi: Elias Portolu (1903), Cenere (1904), L’edera (1906), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915) e la raccolta di novelle Chiaroscuro (1912). Si tratta di opere che offrono una rappresentazione viva e concreta della realtà rurale della Sardegna, una regione che non aveva mai trovato, fino ad allora, una voce letteraria che sapesse raccontarne le tradizioni, gli arcaici modi di vita e la natura aspra e selvaggia. Grazia Deledda si collega in parte alle prospettive del Verismo, ma non mostra interesse per una narrazione di tipo oggettivo e impersonale né per un’attenta analisi delle dinamiche sociali. La scrittrice si concentra piuttosto sul racconto dell’universo mitico-simbolico della sua regione e sulle passioni oscure e primordiali che agitano l’esistenza degli uomini. Una sensibilità novecentesca Partendo da un regionalismo documentario in cui la Sardegna, come in parte era stata la Sicilia dei Malavoglia, rappresenta un patrimonio di valori che si contrappone alla modernizzazione delle città industriali e borghesi, l’opera della Deledda approda all’espressione di un’interiorità sofferta, ormai decisamente novecentesca.

Grazia Deledda in un’immagine del 1913.

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Il premio Nobel Il vasto successo di pubblico raggiunto dai suoi romanzi le valse una fama internazionale e, nel 1926, Grazia Deledda si vide assegnare il premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione, di natura più ideale e sociale che spiccatamente letteraria: «Per i suoi scritti idealisticamente ispirati, che con chiarezza plastica rappresentano la vita sulla sua isola nativa e con profondità e partecipazione trattano dei problemi umani in generale». Un mondo arcaico da preservare La maggior parte dei romanzi della Deledda è ambientata nella geografia selvaggia dell’isola, un mondo primitivo e mitico, che non viene però analizzato con il metodo scientifico dei veristi, come detto. Anzi, l’autrice vorrebbe poter preservare questa società patriarcale di cui si sente il tramonto, e per questo condanna all’isolamento e alla solitudine i protagonisti dei suoi romanzi. Nella sua opera domina il sentimento della colpa i cui motivi vanno rintracciati nel delitto o in un amore colpevole: nella Via del male si tratta dell’amore del servo per la figlia del padrone, che lo porta a uccidere il ricco fidanzato di lei; in Elias Portolu è la passione del protagonista per la moglie del fratello; in Edera l’uccisione di un vecchio da parte di una giovane trovatella per salvare dai debiti l’uomo che ama ma da cui non è riamata; in Canne al vento il servo innamorato della figlia del padrone l’ha aiutata a fuggire di casa e ne ha poi ucciso involontariamente il padre; in Marianna Sirca al centro è la passione della protagonista per un bandito. L’esito di tutte queste vicende non può che essere drammatico, più per i sensi di colpa dei personaggi e per il desiderio di espiazione (vi è presente anche la lezione della narrativa russa) che per gli sviluppi oggettivi dei fatti. La rinuncia e il dolore vengono però accettati e l’uomo è consapevole della propria fragilità, di essere “come una canna esposta al vento”, secondo l’immagine che suggerisce il titolo del più famoso romanzo della Deledda. Egli si smarrisce nel corso della vita e, anche se a volte riesce ad affrancarsi dal proprio destino, non può mai liberarsi dal rimorso. Ma diversamente da altri narratori che operano a cavallo tra i due secoli, la voce della narratrice non declama mai, non è complice delle inquietudini dell’anima dei suoi personaggi, non ha ricette di salvezza. Canne al vento Diversamente dagli altri romanzi della scrittrice, qui la trasgressione su cui si incentra la vicenda è avvenuta nel passato ed è rivelata al lettore a poco a poco nel corso della narrazione. Efix, servo della nobile ma decaduta famiglia Pintor, più di vent’anni prima dell’inizio del racconto aveva aiutato la più giovane delle sue padrone, di cui era segretamente innamorato, a fuggire dal dispotismo del padre e a rifarsi una vita nel continente; poco tempo dopo don Pintor era stato misteriosamente ucciso. E nell’ultima parte del romanzo il lettore verrà a sapere che responsabile della sua morte era il servo che aveva agito senza intenzioni omicide e per di più per legittima difesa. Nonostante ciò, Efix, tormentato dai rimorsi, trascorre tutta la vita a lavorare senza compenso per le tre figlie di Pintor rimaste sole e, quando una serie di disgrazie si abbattono sulla famiglia, ne attribuisce la colpa al suo antico delitto e decide di abbandonare la casa per andare a vivere da mendicante sui monti del Nuorese. Questo viaggio tra i diseredati, che lo porta in diversi luoghi di pellegrinaggio, ha la funzione di un’espiazione: al suo ritorno, poco prima di morire, potrà vedere la famiglia delle sue padrone risollevarsi grazie al matrimonio della più giovane di esse con un notabile del paese. Oltre il Verismo 3 177

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T8

La Sardegna tra mito e antropologia Protagonista dei passi proposti è la Sardegna arcaica. In T8a Grazia Deledda immerge la descrizione della sua regione in un’atmosfera mitica venata di sfumature decadenti; in T8b OL Michela Murgia rappresenta la comunità sarda e i suoi riti con interesse antropologico.

Grazia Deledda

T8a

Una terra arcaica e favolosa Canne al vento, cap. I

G. Deledda, Canne al vento, in Romanzi e novelle, Mondadori, Milano 1971

È l’inizio del libro. È introdotto Efix e, attraverso i suoi occhi, le sue tre padrone: Ruth, Ester e Noemi. Predomina su tutto la terra sarda, aspra, dura e al contempo animata dalla fantasia popolare di presenze sovrannaturali.

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costrutto un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca 5 Collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le due siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, 10 gli sembrano i confini del mondo. [...] Ma le giornate eran già troppo calde ed Efix pensava anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz’argini e lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare, sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo. 15 Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna? Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette preghiere al Signore ed a Nostra 20 Signora del Rimedio, benedetta ella sia, ecco laggiù nell’estremo azzurro del crepuscolo la chiesetta e il recinto di capanne quieto come un villaggio preistorico abbandonato da secoli. A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna Ester la più vecchia, benedetta ella sia, si ricordava certo di lui peccatore: bastava 25 questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche. Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d’angelo che corre ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei 30 lucenti alla luna come fili d’acqua. Il passo non s’udiva più: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile, ad aspettare. La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprat-

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tutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi 40 ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio. [...] Efix sentiva il rumore che le panas1 facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio. 45 Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas2, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa, mentre i giganti s’affacciavano 50 fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa3, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude. Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: 55 l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi. […] Ma una voce conosciuta lo chiamò: era la voce fresca ma un po’ ansante di un ragazzo che abitava accanto alla casa delle dame Pintor. 60 «Zio Efisé, zio Efisé!» «Che è accaduto, Zuannantò? Stanno bene le mie dame?» «Stanno bene, sì, mi pare. Solo mi mandano per dirvi di tornare domani presto in paese, che hanno bisogno di parlarvi. [...] «Ti han detto s’io devo tornare domani o stanotte?» 65 «Domani, vi dico! Intanto che voi sarete in paese io starò qui a guardare il podere.» Il servo era abituato a obbedire alle sue padrone e non fece altre richieste: tirò una cipolla dal grappolo, un pezzo di pane dalla bisaccia e mentre il ragazzo mangiava ridendo e piangendo per l’odore dell’aspro companatico, ripresero a chiacchierare. I personaggi più importanti del paese attraversavano il loro discorso: prima veniva il Rettore, poi la 70 sorella del Rettore, poi il Milese che aveva sposato una figlia di questa ed era diventato, da venditore ambulante di arance e di anfore, il più ricco mercante del villaggio. Seguiva don Predu, il sindaco, cugino delle padrone di Efix. Anche don Predu era ricco, ma non come il Milese. Poi veniva Kallina l’usuraia, ricca anche lei ma in modo misterioso. 35

1 panas: secondo le leggende popolari sarde sono le donne morte di parto.

2 janas: fate. 3 cananèa: animale leggendario il cui

nome è probabilmente di origine biblica, dalla regione di Canaan.

Analisi del testo Tra realismo e decadentismo All’inizio del romanzo viene presentato Efix, un servo-contadino abituato alla fatica e alla servitù, che contempla il suo lavoro davanti al capanno di un piccolo podere. Quando riceve la visita di un ragazzo da parte delle padrone non può che offrirgli una cipolla e un pezzo di pane.

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Nello stesso tempo l’autrice, mentre rappresenta questo mondo arcaico, riesce a far percepire al lettore il fascino di una natura animata dal mito e percorsa da fremiti che con sensibilità decadente riflettono le inquietudini interiori del personaggio.

La fragilità dell’uomo dominato dal fato Non è un caso che Efix nell’incipit del romanzo sia presentato mentre contempla un argine (rr. 3-4) ovvero un’opera con cui l’uomo tenta di contrastare la forza della natura. Ma «che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?». Nei pensieri del servo (riportati in indiretto libero) troviamo una riflessione fondamentale all’interno del libro e di tutta l’opera della Deledda: per quanto possa, e debba, impegnarsi nella sua vita, l’uomo è in balia di forze a lui superiori. Il fiume può sempre «balzare come un mostro e distruggere ogni cosa» (è la stessa metafora che Machiavelli aveva usato per la Fortuna) e la condizione umana è paragonata implicitamente a quella delle «canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo».

Lo stile Sul piano linguistico la Deledda inserisce termini sardi solo nel caso di nomi propri, nomi di oggetti tipici, proverbi intraducibili in italiano (in questo caso Efusè, Zuannantò, panas, janas). Alcuni costrutti sintattici sono influenzati dalla parlata sarda, soprattutto nei dialoghi o nel discorso indiretto libero, come nello scongiuro: «Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette preghiere al Signore ed a Nostra Signora del Rimedio». La descrizione è ricca di similitudini e di espressioni liriche: la valle «dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormenta».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare

ANALISI 1. Elenca gli aspetti di folklore sardo presenti nel testo. 2. La natura è vista attraverso gli occhi di Efix e assume connotati diversi durante il giorno e quando cala la notte: quali elementi vengono messi in evidenza nei due momenti? 3. Puoi rintracciare già in questo primo capitolo dei motivi di inquietudine sottesi alla narrazione? TESTI A CONFRONTO Leggi il testo di Michela Murgia (➜ T8b OL) e confronta la rappresentazione della Sardegna offerta dalle due autrici.

online T8b Michela Murgia

Le maledizioni dell’accabadora Accabadora

Fissare i concetti Ritrarre il vero: il Naturalismo e il Verismo 1. Che cosa intende Zola con “romanzo sperimentale”? 2. Che cosa si intende con il termine “impersonalità”? 3. Su quali condizionamenti si fondano i comportamenti umani, secondo la visione deterministica di Hippolyte Taine? 4. Quali testi sono considerati “manifesti” del Naturalismo? 5. C ome si modifica l’idea di romanzo (a livello di contenuto, tecniche narrative ecc.) nel Naturalismo? 6. Quali caratteristiche presenta il realismo di Guy de Maupassant? 7. In che cosa si differenzia il Naturalismo francese dal Verismo italiano? 8. Quali sono i principali esponenti del Verismo? Quali sono le loro opere più significative? 9. Quali caratteristiche presenta l’opera di Fogazzaro? 10. Come viene rappresentata la Sardegna nell’opera di Grazia Deledda?

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Secondo Ottocento Duecento e Trecento La letteratura Ritrarre il vero: cortese il Naturalismo nella e il Verismo Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Il Naturalismo

In Francia, sulla scia del grande modello di Madame Bovary di Flaubert (1857), si sviluppa negli ultimi decenni del secolo il Naturalismo: un movimento la cui figura di riferimento è Émile Zola (1840-1902). Attorno allo scrittore si raccolgono i primi autori naturalisti e Parigi diventa il centro della produzione e della rappresentazione artistica. Alle origini del Naturalismo sta un insieme di fattori concomitanti, di tipo storico-sociale e ideologicoculturale: anzitutto la cultura del secondo Ottocento, dominata dalla filosofia positivistica, con il suo marcato carattere anti-idealistico e materialistico, e, in secondo luogo, il progresso delle conoscenze scientifiche. Il trionfo della mentalità scientifica induce alla convinzione che si possano estendere alla letteratura i metodi dell’indagine scientifica: è quanto sostiene Zola nel celebre saggio Il romanzo sperimentale che suscitò all’uscita molto scalpore. A partire da ciò lo scrittore naturalista segue il canone dell’impersonalità: deve rappresentare in modo freddamente oggettivo documenti umani, squarci di vita, che si impongano da sé, senza frapporvi il filtro del proprio sistema di valori. Inoltre, il narratore naturalista si richiama nelle sue opere al concetto di “uomo naturale” e alla visione deterministica dei comportamenti umani delineata dal critico Hippolyte Taine. Il maestro del naturalismo: Émile Zola I principi chiave della nuova letteratura sono enunciati da Zola nel saggio Il romanzo sperimentale (1880), che ebbe vasta risonanza. L’uomo, per lo scrittore naturalista, non è libero nelle sue azioni, è soggiogato da precisi condizionamenti, primo tra questi è l’ereditarietà biologica. È proprio questo il tema centrale del ciclo di romanzi I Rougon-Macquart (1871-1873): Zola analizza le conseguenze storiche e sociali che le tare ereditarie hanno su un ceppo familiare nel succedersi delle generazioni. Il risultato di questo grande progetto è un affresco disincantato della società francese di fine Ottocento. L’intento di Zola è quello di rappresentare la realtà così come essa è, senza prese di posizione. Tuttavia, è indubbio che in lui prevale una componente pessimista: l’ereditarietà biologica finisce per equivalere alla trasmissione di tare, l’ambiente sociale è inevitabilmente malsano e patogeno. Rilevante è il ruolo di Zola come intellettuale impegnato in ambito civile e politico. Coraggiosa è stata la sua presa di posizione in favore di Alfred Dreyfus, il capitano dell’esercito francese ingiustamente accusato di spionaggio, culminata nella lettera aperta J’accuse…! che Zola scrisse al giornale «L’Aurore» nel 1898.

2 Il Verismo italiano

In Italia, il modello francese del Naturalismo non viene superficialmente assimilato, ma subisce una revisione critica grazie a due scrittori siciliani, Luigi Capuana (1839-1915) e Giovanni Verga (1840-1922). Il Verismo è il nome che prenderà il Naturalismo in Italia, e Capuana è il teorico delle posizioni veriste. Il nostro Verismo ha carattere marcatamente regionalistico e il Verismo maggiore è quello siciliano, espresso da scrittori come Verga, Capuana e De Roberto. Rispetto al Naturalismo, nel Verismo italiano manca la fede nel progresso e domina un cupo fatalismo.

Sintesi

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I narratori veristi Luigi Capuana (1839-1915) nelle sue opere concentra l’attenzione soprattutto su casi di comportamenti disturbati e patologici, seguendo anche in questo le premesse poste da Zola. Il suo romanzo più riuscito è Il marchese di Roccaverdina, in cui il realismo non gli impedisce di addentrarsi nella psicologia del protagonista, ossessionato dalle sue colpe fino alla follia. Federico De Roberto (1861-1927), seguendo la strada tracciata da Verga, analizza nei suoi romanzi, tre dei quali dedicati alla famiglia Uzeda, il mondo della nobiltà siciliana. Nei Viceré (1894) mostra come gli Uzeda – uomini cinici, arroganti, abitati a dominare – affrontano i rivolgimenti del Risorgimento e, pur odiandosi tra loro, difendono con successo i privilegi della famiglia.

3 Oltre il Verismo

Alla poetica del Verismo e al materialismo positivista si oppone presto una reazione spiritualista, ben rappresentata da Antonio Fogazzaro (1842-1911), che con il suo gusto per il mistero e la ripresa di una dimensione religioso-morale, ottiene subito ampio successo di pubblico. Malombra (1881) racconta in modi spesso enfatici o sensuali la storia di una giovane nobildonna che si convince di essere la reincarnazione di una sua antenata e di doverla vendicare. Piccolo mondo antico (1895), per molti la sua opera migliore, è una pacata rievocazione del mondo della sua infanzia attraverso la descrizione della vita di una famiglia lombarda tra il 1848 e il 1859, tra istanze risorgimentali e riflessioni sulla fede cristiana. Le opere di Grazia Deledda (1871-1936), ricollegandosi in parte al Verismo, rappresentano in modi concreti il paesaggio, le tradizioni e gli arcaici modi di vita della Sardegna rurale, venendo così incontro all’esigenza dei lettori di fine Ottocento di avere notizia delle regioni meno conosciute della penisola. La scrittrice non persegue però una descrizione oggettiva della sua terra, e in romanzi come Canne al vento (1913) si concentra piuttosto sui miti e i simboli che popolano la sua isola e sui sentimenti profondi che animano i suoi abitanti.

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo di massimo 15 righe delinea il quadro storico-sociale e i modelli culturali che sono all’origine del Naturalismo.

Scrittura creativa

2. Scrivi un breve racconto (circa 20 righe), ispirandoti ai principi espressi nei “manifesti” del Naturalismo.

Esposizione orale

3. In un intervento orale di circa 5 minuti, spiega perché possiamo affermare che l’opera di Fogazzaro rappresenta un superamento del Verismo.

Scrittura

4. In un testo di massimo 15 righe, indica gli elementi dell’opera di Grazia Deledda che possono essere riferiti a una poetica realista e quelli che possono essere ricondotti all’emergere di nuove sensibilità.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

6 Il romanzo realista in Europa

Nella seconda metà dell’Ottocento il romanzo è ormai il genere più moderno e più diffuso in Europa, letto principalmente da un pubblico borghese. In questo periodo gli scrittori si concentrano ormai sulla società contemporanea, di cui evidenziano in modo realistico i cambiamenti e le contraddizioni dovuti al diffondersi del processo di industrializzazione. In Inghilterra, Charles Dickens rappresenta la vita degli emarginati e le conseguenze negative dell’industrializzazione nel suo Paese. Nella sua opera si riflette il punto di vista di un narratore che aderisce simpateticamente alle vicende degli umili e degli oppressi. Anche in Russia, dove una società contadina e patriarcale si deve ormai confrontare con le novità dell’Occidente, gli scrittori sviluppano un’indagine sempre più approfondita della realtà. Si evidenziano due linee: quella del realismo epico di Tolstoj, che rappresenta lo spirito del popolo russo, e quella di Dostoevskij, che scava nei più reconditi meandri della psiche.

sguardo critico 1 Uno sull’Inghilterra dello

sviluppo capitalistico: il romanzo di Charles Dickens

epico 2 Realismo e romanzo di

introspezione psicologica in Russia 183

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Un’immagine dei bassifondi di Londra nel XIX secolo.

Uno sguardo critico sull’Inghilterra dello sviluppo capitalistico: il romanzo di Charles Dickens Il romanzo dell’età vittoriana In Inghilterra, patria del romanzo nel Settecento, il romanzo si propone come campo privilegiato di osservazione critica delle contraddizioni proprie del capitalismo industriale. Lo straordinario sviluppo tecnologico e industriale del tempo, se assicura il grande benessere della classe borghese e ne sostiene le fiducie ottimistiche, produce infatti anche un peggioramento delle condizioni delle masse popolari, inurbate e costrette a durissime condizioni lavorative e di vita. Il romanzo dell’età vittoriana (coincidente con il lungo regno della regina Vittoria, 1837-1901) assume così un più marcato carattere sociale e una prospettiva narrativa realista, anche se diversissima dai metodi naturalisti. L’opera di Charles Dickens (1812-1870) descrive con realismo, e insieme umana partecipazione, soprattutto il mondo degli sfruttati di cui anch’egli aveva fatto parte quand’era ragazzo. I suoi libri hanno un’immedia ta diffusione fra un pubblico non solo di borghesi, ma anche di operai, piccoli artigiani, impiegati, contribuendo a far conoscere le reali condizioni della classe operaia in Inghilterra. Charles Dickens nasce a Portsmouth nel 1812 da una famiglia le cui cattive condizioni economiche porteranno all’incarcerazione del padre per debiti e costringeranno il giovane Charles a lavorare in una fabbrica di lucido per scarpe. Questa esperienza lo segna al punto da diventare tema ricorrente di molti suoi romanzi, incentrati sulle vicende di ragazzi – per lo più orfani – che vivono in povertà, come Oliver Twist (uscito a puntate mensili tra il 1837 e il 1838) e nella prima parte del David Copperfield (1849-1850). Passato al giornalismo come stenografo parlamentare per due testate, dal 1833 comincia a comporre bozzetti narrativi destinati a commentare delle vignette. La svolta avviene nel 1836, quando Dickens con Il Circolo Pickwick scrive un’opera di ampio respiro. Il romanzo esce a dispense mensili a basso costo, raggiungendo un vasto pubblico. È anche questo successo a spingere Dickens ad affrontare scottanti temi sociali, utilizzando il romanzo come forma di denuncia delle conseguenze negative dell’industrializzazione. Scrive romanzi come Dombey e figlio (1847-1848), Casa desolata (18521853) e Tempi difficili (1854 ➜ T1 OL) nei quali formula nel modo forse più esplicito la critica verso la mentalità borghese e la filosofia utilitaristica del capitalismo.

184 Secondo Ottocento 6 Il romanzo realista in Europa

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L’ultimo romanzo di Dickens, Il nostro comune amico (1864-1865), esprime in una satira corrosiva il disincanto dello scrittore nei confronti della classe dirigente, ma anche il suo radicale pessimismo sulla possibilità di emancipazione “dal basso” delle classi oppresse. L’ideale del “capitalismo dal volto umano” Del resto Dickens non aderì mai interamente agli ideali socialisti, e anzi diffidò persino dei movimenti sindacali. La sua preoccupazione per l’umanità oppressa nasce, oltre che dalle esperienze vissute durante l’infanzia, da suggestioni ancora romantiche e da un rifiuto istintivo per la mentalità arida e opportunistica della borghesia. Più che dalla pubblicistica socialista Dickens si mostra influenzato dal filosofo e storico scozzese Thomas Carlyle (1795-1881), critico del materialismo borghese, ma anche della lotta delle classi, a partire da una visione nostalgica di un mondo passato (il medioevo), successivamente stravolto dall’avvento della classe media. Così, l’ideale che ispira l’opera di Dickens è piuttosto quello di un “capitalismo dal volto umano”, di un miglioramento sociale che potrebbe avvenire solo attraverso gesti filantropici, come quello dell’avaro Ebenezer Scrooge, protagonista del celebre racconto Canto di Natale (A Christmas Carol, 1843), capace di riscattarsi da una vita meschina e solitaria e di aprirsi alla solidarietà. Da questa premessa si può comprendere che il realismo dickensiano mira a una rappresentazione simpatetica della realtà sociale e non ha (né vuole avere) le pretese di scientificità proprie della scuola naturalista francese. Spesso accusato dalla critica di facile moralismo e di patetismo, Dickens mostra tuttavia la capacità di mettere a fuoco con efficacia alcune dinamiche socio-culturali della modernità. Tempi difficili Il romanzo Tempi difficili (Hard Times, 1854) descrive la terribile condizione degli operai inglesi in un’immaginaria, ma realistica, città industriale, Coketown. La vicenda è imperniata sulla contrapposizione fra due mondi: da una parte la borghesia industriale (rappresentata da Bounderby, un imprenditore rozzo e volgare, e da Gradgrind, arido uomo d’affari, attento solo ai fatti e alle statistiche, sordo a ogni ideale), dall’altra i lavoratori, nella figura dell’operaio Stephen Blackpool, provato dalla vita (vittima di una moglie alcolizzata, è ingiustamente accusato di furto e concluderà tragicamente la sua vita cadendo in un pozzo), ma onesto, animato da una fierezza e dignità che le offese e le ingiustizie non possono intaccare. Dickens individua alcune conseguenze negative e quasi patologiche derivanti dall’avanzare di una modernità di tipo industriale: la filosofia utilitaristica finisce per sfociare nelle più grette forme di egoismo; le consideraonline T1 Charles Dickens zioni di valore vengono messe da parte per cedere all’idolatria La “città del carbone” del fatto in sé e all’esaltazione di tutto ciò che possiede una Tempi difficili dimensione unicamente materiale.

Realismo dickensiano TEMI AFFRONTATI

analisi della realtà urbana e industriale inglese

• nessuna pretesa di scientificità • aspirazione a un capitalismo dal volto umano

FINALITÀ

Uno sguardo critico sull’Inghilterra dello sviluppo capitalistico: il romanzo di Charles Dickens 1 185

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Realismo epico e romanzo di introspezione psicologica in Russia I precedenti Già nella prima metà del secolo in Russia si erano distinti importanti scrittori che avevano accolto le nuove istanze della letteratura europea, pur sempre però con lo sguardo alla specificità sociale e culturale del mondo di cui facevano parte: sia in Aleksandr Puškin (1799-1837), poeta e narratore di ispirazione romantica, sia in Nikolaj Gogol’ (1809-1852), autore di romanzi storici e di denuncia sociale, spesso con un’impronta comico-grottesca, era infatti presente la polemica contro la burocrazia zarista e il decadimento morale della classe feudale. Con la fine del regno autoritario e tradizionalista dello zar Nicola I, a cui succede il più liberale Alessandro II, che allenta la censura sulla cultura e nel 1861 abolisce la servitù della gleba, si assiste a una straordinaria produzione di romanzi, che porta la letteratura russa a diventare un punto di riferimento per tutta la letteratura mondiale. Letteratura e società nella Russia del secondo Ottocento All’interno di una società contraddittoria, in cui sopravvive un mondo quasi medievale, legato alla terra, a forme di vita patriarcale e all’ossequio alla fede ortodossa, opera una ristretta classe intellettuale colta: impegnata attivamente all’interno della società, si mostra da un lato aperta al fascino culturale del mondo occidentale, dall’altro critica verso le scelte economiche capitalistiche e mercantiliste. I più grandi scrittori russi di questo periodo sono particolarmente attenti alla dimensione etica e civile della letteratura: questa assume il compito di rispecchiare la realtà e di esprimere le aspirazioni di un intero popolo attraverso narrazioni storico-epiche, come nel caso di Guerra e pace, il grande romanzo di Tolstoj, o di rappresentare personaggi e vicende rappresentative delle grandi domande morali insite nell’uomo, come Delitto e castigo di Dostoevskij. Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, i più importanti tra gli autori russi di questo periodo, si rifanno al modello del naturalismo francese, ma si distinguono da esso per un’impostazione originale, legata in modo particolare allo sviluppo di tematiche esistenziali e religiose e all’indagine dei tratti più oscuri e indecifrabili della psiche umana.

Lev Tolstoj Lev Nikolaevič Tolstoj nasce nel 1828 a Jàsnaja Poljàna da una famiglia aristocratica. Rimasto presto orfano, nel 1847 si trasferisce a Mosca; presta servizio militare nel Caucaso dove partecipa alla guerra di Crimea (1854-1855) da cui prendono spunto I racconti di Sebastopoli (1855-1856). Dopo un viaggio in Europa occidentale (che giudica dominata dall’egoismo e dal materialismo), negli anni Sessanta decide di occuparsi della gestione della tenuta di famiglia applicando criteri umanitari e migliorando le condizioni di vita dei contadini. Sposa la contessa Sof’ja Andreevna Bers, da cui avrà quattordici figli.

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I primi grandi romanzi In questi stessi anni scrive Guerra e pace, pubblicato nel 1869, un grandioso romanzo storico che costituisce un vasto affresco della società russa nell’età napoleonica tra il 1805 (battaglia di Austerlitz) e il 1812 (battaglia di Borodino). Tolstoj vi intreccia i destini dei singoli con la Storia: se in tempo di pace gli uomini possono svolgere le proprie vite a seconda delle loro scelte individuali, la guerra, decisa da pochi potenti, coinvolge tutto il popolo in una tragica sorte comune. Per lo scrittore russo la storia non è guidata dalla provvidenza, come per Manzoni, che ritiene che il succedersi degli avvenimenti umani sia dettato da un disegno divino, anche se imperscrutabile. A muovere la storia è invece, secondo l’autore di Guerra e pace, una forza oscura e imprevedibile, alla quale inutilmente cercano di opporsi i “grandi personaggi” che, come Napoleone, hanno creduto di poterla indirizzare. Ma oltre ad essere un romanzo storico, Guerra e pace ha un’ispirazione “epica”, per la volontà di Tolstoj di rappresentare la forza e le aspirazioni del popolo russo, pur nella consapevolezza che gli antichi valori del mondo contadino stanno scomparendo. Nel romanzo successivo, Anna Karenina (1873-1877), viene messo in discussione l’istituto del matrimonio. La protagonista, una delle più celebri eroine della letteratura ottocentesca, a causa del suo adulterio è spinta al suicidio dall’ipocrisia della società che la circonda. Sono due corposi romanzi, particolarmente ricchi di descrizioni realistiche della società del tempo, nei quali però ogni particolare assume anche un significato più generale e deve essere considerato entro quella concezione della storia e del destino dell’uomo che lo scrittore andava progressivamente definendo. Dopo la crisi spirituale All’inizio degli anni Ottanta, dopo una profonda crisi spirituale, Tolstoj approda a un pauperismo evangelico che vede possibile il rinnovamento della società solo grazie alla rigenerazione spirituale di ogni singolo uomo. Tolstoj fa sua un’interpretazione radicale del cristianesimo, che lo induce a sviluppare un’aspra critica alla nobiltà e alle istituzioni e ad appoggiare le istanze dei contadini, mentre le autorità statali ed ecclesiastiche sono viste come istituzionalizzazioni della violenza. Per questi motivi nel 1901 viene scomunicato dalla Chiesa ortodossa, ma nel frattempo la sua fama è cresciuta enormemente e la sua tenuta è diventata meta di pellegrini, uomini comuni o famosi intellettuali come Rilke e Čecov. Tra le sue ultime opere letterarie ricordiamo La morte di Ivan Il’ič (1887-1889), storia di un impiegato di Pietroburgo con un lavoro e una famiglia apparentemente appaganti che, nel momento della morte, si accorge dell’inutilità della sua vita; La sonata a Kreutzer (1889-1890) che mette in luce l’ipocrisia del matrimonio e critica il mito dell’amore come passione; Resurrezione (1889-1899) in cui è rappresentato il percorso del protagonista, appartenente alla nobiltà, verso un cristianesimo radicale che gli permette di riscattare gli errori del passato. Il suo sostegno alla non violenza, la pedagogia antiautoritaria, la condanna dello sfruttamento influenzano il pensiero di Gandhi. Nel 1908 con la pubblicazione di Non posso tacere lo scrittore russo si schiera apertamente contro la pena di morte. Coerentemente con gli ideali di povertà e di rifiuto di ogni privilegio, Tolstoj rinuncia ai diritti d’autore di tutti i suoi libri. Sospettato dalle autorità zariste e trattato con ostilità anche in famiglia (soprattutto dalla moglie che si oppone al suo desiderio di cedere le proprietà ai contadini), Tolstoj si allontana di nascosto da casa con la figlia Alessandra il 28 ottobre 1910 con l’intenzione di vivere anonimamente in solitudine e in povertà, ma il 7 novembre muore di polmonite nella stazione di Astàpovo.

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Per approfondire Tolstoj e Gandhi

Guerra e pace Il romanzo si apre sulla rappresentazione della società aristocratica nella Mosca del 1803, all’interno della quale si muovono i giovani, inquieti, protagonisti del romanzo: il ricco conte Pierre Bezuchov, di ritorno da un soggiorno in Europa, il suo amico, il principe Andrej Bolkonskij e l’affascinante Nataša Rostova. Nel 1805 Andrej si arruola per difendere il paese dall’invasione napoleonica, sognando un atto eroico in battaglia. Ferito una prima volta ad Austerlitz, nel corso della licenza si innamora di Nataša, ma il padre di lei si oppone al matrimonio e la giovane sembra preferirgli il bello e superficiale Anatole Kuraghin. Tornato al fronte, Andrej viene ferito di nuovo, a Borodino, ritrova Nataša, che in realtà gli era stata sempre fedele, e muore tra le sue braccia. Pierre sposa la bella ma infedele Elena Kuraghina, da cui si separa presto; entra nella massoneria, progetta una riforma agricola per emancipare la servitù, si impegna in politica, fino a ideare un attentato a Napoleone; incarcerato, l’incontro con un semplice soldato, il contadino Platon Karataev, gli indicherà un nuovo orizzonte di vita. Alla fine della guerra Pierre sposerà Nataša. Quello di Pierre, nel cui personaggio è possibile vedere una proiezione autobiografica dell’autore, è una sorta di romanzo di formazione, che si innesta nel vasto affresco storico del romanzo.

Analisi passo dopo passo

T2

Lev Tolstoj

Il contadino-soldato Platon Guerra e pace l. IV, prima parte, cap. XIII

L.N. Tolstoj, Guerra e pace, tr. di L. Pacini Savoj e M.B. Luporini, Rizzoli, Milano 2002

Di un romanzo così ampio e complesso come Guerra e pace, dalle moltissime sfaccettature, che esplora tutti gli ambienti sociali, riflette i punti di vista di una miriade di personaggi, qui non si può che scegliere un episodio significativo. Si tratta della descrizione del soldato-contadino Platon Karataev, una delle figure più importanti del romanzo per comprendere gli ideali e il campo delle riflessioni dell’autore, che lo porterà, nella seconda parte della sua vita, a elaborare un suo originale sistema di pensiero (che sarà denominato tolstojsmo). Nel soldato Platon Karataev Tolstoj rappresenta l’immagine della Russia autentica e simboleggia i valori di umanità e di fede nei quali egli stesso crede. Pierre, dopo aver salvato una bambina da un incendio, è stato fatto prigioniero dai francesi entrati a Mosca, ha rischiato la fucilazione e ora si trova rinchiuso in una baracca con altri soldati. Nel corso della notte ha avuto occasione di scambiare poche parole con l’umile soldato Platon Karataev che, con la loro semplicità, lo colpiscono profondamente e lo riconciliano col mondo, stimolando il percorso della sua ricerca spirituale.

Nella baracca in cui Pierre era stato condotto, e in cui rimase per quattro settimane, c’erano, tra prigionieri di guerra, ventitré soldati, tre ufficiali e due funzionari. Tutti costoro, più tardi, riapparivano come avvolti di nebbia 5 alla mente di Pierre; ma Platon Karataev gli si conservò per sempre in fondo all’anima con una forza e una tenerezza singolarissime, come il ricordo e la personificazione di tutto ciò che era russo, buono e rotondo.

In tutto il romanzo il narratore è esterno, ma spesso sono riportati – attraverso le descrizioni, come avviene qui, o i dialoghi – i punti di vista e le riflessioni dei diversi personaggi. In questo caso il personaggio di Platon Karataev è visto con gli occhi di Pierre, che ha appena passato una notte di prigionia a fianco di lui.

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Quando l’indomani, alla luce del giorno, Pierre poté scorgere il suo vicino, quella prima impressione d’un qualcosa di rotondo venne a confermarglisi in pieno: tutta la figura di Platon, col suo cappotto francese stretto alla vita da una funicella, col berretto a visiera e i lapty1, era rotonda. La testa era perfettamente rotonda; la schiena, il petto, le 15 spalle, perfino le braccia, che gli stavano atteggiate come se fosse sempre sul punto d’abbracciar qualche oggetto, erano rotonde; il gradevole sorriso e i grandi, carezzevoli occhi castani, erano rotondi. Platon Karataev doveva aver passata la cinquantina, a giu20 dicare dai racconti che faceva circa le campagne di guerra cui aveva partecipato nei primi anni di servizio militare. Da parte sua, non sapeva e non riusciva in alcun modo a stabilire quanti fossero gli anni che aveva. Ma i denti, d’un bianco fulgido e ben robusti, che gli si scoprivano tutti nei 25 loro due semicerchi quando rideva (cosa che gli accadeva spesso), erano dal primo all’ultimo belli e sani; non c’era nemmeno un filo canuto tra la sua barba, nei suoi capelli; e tutto il suo corpo aveva un aspetto di flessuosità e, soprattutto, di saldezza e di resistenza. 30 La faccia, nonostante le minute, rotonde grinze, aveva una espressione innocente e giovanile; la voce era piacevole e melodiosa. Ma la singolarità principale del suo modo di discorerre consisteva nella immediatezza e nella efficacia. Era evidente che non pensava mai a ciò che aveva detto o 35 a ciò che stava per dire: e da questo veniva che, nella rapidità e giustezza delle sue intonazioni, c’era una speciale, irresistibile persuasività. La sua forza fisica e la sua agilità erano tali, nei primi tempi della prigionia, da sembrar che non concepisse nep40 pure che cosa fosse stanchezza o malessere. Tutti i giorni, mattina e sera, diceva le preghiere; coricandosi diceva: «Come una pietra, Dio, fammi dormire, come un pan fresco fammi risentire»; levandosi al mattino, ogni volta con una stessa, identica stretta di spalle, diceva: «Mi sono steso 45 giù, e ho fatto la ciambella; mi son tirato su, e una brava scosserella!». E realmente, bastava che si stendesse giù, perché subito s’addormentasse come una pietra, e bastava che si desse una scrollatina, perché subito, senza un attimo d’indugio, si mettesse a questa o a quella faccenda, 10

Nella descrizione di Platon l’autore associa alla sanità del corpo (specificata realisticamente nei denti bianchi e robusti, nei capelli non ancora canuti, nella flessuosità e nella forza delle membra) l’insistenza sul suo aspetto “rotondo”. Non si tratta naturalmente di una rotondità legata alla pinguedine – anzi egli è massiccio e atletico – ma la figura, la testa, le braccia, gli occhi del soldato-contadino sono rotondi più che altro perché la figura del cerchio ben rappresenta il suo atteggiamento nei confronti della vita. Non per niente il termine rotondo è associato a quello di russo e di buono, e l’insieme di questi termini suggerisce l’idea di una vita semplice, accogliente e regolata dai ritmi della natura come è quella del mondo contadino.

La forza della religiosità di Platon consiste nell’assoluta naturalezza: le sue preghiere accompagnano eventi quotidiani come il sonno e il risveglio. Nulla di intellettuale dunque, ma una religione che è l’espressione stessa della naturalità della vita: è questa visione dell’esistenza che permette a Platon di dormire «come una pietra», lavorare allo stesso modo in cui i bambini giocano, cantare «come cantano gli uccelli».

1 lapty: calzature tradizionali russe.

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allo stesso modo che i bambini allungano la mano ai giocattoli. Qualunque cosa sapeva fare, non alla perfezione, ma neanche malamente. Cucinava, cuciva, maneggiava la pialla, lavorava di lesina. Era perpetuamente indaffarato, e soltanto a notte si concedeva il lusso di far conversazione 55 (come gli piaceva) e di cantar canzoni. Non le cantava, lui, le canzoni come le cantano i cantanti di mestiere, che sanno d’essere ascoltati; le cantava come cantano gli uccelli, per il semplice fatto – evidentemente – che emettere quelle note gli riusciva altrettanto indispensabile, quanto stirare le 60 braccia o camminare su e giù: e quelle note erano sempre sottili, delicate, quasi femminee, intrise di malinconia, e la faccia, cantando, gli prendeva una gran serietà. Caduto prigioniero, lasciata crescere la barba, s’era evidentemente scrollato di dosso quanto d’estraneo, di soldatesco 65 gli s’era appiccicato cogli anni, ed era istintivamente tornato all’antica, contadinesca, popolare foggia di vita. «Soldato in congedo – camicia fuor dai calzoni» era solito dire. Di malavoglia parlava del periodo passato sotto le armi, sebbene non facesse lamentele e spesso ripetesse 70 che – in tutto il suo servizio militare – non una volta era stato punito con le verghe. Quando si metteva a raccontare, attingeva di preferenza il racconto dai suoi antichi e, s’intendeva, cari ricordi di «cristiano», come egli chiamava il contadino. I proverbi, di cui il suo discorso era pieno, non 75 erano di quei proverbi spavaldi, e per lo più sconvenienti, che dicono i soldati; ma erano di quegli adagi popolari, che paiono tanto insignificanti se sono presi isolatamente, e che assumono d’un tratto un significato di profonda saggezza quando vengono pronunciati a proposito. 80 Spesso gli accadeva di dire una cosa del tutto contraria a ciò che aveva detto poco prima; ma tanto una cosa che l’altra erano giuste. Parlare gli piaceva, e parlava bene, abbellendo il discorso d’intercalari carezzevoli e di proverbi, che Pierre avrebbe detti inventati da lui stesso; ma 85 l’incanto principale dei suoi racconti stava nel fatto che gli avvenimenti più semplici, a volte quegli stessi avvenimenti a cui, senza rilevarli, Pierre aveva assistito, venivano a ricevere, dal modo in cui lui li diceva, un carattere di aggraziata e armoniosa solennità. Gli piaceva, egualmente, 90 ascoltare le favole, che un altro soldato, a sera, raccontava (sempre le stesse); ma più d’ogni altra cosa gli piaceva ascoltare racconti della vita reale. Aveva un sorriso pieno di gioia nell’ascoltare tali racconti, che accompagnava con parole di commento e con domande tendenti a chiarire il 95 lato aggraziato, armonioso e nobile di quanto gli stavano raccontando. 50

Alla vita dei contadini si contrappone quella dei soldati, percepita come inautentica ed “estranea”. Nonostante gli anni passati sotto le armi, a Platon non è rimasto appiccicato nulla di quel mondo: egli si esprime non attraverso i proverbi dei soldati, ma con l’espressività di un detto popolare che mette in evidenza come, una volta finita la guerra, l’uomo non può che “tirar fuori la camicia dai calzoni” e ritornare alla vita spontanea e naturale della campagna.

Il linguaggio e il modo di esprimersi di Platon sono connotati da naturalezza e autenticità: il suo parlare è efficace perché è spontaneo, egli non ha timore di contraddirsi e può dire due cose diametralmente opposte l’una di seguito all’altra perché entrambe sono vere. Soprattutto grazie alla sua autenticità di vita riesce a dare senso alle cose più semplici: il canto, i proverbi, i racconti.

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Attaccamenti particolari ad altre persone, amicizia, amore, nel senso che a queste cose era dato da Pierre, Karataev non ne aveva affatto; ma un sentimento d’amore lo legava, 100 e lo faceva amorevolmente vivere, con tutto ciò con cui la vita lo poneva a contatto, e specialmente con l’uomo: non già con l’uomo così in generale, ma con quei determinati individui, che via via si trovavano dinanzi ai suoi occhi. Era amore quel che sentiva per la sua cagnetta, amore quel 105 che sentiva per i compagni, o per i francesi, amore quel che sentiva per Pierre, vicino suo di baracca; ma Pierre aveva l’impressione che Karataev, nonostante tutta quella carezzevolezza e tenerezza con cui gli si rivolgeva (e con cui istintivamente rendeva il debito omaggio alla vita spi110 rituale di Pierre), non avrebbe sofferto neppure un istante se fosse stato separato da lui. E lo stesso sentimento incominciava a provare anche Pierre in rapporto a Karataev. Platon Karataev non era, per tutti gli altri prigionieri, nulla più che un comunissimo soldato: lo chiamavano Falchetto 115 o Platoša, bonariamente lo prendevano in giro, lo mandavano di qua e di là a far commissioni. Ma per Pierre, quale gli era apparso quella prima notte, indefinibile, rotonda, eterna personificazione dello spirito di semplicità e di verità, tale rimaneva e rimase per sempre. 120 Platon Karataev non sapeva nulla a memoria, eccettuate quelle certe preghiere. Quando, raccontando, pronunciava le sue frasi, si sarebbe detto che, iniziandole, non sapesse come le avrebbe terminate. Quando Pierre, che a volte restava colpito dal concetto 125 d’una sua frase, lo pregava di ripetere quel che aveva detto, Platon non riusciva a rammentarsi che cosa avesse detto un momento prima, allo stesso modo in cui non riusciva assolutamente a ridire a Pierre, in parole, la canzone sua preferita. C’erano, là dentro, un «cara del mio cuore, betul130 lina», e un «che malinconia mi sento»; ma, così in parole, non ne veniva fuori nessun senso. Non capiva, egli, e non poteva concepire, il significato di parole a sé stanti, staccate dal suo discorso. 135 Ogni sua parola, come ogni azione, erano espressione d’un’attività a lui ignota, che costituiva la sua vita. Ma la vita sua, come da lui era considerata, non aveva senso in quanto vita a sé stante. Essa aveva senso soltanto come particella d’un tutto, che gli si dava a sentire di continuo. 140 Parole e azioni sgorgavano da lui con la stessa regolarità, necessità e immediatezza, con cui il profumo si spande da un fiore. Impossibile, per lui, capire il valore o il significato d’una singola – a sé stante – parola o azione.

In Platon il senso della naturalità dell’esistenza unito alla religiosità spontanea (per lui cristiano e contadino sono la stessa cosa) si traducono in un sentimento di amore universale: un amore che coinvolge non solo gli uomini (siano pure nemici come insegna il Vangelo), ma anche gli animali e le cose, senza che tutto questo diventi attaccamento e desiderio di possesso. E lo stesso sentimento comincia a nascere anche in Pierre nei confronti di Platon.

Platon Karataev è descritto al lettore attraverso il punto di vista di Pierre, il personaggio più vicino alla sensibilità di Tolstoj: intuiamo così che è lo stesso autore (e non soltanto Pierre) a individuare il suo ideale di uomo nella figura del contadino russo, in un mondo arcaico e semplice, sano e spontaneamente religioso. Nella parte conclusiva della descrizione di Platon l’autore si sofferma nuovamente sull’aspetto del linguaggio: per il contadino-soldato le parole, come le azioni, hanno valore non in sè stesse, ma solo all’interno di un discorso. E questo può verificarsi solo in una dimensione di autenticità, in un mondo “vero” nel quale tutto assume significato dalla relazione con l’altro, in cui la vita «aveva senso soltanto come particella d’un tutto». In Platon si realizza una perfetta corrispondenza tra parole e azioni, entrambe regolate da un ritmo naturale e necessario come quello che pervade gli elementi della natura (come i fiori).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa in particolare ti sembra desti l’ammirazione (e forse l’invidia) di Pierre nei confronti del soldato Platon? ANALISI 2. Rintraccia nel testo i riferimenti alla vita contadina ed evidenzia l’implicita contrapposizione con il mondo militare o borghese.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 3. Platon Karataev è descritto dal punto di vista di Pierre/Tolstoj: prova a rifarne il ritratto, immaginando di vederlo con gli occhi di uno degli altri prigionieri che «bonariamente lo prendevano in giro».

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Per approfondire La tecnica dello straniamento: Cholstomer

Fëdor Dostoevskij Fëdor Michajlovič Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821. Il padre è un medico militare, discendente da una famiglia nobile decaduta e dal carattere dispotico e collerico, la madre è una donna profondamente religiosa, che muore prematuramente nel 1837. Il giovane Fëdor viene iscritto dal padre alla scuola di ingegneria militare di Pietroburgo, che conclude nel 1843 ricevendo i gradi di ufficiale. A venticinque anni, la sua prima pubblicazione: Povera gente (1846), accolta con favore dalla critica. Dello stesso anno, il romanzo breve Il sosia, imperniato sui temi del doppio e della follia. Graziato da una condanna a morte Nello stesso periodo aderisce a un circolo politico-letterario orientato verso il socialismo utopistico. Quando il gruppo viene dichiarato fuori legge dal governo zarista, Dostoevskij viene condannato a morte insieme ai suoi compagni, ma, al momento dell’esecuzione, la pena viene commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Questa traumatica esperienza, testimoniata in Memorie di una casa di morti (1861-1862), lo porta ad approfondire tematiche spirituali legate in particolare alla presenza del male nel mondo, che spesso ha la meglio sul bene. Le tematiche religiose ed esistenziali La riflessione religiosa sarà uno dei temi fondamentali della sua narrativa matura, punto di vista dominante per dare un senso e una coesione a un mondo che altrimenti sarebbe soggiogato dagli istinti. Al contrario, la libertà sfrenata e l’arbitrio senza limiti che conseguono all’assenza di Dio non possono che portare alla disperazione: come nel caso di Raskòlnikov, protagonista di Delitto e castigo (1866 ➜ T3 ) o del perverso Stavrogin, i cui sensi di colpa lo spingono al suicidio alla fine dei Demòni (1873). Per lo scrittore il sentimento religioso è soprattutto legato a un’ansia di redenzione dal male, di espiazione del peccato, mentre sembra impossibile per l’uomo agire positivamente nel mondo, come si vede nell’Idiota (18681869), dove il protagonista, il principe Miškin (in cui è stata vista in filigrana un’immagine di Cristo), un uomo malato, ma capace d’affetto e profonda compassione, di una comprensione incondizionata degli altri e umanamente partecipe della loro sorte, proprio per questo, è destinato a essere travolto dall’altrui malvagità. Ancora nel suo ultimo grande romanzo, I fratelli Karamazov, terminato poco prima della morte (1881), l’autore si confronterà con i temi del male, della fede, del dubbio e del libero arbitrio. Opere polifoniche Il critico letterario Michail Bachtin (1895-1975), in una sua analisi dell’opera dostoevskijana diventata celebre, ha indicato col termine polifonico

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l’andamento narrativo proprio di questo autore: polifonia (letteralmente “più voci”) in ambito narratologico allude alla compresenza di molteplici voci che si intrecciano e risuonano parallelamente, alle quali corrispondono altrettante teorie, argomentazioni, visioni del mondo. Dostoevskij lascia interamente la parola ai suoi personaggi, non interviene, non presenta, non commenta. Di qui la possibile impressione nel lettore comune di scarsa organicità, di incoerenza del testo. Dov’è l’autore rispetto ai suoi personaggi? C’è un autore che raccoglie la pluralità delle voci e degli argomenti nell’unità di un punto di vista decisivo? Per Dostoevskij – secondo Bachtin – «non è possibile impadronirsi dell’uomo interiore, osservarlo e comprenderlo, se se ne fa un oggetto di analisi indifferente e neutrale; non si può impadronirsene nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui col sentimento». La soluzione consiste dunque nella costruzione di un romanzo polifonico, vale a dire nella capacità di dare voce a più personaggi, ognuno con la propria concezione filosofica del mondo, e di mostrare come ogni personaggio prende coscienza di sé attraverso il dialogo con i propri interlocutori. È questo l’unico modo per raggiungere la profondità dell’animo umano, per «impadronirsi dell’uomo interiore», compito principale che l’autore assegna al suo realismo. L’indagine dell’interiorità e delle angosce profonde dell’uomo rende i romanzi di Dostoevskij estremamente moderni e punto di riferimento per molta narrativa del Novecento, da Kafka a Musil, da Joyce a Svevo e Pirandello.

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Sguardo sul cinema I temi dostoevskijani nei film di Woody Allen: Crimini e misfatti e Match Point

Delitto e castigo La trama di Delitto e castigo (ma la traduzione più corretta del titolo sarebbe Delitto e pena) è relativamente semplice. Rodion Raskòlnikov, un giovane di ventitré anni, ex studente di legge all’università di Pietroburgo, progetta e compie l’omicidio di una vecchia usuraia, simulando una rapina, ma è costretto a uccidere anche la sorella di lei, apparsa inopportunamente sulla scena del delitto. Solo con il suo terribile segreto, è però colto da un incontrollabile quanto inatteso rimorso, un misto di angoscia, timore, pentimento che ha anche conseguenze fisiche e psichiche (dolori, svenimenti, sonni lunghissimi). La situazione cambia grazie all’incontro con Sonja, una povera ragazza, figlia di un padre alcolizzato e di una madre tisica, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia ma animata da una sincera fede cristiana. Raskòlnikov le confessa il delitto e Sonja riesce a convincerlo a costituirsi e ad accettare la pena; il giovane viene incarcerato e Sonja lo segue ai lavori forzati in Siberia dove lavora come sarta e aiuta i detenuti. La sua fede e il suo amore accompagnano Raskòlnikov lungo il percorso verso la redenzione.

Un confronto tra Tolstoj e Dostoevskij Tolstoj

Dostoevskij

il naturalismo francese è un modello comune

domina una dimensione etico-religiosa

opera uno scavo nei lati più oscuri della psiche

Guerra e pace (1869); Anna Karenina (1873-1877)

Delitto e castigo (1866); I fratelli Karamazov (1881)

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Fëdor Dostoevskij

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I diritti degli “uomini straordinari”: il credo inquietante di Raskòlnikov Delitto e castigo

F. Dostoevskij, Delitto e castigo, tr. di S. Polledro, Rizzoli, Milano 2006

Il protagonista del libro, Rodion Raskòlnikov, è convinto che i “grandi uomini” abbiano il diritto di disobbedire alle leggi morali qualora le “grandi idee” che essi si propongono di realizzare lo rendano necessario. Per far fronte alle difficoltà economiche sue e della sua famiglia, ma anche per poter verificare le idee professate (così almeno lui racconta a sé stesso) lucidamente ha progettato l’omicidio d’una vecchia usuraia. Iniziate le indagini, Raskòlnikov si trova ad affrontare il giudice istruttore Porfiri Petròvič, che ha intuito la sua colpevolezza e le motivazioni del gesto omicida (leggendo un articolo dello stesso Raskòlnikov) e che cerca di indurlo a confessare. Quello che segue è l’incontro tra Raskòlnikov e il giudice, che invita il giovane a spiegare le sue idee sul «diritto al delitto», già oggetto del suo articolo. Da questo momento l’indagine istruttoria, attraverso una serie di sottili provocazioni psicologiche, si trasforma quasi in un dibattito filosofico.

– [...] A proposito di tutti questi problemi, delitti, ambiente, bambine, m’è tornato ora alla memoria – e del resto mi aveva sempre interessato – un articoletto vostro: Del delitto... o com’era il vostro titolo? l’ho dimenticato, non rammento. Due mesi fa ebbi il piacere di leggerlo nella Parola Periodica1. 5 – Un mio articolo? Nella Parola Periodica? – domandò, meravigliato, Raskòlnikov; – io effettivamente scrissi, sei mesi fa, quand’ebbi lasciato l’università, un articolo a proposito d’un libro, ma l’avevo portato allora al giornale La Parola Settimanale, e non alla Periodica. – E capitò nella Periodica. 10 – Ma se La Parola Settimanale aveva cessato di esistere, e perciò appunto allora non l’avevano stampato… – È vero; ma, cessando di esistere, La Parola Settimanale si fuse con la Parola Periodica, e perciò il vostro articoletto comparve due mesi or sono nella Parola Periodica. E voi non sapevate? 15 Raskòlnikov, effettivamente, nulla sapeva. – Scusate tanto, ma voi per l’articolo potete chieder loro dei quattrini! Che carattere però è il vostro! Vivete così isolato che ignorate simili cose, che pur vi riguardano direttamente. Questo, sì, è un fatto! – Bravo, Rodka2! E anch’io non lo sapevo! – esclamò Rasumichin3. – Oggi stesso farò 20 una scappata alla sala di lettura e chiederò il numero! Due mesi fa? Che giorno? Fa lo stesso, troverò! Ecco un bel caso! E lui non dice niente! – Ma voi come avete saputo che l’articolo era mio? Era firmato con un’iniziale. – Casualmente, in questi giorni. Per mezzo del direttore; lo conosco... Me ne sono interessato parecchio. 25 – Consideravo, mi ricordo, lo stato psicologico del delinquente durante tutto il corso del delitto.

1 Parola Periodica: titolo di una rivista russa, come più sotto La Parola Settimanale.

2 Rodka: diminutivo di Rodion, il nome di Raskòlnikov.

3 Rasumichin: è un amico di Raskòlnikov, presente all’incontro.

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– Sissignore, e sostenete che l’esecuzione del delitto è sempre accompagnata da uno stato di malattia. Molto, molto originale, ma... propriamente mi ha interessato non questa parte del vostro articoletto, bensì un certo pensiero messo avanti alla 30 fine dell’articolo, ma che voi, purtroppo, accennate soltanto, non chiaramente... In una parola, se rammentate, si fa un accenno a questo, che esistono al mondo, pare, certe persone siffatte, le quali possono... cioè non che possano, ma hanno il pieno diritto di compiere ogni sorta di eccessi e di delitti, e che non per esse, a quanto pare, è stata scritta la legge. 35 Raskòlnikov sorrise della forzata e intenzionale deformazione della sua idea. – Come? Che è questo? Il diritto al delitto? Ma non sarà mica perché «l’ambiente corrode»? – s’informò persino con un certo quale spavento, Rasumichin. – No, no, non proprio per questo, – rispose Porfiri. – Tutto sta in ciò, che nell’articolo del signore tutti gli uomini, in certo modo, si dividono in comuni e non comuni. 40 Quelli comuni devono vivere nell’obbedienza e non hanno il diritto di trasgredire la legge, perché essi, vedete, sono comuni. Invece i non comuni hanno il diritto di commettere ogni sorta di delitti e di trasgredire in ogni modo la legge, precisamente perché non sono comuni. Così voi dite, pare, se non sbaglio? – Ma come mai? Non può essere che sia così! – mormorava, perplesso, Rasumichin. 45 Raskòlnikov tornò a sogghignare. Di colpo aveva capito di che si trattava e a cosa lo si voleva spingere; s’era rammentato del suo articolo. Egli si risolse ad accettare la sfida. – Non è del tutto così nel mio scritto, – incominciò con semplicità e modestia. – Del resto, lo confesso, voi l’avete esposto quasi esattamente, anzi, se volete, 50 anche in modo perfettamente esatto... – (Pareva fargli piacere ammettere che l’esposizione era stata perfettamente esatta). – L’unica differenza è in ciò, che io non sostengo punto che gli uomini non comuni debbano e siano tenuti a commmeter sempre ogni sorta di eccessi, come voi dite. A me pare anzi che un simile articolo non l’avrebbero neppur lasciato stampare4. Io ho puramente e semplicemente 55 accennato che l’uomo non comune ha il diritto… cioè non diritto ufficialmente riconosciuto, ma ha per conto suo il diritto di consentire alla propria coscienza di scavalcare… certi ostacoli, e unicamente nel caso che l’attuazione della sua idea (a volte salutare, forse, per tutta l’umanità) ciò esiga. Voi avete creduto bene di dire che il mio articolo non è chiaro; io son pronto a spiegarvelo, per quanto possibile. 60 Io, forse, non sbaglierò supponendo che proprio di questo, mi pare, abbiate voglia; e sia. Secondo me, se le scoperte di Keplero5 e di Newton6, per qualche combinazione, in nessuna maniera avessero potuto divenir note agli uomini altrimenti che col sacrificio della vita di uno, di dieci, di cento persone e via dicendo, che impacciassero quella scoperta, o che si fossero messe sulla sua strada come un 65 ostacolo, allora Newton avrebbe avuto il diritto, e sarebbe perfin stato in obbligo... di eliminare quelle dieci o cento persone, per far note le sue scoperte a tutta l’umanità. Da questo però non segue punto che Newton avesse il diritto d’ammazzare chi gli fosse saltato in mente, i primi venuti e i primi incontrati, o di rubare ogni giorno al mercato. Più in là, mi viene in mente, io espongo nel mio articolo che

4 non l’avrebbero... stampare: esisteva, in Russia, e molto rigorosa, la censura preventiva.

5 Keplero: Johannes Keplero (1571-1630), astronomo seguace di Copernico.

6 Newton: il grande fisico inglese Isaac Newton (1642-1727), noto per la formulazione della teoria della gravitazione universale.

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tutti… be’, per esempio, anche i legislatori e i fondatori dell’umanità, cominciando dai più antichi, continuando coi Licurghi, Soloni, Maometti, Napoleoni7 e così via, tutti fino all’ultimo eran delinquenti, già solo per il fatto che, dando una nuova legge, con ciò stesso violavano l’antica, venerata dalla società e pervenuta dai padri, e per certo non si arrestavano nemmeno dinanzi al sangue, purché il sangue 75 (a volte affatto innocente e valorosamente versato per l’antica legge) potesse giovar loro. È degno di nota anzi che la maggior parte di questi benefattori e fondatori dell’umanità furono spargitori di sangue particolarmente tremendi. Insomma, io argomento che tutti gli uomini, non che i grandi, anche quelli appena uscenti dalla carreggiata comune, cioè appena capaci di dire qualcosa d’un po’ nuovo, devono, 80 per natura loro, essere necessariamente dei delinquenti – più o meno, s’intende. Altrimenti sarebbe loro difficile uscir di carreggiata, e a restare in carreggiata essi, certo, non possono acconsentire, sempre per la natura loro, e secondo me hanno addirittura l’obbligo di non acconsentire. In una parola, voi vedete che finora qui non c’è nulla di particolarmente nuovo. Questo è stato mille volte stampato e 85 letto. In quanto poi alla mia divisione in uomini comuni e non comuni, son d’accordo ch’essa è alquanto arbitraria, ma io, già, non insisto mica su cifre esatte. Io credo solo nel mio pensiero fondamentale. Esso consiste precisamente in ciò, che gli uomini, per legge di natura, si dividono, in generale, in due categorie: quella inferiore (gli uomini comuni), cioè, per dir così, il materiale che serve unicamente 90 per la procreazione di altri esseri simili a sé, e gli uomini veri e propri, aventi cioè il dono o la capacità di dire nel loro ambiente, una parola nuova. Le suddivisioni, s’intende, qui sono infinite, ma i tratti distintivi delle due categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, cioè il materiale, generalmente parlando, sono uomini per natura loro conservatori, posati, che vivono nell’obbedienza e amano ubbidire. 95 Secondo me, hanno anche l’obbligo di ubbidire, perché questa è la loro missione, e in ciò non v’è per loro proprio nulla di umiliante. Quelli della seconda categoria trasgrediscono tutti la legge, sono sovvertitori, o inclini a esserlo, a giudicare dalle loro attitudini. I delitti di questi uomini, s’intende, sono relativi e disparati; per la massima parte essi chiedono, in formulazioni svariatissime, la distruzione del 100 presente in nome d’un meglio. Ma se loro occorre, per la propria idea, scavalcare sia pure un cadavere, sia pure del sangue, essi possono, a parer mio, nel proprio intimo, in coscienza, autorizzarsi a scavalcare quel sangue – avendo riguardo però all’idea e alle sue proporzioni, notate bene. In questo senso soltanto io parlo nel mio articolo di un loro diritto al delitto. (Voi lo rammenterete, noi s’era comincia105 to da una questione giuridica.) Del resto, non c’è da inquietarsi molto: la massa quasi mai riconosce loro questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e con ciò, in modo perfettamente giusto, adempie la sua missione conservatrice, salvo che nelle successive generazioni questa medesima massa colloca i giustiziati su un piedistallo e li venera (più o meno). La prima categoria è sempre signora del 110 presente, la seconda categoria è signora dell’avvenire. I primi conservano il mondo e lo aumentano numericamente; i secondi muovono il mondo e lo guidano verso la 70

7 Licurghi… Napoleoni: si fa riferimento a Licurgo, il mitico legislatore di Sparta (sec. IX a.C.); Solone (640-559 a.C.), legislatore ateniese, ne riformò la costituzione;

Maometto (571-632), il fondatore e profeta della religione islamica, qui nominato soprattutto come artefice dell’unificazione politica e culturale del popolo arabo; Na-

poleone Bonaparte (1769-1821) ricordato come statista e per la sua opera nell’ambito dei codici civili.

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meta. E questi e quelli hanno un diritto perfettamente uguale di esistere. Insomma nel mio scritto tutti hanno un equivalente diritto, e vive la guerre éternelle8 – fino alla Nuova Gerusalemme9 s’intende. 115 – Così voi tuttavia credete nella Nuova Gerusalemme? – Ci credo, – rispose con fermezza Raskòlnikov; dicendo questo, come durante tutta la sua lunga tirata, egli aveva guardato a terra, dopo aver scelto con l’occhio un punto del tappeto. – E-e-e in Dio credete? Scusate, se sono così curioso. 120 – Ci credo, – ripeté Raskòlnikov, alzando gli occhi su Porfiri. – E-e nella risurrezione di Lazzaro credete? – Ci cr-redo. Perché vi occorre saper tutto questo? – Letteralmente ci credete? – Letteralmente. 8 vive la guerre éternelle: viva la guerra perpetua. 9 Nuova Gerusalemme: l’espressione allude a un ideale escatologico di rinnova-

mento del mondo e rinvia al Libro di Isaia, in cui è annunciata la rinascita di Gerusalemme in un’età di pace e prosperità. Anche nell’Apocalisse di Giovanni si parla

della «città santa» che scenderà dal cielo sulla terra dopo il giudizio universale.

Analisi del testo È possibile per l’uomo guidare il mondo? Gli uomini superiori citati da Raskòlnikov sono scienziati, ossia creatori delle leggi dell’universo, come Newton e Keplero, o legislatori, ovvero costruttori dell’unità politica e creatori delle leggi umane. Spicca, tra gli esempi del passato, la figura moderna di Napoleone, che aveva alimentato l’immaginazione di tanti giovani e aveva fatto discutere in tutta Europa. Ma è davvero possibile per l’uomo controllare il mondo? La grande utopia scientifico-razionalista che aveva dominato la seconda metà dell’Ottocento, verso la fine del secolo comincia a vacillare. Dostoevskij rappresenta l’animo umano come qualcosa di insondabile, e infatti Raskòlnikov – che qui si illude di poter definire razionalmente le azioni umane – dovrà fare i conti con le inquietudini e le angosce non previste (e dal suo punto di vista irrazionali), cui alla fine si dovrà arrendere.

Il superuomo e la giustificazione del delitto Raskòlnikov qui sembra anticipare alcune idee del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (Così parlò Zarathustra è del 1883-1885) quando propone la distinzione tra due grandi tipi umani: gli uomini comuni, i mediocri ligi alle regole, e gli uomini non comuni, autentici spiriti creatori, la cui grandezza li pone al di sopra delle regole morali e giuridiche, non fosse altro che per il fatto che sono essi stessi ad avere la possibilità di plasmarle. A questi uomini dunque (tra i quali pur non dicendolo qui per ovvie ragioni Raskòlnikov si è posto) è permesso il delitto. Si tratta di idee esposte in modo astratto da un personaggio – e non certo condivise dall’autore – che già alla fine del dialogo vacillano quando sono messe a confronto con il pensiero religioso e che nel corso del romanzo saranno smentite dagli eventi. Del resto l’inserimento di Napoleone – la cui caduta era stata tanto clamorosa quanto la sua ascesa – tra le figure dei grandi legislatori può essere già un indizio del fallimento di questa presunzione di superiorità.

L’intreccio di diversi generi e modi della narrazione Delitto e castigo è un romanzo che mescola diversi generi narrativi: mutuati dal romanzo d’appendice sono gli intrecci di oscure passioni, al genere poliziesco appartiene il soggetto del romanzo, cioè il delitto, con il suo corredo di indagini (in questo caso Petròvič assume il ruolo del detective), ma compare anche il dialogo filosofico in una veste moderna, come si può ben vedere sempre nel testo antologizzato. All’interno di questo brano si possono poi individuare due piani narrativi: quello razionale e analitico della discussione filosofica e quello delle provocazioni psicologiche con cui il giudice inquirente cerca di far cadere Raskòlnikov in contraddizione. L’autore del delitto se ne accorge

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e tra i due comincia un gioco di scherma (incomprensibile per Rasumichin che vi assiste), ma alla fine Raskòlnikov è messo alle corde dal suo avversario: dopo aver sostenuto fino a quel momento i suoi ideali laici, cita involontariamente un riferimento religioso («fino alla Nuova Gerusalemme s’intende») e a quel punto è costretto dalle incalzanti domande del giudice a passare dalla sicumera a un atteggiamento di incertezza.

La situazione dialogica, centro dell’universo narrativo di Dostoevskij La forza dirompente dello scavo di Dostoevskij nell’interiorità dell’uomo sta proprio nel fatto che questa interiorità non può più essere semplicemente descritta, come avveniva nei brani di introspezione psicologica dei romanzieri precedenti, ma può essere rappresentata solo attraverso il rapporto di comunicazione di ogni personaggio con gli altri. Per questo i romanzi dello scrittore russo si incentrano sulla contrapposizione dialogica tra i protagonisti, che parlando tra loro scoprono sé stessi, costruendo quella polifonia di cui parla Bachtin. La scena tra Raskòlnikov e Petròvič è basata su una sfida tra i due (che l’amico non può comprendere) e assume l’andamento di un intenso dialogo filosofico: alla fine Raskòlnikov, che sembrava tanto sicuro di sé, deve abbassare gli occhi e sillabare «ci cr-redo» anche di fronte al miracolo della resurrezione di Lazzaro. Come spesso accade nell’opera di Dostoevskij, Raskòlnikov è messo in difficoltà dal confronto con il suo interlocutore, che lo induce a scoprire delle parti di sé che non conosceva e che, nel caso di questo romanzo, avvieranno la sua futura redenzione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Ricostruisci i passaggi logici del discorso di Raskòlnikov e illustra la sua concezione nei riguardi degli uomini. 2. Sottolinea i punti in cui il giudice Petròvič cerca di provocare il protagonista. COMPRENSIONE 3. Quale ruolo narrativo ha Rasumichin?

Interpretare

SCRITTURA 4. La disobbedienza alle leggi morali, giustificata dall’esigenza di realizzare “grandi idee”, è al centro del brano proposto. In un testo di massimo 20 righe, rifletti su questo tema, argomentando le tue opinioni.

Fissare i concetti Il romanzo realista in Europa Uno sguardo critico sull’Inghilterra dello sviluppo capitalistico: il romanzo di Charles Dickens 1. Quali sono le caratteristiche dell’opera di Charles Dickens? Realismo epico e romanzo di introspezione psicologica in Russia 2. Di cosa trattano i grandi romanzi di Tolstoj, Guerra e pace e Anna Karenina? 3. Per quale motivo le opere di Dostoevskij sono state definite polifoniche dal critico Michail Bachtin? 4. Quale tema viene trattato in Delitto e castigo?

online

Verso l’esame di Stato Friedrich Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra

Lo sfruttamento minorile in una miniera di carbone in Inghilterra, stampa del 1842.

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Secondo Ottocento Duecento e Trecento Laromanzo Il letteratura realista cortese in Europa nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura sguardo critico sull’Inghilterra dello sviluppo capitalistico: 1 Uno il romanzo di Charles Dickens Charles Dickens (1812-1869) rappresenta le contraddizioni della società inglese dovute all’industrializzazione. Nei suoi romanzi il punto di vista del narratore è chiaramente espresso: Dickens simpatizza per la condizione degli umili e degli oppressi, ma ritiene che la loro condizione possa migliorare solo attraverso gesti umanitari da parte di appartenenti alle classi superiori. Per questo motivo la sua opera spesso è stata accusata di paternalismo. Nel romanzo Tempi difficili (1854) descrive efficacemente la penosa condizione degli operai inglesi in una città industriale.

2 Realismo epico e romanzo di introspezione psicologica in Russia

Lev Tolstoj (1828-1910) I suoi romanzi sono incentrati sull’introspezione dei personaggi e su una riflessione morale e religiosa. Non manca una critica al perbenismo borghese, evidente ad esempio nell’analisi impietosa dell’istituzione del matrimonio in Anna Karenina (1877). Nel 1869 pubblica Guerra e pace, grandioso romanzo ambientato negli anni delle guerre napoleoniche (1805-1812), in cui mostra le conseguenze delle decisioni di pochi sulla vita dei popoli e rappresenta la società russa attraverso un realismo epico. Una profonda crisi spirituale lo porta a una professione di pauperismo evangelico e di non-violenza, che influenzerà molti uomini del tempo. Fëdor Dostoevskij (1821-1881) Temi portanti dei suoi romanzi sono la presenza del male nell’uomo, i suoi tormenti esistenziali, la sua ansia di redenzione e la possibile salvezza grazie alla fede. Per questo motivo egli scava nei lati più oscuri e tortuosi della psiche. Nelle sue opere utilizza la polifonia: l’autore non interviene mai, ma presenta diverse voci e punti di vista, solo attraverso il dialogo infatti il personaggio prende coscienza di sé. Questa tecnica narrativa per esprimere la complessità dell’animo umano sarà un punto di riferimento per molti scrittori del Novecento. In Delitto e castigo (1866) descrive prima l’arbitrio senza limiti che porta il protagonista Raskòlnikov all’omicidio, poi la sua disperazione e alla fine il pentimento e la redenzione.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Esponi oralmente (massimo tre minuti) i punti di vista di Tolstoi e Dostoevskij rispetto all’ottimismo positivista sulle possibilità dell’uomo di dominare il mondo naturale e il corso degli eventi.

Scrittura creativa

2. Scrivi un breve racconto che abbia sullo sfondo di una zona degradata di una metropoli moderna.

Competenza digitale

3. Fai una ricerca in rete e seleziona le trasposizioni cinematografiche più famose che mettono in scena soggetti tratti dalle opere di autori studiati in questo capitolo. Realizza poi un PowerPoint da presentare alla classe, nel quale siano presenti fotogrammi e brevi scene dei film da te scelti.

Sintesi

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Secondo Ottocento CAPITOLO

7 Giovanni Verga CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo Verga Un siciliano portato all’evasione Il 2 settembre 1920, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga, Luigi Pirandello, che ne raccoglierà l’eredità, pronuncia un discorso celebrativo del grande scrittore. Nel passo che segue, Pirandello sottolinea efficacemente sia la “sicilianità” di Verga sia l’inquietudine che lo portò a lasciare la sua isola:

Siciliano triste – va bene. Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si senton sicuri e si tengono appartati; per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno [...] e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioja, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato. Ma ci son di quelli che evadono; di quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che, bravando quell’istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo che li fa isole a sé, e vanno ambiziosi di vita ove una loro certa fantastica sensualità li porta, spassionandosi, o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera, riposta passione, con quella ambizione di vita effimera. Il Verga, giovine, fu uno di questi [...]. L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti vari, a c. di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano 1960

Uno scrittore mondano Nel breve testo Vita letteraria a Milano nel 1880 (1881) lo scrittore scapigliato Roberto Sacchetti descrive Giovanni Verga muoversi a suo agio nell’ambiente mondano milanese e individua alcuni tratti distintivi del suo carattere:

Lo scrittore più mondano […] è senza dubbio Giovanni Verga, che abita qui a intervalli, vi conosce e frequenta la società più aristocratica ma solamente quella. La prima volta che lo vidi fu in casa Maffei una domenica sera che le due salette erano piene di signore tra cui sei o sette giovani e molto belle, e queste lo circondavano in modo ch’io non mi potei appressare a lui. Lui stava là contegnoso in silenzio in mezzo al vivace cicalio, e sorrideva di quel suo sorriso serio, a fior di labbra che fa malinconia. Per questo suo fare riservato misterioso che dimostra patimenti profondi non meno che per la eleganza squisita del suo sentimento artistico dicono che abbia delle avventure. Non gliene state a chiedere a lui; è così poco vanesio che non ve ne direbbe nulla, anzi vi riderebbe discretamente sul viso. R. Sacchetti, La vita letteraria a Milano nel 1880, in Racconti della Scapigliatura milanese, a c. di V. Spinazzola, De Agostini, Novara 1959

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Giovanni Verga è il narratore italiano più importante dell’Ottocento dopo Manzoni e il maggior rappresentante della corrente verista. Verga scrive le sue opere dopo l’Unità d’Italia, quando per la prima volta si poneva attenzione alle difficili condizioni del Meridione e si avviavano inchieste per far luce su gravi problemi, come lo sfruttamento del lavoro minorile. Pur non subordinando la sua opera a fini di denuncia politicosociale, Verga contribuisce con i suoi maggiori romanzi e novelle a far conoscere al pubblico italiano l’arcaica realtà antropologica e sociale della sua Sicilia. Nei suoi capolavori Verga adotta una prospettiva rigorosamente realista e impiega tecniche narrative e fa scelte stilistiche del tutto innovative che furono poco comprese e apprezzate dal pubblico lui contemporaneo. D’altra parte la scrittura verghiana nel Novecento sarà considerata un modello autorevole da tutti gli scrittori che si proporranno una rappresentazione realistica della società.

1 Ritratto d’autore nascita di un grande 2 Lanovelliere: Vita dei campi 3 I Malavoglia 4 Itinerario verghiano 5 La fortuna di Verga 201 201

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1 Ritratto d’autore 1 Un siciliano trapiantato a Milano Le origini siciliane e la formazione Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da una famiglia benestante con ascendenze nobiliari. I genitori di Verga sono ricchi proprietari fondiari e possiedono numerose terre intorno a Vizzini, dove la famiglia si reca spesso a villeggiare. Verga studia alla scuola privata dello scrittore e giornalista Antonino Abate, che gli trasmette la passione per la letteratura e ferventi ideali patriottici, tanto che a soli sedici anni compone un abbozzo di romanzo storico, Amore e patria, rimasto inedito. L’entusiasmo risorgimentale e le prime prove letterarie Verga ha vent’anni quando Garibaldi guida la spedizione dei Mille in Sicilia: l’entusiasmo che prova per l’impresa lo segnerà per tutta la vita e rimarrà sempre fedele al culto del Risorgimento e dell’unità nazionale. Nel 1861-62 dirige alcuni giornali patriottici e pubblica il romanzo I carbonari della montagna con il denaro ricevuto dal padre per completare gli studi giuridici (che però non terminò mai): è un romanzo storico che descrive l’opposizione del popolo calabrese agli invasori francesi di Gioacchino Murat. Intanto si arruola per quattro anni nella Guardia Nazionale di Catania, istituita dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia. Nel 1863 – anno della morte del padre – pubblica a puntate su una rivista fiorentina un nuovo romanzo ambientato a Venezia, Sulle lagune, in cui lo sfondo storico è strettamente intrecciato al tema dell’amore sfortunato, secondo una formula collaudata con successo nei più noti romanzi storici italiani.

Cronologia interattiva 1870

Roma viene annessa al Regno d’Italia, diventandone la capitale. 1867

Esce Thérèse Raquin di Zola, capolavoro del naturalismo francese. 1861

È proclamata l’unità d’Italia.

1840

1840

Il 2 settembre Giovanni Verga nasce a Catania da una famiglia di possidenti terrieri.

1850

1860

1870

1858

1865

Si iscrive a Catania, alla facoltà di Giurisprudenza che abbandona nel 1861. 1861

Verga pubblica a proprie spese il romanzo I carbonari della montagna.

Soggiorna per la prima volta brevemente a Firenze.

1880

1869

Si stabilisce a Firenze.

1866

Una peccatrice. 1870

Storia di una capinera. 1871

È pubblicato La fortuna dei Rougon, il primo dei volumi del ciclo dei Rougon-Macquart di Zola.

1872

Si trasferisce a Milano dove rimane fino al 1893.

1873

Eva.

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A Firenze: mondanità e ambizione All’età di 25 anni – nel 1865 – per la prima volta Verga esce dalla sua Sicilia per recarsi a Firenze, allora capitale del neonato Regno d’Italia. Comincia a frequentare gli ambienti culturali alla moda e aspira ardentemente al successo: non è un caso che il protagonista del suo nuovo romanzo, Una peccatrice, pubblicato nel 1866, sia un giovane scrittore inurbato (proprio come lui), che ottiene fama e ricchezza. È una storia melodrammatica d’amore e morte a forti tinte, che si conclude con il suicidio della donna amata dal protagonista. A Firenze, dove ritorna nel 1869, conosce scrittori tardo-romantici (tra gli altri Prati e Aleardi) e i pittori macchiaioli che lo mettono in contatto con il realismo francese di metà secolo. A questi anni risale anche l’inizio dell’amicizia con Luigi Capuana, come lui siciliano, che sarà di importanza capitale nella sua evoluzione artistica. Un romanzo di successo Nel 1870 lo scrittore ottiene finalmente il successo tanto atteso con Storia di una capinera, pubblicato a puntate sulla rivista popolare di moda «La Ricamatrice». L’opera riprende un fatto di cronaca e racconta, attraverso le lettere spedite dalla protagonista a un’amica, la vicenda di una fanciulla costretta dalla matrigna a farsi monaca contro la sua volontà e a rinunciare all’amore. L’argomento, oltre a essere un tema letterario tradizionale (basti pensare a Manzoni), era anche di attualità, grazie all’approvazione di una legge nel 1867 che vietava la pratica della monacazione forzata: il tema romantico dell’amore ostacolato si coniugava così con il desiderio della borghesia risorgimentale di liberare il paese da consuetudini sociali arretrate. Non mancano inoltre pennellate di “colore regionale”, dato che la vicenda è ambientata nella campagna siciliana di Vizzini. Non a caso la pubblicazione in volume è introdotta da una lettera dedicataria a Caterina Percoto, scrittrice friulana allora famosa, attenta a tematiche sociali e regionali.

1873

Muore Manzoni. 1877

Luigi Capuana si trasferisce a Milano dove scrive una famosa recensione dell’Assommoir di Zola. 1881

1894

Esposizione universale a Milano.

1880

1890

Verga ritorna definitivamente a Catania.

1883

Escono le raccolte di novelle Novelle rusticane e Per le vie. Raccolta di novelle Vita dei campi.

1888

Mastro-don Gesualdo. 1887

1881

Raccolta di novelle Vagabondaggio.

I Malavoglia.

1884

Raccolta di novelle Drammi intimi. 1875

Tigre reale e Eros. 1874

Nedda. Bozzetto.

Manifesto del futurismo di Marinetti.

1900 1893

1880

1909

In Francia esplode il caso Dreyfus; De Roberto pubblica I Viceré.

1910

1920

1894

Raccolta di novelle Don Candeloro e C.i. 1920

È nominato senatore del Regno. 1922

Il 24 gennaio muore a Catania.

1878

Rosso Malpelo; Verga pensa a un ciclo di cinque romanzi sotto il titolo di Marea. 1876

Prima raccolta di novelle: Primavera e altri racconti.

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L’approdo alla “capitale del Nord” Alla fine del 1872 Verga prende la decisione di trasferirsi a Milano, dove la vita culturale è più moderna e avanzata (a Milano sono concentrate le più importanti case editrici del paese, in un periodo in cui anche in Italia andava costituendosi un’editoria su scala industriale, attenta a soddisfare i gusti di un pubblico numericamente sempre più consistente (➜ SCENARI, PAG. 74). Rimarrà nella città lombarda, salvo alcuni rientri temporanei in Sicilia, per vent’anni e qui scriverà le sue opere principali (➜ D1 OL), subendo il fascino ambiguo e contraddittorio della modernità e vivendo appieno la vita culturale e mondana dei teatri e dei salotti. Inseguendo i gusti del pubblico In linea con i nuovi orizzonti d’attesa di un pubblico che predilige la narrativa d’appendice francese, negli anni immediatamente successivi al suo arrivo a Milano, Verga scriverà romanzi i cui protagonisti sono giovani nobili o artisti in cerca di affermazione e donne bellissime e fatali – il tutto corredato da duelli, lusso sfrenato, malattie inguaribili – che gli garantiranno il tanto desiderato successo di pubblico. Di questo genere sono Eva del 1873, Tigre reale ed Eros usciti nel 1875 e, anni dopo, Il marito di Elena, pubblicato nel 1882 subito dopo il fallimento dei Malavoglia. Nei romanzi milanesi si sente l’eco dei contatti con gli ambienti della Scapigliatura, ma è indubitabile anche una componente autobiografica nella creazione di una serie di personaggi ambiziosi che si sono allontanati dalla terra di origine. La fondazione del Verismo Nel 1877 anche Luigi Capuana si trasferisce a Milano, e la sua recensione del romanzo di Émile Zola L’assommoir (L’ammazzatoio), appena tradotto, accende il dibattito nell’ambiente letterario milanese. L’opera, appartenente al ciclo dei Rougon-Macquart (➜ C5), costituisce un’esemplare applicazione dei princìpi letterari del naturalismo francese, ovvero l’intento di descrivere i meccanismi scientifici che determinano la realtà sociale e la condizione psicologica dell’uomo. In Italia negli stessi anni, tra il 1876 e il 1877, anche il mondo politico comincia a mostrare interesse per l’indagine sociologica; Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino pubblicano un’ampia documentazione sugli esiti di un’inchiesta sulle condizioni di vita dei contadini siciliani. È in questo contesto socio-culturale che Verga matura una svolta nella sua poetica: essa si concretizza nel 1878 con la pubblicazione della novella Rosso Malpelo (➜ T1 ), prima opera verghiana che segue le tecniche dell’impersonalità (➜ Le parole chiave della poetica verghiana, P. 209) proposte dal naturalismo francese, e prima di una serie di novelle ambientate in Sicilia, raccolte in Vita dei campi (1880). Sempre nello stesso anno Verga comunica all’amico Salvatore Paola Verdura l’intenzione di scrivere un ciclo di cinque romanzi sotto il titolo di Marea (poi trasformato in I Vinti) in cui intende descrivere la società italiana in tutti i suoi strati sociali. Intanto nel 1879 è morta la madre e nel 1880 lo scrittore inizia una relazione, che durerà alcuni anni, con Giselda Fojanesi, sposata al poeta catanese Mario Rapisardi.

Giovanni Verga e Federico De Roberto.

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Gallery Verga e la fotografia Una mostra permanente delle fotografie dello scrittore siciliano è allestita nel Museo “Immaginario verghiano” di Vizzini (molte di esse si possono vedere sulla pagina Facebook del Museo).

Il fallimento dei Malavoglia nell’anno dell’Esposizione universale Nel 1881 Milano è sede dell’Esposizione universale; alla Scala è in scena il Ballo Excelsior di Manzotti e Marenco, dove Luce, Progresso e Giustizia trionfano su Tenebre, Ignoranza e Male e il balletto si conclude con un inno alla scienza, alla fratellanza e all’amore (➜ PER APPROFONDIRE, Il Ballo Excelsior OL). La città celebra il progresso candidandosi a capitale morale del paese. Nello stesso anno Verga pubblica I Malavoglia, primo romanzo del ciclo dei Vinti che realizza alla perfezione la tecnica dell’impersonalità. Ma l’opera non riscuote il successo di pubblico atteso causando una profonda delusione nel suo autore, tanto che deciderà di uscire, l’anno successivo, con Il marito di Elena, l’ultimo dei suoi romanzi di ambientazione mondana. Lo stile dei Malavoglia è troppo innovativo e per di più i contenuti risultano estranei al gusto del pubblico perché troppo lontani sia dai compiacimenti intimistici, sia dal facile mito del progresso, allora osannato.

PER APPROFONDIRE

Una visione sempre più pessimistica: i nuovi temi dell’immaginario verghiano Nelle opere successive lo scrittore descrive in modo sempre più crudo e realistico la società e le relazioni tra i suoi componenti, accentuando gli aspetti legati all’egoismo e all’istinto di sopraffazione e riducendo al minimo lo spazio per i sentimenti altruistici e la sincerità. Il proletariato urbano milanese della raccolta di novelle Per le vie e i contadini della campagna siciliana delle Novelle rusticane (opere entrambe pubblicate nel 1883) sono accomunati dalla stessa visione pessimistica di Verga, che sintetizza nell’interesse personale il principale motore delle azioni umane. Il 14 gennaio 1884 viene rappresentato al Teatro Carignano di Torino il dramma Cavalleria rusticana (adattamento per le scene di una novella di Vita dei campi ➜ T2 OL) con Eleonora Duse nella parte della protagonista. Nonostante il grande successo della rappresentazione, lo scrittore è deluso e scoraggiato per le persistenti difficoltà economiche che lo affliggono. Nel 1888 esce a puntate sulla rivista «Nuova Antologia» il secondo romanzo del ciclo dei Vinti, Mastro don Gesualdo, il cui protagonista incarna in modo esemplare il cinismo e l’alienazione nella “roba”, la perdita dei valori umani e degli affetti in cambio del successo economico.

Verga e la fotografia Anche Verga, come molti scrittori della seconda metà dell’Ottocento che nelle loro opere si sforzano di mostrare la società contemporanea nei suoi diversi aspetti – tra i quali i suoi conterranei Capuana e De Roberto, e nel resto d’Europa Émile Zola, Jack London, il drammaturgo svedese August Strindberg –, presta particolare interesse alla nuova forma di rappresentazione della realtà nata in Francia nel 1839: la fotografia. Egli si cimenta personalmente nell’uso della macchina fotografica almeno dal 1878, ovvero proprio a partire dallo stesso periodo in cui matura la sua adesione alla poetica verista, come ci è testimoniato dal ritrovamento (avvenuto nel 1966) di un cospicuo numero di negativi fotografici nella sua casa di Catania. Si tratta soprattutto di lastre in vetro, accompagnate da indicazioni sulle località in cui erano state scattate le foto e a volte da precisazioni tecniche; i soggetti sono prevalentemente umani, appartenenti sia alla società alto-borghese di cui faceva parte lo stesso scrittore – parenti, amici, artisti (tra i quali Giacosa, Boito, Eleonora Duse) – sia all’umile mondo siciliano, protagonista di tanta parte della sua produzione letteraria, e rispecchiano la stessa esigenza di ricerca realistica che ispira la sua poetica: contadini, campieri, massari, donne di servizio, bambine ecc., a volte vestiti con i costumi tradizionali del paese. È poi significativo il fatto che alcune di quelle fotografie accompagnassero lo scrittore nelle sue lunghe permanenze nelle città del Nord; e altre poi ne richiedeva all’amico Capuana, forse proprio per poter avere di fronte, sempre, anche quand’era lontano, l’immagine oggettiva del mondo che desiderava descrivere in uno scatto fotografico. La Sicilia rurale è stata uno dei soggetti più fotografati da Giovanni Verga: nell’immagine un campiere nei dintorni di Vizzini.

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Il ritorno a Catania Nel 1891 Verga conosce la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo con cui intreccia una lunga relazione senza però mai decidersi a sposarla. Nel 1893 ottiene una considerevole somma dalla causa legale intentata contro Mascagni e l’editore Sonzogno per la trasposizione in melodramma della Cavalleria rusticana, e in seguito torna definitivamente a Catania. Il ritorno alle origini ha certo a che fare con la sempre più marcata sfiducia dello scrittore di poter conquistare il pubblico moderno, ormai orientato, negli ultimi decenni dell’Ottocento, verso prodotti letterari che nulla hanno a che fare con il verismo (come i romanzi di Fogazzaro e di D’Annunzio). L’isolamento degli ultimi anni Dopo il ritorno in Sicilia nello scrittore catanese aumenta un senso di stanchezza, amarezza e distacco: vorrebbe portare a termine il suo progetto del ciclo dei Vinti e lavora a lungo a quello che avrebbe dovuto essere il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, ma non riesce ad applicare le tecniche veriste all’indagine della società delle classi alte – tentata anche nella raccolta di novelle I ricordi del capitano d’Arce del 1891 – e l’opera rimane incompiuta. Con le novelle di Don Candeloro e C.i (1894) Verga rappresenta, nella descrizione dello squallido mondo dei teatranti di provincia, l’inautenticità della vita di ogni uomo, costretto a recitare una parte come sulla scena. Una tematica che, si potrebbe dire, prepara l’avvento sulla scena letteraria di un altro grande siciliano: Luigi Pirandello, attivo già da tempo. Verga si rivolge poi nuovamente al teatro con La Lupa (1896, tratta da una novella di Vita dei campi), i bozzetti teatrali La caccia al lupo e La caccia alla volpe (1901) in cui sviluppa nuovamente – come in Cavalleria rusticana – il tema della vendetta per un tradimento amoroso; infine Dal tuo al mio (1903), dramma che descrive le lotte dei lavoratori di una zolfara. Un atteggiamento politico conservatore In ambito politico Verga assume nel tempo atteggiamenti sempre più conservatori: nel 1898 aveva approvato la repressione dei moti di piazza a Milano attuata dal generale Bava Beccaris; alcuni anni dopo (1906) dichiara la sua ostilità al movimento socialista, sostenendo di aver dato il suo contributo alla causa degli umili e dei diseredati «senza bisogno di predicar l’odio e di negare la patria in nome dell’umanità». Nel 1915 si schiera tra gli interventisti per il primo conflitto mondiale e successivamente guarderà con simpatia agli ideali nazionalistici del nascente movimento fascista. Le celebrazioni in suo onore e la morte Nel 1920, in occasione del suo ottantesimo compleanno, vengono organizzate solenni cerimonie in suo onore a Roma, alla presenza di Benedetto Croce, allora ministro dell’Istruzione, e nel comune di Catania, dove Luigi Pirandello, scrittore ormai affermato, pronuncia nel teatro Bellini il discorso celebrativo; è però assente proprio il festeggiato, che aveva ormai da tempo voluto chiudersi nella dimensione appartata di gentiluomo di provincia. Verga muore a Catania il 27 gennaio 1922. online

I romanzi mondani di Giovanni Verga

D1 Verga e Milano D1a Giovanni Verga «La grand’aria è la vita di una grande città» Lettera a Luigi Capuana D1b Giovanni Verga Per essere veri bisogna guardare da «una certa distanza» Lettera a Luigi Capuana

Romanzi “mondani”

I protagonisti sono giovani ambiziosi e donne fatali Lo stile è enfatico e melodrammatico

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2 La poetica e l’ideologia Verga preverista Dal romanzo storico-patriottico ai romanzi mondani Dopo le prime, modeste, prove, ispirate a un romanticismo patriottico, trasferitosi a Firenze e in seguito a Milano, Verga abbandona il tema storico-politico per descrivere la realtà contemporanea, vista sotto l’angolatura dominante degli amori torbidi e passionali, con epiloghi spesso tragici. Determinante nell’orientare la produzione di Verga in questo periodo è la ricerca del successo, che induce lo scrittore ad adeguare la materia dei suoi nuovi romanzi (da Una peccatrice a Eros) ai gusti dei lettori e alle mode letterarie correnti. Ma rilevante nella scelta di un realismo che per ora non trova adeguati strumenti espressivi è anche il contatto di Verga con gli ambienti scapigliati milanesi: la Scapigliatura (➜ C2) affronta infatti, per la prima volta, motivi realistici, come la corruzione della vita moderna, l’alienazione delle grandi città, la mancanza di ideali. Gioca un ruolo importante, infine, la presa di coscienza da parte di Verga, dopo il suo trasferimento al Nord, della crisi degli ideali risorgimentali (e degli ideali in genere), a cui segue l’affermazione di un’idea di società profondamente cinica e materialista, in cui l’arte è destinata a essere ridotta a merce. In un mondo dominato dal progresso e dal successo economico l’arte non può più aspirare a nobili obiettivi, è ormai «un lusso da scioperati» e può solo rappresentare criticamente la società del tempo, con le sue ipocrisie e le sue meschinità da «gettare in faccia» al pubblico borghese: così scrive Verga nella prefazione a Eva (1873). Un rapporto contraddittorio con il mondo rappresentato Con il nuovo mondo delle «Banche e Imprese industriali», della «febbre dei piaceri» (sempre dalla Prefazione a Eva), lo scrittore siciliano ha però un rapporto contraddittorio: da un lato si rende conto delle patologie che quella società non può non produrre, dall’altro è attratto dal lusso e dai piaceri della mondanità ed è affascinato dalle figure di donne bellissime e fatali (ne esiste una vera e propria galleria nei romanzi di questo periodo: da Eva, la ballerina di successo dell’opera omonima, a Nata, la fascinosa contessa russa di Tigre reale). A rendere ulteriormente complesso il rapporto di Verga con la società rappresentata nei suoi romanzi mondani, è la percezione della sua costituzionale diversità di isolano, che si porta dentro il trauma dell’allontanamento dalle origini, dal paese e dalla famiglia. Non a caso i protagonisti dei romanzi mondani hanno evidenti tratti autobiografici. Lo stile: tra melodramma e romanzo d’appendice Se nei romanzi milanesi lo scrittore già assume la prospettiva dell’osservazione realistica, molto diverso rispetto alla grande narrativa verghiana successiva è però lo stile, che in questi primi romanzi è sempre “eccessivo”, enfatico, spesso addirittura melodrammatico, come si può vedere ad esempio nella descrizione della protagonista di Tigre reale: «Cotesta donna avea tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata – era boema, cosacca e parigina – e nella pupilla felina corruscavano delle bramosie indefinite ed ardenti».

La svolta verista e la poetica dell’impersonalità La lezione di Zola Dopo l’uscita in traduzione italiana dell’Assommoir di Zola (1877), nei circoli intellettuali milanesi si discute sui nuovi stimoli che vengono Ritratto d’autore 1 207

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dalla letteratura d’oltralpe. Fra il 1877 e il 1878 Verga partecipa in prima persona alla definizione del verismo italiano, il cui principale teorico è l’amico Luigi Capuana (➜ C5). Nell’agosto 1878 pubblica la novella Rosso Malpelo (➜ T1 ); nel 1879 esce il romanzo Giacinta di Capuana: sono entrambe opere esemplari della nuova poetica. Appassionato lettore di Zola, Verga accoglie e sviluppa nelle sue opere l’idea di una narrativa ispirata al materialismo positivistico, che si faccia documento realistico della società attraverso una scrittura basata sul metodo dell’“impersonalità” che lo scrittore siciliano interpreta in modo ben più rigoroso di Zola. La poetica dell’impersonalità Verga teorizza con chiarezza la sua adesione alla poetica dell’impersonalità soprattutto nell’importante lettera dedicatoria al Farina preposta alla novella L’amante di Gramigna, che fa parte della sua prima raccolta di racconti, Vita dei campi (➜ D2a ). Nello scritto Verga rinuncia alla “lente dello scrittore” per lasciar parlare i fatti, così che la mano dell’artista resti completamente invisibile. La ricerca di una rappresentazione il più possibile oggettiva non escluderà un giudizio critico su quanto viene rappresentato, ma questo sarà espresso in modo indiretto attraverso la scelta dei fatti da rappresentare e soprattutto per mezzo della tecnica dello straniamento (➜ Le parole chiave della poetica verghiana, PAG. 209). È proprio questa particolare prospettiva narrativa, applicata per la prima volta in Rosso Malpelo, a consentire a Verga di descrivere la vita di personaggi umili, spesso emarginati, senza sentimentalismi e paternalismi, in accordo con le indicazioni del maggior critico letterario italiano del tempo, Francesco De Sanctis, per il quale l’esempio di Zola avrebbe dovuto liberare i letterati italiani dal vuoto idealismo e dagli atteggiamenti lacrimosi diffusi fra gli ultimi romantici. Il progetto di un ciclo di romanzi L’influenza di Zola e del naturalismo è evidente anche nell’intenzione da parte di Verga di realizzare un “ciclo” di romanzi (alla maniera dei Rougon-Macquart) che permettesse l’osservazione della società nelle varie «fisionomie sociali»: il progetto è annunciato in una lettera scritta il 21 aprile 1878 da Verga all’amico Salvatore Paola Verdura (➜ D2b OL). Di fondamentale importanza è l’idea che alla descrizione di differenti ambienti debba corrispondere l’invenzione di una forma, un livello linguistico e uno stile di volta in volta differenti. Concetti ribaditi e approfonditi nell’importante Prefazione ai Malavoglia (➜ D4 ). Fantasticheria e la teorizzazione della regressione Importante nella definizione della poetica verghiana è infine la novella Fantasticheria (➜ D3 ), pubblicata nel 1879, una sorta di “manifesto”: in essa Verga contrappone, dal punto di vista non solo economico-sociale ma anche etico-esistenziale, il mondo popolare (sono anticipati personaggi e temi dei Malavoglia) all’universo mondano, descritto nella sua precedente produzione e rappresentato simbolicamente dalla donna affascinante che accompagna lo scrittore in un viaggio ad Aci Trezza; ma soprattutto importante è la teorizzazione, per la descrizione del popolo, della necessità della (➜ Le parole chiave della poetica verghiana, PAG. 209) dell’autore al regressione livello del mondo narrato. Rottura o continuità? La forte contrapposizione tra il mondo popolare e quello alto-borghese e mondano su cui è incentrata Fantasticheria sembrerebbe giustificare l’idea di una netta cesura tra la prima produzione di Verga e quella verista, che alcuni critici hanno considerato frutto di una vera e propria «conversione» (come scrisse per primo l’amico Capuana). Tra gli studiosi c’è infatti chi ha sottolineato la discontinuità con le opere precedenti e l’importanza fondamentale del confronto con il naturalismo inserendo maggiormente l’opera del siciliano nell’orizzonte cul-

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Parola chiave

turale europeo; c’è invece chi – come Giacomo Debenedetti – ha svalutato il ruolo del naturalismo come se fosse solo una specie di lasciapassare per introdurre in letteratura personaggi plebei e rusticani. L’approccio forse più proficuo, e oggi più seguito, sta in un’interpretazione intermedia. Certamente le ambientazioni e lo stile dei precedenti romanzi mondani sembrano in antitesi con quelli della nuova produzione verista e una serie concomitante di circostanze favorevoli pare aver permesso a Verga di risolvere una situazione di stallo e di crisi della propria poetica. Ma intenzioni realistiche erano indubbiamente già presenti nella produzione anteriore al 1878, mutuate dall’ambiente degli scapigliati; inoltre, nell’introduzione a Eva si può già individuare una certa presa di distanza dalla materia e un atteggiamento polemico nei confronti dell’ambiente descritto. Dal punto di vista tematico, inoltre, anche nei primi romanzi i protagonisti erano degli sconfitti (come i futuri Vinti) e in qualche modo

Le parole chiave della poetica verghiana Impersonalità Con questo termine si allude a una narrazione che non reca alcuna traccia della visione del mondo e della stessa ottica culturale dell’autore (che sembra quasi “eclissarsi”), così che la narrazione procede dallo scaturire degli avvenimenti e al lettore è lasciato il compito di decifrarne il senso. L’adozione dell’impersonalità comporta un netto allontanamento dal narratore onnisciente – tipicamente ottocentesco (Manzoni, Balzac ecc.), portavoce della cultura e dell’ideologia dell’autore – che non solo fornisce informazioni sui luoghi e circostanze in cui avvengono le azioni (si confrontino il celebre attacco dei Promessi sposi e l’inizio dei Malavoglia), ma si arroga il diritto di interpretare la psicologia e gli stati d’animo dei personaggi. Regressione È un artificio narrativo per cui la narrazione, in particolare nei racconti e romanzi ambientati nel ceto popolare, è attribuita a una voce anonima, che non appartiene a nessun personaggio della storia, ma che con i personaggi condivide un punto di vista interno alla vicenda, quasi facesse parte della stessa collettività. Il narratore “regredisce” allo stesso livello socioculturale dei personaggi, parla la loro stessa lingua, condivide con essi persino la superstizione e l’ignoranza: ne è illuminante esempio, nella novella Rosso Malpelo, l’affermazione secondo cui il protagonista ha i capelli rossi perché è «un ragazzo malizioso e cattivo», affermazione che è attribuibile evidentemente non all’autore ma al narratore “regredito”. La tecnica della regressione è descritta dallo stesso Verga nella novella Fantasticheria: «dobbiamo farci piccini anche noi», «chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle». Narratore popolare Conseguenza dell’artificio della regressione è la comparsa, nei testi verghiani d’ambiente popolare, di un narratore (individuale o collettivo) inferiore all’autore sul piano culturale e appartenente al mondo dei personaggi. Il racconto, in questo modo, pare «raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare» (prefazione all’Amante di Gramigna). Tipico del narratore popolare è l’uso di modi di dire, frasi proverbiali, riferimenti a

eventi passati del paese, paragoni tratti dal mondo contadino o animale. Spesso, per riprodurre la sintassi semplice e non sorvegliata del parlato dei personaggi, è utilizzata una paratassi ricca di che e di e, con anacoluti e legami sintattici deboli e in cui ritornano le stesse affermazioni ripetute più volte. Discorso indiretto libero È una particolare modalità narrativa, finalizzata a riprodurre con immediatezza il contenuto di discorsi o pensieri di un personaggio: un discorso indiretto senza esplicitazione (senza i verbi “dire, parlare” ecc.), che accoglie dentro di sé elementi, inserti e strutture grammaticali del discorso diretto (da qui la definizione di “discorso indiretto libero”). Nella novella Cavalleria rusticana, ad es., si legge «Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! Voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia!». Qui il narratore popolare si identifica col personaggio di Turiddu e utilizza, all’interno del discorso indiretto, un’espressione come “santo diavolone!” che, seppur priva della punteggiatura adeguata, ha le caratteristiche del discorso diretto. Straniamento È un procedimento che consiste nel mostrare un fenomeno o dei valori normali come strani (ma anche, viceversa, come normale ciò che non lo è) presentandoli da un’ottica diversa da quella comune. In Verga è conseguenza dell’espediente del narratore “regredito”, il cui punto di vista coincide con quello di una collettività in cui vigono le leggi elementari della natura, un’ottica elementare, sulla base delle quali si giudicano i comportamenti. La divaricazione tra il punto di vista del narratore e quello dell’autore impedisce il processo di identificazione tra il lettore e la narrazione inducendolo a un atteggiamento critico. Ad es. nei Malavoglia l’onestà dei protagonisti è presentata attraverso il punto di vista straniante dei loro compaesani, che giudicano tutto in base ai criteri dell’interesse economico e dei rapporti di forza. Ciò che è “normale” per chi crede nei valori morali tradizionali, che si suppongono condivisi dall’autore e dal lettore (come non voler mandare il nonno a morire nella solitudine dell’ospedale), è presentato come “strano” dalla voce narrante, e viceversa.

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alla loro passionalità devastante si contrapponevano i valori della famiglia e degli affetti di alcuni personaggi minori. Insomma: la presenza di una serie di costanti psicologiche, morali e culturali, che troveranno la loro più compiuta e persuasiva espressione nei romanzi del ciclo dei Vinti, consente di vedere tra le due fasi alcuni elementi di continuità.

Una visione della vita pessimistica e fatalistica Una concezione non ottimista La visione della realtà umana maturata da Verga negli anni Settanta (e che è sottesa alle sue opere principali) si fonda su una riflessione critica relativa ai rivolgimenti economici, sociali e politici di un’Italia in cui si sta avviando il processo di industrializzazione e sull’adesione al positivismo materialista: in Verga è totalmente assente ogni forma di consolazione religiosa. D’altra parte però, a differenza di Zola, Verga non ha assolutamente fiducia che la scienza e l’azione socio-politica possano produrre effettivi miglioramenti nella società. Quella di Verga è infatti una concezione marcatamente pessimistica, fatalista, in cui la realtà è vista come tragicamente immobile e regolata in modo esclusivo dalle leggi “naturali” dell’egoismo e della lotta per la sopravvivenza. Se il progresso, visto da lontano, sembra portare a un risultato «grandioso», nella realtà non è che il risultato di una spietata dinamica di «irrequietudini», «avidità», «egoismo», «passioni», «vizi che si trasformano in virtù» (Prefazione ai Malavoglia ➜ D3 ) Poiché l’egoismo umano e la legge del più forte sono princìpi naturali e universali in una società dove vige la guerra di tutti contro tutti, è vano opporvisi, inutile tentare di modificare la realtà. Il pessimismo verghiano è enunciato forse nella maniera più radicale dal lucidissimo protagonista della novella Rosso Malpelo, quando afferma che l’asino «va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi»; e addirittura (con una sentenza di sapore quasi leopardiano), di fronte alla carcassa dell’asino morto che finalmente non soffre più, sostiene che «se non fosse mai nato sarebbe stato meglio». La demistificazione del mito del progresso L’impossibilità di un vero progresso all’interno della storia è il principio su cui si basa il ciclo dei Vinti, ovvero un progetto di cinque romanzi (di cui Verga concluse solo i primi due, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo) impostati sulla lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e l’affermazione sociale di personaggi appartenenti a tutte le classi. Tale lotta è costellata di difficoltà, brevi successi, delusioni, e culmina in un’inesorabile sconfitta, come mostrano le vicende emblematiche di ’Ntoni Malavoglia e di Gesualdo Motta (da qui il titolo scelto da Verga per il ciclo: i Vinti).

Arnaldo Ferraguti, Alla vanga, 1890 (Pallanza, Museo del paesaggio).

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Nonostante ciò, nelle novelle di Vita dei campi, così come nei Malavoglia, sono ancora presenti alcuni valori positivi come la famiglia, il lavoro, la casa, seppure la difesa di questi si riveli in realtà spesso dolorosa e fallimentare. L’attaccamento a queste tradizioni, al proprio ambiente, alle convinzioni che furono delle generazioni precedenti (l’“ideale dell’ostrica” di cui si parla nella novella Fantasticheria), per Verga è l’unico modo che i deboli hanno per contrastare la modernità divoratrice del progresso. Come un’ostrica, che vive al sicuro attaccata allo scoglio in cui è nata, così la povera gente può vivere meglio se aggrappata alle proprie radici, il più possibile al riparo dalla ferocia dei mutamenti storici ed economici. Intorno a quegli antichi valori radicati si fondano spesso le piccole comunità analizzate e descritte da Verga, come quella di Aci Trezza. D’altra parte, anche in queste sono presenti disvalori, grettezza, egoismo (Verga è lungi dal farne un ritratto idilliaco). Il punto di vista del narratore popolare (➜ Le parole chiave della poetica verghiana, PAG. 209), calato al pari degli altri personaggi in questi ambienti, appare perciò a volte disorientato, oscillante tra bontà e cattiveria.

PER APPROFONDIRE

Il ciclo dei vinti I Malavoglia

Rappresenta le classi sociali più umili

Mastro-don Gesualdo

Indaga la società piccolo-borghese di provincia

La duchessa di Leyra

Ritrae la vanità aristocratica

L’onorevole Scipioni

Rappresenta l’ambizione politica

L’uomo di lusso

Opera una sintesi di tutte le ambizioni e vanità

Verismo vs Naturalismo: Verga e Zola a confronto Pur partendo entrambi dagli assunti del naturalismo – l’indagine sperimentale, l’osservazione rigorosa delle passioni umane, il determinismo evoluzionistico, la tecnica dell’impersonalità, ci sono indubbie differenze tra Verga e Zola, soprattutto da un punto di vista ideologico. Proviamo a schematizzarle. • L’interesse di Zola per i ceti proletari e le periferie industriali delle grandi città è sostituito dall’autore siciliano con quello prevalente per le popolazioni contadine, legate alla terra e alle tradizioni regionali e linguisticamente dialettali della nostra penisola. • L’ottimismo positivista porta il caposcuola dei naturalisti a credere nel progresso sociale e a opporre all’individualismo borghese e capitalista la fiducia in un ideale democratico che dovrebbe portare con sé i valori della solidarietà. In Verga invece la visione della storia, che non può essere determinata dall’uomo, è immutabile e un nuovo assetto della società, mosso da idee politiche progressiste, è semplicemente impensabile (si veda la novella Libertà (➜ T10 ); o nei Malavoglia l’episodio di ’Ntoni che presta orecchio alle idee socialiste professate dallo speziale solo perché, a giudizio del nonno, non ha voglia di lavorare, senza per questo smettere la solita vita da perdigiorno). • Alla figura dell’intellettuale engagé (“militante”) che crede di

poter intervenire attraverso la letteratura sulla realtà presente per migliorarla (emblematico l’intervento di Zola nel caso Dreyfus ➜ PER APPROFONDIRE, Il caso Dreyfus e il coraggioso articolo di Zola, C5), Verga oppone nelle sue opere un senso di impotenza e un rassegnato fatalismo in cui la funzione dell’artista sembra essere quella di rappresentare la sconfitta. • Verga concorda con De Sanctis e Capuana nel ridimensionare la componente scientifica del naturalismo e nell’attribuire minor importanza, rispetto a Zola, alle leggi dell’ereditarietà nella descrizione dei comportamenti umani. Pone invece l’accento soprattutto sulla selezione naturale dovuta alla spietata lotta per la vita (“darwinismo sociale”): contrariamente ai francesi, egli infatti non ha alcuna fiducia nella possibilità che il progresso porti a un vero miglioramento nella vita dell’uomo. Alla base di queste concezioni differenti (oltre alle inclinazioni personali) stanno due situazioni storiche e sociali completamente diverse: infatti la Francia, negli ultimi decenni del secolo, aveva visto un grande sviluppo economico di carattere capitalistico che in Italia era ancora ai primi passi ed esclusivamente in area settentrionale; l’affermazione della classe borghese francese aveva portato di conseguenza alla crescita di un pubblico più attento e consapevole, di cui l’autore si fa interprete e guida.

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Verga e Zola a confronto Verga

Zola

ambientazione dei romanzi

campagna siciliana

città industriali francesi

cause prevalenti delle azioni umane

leggi economiche, lotta per la vita

ereditarietà

visione della storia

immobilismo, fatalismo

ruolo dell’intellettuale

scarsamente incidente

progressismo

D2

attivo e influente nella società

Dichiarazioni teoriche Nei due brani proposti, Verga esplicita la poetica verista dell’impersonalità e della “regressione” insieme ad altre teorie fondamentali per comprendere le sue opere.

Giovanni Verga

D2a

L’“eclissi” dell’autore Prefazione a L’amante di Gramigna

G. Verga, Tutte le novelle, a c. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 2001

La Prefazione alla novella L’amante di Gramigna è una dichiarazione di poetica verista: è strutturata in forma di lettera a Salvatore Farina, scrittore milanese, direttore della «Rivista minima di scienze, lettere ed arte» su cui uscì la novella nel 1880 prima di essere inserita nella raccolta Vita dei campi (pubblicata nello stesso anno).

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a 5 poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso 10 processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi ti dirò soltanto il punto 15 di partenza e quello d’arrivo, e per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo; sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, del risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario di esso, ridotto meno

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20 imprevisto, meno drammatico, ma non meno fatale1; siamo più modesti, se non

più umili; ma le conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno un fatto meno utile all’arte dell’avvenire2. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà 25 talmente e così generalmente tutte le risorse dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi3? Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle 30 passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di con35 tatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat creatore; ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia 40 avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale. 1 Noi rifacciamo… non meno fatale: l’autore si riferisce qui alle modalità con cui la tecnica verista affronta il processo artistico. L’introspezione psicologica dei personaggi non è più frutto della libera fantasia dell’autore, ma si affida a un’obiettività e a un rigore derivati dalla scienza positivista,

dallo studio imparziale e puntuale delle dinamiche sociali e psicologiche. 2 ma le conquiste… dell’avvenire: il nuovo compito di un autore dunque non risiede tanto nella sua capacità di intuire le grandi verità del cuore umano, quanto nella sua adesione al metodo verista, che

aiuterà la sua arte a descrivere meglio la realtà. 3 fatti diversi: espressione che riprende il franc. faits divers, titolo di una rubrica giornalistica corrispondente al nostro “fatti di cronaca”.

Concetti chiave Un testo programmatico

In questa Prefazione, Verga esprime i nuclei fondamentali della poetica verista, utilizzando termini derivati dal naturalismo francese e parole chiave che ritroveremo analizzando la sua opera. Ne sottolineiamo i concetti fondamentali: • Il contenuto del racconto è un “documento umano”. La novella L’amante di Gramigna tratta di una cupa vicenda passionale: la funesta fascinazione che una ragazza subisce da parte di un noto bandito, soprannominato dal popolino Gramigna, appunto come l’erba infestante. Verga dichiara all’amico Farina che, leggendo, ritroverà il «fatto nudo e schietto», non osservato «attraverso la lente dello scrittore». Alla fine della prefazione Verga sostiene che l’autore moderno deve avere il coraggio di «eclissarsi e sparire» enunciando con particolare chiarezza la poetica dell’impersonalità. • Per quanto riguarda lo stile, il linguaggio utilizzato nella narrazione è quello di un narratore popolare: è a questa importante scelta che Verga intende alludere quando dichiara: «Io te lo ripeterò come l’ho raccolto pei viottoli dei campi». Come Verga ripeterà spesso nei suoi interventi teorici, la veste formale deve essere infatti congruente al contenuto della narrazione. • La narrativa verista rinuncia ai colpi di scena e agli artifici romanzeschi, di cui Verga stesso si era servito nei suoi romanzi precedenti (passioni dirompenti, duelli, malattie, bancarotte ecc.). L’«effetto della catastrofe» non è più ricercato («sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe»), mentre la descrizione dei meccanismi psicologici diventa più precisa in modo che il lettore ritrovi una conseguenza logica nei comportamenti degli uomini. • Quando l’autore parla di «scienza del cuore umano» e di «studio delle passioni», nel testo fa esplicito riferimento alle concezioni del positivismo, che riteneva possibile studiare i comportamenti e la psicologia dell’uomo nello stesso modo deterministico con cui si affrontava lo studio della natura (le cosiddette “scienze esatte”).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa intende dire Verga quando parla di rifare il processo artistico in una maniera più aderente alla realtà, di renderlo «più minuzioso» ma anche «meno imprevisto, meno drammatico»? ANALISI 2. Rintraccia nel testo e spiega le espressioni programmatiche della poetica di Verga e del Verismo. LESSICO 3. Individua nel testo i termini derivati dal Naturalismo francese e spiegane la funzione in rapporto al contesto. Quali sono i nessi più significativi?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di max 3 minuti, spiega a che cosa si riferisce lo scrittore siciliano quando afferma che «l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».

online D2b Giovanni Verga La lotta per la vita Lettera del 21 aprile 1878 a Salvatore Paola Verdura

Giovanni Verga

D3

Una novella “manifesto” tra ideologia e poetica: Fantasticheria Vita dei campi

G. Verga, Tutte le novelle, a c. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 2001

Prima novella di Vita dei campi (1880), Fantasticheria è il manifesto ideologico e letterario della “poetica della regressione” che Verga metterà in atto nella raccolta. Importante è anche l’anticipazione che viene fatta dell’ambiente e dei personaggi che caratterizzeranno I Malavoglia; forse, addirittura, in funzione di testo giustificativo, dal momento che vari critici ritengono che la prima redazione del romanzo sia stata completata prima della stesura della novella.

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiù!». Noi vi ritornammo e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani1 che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci 5 sareste rimasta un par d’anni! La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo 10 nella polvere della strada e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi; e l’alba ci sorprese nell’alto del fariglione2, un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli 1 terrazzani: paesani. 2 fariglione: o faraglione, masso roccioso prospiciente le coste, isolato o vicino ad altri, cui è talora collegato da archi naturali.

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occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo; raccolta come una carezza su quel gruppetto di casuccie che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, e in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e profondo, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che ci metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. – Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto 20 apposta per intonare coi colori dell’alba. – Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapevate anche voi dal modo col quale vi modellavate nel vostro scialletto, e sorridevate coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina mentre contemplavate il sole nascente? Gli domandavate forse in qual altro 25 emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa viver qui tutta la vita». Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani 30 per ammirazione. Così poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così – per voi, e per tutti gli 35 altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori; «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga»3, i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, 40 o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato; in quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso4, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo. Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata5, la burrasca, vengono a dare una 45 buona spazzata in quel brulicame6, il quale si crederebbe che non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia 50 del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino7, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico o di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, 55 chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta len15

3 «gente di toga»: coloro che, come gli avvocati o i magistrati, indossano la toga per esercitare la professione.

4 come se… ingrasso: come se la miseria contribuisse all’incremento (delle nascite). 5 la malannata: la cattiva annata, la carestia.

6 brulicame: moltitudine (in senso proprio, “sciame di insetti”). 7 alla ghiera… ombrellino: al puntale di metallo del parasole.

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te, voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà. Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qual60 che pagina. Perché? à quoi bon8? come dite voi? Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina9 col pretesto di comperar le sue arancie messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespo65 lo10 del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio posto della guardia nazionale11; ed io girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com’è, vi aveva vista passare, bianca e superba. 70 Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove; forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella 75 donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante – sazia così da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro. Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, 80 così lontani da voi in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur ci ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio 85 pensiero siasi12 raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, – o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri13 – oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro. 90 Vi ricordate anche di quel vecchietto14 che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non aveva95 no altro difetto che di non saper capire i meschini guai15 che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.

8 à quoi bon: a che scopo (in francese). Nelle conversazioni fra persone di un certo ceto erano frequenti le espressioni in lingua straniera, al tempo soprattutto in francese. 9 quella povera… l’elemosina: il cenno prelude a una figura femminile dei Mala-

voglia (la Longa, forse). 10 il nespolo: è l’albero che cresce nel cortile della famiglia e da cui prende il nome la casa dei Malavoglia. 11 posto della guardia nazionale: posto di guardia della milizia civica per l’ordine pubblico, la Guardia nazionale, costituita

da privati cittadini, istituita allo scopo di combattere il brigantaggio. 12 siasi: si sia. 13 febbri: passioni. 14 quel vecchietto: è padron ’Ntoni. 15 meschini guai: poveri lamenti.

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Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando16 come fanno 100 i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna17 della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in 105 quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche. La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella 110 ragazza18, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo19 alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi oc115 chi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi avea soffiato sopra – un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria: «nei 120 guai!» come dicono laggiù20. Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno21, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame22, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera23. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso se gli fissavate in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon 125 marinaio, sulla verga di trinchetto24, fermo al sartiame25, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano. L’altro26, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il 130 lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio. 16 guaiolando: gemendo (con un lamento simile al guaire dei cani). 17 pedagna: asse all’interno dello scafo di una barca dove il marinaio appoggia i piedi mentre rema. 18 Quella ragazza: Mena Malavoglia. 19 viso notissimo: è quello di un suo ammiratore, Alfio Mosca, che abitava di fronte (di faccia). 20 E il riso… laggiù: sono qui accennate brevemente le principali vicende della famiglia Malavoglia che andranno poi a comporre la trama del romanzo omonimo.

21 a Lissa l’uno: Luca, morto nella battaglia navale di Lissa del 1866. 22 David di rame: allude alla statua bronzea (di rame per il colorito della pelle abbronzata) del David di Donatello. 23 ritto… ellera: il giovane pescatore è raffigurato con la fiocina impugnata; e, come la statua è coronata di edera (ellera), simbolo degli eroi, anch’egli sembrava improvvisamente investito dell’alone di gloria luminosa che li circonda. 24 verga di trinchetto: pennone dell’albero che si trova a prua, ovvero più avanti

rispetto all’albero principale di una nave, l’albero di maestra. 25 sartiame: insieme delle corde che reggono gli alberi della nave. 26 L’altro: si tratta di Bastianazzo, morto durante una tempesta sulla barca di famiglia, con il suo carico di lupini. 27 «mangiano il pane del re»: espressione popolare che allude alla detenzione nelle prigioni del regno. Il giovane ’Ntoni era carcerato a Pantelleria.

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Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re»27, come quel pove135 retto che è rimasto a Pantelleria, e quell’altro pane che mangia la sorella28, e non vanno attorno come la donna delle arancie, a viver della grazia di Dio; una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! Lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a 140 succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, e sgattaiolando nella corte andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartaccie, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E dicendo che quelli là almeno non avevano più bisogno 145 di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire al povero vecchio. Ora rimangono quei monellucci29 che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie; rimangono a ronzare attorno alla mendica30, a brancicarle le vesti31 150 come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, buccie d’arancie e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via ma che pure devono avere ancora qualche valore, perché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come 155 il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro; e se vorranno fare qualche cosa diversamente da lui, sarà di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la 160 buona gente che se ne va. – Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa 165 rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora32 – cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi 170 e inalterati di generazione in generazione. – Parmi che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, 175 nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della

28 quell’altro… sorella: il “pane” di cui si nutre Lia, sorella di ’Ntoni, è invece il guadagno del suo mestiere di prostituta. 29 quei monellucci: sono i figli di Alessi

(a sua volta figlio di Bastianazzo) e della Nunziata (una sua cugina). 30 alla mendica: mendicante (cfr. nota 9). 31 brancicarle le vesti: tastarle, toccarle le

vesti per vedere se nascondono qualcosa da mangiare. 32 pel quarto d’ora: per poco, solo in questo momento.

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vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle stac180 carsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto33, o per brama di meglio34, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. – E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio. 33 per vaghezza dell’ignoto: perché attratto dall’ignoto.

34 per brama di meglio: perché desideroso di migliorare.

Concetti chiave Contrapposizione tra realtà cittadina e mondana e universo popolare arcaico

Tutta la novella è basata sull’opposizione fra la vita cittadina frivola e dissipata – da cui però proviene lo stesso autore oltre alla sua interlocutrice – e il mondo degli abitanti del piccolo paese di pescatori, un mondo immutabile e quindi noioso per chi è abituato all’altro, faticoso in maniera incomprensibile, tragico. La superficialità della donna è subito messa in evidenza: il suo primo desiderio di trascorrere un mese nel paese, dopo due giorni si è già tramutato in stanchezza e impazienza. La bellezza, la raffinatezza e l’irrequietezza dell’interlocutrice di Verga, che ha sempre bisogno di nuove esperienze e di nuove mete («tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli»), sono continuamente sottolineate, e spesso ironicamente, in contrapposizione alla miseria ma anche alla costanza dei desideri della gente umile («morire in quel cantuccio nero vicino al focolare»). L’incomprensione tra i due mondi è reciproca: se la donna si chiede: «Non capisco come si possa viver qui tutta la vita», dal numero dei suoi bauli i terrazzani pensano che si sarebbe fermata almeno due anni e nemmeno osano guardare né sfiorare la rappresentante del bel mondo.

La struttura della novella

L’autore dedica la prima parte del racconto alla descrizione del punto di vista dell’amica e del suo incontro con il mondo di Aci Trezza. Poi, a partire dalla risposta alla sua incomprensione («Eppure, vedete...»), introduce la realtà degli umili, fatta di fame, malattie, soggetta alle forze della natura («la malannata, la burrasca»). Restringendo ancora di più il campo di osservazione, passa a descrivere alcuni personaggi del paese, a cui non viene attribuito un nome, ma che si riveleranno essere i membri della famiglia Malavoglia. In questa parte ricorrono i verbi “rammentare” e “ricordare” e il sostantivo ricordi: sembra che Verga si stia sforzando di recuperare attraverso la memoria il mondo della sua giovinezza, verso cui ha un atteggiamento d’intensa partecipazione (anche se a volte risulta un po’ compassionevole). Il punto culminante è la descrizione della morte di padron ’Ntoni in ospedale con la ripetizione dell’aggettivo bianco («in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore») che rende il luogo asettico ed estraneo a chi avrebbe voluto morire nel suo «cantuccio nero vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia». Infine, nell’ultima sezione, a partire ancora da un’ipotetica osservazione della donna («Insomma l’ideale dell’ostrica!») ritornano le riflessioni dell’autore che trova nella «rassegnazione coraggiosa» e nella «religione della famiglia» motivi serissimi in grado di dare un senso alla vita: è questo il momento in cui ostenta maggior lontananza dal mondo delle feste, dei teatri e delle occasioni mondane. A questo punto egli potrebbe veder passare la giovane in carrozza senza provare alcun turbamento e, anzi, se ora la sua attenzione si rivolge ai piccoli drammi della gente umile, forse è proprio perché ha trovato in loro quello che ha «cercato troppo e invano di scorgere […] nel turbine» che circonda la sua amica e interlocutrice.

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Un testo metaletterario

La novella è importante più per il suo contenuto di poetica e per la rappresentazione della visione del mondo di Verga che per i risultati artistici raggiunti dallo scrittore. Non a caso è inserita come prima nella raccolta Vita dei campi, a mo’ di prologo: si tratta di un testo fondamentale per più aspetti. Illustra infatti la complessità del rapporto di Verga con il mondo popolare: da una parte c’è un sentimento di nostalgia verso quello che sembra essere l’unico luogo di pace possibile, ma dall’altra esso viene visto comunque da una posizione di superiorità – ovvero al di qua della lente del microscopio – e come una sorta di sogno fantastico che l’autore sa bene essere molto diverso dalla propria realtà. Definita da Sciascia «la più vera e profonda dichiarazione di poetica che Verga abbia mai fatto», Fantasticheria enuncia inoltre in modo chiaro (per ora solo a livello teorico) l’artificio della regressione, la necessità di uno sguardo “scientifico” sulla realtà e di una lontananza che permetta allo scrittore di rievocarla. Da un punto di vista stilistico però non abbiamo in questa novella l’“eclissi” dell’autore, le cui opinioni sono rivelate dai numerosi aggettivi valutativi o diminutivi con funzione a volte ironica e a volte affettiva. L’idea di una narrazione basata sull’indagine scientifica della realtà è rappresentata dall’immagine dello sguardo al microscopio; mentre l’idea della necessità di una regressione per osservare i fatti dal punto di vista dei personaggi che li vivono è affidata all’osservazione dell’esercito di formiche e della loro disperata lotta per la vita. Nella celeberrima immagine dell’ostrica, che vive solo se rimane attaccata allo scoglio, è presente la visione pessimistica di Verga che ritiene impossibile e sconsiderato qualsiasi tentativo di cambiamento del proprio stato e immagina che chi si allontana dalle proprie origini inevitabilmente venga travolto dalla marea del progresso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della novella (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. In cosa consiste l’“ideale dell’ostrica”? ANALISI 3. La contrapposizione tra la frivolezza della signora borghese e la tragicità e l’eroismo dei personaggi del mondo popolare è sottolineata in numerosi passi, sottilmente ironici, sugli interessi e i comportamenti della donna: individuali nel testo e analizzali. STILE 4. Ricerca gli elementi stilistici e linguistici che denotano la presenza del narratore esterno (ad esempio aggettivi valutativi come povero diavolo o diminutivi come casuccie). 5. Rintraccia nella novella le espressioni popolari o proverbiali utilizzate e spiegane la funzione in rapporto al contesto.

Interpretare

SCRITTURA 6. In che modo l’autore e la donna guardano al mondo degli umili? Hanno la stessa visione o no? In che cosa consiste, secondo Verga, l’estrema difficoltà, o addirittura l’impossibilità di comunicare fra i due mondi rappresentati nella novella? Rispondi in un testo di max 15 righe. ESPOSIZIONE ORALE 7. Analizza con attenzione le due immagini zoomorfe: a. eroismo e solidarietà delle formiche; b. immobilità e fissità delle ostriche. In un intervento orale di max 3 minuti, illustra il loro significato rispetto alla concezione che Verga ha della società umana.

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Giovanni Verga

D4

La presentazione del Ciclo dei vinti e il tema del progresso

EDUCAZIONE CIVICA

I Malavoglia, Prefazione G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

Ai Malavoglia, Verga premette una Prefazione che illustra il progetto dell’intero ciclo di romanzi, in tutto cinque, che si propone di scrivere. Lo scrittore enuncia aspetti connessi alla tecnica dell’impersonalità, ma soprattutto espone la sua visione relativa al tema del progresso.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato1 del come probabilmente devono nascere e svilupparsi, nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere2; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si 5 sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno sem10 plice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città 15 di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che 20 la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della 25 parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto3, quanto ogni parte del soggetto stesso 30 è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella

1 studio sincero e spassionato: Verga, sin da subito, sottolinea il carattere imparziale (spassionato) e scientifico (studio) della sua opera.

2 irrequietudini pel benessere: turbamenti provocati dalla speranza di miglioramento della propria condizione economica e sociale.

3 la forma è inerente al soggetto: la forma è legata al tema che viene trattato e deve, quindi, adattarsi alla storia e all’ambientazione.

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luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che 35 aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario4 copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate 40 ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per 45 finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo 50 averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate5 del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri 55 uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza 60 passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere. Milano, 19 gennaio 1881 4 il risultato umanitario: l’effetto sul complessivo miglioramento delle condizioni umane.

5 stimate: stigmate o stimmate, in senso figurato segni dolorosi.

Concetti chiave La prima parte della Prefazione

Verga pone già in primo piano il tema che accomunerà i romanzi del ciclo: la ricerca del miglioramento, che produce «la fiumana del progresso». Nei Malavoglia, dato il contesto in cui il romanzo è ambientato, la ricerca del progresso è vista «nelle proporzioni più modeste e materiali», nei romanzi successivi in cui si rappresentano realtà sociali diverse dal popolo, il tema si trasforma inevitabilmente, e «il congegno delle passioni va complicandosi». Il compito di uno scrittore che voglia definirsi realista si fa più impegnativo: importante è la consapevolezza di Verga che «la forma» è «inerente al soggetto» e perciò lo scrittore deve individuare gli strumenti più adatti alla rappresentazione di quello specifico soggetto.

La seconda parte della Prefazione

Qui Verga illustra la concezione verghiana del progresso e contiene osservazioni molto importanti per comprendere l’ideologia verghiana e la distanza di essa dalle posizioni del naturalismo francese.

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Lo scrittore distingue la prospettiva di chi, come il sociologo o il filosofo, guarda da lontano il progresso, da un osservatore (lo scrittore) che lo guarda da vicino, vedendone i costi in termini di sofferenza umana. Se da lontano il progresso non può non apparire trionfale, grandioso nella sua vittoriosa avanzata, da vicino emergono soprattutto i “deboli”, i “vinti”, sopraffatti da chi è più forte (non a caso, dunque, il ciclo sarà intitolato “I vinti”). Dalla rappresentazione dello scrittore si deduce una visione sostanzialmente pessimistica del progresso, una “marea” che depone sulla riva, «dopo averli travolti e annegati», i vinti. Significativa è poi la conclusione della Prefazione: il fatto che lo scrittore osservi la storia dalla parte dei vinti non implica il diritto a formulare giudizi (e men che meno, si può immaginare, a fornire una rappresentazione patetico-sentimentale); Verga ribadisce la necessità, per chi scrive, di una rappresentazione oggettiva, distaccata, che corrisponde a uno studio scientifico spassionato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi sono i vinti? 2. A cosa si riferisce Verga quando parla di «vaga bramosia dell’ignoto»? STILE 3. Come potresti definire lo stile che utilizza Verga per presentare le sue finalità letterarie?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto la Prefazione all’Amante di Gramigna (➜ D2a ) con la Prefazione ai Malavoglia. SCRITTURA 5. Verga associa la ricerca del benessere alle irrequietudini e ritiene che chi aspira a un miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali sia destinato inesorabilmente al fallimento. Come giudichi la posizione conservatrice di Verga, che sembra negare qualsiasi possibilità di mobilità sociale nell’Italia di fine Ottocento? Ti sembra che oggi le osservazioni dello scrittore siciliano possano ancora rispecchiare, in alcuni contesti, la società italiana? Rispondi in un testo di max 15 righe.

Luigi Di Giovanni, Pescatori di Sferracavallo, 1892 (Palermo, Galleria d’arte moderna).

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La nascita di un grande novelliere: Vita dei campi 1 La lunga fedeltà a un genere: Verga e la novella La narrazione breve Nel secondo Ottocento, con i racconti degli scapigliati e poi dei veristi, anche in Italia si afferma il genere della moderna narrazione breve, che in Europa, ad esempio con Maupassant, stava conoscendo uno straordinario sviluppo. Nel decennio più creativo e riuscito della sua attività di scrittore (1880-89), oltre ai due romanzi, Verga scrive un gran numero di novelle, inserite in varie raccolte (in tutto otto). Inizialmente la scelta di scrivere brevi racconti da pubblicare su riviste è dettata da motivi economici e l’autore non sembra puntarvi troppo sul piano artistico. L’accoglienza entusiastica del pubblico e dei critici per la novella Nedda (1874) lo induce però a proseguire su questa strada e già nel 1876 mette insieme la raccolta Primavera e altri racconti. A partire da questi anni la narrazione breve diventerà il banco di prova per le sperimentazioni stilistiche e tematiche dell’autore, in un continuo intreccio con la scrittura dei romanzi. Senza dubbio numerose affinità collegano infatti le ambientazioni e il linguaggio della raccolta Vita dei campi (1880) alla stesura dei Malavoglia, così come accade anche tra le Novelle rusticane (1883) e il Mastro-don Gesualdo.

Plinio Nomellini, Il fienaiolo, 1888 (Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori).

Un quadro realistico di tutte le classi sociali È importante precisare che la sperimentazione di Verga nel campo novellistico (come del resto nei romanzi) non si limita alla descrizione del mondo popolare e contadino siciliano; anzi, negli intenti dell’autore queste opere sarebbero state solo una tappa, per giungere a rappresentare in modo realistico altri contesti (ad esempio i racconti di Per le vie, 1883, sono ambientati a Milano) e altre categorie sociali (ad esempio nella raccolta I ricordi del capitano d’Arce, del 1891, l’autore torna alle donne e agli uomini del “bel mondo” già descritti nelle sue prime prove narrative, ma con più raffinati strumenti letterari). Non bisogna dimenticare dunque che, se anche il pubblico – e la critica – hanno premiato quasi soltanto la narrativa meridionalistica di Verga, il suo universo rappresentativo è decisamente più ricco e complesso. Le tecniche narrative sono messe alla prova, affinate e via via adattate alle diverse circostanze e realtà sociali che l’autore vuole descrivere, così come si era proposto di fare nel suo progettato ciclo di romanzi. Rimane stabile nel tempo la prospettiva realistica, ma, col passare degli anni, diventa sempre più negativa la percezione che l’autore ha della realtà sociale, in cui vede esprimersi unicamente l’egoismo della lotta per la sopravvivenza all’interno di rapporti degradati e falsi. Verga scrive il suo ultimo racconto nel 1919 (Una capanna e il tuo cuore, pubblicato postumo nel 1922), non cessando fino alla fine di mettere alla prova le potenzialità del genere novellistico che vede così, anche in Italia, incrementare la sua fortuna.

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La sperimentazione parziale di Nedda Nedda è un bozzetto ambientato nel mondo contadino siciliano: narra la dura e infelice vita di una raccoglitrice di olive che vede morire il marito, la madre e il figlio di pochi mesi a causa dell’estrema povertà. La scelta dell’argomento costituisce certamente un’importante novità rispetto alla precedente produzione mondana dell’autore, ma da un punto di vista narrativo oggi si considera Nedda «piuttosto alla fine di un vecchio periodo che all’inizio di un nuovo» (Luperini). Verga sollecita, infatti, l’adesione sentimentale e filantropica del pubblico di sempre, che aveva decretato il successo dei suoi romanzi mondani e il narratore gioca esplicitamente sul tasto del patetismo (è stata notata ad esempio la sovrabbondanza di diminutivi o di aggettivi valutativi). La forte presenza della prospettiva moraleculturale dell’autore rende Nedda un testo ancora lontano dall’adozione della prospettiva verista e del canone dell’impersonalità che ne costituisce il centro.

2 Vita dei campi

La campagna meridionale a metà Ottocento nel dipinto di Michele Cammarano, Ozio e lavoro, 1863 circa (Napoli, Museo di Capodimonte).

L’inizio della stagione verista La stagione verista si apre con lo straordinario racconto Rosso Malpelo (1878), che presenta molti degli elementi caratteristici di questo nuovo stile letterario. L’ideazione dei racconti che entreranno a far parte di Vita dei campi doveva essere iniziata già nel 1875, come risulta da alcune lettere di Verga agli editori, ed è sostanzialmente contemporanea a quella dei Malavoglia, con cui condivide l’ambientazione siciliana e l’applicazione delle nuove tecniche narrative. Alcune novelle testimoniano uno stretto rapporto con il romanzo: Cavalleria rusticana trae origine dal bozzetto marinaresco Padron ’Ntoni; nella novella Fantasticheria sono delineati i principali personaggi dei Malavoglia e l’ideologia sottesa al “ciclo dei Vinti”. Il volume Vita dei campi è pubblicato dall’editore Treves di Milano nel 1880 e raccoglie otto novelle, tutte precedentemente uscite in diverse riviste tra l’agosto 1878 e il luglio 1880: Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia. I protagonisti sono contadini, pastori, minatori siciliani che si muovono in una campagna arcaica in cui domina il latifondo e che non ha, in genere, nulla di idillico e nostalgico, come a prima vista il titolo potrebbe far pensare. Il libro ottiene il favore del pubblico e della critica: esaurito in pochi mesi, è ristampato nella primavera del 1881 con l’aggiunta in coda del racconto Il come, il quando e il perché per volere di Treves, ma con il parere contrario dell’autore.

I temi L’amore distruttivo Tema portante di molte novelle di Vita dei campi è l’amore, che i personaggi vivono quasi sempre come passione travolgente, a cui non riescono a sottrarsi, e che, a causa di una gelosia esasperata, spesso conduce a esiti tragici: così in Cavalleria rusticana (➜ T2 OL), La Lupa (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 308), Jeli il pastore, L’amante di Gramigna, ma anche in Pentolaccia e Guerra di Santi, dove però la

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vicenda ha un risvolto umoristico. In diverse circostanze – come per Jeli il pastore e Cavalleria rusticana – il tema si intreccia con quello economico, perché la donna tradisce l’amore a favore della ricchezza e del benessere. In ogni caso chi attenta all’ordine familiare viene sempre sconfitto, ucciso o emarginato. Intensa e particolare nella scelta della protagonista è la novella La Lupa, tutta incentrata sulla figura di una donna-madre che turba l’ordine sociale e sembra anticipare le figure femminili seducenti e perverse del decadentismo (➜ C9). Il soprannome di “lupa” indica la sua insaziabilità nel desiderare gli uomini, che la porta addirittura a far sposare la figlia Maricchia con un giovane, Nanni, di cui si è invaghita. Incurante della disapprovazione della collettività e del dolore della figlia, essa continua a tentare Nanni il quale non riesce a resistere alla forza seduttiva della sua sensualità. L’esasperazione porterà il giovane a uccidere la donna, senza che lei opponga resistenza. L’isolamento del “diverso” Altro argomento che sta a cuore al Verga di Vita dei campi è il tema dell’emarginazione e della “diversità”: l’isolamento dei personaggi è dovuto alla loro fedeltà a certi valori e alla sostanziale incomprensione delle leggi economiche che regolano i rapporti sociali (Jeli il pastore), al loro coraggio nello sfidare le convenzioni di una società quasi sempre ipocrita (La Lupa), alla società, in cui regnano i pregiudizi e gli uomini hanno sempre bisogno di capri espiatori e di deboli da schiacciare (Rosso Malpelo ➜ T1 ). Un tema, quello della “diversità”, che ha radici autobiografiche: Verga stesso si sente per certi aspetti un “diverso”, sia perché è un siciliano allontanatosi volontariamente dalla propria patria, ma mai del tutto a proprio agio negli ambienti mondani milanesi, sia perché è un artista, in una società in cui è ormai venuto meno il riconoscimento dell’importanza di questa figura. Come gli artisti, anche qualche personaggio verghiano (ad esempio lo straordinario Rosso Malpelo) è emarginato perché sembra comprendere e possedere il vero senso della vita. Carusi al lavoro nella zolfara in una fotografia del Parco minerario Floristella Grottacalda, in provincia di Enna.

Vita dei campi Vita dei campi 1880

Ambiente sociale e naturale (la campagna arcaica)

Dominano il tema economico e quello passionale

Per la prima volta compaiono le tecniche narrative veriste

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Giovanni Verga

T1

EDUCAZIONE CIVICA

Rosso Malpelo Vita dei campi

G. Verga, Tutte le novelle, a c. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 1996

È la prima novella propriamente verista di Verga, pubblicata su rivista nei primi di agosto 1878, ristampata in opuscolo nel 1880 e poi inserita nella raccolta Vita dei campi. Il racconto – come testimonia anche la sua seconda destinazione editoriale in realtà non voluta dall’autore – risente del dibattito politico sulle condizioni del lavoro minorile che in quel periodo coinvolgeva sia il Parlamento che l’opinione pubblica, grazie a importanti inchieste promosse dagli intellettuali meridionalisti. Verga, in questo momento, è vicino a una posizione di conservatorismo illuminato e ritiene importante affrontare i problemi e le ingiustizie sociali, rifiutando però posizioni di matrice socialista, per lui troppo radicali. Si riporta il testo nella prima redazione della raccolta del 1880, che documenta una fase essenziale nell’evoluzione narrativa di Verga.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo1, che prometteva di riescire2 un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena3 rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di 5 battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni4. Però il padrone della cava aveva confermato 10 che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo5, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi6, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico7. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio8 la loro minestra, 15 e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello9 fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni10, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo11, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante12 lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre 20 cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa13, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica14 per tutto Monserrato e la

1 Malpelo... cattivo: riferimento al proverbio siciliano “russu è malu pilu” (cfr. G. Pitrè, Proverbi siciliani, 1880). Ecco un primo esempio di regressione del narratore, che caratterizza il ragazzo come cattivo in base a una credenza popolare. 2 riescire: riuscire, diventare; cioè “da grande sarebbe diventato un fior di birbone”. 3 rena: sabbia. 4 la sorella maggiore... a scapaccioni: la sorella picchia preventivamente Malpelo, dandogli la ricevuta dei soldi sottratti, indipendentemente dal fatto che Malpelo li

abbia presi o no. L’espressione sottolinea amaramente come il comportamento malevolo nei confronti del ragazzo sia del tutto gratuito. 5 in coscienza... per Malpelo: qui il narratore assume il punto di vista del padrone della cava. 6 lo… piedi: lo prendevano a calci. Un’altra espressione ironica che mette in risalto il comportamento assurdo degli adulti nei confronti di Malpelo.

7 selvatico: l’aggettivo sottolinea che Malpelo viveva solo ed escluso, sia in famiglia che sul lavoro. 8 in crocchio: riuniti in cerchio. 9 corbello: cesto di vimini. 10 quel... giorni: Malpelo va via da casa con la provvista che deve durargli tutta la settimana. 11 motteggiandolo: prendendolo in giro. 12 soprastante: sorvegliante. 13 s’era fatta sposa: si era fidanzata. 14 bettonica: erba molto diffusa con proprietà medicinali.

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Carvana15, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu16, suo padre, era morto nella cava. 25 Era morto17 così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo18, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra19 di rena. Invece mastro Misciu sterrava20 da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione21 come mastro 30 Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare22 a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto23 di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi24 il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie25 cascassero sulle sue spalle, e così piccolo 35 com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: – Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre. Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto26, tuttoché27 fosse una buona bestia. Zio28 Mommu29 lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze30, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle cave, 40 e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato31. Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che32 l’avemaria33 era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio34. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, 45 non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava; – Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata35! – e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava 50 al pari di un arcolaio: ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto

15 Monserrato... Carvana: sobborghi di Catania (che oggi fanno parte della città). 16 mastro Misciu: con il termine mastro in Sicilia si indicavano gli artigiani e i manovali; Misciu è diminutivo di Domenico. 17 era morto… Era morto: il periodo precedente si chiude con le stesse parole con cui si apre il successivo. L’iterazione di elementi della frase è un espediente utilizzato frequentemente da Verga; in questo caso la “tecnica della ripresa” mette in relazione due sequenze narrative, passando dalla descrizione di Malpelo al tema della morte del padre. 18 lavoro… a cottimo: lavoro retribuito sulla base di quanto effettuato, a prescindere dal tempo impiegato (in questo caso

la retribuzione pattuita è molto bassa rispetto alle ore di lavoro necessarie). 19 carra: femminile plurale dialettale per “carri”; qui come unità di misura, indicante tutta la sabbia che poteva essere contenuta in un carro. 20 sterrava: scavava. 21 minchione: sciocco. 22 gabbare: imbrogliare, prendere in giro. 23 asino da basto: asino da soma, a cui riservare i carichi più pesanti. 24 buscarsi: guadagnarsi. 25 soperchierie: prepotenze, soprusi. 26 ci morì… letto: anche qui, come in precedenza (cfr. nota 17), vi è un esempio della tecnica della ripresa verghiana.

27 tuttoché: benché. 28 Zio: appellativo usato in Sicilia per una persona anziana, a prescindere da legami di parentela. 29 Mommu: diminutivo di Girolamo. 30 onze: monete del tempo. 31 se si sta… l’avvocato: espressione italianizzata di un proverbio siciliano. 32 che: che polivalente (traduce il ca che nel siciliano è usato appunto con più valenze; in questo contesto vale come “quando”). 33 l’avemaria: l’ora del tramonto. 34 fare la morte del sorcio: morire in trappola come i topi. 35 Nunziata: è la sorella di Malpelo.

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dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta, ed il lume si spense. Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un 60 trono, perch’era gran dilettante. Rossi rappresentava l’Amleto36, e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa37, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da 65 circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva almeno una settimana. Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina 70 e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia38! L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia39; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiac75 chierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla d’umano, e strillava: – Scavate! scavate qui! presto! – To’! – disse lo sciancato – è Malpelo! – Da dove è venuto fuori Malpelo? – Se tu non fossi stato Malpelo non te la saresti scappata, no! – Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che aveva il cuoio duro a mo’ dei gatti. Malpelo non rispondeva 80 nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati40, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un 85 cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo 90 padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli 55

36 l’ingegnere… Amleto: da appassionato (dilettante) di teatro l’ingegnere va alla rappresentazione dell’Amleto, interpretato da Ernesto Rossi, famoso attore del tempo. 37 comare Santa: la madre di Malpelo. 38 Il bell’affare di mastro Bestia: il nar-

ratore non esprime nessuna compassione per la vittima della frana, anzi dopo avere messo in evidenza i vantaggi di una sabbia «fina e ben bruciata» fa un commento ironico sulla scarsa avvedutezza di mastro Misciu.

39 Ofelia: personaggio femminile dell’Amleto; muore annegata. 40 invetrati: vitrei, sbarrati per la disperazione.

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voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: – Così creperai più presto! Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava 100 al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che 105 curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando 110 era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!». E una volta che passava il padrone accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarì41!». E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!». Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ra115 gazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo 120 pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: – To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di 125 difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici42: – Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! – Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare 130 gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora 135 confidava a Ranocchio: – L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi. Oppure: – Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso. 95

41 tarì: antica moneta siciliana.

42 il sangue… narici: sintomo della tubercolosi.

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Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. – La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo 145 mangiò a tradimento, perché era più forte di lui. Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo sgridava: – Taci pulcino! – e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: – Lasciami fare; io sono più forte di te. – Oppure gli dava la 150 sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: – Io ci sono avvezzo. Era avvezzo43 a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era 155 avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se 160 non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: – A che giova? Sono malpelo! – e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se 165 la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe 170 fatto scappare il suo damo44 se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare45 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio 175 per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese46, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi 180 dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati 140

43 avvezzo: abituato. 44 damo: fidanzato.

45 ruzzare: giocare correndo e saltando. 46 malarnese: persona trasandata e scontrosa.

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e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se 185 vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja47, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di 190 più, e se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, don195 dolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi48, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava 200 a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da 205 bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara49 nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, 210 o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio 215 come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una 220 parte e i piedi dall’altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa50. Egli andò a lavorare in un altro 47 Plaja: spiaggia del lungomare di Catania. 48 carrubbi: il carrubo è un albero sempreverde, spontaneo nel Mediterraneo; ha caratteristici frutti chiamati carrube,

grandi baccelli, di colore marrone scuro a maturazione, dalla polpa carnosa e zuccherina che indurisce col disseccamento. 49 la sciara: termine siciliano per indicare la lava vulcanica, che, pietrificata,

forma una crosta sul terreno. 50 gliela... zappa: discorso indiretto libero, è uno dei pochi casi in cui il narratore riporta un pensiero di Malpelo e non il punto di vista della comunità.

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punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. – Proprio 230 come suo figlio Malpelo! – ripeteva lo sciancato – ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là. – Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava della rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carcame, c’era che 235 il carcame era di carne battezzata51; e la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto. Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva 240 che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore 245 intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico 250 colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. – Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più si buttano lontano. – Ei andava a visitare il carcame52 del grigio in fondo 255 al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando53 260 sui greppi54 dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. – Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e 265 i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha 225

51 di carne battezzata: in corsivo, perché riportata dalla parlata siciliana.

52 carcame: carogna. 53 ustolando: guaendo, mugolando.

54 greppi: pendii scoscesi.

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avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche55, e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo 270 battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata a tutti denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un 275 uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva 280 udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. – Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà. Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, 285 e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – allora la sciara sembra più bella e desolata. – Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava 290 Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto. – La civetta strideva sulla sciara, e ramingava56 di qua e di là; ei pensava: – Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli. Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio 295 aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate. – Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti – gli diceva – e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali57, e i topi ci stanno 300 volentieri in compagnia dei morti. Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. – Chi te l’ha detto? – domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva 305 detto la mamma. Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga: – Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella. E dopo averci pensato su un po’: 310 – Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia.

55 guidalesche: piaghe causate dalle ferite provocate sulla pelle dai finimenti del basto.

56 ramingava: vagava. 57 topi vecchi con le ali: per credenza

popolare siciliana, i pipistrelli sono considerati topi invecchiati.

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Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io. Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di 315 febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro58 a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo 320 e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio 325 sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: – Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli del 330 vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo59 della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati 335 come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: – È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi! – E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. 340 Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il suo figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. 345 Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che60 da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare61 che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliu350 olo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta

58 non... duro: non sarebbe diventato abbastanza forte (non sarebbe sopravvissuto a lungo). Traduzione di un’espressione

dialettale. 59 ribrezzo: tremore. 60 mentre che: anche se.

61 almanaccare: pensare, immaginare.

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adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali62; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora 360 in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla. Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. 365 Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare 370 in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. – Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? – domandò Malpelo. – Perché non sono malpelo come te! – rispose lo sciancato. – Ma non temere, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa. 375 Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né 380 avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo per tutto l’oro del mondo. Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al 385 chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio 390 gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui. 395 Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel 62 Cifali: o Cibali, sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire oggi un quartiere di dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. Catania. 355

Alberto Rossi, I minatori, 1887 ca.

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Analisi del testo Il tema sociale del lavoro minorile Nel 1876 Franchetti e Sonnino, con i quali Verga collabora nella rivista «Rassegna settimanale», pubblicano l’Inchiesta in Sicilia. Numerosi riferimenti sono dedicati agli omicidi bianchi e al lavoro nelle miniere siciliane, in particolare alla condizione dei bambini, spesso orfani, che vi lavorano già dai sette anni, trasportando carichi eccessivi e sopportando temperature elevatissime, vivendo lontano dalle famiglie e cibandosi del solo pane portato da casa. Il dibattito parlamentare sul lavoro minorile si avvia nel 1877 e nel 1879 si concretizza in una proposta di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro dei minorenni promossa da Luzzatti, Minghetti e Sonnino, rappresentanti della Destra illuminata e prudentemente riformista che cerca di prevenire la rivoluzione socialista affidando allo stato il compito di risolvere i problemi sociali. Quando scrive Rosso Malpelo Verga non è ancora il gentiluomo di campagna che si arroccherà negli ultimi anni su posizioni fortemente conservatrici: aderisce alle istanze filantropico-sociali dell’ala riformista della Destra storica e dei meridionalisti che vogliono contrapporre allo sviluppo industriale e capitalistico del Nord una politica agraria per lo sviluppo del Sud, rafforzando la piccola e media proprietà terriera. In Rosso Malpelo sono evidenti i riferimenti all’Inchiesta del 1876 e il giudizio negativo dell’autore sullo sfruttamento impietoso del lavoro minorile.

Il tema esistenziale dell’esclusione La tragedia di Malpelo non è solo quella dello sfruttamento minorile, ma è forse ancor di più il dramma dell’incomprensione e dell’esclusione del “diverso” dal gruppo sociale. Nell’ottica del narratore popolare, Rosso ha i capelli rossi perché è un ragazzo cattivo – cioè perché è diverso – e quindi è escluso e maltrattato dagli altri lavoratori della cava e perfino dalla sua famiglia dopo la morte del padre. La disperata ricerca di affetto del ragazzo non viene mai compresa, persino nel momento in cui la frana seppellisce mastro Misciu proprio davanti ai suoi occhi, come sottolinea la voce narrante quando si distacca da quella della comunità di paese: «non badarono a una voce di fanciullo», «nessuno si era accorto di lui». Dove domina l’interesse economico i veri sentimenti risultano incomprensibili e quando il Rosso offre il suo pane a Ranocchio sembra farlo «per prendersi il gusto di tiranneggiarlo». Così egli assume su di sé la diversità che gli altri gli attribuiscono come una colpa («sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile») e arriva ad affrontare la vita con un atteggiamento masochistico («si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro»; «provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre») quasi compiacendosi dell’ingiusto trattamento riservatogli («c’ingrassava»). È costretto così ad assimilare l’ottica della violenza e della sopraffazione («Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare…»). Le numerose similitudini animali che gli sono attribuite (la più frequente è quella del cane: «come un can rognoso», «come un cane arrabbiato», «come un cane malato») rappresentano la degradazione della sua condizione di escluso. Nonostante ciò, egli evita l’ipocrisia dominante e ha il coraggio di esprimere con lucidità le leggi di violenza del mondo che lo circonda: in questa sfida – quasi leopardiana – si evidenziano i tratti eroici del personaggio, ma anche la sua estrema solitudine. Alla fine della novella Malpelo si assume un rischio che nessun essere ragionevole avrebbe potuto accettare: il diverso si esclude volontariamente dalla società e se ne allontana affrontando la morte quasi come una forma di liberazione dal dolore della vita. I suoi comportamenti antisociali, e il fatto che il suo corpo non verrà mai ritrovato, lo renderanno un personaggio leggendario all’interno della comunità dei minatori.

La “filosofia” di Malpelo Pur essendo un ragazzo analfabeta collocato nel grado più basso della scala sociale, Malpelo non è un debole né un ingenuo. La situazione in cui si trova e la morte del padre lo costringono a saltare l’infanzia e a crescere prematuramente diventando saggio, tanto da offrire lezioni di vita al suo compagno Ranocchio. Malpelo ha acquisito una lucida consapevolezza della sua condizione e dei meccanismi della società e ha maturato una sua amara “filosofia”: tutti i rapporti umani sono regolati da egoismo e violenza (non solo, dunque, quelli del mondo delle banche e dell’industria di cui Verga aveva parlato nella prefazione ad Eva) perché sono frutto di comportamenti naturali. È perciò necessario imparare a essere violenti in un mondo di violenza, farsi rispettare picchiando più forte, dato che non è possibile eliminare le diseguaglianze “natural-

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mente” presenti. Le considerazioni che il Rosso espone a Ranocchio sono spesso sostenute da paragoni con il mondo animale: l’asino «va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi». All’interno del suo mondo solo l’amore della madre di Ranocchio verso il figlio sembra contraddire il suo pensiero, ed egli deve trovarvi una spiegazione (in realtà non troppo soddisfacente) nella cagionevole salute del suo compagno di lavoro, che ha fatto sì che venisse trattato sempre come un bambino piccolo. Certo Malpelo avrebbe potuto essere un ribelle (come lo sarà ’Ntoni Malavoglia), invece è caparbiamente rassegnato, vicino al pessimismo del suo autore; la sua visione della vita esclude la rivolta e considera la crudeltà dei rapporti umani, la ripetitività disumana della fatica come leggi naturali. Nessuna speranza può essere legata neppure a una vita dopo la morte, anzi la morte è l’unica alternativa alla sofferenza e all’assurdità di una vita senza scopo. E di fronte alla carcassa del grigio il ragazzo arriva a pronunciare le parole più amare della novella: «E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio». Verga fa esprimere dunque al suo personaggio le proprie convinzioni, in cui si avverte l’influenza del positivismo darwinista e materialista, privato però di ogni componente ottimistica.

Lo spazio Lo spazio nella novella è nettamente distinto in due dimensioni contrapposte: quello chiuso, buio, sotterraneo della cava, e quello aperto, spazioso e luminoso della campagna, del cielo, del mare. Malpelo, che si trova nel grado più basso della scala sociale, guarda il mondo dalle buie viscere della terra e non è più capace di un rapporto di confidenza con la natura come sarà quello di altri personaggi di Vita dei campi (ad es. Jeli): odia le notti di luna, rifiuta la campagna e comprende solo la desolazione della sciara perché è in sintonia con la squallida vita dei minatori. La scena della contemplazione notturna esplicita il contrasto tra il ragazzo e il mondo naturale. Anche le stelle sono lontane ed estranee, perché illuminano un mondo a cui egli non si sente di appartenere: «Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, dovrebbe essere buio sempre e dappertutto». Una condizione di vita diversa e più umana è appena immaginabile («egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena»), ma è resa impossibile dal viscerale rapporto affettivo col padre, che gli impedisce di allontanarsi dalla cava e cambiare mestiere. La realtà vera è rappresentata dal buio della miniera illuminato solo da una lanterna; dal momento in cui la lanterna si spegne con la frana da cui viene sepolto il padre, il ragazzo sembra aspirare solo alla realizzazione di un buio assoluto, un desiderio di morte e annullamento che lo porteranno, al termine della novella, a perdersi nelle viscere della terra.

Le tecniche narrative Rosso Malpelo è la prima novella in cui Verga sperimenta la tecnica verista della “regressione” del narratore e l’artificio dello “straniamento”. La voce narrante, infatti, appartiene a chi conosce e condivide la cultura dell’ambiente in cui si svolgono i fatti (è dunque un narratore “regredito” al livello popolare più basso) e non fornisce al lettore nessuna spiegazione o commento da un punto di vista esterno: nulla viene detto per introdurre il luogo, il periodo storico o il personaggio, di cui non conosciamo neppure il vero nome. È inoltre chiaro che il narratore popolare giudica negativamente i comportamenti di Malpelo come dovuti alla sua innata cattiveria («era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone», «siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi», «un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti», «era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico»). Il punto di vista implicito dell’autore emerge però ugualmente, in modo indiretto, attraverso alcune sottolineature e la scelta di che cosa raccontare: il lettore finisce così per immedesimarsi nel personaggio, che in realtà non è cattivo, ma piuttosto vittima della comunità di cui fa parte (comprese la sorella e la madre) e a cui appartiene anche la voce narrante. È interessante, ad es., vedere come l’autore, attraverso un flash back, recuperi l’episodio della morte del padre di Malpelo subito dopo aver presentato il personaggio: è evidente la volontà dell’autore di evidenziare la centralità di questo avvenimento nello sviluppo psicologico del ragazzo. La tecnica dello straniamento, invece, è il frutto dello sdoppiamento e della distanza tra i due punti di vista: quello, sottaciuto, dell’autore e del lettore che appartengono allo stesso ambiente culturale e sociale, caratterizzato dall’indignazione e dalla comprensione pietosa verso il Rosso, e quello di una voce narrante “regredita”, meschina e piena di pregiudizi. Così secondo il narratore Malpelo è malvagio perché getta il pane, la «grazia di Dio», a un cane il giorno dopo la morte del

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padre, ma per Verga e i suoi lettori è evidente che il ragazzo non riesce nemmeno a inghiottire un boccone per il dolore. Oppure protegge Ranocchio «per un raffinamento di malignità» anziché (come è in realtà) per il desiderio di un rapporto affettivo che gli è venuto a mancare dopo la morte del padre. Come sottolinea Luperini, la figura cardine della novella è dunque l’antifrasi: ogni comportamento di Malpelo viene retoricamente presentato dal narratore per l’esatto contrario di ciò che è, la bontà viene presentata come cattiveria, l’altruismo come egoismo e così via.

Aspetti linguistici Da un punto di vista più propriamente stilistico, per dare voce a questo tipo di narratore “regredito” e interno alla comunità popolare, Verga utilizza una sintassi che si avvicina al parlato: prevalentemente paratattica, ricca di ripetizioni, di anacoluti, di che e gli logicamente slegati (ad esempio «c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi», «tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre. Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto», «suo padre, era morto nella cava. Era morto così, che un sabato...»). Attento a evitare dialettalismi per non cadere in una rappresentazione folcloristica, lo scrittore riporta in italiano modi di dire siciliani e usa metafore o similitudini quotidiane tratte dall’ambiente in cui si svolge la vicenda (ad es., «la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio», «se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato», «raccomandandogli di non fare la morte del sorcio»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la novella in 10 righe, mettendo in evidenza come la narrazione sia scandita dalle tre morti, del padre, dell’asino e di Ranocchio. ANALISI 2. Con quali personaggi Malpelo instaura una relazione affettiva e con quali modalità (gesti, parole, azioni) la porta avanti? 3. Analizza le parti descrittive del racconto, evidenziando i significati simbolici delle contrapposizioni sopra-sotto, luce-buio. Osserva anche i pochi casi in cui viene esplicitato un colore (in particolare il rosso) esaminandone la valenza espressiva. 4. Analizza il sistema dei personaggi presenti nel racconto e descrivi le relazioni esistenti facendo una distinzione tra deboli-oppressi e forti-oppressori.

Interpretare

SCRITTURA 5. La novella affronta il tema sociale dello sfruttamento minorile ma anche il dramma del diverso EDUCAZIONE che è escluso dalla società. In un breve elaborato (circa 20 righe), dopo aver individuato CIVICA entrambi questi elementi all’interno del testo: a. discuti su quali, secondo te, sono gli aspetti che rendono più drammatica la vita di Malpelo; b. illustra quanto stabilisce la nostra legislazione, BUONA OCCUPAZIONE in merito al lavoro minorile e alle discriminazioni E CRESCITA ECONOMICA di ogni genere. 6. Nel 2007 un regista siciliano, Pasquale Scimeca, ha realizzato un film tratto dalla novella di Verga di cui RIDURRE LE DISUGUAGLIANZE mantiene il titolo, Rosso Malpelo. La storia è la stessa, ma – come nelle pellicole neorealiste – siamo di fronte a un’opera di denuncia che vuole essere anche punto di partenza per un miglioramento della società. Basti pensare che il ricavato dalle proiezioni è destinato ai bambini sfruttati nelle miniere del Potosí, in Bolivia. La visione del film (c’è anche un interessante sito www.rossomalpelofilm.it) offre lo spunto per una discussione sul problema. Procurati il film di Scimeca online e, dopo averlo visto assieme ai tuoi compagni, scrivi Video e Audio una recensione sulla pellicola e presentala alla classe. www.rossomalpelofilm.it

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Cavalleria rusticana Vita dei campi

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Per approfondire Metamorfosi di una novella: Cavalleria rusticana a teatro

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3 I Malavoglia 1 Le circostanze di composizione

Gustave Courbet, Il mare in burrasca, 1870 (Museo d’Orsay, Parigi).

L’“officina” dei Malavoglia I Malavoglia (1881), primo romanzo del “ciclo dei Vinti”, sono considerati il capolavoro di Verga. Ambientato in un borgo di pescatori presso Catania, il romanzo narra le vicende della famiglia Toscano, soprannominata “i Malavoglia”, negli anni successivi all’unità d’Italia (in particolare dal 1863 al 1878). La stesura dei Malavoglia fu molto laboriosa e impegnò Verga per non pochi anni. • Il 21 settembre 1875, in una lettera all’editore Treves, lo scrittore accenna per la prima volta alla composizione di Padron ’Ntoni, un “bozzetto marinaresco”, da cui prende avvio la gestazione del romanzo, che durerà circa sei anni, e sulla quale incideranno in modo rilevante le riflessioni teoriche che in parallelo Verga andava sviluppando. • Nella lettera a Salvatore Paola Verdura del 21 aprile 1878 (➜ D2b OL) il bozzetto è già diventato un romanzo (il titolo è ancora Padron ’Ntoni). Poi, cercando un diverso titolo, Verga pensa a una ’ngiuria (cioè a un soprannome in siciliano) che si adatti alla famiglia protagonista: si consulta in proposito con Capuana a cui chiede anche di indicargli una raccolta di proverbi e modi di dire siciliani (lettera del 17 maggio 1878). • Il 24 agosto 1879 Verga pubblica la novella Fantasticheria (➜ D3 ) in cui preannuncia i personaggi del romanzo, indicando nel «tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha fatti cadere» (il cosiddetto «ideale dell’ostrica») il tema centrale attorno al quale ruoteranno le loro vicende. Viene inoltre, come già detto, teorizzato l’“artificio della regressione”, che appare allo scrittore l’unico mezzo per mettere in comunicazione due mondi (quello dell’autore e quello della realtà narrata), altrimenti incomprensibili l’uno all’altro. • Finalmente nel gennaio 1881 esce sulla «Nuova Antologia», col titolo Poveri pescatori, l’episodio della tempesta tratto dal romanzo e subito dopo Treves pubblica I Malavoglia. Il coraggioso tentativo di Verga di dar vita a una narrazione radicalmente realista non viene premiato dal pubblico dei lettori: «I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo; [...] io sono perfettamente nauseato dall’indifferenza con cui il pubblico che si dice letterario si occupa di tentativi siffatti in Italia» confesserà con amarezza lo scrittore in una lettera all’amico Capuana (11 aprile 1881). Il tema chiave dei Malavoglia: le “irrequietudini per il benessere” L’opera è preceduta da un’importante Prefazione (➜ D4 ), nella quale il romanzo è presentato come il primo del ciclo dei Vinti (nuovo nome scelto da Verga dopo quello di Marea) e l’argomento è così definito: «Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bra-

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mosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione». Il progetto dei successivi romanzi Rimanendo fedele al tema della ricerca di un benessere puramente materiale seguirà – nelle intenzioni di Verga – la rappresentazione dell’avidità di ricchezze incarnata in un borghese (Mastro-don Gesualdo) all’interno di un quadro ambientale «più ampio e variato»; poi la vanità aristocratica (La duchessa di Leyra), l’ambizione politica (L’onorevole Scipioni) per arrivare all’Uomo di lusso, sintesi di tutte le ambizioni e vanità. Lo scrittore terminerà solo i primi due romanzi e comincerà la stesura della Duchessa di Leyra senza riuscire a portarla a termine. La visione critica del progresso Verga precisa quindi la sua visione critica del progresso: «Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segna l’umanità per raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo... tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono». Lo scrittore si ritaglia il ruolo di osservatore critico dei drammi individuali che il progresso occulta nel suo grandioso procedere; scegliendo di rappresentare “i vinti”, gli sconfitti dalla ricerca del miglioramento delle proprie condizioni di vita, Verga svela gli aspetti negativi di uno dei miti principali del suo tempo: il progresso economico e tecnologico, lungi dall’essere privo di controindicazioni, mostra nelle sue opere gli enormi “costi umani” che richiede, dalla miseria economica di molti all’aridità dei rapporti sociali. Il ruolo dello scrittore: un osservatore distaccato Nel passo che conclude la prefazione Verga ribadisce la sua adesione al canone dell’impersonalità: «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere». Una posizione che induce lo scrittore siciliano a scelte narrative e stilistico-linguistiche sperimentali, che produrranno nel pubblico disorientamento e sconcerto, decretando l’insuccesso del romanzo.

2 La vicenda e la struttura La struttura narrativa Gli avvenimenti ruotano attorno a due importanti motori narrativi: il fallimento dell’affare dei lupini, con le disastrose conseguenze che ne derivano per i Malavoglia, quali la perdita della casa e della barca Provvidenza per ripagare i debiti contratti; e il progressivo traviamento di ’Ntoni che, andato via dal paese per cercare fortuna, vi torna a mani vuote, si dà al contrabbando e finisce in carcere. Nella prima parte (I-IX) prevale l’epica figura di padron ’Ntoni, che conduce a suo modo gli affari della famiglia, con la sua visione delle cose, spesso affidata sentenziosamente ai proverbi. I Malavoglia 3 241

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Nella seconda parte (X-XV), in cui la narrazione ha un andamento più romanzesco, il personaggio di padron ’Ntoni diventa più marginale e le vicende sono più legate alle irrequietudini del giovane ’Ntoni. L’importanza dei particolari Gran parte del romanzo si incentra su fatti di poca importanza, apparentemente inessenziali: beghe quotidiane, pettegolezzi della comunità di Aci Trezza. A questo proposito sono significative le parole di Luigi Capuana: «Un romanzo come questo non si riassume. È un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L’interesse che ispira non è quello volgare, triviale del “come finirà?” ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un’emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale».

3 Il sistema dei personaggi e i luoghi dell’azione La famiglia “Malavoglia” Il nucleo familiare dei Toscano, soprannominati “Malavoglia”, è presentato subito al lettore nell’apertura del romanzo. • Padron ’Ntoni (Antonio), marinaio e pescatore esperto, è il capostipite della famiglia. Fedele alla disciplina del lavoro e alla famiglia, è il custode della tradizione e il depositario di una saggezza pragmatica antica, espressa nei proverbi popolari a cui continuamente ricorre. È un personaggio epico, che rimane sempre uguale a se stesso e parla un unico linguaggio. La sua onestà e il suo ostinato attaccamento ai valori tradizionali porteranno la famiglia alla rovina: pur di mantenere la parola data, alla fine dovrà acconsentire a impegnare la casa (IX). • Suo opposto e complementare è il nipote maggiore ’Ntoni, che porta il suo stesso nome. Dopo aver conosciuto il mondo della grande città (Napoli), ’Ntoni non riesce più ad accettare la vita dura del paese (➜ T6 ). Preda di una crescente insoddisfazione, pur essendo un abile marinaio («un Malavoglia» gli dice con orgoglio il nonno durante la tempesta), cercherà prima inutilmente di fare fortuna altrove, poi si darà a una vita oziosa e vagabonda e poi al contrabbando, per finire da ultimo in prigione. Quando torna a casa dopo gli anni passati in carcere, scopre che l’unico orizzonte accogliente era quello da cui ha voluto allontanarsi e dove non gli è più possibile rimanere perché si sente ormai irreparabilmente “diverso”. ’Ntoni è diviso tra due mondi, estraneo a entrambi (e in questo senso rispecchia per certi versi la situazione di Verga, siciliano e milanese). Sempre fuori posto («sulla soglia» – scrive Luperini – della casa del nespolo, dell’osteria di Santuzza, di Aci Trezza), sempre lì lì per andarsene, conosce la crisi, il dubbio, la scissione fra impulsi opposti (➜ T7 ) e per questo si può considerare il personaggio più moderno del romanzo. • Bastianazzo (Sebastiano) e la moglie Maruzza (Mara, detta la Longa) aderiscono senza riserve ai valori del lavoro, dell’obbedienza e della famiglia propugnati da padron ’Ntoni, padre di Bastianazzo, e sono destinati a uscire di scena in modo tragico. Il primo muore in mare, naufragando con la Provvidenza e coi lupini, la seconda di colera tornando dal lavatoio. La stessa dedizione alla famiglia la si ritrova in Luca, che accetta senza protestare di prestare servizio militare al posto del fratello ’Ntoni e muore nella battaglia di Lissa. • Tra le due ragazze della famiglia Malavoglia troviamo di nuovo un’opposizione: Mena (Filomena) accetta come cosa naturale l’etica del sacrificio e della rinuncia, mentre Lia (Rosalia) è una ribelle come il fratello ’Ntoni.

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• Infine Alessi (Alessio), il più legato al nonno: tenace lavoratore, sposa la Nunzia-

ta, come aveva sempre voluto, e riesce a riscattare la casa del nespolo. Alessi è il personaggio a cui è affidata la ricomposizione dell’etica patriarcale, “violata” dalla ribellione di ’Ntoni. I personaggi minori e la realtà antropologica di un borgo marinaro L’apparato di personaggi minori, che ruota attorno alla vicenda dei Toscano e che interagisce con la famiglia protagonista, produce quella dimensione sociale della piccola comunità su cui si misura l’onore della parola data, la dignità familiare, la vergogna del fallimento o del disonore. Nel complesso sono rappresentati nel romanzo una quarantina di personaggi, identificati per lo più dal soprannome loro assegnato dalla comunità e ognuno con una sua caratteristica specifica (ad esempio padron Cipolla, Piedipapera, la Mangiacarrube, Cinghialenta): attraverso le loro azioni e le loro parole Verga riproduce in modo realistico le consuetudini, la quotidianità, il “colore” locale di un piccolo paese siciliano. All’interno di questo mondo ogni personaggio ha un suo ruolo, che ne detta i comportamenti: l’usuraio zio Crocifisso, detto Campana di legno, è sordo a ogni preghiera dei suoi debitori; Padron Cipolla, il più ricco del paese, proprietario di terre e di barche, organizza un matrimonio di interesse per suo figlio Brasi; don Silvestro è il maligno intrigante segretario comunale; il sensale Piedipapera è l’ideatore del contrabbando (ma si guarda bene dal parteciparvi in prima persona); don Michele, brigadiere della Guardia di finanza, donnaiolo, dà la caccia ai contrabbandieri, contando sulla percentuale che ne ricaverà; la proprietaria dell’osteria, comare Santuzza, è disponibile con tutti pur di mantenere i clienti; i giovani Cinghialenta e Rocco Spatu, sfaccendati compagni di ’Ntoni, passano il tempo all’osteria, mentre le comari, come Venera Zuppidda o la Mangiacarrube, a fare pettegolezzi. Non mancano due esponenti di opposti schieramenti politici: lo speziale don Franco, un progressista fanfarone, e il prete don Giammaria, un reazionario borbonico. Appartengono spesso alla fascia sociale più svantaggiata i rari personaggi i cui comportamenti sembrano non essere il frutto di ragioni di interesse: Nunziata, giovane ragazza abbandonata dal padre che alleva i fratellini da sola e che sposerà Alessi alla fine del romanzo; la Locca, una donna minorata mentale e suo figlio Menico, che muore in mare insieme a Bastianazzo. Tra questi spicca il carrettiere Alfio Mosca, innamorato di Mena e disponibile a sposarla anche quando la famiglia Malavoglia sarà caduta in disgrazia. I luoghi del romanzo Fanno da sfondo alla vicenda i centri nevralgici della comunità, dove il popolo si riunisce e dove circolano veloci le informazioni che fondono l’immagine pubblica dei Toscano con la loro vita privata: la chiesa, la casa del nespolo durante i funerali di Bastianazzo, il consiglio comunale, il tribunale in cui viene processato ’Ntoni. E poi ancora l’osteria, la bottega del farmacista ecc. Non ci si allontana mai dai luoghi familiari al narratore popolare e regredito, coerentemente con la poetica verista. Sempre presente nella vita e nei pensieri degli abitanti del villaggio di pescatori, infine, il mare: illuminato dalle stelle fa dà sfondo all’idillio di Mena e Alfio (➜ T4 OL); in tempesta provoca il naufragio della Provvidenza, la morte di Bastianazzo (e di Luca, caduto nella battaglia navale di Lissa) e la conseguente rovina dei Malavoglia; alla fine del romanzo è oggetto dell’ultimo sguardo di ’Ntoni, prima di allontanarsi per sempre da Aci Trezza (➜ T7 ).

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4 Il “documento” di un mondo che sta scomparendo Il realismo e gli effetti negativi del progresso Nel comporre I Malavoglia è ancora presente in Verga un intento di realismo documentario (già visto in Vita nei campi) sulla scia dei temi sociali e politici promossi dall’Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino e delle Lettere meridionali di Pasquale Villari: sono così affrontati, ad esempio, i problemi dell’usura che soffoca la piccola proprietà, la corruzione delle amministrazioni locali, il contrabbando. Ma allo scrittore interessa soprattutto focalizzare la narrazione sul tema-chiave degli effetti negativi del progresso, qui visto, come si spiega nella Prefazione al romanzo, ai suoi livelli più elementari. Lo sfondo: l’irrompere della Storia in un mondo immobile La tragica vicenda della famiglia Malavoglia si inquadra in uno scenario storico specifico: il romanzo può essere considerato uno spaccato della vita in Sicilia subito dopo l’Unità d’Italia, quando nell’isola, entrata da poco nell’orizzonte della modernità, agiscono forze contrastanti, tra mantenimento dei valori tradizionali e spinte al cambiamento. Il rinnovamento sociale ed economico che segna la storia italiana post-unitaria irrompe anche nella quotidianità del piccolo paese di pescatori, sconvolgendo un mondo sempre uguale a sé stesso, fino ad allora lontano – con i suoi ritmi ciclici, legati al succedersi delle stagioni – dalla Storia. Il contatto con la Storia e la modernità è vissuto dalla piccola comunità in modo negativo, a cominciare dalla coscrizione obbligatoria imposta dallo stato unitario. Si può dire che essa costituisca il principale motore delle disgrazie che travolgono la famiglia Malavoglia: infatti costringe ’Ntoni a lasciare la famiglia, aggravandone la situazione economica (da qui la decisione, che si rivela poi rovinosa, di padron ’Ntoni di tentare di arricchirsi con il traffico dei lupini). La leva e il contatto con la grande città avviano poi nel giovane le trasformazioni psicologiche che ne provocheranno la rovina. In seguito, anche il fratello Luca parte militare e muore nella battaglia navale di Lissa durante la Terza guerra d’indipendenza (1866). Il nuovo governo significa inoltre nuove tasse, particolarmente onerose per una comunità di piccoli pescatori: il dazio sulla pece (indispensabile per la manutenzione delle barche) scatena infatti una piccola rivolta nel villaggio di pescatori. Ma anche le innovazioni tecnologiche, simbolo per eccellenza dell’avanzata del progresso e volte a modernizzare una società arretrata, sono viste dalla comunità paesana (di cui il narratore “regredito” si fa interprete) in modo ostile o diffidente: dalla costruzione della ferrovia al telegrafo, alle navi a vapore (accusate di danneggiare la pesca) ecc. Dall’“ideale dell’ostrica” all’anti-idillio dei Malavoglia Durante la lunga elaborazione del romanzo Verga dovette mutare gradualmente la prospettiva con cui guardava al mondo di Aci Trezza: dall’idea di un universo arcaico in cui domina l’autenticità e sono ancora preservati i valori (quindi idealmente contrapposto, nell’immaginario verghiano, al mondo moderno industriale) a un’accentuazione del pessimismo. Innanzitutto, rispetto al bozzetto Padron ’Ntoni e alla stessa novella Fantasticheria (➜ D3 ), emerge nel romanzo una realtà popolare lontanissima dalla «pace serena di quei sentimenti miti, semplici che si succedono inalterati di generazione in generazione», dal mito ancora per certi aspetti romantico, della “sanità popolare” che si ritrova nella novella: il mondo di Aci Trezza è tutt’altro che un mondo idillico, è anzi una società feroce dove vige la legge del più forte e dove, mentre i Malavoglia soccombono per il fallimento della loro iniziativa commerciale,

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c’è chi, come don Silvestro o lo zio Crocifisso, migliora la posizione sociale con l’inganno (➜ T5 ). La scalata sociale, l’egoismo, la ricerca del tornaconto economico, l’assenza di solidarietà, dominano in realtà anche la piccola comunità e solo i Malavoglia mantengono degli alti ideali e sono fedeli ai valori patriarcali (sintetizzabili nell’“ideale dell’ostrica” enunciato in Fantasticheria); ma proprio per questo, nella spietata selezione che opera la lotta per la sopravvivenza, rappresentano il mondo del passato, destinato inesorabilmente alla sconfitta di fronte all’avanzata della modernità. In questa fotografia Giovanni Verga ritrae il massaro Turi “Culedda” con la moglie e altri contadini che lavoravano le terre della sua famiglia (1892 circa).

Lo scontro tra nonno e nipote, asse portante dell’ideologia del romanzo Il conflitto tra valori patriarcali e modernità si insinua peraltro all’interno della stessa famiglia Malavoglia. Padron ’Ntoni e il giovane ’Ntoni, i due personaggi principali del romanzo, rappresentano infatti (il secondo non senza inquietudini) due visioni del mondo contrapposte. Il nonno trova sicurezza nella rassicurante ripetitività delle azioni, che accomuna gli uomini al mondo naturale («vedi le passere che tornano tutti gli anni allo stesso posto?» dice al giovane che scalpita per andarsene), in una visione che permette di accettare anche la morte, in quanto iscritta in un ciclo naturale. Al nipote sembra invece che le novità della storia, il movimento, le città, siano portatori di progresso, benessere, felicità («Io non sono una passera...» ➜ T6 ). ’Ntoni denuncia l’assurdità di una vita immobile e ripetitiva, si ribella alla fatica di un lavoro che gli appare senza senso. Il fatalismo pessimista proprio della visione verghiana non può però concordare con questa ribellione e vederne un esito positivo: il mondo «pesce vorace» inghiotte l’«ostrica» che si è staccata dallo scoglio. Proprio perché ha tradito le proprie origini, ’Ntoni non può essere che un vinto, anzi forse il vinto per eccellenza nella storia dei Malavoglia. In questo personaggio Luperini vede rappresentato il tema molto moderno della perdita delle radici e dell’esclusione (➜ T7 ).

5 Le tecniche narrative e le scelte stilistico-linguistiche La scelta di un anonimo narratore corale L’obiettivo di realizzare una narrazione impersonale, che «stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere» (Prefazione all’Amante di Gramigna ➜ D2a ) già sperimentato in Vita dei campi, nei Malavoglia è affidato alla marcata presenza di una «voce corale» (Russo) anonima, portavoce, appunto, del sentire del paese in cui è ambientato il romanzo: le vicende dei Malavoglia sono narrate in modo immediato, come se accadessero davanti a noi, attraverso il filtro di un punto di vista collettivo in cui si riflette l’intreccio dei pensieri e dei giudizi della comunità di Aci Trezza. La rigorosa applicazione del metodo dell’impersonalità Nei Malavoglia il lettore è immesso direttamente nel mondo narrato senza che vengano date spiegazioni su luoghi e personaggi (➜ T4 OL): «Io mi sono messo in pieno, e fin dal principio, in mezzo ai miei personaggi e ci ho condotto il lettore, come ei li avesse tutti conosciuti diggià, e già vissuto con loro e in quell’ambiente sempre. Parmi questo il modo migliore per darci completa l’illusione della realtà» (dalla lettera di Verga a Capuana del 10 luglio 1882).

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Il romanzo realizza con particolare coerenza l’artificio della regressione (➜ D3 ): il narratore popolare spesso dà la parola, attraverso il discorso diretto, ai membri della comunità paesana, senza introdurre commenti, utilizza ripetizioni tipiche della cultura orale, formule, nomignoli, proverbi, immagini e similitudini tratte dalla vita popolare, allusioni a realtà e valori considerati indiscutibili e condivisi da tutti, fino ad assumere a volte un tono sapienziale e fiabesco (➜ T3 , rr. 1-2). È usato molto spesso il discorso indiretto libero (➜ Le parole chiave della poetica verghiana, PAG. 209) senza privilegiare la voce di un personaggio specifico: si ha in questo modo l’impressione di essere di fronte a un commento corale, a una visione degli avvenimenti legata all’opinione di tutti gli abitanti, basata sulle dicerie passate di bocca in bocca tra le vie del paese. A questo proposito si è parlato di «narrazione polifonica» (Di Silvestro). L’inconciliabilità tra il punto di vista della voce narrante regredita – saturo di credenze popolari e calato nel contesto dei personaggi – e la prospettiva dell’autore (e presumibilmente dei lettori) provoca un effetto di straniamento (cfr. la novella Rosso Malpelo ➜ T1 ). Il dolore e la sofferenza della famiglia Toscano sono filtrati attraverso l’ottica cinica di personaggi malevoli o indifferenti, i giudizi sui loro valori e le loro scelte di vita sono considerati del tutto anomali da chi valuta esclusivamente il tornaconto economico: così padron ’Ntoni è uno sciocco perché, volendo mantenere la parola data, non approfitta di un cavillo legale per non farsi portar via la casa del nespolo; e i Malavoglia sono superbi perché, pur essendo in grosse difficoltà economiche, non hanno cuore di mandare in un ospizio il nonno. È sicuramente prevalente un narratore anonimo, portavoce dell’“anima folclorica” del villaggio, ma in alcuni punti emerge un narratore onnisciente, che fa delle anticipazioni (ad es. della morte di Luca nel cap. VII e di Maruzza nel cap. XI) o dà informazioni che permettono al lettore di comprendere meglio la vicenda. Vale a dire che nel romanzo non è presente un’unica modalità narrativa.

Michele Catti, Golfo di Palermo, 1890 ca. (Palermo, collezione privata).

Le scelte stilistiche corrispondono all’argomento Pur rimanendo coerente alla poetica dell’impersonalità, in pochi ma significativi punti del romanzo si fa spazio un linguaggio più allusivo e simbolico, legato all’idillio infranto della vita familiare e alla nostalgia di un passato spazzato via dalla «fiumana del progresso». In questi casi Verga rappresenta lo stato d’animo dei personaggi senza ricorrere al narratore esterno onnisciente, ma attraverso i gesti, facendo parlare simbolicamente la natura e usando sapientemente il discorso indiretto libero. L’anima dei personaggi intreccia così corrispondenze segrete con una natura ancora intatta, protetta dal ritorno periodico e rassicurante delle stagioni e cullata dal brontolìo del mare (➜ T4 OL). Questo comporta il ricorso nel romanzo di registri stilistici diversi: ironico o comico-grottesco, soprattutto per le scene in cui è rappresentata la vita della collettività (ad es. i pettegolezzi la domenica mattina alla messa); lirico-descrittivo o addirittura lirico-simbolico, nei momenti in cui vengono fuori i sentimenti di alcuni personaggi del romanzo (ad es. Mena e Alfio ➜ T4 OL).

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Verso il Novecento Il vigatese di Andrea Camilleri

La lingua: come rendere la “sicilianità”? Come tutti gli uomini di cultura del suo tempo, Verga padroneggiava l’italiano parlato e scritto, ma parlava correntemente il suo dialetto, il catanese. Per rappresentare il mondo dei contadini dei Malavoglia però non ricorre al dialetto, nonostante verosimilmente i suoi personaggi illetterati possano esprimersi solo in siciliano. Se da una parte egli vuole seguire i dettami del verismo – per cui il testo deve rispecchiare il più fedelmente possibile la realtà dei personaggi, anche quella linguistica – dall’altra sente la necessità di adoperare una lingua comprensibile da un numero di lettori il più ampio possibile e non relegare la propria opera nella produzione vernacolare. Inoltre, negli anni dell’unificazione territoriale del paese un acceso dibattito investe la cultura italiana, portando in primo piano la questione della lingua nell’istruzione, nell’amministrazione centrale e, ovviamente, nella comunicazione letteraria. La soluzione trovata da Verga è quella di scrivere in un italiano che configuri il siciliano parlato del ceto popolare. Qualcuno l’ha definita «la lingua pensata in dialetto». Lo scrittore vuole riprodurre l’impressione di una sicilianità linguistica pur non facendo parlare i suoi personaggi in dialetto, neppure nei discorsi diretti. Gli unici termini tipicamente siciliani, infatti, sono i soprannomi dei personaggi. L’effetto è raggiunto attraverso una particolare attenzione alla sintassi, che spesso ricalca – soprattutto nei discorsi diretti e indiretti liberi – la costruzione della frase del parlato popolare siciliano: prevalenza quindi della paratassi, con periodi brevi, contrassegnati di frequente da ripetizioni. È evidente che è sul piano sintattico che si realizza la novità della prosa verghiana. Sono riconducibili alla tradizione popolare della lingua in particolare gli anacoluti e la congiunzione che polivalente la quale, al di fuori delle norme grammaticali, riproduce il dialettale ca («... e le aveva lasciato quella nidiata di figlioli, che Rocco, il più grandicello, non le arrivava alle ginocchia»; «Intanto l’avvocato chiacchierava e chiacchierava che le parole andavano come la carrucola di un pozzo»). Sempre tipico del parlato è l’uso ridondante dei pronomi, di gli per “loro” o per “le”, del ci attualizzante (ad es. in averci). Il lessico, di matrice siciliana, ma amalgamato in una lingua standard, risente dell’influenza dialettale per la presenza di espressioni proverbiali e fraseologiche locali dissimulate (ma onnipresenti nel romanzo).

I Malavoglia I Malavoglia 1881

Prima opera del ciclo dei Vinti

Interesse per le classi sociali più umili

Opera “corale” Molteplici punti di vista e numerosi personaggi

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Giovanni Verga

T3

Presentazione della famiglia Toscano I Malavoglia, I

G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

È l’incipit del romanzo, con la descrizione di Aci Trezza e della famiglia Malavoglia, e il lettore è subito proiettato in un mondo di cui nessun aspetto viene spiegato e in cui tutto è dato come conosciuto.

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza1; ce n’erano persino ad Ognina2, e ad Aci Castello3, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva 5 dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole4. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni5, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata6 sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello 10 zio Cola, e alla paranza7 di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo bisogna che 15 le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure, – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore8; poi suo 20 figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città9; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avresse detto «sòffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie10 la Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa11, una piccina 25 che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata 30 «Sant’Agata12» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. 1 Trezza: Aci Trezza, paese sulla costa a pochi chilometri a nord di Catania. 2 Ognina: borgo appena fuori Catania, oggi quartiere della città. 3 Aci Castello: paese vicino ad Aci Trezza. 4 avevano... al sole: erano proprietari di barche e di casa (tegole).

5 padron ’Ntoni: ’Ntoni è diminutivo di Antonio, padron era l’appellativo del capofamiglia. 6 ammarrata: ormeggiata. 7 paranza: barca per la pesca costiera. 8 le quarant’ore: l’esposizione dell’ostia ai fedeli nella Settimana Santa durava quaranta ore.

9 città: è Catania. 10 s’era… moglie: aveva sposato. 11 la Longa: anche in questo caso – come in quello dei Malavoglia – il soprannome indica il contrario della realtà. 12 Sant’Agata: patrona di Catania, martire cristiana del III o IV sec. d.C. famosa per le sue virtù domestiche.

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Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose. Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa qua40 dra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino13 marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello14, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria. 45 Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto». 35

13 un codino: un reazionario (dopo la rivoluzione francese i nostalgici dei regimi settecenteschi ripresero a portare il codino).

14 Franceschello: appellativo popolare di Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie; il romanzo ha inizio nel dicembre 1863, pochi anni dopo la

spedizione dei Mille e la caduta del regno borbonico.

Analisi del testo Un inizio innovativo Aprendo il suo romanzo, Verga immette il lettore nella scena in cui si svolgeranno gli avvenimenti senza alcuna introduzione: il narratore popolare non dice dove si trova Aci Trezza e parla della città, dando per scontato che si tratti di Catania; non fornisce informazioni sugli antefatti, parla dei paesani come se tutti dovessero conoscerli. Se I promessi sposi cominciavano con uno sguardo ‘dall’alto’, tipico del narratore onnisciente, sul paesaggio, descritto con precisione quasi cartografica, Verga introduce la famiglia Malavoglia con una formula simile a quella delle fiabe (Un tempo), sottolineando così da subito la dimensione astorica della vita di Aci Trezza. Il ritmo della narrazione, lontano dalle ampie descrizioni di stampo romantico, si avvale di un linguaggio sintetico ed ellittico, che lascia cioè sottintesi alcuni termini del discorso.

La presentazione dei personaggi I personaggi, a cominciare dalla famiglia Malavoglia, sono presentati attraverso le loro espressioni, i motti, i gesti («mostrando il pugno chiuso»), i particolari fisici; si accenna di passaggio, senza dare alcuna spiegazione, ad altri abitanti del paese. Nel corso del primo capitolo sfileranno altri personaggi, con i loro soprannomi e le loro caratteristiche, per poi definirsi via via, secondo la volontà realistica dello scrittore: «la confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza alcuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto in mezzo a loro, doveva scomparire mano a mano col progredire nella lettura, a misura che essi vi tornavano davanti, e vi si affermavano con nuove azioni ma senza messa in scena, semplicemente, naturalmente, era artificio voluto e cercato anch’esso, per evitare, perdonami il bisticcio, ogni artificio letterario, per darvi l’illusione completa della realtà» (lettera a Capuana del 25 febbraio 1881).

Padron ’Ntoni, il portavoce della tradizione Fin dalla prima pagina del romanzo è centrale la figura di padron ’Ntoni, un vero patriarca, radicato nella tradizione, rappresentante dei valori del lavoro, del sacrificio e dell’unità e solidarietà all’interno della famiglia («bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro»), custode dell’immutabilità dei ruoli all’interno della rigida gerarchia familiare («il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo»).

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Padron ’Ntoni si esprime attraverso la sapienza popolare e antica dei proverbi («senza pilota barca non cammina»; «per far da papa bisogna saper far da sagrestano») e questa sua prerogativa non è certo casuale: egli è nel romanzo il portavoce dell’«ideale dell’ostrica», ovvero della necessità di rimanere attaccati alle tradizioni per non essere spazzati via dalla modernità (Fantasticheria ➜ D3 ). L’assoluta preminenza di padron ’Ntoni nel microcosmo della famiglia Toscano la si osserva proprio nella presentazione degli altri suoi membri, ognuno dei quali è introdotto secondo la relazione che intrattiene col capofamiglia e filtrato secondo il giudizio dell’autorevole patriarca: Bastianazzo è «grande e grosso», ma «non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto “sòffiati il naso”»; ’Ntoni è definito «un bighellone di vent’anni» (definizione in cui trapela il giudizio del nonno); Luca, secondo le parole del nonno, «aveva più giudizio del grande», Mena è confinata (come è logico nell’ottica arcaico-patriarcale) nella casa e nel ruolo femminile del tessere (sintetizzati nel proverbio popolare «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»), Alessi, il piccolo, è «un moccioso tutto suo nonno colui!». Solo Lia, ancora ragazzina, non è stata “etichettata” dal nonno perché «ancora né carne né pesce».

Il linguaggio e lo stile Lo stile e il linguaggio del testo si adattano al mondo descritto e alla condizione sociale dei personaggi: il narratore colto regredisce al loro livello e fa suoi i modi di dire (padron ’Ntoni «comandava le feste e le quarant’ore», Bastianazzo era «grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città»). I paragoni, i giudizi esprimono il punto di vista degli abitanti di Aci Trezza. Il narratore dà per scontato che si usi il soprannome (o ’ngiuria) e che questo indichi l’opposto della realtà: i Malavoglia sono una famiglia molto laboriosa. È frequente l’uso del discorso diretto, mentre il discorso indiretto libero spesso non permette di sapere di chi sia il parere espresso («un moccioso tutto suo nonno colui!») e contribuisce piuttosto a dare il senso di un racconto corale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In quali luoghi prende avvio la vicenda dei Malavoglia? Quale ambiente umano viene descritto? STILE 2. Ricerca gli elementi che caratterizzano l’artificio della regressione (detti e proverbi, metafore popolari, linguaggio settoriale legato al lavoro). 3. Analizza il linguaggio utilizzato: a quale ambito di esperienza fanno riferimento i proverbi e le similitudini presenti? Individuali e spiegane la funzione in rapporto al contesto. TECNICA NARRATIVA 4. In che modo Verga riesce a realizzare il principio dell’impersonalità? ANALISI 5. In questo primo testo ti sembra di poter già individuare un contrasto fra valori arcaici e modernità, fra città e campagna? Individua, nel testo, i passi che evidenziano questi contrasti.

Interpretare

SCRITTURA 6. Nei Malavoglia si esprime un profondo senso morale che pone la famiglia al centro della vita sociale e rende concreta l’umanità dei personaggi. Alla luce di questa interpretazione scrivi una breve trattazione (max 15 righe). TESTI A CONFRONTO 7. Confronta l’incipit dei Malavoglia con quello dei Promessi sposi (➜ VOL 2 C20), metti in evidenza la diversità di modalità narrativa, in particolare per quello che riguarda il punto di vista e il linguaggio. 8. Rileggi la novella Fantasticheria (➜ D3 ) e individua elementi riferibili alla genesi dei Malavoglia, suddividendoli tra quelli che riguardano il contenuto della narrazione e quelli che riguardano la poetica.

online T4 Giovanni Verga Alfio e Mena

T4a Giovanni Verga L’amore alla finestra I Malavoglia, II

T4b Giovanni Verga Ragioni economiche e convenzioni sociali prevalgono sui sentimenti I Malavoglia, V

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Giovanni Verga

T5

Addio alla casa del nespolo

LEGGERE LE EMOZIONI

I Malavoglia, IX G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

Padron ’Ntoni e la sua famiglia devono abbandonare la casa del nespolo (che ora è di Zio Crocifisso): ancora una volta uno dei valori tradizionali più importanti per i Malavoglia, ovvero la casa – ciò che unisce più di ogni altra cosa chi vi abita, che protegge e accoglie, che conforta – si contrappone all’indifferenza dei nuovi proprietari.

Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e pareva che fosse come andarsene dal paese, e spatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora c’era lì il letto di Luca, e il chiodo dove 5 Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie, e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno dov’era stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella. La roba la trasportarono di notte, nella casuccia del beccaio1 che avevano presa in affitto, come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo ormai era di Piedipapera, e loro dovevano 10 sgomberarla; ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo. Quando il vecchio staccava un chiodo, o toglieva da un cantuccio un deschetto2 che soleva star lì di casa, faceva una scrollatina di capo. Poi si misero a sedere sui pagliericci ch’erano ammonticchiati nel mezzo della camera, per riposarsi un po’, e guardavano di qua e di là se avessero dimenticato 15 qualche cosa; però il nonno si alzò tosto ed uscì nel cortile, all’aria aperta. Ma anche lì c’era della paglia sparsa per ogni dove, dei cocci di stoviglie, delle nasse3 sfasciate, e in un canto il nespolo, e la vite in pampini4 sull’uscio. – Andiamo via! diceva egli. Andiamo via, ragazzi. Tanto, oggi o domani!... e non si muoveva. Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo, 20 e la stradicciuola per la quale il figlio suo se ne era andato coi calzoni rimboccati, mentre pioveva, e non l’aveva visto più sotto il paracqua d’incerata. Anche la finestra di compare Alfio Mosca era chiusa5, e la vite pendeva dal muro del cortile che ognuno passando ci dava una strappata. Ciascuno aveva qualche cosa da guardare in quella casa, e il vecchio, nell’andarsene, posò di nascosto la mano sulla porta 25 sconquassata, dove lo zio Crocifisso aveva detto che ci sarebbero voluti due chiodi e un bel pezzo di legno. Lo zio Crocifisso era venuto a dare un’occhiata insieme a Piedipapera, e parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa. Compare Tino non aveva potuto durarla a campare d’aria sino a quel giorno, e aveva 30 dovuto rivendere ogni cosa allo zio Crocifisso, per riavere i suoi denari6. – Che volete, compare Malavoglia? gli diceva passandogli il braccio attorno al collo. Lo sapete che sono un povero diavolo, e cinquecento lire mi fanno! Se voi foste stato ricco ve l’avrei venduta a voi. – Ma padron ’Ntoni non poteva soffrire di andare così 1 beccaio: macellaio. 2 deschetto: tavolino. 3 nasse: campana di vimini con alla base un’apertura a imbuto dal bordo rovesciato all’interno, in modo che il pesce, una volta

entrato, non riesca più a uscirne. 4 in pampini: con le foglie. 5 la finestra… era chiusa: compare Alfio è stato costretto dalla miseria a cercare lavoro lontano dal paese.

6 Compare Tino… i suoi denari: la finzione per cui lo zio Crocifisso aveva ceduto il credito a Piedipapera, una volta ottenuto lo scopo, non ha più ragione d’essere.

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per la casa, col braccio di Piedipapera al collo. Ora lo zio Crocifisso ci era venuto 35 col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che scorrazzavano di qua e di

là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: – Qui ci vogliono dei mattoni, qui ci vuole un travicello nuovo, qui c’è da rifare l’imposta, – come se fossero i padroni; e dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt’altra. Lo zio Crocifisso andava scopando coi piedi la paglia e i cocci, e raccolse anche da 40 terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso. Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all’uscio e le finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose7. La Vespa era venuta a vedere anche lei, colla calzetta8 al collo, e frugava per ogni 45 dove, ora che era roba di suo zio. – Il «sangue non è acqua» – andava dicendo forte, perché udisse anche il sordo. A me mi sta nel cuore la roba di mio zio, come a lui deve stare a cuore la mia chiusa9. Lo zio Crocifisso lasciava dire e non udiva, ora che dirimpetto si vedeva la porta di compare Alfio con tanto di catenaccio. – Adesso che alla porta di compare Alfio c’è il catenaccio, vi metterete il cuore in pace, e 50 lo crederete che non penso a lui! diceva la Vespa all’orecchio dello zio Crocifisso. – Io ci ho il cuore in pace! rispondeva lui: sta tranquilla. 7 a Pasqua delle Rose: all’Ascensione.

8 calzetta: lavoro a maglia.

9 chiusa: terreno recintato.

Analisi del testo Il tema della casa Nel sistema di valori dei Malavoglia è centrale la casa, simbolo dell’unità della famiglia, che infatti a breve si disgregherà non riuscendo più a contrastare l’insofferenza e il desiderio di novità di ’Ntoni e di Lia. Lasciare la casa è «come andarsene dal paese», «spatriare»; separarsene significa anche staccarsi dai momenti e dai sentimenti che vi si sono vissuti, dal diverso valore per ogni personaggio: la Longa non può fare a meno di pensare che da quella porta sono usciti per l’ultima volta il marito Bastianazzo e il figlio Luca per non ritornare più, Mena guarda la finestra chiusa di Alfio, padron ’Ntoni accarezza la porta come a sentire la materialità di ciò che ha sempre curato con le sue mani. Ogni oggetto, ogni chiodo staccato dal muro provocano dolore.

La contrapposizione di due punti di vista È interessante vedere come l’autore utilizzi i due punti di vista che si alternano nel romanzo: da una parte l’ottica dei Malavoglia, a cui Verga non può fare a meno di aderire sentimentalmente (e lo si vede ad es. nell’uso frequente dei diminuitivi, cantuccio, deschetto, stradicciuola); dall’altra quella degli abitanti del paese e in particolare quella interessata dello zio Crocifisso e di Piedipapera (a cui si aggiungono il falegname, il muratore, i curiosi). La differenza di valori tra le due parti è esplicitata da padron ’Ntoni: custode della “religione della famiglia”, è certo quello che soffre maggiormente e non può sopportare di girare per la casa «col braccio di Piedipapera al collo», smascherandone così l’ipocrisia.

Oggetti-simbolo Come abbiamo visto per l’amore tra Mena e Alfio, la dimensione emotiva dei personaggi viene spesso rappresentata attraverso gli elementi della natura, che diventano quasi una specie di «correlativo oggettivo»: si crea cioè un nesso tra l’emozione che si vuole trasmettere e l’oggetto che la rappresenta. Al gesto sprezzante dello zio Crocifisso che butta nell’orto un pezzo di cappello di Bastianazzo sembra contrapporsi il nespolo, simbolo della casa, che «intanto stormiva ancora, adagio adagio».

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L’autoesclusione dalla comunità Infine, in questo passo troviamo il tema della vergogna e dell’umiliazione della famiglia Malavoglia diventata povera, che trasporta la propria roba di notte per non farlo sotto gli occhi di tutti. Nel seguito del romanzo li si vedrà andare a messa ad Aci Castello sempre per non mostrarsi così ridotti davanti ai compaesani di Aci Trezza, i quali non ignorano certamente la loro situazione, se perfino i ragazzi del paese si rifiutano di giocare con Alessi e Lia perché la loro famiglia non ha i soldi per pagare il debito all’usuraio. Dunque, la discesa nella scala sociale comporta l’esclusione dalla comunità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Perché la famiglia dei Malavoglia deve lasciare la casa del nespolo? 3. Tutta la famiglia soffre nel lasciare la casa del nespolo, ma chi prova più dolore è certamente padron ’Ntoni: spiega perché. ANALISI 4. Verga si serve spesso di alcuni oggetti che hanno un ruolo evocativo molto forte nella narrazione: riportano al passato, ricordano personaggi che non ci sono più, richiamano alla mente emozioni. Trova nel brano questi oggetti, spiegando brevemente il loro ruolo nel testo. 5. Evidenzia i luoghi in cui sono esplicitati il punto di vista dei Malavoglia e quello, contrapposto del resto del paese. TESTI A CONFRONTO 6. Confronta questo testo con i principi di poetica espressi nella prefazione all’Amante di Gramigna (➜ D2a ).

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Una delle tematiche principali del brano è l’autoesclusione dalla comunità: da quali elementi si può ricavare? Perché la discesa nella scala sociale comporta l’esclusione dalla comunità? Sei mai entrato in contatto con qualcuno che ha dovuto subire la stessa sorte dei Malavoglia?

La costa nei pressi di Catania in una fotografia dei primi dell’Ottocento.

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Giovanni Verga

T6

L’insoddisfazione di ’Ntoni I Malavoglia, XI

G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

All’osteria ’Ntoni è conquistato da due giovani tornati al paese dopo essere andati a cercar fortuna a Trieste e Alessandria d’Egitto. Quando torna a casa la sera trova le donne che preparano i barili di pesce conservato e chiacchierano con le vicine, mentre padron ’Ntoni osserva vigile. Il colloquio che segue contrappone il nonno e il nipote deciso a cambiare vita: è uno dei momenti chiave del romanzo.

– Chi deve mangiarsi queste sardelle qui, cominciava la cugina Anna, deve essere il figlio di un re di corona bello come il sole, il quale camminerà un anno, un mese e un giorno, col suo cavallo bianco; finché arriverà a una fontana incantata di latte e di miele; dove, scendendo da cavallo per bere, troverà il ditale di mia figlia Mara, 5 che ce l’avranno portato le fate dopo che Mara l’avrà lasciato cascare nella fontana empiendo la brocca; e il figlio del re col bere che farà nel ditale di Mara, si innamorerà di lei; e camminerà ancora un anno, un mese e un giorno, sinché arriverà a Trezza, e il cavallo bianco lo porterà davanti al lavatoio, dove mia figlia Mara starà sciorinando il bucato; e il figlio del re la sposerà e le metterà in dito l’anello; e poi 10 la farà montare in groppa al cavallo bianco, e se la porterà nel suo regno. Alessi ascoltava a bocca aperta, che pareva vedesse il figlio del re sul suo cavallo bianco, a portarsi in groppa la Mara della cugina Anna. – E dove se la porterà? domandò poi la Lia. – Lontano lontano, nel suo paese di là del mare; d’onde non si torna più. 15 – Come compar Alfio Mosca, disse la Nunziata. Io non vorrei andarci col figlio del re, se non dovessi tornare più. – La vostra figlia non ha un soldo di dote, perciò il figlio del re non verrà a sposarla; rispose ’Ntoni; e le volteranno le spalle, come succede alla gente, quando non ha più nulla. 20 – Per questo mia figlia sta lavorando qui adesso, dopo essere stata tutto il giorno al lavatoio, per farsi la dote. Non è vero Mara? Almeno se non viene il figlio del re, verrà qualchedun altro. Lo so anch’io che il mondo va così, e non abbiamo diritto di lagnarcene. Voi, perché non vi siete innamorato di mia figlia, invece d’innamorarvi della Barbara che è gialla come il zafferano? perché la Zuppidda aveva il fatto suo1, 25 non è vero? E quando la disgrazia vi ha fatto perdere il fatto vostro, a voi altri, è naturale che la Barbara v’avesse a piantare. – Voi vi accomodate a ogni cosa, rispose ’Ntoni imbronciato, e hanno ragione di chiamarvi Cuor contento. – E se non fossi Cuor contento, che si cambiano le cose? Quando uno non ha niente, 30 il meglio è di andarsene come fece compare Alfio Mosca. – Quello che dico io! esclamò ’Ntoni. – Il peggio, disse infine Mena, è spatriare dal proprio paese, dove fino i sassi vi conoscono, e dev’essere una cosa da rompere il cuore il lasciarseli dietro per la strada. «Beato quell’uccello, che fa il nido al suo paesello2». 35 – Brava Sant’Agata! conchiuse il nonno. Questo si chiama parlare con giudizio. 1 aveva il fatto suo: possedeva qualcosa. 2 Il peggio... paesello: il pensiero di Mena

va sempre a compare Alfio e quella che il nonno prenderà per un’affermazione di

saggezza è soprattutto l’espressione della nostalgia della ragazza.

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– Sì! brontolò ’Ntoni, intanto, quando avremo sudato e faticato per farci il nido ci mancherà il panìco3; e quando arriveremo a ricuperar la casa del nespolo, dovremo continuare a logorarci la vita dal lunedì al sabato; e saremo sempre da capo! – O tu, che non vorresti lavorare più? Cosa vorresti fare? l’avvocato4? 40 – Io non voglio fare l’avvocato! brontolò ’Ntoni, e se ne andò a letto di cattivo umore. Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo5, si metteva sull’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte6; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far 45 la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto, gonfiava la schiena, aspettando che lo bardassero! – Carne d’asino! borbottava; ecco cosa siamo! Carne da lavoro! E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni 50 di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse. 55 – Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo! ’Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole. – Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. «Chi va coi zoppi, all’anno7 zoppica.» 60 – C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è! – Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel che è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera.» «Meglio contentarsi che lamentarsi.» – Bella consolazione! Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra: 65 – Almeno non lo dire davanti a tua madre. – Mia madre... Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre. – Sì, accennava padron ’Ntoni, – sì, meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo. Ntoni per un po’ non seppe che dire: – Ebbene! esclamò poi, lo faccio per lei, per voi, 70 e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiare stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti. Padron ’Ntoni spalancò tanto d’occhi, e andava ruminando quelle parole, come per 75 poterle mandar giù. – Ricchi! diceva, ricchi! e che faremo quando saremo ricchi? ’Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercar anche lui cosa avrebbero fatto. – Faremo quel che fanno gli altri... Non faremo nulla, non faremo!... Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni. 3 panìco: mangime per gli uccelli. 4 l’avvocato: i popolani pensavano che il mestiere di avvocato non fosse un lavoro vero, ma consistesse solo nella capacità di

parlare bene, magari per imbrogliare gli altri (in Rosso Malpelo: «se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a far l’avvocato»).

5 senza sugo: inconcludenti. 6 digerirsi... sorte: cercare di rassegnarsi al suo destino infelice. 7 all’anno: entro un anno.

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– Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato8; – e pensando 80 alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto. – Tu sei un ragazzo, e non lo sai!... non lo sai!... Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!... Lo vedrai; te lo dico io che son vecchio! – Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: – «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi 85 quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene. – Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva ’Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo9, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in 90 un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani. – Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! «Il buon pilota si prova alle burra95 sche». Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io ero più giovan di te, e non avevo paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l’ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto 100 paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato e si è aiutata come una povera formica anche 105 lei; non ha fatto altro, tutta la vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro. In conclusione ’Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel 110 ragazzo il cuore ce l’aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando: – Tale e quale l’asino di compare Alfio! come fa giorno allungo il collo per vedere se vengono a mettermi il basto. – Dopo che avevano buttato le reti, lasciava Alessi a menare il remo adagio adagio per non fare deviare la barca, 115 e si metteva le mani sotto le ascelle, a guardare lontano, dove finiva il mare, e c’erano quelle grosse città dove non si faceva altro che spassarsi e non far nulla; o pensava a quei due marinai ch’erano tornati di laggiù, ed ora se n’erano già andati da un pezzo; ma gli pareva che non avessero a far altro che andar girelloni10 pel mondo, da un’osteria all’altra, a spendere i denari che avevano in tasca. La sera, 120 i suoi parenti, dopo aver messo a sesto11 la barca e gli attrezzi, per non vedergli quel muso lungo, lo lasciavano andare a girandolare come un cagnaccio, senza un soldo in tasca. 8 Per me... son nato: padron ’Ntoni invece morirà solo, in un letto d’ospedale in città.

9 da bindolo: che gira la ruota per tirar su l’acqua dal pozzo.

10 girelloni: che erano soliti andare bighellonando. 11 a sesto: in sesto, a posto.

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Analisi del testo La “diversità” di ’Ntoni e il tema dell’inquietudine Il testo porta in primo piano il tema della “diversità” di ’Ntoni, nella prima parte rispetto alla comunità del paese, nella seconda all’etica e alla visione del mondo del nonno. Nella scena iniziale, quasi tutta in discorso diretto, Verga descrive con grande efficacia la vita e la mentalità arcaica del paese. Le donne trascorrono la sera raccontando storie e indovinelli: al tono fiabesco della cugina Anna, il giovane Alessi rimane a bocca aperta, mentre padron ’Ntoni osserva e commenta con saggezza quanto viene detto. In questo contesto la voce del giovane ’Ntoni sembra fuori posto, si inserisce con una nota di duro realismo («la vostra figlia non ha un soldo di dote») inadatta alla situazione. Il desiderio di cambiare, con le conseguenze che questa irrequietezza comporta, è il filo conduttore del romanzo: «quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio» (Prefazione ai Malavoglia). I Malavoglia si sono già improvvisati commercianti, per migliorare la loro condizione economica, con il conseguente peggioramento del loro stato. Ma il personaggio che incarna maggiormente il desiderio di cambiar vita è il giovane ’Ntoni. Da quando è tornato da militare, è sempre più irrequieto e insoddisfatto: attirato dal destino di tutti quelli che si sono allontanati, prova rabbia e rifiuto nei confronti di un mondo statico. La spinta al cambiamento deriva da una nuova concezione della vita e del tempo («Io non sono una passera...») e da una critica all’insensatezza della fatica che domina la dura vita dei pescatori. A ’Ntoni si contrappone il nonno che non riesce nemmeno a immaginare un cambiamento di stato («e che faremo quando saremo ricchi?») e che continua a ribadire l’etica del sacrificio, l’attaccamento alle tradizioni, alla famiglia e al luogo dove è nato (ancor più struggente se si pensa che dovrà morirne lontano). Il vecchio patriarca rimane uguale dall’inizio alla fine: per lui la vita è una ripetizione scandita da ritmi ciclici, come quella degli uccelli («Ad ogni uccello, suo nido è bello»), le irrequietezze del ragazzo gli sono incomprensibili.

Da che parte sta l’autore? Il punto di vista del narratore, ma anche dell’autore, sembra decisamente coincidere con quello di padron ’Ntoni, che contrappone la dura legge della realtà al sogno di una vita facile e agiata e vede la fatica del lavoro quotidiano compensata dagli affetti familiari e dal radicamento al proprio luogo d’origine. In modo conseguente con l’ideologia politica di Verga e il suo pessimismo sulla possibilità di cambiamenti sociali, la ribellione di ’Ntoni è rappresentata in termini sostanzialmente negativi come insofferenza per il lavoro e desiderio di una vita comoda: egli infatti finirà per passare le sue giornate a bere all’osteria come un parassita e arriverà a commettere dei reati, per poi pentirsi tardivamente alla fine del romanzo. ’Ntoni ha dunque un carattere debole e velleitario, coltiva l’illusione superficiale che altrove la vita sia più facile («c’erano quelle grosse città dove non si faceva altro che spassarsi e non far nulla»). Nonostante ciò, la denuncia di ’Ntoni dei meccanismi disumani del lavoro, che riduce gli uomini a livello delle bestie («Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo»), non può essere ignorata, e certamente anche in essa si avverte la posizione dell’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il dialogo tra nonno e nipote. (max 5 righe) ANALISI 2. Qual è il significato dei numerosi riferimenti – attraverso proverbi, similitudini, metafore – al mondo animale?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di circa 3 minuti, spiega per quali ragioni il dialogo tra nonno e nipote presente in questo capitolo rappresenta uno dei momenti chiave del romanzo. SCRITTURA 4. Oggi, molti giovani cercano di allontanarsi, anche a rischio della vita, da zone del mondo sottosviluppate, com’era nell’Ottocento Aci Trezza. Pensi che alcuni di essi possano essere paragonati a ‘Ntoni Malavoglia? Argomenta le tue opinioni in un testo di max 15 righe.

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Giovanni Verga

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Sradicamento I Malavoglia, XV

G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

È la conclusione del romanzo. Una notte ’Ntoni, uscito dal carcere, torna in paese per rivedere la famiglia e la casa dove è nato, ma si rende conto di non potervi rimanere e, conscio dei propri errori, se ne va per sempre.

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembra5 va più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu 10 sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si senti balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: – Te ne vai? – Sì! – rispose ’Ntoni. – E dove vai? – chiese Alessi. 15 – Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane1, e nessuno saprà chi sono. Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. ’Ntoni continuava a guardare dappertutto, 20 e stava sulla porta, e non sapeva risolversi ad andarsene. – Ve lo farò sapere dove sarò; disse infine e come fu nel cortile, sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: – E il nonno? Alessi non rispose; ’Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto: – E la Lia, che non l’ho vista? 25 E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: – È morta anche lei? Alessi non rispose nemmeno; allora ’Ntoni che era sotto il nespolo colla sporta in mano, fece per sedersi, poiché le gambe gli tremavano ma si rizzò di botto, bal30 bettando: – Addio addio! Lo vedete che devo andarmene? Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele2, e di starsene nei guai, non gli bastava l’a35 nimo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia 1 buscarmi il pane: guadagnarmi da vivere.

2 don Michele: il brigadiere della Guardia di finanza che corteggiava Lia.

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coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li 40 avesse fatti lei. ’Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva – Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello, qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra... – Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe3, che andava sgridando Brasi Cipolla4 per la strada, e ’Ntoni disse: – Questa 45 qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa. Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: – Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te. 50 – No ! – rispose ’Ntoni. Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora 55 non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene. In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo. – Addio, – ripeté ’Ntoni. – Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti. 60 E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni5, perché il mare non ha paese 65 nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico. Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come 70 non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo6. Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter 75 d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re7 che luccicavano, e la Puddara8 che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad 80 una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla 3 la Mangiacarrubbe: la figlia di compare Mangiacarrubbe. 4 Brasi Cipolla: il giovane più ricco del paese, già promesso di Mena.

5 fariglioni: scogli che emergono dal mare davanti al paese. 6 massaro Filippo: l’ortolano. 7 i Tre Re: le tre stelle centrali della costel-

lazione di Orione.

8 la Puddara: l’Orsa Maggiore, costellazione delle Pleiadi chiamata in dialetto gallinella.

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bottega di Pizzuto9 c’era il lumicino, e Rocco Spatu10 colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. – Fra poco lo zio Santoro11 aprirà la porta – pensò ’Ntoni, – e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui. – Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato 85 la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse: – Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu. 9 Pizzuto: Vanni Pizzuto, barbiere e ricettatore; la sua bottega è luogo di ritrovo notturno.

10 Rocco Spatu: lo sfaccendato perdigiorno. 11 zio Santoro: il padre di Santuzza che

manda avanti l’osteria del paese; è cieco (o finge di esserlo) e passa le giornate a mendicare seduto davanti all’osteria.

Analisi del testo Il tema dell’esclusione In questa pagina domina il tema dell’esclusione (già sviluppato in varie Novelle rusticane). ’Ntoni è la figura simbolo dello sradicato, dell’uomo bandito dalla società, che non troverà mai più un porto dove sostare. Giunge furtivo di notte e il cane abbaia contro di lui, perché non l’ha riconosciuto, come il fratello Alessi, poiché «tanto era mutato» che «non sembrava più quello». Tra lo ’Ntoni di un tempo e quello che è adesso c’è un abisso: si siede in un cantuccio, guarda la casa come se non l’avesse mai vista e prende coscienza della sua condizione di estraneità e dell’impossibilità di ripristinare un rapporto con la famiglia che ha tradito e con il paese. Il rapporto tra ’Ntoni e i fratelli è esplicitato da brevi scambi di battute e significativi silenzi: «non osava dirgli nulla»; «gli altri non osavano fiatare», «stettero zitti»; «Alessi non rispose: ’Ntoni tacque anche lui»; «aspettava inutilmente la risposta»; «Alessi non rispose nemmeno». Solo nella notte, estraneo sia ai fratelli che ai paesani, con la porta che si chiude alle sue spalle e il cane che abbaia, ’Ntoni rimane fino all’alba a pensare alla sua storia e a guardare il paese prima di andarsene per sempre.

Un personaggio dinamico Il personaggio di ’Ntoni è l’unico ad avere una vera evoluzione nel romanzo: dalle prime tacite ribellioni contro la disciplina del nonno alle recriminazioni; dalla partenza in cerca di fortuna, alla delusione del ritorno; infine, il tracollo, con la vita sprecata all’osteria, il contrabbando, l’omicidio e la prigione. Fin dall’inizio se ne vedono le debolezze (quel suo riversare la colpa di tutto sugli altri o sul destino ad esempio), che lo configureranno nella storia come un “vinto”. Ma è anche l’unico personaggio che cerca un senso alla vita e, nella conclusione del romanzo, mostra una nuova consapevolezza. Ad Alessi che è pronto a riaccoglierlo in famiglia, egli risponde: «allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene». C’è la coscienza del divario tra il passato («prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima») e il presente («ora che so ogni cosa»). ’Ntoni ha però dovuto provare a percorrere una sua strada, arrivare a subire l’esperienza del carcere per apprezzare quello che prima non capiva, e proprio questa nuova comprensione fa sì che non si senta degno di riprendere il suo posto nella famiglia di cui ha tradito i valori.

Il livello stilistico Il contrasto fra chi rimane nel mondo della continuità, della ripetizione, della circolarità – la cui nostalgia ha dominato tutto il romanzo – e chi se ne è autoescluso, è espresso dai tempi verbali: tutto ciò che si riferisce alle case e alla natura è espresso all’imperfetto («il mare che gli brontolava»; «cominciavano a formicolare dei lumi»; «i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba»), mentre i gesti di ’Ntoni sono connotati dall’azione puntuale del passato remoto («Poi ’Ntoni... prese la sua sporta e si alzò per andarsene»; «Venni per vedervi»; «– No ! – rispose ’Ntoni. – Io devo andarmene»; «E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio») che sottolinea il cambiamento, il mutare degli eventi e la necessità del distacco. Gli aggettivi possessivi (soprattutto se adoperati per restituire i pensieri di ’Ntoni), sottolineano l’appartenenza dei personaggi a quel mondo che condividono, a quella comunione cittadina dove la dimensione privata si fonde con quella pubblica, e che ormai ’Ntoni, poiché

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ne è esiliato, sente lontana (la Mangiacarrube e Brasi Cipolla «andranno a dormire nella loro casa»; «Zio Santoro […] si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui»; «a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu»). La malinconia per un mondo perduto è resa anche attraverso insistite iterazioni («tanto era mutato... tanto suo fratello era mutato... avevano il cuore serrato... avevano il cuore stretto in una morsa... non osavano... non osava»), spesso accompagnate dal polisindeto. La ripetizione coinvolge anche i suoni: sono presenti paronomasie, allitterazioni, assonanze, rime, sovrapposizioni foniche (sedette-stette-stette; mare-amaranto-barche). Il verbo cominciare ricorre sette volte nell’ultimo capoverso: tutto ricomincia nel tempo ripetitivo del mondo arcaico, da cui ’Ntoni sarà escluso.

La fine L’epilogo del romanzo è tutto pervaso dai pensieri e dalle meditazioni del giovane ’Ntoni («autentico eroe della coscienza» per Di Silvestro), evidenziati dall’uso dell’indiretto libero e dalla descrizione di gesti e parole. Non c’è però un completo annullamento del narratore nell’ottica del personaggio, ma si assiste piuttosto a una sovrapposizione di punti di vista: il narratore anonimo, calato nell’universo del romanzo e a diretto contatto con l’animo del protagonista, non vi si immedesima però, e così l’autore, che esprime il suo punto di vista attraverso la scelta del finale. Sebbene queste distanze siano nette, personaggio, narratore e autore sembrano arrivare alla stessa malinconica conclusione sulla vita. Il romanzo si conclude sul nome di un personaggio secondario. A questo proposito Luperini scrive: «la battuta finale di ’Ntoni (“Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu”) trova la sua giustificazione se si osserva che non fa che riprendere due precedenti constatazioni riferite l’una a zio Santoro (“Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta – pensò ’Ntoni, – e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui”) e l’altra alla Mangiacarrube e a Brasi Cipolla (“’Ntoni disse: – Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa”). Rocco Spatu, zio Santoro, la Mangiacarrube e Brasi Cipolla – tutti personaggi che si collocano sui gradini più bassi nella considerazione dei paesani – rientrano nel ritmo ciclico da cui ’Ntoni è invece escluso». Le vite di ’Ntoni e di Rocco d’altronde sono state a lungo parallele, dalle notti impegnate nel contrabbando alle giornate da perdigiorno, eppure quest’ultimo, proprio grazie alla sua totale mancanza di consapevolezza, si è inserito senza problemi nella comunità del villaggio. La battuta è quindi estremamente amara e rivela ancor più la disperazione con cui ’Ntoni affronta questo addio definitivo al paese. Nella fotografia di Giovanni Verga, barche e un bastimento nel porto di Catania nel 1879.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali valori rappresenta la casa del nespolo? 2. Che cosa ha determinato la condizione di “vinto” di ’Ntoni? Perché è costretto ad andarsene dalla casa del nespolo anche se vorrebbe rimanere? ANALISI 3. ’Ntoni prende progressivamente coscienza della sua condizione di estraneo e di escluso: sottolinea nel testo i passaggi in cui questo avviene. 4. Individua i numerosi riferimenti ad avvenimenti accaduti nel passato: quale significato assumono? C’è una contrapposizione tra passato e presente? 5. Individua i silenzi e i gesti dei protagonisti e poi spiegane il significato. STILE 6. Cerca nel passo esempi di discorso indiretto libero e analizzali.

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Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Confronta schematicamente l’addio al paese di ’Ntoni con il celebre addio di Lucia nei Promessi sposi: individua le motivazioni dell’allontanamento, il momento in cui avviene rispetto alla vicenda narrata nel romanzo, le sensazioni provate dai personaggi e in che modo si allontanano, la descrizione del paesaggio, il riferimento ad altri personaggi. Sulla base dei dati elaborati, costruisci uno schema impostato sulle differenze dal punto di vista narrativo e stilistico.

INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

PER APPROFONDIRE

SCRITTURA 8. Dopo aver letto le possibili interpretazioni critiche proposte nelle rubriche PER APPROFONDIRE e INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO, esprimi una tua valutazione sulla conclusione del romanzo. Metti in relazione l’allontanamento di una figura come quella di ’Ntoni con la ripetitività e il fatalismo che caratterizzano la mentalità del paese di Aci Trezza (max 15 righe).

La conclusione problematica del romanzo La conclusione del romanzo lascia aperti alcuni interrogativi. L’allontanamento di ’Ntoni, ormai troppo diverso da un mondo che sente non suo, pone questo personaggio su un piano diverso rispetto agli altri, lo caratterizza con tutta la complessità che è propria di una crisi dei valori. La sua incompatibilità con la famiglia, che nel frattempo ha trovato nuovamente un equilibrio, si è prestata a diverse interpretazioni critiche. Il critico Luigi Russo, ad esempio, ha visto nella ricostruzione della famiglia da parte di Alessi la celebrazione di una ciclicità che attraversa tutto il romanzo, e che riporta i Toscano alla dimensione sociale ed economica da cui è partita la narrazione delle loro vicende. L’analisi di Giorgio Bàrberi Squarotti su questo punto diverge: non si tratta infatti di un ripristino della situazione iniziale, poiché Bastianazzo, Luca, la Longa e padron ’Ntoni sono morti, Lia è perduta, Mena ha

dovuto rinunciare all’amore per il disonore e il romanzo si chiude sull’allontanamento di ’Ntoni. Non vi è dunque un ritorno alla situazione di partenza (quasi fosse un naturale susseguirsi delle generazioni), ma un deciso peggioramento della stessa. Secondo Giacomo Debenedetti la decisione del giovane ’Ntoni di lasciare per sempre la famiglia e il paese inserisce la narrazione in una dimensione mitica – un po’ come nella conclusione di Rosso Malpelo la scomparsa del ragazzino nella miniera – in cui l’eroe protagonista si perde in una sorta di esilio volontario. Per Romano Luperini (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, La conclusione dei malavoglia; Russo VS Luperini), invece, nell’ultima pagina del romanzo Verga abbandona definitivamente l’adesione romantica a una visione del mondo fuori dalla Storia per accettare la realtà moderna (che sarà quella di Mastro-don Gesualdo).

La conclusione dei Malavoglia: Russo vs Luperini Proponiamo due passi critici a proposito della conclusione del romanzo: il primo – tratto da una pietra miliare degli studi verghiani, l’opera monografica di Luigi Russo (1892-1961) – vi vede la conferma della religione della famiglia, portata avanti dal personaggio di Alessi; il secondo, di Romano Luperini (1940), individua al contrario nell’addio di ’Ntoni al paese l’inevitabile abbandono di una concezione arcaica della vita e dei rapporti umani.

Luigi Russo La chiusa dei Malavoglia L. Russo, Giovanni Verga [1919], Laterza, Roma 1995

La chiusa dei Malavoglia riafferma la fede nell’unica divinità superstite, nell’unico tempio che resta sempre in piedi, fra le rovine di tutte le fedi e di tutte le speranze del mondo verghiano. Se la casa dei Malavoglia è andata distrutta, il singolo trascendentale della casa resta intatto: ecco la filosofia ultima del romanzo. La 5 visita finale di ’Ntoni e il suo volontario allontanamento sono come una specie di cerimonia religiosa, in cui il tempio, che era stato offeso nei suoi principi, viene riconsacrato: «Prima di andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima». Viene riconosciuto il tempio, e sono convocati idealmente gli assenti e i perduti: 10 padron ’Ntoni che è partito per un viaggio lontano, più lontano di Trieste e di

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Alessandria d’Egitto, è lì presente, tacito nume; ed è presente anche l’ultima dei Malavoglia, la Lia, la vittima colpevole, che la città ha perduto senza che se ne sappia più nulla: «Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra … Ma non 15 aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri». Insieme con questa consacrazione, c’è il castigo liberamente scelto e liberamente accettato; ’Ntoni, nell’atto stesso che riconosce la santità del focolare domestico, si esclude da sé da quel tempio, pronunzia la sua condanna e si allontana: «… qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti». 20 Ed egli se ne va colla sua sporta sotto il braccio. E nessuno osa dirgli di restare. Gli ultimi eredi che si aggrappano disperatamente alla vita, per ricostruire la casa e celebrare ancora una volta la legge della saggezza antica, stanno lì, dolci ma inesorabili giudici, nella loro muta e dolente semplicità, a ripetere l’ammonimento, e a sanzionare il doloroso rimprovero per la sorte di quelli che da quella legge 25 antica si dipartono. E tutte le cose e il paesaggio attorno pare acconsentano, in una loro tragica impassibilità, a quella lenta esecuzione di pena.

Romano Luperini A proposito della religione della famiglia R. Luperini, in AA. VV., Famiglia e società nell’opera di Verga, Olschki, Firenze 1991

Lo so bene che spesso quando si parla de I Malavoglia si insiste su questa centralità della famiglia e addirittura si arriva perfino a sostenere la tesi che i Malavoglia siano un romanzo a lieto fine, perché Alessi recupera la casa del nespolo. In realtà, al recupero della casa del nespolo sono dedicate nel romanzo esattamente due righe 5 e mezzo: e ovviamente non è un caso che la riconquista della casa del nespolo sia trattata con la tecnica del riassunto, del racconto condensato. Dovendo scegliere il personaggio con cui chiudere il romanzo, l’autore non ha scelto la figura premoderna di Alessi ma, viceversa, quella moderna di ’Ntoni. […] Alla fine ’Ntoni abbandona per sempre il pre-moderno, abbandona per sempre il luogo dove la 10 famiglia era ancora possibile, dove era ancora possibile la religione della famiglia. I Malavoglia, voglio dire, non sono il libro della religione della famiglia, ma il libro che dà un addio amaro a questa religione. Essa può continuare certo in personaggi come Alessi, che ripeteranno la propria vita da cani ancora per anni, ma la “fiumana del progresso” è inesorabile e sotto la sua spinta la religione della famiglia 15 si sta dissolvendo. Il romanzo non è l’esaltazione di tale religione, ma nasce dalla consapevolezza che essa appartiene al passato, appartiene ad un paese-famiglia che ormai fa parte di un mito e dunque non è neppure un’alternativa al presente.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Illustra le tesi sostenute da Luigi Russo e Romano Luperini, individuando le argomentazioni da essi addotte a sostegno delle loro affermazioni. 2. La frase chiave del brano di Russo è «il simbolo trascendentale della casa resta intatto»: spiega il significato di questa affermazione. 3. A cosa allude Russo, quando parla di «legge antica», in chiusura del suo passo critico? 4. Spiega perché Luperini definisce Alessi un personaggio «premoderno» e invece «moderno» ’Ntoni. 5. Quale delle due interpretazioni ti sembra più convincente? Illustra la tua risposta in circa 15-20 righe, facendo riferimento ai passi del romanzo che hai letto.

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4 Itinerario verghiano 1 Le Novelle rusticane Una nuova raccolta Le Novelle rusticane (in numero di dodici), composte tra il 1881 e il 1882 (subito dopo l’uscita dei Malavoglia) e in parte già apparse in riviste, furono pubblicate a Torino nel 1883. L’ambiente, naturale e sociale, in cui si svolgono le vicende narrate è lo stesso di Vita dei campi con cui è evidente il rapporto di continuità. Prevale qui però il tema economico su quello della passione amorosa (presente solo nel Mistero) e vengono meno quei personaggi quasi “leggendari” – come Jeli, Rosso Malpelo, il bandito Gramigna – che nelle novelle della raccolta precedente in qualche modo si contrapponevano all’inautenticità dei rapporti sociali: non a caso la maggior parte dei titoli non prende più spunto dalle figure dei protagonisti, ma fa riferimento a concetti o entità astratte (La roba T8 , Malaria T9 OL, Libertà T10 ). Il grande tema della miseria Miseria, rassegnazione, malattia sono descritte all’interno di un paesaggio implacabilmente ostile, quasi proiezione simbolica di uno stato di abbandono e di abdicazione alla vita, in particolare nella novella Malaria, ma anche in Gli orfani, Storia dell’asino di San Giuseppe, Pane nero. Quest’ultima, come I Malavoglia, mette al centro la decadenza di una famiglia e rappresenta in modo esemplare la rassegnazione di fronte al dominio del fattore economico. La novella ha inizio con la morte del capofamiglia per malaria e la conseguente caduta in disgrazia della famiglia (la madre e i tre figli, Santo, Carmenio e Lucia) che ha speso tutto per curarlo. Lucia va a servizio dal vecchio don Venerando, che la insidia continuamente. Alla fine, la ragazza cede al ricco padrone (rimanendone incinta) pur di avere la dote per sposare il suo innamorato, un poveraccio di nome Brasi. Inizialmente il comportamento poco onorevole di Lucia viene disapprovato dalla famiglia, ma dopo la morte della madre, e di fronte agli stenti vissuti per la cronica mancanza di denaro, la scelta opportunistica di Lucia sarà rivalutata dai fratelli che comprendono come il denaro ha potere anche sulle virtù e sui sentimenti come l’onore.

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Per approfondire Il racconto di Verga e i fatti storici della rivolta di Bronte

Libertà: una testimonianza della visione politica pessimistica di Verga Per Verga è impossibile riscattarsi dalla propria condizione di miseria e i tentativi di cambiamento hanno sempre esiti negativi, come risulta evidente nella novella Libertà (➜ T10 ), in cui emergono le posizioni politiche e ideologiche dell’autore. Ispirandosi all’episodio storico della rivolta di Bronte repressa dai garibaldini di Nino Bixio, Verga ritrae con crudo realismo la violenza inutile dei contadini, che sfogano la loro rabbia massacrando i “galantuomini” del paese: alla fine saranno ristabiliti i rapporti sociali precedenti alla rivolta, rispetto ai quali non c’è alcuna alternativa. Da qui il titolo antifrastico: Libertà. Un eroe negativo: Mazzarò Il protagonista della Roba, la novella più nota delle Rusticane, Mazzarò, è forse l’unico “eroe” presente nella raccolta, anche se in senso completamente negativo.

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Egli lotta tutta la vita per il possesso della “roba”, che diventa per lui un’ossessione e annulla ogni altro sentimento; alla fine della sua esistenza impazzisce, dopo essersi reso conto che dovrà inevitabilmente abbandonare, morendo, tutte le proprietà che ha accumulato. L’assenza di speranze Il pessimismo di Verga informa di sé tutte le Novelle rusticane: il desiderio di libertà è trasformato in violenza irrazionale (Libertà); anche chi sembra ottenere il successo economico vive una vita di stenti al servizio di uno scopo – accumulare, possedere – che alla fine si rivela in tutta la sua inutilità (La roba); i “galantuomini” si comportano al contrario di ciò che la parola dovrebbe significare (I galantuomini); la carriera ecclesiastica viene scelta per arricchirsi (Il Reverendo); le guardie si prodigano per far rispettare la giustizia solo se è favorevole ai potenti (Don Licciu Papa). Situazioni paradossali, viste attraverso un «umorismo doloroso» (L. Russo). Diversi sono i contatti tra le novelle e i romanzi di questo periodo, sia Il marito di Elena (in cui la descrizione dei beni del barone è modello dell’elenco delle proprietà di Mazzarò nella Roba) che ancor più Mastro-don Gesualdo (Mazzarò e il Reverendo sono arrampicatori sociali che prefigurano Gesualdo, nei Galantuomini è già rappresentata la decadenza delle classi nobiliari ecc.). L’ultima novella della raccolta, Di là dal mare, svolge la funzione di riflessione metaletteraria, al pari di Fantasticheria nella precedente Vita dei campi. Esse sono accomunate dallo stesso espediente narrativo, l’utilizzo cioè di un personaggio femminile estraneo al mondo raccontato nelle altre novelle che osserva da lontano, insieme al suo giovane amante, «gioie, dolori, speranze umili» di personaggi intravisti nella campagna siciliana.

Giulio Aristide Sartorio, Malaria, 1883 (Museo nazionale di Belle arti, Buenos Aires).

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La roba Novelle rusticane

G. Verga, Novelle, a c. di A. Cannella, Principato, Milano 1986

La roba è la prima delle Rusticane, pubblicata in rivista fin dal 1880. La novella è incentrata sulla figura di Mazzarò che, da semplice contadino, è riuscito a diventare un ricco possidente. Non avendo famiglia né eredi, vive esclusivamente per la sua “roba”, finché viene il giorno in cui la dovrà lasciare.

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini1, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse2 della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri3 grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, 5 sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga4 suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria5: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò. – E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, 10 e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò. – E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli6 pesasse addosso la polvere, e il guardiano 15 sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: – Di Mazzarò. – Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli ara20 tri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese7, e i buoi che passavano il guado8 lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandrie di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no9, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba 25 di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo10 nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco11, a 30 vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a 1 Biviere di Lentini: il lago di Lentini, ora prosciugato, nella Piana di Catania, in cui si trovano anche le altre località citate in seguito. 2 stoppie riarse: l’insieme degli steli di erba o di cereali che restano nel campo dopo il taglio o la mietitura sono secchi, aridi («riarsi»). 3 sugheri: alberi simili alla quercia dalla cui corteccia si ricava il sughero. 4 lettiga: tipo di carrozza, trainata da ca-

valli o muli e condotta dal lettighiere.

5 sonno della malaria: l’effetto della malattia è spesso un’invincibile sonnolenza. 6 gli: vale le, riferito alla vigna (con la libertà grammaticale della lingua parlata). 7 maggese: campo lasciato senza semina per un anno perché riacquisti fertilità con il riposo. 8 guado: punto di un corso d’acqua che

può essere attraversato da persone e animali. 9 che risuonava ora sì ed ora no: che si udiva a intervalli, a causa della distanza e della direzione del vento. 10 assiolo: piccolo uccello notturno. 11 non gli avreste dato un baiocco: aveva un’apparenza così misera che non lo avreste tenuto in nessun conto, non gli avreste dato un centesimo. Il «baiocco» era una moneta di rame di scarso valore.

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riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima12 veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’ac35 qua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che13 tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore14; ma egli portava ancora 40 il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza15, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche16, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali 45 della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava 50 la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello17, nelle calde giornate della messe18. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua 55 madre, la quale gli era costata anche 12 tarì19, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena 60 curva 14 ore, col soprastante20 a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate21 di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel 65 fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, 22 70 col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie23 larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro 12 prima: prima di diventare ricco, quan-

16 bocche: quelle dei contadini che lavo-

20 soprastante: sorvegliante, sovrinten-

do era un povero bracciante che lavorava la terra altrui. 13 che: così che. 14 cattivo pagatore: chi non paga creditori o lavoranti, o li paga male e in ritardo. 15 grandezza: lusso, spreco.

rano e vivono sulle terre di Mazzarò. 17 corbello: cesto di vimini. 18 messe: mietitura. 19 tarì: moneta in uso in Sicilia fino al 1860.

dente ai lavori. 21 se fate: se cercate. 22 biscotto: galletta, sorta di pane non levitato, secco e duro che veniva consumato come colazione dai salariati.

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la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere. – Curviamoci, ragazzi! – Egli era tutto l’anno colle mani in tasca 75 a spendere24, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 80 tarì d’argento; ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia25 soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo26, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. 85 Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei27 avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva 90 altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo28 ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte 95 quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri29 dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione30, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco31. – Costui vuol essere rubato per forza! diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di 100 dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia a casa», – «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai 105 suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì32 prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate33, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce34. Al barone non rimase altro che lo 110 scudo di pietra35 ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: – Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te. – Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. 23 madie: recipienti di legno. 24 a spendere: non certo per se stesso, ma per le spese necessarie per acquistare altre proprietà o per pagare le tasse, fra cui l’imposta sui terreni (la fondiaria). 25 carta sudicia: la carta moneta, considerata sudicia perché sgualcita e sporcata da tanti passaggi di mano.

26 il santo: la processione religiosa con la statua del santo. 27 ch’ei: che egli. 28 nudo e crudo: poverissimo. 29 campieri: guardie campestri, sorveglianti. 30 minchione: ingenuo, sciocco, persona facile da ingannare.

31 colle mani nel sacco: a rubare. 32 uscì: fu estromesso, perse. 33 carte bollate: atti di vendita delle terre. 34 croce: la firma di Mazzarò, che era analfabeta.

35 lo scudo di pietra: lo stemma nobiliare.

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Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa36 si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo37 Mazzarò, dover trovare uno stratagemma 120 per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini38, e arrivava a fargliela credere una terra promessa39, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava40 – per un 125 pezzo di pane41. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate,42 i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. Lo vedete quel che mangio io? – rispondeva lui – pane e cipolla! e sì che ho i ma130 gazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba. – E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti43 ce ne volevano 135 per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua. 140 Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di 145 spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi44! costui che non ha niente! Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’a150 nima45, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! 115

36 una chiusa limitrofa: un terreno agricolo delimitato confinante. 37 prendere pel collo: pretendere una cifra eccessivamente alta. 38 lupini: pianta diffusa e facile da coltivare; i suoi semi gialli sono commestibili.

39 una terra promessa: fertile, preziosa come la terra promessa da Dio al popolo di Israele nella Bibbia. 40 acchiappava: prendeva. 41 per un pezzo di pane: per pochi soldi. 42 malannate: annate di scarsi raccolti.

43 tanti: così tanti. 44 chi ha i giorni lunghi: chi ha la giovinezza davanti a sé. 45 che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima: che era mortalmente malato.

Analisi del testo Lo sfondo storico-sociale La novella è incentrata esclusivamente sulla vicenda umana di Mazzarò, un self-made man rurale che, da misero contadino al servizio di altri, è diventato un ricchissimo proprietario

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terriero. Al di là del significato simbolico e morale della storia, la novella delinea una reale trasformazione sociale in atto a quel tempo: l’impoverimento della antica nobiltà feudale, rappresentata dal barone che, per incapacità, perde via via tuti i suoi averi, compreso il palazzo nobiliare, averi che passano nelle mani dell’abile e spregiudicato Mazzarò, un tempo umile bracciante al servizio del barone. Significativamente al barone rimane solo lo stemma nobiliare della sua casata, uno scudo di pietra sul portone del palazzo (peraltro «Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi», così commenta il narratore aderendo pienamente al punto di vista del protagonista). Ed è significativa la sentenza lapidaria con cui Mazzarò sintetizza il processo storico in corso: «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare».

Un “eroe” al servizio della “religione della roba” Mazzarò è presentato indirettamente, attraverso l’elenco delle sue proprietà (che costituiscono la sua identità stessa) che vengono indicate dal lettighiere a un ipotetico viandante che passi nella piana di Catania e chieda notizia dei vari possedimenti che scorrono lentamente sotto i suoi occhi (...«Qui, di chi è?»...«E qui?»). Domina un tono quasi favoloso («...e cammina e cammina...») che presenta in una luce epica l’eroe della storia, capace di sacrificarsi fino allo stremo per accumulare “la roba”. Così tanta che il narratore utilizza una iperbole per rappresentarla: «Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli... e il sibilo dell’assiolo nel bosco»). Nella mente del lettore resta più lo sforzo titanico, quasi sovrumano di Mazzarò che non la precisazione limitativa del lettighiere che interviene a correggere inaspettatamente la prospettiva epica: «Invece egli era un omiciattolo... che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo».

Un punto di vista solidale con l’ottica utilitaristica Per la maggior parte del testo il narratore assume un’ottica vicina a quella del protagonista e del mondo narrato, senza discostarsene in modo significativo. Verga-autore non commenta la dominanza assoluta del tema economico a cui Mazzarò sacrifica, in una sorta di ossessione, ogni affetto e ogni valore (significativo che consideri una perdita i denari che ha dovuto impiegare per il funerale della madre) e lascia parlare l’evidenza dei fatti, lasciando al lettore la formulazione di un giudizio critico.

Una conclusione “umoristica” La conclusione della novella sancisce la sconfitta di Mazzarò. All’avanzare della vecchiaia e all’imminenza inesorabile della morte, Mazzarò ha da opporre solo l’amara consapevolezza di aver votato la sua vita alla “roba” che, paradossalmente, gli sopravviverà e andrà a finire in altre mani. Da qui la scelta irrazionale di ammazzare gli animali da cortile per impedire che vivano oltre il loro proprietario. Una conclusione tragicomica che sembra anticipare i toni “umoristici” del grande conterraneo di Verga, Luigi Pirandello.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della novella in max 5 righe. COMPRENSIONE 2. Nonostante si sia arricchito, Mazzarò continua a seguire il medesimo stile di vita di quando era povero. Perché? 3. Quale rapporto ha Mazzarò con il mondo femminile? STILE 4. Quale idea trasmette l’uso ricorrente nella novella della figura retorica dell’enumerazione?

Interpretare

SCRITTURA 5. L’aspirazione di Mazzarò è quella di accumulare più roba possibile. Dopo aver chiarito il motivo per cui Verga definisce i beni posseduti da Mazzarò con il sostantivo roba, delinea il ritratto del protagonista della novella (max. 15 righe).

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Giovanni Verga

Libertà

T10

Novelle rusticane G. Verga, Tutte le novelle, a c. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 2001

La novella, pubblicata su «La domenica letteraria» del 12 marzo 1882, e inserita successivamente tra le Novelle rusticane (1883), è l’unica opera di Verga che abbia per soggetto un avvenimento storico. La novella prende spunto dalla sanguinosa rivolta contadina realmente avvenuta a Bronte – una cittadina alle falde dell’Etna – nell’agosto del 1860 e repressa con durezza esemplare dal generale garibaldino Nino Bixio.

Sciorinarono1 dal campanile un fazzoletto a tre colori2, suonarono le campane a stormo3, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!» Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei “galantuomini”4, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette 5 bianche5; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. – A te prima, barone! che hai fatto nerbare6 la gente dai tuoi campieri7! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone8, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! 10 che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno9! E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare 15 colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La 20 gnà10 Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota11 e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi 25 il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale12, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide ca1 Sciorinarono: misero fuori. 2 a tre colori: la bandiera tricolore era il

6 nerbare: prendere a scudisciate. 7 campieri: guardie armate incaricate dai

simbolo dei garibaldini.

signori di sorvegliare i campi. 8 ricco epulone: riferimento alla parabola del Vangelo (Luca, 16, 19) che racconta di un ricco che si disinteressa delle sofferenze dei poveri. 9 guardaboschi… al giorno: il guardaboschi si è venduto ai signori mettendosi al loro servizio e vende i popolani denun-

3 a stormo: a martello, per radunare gente o per festeggiare.

4 casino dei “galantuomini”: circolo dei possidenti. 5 berrette bianche: il berretto è il copricapo dei contadini, i borghesi invece usavano il cappello (Addosso ai cappelli!).

ciandoli quando li trova a far legna; il tarì era la moneta in corso nel regno di Napoli. 10 gnà: signora, in dialetto siciliano. 11 la Ruota: congegno girevole posto in un’apertura del muro dei conventi o dei brefotrofi in cui si potevano abbandonare i nati illegittimi. 12 speziale: farmacista.

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dere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello13. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, 35 biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu14! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie 40 l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! 45 Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto15, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste 50 di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove16, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, 55 dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della 60 baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio 65 addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per 70 i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non 30

13 martello: battente per picchiare sulla

14 Neddu: Bastianeddu, vezzeggiativo di

porta.

Sebastiano.

15 in falsetto: con voce alterata. 16 le alcove: le camere da letto.

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la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi17. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le 80 stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti18, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava19; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a 85 far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre 90 il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcola95 va colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo20, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta21, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa22! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, 100 dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io – . Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il bur105 rone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. 110 Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando23 come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare 115 addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strappa75

17 senza mezzogiorno… di turchi: in un totale sovvertimento di tutte le regole. 18 per i canti: negli angoli. 19 Aggiornava: faceva giorno, albeggiava.

20 Nino… Ramurazzo: erano due dei capipopolo della rivolta. 21 metterla sulla carta: redigere gli atti di proprietà.

22 a riffa e a raffa: a chi ruba di più. 23 sacramentando: bestemmiando.

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rono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati 120 sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna24, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe 125 strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città25 li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il 130 lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare26, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi 135 il pane. Il letto nello stallazzo27 costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che 140 facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie28, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal 145 carcere, egli ripeteva: – Sta tranquilla che non ne esce più – . Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci29. 150 Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia30 – ché capponi davvero si diventava là 155 dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio31 quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi 24 scranna: sedia con la spalliera e alti braccioli. 25 città: è Catania. 26 non sapere che fare: questo uso dell’infinito nel dialetto siciliano ha valore di presente storico.

27 stallazzo: stalla annessa alle locande. 28 ubbie: preoccupazioni. 29 all’aria ci vanno i cenci: detto popo-

30 capponaia: metafora per indicare la gabbia degli imputati. 31 sul mostaccio: di fronte al viso.

lare per indicare che ci rimettono sempre i più poveri.

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pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini32, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano33 fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la 165 libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!... 170 Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!... 160

32 galantuomini: qui sono i giurati.

33 ciangottavano: chiacchieravano a bassa voce.

Analisi del testo La prima sequenza La prima parte della novella narra in modo concitato, quasi cinematografico, lo scoppio della rivolta contadina e l’uccisione di alcuni notabili, ma anche dei familiari innocenti. Traspare dalla narrazione il giudizio negativo, l’indignazione di Verga di fronte a una violenza che non conosce pietà, né discriminanti. La furia dei contadini in rivolta contro soprusi e ingiustizie secolari colpisce infatti anche dei ragazzi (come il figlio del notaio o quello della baronessa che cerca inutilmente di difendere la madre). Il narratore insiste su particolari raccapriccianti e riferimenti patetici attraverso cui ricerca la partecipazione emotiva del lettore.

La seconda sequenza La seconda parte inizia dopo la carneficina quando i rivoltosi, nella giornata che segue il massacro, iniziano a litigare fra di loro, in nome della “libertà”, sulle terre da spartirsi.

La terza sequenza La terza sezione vede l’arrivo dei soldati del generale Bixio, inviato a riportare l’ordine nella cittadina. Il tono della narrazione è freddamente referenziale, senza traccia della forte tensione emotiva che apre la novella. Anche le esecuzioni sommarie ordinate dal generale sono riferite senza commento, come fossero fatti di ordinaria amministrazione («E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei... i primi che capitarono»). Nel paese torna la calma, i presunti colpevoli sono tradotti nelle carceri di Catania e tutto ritorna com’era: la fatalistica visione verghiana della storia implica infatti l’impossibilità che qualcosa cambi, che i rapporti tra le classi si facciano più giusti. Dopo un interminabile processo, gli accusati tornano in carcere e sono quindi giudicati colpevoli. La novella si chiude con la protesta accorata del carbonaio: «Se avevano detto che c’era la libertà!» che fa amaramente da pendant con l’apertura della novella, «Viva la libertà!», chiudendo circolarmente il racconto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto informativo della novella in non più di 10 righe. STILE 2. Analizza la prima macrosequenza dal punto di vista: del ritmo narrativo; della sintassi; delle figure retoriche; delle immagini. ANALISI 3. Individua e analizza le immagini di cui si serve Verga per rappresentare la furia della rivolta.

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TECNICA NARRATIVA 4. Quale tipologia di narratore è presente? Qual è il punto di vista dell’autore? COMPRENSIONE 5. Nella rappresentazione di giudici, avvocati e giurati al processo puoi riscontrare un giudizio dell’autore?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Metti a confronto la rappresentazione della rivolta popolare in Libertà con i capp. XII e XIII dei Promessi sposi in cui Manzoni descrive l’assalto ai forni e la sommossa per il rincaro del pane (➜ VOL 2 C20 T17 ). Individua le possibili analogie e differenze e contestualizza le due narrazioni: esplicita la posizione dei due autori rispetto alla rivolta e confronta lo stile dei due testi (voce narrante, struttura dei periodi, uso del discorso diretto, uso di metafore e similitudini, lessico). SCRITTURA 7. La parola che dà il titolo alla novella, libertà, campeggia nel primo e nell’ultimo periodo, chiudendo circolarmente la novella; ma il tono con cui la libertà è evocata risulta completamente diverso. Spiega e commenta questa affermazione in un testo di max 15 righe.

2 Dopo le Rusticane Altre raccolte di novelle Prima della pubblicazione del Mastro-don Gesualdo, alla cui stesura Verga è impegnato fin dal 1881, escono ancora tre raccolte di novelle: Per le vie (1883), Drammi intimi (1884) e Vagabondaggio (1887). Per le vie: la miseria della città La prima raccolta comprende racconti composti contemporaneamente alle Rusticane, di ambientazione milanese e proletaria. Sono qui più forti che altrove l’influenza di Zola e l’esempio dei romanzi sociali degli scrittori scapigliati. Già dal titolo pensato inizialmente per la raccolta e poi scartato (Vita di officina), si comprende infatti l’intenzione di Verga di completare l’indagine sociale iniziata in ambiente contadino con Vita dei campi, rivolgendo questa volta l’attenzione al proletariato urbano. Sempre presente è il tema economico, messo ancor più in evidenza dal divario tra la ricchezza e la povertà cittadina (In piazza della Scala, Al veglione); gli ambienti, se possibile, sono anche più squallidi di quelli campestri: osterie in cui i poveracci si abbrutiscono (L’osteria dei «Buoni Amici»), portinerie in cui una ragazza rachitica passa il tempo a guardare il mondo dalla finestra (Il canarino del n. 15). Domina la tristezza, la disillusione sulla possibilità di vivere sentimenti autentici, la solitudine, rappresentata in modo drammaticamente esemplare dalla novella finale, L’ultima giornata, in cui il protagonista, senza lavoro e privo di relazioni umane, muore suicida buttandosi sotto un treno. L’indifferenza della gente si tramuta in curiosità sadica di fronte al corpo dilaniato. Le altre due raccolte sono più composite: di ambientazione sia milanese sia siciliana, analizzano diversi contesti sociali e sperimentano soluzioni narrative che verranno realizzate nel Mastro-don Gesualdo. Il tema del vagabondaggio, che dà il nome alla raccolta del 1887, è anche un modo di rappresentare la vita umana come un andare insensato e senza meta e sarà ripreso e approfondito nel secondo romanzo verista. Emilio Longoni, Riflessioni di un affamato, 1894 (Museo del Territorio Biellese, Biella).

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I ricordi del capitano D’Arce e Don Candeloro e C.i Nel 1891 Verga pubblica I ricordi del capitano D’Arce, i cui racconti (alcuni composti durante la stesura del Mastro) potrebbero costituire lo studio di quel mondo dell’alta società a cui lo scrittore avrebbe voluto dedicarsi negli ultimi tre romanzi del ciclo dei Vinti. L’ultima raccolta di novelle esce nel 1894 col titolo Don Candeloro e C.i: domina il tema della maschera e della finzione, l’ipocrisia degli uomini è messa in scena in teatri di commedianti girovaghi o anche in luoghi religiosi: «Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l’uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori. – Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!» (così Verga nell’introonline duzione a Fra le scene della vita). T11 Giovanni Verga Tentazione! È qui preannunciata quella che sarà la tematica chiave di un Novelle sparse altro grande siciliano: Luigi Pirandello.

3 Mastro-don Gesualdo: il romanzo della “roba” Una laboriosa stesura Verga inizia a lavorare al Mastro-don Gesualdo, secondo romanzo del ciclo dei Vinti, nel 1881, lo stesso anno in cui pubblica I Malavoglia, accolti freddamente dalla critica e dal pubblico. A un’analisi verista dei meccanismi sociali, colti in un’umile realtà, il pubblico sembrava ormai preferire i drammi sentimentali, le psicologie torbide, i deragliamenti della follia, che la scapigliatura e il nascente decadentismo stavano portando in auge (proprio nel 1881 aveva incontrato grande successo Malombra di Antonio Fogazzaro ➜ C5). La stesura del nuovo romanzo impegnerà Verga per lunghi anni (lo scrittore ne modificherà più volte l’impianto complessivo e lo stile). Pubblicato a puntate sulla «Nuova antologia» (1888), alla fine Mastro-don Gesualdo esce in volume presso l’editore Treves nel 1889. È lo stesso anno in cui D’Annunzio pubblica Il piacere, espressione di una sensibilità letteraria del tutto nuova. Il verismo è in crisi e si stanno affermando modelli diversi, ma Verga non intende tradire i presupposti teorici della sua poetica: con il nuovo romanzo allarga coerentemente l’ambito di indagine, dalla lotta per la sopravvivenza all’avidità del ceto piccolo-borghese di provincia, adattando lo stile ad ambienti sociali più elevati e a stati d’animo più complessi. Ne nasce un nuovo capolavoro, incentrato questa volta su un unico personaggio nodale, Mastro-don Gesualdo, di cui il romanzo segue l’ascesa economico-sociale e la decadenza, fino alla morte. La struttura Mastro-don Gesualdo è diviso in quattro parti: le prime due (costituite da 12 capitoli) mostrano la rapida affermazione sociale e il trionfo economico del protagonista, di cui si sottolinea lo slancio propositivo e la tenacia nell’affrontare le avversità; nella terza e quarta (9 capitoli) l’autore descrive il progressivo declino economico e l’isolamento che porta Gesualdo a ripiegarsi su se stesso, ormai oggetto delle pressioni altrui, fino alla morte, nella solitudine più completa. L’ambientazione spazio-temporale I fatti narrati si svolgono nella prima metà dell’Ottocento e gli avvenimenti storici (le conseguenze dei moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848) non fanno solo da sfondo, ma influenzano direttamente gli eventi. Verga ambienta anche questa volta il romanzo in Sicilia, in particolare nella cittadina Itinerario verghiano 4 277

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di Vizzini (mai però esplicitamente nominata) e nella campagna circostante, che conosceva bene perché la sua famiglia possedeva in quella zona delle terre. I personaggi si muovono nei luoghi deputati all’incontro, ovvero la piazza principale, la chiesa, la farmacia, il Caffè dei Nobili, oltre che nei palazzi degli aristocratici, delle grandi famiglie decadute, degli arricchiti. Le ambientazioni sono parte fondamentale della narrazione: caratterizzano infatti l’appartenenza sociale dei personaggi e focalizzano l’attenzione sul tema cardine dell’ascesa sociale ed economica (o del decadimento). La trama La vicenda si svolge a Vizzini tra il 1820 e il 1848, ovvero gli anni di due eventi storici particolarmente importanti per la Sicilia: lo scoppiare dei moti carbonari e la rivoluzione di Palermo del 12 gennaio (entrambi tentativi indipendentisti di ribellione al regno borbonico delle Due Sicilie). In questo contesto storico si snoda la vicenda di Gesualdo Motta, manovale divenuto imprenditore grazie al suo infaticabile lavoro e al sacrificio di ogni altro aspetto della propria vita. Nella casa della nobile ma decaduta famiglia Trao scoppia un incendio, durante il quale don Diego Trao sorprende la sorella Bianca in compagnia del cugino don Ninì, figlio della baronessa Rubiera. Le difficili condizioni economiche dei Trao e l’avidità della baronessa impediscono un matrimonio riparatore, e così, si decide di combinare le nozze tra Bianca e Gesualdo Motta, che, dopo essersi arricchito, ha l’ambizione di un legame nobiliare. Per ottenere questa promozione sociale Gesualdo non esita ad abbandonare Diodata, una fedele serva che lo ama sinceramente e che lo ha reso padre. Ma il matrimonio si rivelerà un fallimento: Bianca non maschera il suo disprezzo nei suoi confronti e non lo introduce nella nobiltà del paese. Dall’unione nasce Isabella (forse figlia di Ninì Rubiera, ma accettata da Gesualdo), che, dopo un’educazione in collegio, torna in famiglia in età da marito. Si ripete la vicenda della madre: Isabella vorrebbe unirsi in matrimonio col cugino Corrado la Gurma, nobile decaduto, ma Gesualdo ostacola la relazione a causa delle condizioni economiche del ragazzo, e costringe la figlia a sposare l’anziano duca di Leyra, in cambio di una cospicua dote. Quando Bianca si ammala di tisi, tutti si allontanano per paura del contagio e rimane a servizio dei Motta solo la fedele Diodata. Gesualdo intanto è vessato dalle richieste di molti: Nanni l’Orbo, marito della stessa Diodata, pretende che il padrone ora le paghi un salario per i suoi servizi, la sorella accampa pretese sul patrimonio familiare, l’anziano duca di Leyra sperpera le sostanze di Gesualdo vivendo alle sue spalle. Scoppia la rivolta siciliana all’inizio del ’48: Bianca muore e i contadini assaltano le proprietà di Gesualdo, che, già ammalato di cancro, si era ritirato nella sua tenuta di campagna; il duca di Leyra lo riporta nel suo palazzo di Palermo, dove Gesualdo finirà i suoi giorni, amareggiato per i beni dilapidati, crucciato per l’infelicità della figlia, addolorato per l’aridità dei rapporti umani nel corso della sua vita. Il sistema dei personaggi Protagonista assoluto del romanzo è Gesualdo Motta, solitario “eroe della roba”. La sua capacità quasi eroica di ammassare denaro attraverso la rinuncia e il sacrificio è ripagata con un’inevitabile sconfitta. Più che dal punto di vista economico (anche se alla fine vede sperperato tutto ciò che ha accumulato), Gesualdo è un vinto sul piano umano. Per la “roba” è disposto a vendere l’anima, a fare un patto col diavolo – come gli ricorda un povero vecchio incontrato per strada «Avete tanti denari, e vi date l’anima al diavolo!» (cap. IV) – ma in questo modo perde la sua identità: infatti, non può essere più accolto alla pari tra gli umili, ma non viene neppure accettato tra i nobili. E soprattutto perde la possibilità di instaurare un qualsiasi legame affettivo: incompreso dalla sua famiglia d’origine, è distante e

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sostanzialmente disprezzato anche dalla moglie e dalla figlia. Termina così i suoi giorni nella più disperata solitudine. Intorno al protagonista che giganteggia (specie nella prima parte) ruotano figure di classi sociali diverse, ma quasi tutte tristemente negative: da una parte la nobiltà decaduta dei Trao o dei Leyra – estenuata da tare ereditarie, i cui rappresentanti si rivelano egocentrici, narcisisti, disutili alla società – ostenta il suo disprezzo per il mastro arricchito; dall’altra, personaggi di umili origini, come i suoi congiunti o Nanni l’Orbo, che non avendo fatto fortuna come lui, lo invidiano e cercano anch’essi in ogni modo di approfittare della sua ricchezza. Forse l’unico personaggio del romanzo che può essere definito positivo (a cui è dato però pochissimo spazio nella narrazione) è la giovane contadina Diodata, la serva-amante di Gesualdo, in cui si intravede un ultimo residuo dei veri valori, un’umile fedeltà, un affetto sincero. Le tecniche narrative Sotto il profilo narratologico e stilistico Mastro-don Gesualdo appare meno rivoluzionario dei Malavoglia, ma non si deve certo pensare a un ritorno al narratore onnisciente e alla rinuncia all’impersonalità (anche qui infatti il narratore non fornisce ragguagli su antefatti, luoghi e personaggi). Certamente però, in rapporto alla diversificazione dell’ambiente rappresentato, a volte popolare, a volte borghese o anche aristocratico, il procedimento della “regressione” del narratore e la presenza di un narratore popolare non sono più così evidenti come nei Malavoglia o in Rosso Malpelo e questo può dare l’impressione di un romanzo per certi aspetti più “tradizionale”. In realtà Verga non rinuncia all’oggettività narrativa, caratterizzando in questo caso i personaggi attraverso la gestualità e soprattutto un uso molto frequente del dialogato (a proposito del Mastro-don Gesualdo, Carla Riccardi ha parlato di «romanzo teatrale»): la pluralità delle “voci”, dei popolani, della borghesia, della nobiltà, immesse nel tessuto narrativo del romanzo, crea una complessa partitura polifonica. Ma ciò che soprattutto caratterizza il nuovo romanzo verghiano è la centralità assoluta del punto di vista del protagonista: le vicende di Gesualdo sono presentate sia attraverso le sue parole (in discorso diretto), sia attraverso i suoi pensieri (riprodotti dall’uso marcato del monologo interiore e del discorso indiretto libero). La visione del mondo: il determinismo pessimistico di Verga Rispetto ai Malavoglia, nel Mastro-don Gesualdo la presa di coscienza del gretto materialismo che domina la società e il fatalismo pessimistico dell’autore si accentuano, delineando una realtà umana irrimediabilmente segnata dalla sofferenza. L’amara verità che traspare dalla vicenda di don Gesualdo è che non c’è altro modello di comportamento possibile se non quello dettato dal paradigma economico, ma esso risulta comunque fallimentare. Inoltre, nella logica ferrea del denaro, non c’è spazio per gli autentici rapporti umani, che ne escono snaturati, se non addirittura annullati. Gesualdo, eroe negativo dell’incipiente “modernità” Nella sua ascesa economica, ricercata a ogni costo, Gesualdo ha qualcosa di epico, di eroico. Tuttavia si deve precisare che non si tratta di un personaggio positivo: pur muovendosi su uno sfondo ancora per certi versi arcaico, Gesualdo incarna la moderna cultura del progresso, guardata da Verga in modo critico. All’etica capitalistica, che vede l’arricchimento come mezzo di autorealizzazione, Gesualdo sacrifica il proprio tempo (è significativo che egli abbia sempre fretta: il suo tempo è ritmato non dai lenti cicli legati alla terra, ma dalla rapida scansione della produttività); sacrifica anche un rapporto autentico con la natura che un tempo (poi amaramente rimpianto) gli apparteneva; ma sopratItinerario verghiano 4 279

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tutto sacrifica i veri affetti, come quello per la fedele Diodata, che gli ha dato dei figli, e non sa costruirsene dei nuovi nel corso della vita. Prima che degli eventi o della malattia che lo ucciderà, Gesualdo è una vittima di sé stesso e dei falsi valori su cui ha costruito la sua esistenza, autocondannandosi all’isolamento e all’emarginazione (rispetto al popolo da cui proviene e alla famiglia d’origine, che lo invidia, ma anche rispetto ai ceti elevati di cui ha erroneamente pensato di entrare a far parte e che lo disprezzano per le sue umili origini).

Il Verga verista: i grandi romanzi, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo I Malavoglia

IL NARRATORE

• Adesione al canone dell’impersonalità. • Narratore popolare, interprete di una voce corale che coincide col sentire della comunità di Aci Trezza in cui è ambientato il romanzo.

I PERSONAGGI

•N umerosi personaggi (di fatto non spicca un protagonista) che si dividono in due gruppi: da un lato i Malavoglia, dall’altro gli abitanti di Aci Trezza. • Tutti sono mossi dalla “lotta” per i bisogni materiali.

LA FOCALIZZAZIONE

•A lternanza di punti di vista antitetici: da un lato i Malavoglia (fedeli ai valori patriarcali e per questo destinati alla sconfitta), dall’altro i loro compaesani.

LA LINGUA E LO STILE

•U so del discorso diretto e del discorso indiretto libero senza privilegiare alcun personaggio. • L’artificio della “regressione” è realizzato con particolare coerenza.

LA VISIONE DEL MONDO

•L a spinta all’ascesa sociale, la ricerca del proprio tornaconto economico, la mancanza di solidarietà dominano una società in cui vige la feroce legge del più forte.

L’AMBIENTE SOCIALE

•L o spazio chiuso della collettività in un paese di pescatori in Sicilia.

LA STORIA E LO SPAZIO

• I l tempo della natura, con il ciclico trascorrere delle stagioni, prevale sul tempo storico (ad es. la battaglia di Lissa è ridotta a un episodio favoloso). I personaggi si muovono in uno spazio mitico e astorico.

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Mastro-don Gesualdo Mastro-don Gesualdo 1889

Seconda opera del ciclo dei Vinti

Interesse per la società piccoloborghese di provincia

• Un unico personaggio • Punto di vista del protagonista

Mastro-don Gesualdo

• Adesione al canone dell’impersonalità. • In rapporto ai diversi ambienti rappresentati (popolare, borghese, aristocratico) la “regressione” dell’autore e la voce del narratore popolare sono meno marcati.

•S picca nel romanzo un unico personaggio, il protagonista eponimo, di cui si segue ascesa e caduta. • Ciò che muove l’azione di Gesualdo è l’avidità di ricchezza.

• Centralità del punto di vista del protagonista.

•U so marcato del monologo interiore e del discorso indiretto libero. • La “regressione” del narratore e la presenza del narratore popolare sono meno evidenti.

•L a realtà umana è irrimediabilmente segnata dalla dimensione economica (dura concezione del lavoro, l’accumulo della “roba”, la scalata sociale, la solitudine che comporta sofferenza). Nessun altro modello di comportamento è possibile.

•L ’aristocrazia decaduta e la borghesia in ascesa in una cittadina della provincia siciliana.

•L a storia è presente con l’eco diretta delle rivoluzioni del 1820-21 e del 1848 e offre uno spaccato della società siciliana e italiana durante il Risorgimento.

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Giovanni Verga

T12

Il dramma interiore di un “vinto”

EDUCAZIONE CIVICA

Mastro-don Gesualdo I, IV G. Verga, I grandi romanzi, a. c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

Il brano mette a fuoco la personalità di Gesualdo che, al termine di una faticosa giornata di lavoro, si concede un breve momento di riposo nel suo podere in Canziria. Sull’aia, nel paesaggio illuminato dalla luna, si abbandona ai ricordi ripercorrendo le tappe della sua vita, la fatica, la soddisfazione per le vittorie ma anche l’incomprensione della famiglia, e in particolare del padre, nei suoi confronti. La contraddizione che vive il protagonista diventa ancor più evidente nel dialogo con Diodata, la giovane contadina con cui aveva una relazione e che ora deve abbandonare per sposare Bianca Trao.

Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte1. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar 5 di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, 10 e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell’aia la bica2 alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio. 15 – Eh? Diodata? Dormi, marmotta?... – Nossignore, no!... Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le 20 gambe fiacche. – Dormivi!... Se te l’ho detto che dormivi!... E le assestò uno scapaccione come carezza. Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel ma25 gazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia3, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava 30 il deprofundis sulla schiena del figliuolo4, con la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! – Ca1 Francofonte: paese a nord-est di Vizzini. 2 la bica: il mucchio di covoni.

3 Donferrante… Licodia: paesi nei pressi di Vizzini. 4 suonava… figliuolo: al posto di recitare

le preghiere funebri (deprofundis) per l’asino frustava il figlio come se fosse stato il responsabile della morte dell’animale.

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rico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti5 sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!... – Più colpi di funicella che pane! – Poi quando il Mascalise6, suo zio, lo condusse seco ma35 novale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva7 di vedere il sangue suo al comando altrui. – Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme8 di gesso che andarono via dalla 40 fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa... – E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... – Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. «Fa l’arte che sai9!» – Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva 45 di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore10... E ordinava «bisogna far questo e quest’altro» per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine11 della sua. – La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza 50 carica di famiglia com’era stata lei... – un figliuolo ogni anno... – Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come 55 si mettesse. – Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi12, il commercio delle derrate13, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... – Mastro Nunzio che si ostinava ad 60 arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... – Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando 65 un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! – trovando a casa poi ogni 70 volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie14 del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi – le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – Nel paese non un 5 gli faceva mangiare i gomiti: lo man-

8 duecento salme: la salma è un’unità di

dava in collera (espressione siciliana). 6 il Mascalise: originario di Mascali (paese a una trentina di chilometri da Catania). 7 gli cuoceva: gli dava fastidio, lo mandava in bestia.

misura d’uso in Sicilia corrispondente a 17 metri quadri circa (propr. è la soma portata da un animale). 9 Fa l’arte che sai: «Fa’ l’arte che sai, se non arricchisci camperai» (proverbio siciliano).

10 agrimensore: tecnico che misura i terreni. 11 fine: intelligente. 12 fondi: terreni agricoli. 13 derrate: prodotti della terra. 14 querimonie: lamentele.

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solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; 75 e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi15 per dire soltanto «vi saluto»; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore... – Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche 80 tu... povera Diodata!... Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani 85 che lo guidavano e si spandevano lontane, nell’aria sonora. La luna ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi – Nanni l’Orbo, eh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? – riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare. 90 Diodata sorrise: – Nossignore!... nessuno!... Ma il padrone ci si divertiva: – Sì, sì!... l’uno o l’altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!... Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli 95 occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca. Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch’esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso. – Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l’Orbo! no!... 100 – Oh, gesummaria!... – esclamò essa facendosi la croce. – Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!... Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: – Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre... – Il padrone mi ha dato il pane, – rispose essa semplicemente. – Sarei una birbona... 105 – Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t’ho voluto bene! A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. – Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all’erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!... 110 Fedele come un cane!... Ce n’è voluto, sì, a far questa roba!... Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: – Sai? Vogliono che prenda moglie. La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: – Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non 115 si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l’appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all’occasione... Eh? che te ne pare? Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di 15 ambagi: tortuosità.

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voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure: – Vossignoria siete il padrone... 120 – Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli16... Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato. – Perché piangi, bestia? 125 – Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... – Cosa t’eri messa in capo, di’? – Niente, niente, don Gesualdo... – Santo e santissimo! Santo e santissimo! – prese a gridare lui sbuffando per l’aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò: 130 – Che c’è?... S’è slegata la mula? Devo alzarmi?... – No, no, dormite, zio Carmine. Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa: – Perché v’arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... – M’arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche 135 tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?... – Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti17... – Anche quest’altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v’è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago 140 anch’io!... So io ogni volta che vo dall’esattore!... Si grattò il capo un istante, e riprese: – Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l’erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... 145 Diodata18! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c’è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla... 150 In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito. – Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non 155 posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m’aiuta, saranno nati sotto la buona stella!... – Vossignoria siete il padrone... Egli ci pensò un po’ su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire: 160 – Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t’è mancato, di’? 16 Non ho figliuoli: in realtà Gesualdo ha avuto due figli con Diodata, ma essendo illegittimi non erediteranno nulla del suo patrimonio.

17 poveri innocenti: i due figli che sono stati abbandonati in orfanotrofio.

18 Diodata: il nome significa “data da Dio” (spesso attribuito a trovatelli).

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– Nulla, grazie a Dio! – Il Signore c’è per tutti... Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no... Ti cercherei un marito... – Oh... quanto a me... don Gesualdo!... 165 – Sì, sì, bisogna maritarti!... Sei giovane, non puoi rimaner così... Non ti lascerei senza un appoggio... Ti troverei un buon giovane, un galantuomo... Nanni l’Orbo, guarda! Ti darei la dote... – Il Signore ve lo renda... – Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimen170 ti?... Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!... e questo cogli altri!... Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane... una bella giovane... Sì, sì, bella!... lascia dire a me che lo so! Roba fine!... sangue di barone sei, di certo!... Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino19. Le sollevava a forza il capo, che ella si 175 ostinava a tener basso per nascondere le lagrime. – Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!... Su quel capo adesso, sciocca!... sciocca che sei!... Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato. 180 – Santo e santissimo! Sorte maledetta!... Sempre guai e piagnistei!... 19 Le stringeva… il ganascino: le prendeva la guancia tra l’indice e il medio; la locuzione indica un gesto d’affetto e incoraggiamento.

Analisi del testo Un idillio campestre? Nella parte iniziale del testo il protagonista si concede finalmente una pausa nella sua frenetica attività: si siede al fresco su un covone di grano e si abbandona, con le spalle appoggiate al muro, alla contemplazione della pianura sotto la luce argentea della luna. Come ha osservato il critico Luigi Russo (1892-1961), ci troviamo di fronte a una situazione da idillio (si sente il suono dei campanacci del bestiame che scende verso il torrente, il venticello fresco, il fruscio delle spighe). Gesualdo è tornato alle origini, è immerso nel riposo della campagna: il pasto consumato con la mite Diodata (in un passo precedente a quello antologizzato) per cui ha parole rudi ma anche piene di tenerezza, e la dolcezza della sera lo riconciliano per un breve momento con un mondo con cui si sente quotidianamente in guerra. Tutta la scena è descritta dal punto di vista del protagonista in un’atmosfera di serena tranquillità (tanto più se vista in contrapposizione con l’attività descritta nella prima parte del capitolo, qui non riprodotta). Ma è stato anche giustamente notato che nello sguardo di Gesualdo non c’è solo contemplazione disinteressata della natura e abbandono: egli osserva con compiacimento la campagna lavorata di cui con tanta fatica è diventato il proprietario. Il paesaggio non è semplice natura ma è anche “roba” posseduta: i covoni raccolti in mucchi, il bestiame grosso, le messi ancora in piedi, i covoni nell’aia, altro bestiame, il magazzino «che diventava immenso nel buio», fanno tutti parte delle proprietà di chi osserva. Una strada di paese in una fotografia di Giovanni Verga.

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Ricordi e nostalgie La situazione di momentaneo abbandono appena analizzata è ideale per una riflessione da parte di Gesualdo sulla propria vita, di cui ricorrono alla memoria i momenti più significativi. Il tempo sembra fermarsi per un attimo e permettere un indugio quasi lirico in cui la propria ascesa sociale è rivissuta con nostalgia e con toni quasi epici. In un lungo monologo interiore sono ripercorse le tappe del suo successo economico: la giovinezza sotto l’autorità paterna, il lavoro come manovale sotto padrone, il primo appalto, le speculazioni finanziarie e così via. Un passo dopo l’altro vediamo il protagonista distaccarsi sempre più dal mondo arcaico e immobile rappresentato dal padre, che infatti a fatica sopporta questi cambiamenti. Ma l’atteggiamento di Gesualdo non è quello di cinico arrampicatore sociale che si allontana, disinteressandosene, dalla povertà della famiglia d’origine; egli vi rimane invece legato, e sentirà sempre come un dovere il farsene carico. Le uniche note positive nella storia di Gesualdo sono date dal ricordo dei tempi lontani e dal contatto con i ritmi lenti e ciclici della campagna. Alla fine del romanzo, Gesualdo, ormai vicino alla morte, avrà ancora nostalgia del lavoro nei campi in una pagina dagli stessi toni lirici (IV, 5 ➜ T13 ).

Il monologo interiore La rievocazione del passato è realizzata riportando i pensieri del protagonista attraverso il discorso indiretto libero in un lungo monologo. Lo stile è prevalentemente paratattico e ricco di esclamazioni e ripetizioni: Ne aveva... prima di... E ne aveva... prima di; Quante volte... Quanto piangere; «Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure»; «Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!». Sono presenti enumerazioni e costruzioni nominali: la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme... e la dote di Speranza... E le dispute. Un linguaggio più di cose che di parole, come è giusto per un personaggio che ha passato la vita a fare, a costruire, ad accumulare “roba”. L’andamento sintattico mette in evidenza, anche attraverso una forma di climax nella parte finale del monologo («Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi», «Non feste, non domeniche, mai una risata») l’affanno, la fatica impiegata per raggiungere i risultati voluti, la lotta di tutti contro tutti, senza poter condividere con nessuno successi e rischi. I pensieri di Gesualdo sono espressi in alcuni punti con espressioni popolari come «Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo», «dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca», «Santo che gli faceva mangiare i gomiti».

Il personaggio di Diodata Diodata, l’unica persona che manifesti per Gesualdo un amore sincero, non è una donna e un’amante, ma una serva sottomessa e fedele. Addirittura «fedele come un cane!» nelle parole di Gesualdo e il narratore ne presenta gli atteggiamenti e la gestualità vicini a quelli di un animale domestico: «Si mise a scopare colle mani... carponi», «vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi». È una presenza silenziosa e sempre pronta a ubbidire agli ordini o anche a semplici richieste. “Bella” ma soprattutto “buona” poiché non ha pretese, non la sfiora neppure il pensiero di poter cambiare la propria condizione, sembra negarsi persino i sentimenti che però alla fine affiorano suo malgrado, attraverso il pianto più che con le parole. Proprio per questo la donna suscita in Gesualdo una tenerezza inconsueta per lui, a cui tutti hanno sempre qualcosa da chiedere, che deve sempre combattere e difendersi da tutti. Ma, nonostante ciò, egli non esita ad abbandonarla per seguire le proprie ambizioni, come sempre legate al calcolo economico.

Le contraddizioni di Gesualdo In Gesualdo, la sensazione appagante di essere in pace con sé stesso e col mondo dura solo un breve momento e immediatamente viene negata. Già rievocando le fatiche compiute per raggiungere la condizione di possidente non può non utilizzare termini bellicosi, sottolineando così quella naturale guerra di tutti contro tutti che regola la società, per cui afferma che nel paese non c’era «un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto». Il dialogo con Diodata mette in evidenza ancora più chiaramente come la ricerca del successo economico abbia allontanato il protagonista da sé stesso. Infatti, con le sue parole semplici e con il suo pianto, Diodata mette Gesualdo di fronte alla sua condizione di padrone a cui lei non può che sottomettersi, ma un padrone che non lo è più nei confronti di sé stesso e che non ha realmente la possibilità di soddisfare i propri desideri. Il disagio del protagonista,

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i sensi di colpa, l’impotenza sono espressi dal narratore non attraverso un’introspezione psicologica, ma per mezzo delle sue stesse parole: «Santo e santissimo! Santo e santissimo! – prese a gridare lui sbuffando per l’aia»; «Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no...»; «Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti»; «Santo e santissimo! Sorte maledetta!»; e di una forte gestualità: «In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi alla porta»; «scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato». I gesti, come i silenzi e gli sguardi, rendono espliciti più delle parole i sentimenti dei due personaggi e hanno fatto parlare di Mastro-don Gesualdo «come romanzo della comunicatività gestuale, in cui spesso la parola trascrive la convenzionalità, l’ipocrisia, la menzogna» (Di Silvestro).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 8 righe. COMPRENSIONE 2. Quale rappresentazione di sé fornisce il protagonista? ANALISI 3. Quale immagine della famiglia e degli affetti emerge dal testo?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 4. Sulla base di opportuni riferimenti al testo, esprimi una valutazione sull’etica del lavoro e del commercio, sull’accumulazione del capitale e sulla figura del protagonista. Qual è il giudizio di Verga? Quale visione del mondo e della società traspare? TESTI A CONFRONTO 5. Metti a confronto il personaggio di Mazzarò, protagonista della novella La roba, con la figura di Gesualdo, sottolineando, in particolare, il loro rapporto con la “roba”.

Giovanni Verga

T13

La morte di Gesualdo

LEGGERE LE EMOZIONI

Mastro-don Gesualdo IV, V G. Verga, I grandi romanzi, a c. di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972

Il capitolo finale del romanzo descrive la morte di mastro-don Gesualdo. La narrazione può essere divisa in tre parti: l’approdo al palazzo del duca di Leyra, con l’osservazione scrupolosa di ogni particolare da parte del vigile occhio di Gesualdo; il suo ricovero, con la progressiva ossessione di essere raggirato e derubato, la distanza incolmabile con la figlia, il ripensare a una vita ossessionata dal profitto; infine la morte, nella solitudine e nella consapevolezza di una vita fallimentare, priva di affetti sinceri e tesa solo ad accumulare ricchezze.

Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi1 e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dallo scalone di marmo – e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi 5 squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: – C’è lo stoino per pulirsi le scarpe! – Un esercito di mangiapane2, staffieri3 e camerieri, che sbadigliavano a 1 cortinaggi: tendaggi. 2 mangiapane: persone che vivono sulle

spalle di altri, approfittatori.

3 staffieri: servo con il compito di reggere

le staffe del cavallo per agevolare la salita del cavaliere.

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bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia. Ogni cosa 10 regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa cantata – per avere un bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca, all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze. Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la figliuola, e s’era messo in gala anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato4, 15 con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette da tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi 20 cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone: Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini... Poi, col regime speciale che richiede il suo stato 25 di salute... Certo, certo, – balbettò don Gesualdo. – Stavo per dirvelo… Sarei più contento anch’io... Non voglio essere d’incomodo... No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio. Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino; lo 30 incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d’aria e una buona cura l’avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi giudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piacere di tenersi il suocero in casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo... Una procura 35 generale… una specie d’alter ego5… Don Gesualdo si sentì morire il sorriso in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, anche quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che vi respingeva indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al collo, proprio come a un figlio, e dirgli: 40 Te’! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi! Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona dell’alter ego6. Gli mancava l’aria, lì fra tutti quei ninnoli7. Gli toccava chiedere quasi licenza8 al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene ap45 pena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria9, dove Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso oc4 legato e impastoiato: costretto e intralciato (dai vestiti). 5 Una procura… alter ego: il genero chiede a don Gesualdo di affidargli la gestione dei suoi interessi economici al suo posto (come fosse il suo alter ego).

6 ripigliasse... ego: continuasse a ripetere, come se fosse un ritornello (antifona), che avrebbe potuto occuparsi personalmente del patrimonio di don Gesualdo e farne le veci.

7 ninnoli: piccoli oggetti preziosi. Si allude qui alle comodità e agli arredi di lusso che si trovano nel palazzo del duca. 8 licenza: permesso. 9 foresteria: parte della casa con stanze riservate agli ospiti.

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50 chio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui,

vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio: – Cos’hai?... dimmelo!... Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso tradirti!... Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado an55 che della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso... accusando lo stomaco peloso dei Trao10, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili! Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella 60 corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti11 coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette 65 sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare 70 dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi 75 tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere 80 la sua roba dopo la sua morte, ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento12, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a capo scoperto, il guardaportone col 85 berretto gallonato13 in mano, ritto dinanzi alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle 90 scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, 10 accusando... Trao: portando rancore come facevano i Trao (è la famiglia di Bianca, moglie di Gesualdo).

11 strambotti: fandonie, spropositi, sciocchezze. 12 il Santissimo Sagramento: è l’ostia consacrata, custodita presso il tabernacolo e venerata come corpo di Cristo.

13 gallonato: decorato con galloni, nastri e passamanerie di guarnizione.

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pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra solennità anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio. Arrivava di tanto 95 in tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda14 del soprabito e di appendersi alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo15, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il 100 tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati, 105 sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare... delle terre da seminare, a perdita di vista... E un esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!... Allora gli si 110 gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi16!... Oramai!... oramai!... Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi, lo 115 scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era ricaduto peggio di 120 prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata17! tal quale come i medici ignoranti del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. 125 Lo mostravano agli apprendisti come il zanni18 fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il povero diavolo si faceva lecito19 di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle! Gli avevano fatto comperare anch’essi un’intera farmacia: dei rimedi che si 130 contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già l’ombra della morte da per tutto. 14 falda: lembo del vestito. 15 sguisciavano... vestibolo: scivolavano via (sguisciavano è variante di sgusciavano) velocemente sotto l’alto ingresso del palazzo (vestibolo).

16 belle mattinate... solchi: le strisce tracciate dall’aratro sul terreno (solchi) per depositare le sementi, quando sorge il sole e la terra si riscalda, sembra che fumino.

17 scomunicata: maledetta. 18 zanni: pagliaccio, buffone; nella commedia dell’arte è il servo furbo. 19 si faceva lecito: si permetteva.

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Signori miei, a che giuoco giuochiamo? – voleva dire. – Allora, se è sempre la stessa musica, me ne torno al mio paese... Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di loro, 140 voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura – Arrivederci in Paradiso, buon uomo! – C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso che 145 facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima, ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene. Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo. 150 Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle! Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che dicevano sottovoce: – Compatitelo... Non conosce gli usi... È un uomo primitivo... nello stato 155 di natura... – Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola, per sapere qualche cosa. Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?... È una malattia grave, di’?... E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e an160 darsene via da quella casa maledetta. Non dico per te... Hai fatto di tutto... Non mi manca nulla... Ma io non ci sono avvezzo, vedi... Mi par di soffocare qui dentro... Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortesemen165 te fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una mezz’oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia20, e nella ricorrenza del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio, le regalava dei gioielli, che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva 170 il marito. Ah, ah... capisco... dev’essere costata una bella somma!... Però non sei contenta... si vede benissimo che non sei contenta.... Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva un 175 passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva 135

20 Santa Rosalia: patrona di Palermo.

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udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i 185 tappeti soffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli, che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena. Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli 190 altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti gli altri... un vero fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna21, era tutto opera sua; e intanto non trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui 195 guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava; non digeriva più neanche i bocconi prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni. 200 Mi lasciano morir di fame, capisci! – lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare... Sarà della roba buona... Ma il mio stomaco non c’è avvezzo... Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato! L’idea della morte ora non lo lasciava più; si tradiva nelle domande insidiose, nelle 205 occhiate piene di sospetto, anche nella preoccupazione affannosa di dissimularla in vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessuno, e afferrava chi gli capitava per domandare: Voglio sapere la verità, signori cari... Per regolare le mie cose... i miei interessi... – 210 E se cercavano di rassicurarlo dicendogli che non c’era nulla di grave... di serio... pel momento... egli tornava ad insistere, ad appuntare gli occhi, furbo per scavar terreno: – È che ho tanto da fare laggiù, al mio paese, signori miei... capite!... Non posso mica darmi bel tempo, io!... Bisogna che pensi a tutto, se no c’è la rovina!... Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: – Sono stati i dispiaceri!... i bocconi 215 amari!... ne ho avuti tanti! Vedete, me n’è rimasto il lievito qui dentro22!... – Era tornato diffidente. Temeva che non vedessero l’ora di levarselo di torno, per risparmiar la spesa e impadronirsi del fatto suo. Cercava di rassicurar tutti quanti, col sorriso affabile: Non guardate a spesa... Posso pagare... Mio genero lo sa... Tutto ciò che occorre... Non saranno denari persi... Se campo, ne guadagno ancora tanti dei denari... – Cogli 220 occhi lucenti, cercava d’ingraziarsi la sua figliuola stessa. Sapeva che la roba, ahimè, mette l’inferno anche fra padri e figli. La pigliava in parola. Balbettava, accarezzandola come quand’era bambina, spiandola di sottecchi intanto, col cuore alla gola: 180

21 cuccagna: colmo di ricchezze e di ogni bendidio.

22 me n’è… dentro: riferimento alla malattia e alle sue manifestazioni attraverso

un paragone con un’esperienza concreta (il lievito del pane).

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Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire... Tutto quello che ci vorrà spenderemo, non è vero? 225 Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. In quei momenti di scoraggiamento il pover’uomo pensava a voce alta: A che mi serve?... a che giova tutto ciò?... Neppure a tua madre è giovato! Un giorno venne a fargli visita l’amministratore del duca, officioso, tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta23. S’informò della salu230 te; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene, lui, un uomo d’affari come don Gesualdo... che dissesto... quanti danni... le conseguenze... un’azienda così vasta... senza nessuno che potesse occuparsene sul serio... Infine offrì d’incaricarsene lui... per l’interesse che portava alla casa... alla signora duchessa... Del signor duca era buon servo da tanti anni... 235 Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d’alleggerirlo d’ogni carico... finché si sarebbe guarito... se credeva... investendolo per procura... A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava scomponendosi in viso. 240 Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto ruminava come trarsi d’impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l’ultima sua ora, e non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando: Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia! 245 Ma appena accorse lei, spaventata, egli non aggiunse altro. Si chiuse in se stesso a pensare come uscire dal malo passo24, torvo, diffidente, voltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito25. Infine, a poco a poco, finse di calmarsi. Bisognava giuocar d’astuzia per uscire da quelle grinfie. 250 Cominciò a far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibita, col sorriso paterno, il fare bonario: – Sì... voglio darvi in mano tutto il fatto mio... per alleggerirmi il carico... Mi farete piacere anzi... nello stato in cui sono... Voglio spogliarmi di tutto... Già ho poco da vivere... Rimandatemi a casa mia per fare la procura... la donazione... tutto ciò che vorrete... Lì conosco il 255 notaro... so dove metter le mani... Ma prima rimandatemi a casa mia... Tutto quello che vorrete, poi!... Ah, babbo, babbo! – esclamò Isabella colle lagrime agli occhi. Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglieva260 no il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d’acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità, per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa 265 di quel che gli premeva. Chiamatemi quell’uomo dell’altra volta... Portatemi le carte da firmare... È giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finché guarisco... 23 apparecchiavasi a dare la botta: si

24 malo passo: difficoltà.

25 rimminchionito: frastornato.

preparava a dare il colpo di grazia.

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Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall’oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore 270 più grande, più vicino, della morte lo colse a quell’indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d’energia e di volontà. Voleva far testamento, per dimostrare a se stesso ch’era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetarlo26, gli disse che non occorreva, poiché non c’erano altri eredi... Isabella era figlia unica... – Ah?... – rispose lui. – Non occorre... è figlia 275 unica?... E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n’erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore, col 280 cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli non l’avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il denaro l’aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi 285 a lasciarsi aprire il ventre... Ebbene, sì, sì! Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. – Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà! Gli batteva un po’ il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i 290 capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perché si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos’è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che non era più il caso... oramai... Il più vecchio, una faccia 295 di malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com’è vero Dio, s’era messo già a confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di quella sorta... Ah... – rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. – Ah... Ho inteso... E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non aggiunse altro, per 300 allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s’era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c’era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati... – Taci! taci! – borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c’era da 305 scherzare! No, no... C’è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però... certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo... non sarebbe male... Ho inteso, – ripeté don Gesualdo col naso fra le coperte. – Vi ringrazio, signori miei. Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli 310 faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’occhi, da solo a solo. Finalmente... questo notaro... verrà, sì o no? Devo far testamento... Ho degli scrupoli 26 chetarlo: calmarlo, tranquillizzarlo.

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di coscienza... Sissignore!... Sono il padrone, sì o no?... Ah... ah... stai ad ascoltare anche tu?... 315 Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall’altra parte. – Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di far delle scene... Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!... Va bene! – seguitò a borbottare lui. – Va bene! Ho capito! 320 E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pazienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconcia325 vasi27 pure ai suoi guai: ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I 330 parenti ci avevano fatto il callo anch’essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s’erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua vita e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso28, per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto 335 delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito29, e lo incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell’affezione, per covarselo, pel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a 340 misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia. Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. – Senti, – le disse, – ascolta... 345 Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare. Taci, – riprese, – finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla. Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso 350 l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò30 una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene. Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli... Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, 355 senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese: Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente. – Poi gli venne una tenerezza. – Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?... 27 acconciavasi: si adattava, si abituava. 28 villano malizioso: contadino scaltro.

29 teneva il sacco al marito: copriva, pro-

30 trinciò: segnò, tracciò con le mani.

teggeva il marito.

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La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. – Ti ho voluto bene... anch’io... quanto ho potuto... 360 come ho potuto... Quando uno fa quello che può... Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini. Non ti fo male, di’?... come quand’eri bambina?... 365 Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso. Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso... 370 Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi. Ma no, parliamone! – insisteva lui. – Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso. – Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava31 negli 375 occhi. – Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo marito... Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti... Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: – Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle 380 carte!... Lui non sa cosa vuol dire! – Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, 385 gli spuntavano le lagrime agli occhi: – Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme32 di terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze33! E la Salonia... dei seminati d’oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò 390 le ossa!... Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino. – Basta, – disse poi. – Ho da dirti un’altra cosa... Senti... La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino 395 che esitava e cercava le parole. Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato34 a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto qualcosa anch’io per te... 400 Ah, babbo, babbo!... che parole! – singhiozzò Isabella. Lo farai, eh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse. 31 corruscava: lampeggiava. 32 Quaranta salme: circa 7 are (la salma è un’unità di misura d’uso in Sicilia cor-

rispondente a 17 metri quadri circa; cfr. anche nota 8 in ➜ T8 ). 33 onze: l’onza, o oncia, era un’antica

moneta in circolazione nella seconda metà dell’Ottocento. 34 legato: donazione, eredità.

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Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro 405 segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, 410 diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro. Ora fammi chiamare un prete, – terminò con un altro tono di voce. – Voglio fare i miei conti con Domeneddio. Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò 415 rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era. Mia figlia! – borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. – 420 Chiamatemi mia figlia! Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, – rispose il domestico, e tornò a coricarsi. Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno 425 che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce. Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo35 adesso? Vuol passar mattana36! Che cerca? Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse37 il 430 paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. Ohi! ohi! Che facciamo adesso? – balbettò grattandosi il capo. Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sotto435 sopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare 440 la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. Mattinata, eh, don Leopoldo? E nottata pure! – rispose il cameriere sbadigliando. 445 M’è toccato a me questo regalo! 35 l’uzzolo: il capriccio. 36 mattana: comportamento bizzarro e

lunatico, che manifesta i mutamenti dello stato d’animo in modo irruento e chiassoso.

37 tolse: alzò.

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L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio. Ah... così... alla chetichella38?... – osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne. 450 Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche 455 lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro... Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... Ha cessato di penare. Ed io pure, – soggiunse don Leopoldo. Così, nel crocchio39, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. – Pazienza 460 servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla. Si vede com’era nato... – osservò gravemente il cocchiere maggiore. – Guardate che mani! Già, son le mani che hanno fatto la pappa40!... Vedete cos’è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista41 come un principe!... 465 Allora, – disse il portinaio, – devo andare a chiudere il portone42? Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa. 38 alla chetichella: senza dare nell’occhio. 39 crocchio: gruppo di persone.

40 mani... pappa: mani che hanno preparato la calce (pappa). La pappa potrebbe anche connotare il denaro, la “roba”.

41 battista: tela di lino, particolarmente pregiato. 42 portone: chiudere il portone di un edificio è in segno di lutto.

Jean-François Millet, Piantatori di patate, 1861 (Museum of Fine Arts, Boston).

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Analisi del testo Il denaro come unità di misura della vita Nello sfarzo di palazzo Leyra, don Gesualdo si accorge di quanto egli sia estraneo a quello stile di vita e a quegli oggetti di pregio, comprati con i suoi soldi. Per dare in moglie la figlia al duca, infatti, Gesualdo ha dovuto pagare una dote cospicua, guadagnata con fatica e goduta da altri. La realtà è presentata secondo gli occhi del protagonista attraverso il paradigma economico, e tutto – i servitori, i mobili, i vestiti – sembra avere un cartellino con il prezzo: «Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia» (rr. 72-73 e sgg.). Il tema del denaro unisce dunque i ricordi del protagonista, divenendo il filo conduttore di un’intera vita passata a cercare di accumularne: il passato come duro lavoro in cerca di fortuna, il presente come dolente visione delle proprie fatiche godute da altri, il futuro assicurato grazie all’unica cosa rimasta a cui aggrapparsi, la roba. Ogni scena è presentata dal narratore attraverso lo sguardo di Gesualdo, che si posa sui dettagli, come la livrea di un servitore, le credenze o gli scalini in marmo.

Un fallimento esistenziale Nelle ultime pagine del romanzo, emerge in tutta la sua forza il fallimento della vita di Gesualdo. Muore da solo, senza nessuno che lo vegli, e per gli altri, invidiosi del suo danaro, è ora solo una persona che non può più nuocere. Le ricchezze accumulate con una vita di sacrifici non possono nulla per evitargli la malattia e l’abbandono; il suo successo economico si traduce in una sconfitta, in una morte nella solitudine e nell’inutile tentativo di difendere il proprio patrimonio dagli approfittatori.

L’aridità dei rapporti umani Ormai lontana Diodata, l’unica persona che lo abbia sinceramente amato, i rapporti che circondano Gesualdo sono aridi, falsi, tutti viziati dal denaro. Il duca mostra una finta cortesia, per “tenerselo buono”. I medici, connotati dal narratore per i compensi richiesti («Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera»), gli mentono, tacciono o non lo degnano di uno sguardo. Persino il rapporto con la figlia – il più importante di quelli negati – è irrimediabilmente compromesso dai soldi. Infelice perché sposata per motivi economici, Isabella sente che suo padre è un estraneo e non riesce a esprimersi di fronte a lui, che invece vorrebbe sentirla parlare apertamente («Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero»). Il dialogo tra padre e figlia si sofferma sui gioielli regalati a lei dal duca o sul costo del cibo che i servitori offrono a Gesualdo. Si intravede perfino l’inquietante possibilità che Isabella stessa sia complice del marito per accelerare la morte del padre ed entrare in possesso dell’eredità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano in non più di 8 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è il comportamento di Isabella nei confronti del padre? 3. Spiega il senso della frase «E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao» (r. 410). ANALISI 4. Rintraccia nel passo proposto gli elementi caratteristici della poetica e dell’ideologia verghiane.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. Sottolinea i momenti, all’interno del testo, dove viene evidenziata l’inadeguatezza di Gesualdo nei confronti di un ambiente e di una classe sociale, quella nobiliare, cui è sempre rimasto estraneo. Riconduci questa tematica alla poetica e all’ideologia dell’autore (max. 15 righe). 6. Nel testo è sottolineata l’incomunicabilità affettiva tra padre e figlia. Dopo aver evidenziato i momenti della narrazione in cui questo aspetto emerge e aver confrontato i silenzi che tradiscono le emozioni con i discorsi sulle questioni economiche, rifletti sul valore del dialogo nelle relazioni familiari. Quanto conta per te avere la possibilità di confidarti con i tuoi genitori?

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5 La fortuna di Verga Un autore a lungo incompreso I contemporanei di Verga apprezzarono esclusivamente i suoi racconti e romanzi “mondani”. Per contro, I Malavoglia – con grande amarezza dell’autore, che parlò esplicitamente di «fiasco pieno e completo» – non ebbero alcun successo. Le ragioni non sono difficili da individuare: il pubblico borghese fu completamente spiazzato dalla scelta di Verga di adottare una rigorosa impersonalità (ben più radicale del naturalismo zoliano), a cominciare dall’assenza di ogni delucidazione iniziale utile al lettore per orientarsi nel mondo arcaico dei Malavoglia. Anche la scelta linguistica (la riproduzione, senza il filtro della “voce” del narratore, del parlato/pensato di un mondo primitivo, l’adeguamento al soggetto della narrazione attraverso espressioni e modi di dire che caratterizzano l’ottica, la voce, il linguaggio di ogni personaggio) non poteva che disorientare il pubblico. L’insuccesso dei romanzi veristi fu certo dovuto anche alla visione pessimistica dell’autore, critico verso il moderno mito del progresso, che considerava “grandioso” se visto da lontano ma distruttivo se guardato dalla parte dei più deboli, dei “vinti”. Non è da escludere infine anche l’influenza della visione rigorosamente materialistica della vita propria di Verga, certo anomala in un paese come l’Italia, comunque dominato dalla visione cattolica. Due significativi estimatori: Tozzi e Pirandello Già nel primo dopoguerra i progressi della critica, a cominciare in particolare dagli studi di Luigi Russo, grande interprete verghiano, iniziano a porre le basi per l’ingresso di Verga nel canone dei classici italiani. È significativo che nello stesso periodo due grandi autori come Tozzi e Pirandello si riconoscano nella lezione di Verga. In particolare Pirandello, conterraneo di Verga, si richiama al maestro per la scelta fondamentale del genere novellistico e per l’ambientazione “siciliana” di vari racconti. Ma soprattutto esiste un filo rosso tra la scelta pirandelliana di una prosa antiretorica, antiletteraria, e le scelte stilistico-linguistiche di Verga: nel discorso commemorativo tenuto nel 1920 a Catania per gli ottant’anni di Verga, Pirandello contrappone polemicamente gli scrittori che adottano uno “stile di parole” (il cui emblema moderno era per lui D’Annunzio) agli scrittori che scelgono uno “stile di cose” (Dante, Machiavelli, Verga appunto).

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Sguardo sul cinema La terra trema di Visconti

La lezione di Verga nell’età del Neorealismo Se l’apprezzamento di Verga rimane sporadico per decenni, è soprattutto nel secondo dopoguerra del Novecento in rapporto ai recenti tragici eventi e all’affermarsi della poetica neorealista, che lo scrittore siciliano diventa un modello per una letteratura “impegnata” sul piano politicosociale. «Ci eravamo fatti una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio», scriverà Calvino nella prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, a proposito di quell’“insieme di voci” che formò il neorealismo. E dietro a romanzi, incentrati sul mondo contadino come Fontamara di Silone (1930) o La malora di Fenoglio (1950) o Le terre del Sacramento (1952) di Jovine è ravvisabile la lezione verghiana a livello di tematiche veriste, non di forme narrative. La fortuna di Verga 5 301

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Guido Baldi La “regressione” di Verga G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Nuova edizione ampliata, Napoli, Liguori, 2006 [I ediz. 1980], pp. 59-61

Guido Baldi (1942), già professore di lettere nei licei e di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Torino, in questo passo critico mostra le peculiarità della tecnica della “regressione” verghiana nei Malavoglia.

Nei Malavoglia Verga resta fedele all’artificio tecnico, già sperimentato in Vita dei campi, di non presentare i fatti dal proprio punto di vista di intellettuale borghese, con i parametri di giudizio, la scala di valori, i moduli espressivi che ad esso competono, bensì di delegare la funzione narrativa ad un anonimo “narratore popolare”, 5 che appartiene allo stesso livello sociale e culturale dei personaggi che agiscono nella vicenda ed è portatore della visione caratteristica di un milieu subalterno, provinciale e rurale. Tuttavia la soluzione offerta dal romanzo è sensibilmente diversa da quella delle novelle precedenti, e al tempo stesso più complessa. Il confronto più illuminante si può istituire con Rosso Malpelo […]. In Rosso Malpelo la “voce narran10 te” filtra in modo sistematico ed esclusivo i fatti sin oltre la metà della narrazione, interpretandoli secondo una unitaria e a suo modo coerente prospettiva ideologica, fondata sulla logica dell’interesse economico e sul principio della lotta per la vita, e solo nell’ultima parte lascia emergere il punto di vista del protagonista stesso, che può così affermare la sua visione delle cose […]. Nei Malavoglia il “narratore 15 popolare” è una presenza sensibile, tanto da ereditare, per certi aspetti, persino la funzione del narratore onnisciente del romanzo tradizionale, di tipo manzoniano o balzachiano, poiché interviene nella narrazione coi suoi commenti, introduce similitudini e paragoni, dà ragguagli e giudizi sui personaggi, penetra nel loro intimo per rivelarne pensieri e sentimenti o addirittura anticipa al lettore gli eventi 20 che verranno. Tuttavia, lungi dal possedere una funzione sistematica e continua di filtro deformante e lungi dal fornire vuoi una prospettiva rigorosamente unitaria sul narrato, sin dalle prime pagine lascia che si affermi la prospettiva dei personaggi singoli e concreti, che nella loro multiforme pluralità gestiscono quantitativamente la parte maggiore del processo affabulativo1, divenendo il vero sistematico filtro 25 della narrazione e lasciando alla “voce narrante” una funzione pressoché marginale. Questa emergenza vittoriosa del coro reale sul narratore si realizza in primo luogo, come è ovvio, attraverso un ampio uso del discorso diretto, che è il mezzo più classico mediante cui si può affermare nel narrato la visione soggettiva dei personaggi, oppure attraverso il discorso indiretto e l’indiretto libero, che del parlato diretto 30 conservano tutte le movenze, le immagini, i costrutti, come ha messo in rilievo lo Spitzer2, e consentono in egual modo ai personaggi di assumere l’iniziativa del racconto, imponendo la loro soggettività. Però anche quando è il “narratore” che racconta, l’affinità sociale, culturale e linguistica che lo lega al mondo rappresentato fa sì che, in certi casi, si verifichi un vero e proprio processo di osmosi con i 35 personaggi, e che le rispettive fisionomie si confondano al punto da rendere difficile distinguere a chi appartenga la prospettiva sulla materia narrata. Ne scaturisce un procedimento […] del tutto atipico rispetto alle forme canoniche dell’indiretto libero e costituisce una peculiarità originale della tecnica verghiana. 1 processo affabulativo: il narrato. 2 Leo Spitzer: linguista e critico letterario austriaco (1887-1960).

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Nell’indiretto libero “ortodosso” infatti la “voce narrante” riporta enunciati o pen40 sieri dei personaggi che sono realtà concreta, precisamente definita nel tempo e nello spazio (pensieri pensati o discorsi pronunciati realmente in un dato momento e in un dato luogo, riferiti talora con le loro particolari coloriture espressive), e scompare nella prospettiva del personaggio, fungendo solo da veicolo verbale della sua manifestazione. Nel caso di questo caratteristico procedimento verghiano, in45 vece, il “narratore” non si annulla totalmente nell’ottica del personaggio, ma serba in certa misura la sua identità, e non riporta enunciati verbali o discorsi interiori della cui realtà effettiva si possa essere assolutamente certi, ma più che altro rifà il verso, […] al modo in genere con cui il personaggio pensa e si esprime […] riproducendo i suoi inconfondibili stereotipi mentali.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Riassumi il passo proposto nei suoi snodi tematici essenziali. 2. In che modo il ricorso alla tecnica della “regressione” in Rosso Malpelo differisce, secondo Baldi, da quello presente nei Malavoglia? 3. Qual è la peculiarità del discorso indiretto libero verghiano rispetto all’indiretto libero “ortodosso”? 4. A partire dal testo proposto, rifletti sull’utilizzo della regressione nella produzione letteraria di Verga. In che modo, secondo te, questo artificio tecnico può essere efficace nella rappresentazione del mondo degli ultimi e degli emarginati?

Fissare i concetti Giovanni Verga La vita 1. Q uale ambiente ha avuto una fondamentale importanza nella formazione umana e intellettuale di Verga e nell’adesione al verismo? 2. Quale fu l’orientamento politico di Verga? La poetica e la visione del mondo 3. Q uando si può collocare la svolta verista di Verga? Si può parlare di rottura o continuità rispetto alla stagione letteraria precedente? 4. In cosa consiste la tecnica dello “straniamento”? 5. Cosa si intende con “tecnica dell’impersonalità”? 6. Quali sono i legami della poetica verghiana con la cultura positivista? 7. Quali sono le principali differenze tra verismo e naturalismo francese? 8. In cosa consiste l’artificio della “regressione”? 9. Quali sono per Verga le conseguenze del progresso? Le novelle 10. Quali sono i temi principali trattati in Vita dei campi? 11. Quali sono le peculiarità delle Novelle rusticane? 12. Come viene affrontato nelle novelle l’isolamento del diverso? I Malavoglia 13. Quale valore assume nei Malavoglia la Prefazione? 14. Perché la famiglia Toscano è soprannominata Malavoglia? 15. Quale visione del progresso emerge nei Malavoglia? 16. Quali sono i personaggi principali nei Malavoglia? 17. In che modo viene applicata la tecnica dell’impersonalità nei Malavoglia? Mastro-don Gesualdo 18. Qual è il significato del titolo Mastro-don Gesualdo? 19. Perché Mastro-don Gesualdo può essere definito il romanzo della “roba”? 20. Perché si può dire che mastro-don Gesualdo rappresenta un personaggio sconfitto? 21. Qual è l’idea sottesa al progetto del “ciclo dei Vinti”? Per quale motivo Verga non conclude il progetto?

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Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Un siciliano trapiantato a Milano Nato a Catania nel 1840 in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, Giovanni Verga rappresenta con grande efficacia, nei romanzi e racconti più riusciti del Verismo italiano, il mondo delle campagne siciliane. Opere scritte a Milano, dove Verga si trasferisce nel 1872, attratto dalle possibilità che la grande città del Nord offre dal punto di vista culturale, sociale ed economico. Il successo inizia in realtà qualche anno prima, nel 1870, con Storia di una capinera, ma decolla con i romanzi cosiddetti “mondani”. In seguito, per influsso del Naturalismo francese, lo scrittore inaugura una nuova fase della propria poetica, quella “verista”, cimentandosi nel racconto della realtà sociale e della condizione psicologica dell’uomo: risultati di questa svolta sono la novella Rosso Malpelo (1878), inserita nella raccolta Vita dei campi (1880), il romanzo I Malavoglia (1881), le raccolte Per le vie (1883) e Novelle rusticane (1883) e il romanzo Mastro-don Gesualdo (1888). Ma Verga non ottiene il successo sperato con le sue opere veriste e, deluso, nel 1893 rientra a Catania, dove vive gli ultimi anni appartato, con una visione sempre più pessimistica della vita e senza riuscire a portare a termine i suoi progetti letterari votati all’analisi della società in tutte le sue parti. Muore nel 1922 nella città natale. La poetica e l’ideologia In un primo periodo, l’autore scrive romanzi “mondani” – i cui protagonisti sono giovani nobili o artisti ambiziosi e donne bellissime e fatali – che gli garantiscono successo di pubblico. Il modo di narrare in questo periodo non si discosta da quello tradizionale e lo stile è spesso enfatico, se non addirittura melodrammatico. In seguito, grazie anche all’incontro con la Scapigliatura, alla crisi degli ideali risorgimentali e all’influsso del Naturalismo francese e delle opere di Zola, Verga aderisce al Verismo e pubblica Rosso Malpelo (1878). Lo scrittore siciliano si ispira al materialismo positivistico e a un’idea di letteratura che lasci parlare i fatti e che si faccia documento realistico della società. Egli contribuisce alla definizione della poetica del movimento con alcuni testi di carattere programmatico: si tratta soprattutto della prefazione a L’amante di Gramigna e della novella Fantasticheria. Vi sono esposte la teoria dell’impersonalità (una narrazione “oggettiva” priva dei commenti dell’autore) e la necessità che l’autore attui una regressione, adottando il punto di vista della comunità che vuole descrivere e attribuendo, dunque, la narrazione a una voce anonima, un narratore popolare in grado produrre un effetto di straniamento, ossia di mostrare la realtà attraverso valutazioni anche molto diverse da Illustrazione per Fantasticheria. quelle proprie dello scrittore e dei suoi lettori.

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Duecento e Trecento Questi mezzi si fanno portatori dell’ideologia verghiana, nella quale domina un profondo La letteratura cortese pessimismo fatalista basato su un convinto materialismo; su di essi si innesta la totale sfiducia nell’azione miglioratrice del progresso, considerato un semplice mito cui è nella Francia feudale

necessario opporre la difesa di valori positivi e tradizionali (la famiglia, la casa, ecc.) con un atteggiamento definito “ideale dell’ostrica”.

La nascita Competenze di un grande novelliere: Vita dei campi 2 Zona

La lunga fedeltà a un genere: Verga e la novella Molto frequentato da Verga è il genere novellistico, a cui dedica ben otto raccolte e che utilizza come banco di prova per sperimentazioni stilistiche e tematiche. Dopo il “bozzetto siciliano” di Nedda (1874), in cui era ancora presente la prospettiva culturale e morale dell’autore, in Vita dei campi (1880) sono per la prima volta adottate le tecniche narrative del Verismo per raccontare la vita del popolo siciliano. Le Novelle rusticane (1883) continuano nello stesso solco, con uno sguardo ancor più pessimistico su una società dominata dall’egoismo, dove i cambiamenti in meglio restano impensabili. Sempre nel 1883 escono i racconti di Per le vie, ambientati a Milano. Sebbene la novellistica di ambientazione meridionale sia stata la più premiata da pubblico e critica, lo scrittore utilizza il genere per esplorare anche altri contesti: ciò è quanto previsto attraverso l’ideazione di un gruppo di cinque opere, chiamato ciclo dei Vinti, con lo scopo di raccontare la società italiana nella sua varietà. Vita dei campi Proprio con una raccolta di novelle viene inaugurata la stagione verista: sono infatti otto i lavori che compongono Vita dei campi, opera di grande successo che narra senza sconti – e con un tocco di autobiografismo – le vicende di umili popolani nel contesto di una Sicilia arcaica: protagonisti sono la passione travolgente e spesso violenta, l’emarginazione dei derelitti e delle personalità indipendenti, il prevalere del calcolo economico sui sentimenti.

3 Leggere I Malavoglia

Le circostanze di composizione Il romanzo I Malavoglia (1881) è il capolavoro di Verga. Ambientato in un borgo di pescatori presso Catania, narra le vicende della famiglia Toscano, soprannominata “i Malavoglia”, dal 1863 al 1878. Con quest’opera, la prima del ciclo dei Vinti, egli vuole mostrare i drammi di chi, nelle classi sociali più umili, prende coscienza della propria condizione di povertà materiale e inizia ad aspirare a un miglioramento, ma viene travolto dal fallimento dei tentativi di ottenerlo: un microcosmo invisibile di sofferenza che, insieme a tanti altri simili, rimane nell’ombra quando si pensa alla grande macchina del progresso. La stesura del lavoro prende lungo tempo (dal 1875 al 1881) e si conclude con un insuccesso di pubblico: a non essere apprezzata è soprattutto la novità sperimentale dell’impersonalità del narratore. La vicenda e la struttura La storia si articola intorno a due nuclei narrativi: il fallimento di un’impresa economica e il traviamento di uno dei membri della famiglia, desideroso di porre fine alla povertà estrema in cui vive. La trama si compone di numerose piccole vicende, che insieme delineano progressivamente gli avvenimenti generali rendendo anche conto, in modo approfondito e ficcante, del contesto di sottosviluppo in cui si svolgono. Il sistema dei personaggi e i luoghi dell’azione Il nucleo familiare dei Malavoglia, residente ad Aci Trezza, si compone di: padron ’Ntoni, il patriarca saggio e legato ai valori tradizionali, cui rimane fedele fino alla rovina della famiglia; ’Ntoni, il nipote che, dopo aver conosciuto la realtà della grande città, vuole cambiare la propria vita tentandovi la fortuna: per lui inizia, invece, solo un periodo di sviamento che lo conduce al carcere e, dunque, a una percezione di estraneità a entrambi i mondi che ha vissuto; due donne, Mena e Lia, le quali riproducono tra loro l’opposizione caratteriale tra nonno e nipote; Bastianazzo, figlio di padron ’Ntoni e padre di ’Ntoni, Mena e Lia: insieme all’altro figlio Luca è dedito al rispetto dei valori

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ancestrali, ma insieme a lui rimane vittima di una fine tragica. La salvezza dell’etica patriarcale e della famiglia è affidata ad Alessi, quinto figlio di Bastianazzo e volenteroso emulo del nonno, di cui assume il ruolo di patriarca. A loro si affiancano una quarantina di altri personaggi minori che rappresentano le voci di un piccolo borgo marinaro. Il “documento” di un mondo che sta scomparendo Sebbene il racconto offra contenuti che rispondono a un intento di realismo documentario, Verga vuole mostrare gli effetti negativi del progresso in un momento storico – gli anni subito seguenti l’unità d’Italia – in cui esso investe anche le realtà minori: il nuovo regno porta la coscrizione obbligatoria (punto d’inizio delle sventure della famiglia dei Malavoglia), nuove tasse e tecnologie ritenute nocive. Ma la piccola società paesana è tutt’altro che felice e idillica: vi dominano, infatti, la legge del più forte e l’egoismo, finalizzati a una scalata sociale cui i Malavoglia, simbolo dei valori antichi e quindi della sconfitta dinanzi alle novità, non vogliono partecipare. Le tecniche narrative e le scelte stilistico-linguistiche Nel lavoro domina una voce corale, punto di vista della comunità, che rende impersonale la narrazione e si serve del discorso indiretto libero; il discorso diretto, che non utilizza il nativo dialetto catanese, riproduce invece le costruzioni del parlato, con periodi brevi, prevalenza della paratassi, frequenti ripetizioni e abbondanza di espressioni proverbiali. La compresenza del punto di vista autoriale con quello del narratore anonimo (cui si accompagna, a volte, uno onnisciente) crea un effetto di straniamento.

4 Itinerario verghiano

Le Novelle rusticane A I Malavoglia segue la raccolta Novelle rusticane, divisa in dodici lavori che richiamano in parte il profondo pessimismo e l’ambientazione di Vita dei campi ma pongono in primo piano il tema economico. Esso assurge a fattore dominante nella vita di tutti i personaggi, impegnati in tentativi di riscatto dalla miseria: sforzi che, però, possono solo terminare in disgrazia. L’unico “eroe” dell’opera, il Mazzarò della Roba, si prodiga ad accumulare proprietà tangibili sacrificando i propri sentimenti solo per impazzire quando comprende che la morte lo separerà da tutto ciò per cui ha lottato. Dopo le Rusticane Dopo le Novelle rusticane e prima di Mastro-don Gesualdo, Verga scrive altre tre raccolte di novelle: Per le vie, che prosegue l’indagine dello scrittore sulle diverse classi che formano la società, ambientando i racconti in un contesto milanese e proletario dai tratti squallidi e dominato dal calcolo economico; I ricordi del capitano D’Arce, in cui l’attenzione è focalizzata sull’alta società; Don Candeloro e C.i, dove protagonista è l’ipocrisia. Mastro-don Gesualdo: il romanzo della “roba” Col secondo romanzo verista, Mastro-don Gesualdo, Verga allarga l’ambito di indagine alla società piccolo-borghese di provincia. Il romanzo è incentrato su un unico personaggio, il carpentiere Gesualdo Motta, di cui è descritta l’ascesa economico-sociale ottenuta grazie al duro lavoro e al sacrificio, ma anche la solitudine e la sconfitta sul piano umano (cosa che ascrive anche lui al gruppo dei Vinti). Domina il punto di vista del protagonista, presentato attraverso le sue parole o tramite pensieri riportati come monologo interiore e discorso indiretto libero. La rappresentazione di una società più complessa (formata da popolani, borghesia, nobiltà) rispetto a quella dei Malavoglia porta l’autore a utilizzare spesso i dialoghi per caratterizzare i diversi personaggi; per lo stesso motivo il procedimento della “regressione” del narratore e la presenza di un narratore popolare risultano

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meno evidenti. Più viva, invece, è la presa di coscienza dell’inevitabilità di atteggiamenti guidati dal materialismo economicista – conseguenza del progresso, criticato da Verga – che, nonostante portino a subordinare al guadagno ogni affetto umano, possono comunque rivelarsi fallimentari.

5 La fortuna di Verga

Di Verga, i contemporanei apprezzarono esclusivamente racconti e romanzi “mondani”; i romanzi veristi, al contrario, incontrarono un completo insuccesso di pubblico, spiazzato dalla estraneità e arcaicità del contesto, dal radicale pessimismo dell’autore e dalle sue scelte linguistiche e narrative. Un’iniziale riconsiderazione critica del lavoro verghiano parte già nel primo dopoguerra quando, oltretutto, l’autore siciliano incontra anche il favore di due grandi scrittori come Tozzi e Pirandello: il secondo, in particolare, ne apprezza l’antiretoricità della prosa e l’ambientazione siciliana delle vicende. Il vero successo, però, inizia con l’affermarsi della poetica neorealista: Verga e i temi delle sue opere ispirano, tra gli altri, Calvino, Fenoglio e Silone.

Zona Competenze Competenze digitali

1. Utilizza la web application Storify per raccontare la storia di Rosso Malpelo e Ranocchio attraverso immagini ricercate sul web (Visual Storytelling). Le immagini devono essere: a. disposte in serie come in una presentazione o slideshow; b. accompagnate da link, testi, brani audio, voce registrata ecc.

Competenze digitali

2. Svolgete una ricerca sui luoghi verghiani. Immaginate di dover realizzare, su incarico della Società Dante Alighieri, per la rete I parchi letterari (www.parchiletterari.com), un itinerario paesaggistico-letterario sui luoghi di vita e di ispirazione di Giovanni Verga. Lavoro di gruppo a. Analizzate a piccoli gruppi un luogo tra i più significativi della vita dello scrittore. b. Cercate di ritrovare descrizioni paesaggistiche nelle opere dello scrittore; c. Presentate il luogo scelto con un elaborato multimediale (PowerPoint, blog, sito ecc.); abbinate al luogo un testo letterario (o parte di testo) dell’autore; relazionate in classe mettendo in evidenza: – il legame stabilito tra poeta e luogo; – la sua valenza simbolica; – se si tratta di uno spazio reale o di un paesaggio poetico.

Educazione civica

3. Lo sfruttamento del lavoro minorile è purtroppo un problema ancora attuale, che coinvolge maggiormente i paesi del Sud del mondo, ma non solo. Dopo esserti documentato, sintetizza gli esiti della tua ricerca in una mappa di studio o elabora uno schema riassuntivo; poi rifletti su questo tema e affida le tue riflessioni a un testo argomentativo (max 15 righe) che faccia anche riferimento alla novella verghiana. Per la tua ricerca puoi servirti dei seguenti siti internet: – sito ministeriale www.lavoro.minori.it (dati aggiornati per quello che riguarda l’Italia); – siti delle organizzazioni governative internazionali: Unione Europea, UNICEF (United Nations Children’s Emergency Fund), ILO (International Labour Organisation), OHCHR (Office of the High Commission for Human Rights).

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Giovanni Verga

La Lupa G. Verga, Vita dei campi, a c. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 2001

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai 5 di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Perché la Lupa 10 non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua 15 bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse1 del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, 20 fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli2, e le diceva: “O che avete, gnà3 Pina?” Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento 25 sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: “Che volete, gnà Pina?” Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: “Te voglio! 30 Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!” “Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella,” rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava 35 accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte. “Prendi il sacco delle olive,” disse alla figliuola, “e vieni.” Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava “Ohi!” alla mula perché non si ar1 chiuse: terreni recintati. 2 manipoli: fasci di grano.

3 gnà: signora, appellativo che veniva attribuito alle donne di basso rango sociale.

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restasse. “La vuoi mia figlia Maricchia?” gli domandò la gnà Pina. “Cosa gli date a vostra figlia Maricchia?” rispose Nanni. “Essa ha la roba di suo padre, e dippiù 40 io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio. “Se è così se ne può parlare a Natale” disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: “Se non lo pigli, ti ammazzo!” 45 La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei 50 campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell’ora fra vespero4 e nona5, in cui non ne va in volta femmina buona6, la gnà Pina 55 era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte. “Svegliati!” disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. “Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti 60 la gola.” Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. “No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona!” singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. “Andatevene! andatevene! 65 non ci venite più nell’aia!” Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla 70 viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte, e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: “Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia!” Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, allorché la vede75 va tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. “Scellerata!” le diceva. “Mamma scellerata!” “Taci!” “Ladra! ladra!” “Taci!” “Andrò dal brigadiere, andrò!” “Vacci!” E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. 4 vespero: ora del tramonto. 5 nona: le tre del pomeriggio.

6 non ne va... buona: non va in giro una donna per bene.

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Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. “È la tentazione!” diceva; “è la tentazione dell’inferno!” Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera. “Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi 85 in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!” “No!” rispose invece la Lupa al brigadiere “Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.” Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se 90 ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. “Lasciatemi 95 stare!” diceva alla Lupa “Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. 100 Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza – e poi, come la Lupa tornava a tentarlo: “Sentite!” le disse, “non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo!” “Ammazzami,” rispose la 105 Lupa, “ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci.” Egli come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli 110 di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. “Ah! malanno all’anima vostra!” balbettò Nanni. 80

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto della novella. 2. Traccia un profilo del personaggio della Lupa, avvalendoti sia dei particolari che nella narrazione si riferiscono direttamente a lei, sia di ciò che di lei dicono o pensano gli altri, a partire dai suoi famigliari. 3. Spiega il significato dell’imperfetto che apre la novella. 4. Individua nel brano le scelte stilistico-espressive, tra cui le espressioni colloquiali, i dialettismi, i proverbi tipici della narrazione verista di Verga. Spiega come l’utilizzo di questo linguaggio risponda al criterio di impersonalità e oggettività dell’autore. 5. Fornisci una descrizione sia fisica sia psicologica di Nanni.

Interpretazione

La Lupa ripropone la figura del “diverso”, di chi viene emarginato dalla società perché non risponde ai canoni prefissati dal sentire comune. Partendo dal testo proposto e facendo riferimento alle tue letture, conoscenze ed esperienze personali, rifletti sul tema.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da: M. Bucciantini, Il mondo scomparso dei contadini, Domenicale «Il Sole 24 ore», 19 maggio 2019

«Chi preferisce vedere un’immagine sdolcinata dei contadini, vada per un’altra strada. Io sono convinto che alla lunga dia risultati migliori dipingerli nella loro rozzezza piuttosto che con la convenzionale leziosità. Un quadro di contadini non deve essere profumato». […] Leggendo il nuovo libro di Adriano Prosperi 5 mi sono tornate alla mente queste pagine1, che fanno parte di quell’insuperata lezione di umanità che è la corrispondenza tra Vincent e Theo. Lui, «pittore di contadini», come si definiva in quegli anni, imparando alla perfezione la lezione di un suo maestro, Jean-François Millet. E mi sono tornate alla mente per contrasto, quando Prosperi sottolinea che nella pittura italiana dell’Ottocento i 10 contadini restano quasi sempre sullo sfondo di bellissimi paesaggi agrari, oppure quando sono in primo piano, a piedi scalzi, vestiti di stracci, immersi nella loro fatica nei campi, hanno sempre qualcosa di monumentale che non gli appartiene. Alcuni giorni fa, un giovane e brillante storico dell’arte fiorentino, Silvio Balloni, mi faceva notare come anche nelle immagini di vita contadina dipinte dai 15 Macchiaioli […] sia attivo un filtro intellettuale e culturale molto sofisticato, dove i personaggi sono trasfigurati in un’aura quasi mitologica e circondati da un clima e una qualità della luce e del colore che predispongono alla quiete e alla serenità. Nella pittura italiana dell’Ottocento, anche quella più sperimentale, s’intravede poco quella «selvaggità» e quel primitivismo che erano parte 20 integrante di una vita contadina piena di stenti e di miseria, e che invece emergono con prepotenza dalla lettura di questo libro. Prosperi ci fa precipitare dentro un mondo perduto e remotissimo che abbiamo del tutto rimosso, ma che ci riguarda. Ci aiuta a gettare uno sguardo sui «contadini che siamo stati». E lo fa partendo da alcune domande che possono sembrare 25 banali nella loro semplicità. Come si viveva e cosa si mangiava nelle campagne italiane nell’Ottocento e nel primo Novecento, quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra, ovvero degli uomini, delle donne e dei bambini che erano costretti a lavorare per gran parte dell’anno dieci o dodici ore al giorno. Come si viveva in case sudicie e fatiscenti, piene di umidità, con muri formati 30 di rottami e di cocci, con il tetto fatto di canne o di paglia, spesso composte di due sole stanze, una per la famiglia e l’altra per gli animali. Sono domande che confliggono con l’immagine dell’altra Italia, con il Paese definito – e oggi pubblicizzato – delle «cento città». Qui c’è ben altro, c’è il basso popolo delle «cento campagne»: oltre quindici milioni di persone unite dal segno inconfondibile della 35 miseria, delle malattie e della subalternità economica e culturale. Non i salotti, i caffè, le biblioteche, i circoli letterari, le redazioni dei giornali, le accademie, i luoghi tipici della sociabilità borghese […]. E la frattura tra questi due mondi in Italia – a differenza di altri paesi come la Francia – è stata insanabile. Se le «cento città» sono servite a mettere in risalto il lato moderno e innovativo della 1 L’autore si riferisce a una lettera che Vincent Van Gogh scrisse al fratello Theo il 30 aprile 1885, quando aveva appena portato a termine il suo famoso quadro I mangiatori di patate. Il libro dello storico Adriano Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, era di imminente pubblicazione presso Einaudi alla data dell’articolo.

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nazione e della sua classe dominante, è altrettanto vero che questa immagine ha finito per nascondere l’altra faccia della medaglia: un paese non meno vero e reale, abitato da una classe contadina a cui è toccato di pagare il prezzo più alto e il cui sacrificio è stato completamente dimenticato. […] I contadini d’Italia dell’Ottocento sono i senza voce, gli invisibili, i sommersi, il volgo disperso, 45 appunto, che però assume un significato ben più tragico di quello manzoniano. Qui non c’è riscatto, o se alla fine del secolo comincia a farsi avanti, esso viene bollato dal nuovo Stato come pericoloso e sovversivo, e quindi da reprimere con le galere, i domicili coatti, i manicomi. Non hanno avuto testimoni-portavoce che si sono assunti l’arduo compito di 50 parlare per loro. Chi li ha descritti e rappresentati è stato quasi sempre mosso da altri interessi, con in comune però la scelta di ribadirne la posizione di sudditanza. Meno affamati e meno sporchi, ma sempre obbedienti e subalterni. 40

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Attraverso la recensione del saggio di Prosperi, che cosa vuole sostenere l’autore dell’articolo? 2. Quale funzione e quale significato assume, nell’argomentazione di Bucciantini, la citazione della lettera di Van Gogh al fratello? 3. Qual è il merito principale del libro di Prosperi nel giudizio di Bucciantini?

Produzione

Nel brano proposto, lo storico Massimo Bucciantini esprime le sue opinioni circa le modalità e lo spirito con cui è stato rappresentato il mondo contadino italiano fra Otto e Novecento riferendosi principalmente all’arte figurativa. Ritieni di poter condividere tale analisi? Pensi che le considerazioni e i giudizi di Bucciantini possano essere estesi anche ad altre espressioni dell’arte e della cultura italiane del tempo? Elabora le tue opinioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue conoscenze, delle tue letture e delle tue esperienze personali.

Verso l’esame di Stato Tipologia C R iflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da: A. Einstein, Come io vedo il mondo, (1a ed.: 1934)

Produzione

La crisi è la migliore benedizione che può arrivare a persone e nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dalle difficoltà nello stesso modo in cui il giorno nasce dalla notte oscura. È dalla crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi inibisce 5 il proprio talento ed ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. Senza crisi non ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno, poiché senza crisi sfuggiamo alle nostre responsabilità e quindi non maturiamo. Dobbiamo invece lavorare duro per evi10 tare l’unica crisi che ci minaccia: la tragedia di non voler lottare per superarla. Partendo dalle riflessioni di Einstein, esprimi una tua opinione in merito all’argomento, facendo riferimento alle tue letture, scolastiche e personali, e alle tue esperienze. Esponi il tuo pensiero in un discorso coerente e coeso.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

8 Il teatro tra Ottocento e Novecento

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento nel teatro europeo si realizza una trasformazione radicale dei contenuti e delle forme teatrali in nome del realismo che domina le poetiche del secondo Ottocento. Ne deriva il rifiuto di ambientazioni convenzionali e di una recitazione artefatta in nome dell’aderenza alla psicologia del personaggio. Poiché il teatro mette a fuoco soprattutto la realtà sociale del mondo borghese, ne è derivata l’etichetta di “teatro borghese”. Di questa classe sociale, peraltro, i grandi drammaturghi europei, da Ibsen a Strindberg a Shaw, evidenziano soprattutto la corrosione dei valori, le contraddizioni, i vuoti pregiudizi: da riproduzione realistica il loro teatro diventa così “dibattito” di temi scottanti, “teatro di idee”, e svolge una corrosiva funzione di smascheramento dell’ideologia borghese.

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In questa direzione si svilupperà poi, a partire dal 1916, il teatro di Pirandello.

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La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 1 Verso il teatro moderno Dal teatro come rito sociale al teatro realistico Nella seconda metà dell’Ottocento, in un arco temporale relativamente breve, nasce in Europa il teatro moderno. Questo processo, che interessa anche l’Italia, se pure in modo per ora marginale, ha a che fare anche con l’introduzione di nuovi contenuti (di cui parleremo più avanti), ma è forse più rilevante il cambiamento delle modalità di rappresentazione, delle tecniche di recitazione e, più in generale, la trasformazione dell’idea stessa di teatro e della sua funzione. Fino all’Ottocento il teatro aveva soprattutto una funzione di intrattenimento e di rappresentanza: andare a teatro era un rito sociale, a teatro ci si incontrava, si annodavano rapporti; per le classi alte il teatro era una vetrina di visibilità, un prolungamento del salotto. L’interesse del pubblico non era rivolto al testo rappresentato sulla scena, ma alla bravura degli attori, sulle cui capacità spesso il testo stesso era modellato. Non esisteva ancora la figura del regista, poiché lo spettacolo era organizzato e gestito dal capocomico, che quasi sempre era anche il primo attore della compagnia. Le scene e i costumi degli attori non erano funzionali a una riproduzione realistica, ma erano del tutto convenzionali. Già nel corso del tardo Settecento, sulla spinta delle istanze illuministiche, la commedia, in particolare, si era via via svincolata dalle forme codificate (rappresentate dagli schemi usurati della commedia dell’arte): un rinnovamento che si deve in gran parte al genio di Goldoni. Occorre tuttavia arrivare alla seconda metà dell’Ottocento perché il teatro possa assumere un volto vicino all’idea attuale di teatro. L’influenza del naturalismo nell’evoluzione delle tecniche teatrali La trasformazione dello spettacolo teatrale è frutto dell’influenza esercitata anche in ambito teatrale dalle poetiche del naturalismo, dall’esigenza cioè di fare anche del teatro una rappresentazione ispirata ai princìpi del realismo, sia nei contenuti sia nelle forme. In sintesi, la trasformazione che fa del teatro tardo-ottocentesco e primo-novecentesco il fondamento del teatro moderno riguarda questi aspetti. • Nello spettacolo teatrale viene riconosciuta la funzione primaria del testo d’au-

tore, di cui si afferma il valore artistico e che deve essere rispettato e correttamente interpretato. • Al capocomico factotum subentra la figura, ben più qualificata, del regista, appunto colui a cui è delegata principalmente la funzione di interpretare il significato del testo, le intenzioni, palesi e implicite, dell’autore: sulla base della sua interpretazione del testo teatrale, il regista coordina poi autorevolmente ogni aspetto della rappresentazione, assicurando così coerenza generale a ogni componente di essa, dai costumi, alla scena, alla recitazione degli attori. • Ai fondali dipinti, che rappresentavano una scena convenzionale, utilizzabile per testi diversi, in cui era manifesto il carattere di “finzione” del teatro, si sostituisce un’ambientazione realistica: per lo più si tratta di interni borghesi, ricostruiti con

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precisione documentaria anche negli oggetti e negli arredi, secondo le precise indicazioni dell’autore affidate alle didascalie, che si infittiscono e si ampliano notevolmente. Allo stesso modo viene curata la caratterizzazione storica e sociale dei costumi di scena, mentre in passato spesso risultavano incoerenti rispetto all’epoca in cui era ambientata l’opera. • Anche la recitazione è profondamente rinnovata: all’arbitrio degli attori, alla tendenza all’improvvisazione, all’idea della recitazione come puro virtuosismo, si contrappone una recitazione che simula dialoghi e soliloqui “reali”; anche la gestualità è disciplinata dalle indicazioni contenute nelle didascalie, che vincolano la recitazione alla volontà dell’autore del testo, di cui si fa interprete autorizzato il regista. È facile comprendere che questo diverso modo di recitare richiedeva agli attori una nuova professionalità, indispensabile perché nascesse il teatro moderno. Nella diffusione di una poetica teatrale innovativa, sulla base dei principi del naturalismo, svolge un ruolo fondamentale il Théâtre libre (“Teatro libero”) fondato nel 1887 a Parigi da André Antoine (1858-1943). Sarà Antoine a far conoscere le opere chiave del “nuovo” teatro, come Spettri di Ibsen e La signorina Julie di Strindberg, messe in scena rispettivamente nel 1890 e nel 1893. Un ruolo importante nella storia del teatro è svolto anche dal Teatro d’arte di Mosca, fondato nel 1898 da Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863-1938) e Vladimir Ivanovič Nemirovič-Dančenko (1858-1943). Stanislavskij è fra i primi a inaugurare la figura del regista moderno e a collaborare strettamente con l’autore (fondamentale il suo sodalizio con Čechov); inoltre stabilisce un metodo di recitazione che ancor oggi è ritenuto basilare.

Il teatro nella seconda metà dell’Ottocento teatro naturalista

• soggetti quotidiani e vicini al mondo delle persone comuni • ambienti e personaggi realisticamente caratterizzati

• recitazione “naturale” senza artifizi, più aderente alla realtà

Anton Čechov legge Il gabbiano ai suoi attori. Alla sua destra è seduto Stanislavskij (1898).

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borghese: dalla rappresentazione realistica 2 Ildeiteatro costumi sociali allo svelamento delle “verità nascoste” L’applicazione dei principi naturalistici al teatro Nel secondo Ottocento si modificano in modo sostanziale anche contenuti e temi del teatro. Le forme classiche del teatro (che comportavano in particolare la rigida distinzione fra commedia e tragedia) erano da tempo in crisi e si era ormai esaurito anche il teatro romantico, rappresentato soprattutto da drammi storici, spesso d’ispirazione nazionalistica. In relazione al nuovo clima culturale, dominato dall’esigenza realistica, si avverte la necessità di innovare anche le forme teatrali. È lo stesso Émile Zola, maestro del naturalismo, a teorizzare i principi fondamentali di un teatro realista in uno scritto del 1881 (Il naturalismo a teatro): in esso sostiene la necessità che anche il teatro, come il romanzo, si avvicini alla realtà, il che comporta innanzitutto l’ideazione di personaggi e vicende non inverosimili ma tratti dalla realtà quotidiana. Per Zola, addirittura, dovrà essere l’ambiente sociale a determinare, anche in ambito teatrale, la psicologia e i comportamenti dei personaggi. Occorrerà inoltre utilizzare un nuovo linguaggio teatrale che eviti forme enfatiche e letterarie e privilegi invece la mimesi del reale. online

Per approfondire Il metodo Stanislavskij: verso la moderna recitazione

Temi sociali e ambientazioni borghesi Il teatro assume ora nuove prospettive: in alcuni casi mette in scena i problemi sociali delle classi inferiori, come nel caso di Gerhart J.R. Hauptmann (1862-1896) in Germania e di Maksim Gorkij (1868-1936) in Russia; più frequentemente si fa specchio della società borghese, di cui intende rappresentare i valori, i comportamenti, le dinamiche psicologiche. Non è certo un caso che, per ambientare i nuovi copioni teatrali, sia scelto di preferenza l’ambiente-simbolo del salotto, centro della vita sociale della famiglia borghese. Grazie alla “finzione di realtà” adottata dai nuovi drammaturghi, lo spettatore ha l’impressione di trovarsi veramente all’interno di una casa, di spiare la vita dei personaggi che vi abitano, i comportamenti, i drammi che si svolgono tra le sue pareti. Incarna in pieno questa poetica teatrale realista Henrik Ibsen (1828-1906), il drammaturgo norvegese che per tutta l’Europa costituì il modello di un nuovo teatro. Significativa è questa sua dichiarazione, del 1867: «Il mio disegno è questo: di darmi alla fotografia. Farò posare i miei contemporanei, uno per uno, davanti al mio obiettivo. Ogni volta che incontrerò un’anima degna d’essere riprodotta, non risparmierò né un pensiero né una fuggevole intenzione appena mascherata dalla parola. Non risparmierò nemmeno il piccolo nascosto nel seno della madre». La radiografia critica della classe borghese Come si può dedurre già dalla dichiarazione appena citata, il teatro di Ibsen (per lo meno nei suoi drammi maggiori, quelli appunto ispirati alla poetica naturalistica, composti a partire dal 1870) non si limiterà a “registrare” la realtà, ma andrà ben oltre, scavando nelle anime, nelle psicologie dei personaggi. Inevitabilmente la sua fotografia diventa quindi testimonianza scottante della crisi della classe borghese: il teatro assume il ruolo di smascherare, mettendoli in scena, i pregiudizi, il perbenismo spesso ipocrita che ne regge i rapporti, gli alibi moralistici e le contraddizioni della classe borghese, che affiorano nelle tensioni interiori vissute dai personaggi: appunto le “verità nascoste” a cui allude in modo abbastanza trasparente la metafora del «piccolo nascosto nel seno della madre». Da immagine fedele della realtà, con Ibsen ma anche con gli altri grandi drammaturghi del tempo, il teatro diventa così uno strumento di dibattito ideologico che per la prima volta osa provocare il pubblico, stimolandone la riflessione critica.

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Dall’alveo stesso del teatro naturalista si origina dunque il “teatro di idee”, che identifica poi ampia parte del teatro novecentesco (come ad esempio, in Italia, quello di Pirandello): in questo tipo di teatro è lasciato poco spazio all’azione, mentre dominano l’esplorazione dei conflitti interiori e l’analisi delle dinamiche psicologiche.

3 I grandi maestri del teatro europeo tra Ottocento e Novecento Henrik Ibsen La biografia e le opere Ibsen nasce a Skien, in Norvegia, nel 1828 in una famiglia dell’agiata borghesia. Dopo un’adolescenza difficile (il fallimento del padre lo obbliga ad abbandonare gli studi) inizia a frequentare gli ambienti teatrali e, in parallelo, a scrivere testi teatrali. Nella prima fase della sua produzione compone opere ispirate allo spirito nazionale norvegese (Peer Gynt, 1867) e drammi storici di matrice romantica. Deluso dagli insuccessi, nel 1868 lascia la Norvegia per una serie di soggiorni in Europa che lo tengono lontano dal suo paese per quasi trent’anni. Si avvicina alla poetica naturalista e imbocca come drammaturgo una strada sperimentale. Nella sua produzione maggiore Ibsen abbandona la rappresentazione di passioni nobili proprie di personaggi superiori all’umanità comune, per “fotografare”, come si è detto, i drammi interiori di personaggi borghesi, specchio delle contraddizioni di un’intera classe sociale. Nascono da queste premesse le opere più note del drammaturgo norvegese (Casa di bambola, 1879; Spettri, 1881; L’anitra selvatica, 1884; Casa Rosmer, 1886; La donna del mare, 1888; Hedda Gabler, 1890; Il costruttore Solness, 1892; Quando noi morti ci destiamo, 1899). In alcune di esse spicca l’analisi del personaggio femminile in relazione all’istituto matrimoniale, avvertito come condanna a un ruolo spesso inautentico, fondato su rapporti convenzionali o meramente economici. Nel 1895 Ibsen rientra in patria e riprende a scrivere fino alla morte, avvenuta a Oslo nel 1906. Casa di bambola: un “caso” teatrale Esempio evidente di tale analisi dell’animo femminile e documento emblematico del teatro maggiore di Ibsen è Casa di bambola (➜ D1 OL), uno dei suoi testi più noti e rappresentati. Composto durante il soggiorno dell’autore in Italia, fu rappresentato per la prima volta al Teatro reale di Copenaghen il 4 dicembre 1879, suscitando subito molto scalpore per la vicenda rappresentata, certo scandalosa per quei tempi: una fragile donna, Nora, diventa protagonista della propria vita, una volta presa coscienza dell’inautenticità del rapporto che la lega al marito, scegliendo alla fine del dramma di abbandonare marito e figli per conoscersi e realizzarsi come persona. La scelta ‘trasgressiva’ di Nora suscitò appassionati dibattiti in tutta Europa. Del personaggio di Nora, diventato ben presto notissimo in tutta Europa, si impadronì il neonato movimento femminista, che ne fece una propria eroina, anche se Ibsen

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rifiutò di essere considerato un paladino dei diritti della donna, la cui causa gli sembrava più generalmente «una causa dell’essere umano». Il rapporto matrimoniale e la conflittualità tra i sessi, tuttavia, sono per Ibsen solo una manifestazione di un più generale conflitto che egli vuole focalizzare, ovvero quello fra la libertà della coscienza, fra l’aspirazione genuina alla realizzazione della propria essenza, e le convenzioni sociali e morali a cui l’individuo deve sottostare. Il teatro di Ibsen, per la sua sfida alle convenzioni sociali e teatrali, fu soggetto in patria a molte censure e poté essere conosciuto in Europa grazie all’interessamento di Zola e alla promozione del Théâtre libre di Parigi, che, come si è detto, rappresentò le sue opere diffondendone la conoscenza. In Italia il dramma fu rappresentato la prima volta nel 1891, con Eleonora Duse nel ruolo della protagonista. L’esito della prima fu contrastato, anche se una cronaca del tempo riferisce, a proposito del terzo atto: «Da quanto tempo non si udivano dalla scena parole tanto profonde esprimere pensieri tanto meditati, verità tanto audaci!». La trama Nora Helmer è la moglie, coccolata e vezzeggiata come una bambola, di Torvald, un avvocato con una solida posizione sociale ed economica (è stato da poco nominato direttore della banca in cui lavora), da cui ha avuto tre bambini. Nora nasconde un segreto sotto la sua tranquilla vita borghese di brava moglie, segreto che rivela all’amica Kristine, da poco rimasta vedova: anni prima, falsificando la firma di suo padre, Nora ha contratto un grosso debito con Krogstad (un impiegato dal passato non chiaro che lavora nella banca diretta da Torvald) per consentire al marito, gravemente malato, un soggiorno all’estero. Ad un certo punto Torvald decide di licenziare per inefficienza Krogstad, che per questo minaccia di rivelargli l’imbarazzante segreto di Nora se il licenziamento avrà corso; nonostante le suppliche di Nora, il marito resta irremovibile nella sua decisione e allora Krogstad espone la sua verità in una lettera a Torvald. Le speranze riposte da Nora nel perdono del marito si scontrano con la dura reazione dell’uomo, preoccupato solo della sua rispettabilità e della sua carriera. Inaspettatamente Krogstad, grazie all’intercessione di Kristine, rinuncia al ricatto, ma la situazione tra i coniugi è ormai compromessa irreparabilmente: Nora ha compreso di essere sempre stata solo un giocattolo per il marito, che vorrebbe fare come se nulla fosse accaduto. Con lucida fermezza decide di lasciare la famiglia: da “bambola” intende diventare una donna capace di gestire autonomamente la propria vita. Una scena dal film Casa di bambola del 1922.

online D1 Henrik Ibsen Un interno borghese Casa di bambola

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Henrik Ibsen

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EDUCAZIONE CIVICA

La ribellione di Nora Casa di bambola, atto III

H. Ibsen, Casa di bambola, trad. A. Rho, Einaudi, Torino 1963

Le pagine che seguono sono tratte dal terzo atto e si collocano nella parte finale del dramma: Torvald ha appena letto la lettera con cui Krogstad lo informa della colpa della moglie. La sua dura reazione lascia attonita Nora, attivando rapidamente in lei un processo di autocoscienza che la induce a comprendere di non aver mai avuto una vita degna e autonoma all’interno del matrimonio. Da qui la dolorosa, ma ferma, decisione che chiude l’opera.

HELMER Hai distrutto la mia felicità, hai stroncato il mio avvenire! Ah, è spaventoso pensarlo. Sono in balia di un uomo senza coscienza, egli può far di me ciò che vuole, esigere tutto quel che gli viene in mente, comandare e ordinare a suo talento... io non potrò fiatare. Dovrò precipitare e andare alla malora per la sventatezza d’una donna! NORA Quando avrò lasciato questo mondo, tu sarai libero. HELMER Basta coi paroloni. Anche tuo padre sfoderava sempre frasi del genere. A che mi gioverebbe che tu lasciassi il mondo, come vai dicendo? Proprio a nulla. Egli potrebbe tuttavia propalare la cosa1; e se lo facesse mi si incolperebbe magari d’esser stato complice della tua azione criminale. Potrebbero credere ch’io ne sia stato l’ispiratore... l’istigatore. E di tutto questo posso dir grazie a te, a te che ho sempre portata in palmo di mano durante la nostra vita in comune. Ti rendi conto, ora, di quello che hai fatto? NORA (calma e fredda) Sì. HELMER È così incredibile che ancora non mi ci ritrovo. Ma bisogna pensare al da farsi. Togliti quello scialle. Toglitelo, ti dico! Bisogna ch’io cerchi in qualche modo di tacitare quell’uomo; la cosa dev’esser soffocata a qualunque prezzo. In quanto a te e a me, in apparenza tutto deve restare immutato. Ma naturalmente solo agli occhi del mondo. Tu dunque resterai qui, s’intende. Ma non sarai tu l’educatrice dei bambini; non oserei affidarteli... Oh, dover dire questo alla donna che ho così intensamente amata, e che ancora...! No, tutto questo deve finire. D’ora innanzi non si tratta più della nostra felicità, ma soltanto di salvare i resti, i relitti, le apparenze... (Suonano alla porta d’entrata. Helmer trasale) Che c’è? Così tardi! Sarebbe già...? Orrore! Lui che...? Nasconditi, Nora! Di’ che sei ammalata. (Nora rimane immobile, Helmer va ad aprire la porta del vestibolo.) CAMERIERA (in anticamera, semivestita) C’è una lettera per la signora. HELMER Dia qui. (Prende la lettera e chiude la porta) Sì, da lui. Non te la do. La leggerò io. NORA Leggi pure. HELMER (vicino alla lampada) Non ne ho il coraggio. Forse siamo perduti, tu ed io. Eppure... devo sapere. (Lacera la busta, dà una scorsa alla lettera, spiega un foglio accluso; getta un grido di gioia) Nora! (Nora lo guarda con aria interrogativa) Nora!... No! Debbo leggerla un’altra volta. Sì, sì; è così. Sono salvo, Nora, sono salvo. NORA Ed io? HELMER Anche tu, naturalmente; siamo salvi entrambi; tu ed io. Guarda. Ti rimanda la ricevuta. Scrive che rimpiange, che si pente... che un felice mutamento nella sua vita2... Ma ciò 1 Egli... la cosa: egli (Krogstad) potrebbe

2 un felice mutamento nella sua vita:

diffondere la cosa e, data la posizione di Helmer, sarebbe uno scandalo.

Krogstad si è convinto a restituire la ricevuta del debito con la firma falsa di Nora

grazie all’intervento di Kristine, amica di Nora, con la quale in passato aveva avuto una relazione.

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che scrive non ha importanza. Siamo salvi, Nora! Nessuno ti potrà nuocere. Ah, Nora, Nora... ma prima distruggiamo questa robaccia. Vediamo... (Dà un’occhiata alla ricevuta) No, non la voglio vedere; penserò che sia stato un brutto sogno, null’altro. (Strappa la ricevuta e le due lettere, getta i pezzi nella stufa e li guarda bruciare) Così, ora non esiste più nulla. Quell’uomo ha scritto che dalla vigilia di Natale, tu... oh, devono essere stati tre giorni spaventosi per te, Nora! NORA In quei tre giorni ho sostenuto una dura lotta. HELMER Hai sofferto, e non vedevi altra via che... No, dimentichiamo queste brutte cose. Gustiamo la nostra gioia, adesso, e ripetiamo: è passato, è passato! Ma ascoltami dunque, Nora! Si direbbe che non hai ancora inteso: è finito. Perché quei tratti irrigiditi? Ah, povera piccola Nora, ora capisco, tu non puoi ancora credere ch’io ti abbia perdonato. Eppure è così, Nora, ti giuro che ti perdono tutto. Quello che hai fatto, l’hai fatto per amor mio, lo so. NORA Questo è vero. HELMER Mi hai amato come una moglie deve amare il marito. Soltanto, ti è mancato il giudizio necessario nella scelta dei mezzi. Ma credi forse di essermi meno cara perché sei incapace di agire da sola? No, no, appoggiati a me, e troverai guida e consiglio. Non sarei un uomo se appunto questa tua femminile incapacità non ti rendesse ai miei occhi ancor più seducente. Non far caso alle parole dure che ti ho rivolto nel primo sgomento, quando credevo che tutto crollasse intorno a me. Ti ho perdonato, Nora, giuro che ti ho perdonato. NORA Ti ringrazio per il tuo perdono. (Esce dalla porta di destra). Ma no, resta qui... (Guardando nella stanza) Che cosa fai nell’alcova3? HELMER (dalla sua camera) Mi tolgo il costume4. NORA (Helmer si accorge che Nora si è cambiata, ma ha indossato un vestito anziché prepararsi per la notte.) HELMER [...] Ma come mai? Non vai a letto? Hai mutato abito? NORA (che ha indossato il vestito di tutti i giorni) Sì, Torvald, ho mutato abito. Ma perché mai? Adesso? A quest’ora...? HELMER NORA Stanotte non dormirò. HELMER Ma, cara Nora... NORA (guardando l’ora) Non è ancor molto tardi. Siediti, Torvald; noi due dobbiamo parlarci a lungo. (Siede a un capo del tavolo). HELMER Nora... che c’è? Quel viso impenetrabile... NORA Siedi. Ci vorrà un po’ di tempo. Devo dirti molte cose. HELMER (sedendo di fronte a lei) Mi fai paura, Nora. E non ti capisco. NORA Sì, di questo appunto si tratta. Tu non mi capisci. Ed io pure non ti ho mai capito... fino a questa sera. Ti prego, non interrompermi. Ascolta quel che ti dico. È una resa dei conti, Torvald! HELMER Che cosa intendi dire? NORA (dopo un breve silenzio) Eccoci qui uno di fronte all’altra... Non ti sorprende una cosa? HELMER Quale? NORA Siamo sposati da otto anni. Non t’accorgi che noi due, tu ed io, marito e moglie, oggi per la prima volta stiamo parlando di cose serie? HELMER Di cose serie... che cosa vuoi dire?

3 alcova: stanza da letto. 4 il costume: si tratta di un costume per il ballo in maschera a cui doveva recarsi con il marito.

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NORA In otto anni... e più ancora... da quando ci siamo conosciuti, non abbiamo mai avuto un colloquio su argomenti gravi. HELMER Avrei dovuto tenerti sempre informata di mille contrarietà che tu comunque non potevi aiutarmi a sopportare? NORA Non parlo di contrarietà. Dico soltanto che mai abbiamo cercato insieme di vedere il fondo delle cose. HELMER Ma, cara Nora, sarebbe forse stata un’occupazione adatta a te? NORA Ecco il punto. Tu non mi hai capita. Avete agito molto male, con me, Torvald. Prima il babbo, e poi tu. HELMER Che cosa? Tuo padre ed io... Noi che ti abbiamo amata sopra ogni cosa al mondo? NORA (scuotendo il capo) Voi non mi avete mai amata. Vi siete divertiti ad essere innamorati di me. HELMER Ma, Nora, che cosa dici mai? (Nora associa il padre al marito nella sua requisitoria: entrambi hanno impedito la sua crescita interiore per fare di lei una bambola da vezzeggiare e con cui divertirsi.) HELMER Nora, sei assurda ed ingrata! Non sei stata felice qui? NORA No, non lo sono mai stata. L’ho creduto, ma non era vero. HELMER Non sei... non sei stata felice? NORA No; sono stata allegra, ecco tutto. E tu sei stato molto affettuoso con me. Ma la nostra casa non è mai stata altro che una stanza da gioco. Qui sono stata la tua moglie-bambola, come ero stata la figlia-bambola di mio padre. E i bambini sono stati le bambole mie. Quando tu giocavi con me io mi divertivo esattamente come si divertivano i bambini quando io giocavo con loro. Questo è stato il nostro matrimonio, Torvald. HELMER C’è qualcosa di vero nelle tue parole... per quanto siano eccessive ed esaltate. Ma d’ora in poi tutto deve cambiare. Il tempo dei giochi è passato, ora incomincia quello dell’educazione. NORA L’educazione di chi? La mia o quella dei bambini? L’una e l’altra, mia diletta Nora. HELMER NORA Ah, Torvald, tu non sei l’uomo capace di educarmi e di far di me la moglie che ci vuole per te. HELMER E lo dici così? NORA Ed io... son forse preparata al compito di educare i bambini? HELMER Nora! NORA Non l’hai detto poc’anzi5 tu stesso... che non potevi affidarli a me? HELMER L’ho detto in un momento di irritazione! Come puoi farne caso? 5 poc’anzi: poco fa.

Liv Ullman nel ruolo di Nora nel 1974.

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NORA Ma sì; avevi perfettamente ragione. Non sono all’altezza del compito. C’è un altro motivo che devo risolvere prima. Debbo tentare di educare me stessa. E tu non sei l’uomo che possa aiutarmi a farlo. Bisogna ch’io m’industri6 da sola. E perciò sto per lasciarti. HELMER (balza in piedi) Che cosa dici? NORA Debbo esser sola per rendermi conto di me stessa e delle cose che mi circondano. Quindi non posso più rimanere con te. HELMER Nora! Nora! NORA Vado via subito. Kristine mi accoglierà per questa notte... HELMER Tu sei pazza! Non lo farai! Te lo proibisco! NORA Ormai i tuoi divieti non servono a nulla. Porto via tutto ciò che è mio. Da te non voglio nulla, né ora né poi. HELMER Che follia! NORA Domani ritorno a casa mia... voglio dire al mio paese. Là mi sarà più facile che altrove intraprendere qualcosa. HELMER Povera creatura illusa e inesperta! Cercherò di acquistare esperienza, Torvald. NORA HELMER Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli! Pensa, che dirà la gente! NORA Questo non mi può trattenere. Io so soltanto che per me è necessario. HELMER Oh, è rivoltante! Così tradisci i tuoi più sacri doveri? NORA Che cosa intendi per i miei più sacri doveri? E debbo dirtelo? Non son forse i doveri verso tuo marito e i tuoi bimbi? HELMER NORA Ho altri doveri che sono altrettanto sacri. No, non ne hai. E quali sarebbero? HELMER NORA I doveri verso me stessa. HELMER In primo luogo tu sei sposa e madre. NORA Non lo credo più. Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te... o meglio, voglio tentare di divenirlo. So che il mondo darà ragione a te, Torvald, e che anche nei libri sta scritto qualcosa di simile. Ma quel che dice il mondo e quel che è scritto nei libri non può più essermi di norma. Debbo riflettere col mio cervello per rendermi chiaramente conto di tutte le cose. HELMER E del tuo posto al focolare domestico non ti rendi conto? Non hai in tali questioni una guida infallibile? Non hai la religione? NORA Ah, Torvald, la religione non so neanche precisamente che cosa sia. Ma che dici mai? HELMER NORA Non so altro che quel che mi disse il pastore Hansen per prepararmi alla cresima. Egli affermava che la religione era questo e quest’altro. Quando sarò libera e sola esaminerò anche questo problema. Vedrò se è vero quel che diceva il pastore, o meglio se è vero per me. HELMER Oh, questo è inaudito sulle labbra di una giovane donna! Ma se la religione non ti può guidare, lascia allora ch’io interroghi la tua coscienza. Non possiedi almeno il senso morale? O forse, dimmi... forse ne sei priva? NORA Vedi, Torvald, non è facile risponderti. Non saprei assolutamente. Ho le idee molto confuse. Una cosa è certa, che di tutto ciò ho un concetto diverso dal tuo. Adesso vengo per giunta a sapere che le leggi non sono quelle che io credevo; ma non riesco a convincermi che siano giuste. Secondo tali leggi una donna non avrebbe il diritto di risparmiare un 6 m’industri: mi dia da fare.

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dolore al suo vecchio padre morente, e neppure di salvare la vita a suo marito! Son cose che non posso credere. HELMER Tu parli come una bambina; non capisci la società a cui appartieni. NORA No, non la capisco. Ma ora cercherò di capirla. Voglio scoprire chi ha ragione, io o la società. HELMER Nora, tu sei malata; hai la febbre; credo anzi che tu non sia in te. NORA Non mi sono mai sentita così lucida di mente e così sicura di me. HELMER E con questa lucidità e sicurezza tu abbandoni tuo marito e i tuoi figli? NORA Sì. HELMER Allora c’è una sola spiegazione possibile. Quale? NORA HELMER Tu non m’ami più. NORA Sì, è proprio questo. HELMER Nora!... E lo dici così? NORA Mi addolora molto, Torvald, perché tu sei stato sempre tanto buono con me. Ma che posso farci? Non ti amo più. HELMER (sforzandosi di dominarsi) Questa è la tua chiara e assoluta convinzione? NORA Sì, chiara e assoluta. Ecco perché non voglio più rimaner qui. E puoi anche spiegarmi come ho perduto il tuo amore? HELMER NORA Certo. È avvenuto questa sera, quando ho atteso invano il prodigio. Allora ho capito che tu non eri l’uomo ch’io credevo. (Nora spiega a Torvald che si sarebbe aspettata un altro comportamento dal marito, una volta letta la prima lettera di Krogstad. Pensava che egli l’avrebbe difesa, assumendosi al posto suo la responsabilità dell’accaduto: era questo il miracolo che attendeva. Nora rinfaccia a Torvald di aver poi voluto fare come se nulla fosse accaduto, riprendendo la sua “bambola” sotto le sue ali protettive. Ha capito allora di aver vissuto per otto anni con un estraneo.) HELMER (tristemente) Capisco; capisco. Infatti un abisso s’è spalancato fra noi due. Ma dimmi, Nora, non lo si può colmare? NORA Così come sono ora, non posso essere tua moglie. Io sento in me la forza di diventare un altro. HELMER NORA Forse... se ti portano via la tua bambola. HELMER Separarmi... separarmi da te! No, no, Nora, non posso adattarmi a quest’idea. NORA (entrando nella stanza a destra) Ragione di più per finirla. (Rientra portando cappello e soprabito e una valigetta che posa sulla sedia accanto al tavolo) HELMER Nora, Nora, non questa sera! Aspetta fino a domani. NORA (indossando il soprabito) Non posso passare la notte in casa d’un estraneo. HELMER Ma non potremmo vivere insieme come fratello e sorella? NORA (mettendosi il cappello) Sai benissimo che non durerebbe a lungo... (S’avvolge nello scialle) Addio, Torvald. Non voglio vedere i bambini. So che sono in mani migliori delle mie. Così come sono ora, non potrei essere una madre per loro. Ma un giorno, Nora... un giorno...? HELMER NORA Come posso dirlo? Non so nemmeno quel che sarà di me. HELMER Ma tu sei mia moglie, ora e sempre. NORA Ascolta, Torvald... quando una moglie lascia la casa del marito, come io sto per fare, la legge, ho sentito dire, lo scioglie da ogni impegno verso di lei. Io, comunque, ti sciolgo La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 1 323

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da ogni impegno. Tu sei libero in tutto, e così voglio essere io. Piena libertà per entrambi. Ecco, questo è il tuo anello. Dammi il mio. HELMER Anche questo? NORA Anche questo. HELMER Prendi. NORA Così. Ora tutto è finito. Qui ci sono le chiavi. Quanto al governo della casa... le domestiche ne sanno più di me. Domani, dopo la mia partenza, Kristine verrà a ritirare tutti gli oggetti che avevo portato da casa mia. Voglio che mi siano spediti. HELMER È finito? Tutto finito? Nora, non penserai mai più a me? NORA Certo penserò sovente a te e ai bambini, e a questa casa. Posso scriverti, Nora? HELMER NORA No... mai. Te lo proibisco. HELMER Ma mi permetterai di mandarti... NORA Nulla. Nulla. HELMER ... di aiutarti, se ne hai bisogno. NORA No, ti dico. Non accetto nulla da un estraneo. Nora... non sarò mai più altro che un estraneo per te? HELMER NORA (prendendo la valigetta) Ah, Torvald, dovrebbe accadere il meraviglioso, il prodigio... Dimmi che cos’è. HELMER NORA Dovremmo trasformarci tutti e due a tal punto che... ah Torvald, io non credo più ai prodigi. HELMER Ma io voglio credere. Dimmi! A tal punto che...? NORA ... che la nostra convivenza diventi matrimonio. Addio! (Esce attraverso l’anticamera) HELMER (cade su una seggiola vicino alla porta e si nasconde il viso tra le mani) Nora! Nora! (Si guarda intorno e s’alza) Vuoto. Se n’è andata. (Una speranza nasce in lui) Il prodigio...? (Si sente il tonfo della porta che si chiude.)

Un momento della rappresentazione teatrale della Casa di bambola nella città di Ramallah (marzo 2008).

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Analisi del testo L’“occasione rivelatrice” È nella parte finale del dramma, che abbiamo riportato quasi per intero, che si svolge il confronto chiave tra Torvald e Nora a cui si deve la fama dell’opera di Ibsen e del personaggio stesso di Nora: un personaggio che, per la sua scelta estrema su cui si chiude il dramma (abbandona il marito e i figli per cercare sé stessa in un futuro pieno di incognite) suscitò animosi dibattiti in tutta Europa e che tuttora, in tempi ben diversi per la condizione femminile, mantiene una sua sorprendente modernità. Il dialogo tra i due coniugi (che Nora stessa presenta come «una resa dei conti», quasi a prefigurarne il drammatico esito) si svolge dopo che Torvald ha ricevuto e letto la seconda lettera di Krogstad, che gli annuncia di rinunciare al ricatto; dunque, a breve distanza dalla lettura della prima lettera, ritrovata nella posta, che suscita le reazioni indignate di Torvald, riportate nella sua fulminea presa di coscienza. La reazione di Torvald, ben diversa da come se l’aspettava Nora, costituisce l’occasione rivelatrice perché Nora si renda conto improvvisamente, come per una folgorante intuizione, di chi ha sposato e della natura ipocrita del loro matrimonio. Abituata da sempre all’atteggiamento paternalistico e protettivo di Torvald (per cui Nora è un giocattolo piacevole che allieta la sua vita e la cui tendenza a spendere troppo va giudicata con un’indulgenza paterna), improvvisamente scopre un uomo duro ed egoista, che vede in lei non più la sua Nora, ma solo una donna scriteriata che rischia di rovinare la sua brillante carriera. Dopo aver letto la prima lettera, Torvald pensa solo a sé stesso: ne è una spia l’insistenza su pronomi e aggettivi di prima persona («la mia felicità», «il mio avvenire», «mi si incolperebbe») così come, letta la seconda lettera, dice «Nora, sono salvo», suscitando l’inevitabile domanda della moglie: «Ed io?». L’unica preoccupazione di Torvald è quella di salvare le apparenze, mettendo a tacere lo scandalo. Fin da questo momento Torvald si fa interprete del codice morale borghese che Ibsen, evidentemente schierato con Nora, intende mettere in discussione nel suo dramma.

Nora “cambia abito” La freddezza di Nora di fronte alla gioia di Torvald, per lo scampato pericolo, stupisce il marito e segna il passaggio al colloquio-scontro che chiude la pièce con grande tensione drammatica. Da quel momento tutti i passaggi sono bruciati: Nora non compie un cammino lento di autocoscienza come la maggior parte delle donne avrebbe fatto in una situazione analoga, ma matura in pochissimo tempo la sua decisione di lasciare marito e figli. Una decisione che si immagina avvenuta fra la lettura delle due lettere e il momento in cui Nora si ritira in camera da letto per cambiarsi d’abito: un dettaglio, quest’ultimo, solo apparentemente secondario, in realtà carico di significato simbolico, poiché è da quel momento preciso che nasce un’altra Nora («Sì, Torvald, ho mutato abito»). Anche il fatto che prima Nora indossasse un costume per un ballo in maschera potrebbe avere un senso simbolico: d’ora in poi Nora rifiuterà ogni “maschera”, ogni “recita”, per affrontare con coraggio il confronto con la realtà. Rientrata sulla scena, Nora si prepara a fronteggiare il marito.

Una significativa inversione di ruoli È oltremodo indicativo che nel dialogo concitato con la moglie Torvald usi di preferenza la forma interrogativa: egli non riconosce la Nora che gli sta davanti e la incalza con continue domande per cercar di capire che cosa sia successo dentro di lei. Nel confronto tra i coniugi è paradossalmente Torvald a essere preda del turbamento e dell’emotività (le sue frasi terminano non di rado con il punto esclamativo: «Tu sei pazza! Non lo farai! Te lo proibisco!»), mentre Nora si mantiene lucida e fredda fino alla fine e ha quindi un atteggiamento tutto sommato “maschile” (neppure nel momento estremo in cui lascia la casa e i figli ancora piccoli Nora mostra alcun segno di cedimento e di ripensamento). La fredda determinazione e la lucidità mentale con cui Nora espone pacatamente le sue ragioni non può non sconvolgere Torvald, abituato a considerarla una fragile creatura, bisognosa di aiuto e protezione e del tutto dipendente da lui, e non soltanto sul piano economico.

“Codice dell’autenticità” contro “codice della morale borghese”: Nora contro Torvald Il dialogo rivela un’inconciliabilità di vedute fra Nora e il marito: questi pensa di superare la crisi riproponendo il suo modello di matrimonio, fondato sulla minorità psicologica e sociale della donna. Di fronte all’accusa di Nora di essere sempre stata trattata da lui (e dal padre) come un bell’oggetto, una moglie-bambola, e di aver così impedito la sua autonomia, Torvald sa solo rispondere: «Il tempo dei giochi è passato, ora incomincia quello dell’educazione». Nella sua ottica unilaterale Nora può solo passare da “bambola” svagata e irresponsabile a donna educata

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dal marito a sani princìpi. Il contrasto fra i coniugi – come si accorsero subito i primi critici e il pubblico stesso – va ben oltre i singoli personaggi e la loro specifica vicenda, assumendo la portata di uno scontro più generale tra i due sessi, e, soprattutto, di un dibattito sul ruolo della donna e sull’istituto matrimoniale, pilastro della società borghese. In questo senso Casa di bambola è il primo e più emblematico documento del “teatro di idee” inaugurato proprio da Ibsen. Torvald assume il ruolo di difensore del codice borghese del matrimonio, della tradizione, mentre Nora impersonifica i nuovi diritti della donna all’interno di esso, frutto di una presa di coscienza dei limiti di tale istituzione e della necessità di rifondarlo su basi diverse che implichino un reale dialogo alla pari tra i coniugi. Per far “ravvedere” Nora, Torvald richiama le convenienze («Pensa che dirà la gente!»), i «sacri doveri» della donna verso il marito e i figli, il suo ruolo primario di «sposa e madre», la necessità di rivolgersi alla «guida infallibile» della religione. A questi valori Nora contrappone i «doveri che sono altrettanto sacri» verso sé stessa, al ruolo da sempre stabilito per la donna contrappone il diritto di essere prima di tutto una persona, respinge persino le leggi morali della società («voglio scoprire chi ha ragione, io o la società») e della religione, rivendicando il diritto a interrogarsi liberamente in merito («Vedrò se è vero quel che diceva il pastore, o meglio se è vero per me»). Soprattutto, Nora intende compiere un cammino individuale di crescita interiore e intellettuale che la riconduca alla sua essenza autentica di persona, rinunciando alla guida maschile («Debbo tentare di educare me stessa»), ed è per assolvere questo compito che addirittura si ritiene sciolta dal vincolo matrimoniale e restituisce a Torvald l’anello che egli le ha messo al dito otto anni prima. Un gesto sconvolgente per gli spettatori del tempo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nell’evoluzione della vicenda quale diverso ruolo svolgono le due lettere di Krogstad e quali reazioni suscitano in Torvald? ANALISI 2. Il confronto-scontro tra Nora e Torvald si struttura su una serie di antitesi, anche lessicali, che implicano il rovesciamento da parte di Nora della visione che Torvald ha di lei. Rintracciale nel testo e completa la tabella (l’esercizio è avviato). Helmer

«Noi che ti abbiamo amata» (r. 94)

Nora

Titoli delle antitesi

«Vi siete divertiti a essere innamorati di me» (rr. 96-97) «Cercherò di acquistare esperienza» (r. 136) Affermazione di dignità

«i doveri verso tuo marito e i tuoi bimbi» (r. 141) «Credo di essere prima di tutto una creatura umana» (r. 146) «Voglio scoprire chi ha ragione, io o la società» (rr. 169-170)

Rifiuto del ruolo di moglie e madre Salvare le apparenze

«Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli! Pensa, che dirà la gente!» (r. 137) «Ho altri doveri che sono altrettanto sacri» (r. 142)

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA UGUAGLIANZA DI GENERE

TESTI A CONFRONTO 3. La decisione di Nora si può accomunare con la scelta di Sibilla Aleramo di abbandonare il marito e il figlio. Metti a confronto il personaggio teatrale e la protagonista di Una donna (➜ SCENARI PAG. 57 D7a ). SCRITTURA 4. Fai una ricerca in rete in merito alla legislazione che regolamenta il diritto di famiglia in Italia. Ti sembra che nella realtà dei fatti sia stata realizzata la parità tra i coniugi? Scrivi un breve commento. 5. Ricostruisci i punti nodali della critica che Nora rivolge a Torvald: pensi che tale critica riguardi solo “quel” marito e “quel” matrimonio o implichi un discorso più generale? Scrivi un breve testo. ESPOSIZIONE ORALE 6. Indica le ragioni che rendono questo testo particolarmente esemplificativo del “teatro di idee”.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C R iflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità NORA Ma sì; avevi perfettamente ragione. Non sono all’altezza del compito. C’è un altro motivo che devo risolvere prima. Debbo tentare di educare me stessa. E tu non sei l’uomo che possa aiutarmi a farlo. Bisogna ch’io m’industri da sola. E perciò sto per lasciarti. […] Non lo credo più [di essere in primo luogo sposa e madre]. Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te … o meglio, voglio tentare di divenirlo. So che il mondo darà ragione a te, Torvald, e che anche nei libri sta scritto qualcosa di simile. Ma quel che dice il mondo e quel che è scritto nei libri non può più essermi di norma. Debbo riflettere col mio cervello per rendermi chiaramente conto di tutte le cose. Il personaggio di Nora nel dramma di Ibsen rappresenta la faticosa e dolorosa presa di coscienza dei diritti della donna e la decisione, rivoluzionaria per i tempi, di emanciparsi da tutti i vincoli – affettivi, religiosi, culturali, convenzionali – che la relegavano in una condizione di subalternità e di inautenticità. Certamente dai tempi in cui fu scritto Casa di bambola il ruolo della donna nella coppia, nella famiglia e nella società ha subito radicali mutamenti. Tuttavia, la discussione sulla parità di genere non manca di suscitare, ancora oggi, un acceso e costante dibattito. Esamina e discuti le conquiste che, secondo te, hanno trasformato la condizione femminile nell’ultimo secolo: quali devono essere ancora raggiunte, anche nelle società occidentali? Perché in alcuni paesi tale cammino sembra essere ancora lontano dal compiersi? Rifletti sull’argomento traendo spunto dalle tue letture, dalle tue conoscenze, dalle tue esperienze personali.

August Strindberg La biografia e le opere August Strindberg (1849-1912), nato a Stoccolma, appartiene come Ibsen, norvegese (e da cui fu certamente influenzato), a un mondo culturalmente periferico rispetto alle grandi capitali europee. Spirito perennemente inquieto e tormentato, Strindberg esercita varie professioni e coltiva disparati interessi: dalla medicina alla psicologia, dalla botanica alla fotografia, ma è attratto anche da saperi alternativi come l’occultismo e l’alchimia. In aperto conflitto con l’ambiente conservatore e retrivo della città natale, sceglie di viaggiare per l’Europa, aprendo i suoi orizzonti culturali, ma si trova sempre a polemizzare con le istituzioni e la mentalità borghese. Verso la fine degli anni Ottanta scrive una serie di drammi che testimoniano l’adesione alla poetica naturalista, attraverso i quali si fa conoscere e apprezzare dal pubblico europeo. Il più noto dei testi appartenenti alla fase naturalista è La signorina Julie (1888), la cui spregiudicatezza sconcertò non poco il pubblico. Il dramma è infatti incentrato su una cruda storia di sesso e incomunicabilità, chiusa da un finale tragico, in cui si manifesta una visione profondamente pessimistica dei rapporti tra uomo e donna. La prima rappresentazione del dramma avvenne a Copenaghen nel 1889, mentre in Svezia la censura ne bloccò a lungo la rappresentazione (la prima si colloca soltanto anni dopo, nel 1907). La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 1 327

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Rispetto a Ibsen l’analisi di Strindberg accentua i toni cupi, il tema dell’incomprensione tra gli esseri umani, chiusi ognuno nella propria egoistica dimensione (➜ T2 OL). Il tema del confronto-scontro fra i sessi, questa volta all’interno di una coppia di coniugi, torna in Danza di morte (1901) che, insieme a Verso Damasco (1898) e Il sogno (1902), appartiene ormai a una stagione compositiva diversa: Strindberg abbandona infatti in queste opere il naturalismo e dissolve le strutture del teatro naturalista, ormai incline a un simbolismo visionario da cui trarrà ispirazione il successivo teatro espressionista. La signorina Julie È un dramma in un atto, ambientato in un solo interno: la dimora di un conte. La protagonista, Julie, è figlia del nobile e di una donna che, prima di sposarlo, vi lavorava come cameriera. Nella notte di san Giovanni, durante un’assenza del padrone di casa, nella villa si svolge una festa di mezz’estate. La giovane Julie, insicura e irrazionale, si concede al domestico Jean. Quest’ultimo si rivela un cinico arrampicatore sociale che cerca di sfruttare la vantaggiosa situazione in cui si è venuto a trovare. Julie accetta di fuggire con lui e di procurarsi del denaro svaligiando la cassaforte del conte. Ma alla fine si rende conto online della propria caduta morale e soprattutto delle differenze sociali T2 August Strindberg Una scena naturalista? che la separano dall’uomo. Al ritorno del padre, si uccide con un La signorina Julie rasoio che Jean stesso le ha procurato.

Anton Čechov La biografia e le opere Anton Čechov (1860-1904), uno dei maggiori scrittori della letteratura russa, nasce in una cittadina dell’Ucraina (allora Russia meridionale) da una famiglia modesta (il nonno era stato servo della gleba). Studia all’università di Mosca e si laurea in medicina, ma eserciterà solo saltuariamente la professione di medico, dedicandosi prevalentemente all’attività letteraria. Nel 1890 si segnala come autore di un libro-inchiesta sulla disumana condizione dei deportati della colonia penale di Sachalin, in Siberia, che aveva personalmente visitato. Narratore di grande talento e di successo (scrisse centinaia di racconti), a partire dal 1895 si dedica anche al teatro, rivelando anche in questo ambito la sua originalità di scrittore. Importante è il suo posto nella storia del teatro, per quattro indiscussi capolavori: Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi, composti tra il 1895 e il 1904. Čechov volle dare a questi testi il titolo di “commedie”, nonostante i contenuti spesso drammatici, nell’intenzione di sottolinearne il carattere di riproduzione della realtà della vita, che di per sé non è tragedia, ma essenzialmente “commedia”. Čechov ha un ruolo importante nel superamento di una concezione “alta” del teatro che apparteneva al Romanticismo e più in generale alla tradizione teatrale: in uno suo scritto polemico lo scrittore russo contestò un teatro artificioso in cui dominano eroi ed eroine che nella realtà non esistono, in cui domina l’esasperazione drammatica di situazioni-limite per realizzare un teatro “a effetto”. Nella vita normale, egli scrisse, la gente non si uccide per amore, ma «per lo più mangia, beve, fa la corte, dice sciocchezze». Occorre dunque che un teatro moderno rispecchi la realtà: «Bisogna fare una commedia dove la gente venga, vada via, mangi, parli

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del tempo, giochi a carte». Un’evidente dichiarazione di realismo programmatico, che induce Čechov a mettere in scena drammi comuni di individui comuni. Oltre il teatro naturalistico Ma quello di Čechov non è propriamente – o almeno non è solo – un teatro naturalistico: è soprattutto un teatro evocativo di atmosfere, attraverso dettagli simbolici che creano un clima malinconico e opprimente, in rapporto a una concezione pessimistica della vita (➜ T3 ): caratterizza i personaggi di Čechov la dimensione del fallimento esistenziale, dovuta non tanto a eventi importanti, quanto all’inerzia e all’inettitudine che impediscono loro di realizzare i propri sogni e li condannano a una sterile, illusoria attesa di un futuro migliore che non verrà mai, mentre il tempo scorre inesorabilmente e la vita si dissipa nella banalità dei gesti quotidiani (un tema, questo, particolarmente evidente nel dramma Tre sorelle). Anche nel Giardino dei ciliegi, in cui sembrerebbe in primo piano una tematica sociologica (la decadenza dell’aristocrazia terriera, una classe sociale improduttiva, e l’emergere di una nuova classe dinamica), l’interesse di Čechov si incentra in realtà sulla rappresentazione dell’interiorità dei personaggi, sull’esplorazione delle più sottili dinamiche psicologiche in rapporto a una più generale tematica esistenziale (lo scacco inevitabile della vita), aspetti che ne fanno un autore già “novecentesco”, ben oltre il naturalismo da cui pure prende le mosse. Dopo il 1896 (anno della rappresentazione del Gabbiano, che fu un fiasco clamoroso), Čechov inizia la fruttuosa collaborazione con Stanislavskij che porterà al successo il testo nel 1898 al Teatro d’arte di Mosca. Čechov era già gravemente malato e soggiornava per lo più in Crimea per ragioni di salute. Nel 1904 viene rappresentato con successo, con la regia di Stanislavskij, il suo ultimo dramma, Il giardino dei ciliegi. Nello stesso anno, a soli quarantaquattro anni, lo scrittore muore in una località climatica della Selva Nera (Germania) dove si era recato nel tentativo di curare la tubercolosi. online

Per approfondire L’immagine del “giardino dei ciliegi” nell’interpretazione di Strehler

Il giardino dei ciliegi È il frutto più maturo del teatro cechoviano, rappresentato la prima volta al Teatro d’arte di Mosca nel 1904 con la regia di Stanislavskij. L’opera mette in scena il passaggio epocale di consegne tra la vecchia aristocrazia, ignava e dissipatrice, e la nuova borghesia, impersonificata da Lopachin: figlio di un servo della gleba, costui abilmente si è arricchito e alla fine riesce a comprare all’asta il “giardino dei ciliegi”, cioè la grande proprietà nella quale suo padre e suo nonno erano stati servitori. I padroni della tenuta, Liubov Andreievna e il fratello Gaiev, hanno dilapidato il patrimonio familiare in una vita dissennata di lussi e si sono coperti di debiti, arrivando a ipotecare la tenuta in cui si trova il giardino dei ciliegi. Incapaci di prendere alcuna iniziativa, si limitano ad assistere impotenti alla rovina del loro mondo, rimpiangendo il passato. In una scena centrale del dramma, Lopachin esclama: «Il giardino dei ciliegi ora è mio! Mio! Dio santo, Signore, il giardino dei ciliegi è mio! [...] Oh, se mio padre e mio nonno potessero uscire dalla tomba e vedere quel che è accaduto, potessero vedere come il loro Jermolài, tante volte bastonato, quasi analfabeta, che di inverno andava scalzo, ha comprato oggi una tenuta, più bella della quale non c’è niente al mondo!». Acquistata la proprietà, Lopachin fa abbattere i ciliegi (un gesto altamente simbolico) per lottizzare il terreno così da potervi costruire piccole abitazioni per villeggianti. Gli ex proprietari lasciano il giardino dei ciliegi per seguire la propria sorte, mentre nella casa padronale rimane, solo e abbandonato da tutti, il vecchio cameriere Firs, simbolo di un passato inesorabilmente tramontato. La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 1 329

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T3

Un mondo che finisce I personaggi che compaiono in scena sono Liubov Andreievna e il fratello Gaiev, i proprietari del “giardino dei ciliegi”; il cameriere Iàscia; il consigliere finanziario della famiglia, Lopachin, che acquisterà la proprietà; e Varia, una delle due figlie di Liubov. La prima scena illumina in modo emblematico l’irresolutezza dei due fratelli, la loro assoluta incapacità di accettare pragmaticamente la realtà; la seconda focalizza soprattutto la gioia (non priva di elementi contraddittori) di Lopachin nell’acquistare la proprietà dove suo padre e suo nonno erano stati schiavi.

online T3a Anton Čechov

online T3b Anton Čechov

L’inettitudine di Liubov e Gaiev Il giardino dei ciliegi, atto II

Il giardino dei ciliegi cambia proprietario Il giardino dei ciliegi, atto III

George Bernard Shaw Un teatro contro il perbenismo Nel Regno Unito, l’irlandese George Bernard Shaw (1856-1950) segue la lezione di Ibsen, che egli polemicamente contrappone all’anche troppo idolatrato Shakespeare. Anche il suo teatro, seppure attraverso un’ironia lieve, svolge una funzione di “smascheramento”, suscitando non poco scalpore nella rigida società londinese: attraverso brillanti commedie, apparentemente leggere, Shaw attacca infatti il perbenismo della società vittoriana, già al centro dell’attività teatrale di Oscar Wilde. Può essere indicativo dell’ampia produzione di Shaw sintetizzare il soggetto (per l’epoca scandaloso) della commedia La professione della signora Warren (1894). La giovane Vivie scopre che la vita agiata che la madre, la signora Warren, conduce, e che garantisce anche a lei, è il frutto dei proventi che la donna ricava dallo sfruttamento della prostituzione attraverso case di appuntamenti sparse per l’Europa. Inorridita, la ragazza si scontra con la madre, che però non intende rinunciare alla sua redditizia attività e accusa la morale ipocrita e i compromessi imposti dalla società.

Drammaturghi europei IBSEN

smaschera le ipocrisie della famiglia borghese

STRINDBERG

esprime una visione pessimistica dei rapporti uomo-donna

ČECHOV

affronta temi esistenziali partendo da presupposti naturalistici

SHAW

attacca il perbenismo della società vittoriana

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4 Il panorama italiano Le principali linee di tendenza Tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, a parte l’esordio promettente di Pirandello (Liolà del 1916), in Italia il teatro non raggiunge risultati artistici paragonabili a quelli del grande teatro europeo. Il panorama che si presenta mostra varie linee di tendenza che qui sintetizziamo. • Continuano le modalità del teatro verista, che hanno in Verga un grande interprete, in particolare con Cavalleria rusticana (1884), dramma tratto dall’omonima novella di Vita dei campi (➜ C7). In rapporto al carattere regionalistico del nostro verismo si afferma un teatro dialettale che riflette, anche attraverso la scelta linguistica, le diverse realtà dell’Italia post-unitaria: tra i primi esempi El nost Milan (1862-1864) di Carlo Bertolazzi (1870-1916). Altri autori rappresentativi di tale tendenza sono il veneziano Giacinto Gallina (1852-1897), il piemontese Vittorio Bersezio (1828-1900) e il napoletano Salvatore di Giacomo (1860-1934). • Modeste, rispetto al grande teatro europeo coevo, sono le espressioni del cosiddetto “teatro borghese”, in cui è centrale il tema del triangolo amoroso (marito-moglieamante), specchio di una crisi dell’istituto matrimoniale che i grandi drammaturghi europei interpretano con ben altro spessore. Esempio di questa linea è Tristi amori (1887) di Giuseppe Giacosa (1847-1906). • Si afferma il teatro dannunziano (➜ C11): si tratta di un teatro alto, di poesia, enfatico e decisamente antirealistico, che dà luogo a esiti diversi a seconda del soggetto scelto: dal mito di un Abruzzo barbarico (La figlia di Iorio, 1904), alle suggestioni archeologico-letterarie (La città morta, 1899) al mito imperialistico (La nave, 1908). In ogni caso la tendenza del teatro dannunziano è di mettere in scena personaggi eccezionali, per lo più ispirati all’ideologia superomistica cui D’Annunzio era andato sempre più avvicinandosi, sullo sfondo di scenari antirealistici. • Modalità opposte a quelle del teatro dannunziano presenta il teatro del “grottesco”: testi esemplari sono La maschera e il volto (1916) di Luigi Chiarelli e L’uomo che incontrò se stesso di Luigi Antonelli (1918). Si tratta di un teatro che introduce una rappresentazione della società contemporanea attraverso un filtro stridente, disarmonico, paradossale, “grottesco” appunto. In questo filone inizialmente fu iscritto dalla critica anche il primo teatro pirandelliano. In alcuni dei suoi primi testi, Così è (se vi pare) (1917), Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti (1918), la dimensione “grottesca”, pur presente, non è certo fine a sé stessa ma è frutto della complessa visione del mondo di Pirandello e di quella poetica umoristica che già da tempo lo scrittore stava sperimentando nella produzione narrativa. • Da parte del movimento d’avanguardia futurista si manifesta, in nome dell’originalità assoluta, una volontà distruttiva nei confronti della tradizione teatrale, una volontà affidata a due manifesti programmatici: Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), poi ribattezzato provocatoriamente La voluttà d’esser fischiati, e Il teatro di Varietà (1913). I futuristi rifiutano ogni tradizione teatrale, respingono sia le tematiche romantiche, che idealizzano l’amore, sia il ripetitivo triangolo borghese in nome di un’assoluta inventività, realizzano un teatro ispirato alla deliberata provocazione del pubblico (che viene coinvolto direttamente nello spettacolo) e alla velocità, arrivando a mettere in scena, nelle famose «serate futuriste», testi di poche battute. Interessante – davvero d’avanguardia – risulta nel teatro futurista la contaminazione di diversi tipi di spettacolo teatrale (ballo, proiezioni cinematografiche, azioni mimiche associati alla recitazione tradizionale). I risultati di questa sperimentazione estrema non furono certo esaltanti sul piano La nuova scena teatrale in Europa e in Italia 1 331

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artistico, ma è comunque indiscutibile l’importanza del Futurismo nel rinnovare gli orizzonti del teatro italiano del tempo. Il crescente successo del melodramma Nel secondo Ottocento continua, e anzi cresce ulteriormente, il successo del melodramma, genere teatrale in cui la cultura italiana eccelle e che aveva conosciuto particolare fortuna nell’età romantico-risorgimentale, conquistando il favore non solo del pubblico aristocratico-borghese, ma anche di quello popolare, grazie soprattutto all’opera del grande compositore Giuseppe Verdi (1813-1901). Verdi continua la sua attività, e negli ultimi decenni dell’Ottocento produce ancora capolavori come Don Carlos (1867), Aida (1871), Otello (1887), Falstaff (1893). Dai soggetti storici o comunque di gusto romantico si passa però via via a soggetti e temi che risentono del trionfo del realismo e che prevedono un’ambientazione nel presente e personaggi non più eroici, o comunque “grandi”, ma popolari. Nel clima verista si iscrivono compositori come Ruggero Leoncavallo (I pagliacci, 1892) e Pietro Mascagni, che mette in musica la verghiana Cavalleria rusticana (1890), accentuandone gli aspetti sanguigni. Nel panorama del melodramma italiano si affacciano nuovi musicisti che guardano anche alla lezione dell’operista tedesco Wilhelm Richard Wagner (1813-1883): il più importante è sicuramente Giacomo Puccini (1858-1924), che innova profondamente sul piano musicale il melodramma con capolavori, celebri in tutto il mondo, come La Bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904) e l’incompiuta Turandot (1926).

Tendenze del teatro italiano teatro verista

apre la via al teatro dialettale

teatro borghese

propone drammi incentrati su triangoli amorosi e di scarso valore

teatro dannunziano

è enfatico e antirealistico, mette in scena personaggi unici, eccezionali

teatro grottesco

rappresenta la società attraverso un filtro paradossale, stridente, “grottesco”

teatro futurista

rifiuta ogni tradizione teatrale, provoca il pubblico e contamina i vari tipi di spettacolo ma con risultati di scarso valore

melodramma

raggiunge grande successo, anche a livello popolare, grazie all’opera soprattutto di Verdi e di Puccini

Fissare i concetti Il teatro tra Ottocento e Novecento 1. In che modo la poetica del naturalismo contribuì alla modernizzazione del teatro? 2. Che cosa si intende per “teatro borghese”? 3. Che cosa si intende per “teatro di idee”? 4. Perché Casa di bambola può essere considerata un’opera emblematica dell’analisi dell’animo femminile? 5. Quali sono i temi centrali della Signorina Julie di Strindberg? 6. Perché Čechov volle definire “commedie” i suoi drammi? 7. Quali temi vengono trattati nel Giardino dei ciliegi di Čechov? 8. Quale realtà viene rappresentata da G.B. Shaw nella Professione della signora Warren? 9. Quali sono le principali linee di tendenza del teatro italiano? 10. Come si spiega la presenza in Italia di un teatro dialettale?

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Secondo Ottocento Il teatro tra Ottocento e Novecento

Sintesi con audiolettura

1 La nuova scena teatrale in Europa e in Italia

Verso il teatro moderno Tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento il teatro conosce in Europa un periodo artisticamente assai fecondo e ricco di innovazioni. È la poetica del naturalismo a indurre i drammaturghi a infrangere sia gli schemi del teatro romantico, sia la rassicurante convenzione che faceva del teatro un rito sociale di intrattenimento per le classi sociali superiori. In nome del realismo, vera parola d’ordine della letteratura del secondo Ottocento, i nuovi drammaturghi portano sulla scena non più eroi, con le loro grandi passioni, espresse in un linguaggio enfatico e letterario, ma persone comuni ben identificabili sul piano sociologico, e le fanno agire non più in ambienti irreali, ma in ambienti realisticamente caratterizzati nei minimi particolari. A questa esigenza di realismo rappresentativo corrisponde sia il ruolo autorevole della nuova figura del regista che sostituisce il semplice capocomico, sia l’esigenza di una nuova forma di recitazione, più naturale e aderente alla psicologia dei personaggi.

I maestri del teatro europeo tra Ottocento e Novecento Anche se non manca la rappresentazione delle classi popolari in drammi di carattere sociale, è alla rappresentazione della classe borghese che per lo più si rivolgono i drammaturghi, tanto che si parla di “teatro borghese”. Spicca tra questi il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906); nella sua opera, a cominciare dalla celeberrima Casa di bambola (1879), Ibsen non si limita però a “fotografare” la condizione borghese, ma esercita su di essa uno sguardo critico che ne smaschera le ipocrisie moralistiche e le contraddizioni di comportamento. Già con Ibsen, dunque, il teatro cosiddetto borghese e naturalistico diventa veicolo di dibattito ideologico, “teatro di idee”, appunto, una dimensione che viene accentuata anche troppo nelle opere teatrali di George Bernard Shaw (18561950) e comporta uno scavo approfondito nelle dinamiche psicologiche dei personaggi, esplorazione dei loro conflitti. Prende le mosse dalla lezione del naturalismo anche lo svedese August Strindberg (1849-1912), in particolare nel dramma La signorina Julie (1888), ma con toni cupamente pessimistici, per approdare poi a un simbolismo visionario. Anche il russo Anton Čechov (1860-1904) attinge nei suoi drammi alla vita “reale” di individui comuni. Non manca nella sua opera l’attenzione alla contestualizzazione sociale di temi e personaggi, ma prevale su questa l’attitudine a cogliere sottili, inquietanti simbolismi e a esplorare il tema esistenziale del disagio e dell’inettitudine a vivere, come ben si può constatare nel Giardino dei ciliegi.

Sintesi

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La scena italiana Il panorama del teatro italiano, prima di Pirandello, non presenta risultati di grande rilievo artistico, a parte qualche eccezione. In Italia ha abbastanza successo il teatro verista che apre la strada allo sviluppo di un teatro regionalistico dialettale. Modellato sulle esperienze europee è il teatro borghese, che propone drammi incentrati sul triangolo amoroso (marito-moglie-amante). In una direzione opposta va il teatro dannunziano: il poeta abruzzese, in veste di drammaturgo, ricerca un teatro di poesia, “alto”, in cui il messaggio superomistico passa attraverso personaggi eccezionali e ambientazioni fascinose, lontane dalla normalità borghese. Più significativo è il teatro “grottesco”, in cui è stata iscritta anche la prima produzione di Pirandello. Valore di provocazione più che di effettiva realizzazione artistica riveste il teatro futurista, alla ricerca di soluzioni estreme, d’avanguardia, che si contrapponessero alle situazioni del teatro romantico e borghese.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Prepara un PowerPoint nel quale dovrai indicare i titoli della produzione teatrale maggiore di Čechov, gli anni in cui si colloca tale produzione, il teatro in cui le opere del drammaturgo russo furono rappresentate per la prima volta e il nome del regista che ne curò l’allestimento. Presenta alla classe il risultato del tuo lavoro.

Scrittura

2. Il teatro borghese svolge una funzione di “smascheramento” che spesso suscitò scandalo nel pubblico, ancora impreparato a vedere rappresentate certe situazioni private a teatro. In un testo di massimo 15 righe spiega in che cosa consiste tale funzione in rapporto al contesto storico-sociale.

Esposizione orale

3. In un intervento orale di massimo 5 minuti indica le tematiche affrontate dai più noti drammaturghi del teatro borghese e le modalità rappresentative che rinnovano profondamente lo spettacolo teatrale tra fine Ottocento e primo Novecento in rapporto alla sua nuova funzione.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

9 Decadentismo, Simbolismo, Estetismo

Decadentismo, simbolismo, estetismo Nell'ultimo scorcio dell'Ottocento, nasce in Francia il movimento letterario del Decadentismo che dà vita alla poesia simbolista, i cui principali esponenti sono Rimbaud, Verlaine e Mallarmé, che avvertono il senso della fine di un'epoca e abbandonano l'ottimismo della scienza positivista per dare spazio all'arte. La poesia dei simbolisti, che era stata anticipata da Baudelaire nei Fiori del male (1857), si fonda sull'idea che la realtà possa essere percepita non dalla razionalità ma dall'intuizione del poeta, che viene espressa attraverso immagini analogiche e un linguaggio allusivo. Parallelamente al simbolismo si afferma l'estetismo, una nuova tendenza del gusto, che si oppone al modello naturalista attraverso la valorizzazione del culto della bellezza e il rifiuto del ruolo "sociale" impegnato dell'intellettuale e che diviene in breve tempo un fatto di costume.

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Il Decadentismo: un’etichetta controversa La nascita del termine Il termine “decadentismo” nasce in Francia come espressione del giudizio negativo della critica tradizionalista nei confronti di giovani artisti i quali si proponevano di épater les bourgeois (“scandalizzare i benpensanti”) con i loro comportamenti trasgressivi e la loro innovativa visione dell’arte. Non solo questi artisti accettano di essere definiti “decadenti”, ma rivendicano orgogliosamente la loro diversità e nasce addirittura una rivista che si intitola, appunto, «Le Décadent» (1886). Li accomuna il senso della fine di un’epoca, vissuto con una sorta di compiacimento, la percezione di vivere in un tempo in cui i miti ottimistici del positivismo non riuscivano più a convincere. Il senso della fine, l’incapacità di reagire a essa, l’estenuazione spirituale, sono espressi in modo esemplare in quello che è considerato il “manifesto” del decadentismo, il sonetto Languore (1884) di Paul Verlaine (➜ D2 ) in cui il poeta istituisce un significativo parallelismo tra il proprio sentire e quello degli intellettuali che assistevano impotenti alla fine dell’Impero romano e all’avanzata dei barbari. In senso stretto il termine “decadentismo” identifica il movimento letterario che dà vita alla poesia simbolista, i cui principali esponenti sono Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé, ma ovviamente è caduta la connotazione negativa originariamente associata al termine. La poesia dei simbolisti, anticipata per molti aspetti da Baudelaire, si fonda sul rifiuto della visione scientista, su un’idea della realtà concepita come mistero. L’essenza del reale non può essere colta dalla razionalità, ma soltanto dall’intuizione del poeta (immaginato da Rimbaud addirittura come “veggente”) che si esprime attraverso immagini analogiche, correlazioni profonde (come già nella celebre poesia Corrispondenze di Baudelaire ➜ C4 T3 ). Nel decadentismo l’arte prende il posto della scienza: non solo perché la vera conoscenza, come appena detto, è affidata all’arte, ma anche perché alla figura dello scienziato, impegnato nella società, si contrappone l’esteta, che fa del bello il valore assoluto della vita, da perseguire, a prescindere dai valori morali stessi. Il culto della bellezza caratterizza i personaggi di Joris-Karl Huysmans in Francia (A ritroso, 1884) e di Oscar Wilde in Inghilterra (Il ritratto di Dorian Gray, 1890); ma esteta fu lo stesso Wilde. Anche in Italia si afferma l’estetismo, in particolare con Gabriele D’Annunzio, che dà vita con Andrea Sperelli, protagonista de Il Piacere, a una figura emblematica della cultura decadente, nella commistione arte/vita che fu propria dello stesso D’Annunzio. In un’accezione “ristretta”, con Decadentismo si intendono dunque essenzialmente il Simbolismo e l’Estetismo. Per quanto riguarda l’Italia possono essere in vario modo ricondotti al Decadentismo Pascoli, D’Annunzio e Fogazzaro. Decadentismo come categoria culturale Quasi esclusivamente nella critica italiana si è diffusa, soprattutto alcuni decenni fa, una nozione più ampia di “Decadentismo”, per la verità non accettata unanimemente e da alcuni anzi addirittura

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rifiutata: con Decadentismo si intende, in questa seconda prospettiva, una visione che si estende anche nel primo Novecento, interessando correnti come il crepuscolarismo e grandi autori come Mann, Pirandello e Svevo. Alla base sta comunque la crisi del positivismo, dello scientismo, del razionalismo, la frattura tra intellettuale e società, l’emergere di dimensioni irrazionali e di temi come la malattia, la morte e, talvolta, un eros complesso e perverso. Temi per la verità già presenti nel Romanticismo straniero, ma che vengono ripresi con nuove connotazioni. È un modello culturale che dà vita a nuove figure, come l’inetto (particolarmente presente nell’opera di Svevo) incapace di costruire una vita soddisfacente, anche per un eccesso di cerebralismo che ne paralizza la volontà, o la donna fatale, preda della lussuria, capace di dominare il maschio, portandolo all’autodistruzione. Per la sua sostanziale genericità (il termine finisce per accomunare tutti i grandi autori e le correnti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento) la categoria estesa di Decadentismo, pur essendo talvolta ancora usata per comode schematizzazioni, ha perso progressivamente terreno. In ogni caso è importante ricordare che tendenza “realista” e tendenza “decadente” sono cronologicamente pressoché contigue per cui non è corretto parlare di una presunta “età del Decadentismo” come successiva nel tempo all’“età del Realismo”.

Ramon Casas, Giovane decadente. Dopo il ballo, olio su tela, 1899 (Museo Montserrat, Barcellona).

Il Decadentismo: un’etichetta controversa

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2 Il Simbolismo 1 Verso la poesia moderna: la rivoluzione poetica in Francia Nella seconda metà dell’Ottocento si verifica in Europa una profonda rivoluzione dei modi poetici che fonda una poesia radicalmente nuova, creando una frattura netta tra tradizione e modernità: da una parte una poesia che si affida a una struttura solida, che utilizza un linguaggio che rimanda immediatamente a un referente, retta dalle convenzioni metriche e retoriche; dall’altra una poesia che si fonda su liberi nessi analogici, ripudiando addirittura l’ordine logico e che utilizza un linguaggio allusivo e simbolico, spesso di difficile decifrazione. Ne consegue una rivoluzione delle stesse modalità di lettura del testo poetico, che pone in primo piano l’interpretazione del lettore, non più pilotato ma lasciato libero di sciogliere l’enigma del testo. Questa rivoluzione ha il suo centro irradiante in Francia e, più in particolare, a Parigi (è nella capitale francese che nasce la poesia decadente e simbolista) e si attua in un arco di tempo assai breve, tra il 1857 e la seconda metà degli anni Ottanta. Queste le tappe fondamentali: • 1857 Baudelaire pubblica I fiori del male, fondamento indiscutibile della lirica moderna. • 1884 Esce l’antologia I poeti maledetti, curata da Verlaine, con poesie dello stesso Verlaine, di Rimbaud e di Mallarmé. • 1886 È fondata la rivista «Le Décadent», su «Le Figaro» esce il Manifesto del simbolismo di Jean Moréas che fonda anche la rivista «Le Symboliste». Rispetto al romanticismo la nuova poesia si pone in un rapporto duplice: da un lato i poeti decadenti e simbolisti riprendono tematiche già presenti nel Romanticismo (soprattutto tedesco), dall’altro lato respingono le effusioni intimistiche e sentimentali e rifiutano qualsiasi ruolo impegnato nella società e nella politica.

Henri FantinLatour, Angolo di tavola, olio su tela, 1872 (Musée d’Orsay, Parigi).

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Il parnassianesimo e l’autonomia dell’arte Una reazione al romanticismo si ha in Francia già verso la metà degli anni Sessanta con il parnassianesimo, il cui principale rappresentante è Théophile Gautier (1811-1872): si tratta di un movimento che intende riportare la poesia alla dignità e alla perfezione stilistica che si riteneva essere stata incrinata durante il romanticismo: il nome del movimento si riferisce significativamente al Parnaso, il monte che nella Grecia antica era sacro alle Muse e simboleggia la perfezione formale e la ricerca, proprie dei parnassiani, di uno stile nitido e “marmoreo”. Il movimento parnassiano, ben testimoniato dall’antologia collettiva del 1866 Il Parnaso contemporaneo [Le Parnasse contemporain], a cui nella prima edizione partecipa anche Baudelaire, non è una semplice operazione di restaurazione del gusto classico, ma si iscrive nel clima culturale del tempo, contribuendo a diffondere il culto della bellezza e l’esaltazione dell’autonomia assoluta dell’arte rispetto a ogni finalità socio-politica e a ogni intento morale che sarà alla base dell’“estetismo” decadente. Baudelaire, modello indiscusso per la nuova poesia Maestro indiscusso della nuova poesia è Charles Baudelaire (➜ C4 ) a cominciare dai discussi o addirittura scandalosi atteggiamenti di vita, da cui rimasero suggestionati i poeti “maledetti” e gli esteti decadenti: il rifiuto sdegnoso del ruolo sociale del poeta, la vita sregolata e incline all’alcool, alla droga, al sesso libero, il culto assoluto dell’arte al di sopra di ogni valore, anche morale. Di fronte ai valori attivistici della società industriale, alimentata dal mito positivistico del progresso, e di fronte alla crescente mercificazione dell’arte, Baudelaire sceglie l’isolamento, il rifugio in un’arte che trova in se stessa la propria ragione d’essere. Ma Baudelaire è maestro soprattutto per la nuova visione della poesia, poi fatta propria dai nuovi poeti, chiaramente esplicitata nel celebre testo Corrispondenze (➜ C4 T3 ): una poesia concepita come esplorazione della profondità dell’io e della realtà oltre l’apparenza fenomenica. Il poeta è dunque per Baudelaire colui che scopre il senso riposto della «foresta di simboli», che comunica con l’occulto attraverso le sue percezioni, che apre una finestra sull’“altro mondo” (come già nel grande romantico tedesco Novalis). Le corrispondenze esistenti in natura sono rese dalla poesia attraverso l’uso della metafora, del simbolo, della sinestesia. I poeti “maledetti” Sulla scia di Baudelaire si collocano alcuni poeti che vivono a Parigi (e nella loro giovinezza frequentano i locali della rive gauche della Senna) secondo modelli di comportamento bohémien (➜ PER APPROFONDIRE, La Bohéme, C2) e anticonformistici, esibendo senza pudore la propria diversità, le componenti trasgressive della propria personalità e delle proprie scelte di vita, senza preoccuparsi di suscitare scandalo, ma anzi a volte addirittura cercandolo per sfidare il perbenismo borghese. Fanno uso di droga e di alcool, nel desiderio di liberare inusitate energie creative, praticano una sessualità libera da ogni inibizione: fece scalpore il legame omosessuale tra Paul Verlaine (1844-1896) e il suo geniale pupillo Arthur Rimbaud (1854-1891). Proprio in rapporto a queste trasgressive scelte di vita, Verlaine usa, per definire il gruppetto di poeti di cui lui stesso fa parte (con Rimbaud, Mallarmé e pochi altri) la denominazione, destinata poi a larga fortuna, di poeti “maledetti” (maudits), curando nel 1884 una antologia di poesie, intitolata appunto Poètes maudits, che ne sancisce ufficialmente l’identità come gruppo letterario d’avanguardia. L’anno prima era apparsa sulla rivista «Le Chat noir» la poesia di Verlaine Languore [Langueur] (➜ D2 OL) che sintetizza mirabilmente la condizione interiore non solo Il Simbolismo 2 339

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di Verlaine stesso ma di un’intera generazione: la percezione struggente della crisi di valori, il tedio esistenziale (l’ennui e lo spleen baudelariani) che scaturisce dalla sazietà di una civiltà di cui si percepisce la fine, che ha sperimentato ormai tutto: è una condizione espressa magistralmente anche da Mallarmé in Brezza marina [Brise marine]: «La carne è triste, ahimé! E ho letto tutti i libri...». Da qui la spregiativa definizione di “decadenti” usata, come si è detto, dalla critica accademica per questi poeti e, per tutta risposta, l’orgogliosa assunzione dell’etichetta da parte degli accusati, che fanno proprio del loro “decadentismo” una bandiera, fondando nel 1886 la rivista «Le Décadent». Il Simbolismo I nuovi poeti fanno un uso insistente del simbolo. La poesia ha sempre fatto ricorso al simbolo (si pensi in particolare alla poesia barocca), ma ora il simbolismo diventa una caratteristica dominante, funzionale alla rivelazione di aspetti nascosti della realtà. Il simbolismo moderno, una volta bruciati i nessi con la tradizione letteraria e con il suo repertorio simbolico codificato (la rosa è l’immagine della giovinezza, l’orologio e la clessidra sono l’immagine del passare del tempo e così via), è costitutivamente enigmatico: diventa arduo nella poesia moderna, a cominciare dai poeti “maledetti”, decifrare il legame fra l’immagine, l’oggetto scelto e il significato simbolico che il poeta vi associa.

Gustave Moreau, Il poeta viaggiatore, olio su tela, 1891 ca (Museo Gustave Moreau, Parigi).

2 Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud in una foto di Étienne Carjat (1871).

Arthur Rimbaud (1854-1891), il più geniale e rivoluzionario per temi e forme tra i poeti del tempo, nasce ad Ardeville nelle Ardenne; riceve un’educazione piuttosto rigida a cui si mostra subito insofferente. Nel 1871 è invitato a Parigi da Verlaine con cui aveva avviato una corrispondenza epistolare e che rimane folgorato dall’ardita novità del suo poemetto Il battello ebbro [Le bateau ivre]. A Parigi vive per qualche tempo in casa di Verlaine, con il quale avvia una chiacchierata relazione. Nel 1872 Verlaine lascia la moglie Matilde e si reca con Rimbaud prima a Bruxelles, poi a Londra. I due vagabondano per altre città europee, ma Rimbaud, insofferente di ogni legame, pensa di troncare il rapporto con Verlaine che, esasperato, lo ferisce con un colpo di pistola (1873). L’attività letteraria di Rimbaud è concentrata in soli cinque anni (1870-1875): poesie giovanili (quasi tutte uscite solo postume), il poemetto Il battello ebbro (➜ T3a OL), le otto prose autobiografiche di Una stagione all’inferno (1873), unica opera da lui stampata, e le Illuminazioni, quasi tutte prose poetiche slegate l’una dall’altra, raccolte e pubblicate da Verlaine nel 1886. Il seguito della breve vita di Rimbaud dopo il ferimento è un continuo, quasi ossessivo, peregrinare alla ricerca di nuove esperienze di vita, nella rinuncia ormai totale all’attività letteraria. Nel 1876 si arruola nella legione straniera olandese, ma il

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Per approfondire I «paradisi artificiali» e gli artisti

15 agosto è dichiarato disertore e sparisce di nuovo: viaggia per la Svizzera, a Genova si imbarca per Alessandria d’Egitto, a Cipro lavora in una cava di pietra. Dal 1880 inizia a organizzare spedizioni commerciali, in particolare di caffè dall’Africa. Diventa poi trafficante d’armi destinate all’Abissinia. Nel 1891, a Marsiglia, gli viene amputata una gamba per un grave tumore osseo, ma l’intervento non ha effetto. Rimbaud muore all’ospedale di Marsiglia il 10 novembre dello stesso anno. I “viaggi” di Rimbaud Il rifiuto della società presente e la rivolta verso un sistema di valori soffocante spiegano la ricorrenza nei nuovi poeti del tema del viaggio, vero e proprio topos della letteratura di ogni tempo, che si connota nei poeti “maledetti” di nuovi significati (➜ T3 ). La vita stessa di Arthur Rimbaud può essere interpretata attraverso il tema del viaggio: fuga dalle convenzioni restrittive della provincia e della famiglia, che ancora ragazzo lo porta a Parigi, fuga dalla realtà attraverso la droga, fuga dallo stesso rapporto con Verlaine diventato a un certo punto soffocante, fuga dai ruoli fissi, che lo induce a reinventare la sua vita: da geniale poeta “maledetto” diventa commerciante, trafficante d’armi, fugge addirittura dall’Europa e dai modelli culturali e comportamentali della civiltà occidentale verso nuovi mondi. Ma il vero viaggio di Rimbaud è quello, più di tutti ardito, nei meandri dell’io, la discesa nell’“inferno” per esplorare e tradurre con nuove voci poetiche territori ancora ignoti della psiche e della realtà. Un’avventura certamente propiziata dalla droga e descritta nelle prose di Una stagione all’inferno (1873), in cui Rimbaud ripercorre, in un linguaggio visionario, i momenti chiave della propria esistenza e al contempo (dato lo stretto nesso tra esperienza artistica e vita nei poeti maledetti) della propria poesia, fino alla constatazione dello scacco finale: chiude significativamente l’opera un “addio” al veggente e alla poesia che ne deriva e l’enunciazione di un bisogno di riscatto morale, di concretezza, di doveri.

Una nuova poetica: la Lettera del veggente Tra i nuovi poeti etichettati come “maledetti”, “decadenti” e infine “simbolisti”, Rimbaud è quello che eredita più direttamente, radicalizzandola, la poetica baudelairiana delle “corrispondenze”. Il documento più significativo della visione che Rimbaud aveva della poesia è la celebre lettera, nota come Lettera del veggente (➜ D1 OL), in cui Rimbaud (appena sedicenne) teorizza la necessità che il poeta si faccia mago, visionario, per attingere all’essenza della realtà, per cogliere l’ignoto dentro e fuori di noi e dar voce all’inesprimibile. Si tratta evidentemente di una concezione della poesia fortemente irrazionalistica, già in parte presente in alcuni romantici, come Novalis, ma con alcuni elementi di novità, come il forte emergere della dimensione sensoriale: la poesia si fonda non sul pensiero logico, ma sulle sensazioni, che devono essere lasciate libere di associarsi attraverso nuovi legami, secondo quel procedimento che Rimbaud chiama «sregolamento dei sensi». Dalla pratica dell’“allucinazione” come metodo perseguito derivano i tratti salienti dell’intera opera di Rimbaud: in essa sia la prosa sia la poesia (la distinzione perde significato) si fondano su “illuminazioni”, su flash, su quelle che potrebbero già essere definite “associazioni libere”, o comunque su nessi analogici o addirittura alogici, in un fluire indistinto di immagini frammentarie, come in questo breve esempio tratto dalla raccolta Illuminazioni [Illuminations, 1872-1875]: «Fiori incantati online ronzavano. I declivi lo cullavano. Circolavano bestie di un’eleganza faD1 Arthur Rimbaud Il poeta deve farsi veggente volosa. I nembi si ammassavano sull’alto mare al sommo di un’eternità Lettera del veggente di calde lacrime» (Alba). Il Simbolismo 2 341

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Arthur Rimbaud

T1 A. Rimbaud, Opere in versi e in prosa, a c. di M. Guglielminetti, trad. di D. Bellezza, Garzanti, Milano 1989

Vocali Il sonetto fu composto da Rimbaud nel 1872, poco tempo dopo la stesura della fondamentale Lettera del veggente: dei principi di poetica in essa enunciati Vocali costituisce una evidente traduzione. Il sonetto è incentrato sull’iterazione quasi virtuosistica del procedimento sinestetico.

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, io dirò un giorno le vostre nascite latenti1: A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti 4 che ronzano intorno a fetori crudeli, golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, lance di ghiacciai superbi, re bianchi2, brividi di umbelle3; I, porpora, sangue sputato, riso di labbra belle 8 nella collera o nelle ebbrezze penitenti4; U, cicli5, vibrazioni divine dei verdi mari, pace dei pascoli seminati di animali, pace di rughe 11 che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose6; O, suprema Tuba7 piena di stridori strani, silenzi solcati dai Mondi e dagli Angeli: 14 l’Omega8, raggio violetto dei suoi Occhi9! 1 nascite latenti: origini nascoste. 2 bianchi: vestiti di bianco. 3 brividi di umbelle: baldacchini mossi dal vento, come da un brivido.

4 ebbrezze penitenti: piaceri, il pentimen-

5 cicli: maree. 6 ampie fronti studiose: fronti spaziose dei sapienti. 7 Tuba: tromba (forse quella del Giudizio universale, da cui l’agg. suprema).

8 l’Omega: l’ultima lettera dell’alfabeto greco, posposta alla U, forse per alludere alla circolarità dell’esistenza.. 9 Occhi: forse gli occhi della morte.

to per i quali è vissuto come un’ebbrezza.

Analisi del testo Il poeta veggente Il sonetto è costituito dall’evocazione in successione delle cinque vocali (ma la collocazione della O è posposta alla U). A esse l’immaginazione del poeta associa dei colori, ma anche, secondo la lezione del Baudelaire di Corrispondenze, percezioni e sensazioni riferite a tutti i cinque sensi: ad esempio il tatto (corsetto villoso), la vista (lucenti, candori), l’olfatto (fetori). Le immagini sono accostate dal poeta-veggente in ardite analogie (“fetori crudeli”, “ebbrezze penitenti” ecc.). Difficile per chi legge attribuire univoci significati alle varie immagini, e forse non ha nemmeno senso cercare di farlo: Rimbaud chiede al lettore un’adesione alogica a quanto scrive, chiede di riconoscere il potere magico dell’immaginazione poetica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa intende il poeta quando parla di «nascite latenti» (v. 2)? STILE 2. Individua le sinestesie e indicane la funzione espressiva. LESSICO 3. Al v. 11 si parla di «alchimia». Quale valore assume la parola nel contesto?

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Scrivi un sonetto, ispirandoti al modello di Rimbaud, nel quale dovrai associare alle vocali, colori e immagini che rimandino a differenti percezioni sensoriali.

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3 Paul Verlaine Paul Verlaine nasce a Metz nel 1844 da una famiglia borghese abbastanza agiata. Dopo il trasferimento della famiglia (il padre era un militare) a Parigi nel 1853 e gli studi liceali, coltiva interessi letterari scoprendo I fiori del male di Baudelaire. Inizia a vivere in modo inquieto e sregolato, ed è ben presto segnato dalla dipendenza dall’alcool e dalla droga. Nel 1866 pubblica le sue prime poesie (Poemi saturnini) e quattro anni dopo si sposa: sembra per lui l’inizio di una vita serena e “normale”. L’anno dopo gli nasce un figlio ma quasi subito iniziano i dissapori con la moglie; inoltre Verlaine resta senza lavoro per aver partecipato alla Comune (1871). In questo stesso anno conosce Rimbaud appena sedicenne: il giovanissimo poeta chiede al più maturo scrittore di aiutarlo e gli fa leggere il suo Battello ebbro. Nasce tra i due un’amicizia stretta che presto diventa vero e proprio legame amoroso, inducendo Verlaine a lasciare la moglie per seguire il ragazzo in Belgio e poi a Londra. Il rapporto con Rimbaud è burrascoso. Nel 1873 mentre si trovano a Bruxelles, Verlaine ferisce con un colpo di pistola l’amico che vuole troncare il rapporto; arrestato, rimane due anni in carcere. L’esperienza lo avvicina al cattolicesimo; riprende a scrivere ma le poesie ispirate da questa fase della sua vita, caratterizzata dal pentimento per una vita dissipata, sono accolte dalla più completa indifferenza della critica. Nel 1884 il suo nome è però rilanciato dall’antologia che egli cura dei Poeti maledetti, a cui seguono numerose raccolte poetiche personali che gli danno la celebrità anche all’estero. Ma Verlaine è incapace di gestire e sfruttare il successo ed è sempre più vittima dell’alcool e della droga. Muore a Parigi nel 1896 in condizioni di estrema povertà. La poesia-musica L’opera di Verlaine è meno rivoluzionaria e originale, ma altrettanto importante di quella di Rimbaud. La sua poetica è tradizionalmente associata alla celebre lirica-manifesto Arte poetica [Art poétique] ➜ D3 in cui Verlaine teorizza il distacco dalla tradizione in modo meno vistoso di Rimbaud, ma altrettanto forte: il poeta francese respinge l’impiego stesso della rima, l’uso definitorio e preciso della parola in nome della pura musicalità, distingue la poesia (che è sempre fine a se stessa, è poesia “pura”) da ogni impiego pratico, da ogni uso oratorio e pedagogico o “impuro” (come la satira) del verso. L’importanza di Verlaine nel rinnovamento dei modi poetici consiste proprio nella ricerca della musicalità, nell’uonline Per approfondire so di una parola evocativa, che suggerisce atmosfere, spesso malinconiche, come Il simbolismo e nella celebre lirica Canzone d’autunno [Chanson d’automne]. Proprio in nome della la poesia italiana tra Ottocento e musicalità anche Verlaine, già nella raccolta Romanze senza parole [Romances sans Novecento paroles, 1874] dissolve i nessi sintattici e addirittura logici per enfatizzare una parola accolta nel suo puro fluire. Del resto in questo periodo c’è una forte convergenza tra musica e letteratura e online non a caso alcuni musicisti, come Claude Debussy (1862-1918), muD2 Paul Verlaine Languore sicarono testi importanti dei nuovi poeti (da Verlaine a Rimbaud) e Jadis et naguère furono da essi ispirati.

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Paul Verlaine

D3 P. Verlaine, Arte poetica, in Poesie, a c. e trad. di R. Minore, Newton Compton, Roma 2002

Arte poetica Rivolgendosi a una figura di cui non viene precisata l’identità, Verlaine enuncia alcuni fondamentali princìpi di poetica, che già delineano con chiarezza programmatica i tratti della nuova poesia, che si oppone alle rigide regole del classicismo e più in generale della tradizione. Arte poetica è stata scritta da Verlaine nel 1874, mentre si trovava in carcere dopo il ferimento di Rimbaud.

La musica, prima di ogni altra cosa: e per questo preferisci l’impari1, più vago e solubile nell’aria; senza nulla in sé che pesi e posi2. 5

È necessario poi che tu non scelga le tue parole senza qualche errore3: nulla è più caro della canzone grigia4 in cui l’incerto si unisca al preciso.

Sono occhi deliziosi dietro veli, 10 è la grande luce tremula del mezzogiorno, è – in un cielo tiepido d’autunno – l’azzurro brulichìo di chiare stelle5!

online

Audio Paul Verlaine, Art poétique (lettura in lingua originale)

Perché vogliamo ancor la sfumatura, non colore, ma solo sfumatura! 15 Oh, solo essa accoppia il sogno al sogno e il flauto al corno6! Va più lontano possibile dall’assassina arguzia, dal crudele spirito e dall’impuro riso, che fanno piangere gli occhi dell’azzurro 20 e tutto quell’aglio di bassa cucina7! Prendi l’eloquenza e torcile il collo8! E farai bene, in vena d’energia, a moderare un poco anche la rima. Fin dove andrà, se non la tieni d’occhio? 25

Oh, chi dirà i torti della rima?

1 l’impari: il verso che ha un numero dispari di sillabe. Anche questa poesia, nell’originale, è composta di versi dispari, cioè di novenari. 2 senza nulla... posi: senza alcun elemento vincolante. 3 È necessario... errore: l’affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma si comprende all’interno della polemica di Verlaine e dei simbolisti nei confronti della poesia classicistica e parnassiana, che ricercava precisione e fredda eleganza.

4 canzone grigia: una poesia fondata sull’indefinitezza. 5 Sono occhi... chiare stelle: in questa strofa Verlaine enuncia alcuni esempi in cui può tradursi questa poetica dell’“indeterminatezza”. 6 il flauto al corno: si tratta di strumenti musicali dal suono completamente differente, quasi opposto. 7 Va più... bassa cucina: Verlaine respinge, come estranei alla vera poesia, la battuta pungente (l’arguzia assassina),

il sarcasmo crudele e la comicità, tutti elementi che offendono e distruggono la poesia (qui rappresentata attraverso l’immagine metaforica dell’“azzurro che piange”) e tutti gli effetti facili, che paragona all’impiego dell’aglio, proprio di una cucina grossolana. 8 Prendi l’eloquenza... il collo: alla poesia non appartiene l’eloquenza, con il suo altisonante bagaglio retorico.

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Quale bambino sordo o negro pazzo ci ha plasmato questo gioiello da un soldo, che sotto la lima suona vuoto e falso9? 30

La musica, ancora e sempre! Il tuo verso sia la cosa che va via, che si sente fuggire da un’anima in cammino verso altri cieli ed altri amori.

Il tuo verso sia l’avventura buona sparsa al vento increspato del mattino 35 che va sfiorando la menta ed il timo... E tutto il resto è letteratura10. 9 E farai bene... vuoto e falso: per alcuni versi Verlaine si sofferma sulla rima, elemento costitutivo della poesia, che egli invece attacca come vuoto e falso. L’espressione sotto la lima riecheggia il

labor limae (letteralmente “lavoro di lima”) della poetica classica che indicava il lavoro di continua revisione e rifinitura volto a realizzare la perfezione dello stile. 10 E tutto il resto è letteratura: con

questa espressione, a cui attribuisce un significato negativo, Verlaine intende contrapporre la vera poesia alla tradizione, con i suoi generi codificati e l’apparato retorico.

Concetti chiave La scelta del titolo

Il titolo della composizione è stato scelto per precise ragioni. Arte poetica riprende la più celebre delle epistole del poeta latino Orazio (65-8 a.C.): la Lettera ai Pisoni [Epistula ad Pisones], più conosciuta fin dall’antichità come Ars poetica, in cui sono enunciati i fondamenti della poetica classicistica. Ai canoni della tradizione classicistica (e alle sue più recenti riproposizioni da parte dei parnassiani), Verlaine contrappone una nuova visione della poesia, enunciata programmaticamente da questo testo, considerato il manifesto della poesia simbolista.

Una poesia-manifesto

Nei nuovi poeti, la cui identità come gruppo e la cui fama viene consacrata dall’antologia curata da Verlaine nel 1884, sono assai diffuse prese di posizione dirette che enunciano una nuova poetica (in lettere e altri documenti), ma è interessante che siano gli stessi testi poetici ad assumere spesso un carattere metaletterario, a parlare cioè della poesia (ad esempio Il battello ebbro di Rimbaud e Brindisi di Mallarmé ➜ T3b OL). Nessun testo però mostra una chiarezza programmatica, una lucida consapevolezza come Arte poetica di Verlaine e proprio per questo la poesia costituì un importante punto di riferimento. Il poeta si rivolge a un interlocutore che possiamo immaginare poeta egli stesso a cui trasmette alcuni principi fondamentali, la definizione dei quali implica il confronto polemico con la tradizione classicistica.

La poesia-musica

Il concetto chiave dell’intera composizione è enunciato con forza nell’incipit: «La musica, prima di ogni altra cosa». La Poesia deve essere “musica” e per questo Verlaine invita a prediligere il verso che ha un numero dispari di sillabe, il quale, rispetto ai versi pari, ha un ritmo più fluido, meno rigido (la poesia stessa è in quartine di novenari). Per la medesima ragione Verlaine attacca nella settima strofa l’uso vincolante della rima, aprendo così la strada alla successiva affermazione del verso libero. Quanto al lessico, Verlaine sottolinea la necessità di mirare, nella scelta delle parole, all’impreciso, all’indefinito, alla sfumatura, con lo scopo di avvicinare il testo poetico a una partitura musicale. Le strofe quinta e sesta contengono un attacco alla tradizione retorica e agli stessi generi letterari. La poesia è intesa da Verlaine come Poesia, deve essere “pura” e per questo non può essere contaminata da elementi che il poeta considera “impuri”, capaci di inquinare il bello assoluto (l’Azzurro): la poesia non ha a che fare con l’oratoria altisonante (l’Eloquenza a cui Verlaine invita a “torcere il collo”) né con la satira. La poesia è un’intuizione vertiginosa, che nulla ha a che vedere con rimaneggiamenti stilistici laboriosi (il labor limae dell’Ars poetica oraziana, perseguito nei secoli dai poeti), la poesia è affascinante avventura, non “letteratura”: con questa parola che chiude perentoriamente la lirica, Verlaine allude a ciò, che pur appartenendo alla produzione letteraria, non è Poesia.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in forma di elenco i suggerimenti da seguire e gli errori da evitare secondo il manifesto della poetica di Verlaine. ANALISI 2. Ricostruisci attraverso una tabella i nuclei fondamentali della polemica proposta di Verlaine elencando da una parte gli elementi della tradizione, dall’altra le componenti della nuova poesia: ad esempio inserendo da un lato “verso pari” e dall’altro “verso impari”... ecc.

Interpretare

SCRITTURA 3. Secondo un procedimento analogico (che diventerà usuale), Verlaine esemplifica nella terza, ottava e nona strofa la sua idea di poesia attraverso immagini, prevalentemente (ma non solo) tratte dalla natura. Identifica tali immagini, trascrivile e, in un testo di circa 15 righe, ricostruiscine il significato in rapporto al tema cui si riferiscono.

online T2 Paul Verlaine

Piange dentro il mio cuore Romanze senza parole

4 Stéphane Mallarmé Stéphane Mallarmé nasce a Parigi nel 1842 in una famiglia della piccola borghesia. La sua vita non si conforma al modello del maledettismo, ma scorre riservata, tranquilla e senza eventi di particolare rilevanza. Dopo un viaggio in Inghilterra per perfezionare la conoscenza dell’inglese, si sposa con la tedesca Maria Gerhard e vive come insegnante di inglese nei licei di varie città fino a stabilirsi a Parigi, dove raggiunge presto la fama. Alla poesia si era dedicato fin dalla prima giovinezza, suggestionato soprattutto dalla lettura di Poe e di Baudelaire. Dopo il poema Hérodiade (1869) esce (illustrato dal celebre pittore impressionista Edouard Manet) il poemetto Il pomeriggio di un fauno [L’Après-midi d’un faune] a cui si ispirerà il musicista Claude Debussy. Nel 1884 alcune poesie di Mallarmé entrano nell’antologia dei Poeti maledetti di Verlaine. Nel 1887 appaiono le Poesie e L’album di versi e prose. La sua opera più innovativa, il poema Un coup de dés jamais n’abolira le hasard [Un colpo di dadi non abolirà mai il caso], uscirà su rivista nel 1897, un anno prima della morte, nel 1898. Mallarmé e il movimento simbolista È in particolare con Mallarmé che, nella nuova poesia francese, domina un simbolismo oscuro: per scelta stessa del poeta la poesia diventa esperienza per iniziati, per pochi eletti, e il poeta una sorta di “sacerdote” della parola. Mallarmé eserciterà grande influenza su tutta una generazione di poeti simbolisti (come Valéry) e artisti come Manet o Rodin, che si radunavano ogni martedì nella sua casa parigina: da quegli incontri prenderà le mosse il vero e proprio movimento simbolista. Nel 1886 il poeta di origine greca Jean Moréas pubblica il Manifesto del simbolismo su «Le Figaro», e quindi fonda la rivista «Le Symboliste».

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Le poesie di Mallarmé sono molto poche, anche perché la creazione artistica costava a Mallarmé una disumana fatica, ossessionato com’era dal timore di banalizzare, trascrivendolo, il messaggio poetico e dall’obiettivo che la parola, nella sua purezza, nel suo rifiuto della comunicazione (quello che Mallarmé chiama il linguaggio della “tribù”) dovesse cogliere la perfezione assoluta. Nell’ardua poesia di Mallarmé, intessuta di fittissimi riferimenti simbolici, la realtà è ormai lontana ombra: ogni sentimento, ogni traccia di soggettività sono annullati dal prevalere di un intellettualismo astratto, che attiva una serie di analogie, che trovano spesso il loro fondamento nel valore musicale della parola. Proprio per queste caratteristiche della sua poesia, Mallarmé è, dei poeti simbolisti, il più “cifrato”, quello che anticipa il difficile simbolismo di tanta poesia novecentesca, come si può ben vedere in un testo come Ventaglio (di Madame Mallarmé), del 1891. Dedicato, come altri di Mallarmé, alla definizione di cosa sia la poesia, scritto su un ventaglio di carta argentata, il sonetto è impostato su due termini analogici, il verso poetico e, appunto, il ventaglio.

Per suo linguaggio null’altro avendo che un battito ai cieli il verso futuro si stacca dalla sua nicchia preziosa 5 ala messaggera in sussurri questo ventaglio se è lo stesso per cui dietro a te

ha lampeggiato uno specchio limpido (ove sta per riscendere 10 cacciata grano per grano un po’ d’invisibile cenere sola a ridarmi mestizia) tale per sempre figuri fra le tue mani senza pigrizia

(trad. L. Frezza)

Nell’ultima sua opera, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1894), Mallarmé anticipa la rivoluzione del sistema grafico (uso degli spazi bianchi, particolare disposizione delle parole nella pagina, variazione della dimensione dei caratteri) che dominerà nelle avanguardie (Futurismo, Surrealismo). In ambito europeo ereditano la lezione del primo simbolismo francese poeti di grande rilevanza come il francese Paul Valéry (1871-1945), l’irlandese William Yeats (1865-1939) e ancora gli spagnoli Antonio Machado (1875-1939) e Juan R. Jiménez (1881-1959).

T3

Il viaggio come simbolo della creazione poetica I due testi lirici, che proponiamo in un confronto, sono incentrati sul tema del viaggio, vero e proprio topos della letteratura d’ogni tempo e luogo, che si presta a convogliare significati simbolici anche molto diversi a seconda degli autori e del tempo in cui questi scrivono. In questo caso il tema è impiegato per rappresentare l’avventura della creazione poetica. Il primo testo è tratto dal poemetto di Arthur Rimbaud Il battello ebbro (1871), il secondo è un sonetto di Stéphane Mallarmé (1893).

online T3a Arthur Rimbaud

Il battello ebbro

T3b Stéphane Mallarmé Brindisi

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3 L’Estetismo 1 Una tendenza del gusto e un fatto di costume Il culto esasperato della bellezza Negli ultimi due decenni dell’Ottocento, parallelamente al Simbolismo, si afferma in vari paesi europei, compresa l’Italia, la corrente dell’Estetismo: si tratta non di un vero e proprio movimento ma piuttosto di una tendenza del gusto, un mutamento della sensibilità degli artisti che, in ambito letterario, assume i caratteri di una netta opposizione al credo naturalista e al ruolo “sociale” impegnato dell’intellettuale. L’Estetismo consiste nel culto esasperato della bellezza, in una sopravvalutazione della dimensione estetica rispetto a ogni altro valore, compresi i valori politici e morali: è significativo a questo proposito che D’Annunzio, sempre sensibile alle nuove tendenze, si presentasse alle elezioni del 1897 come «candidato della bellezza». Un nuovo modello umano: l’esteta Gli esteti (una tipologia umana anticipata ancora una volta da Baudelaire, vero e proprio profeta della modernità) identificano arte e vita, cercano di fare della loro esistenza un’“opera d’arte”, ostentano raffinatezza e sofisticata eleganza in ogni ambito: dai gusti letterari e artistici originali e anticonformistici (ad es. è prediletta la letteratura delle età di decadenza), all’arredamento della casa, in cui domina il collezionismo di oggetti rari, esotici, preziosi, all’abbigliamento curato in modo maniacale. In questo senso la tendenza estetizzante valica il campo strettamente letterario o delle arti figurative e investe il costume: testimonianza del culto del bello può essere un romanzo, un dipinto, ma anche il vasellame, le suppellettili o addirittura un’intera “casa-capolavoro”, come il Vittoriale, la fastosa dimora sul lago di Garda dove D’Annunzio visse per molti anni e dove morì, un “monumento” al gusto estetizzante e decadente come e forse più del Piacere, il romanzo che D’Annunzio pubblicò nel 1889. L’Estetismo assume caratteri diversi e trova differenti manifestazioni a seconda delle società in cui si manifesta: in Inghilterra, ad esempio, dove è rappresentato soprattutto alla figura di Oscar Wilde, l’Estetismo assume marcatamente il carattere di una contrapposizione al perbenismo e alle ipocrisie della società vittoriana. Tuttavia, al di là delle differenze locali e culturali, esiste un tratto comune ben riconoscibile nei protagonisti delle opere che all’Estetismo si ispirano e negli autori stessi di esse, come Huysmans, Wilde e D’Annunzio: alla dimensione emotiva e sentimentale, alle passioni civili o amorose, all’azione generosa degli eroi romantici si sostituisce nell’esteta la frigida contemplazione della bellezza, ovunque essa possa manifestarsi e la ricerca, anche a costo di esperienze-limite, di sensazioni inusuali, sottili, precluse ai più; sensazioni che vengono poi analizzate, quasi catalogate con un gusto cerebrale. Non è più lo spirito, l’anima, a distinguere l’esteta, ma è esclusivamente la qualità delle sue sensazioni, la capacità di realizzare la bellezza.

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Un nuovo ideale, “artificioso”, di bellezza È bene precisare che l’ideale di bellezza proprio degli esteti del tardo Ottocento è lontanissimo dall’armonia e dall’essenzialità proprie della visione estetica classica: qualsiasi cosa riguardi (quadri, fiori, pietre preziose, persone), si tratta sempre di una bellezza complicata, artificiosa, in un certo senso “malata”. Nel caso della figura femminile domina l’immaginario estetizzante (che nella pittura del tempo si lega strettamente al simbolismo), una bellezza con tratti perversi, crudeli, patologici, associata alla malattia e alla morte: è oltremodo significativo che uno dei soggetti prediletti dagli artisti del tempo sia la crudele e sensuale Salomé, ritratta in un celebre dipinto dal pittore Moreau e riproposta da molti altri pittori, oltre che da Wilde in un testo teatrale che suscitò scandalo. Certamente l’imporsi del modello umano dell’esteta e le opere letterarie che si ispirano a questa figura testimoniano la crisi della visione progressista e democratica propria di molti naturalisti, il netto rifiuto del ruolo sociale dell’artista e la tendenza dell’intellettuale ad arroccarsi in una dimensione elitaria che gli consentisse, grazie all’eccezionalità del suo sentire e alla raffinatezza esibita della sua vita, di distinguersi dal gusto ormai imperante della nuova borghesia arricchita, disprezzato per la sua volgarità.

2 I romanzi dell’Estetismo online

Per approfondire Dai preraffaelliti a Walter Pater: verso l’Estetismo

La tendenza estetizzante è testimoniata in Europa soprattutto da due romanzi che ebbero grande risonanza: A ritroso [À rebours] di Joris-Karl Huysmans, pubblicato nel 1884; e Il ritratto di Dorian Gray [The picture of Dorian Gray] di Oscar Wilde, pubblicato per la prima volta su rivista nel 1890. E un anno prima era uscito Il piacere (1889) di D’Annunzio.

Estetismo disimpegno dell’intellettuale

culto della bellezza

autonomia dell’arte da ogni finalità o morale

A ritroso di J.K. Huysmans (1884) Il piacere di G. D’Annunzio (1889) Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde (1890)

Huysmans e A ritroso Uno scrittore di “transizione” Lo scrittore francese Joris-Karl Huysmans (18481907) esprime nella sua carriera letteraria quasi esemplarmente il passaggio dal Naturalismo all’Estetismo: fa infatti parte del gruppo di scrittori naturalisti che si ritrova nelle serate di Médan attorno a Zola; ma ben presto avverte insoddisfazione per un modo di far letteratura che gli appare riduttivo. Da questa insoddisfazione per i modi rappresentativi, i personaggi e le tematiche del Naturalismo, dopo una serie di opere non particolarmente significative, nascerà A ritroso (1884). Il romanzo ha grande successo e, in modo che l’autore stesso non poteva prevedere, diventa un modello per la cultura estetizzante: nel L’Estetismo 3 349

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Ritratto di Dorian Gray Oscar Wilde ne parla senza citarlo, ma è chiaro che vi si allude. Wilde immagina che il giovane protagonista legga proprio A ritroso e ne rimanga in un certo senso “stregato”: «Il libro gli sembrava contenere la storia della sua vita, scritta prima che l’avesse vissuta». La frase sottolinea la continuità tra i due romanzi più rappresentativi dell’Estetismo, la stretta parentela tra i loro protagonisti (Des Esseintes e Dorian Gray) ma soprattutto la concezione estetizzante secondo cui l’arte può avere sulla vita una straordinaria influenza. A differenza di Wilde, la cui stessa vita presenta strette connessioni con le sue idee artistiche, Huysmans condusse una vita del tutto normale, senza nulla di eccezionale, lavorando per trent’anni come impiegato al ministero degli Interni. Dopo aver scritto A ritroso, lo scrittore vive una crisi mistica, si avvicina alla fede cattolica, trascorre lunghi periodi in un’abbazia benedettina presso Lione. Anche la sua opera si orienta allora a testimoniare la conquista della fede, in particolare con la trilogia In strada (1895), La cattedrale (1898), L’oblato (1903). Muore a Parigi nel 1907. A ritroso: un romanzo senza intreccio Come Wilde stesso dice, A ritroso è «un romanzo senza intreccio», uno «studio psicologico». L’azione è infatti quasi del tutto assente: sulla scena, costituita dall’interno claustrofobico di una casa lussuosa, rimane dall’inizio alla fine per tutti e sedici i capitoli il solo protagonista, Des Esseintes. La voce narrante, ancora in terza persona come nel romanzo ottocentesco, è però costantemente focalizzata sul protagonista, di cui riporta analiticamente le impressioni, le sensazioni. Ampia parte del libro (che oggi risulta di lettura alquanto faticosa) è occupata dall’elenco di oggetti particolari di cui il protagonista si circonda per vincere la noia e provare sempre nuove sensazioni estetiche (➜ T4 ), a cui si alternano lunghe digressioni di taglio saggistico, ad esempio sulla letteratura antica e moderna (significative le pagine ammirate su Baudelaire). Si tratta dunque, al di là dei contenuti, di un romanzo di nuova concezione rispetto all’impianto e alle tipologie narrative del romanzo ottocentesco. La trama Il protagonista è il nobile Des Esseintes, ultimo discendente di una famiglia aristocratica, segnata nella salute fisica a causa delle molte unioni consanguinee. Nella Notizia dell’autore che apre il romanzo, il lettore è informato su questo personaggio, affetto dalla noia e disgustato dall’umanità. Dopo aver provato ogni tipo di svago, dopo essersi stordito con la lussuria, Des Esseintes, estenuato dai piaceri ma sempre insoddisfatto, decide di vendere il castello di famiglia e di vivere in solitudine in una casa a Fontenay presso Parigi. Qui egli si sforza di rendere la sua dimora confacente al suo gusto estetico raffinato e complicato, attraverso varie sperimentazioni estetiche che riguardano le piante, i profumi, gli oggetti, i libri della biblioteca. Ma questa esistenza vuota, riempita solo dalla ricerca del piacere, alla fine lo debilita, così che il medico gli consiglia di rientrare nel mondo. Il romanzo si chiude con un angoscioso interrogativo: come potrà Des Esseintes vivere in una società che disprezza?

Huysmans ritratto da Eugène Delâtre, 1894.

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Joris-Karl Huysmans

T4

L’artificio contro la natura A ritroso, cap. II

J.K. Huysmans, A ritroso, trad. di U. Dèttore, a c. di C. Bo, Rizzoli, Milano 1982

Des Esseintes si è insediato da pochi mesi nella dimora di Fontenay, in campagna, lontano dal clamore della vita parigina. Nell’isolamento voluto della sua nuova vita, Des Esseintes inizia la sua sperimentale ricerca di sensazioni raffinate che lo possano appagare e distinguere dall’umanità comune che disprezza. Nel testo è descritta la sala da pranzo della villa, in cui è ricreata artificialmente l’atmosfera di una nave. Des Esseintes può così assaporare, attraverso l’immaginazione, le sensazioni e le percezioni del viaggio, pur rimanendo chiuso in casa.

Questa sala da pranzo somigliava alla cabina di una nave, con il suo soffitto un po’ a volta munito di travi in semicerchio, i suoi assiti1 e il suo pavimento di pino americano, la sua piccola finestra aperta nell’assito come un oblò nel fianco di una nave. Come certe scatole giapponesi che entrano l’una nell’altra, questa stanza era inserita 5 in una stanza più grande, che era la vera sala da pranzo costruita dall’architetto. Questa aveva due finestre: l’una, invisibile, nascosta dall’assito che però si poteva abbassare a volontà, mediante una serratura a molla, per rinnovare l’aria che da questa apertura poteva circolare intorno alla saletta di pino americano e penetrarvi; l’altra visibile, perché posta proprio di fronte all’oblò, ma condannata2. Infatti un 10 grande acquario occupava tutto lo spazio compreso fra l’oblò e la vera finestra aperta nella vera parete. La luce del giorno, per rischiarare la cabina, attraversava dunque la finestra, i cui vetri erano stati sostituiti con un’unica lastra, l’acqua e, infine, il vetro fissato nell’assito. Quando il samovar3 fumava sulla tavola, quando, d’autunno, il sole finiva di 15 tramontare, l’acqua dell’acquario, vetrosa e fosca durante il giorno, arrossava e faceva filtrare sul biondo assito luci di bracia infiammata. Qualche volta, nel pomeriggio, se per caso Des Esseintes era sveglio e alzato, faceva agire il giuoco dei tubi e delle condutture che vuotavano l’acquario e lo riempivano di acqua pura, e vi faceva versare gocce di essenza colorata, offrendosi 20 così a piacere i toni verdi o salmone, opalini o argentati che hanno i veri corsi d’acqua a seconda del colore del cielo, dell’ardore più o meno vivo del sole, delle minacce più o meno accentuate della pioggia, in una parola, a seconda della stagione e dell’atmosfera. Si immaginava allora di essere sotto il ponte di un veliero, e contemplava curiosa25 mente i meravigliosi pesci meccanici, con movimento a orologeria, che passavano davanti al vetro dell’assito o si nascondevano nelle finte alghe; oppure, aspirando l’odor di catrame che veniva diffuso nella stanza prima che entrasse, esaminava, appese alle pareti, delle stampe colorate che rappresentavano, come nelle agenzie marittime, piroscafi in viaggio per Valparaiso e La Plata4, e tavole su cui erano 30 scritti gli itinerari del Royal Mail Steam Packet, delle compagnie Lopez e Valery5, i noli e gli scali dei servizi postali dell’Atlantico. 1 assiti: tavolati di legno. 2 condannata: inutilizzabile come finestra, impossibile da aprirsi.

3 samovar: recipiente metallico usato, soprattutto in Russia e nei paesi slavi, per scaldare l’acqua (normalmente per preparare l’infuso di tè).

4 Valparaiso e La Plata: località del Cile e dell’Argentina. 5 gli itinerari... Valery: navi e compagnie navali in servizio all’epoca.

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Quando poi era stanco di consultare questi indicatori, riposava lo sguardo contemplando i cronometri e le bussole, i sestanti e i compassi, i binocoli e le carte sparsi su di una tavola sulla quale si levava un solo libro: Le avventure di Arturo 35 Gordon Pym6, stampate appositamente per lui su carta vergata finissima, scelta foglio per foglio, con un gabbiano in filigrana. Poteva vedere infine canne da pesca, reti conciate, rotoli di vele rosse, una minuscola àncora di sughero, dipinta di nero: tutto gettato alla rinfusa presso la porta che comunicava con la cucina mediante un corridoio imbottito che assorbiva, al 40 pari di quello tra la sala da pranzo e la stanza da lavoro, ogni odore e ogni rumore. Si procurava così, senza muoversi, le sensazioni rapide, quasi istantanee, di un viaggio di lungo corso e quel piacere dello spostamento che, in definitiva, consiste solo nel ricordo e mai nel presente, nell’attimo stesso in cui si effettua, lo aspirava appieno, comodamente e senza fatica, senza trambusti, in quella cabina in cui il 45 predisposto disordine, l’apparenza transitoria, la quasi temporanea installazione corrispondevano abbastanza esattamente al passeggiero soggiorno che vi faceva nel poco tempo dei suoi pasti, e contrastava in modo assoluto con la sua stanza da lavoro, un locale definitivo, ordinato, ben sistemato, fatto per il solido andamento di un’esistenza casalinga. 50 D’altra parte il movimento gli sembrava inutile, e pensava che la fantasia potesse facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti. A suo parere era possibile dar soddisfazione ai desideri considerati più difficili ad esaudirsi nella vita normale, e questo mediante un piccolo sotterfugio, un’approssimativa sofisticazione dell’oggetto perseguito da quei desideri stessi. [...]. 55 Tutto sta nel saper fare, nel saper concentrare lo spirito su di un solo punto, nel sapere astrarsi abbastanza per far sorgere l’allucinazione e sostituire il sogno della realtà alla realtà stessa. Del resto, l’artificio sembrava a Des Esseintes il carattere distintivo del genio umano. La natura, diceva, ha fatto il suo tempo; ha stancato definitivamente, con la disgu60 stosa uniformità dei suoi paesaggi e dei suoi cieli, l’attenta pazienza dei raffinati. In fondo, che aridità da specialista confinato nel suo campo, che gretteria7 da bottegaia che tiene un dato articolo escludendone un altro, che monotono magazzino di prati e di alberi, che banale agenzia di montagne e di marine! 6 Le avventure di Arturo Gordon Pym: o Storia di Arthur Gordon Pym, celebre ro-

manzo (1837-38) di E.A. Poe, in cui si narra di un viaggio avventuroso nell’Antartide.

7 gretteria: grettezza, ristrettezza di vedute.

Analisi del testo Una realtà “artificiale” per sperimentare nuove sensazioni A prima vista, leggendo questa pagina, si pensa a Des Esseintes semplicemente come a una persona bizzarra, eccentrica, magari nevrotica. Ma leggendo con maggiore attenzione, tra le righe, nei dettagli dell’ambiente evocati a uno a uno, si coglie con chiarezza la filosofia dell’Estetismo che ispira non solo questa pagina ma l’intera opera di Huysmans. Ciò che ha indotto il protagonista a creare la stanza-acquario racchiusa come una scatola cinese nella sala da pranzo e a dare a quest’ultima la parvenza di una cabina di nave è il desiderio di gareggiare con la realtà naturale, di dimostrare che l’“artificio” supera ormai la natura, da lui considerata ripetitiva e monotona nei suoi spettacoli banali. Demiurgo di questa nuova “realtà sostitutiva” è l’esteta, che gareggia con Dio nella creazione. Lo scopo principale di questa operazione è però quello di procurarsi da questa situazione artificiosa nuove sensazioni, più sofisticate e raffinate di quelle che deriverebbero da una situazione

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“reale”, e di stimolare al massimo la facoltà dell’immaginazione, così che possa sostituire alla realtà «il sogno della realtà�. Guardando pesci meccanici muoversi tra finte alghe nell’acquario, aspirando l’odore di catrame finto, osservando gli strumenti di bordo sparsi qua e là in apparente disordine, Des Esseintes può immaginare di trovarsi in viaggio su un veliero, senza però le fatiche di un viaggio vero. Una fantasticheria a cui contribuisce anche la presenza di un romanzo breve di Poe, Le avventure di Gordon Pym, incentrato su un viaggio allucinato su una goletta nelle acque antartiche. All’interno del mondo artificiale dove Des Esseintes conduce il suo “esperimento” di esteta non c’è spazio per l’azione, ma solo per la contemplazione: da qui una tipica modalità narrativa del romanzo di Huysmans, evidente anche in questo passo, ovvero la tendenza all’elencazione, alla catalogazione di oggetti e relative sensazioni. La pagina suscita la curiosità del lettore, attratto nel mondo di Des Esseintes, ma ben presto non si può non provare una sensazione di ansia per la situazione claustrofobica creata: lo spazio descritto è di fatto chiuso e isolato attraverso due corridoi imbottiti che impediscono l’ingresso del mondo esterno, escludendone le voci, gli odori, i rumori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché la stanza è isolata così che non si percepisca alcun rumore né odore esterno a essa? 2. Perché Des Esseintes fa versare gocce di essenza colorata nell’acquario? ANALISI 3. La dimensione visiva e la contemplazione hanno una parte rilevante in questo testo: indica i verbi che si iscrivono in tale dimensione. STILE 4. Metti in luce le caratteristiche formali salienti del testo (strumenti retorici, stilemi lessicali e linguistici, precisione descrittiva, elencazione ecc.).

Interpretare

Oscar Wilde in una foto scattata da Napoleon Sarony nel 1882 (National Portrait Gallery, Londra).

SCRITTURA 5. In un testo di circa 15 righe commenta la frase: «Del resto l’artificio sembrava a Des Esseintes il carattere distintivo del genio umano».

Oscar Wilde e Il ritratto di Dorian Gray Biografia di un esteta A differenza della vita di Huysmans, del tutto difforme dal protagonista del suo romanzo, la vita di Oscar Wilde costituisce di per sé una testimonianza eloquente di che cosa fosse l’Estetismo e si pone in un rapporto di stretta continuità con il romanzo che lo rese celebre: Il ritratto di Dorian Gray. Oscar Wilde nasce a Dublino nel 1854. Il padre è un noto medico a cui sarà dato il titolo di baronetto per meriti scientifici e umanitari, la madre è una poetessa dilettante. Studente brillante, particolarmente interessato allo studio delle lettere classiche, Oscar si laurea a Oxford con il massimo dei voti nel 1878. A Oxford conosce Walter Pater e John Ruskin, due scrittori che in diverso modo anticipano il gusto estetizzante e lui stesso inizia ad atteggiarsi ad esteta. L’autopromozione della propria immagine La celebrità di Wilde, come personaggio prima ancora che autore, si deve alla sua abilità nel promuovere la propria immagine, attraverso l’ostentazione di un abbigliamento da dandy, e comportamenti anticonformistici che una società come quella inglese di età vittoriana non poteva non considerare disdicevoli. Da un lato Wilde esibiva continuamente uno snobistico disprezzo per la mediocrità e il cattivo gusto borghese e L’Estetismo 3 353

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PER APPROFONDIRE

per l’avvilente commercializzazione dell’arte, dall’altro era forte in lui la volontà di diventare personaggio “pubblico”. Particolarmente importante a questo fine è il giro di conferenze incentrate sulla visione dell’Estetismo che Wilde, brillante comunicatore, tiene negli Stati Uniti (riesce a tenere 140 conferenze in nove mesi circa). Tornato dall’America, si reca a Parigi dove conosce Verlaine e i fratelli de Goncourt. Dal matrimonio all’omosessualità Il matrimonio con Constance Lloyd nel 1884 sembra corrispondere alla scelta di una tranquilla vita borghese: Wilde fa il critico letterario, cerca un impiego fisso. Ma presto l’inquietudine l’assale: nonostante sia diventato padre, ha una relazione con un giovane conosciuto a Oxford, Robert Ross. Da quel momento lo scrittore, ormai celebre (aveva già pubblicato la raccolta delle sue poesie, nel 1881, e alcuni racconti), inclinerà sempre più all’amore omosessuale. Il ritratto di Dorian Gray e la restante produzione La pubblicazione su rivista nel 1890 del Ritratto di Dorian Gray suscita molto scalpore; l’autore deve pubblicamente difendersi dall’accusa di oscenità. Lo farà ribadendo i principi dell’Estetismo che racchiuse nei celebri aforismi che costituiscono la prefazione del libro (uno di essi recita: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto») e che riprese nel 1894 (➜ D4 OL). La produzione di Wilde, che si concentra in pochi anni, comprende, oltre al celebre romanzo, racconti, testi saggistici e teatrali (le commedie Una donna senza importanza, Un marito ideale, L’importanza di chiamarsi Ernesto, tutte scritte tra il 1892 e il 1895 e rappresentate con successo). Spicca su tutti il dramma Salomé, pensato per la grande attrice Sarah Bernhardt (scritto in francese nel 1891). L’accusa di immoralità e il processo A Londra ne viene vietata la rappresentazione, anche per la vicenda penale che travolse Wilde, accusato di omosessualità e condotta immorale a causa della sua relazione con un giovane lord inglese, Alfred Douglas. Trascorsi due anni in carcere (1895-1897), Wilde intraprende una vita errabonda (non tornerà più in Inghilterra) in condizioni economiche sempre più precarie. Muore a Parigi nel 1900. Il ritratto di Dorian Gray: lo schema narrativo del racconto “fantastico” Nel romanzo che gli diede la celebrità, per esprimere il verbo dell’Estetismo (➜ T5 ) Wilde utilizza una situazione romanzesca tipica del racconto fantastico (e certo anche questa scelta contribuì al successo dell’opera presso un pubblico ampio): al centro della vicenda, che rispetto al romanzo di Huysmans presenta un intreccio avvincente, stanno il tema dello “specchio” e quello del “doppio”, già ampiamente

Un processo scandaloso La vita brillante di Oscar Wilde termina di fatto nel 1895. In quest’anno si svolge infatti il processo che decreterà la fine della sua carriera. Nel 1891 Wilde aveva conosciuto un giovane di famiglia aristocratica, lord Alfred Douglas, che divenne il suo amante e con il quale andò a vivere, causando così la fine del suo matrimonio. I due conducevano una vita estremamente disinibita e dissipata, viaggiando e frequentando individui equivoci, la cui testimonianza fu poi rilevante al processo. Il padre di Alfred, un uomo politico di primo piano a Londra, accusa lo scrittore di comportamenti immorali e di omosessualità (in quel tempo si trattava di un reato punibile per legge). Spinto dal suo giovane amante, Wilde lo querela e la cosa finisce in tribunale. Lo scrittore è condannato a due

anni di carcere duro, ogni suo avere è confiscato e venduto, persino i manoscritti autografi. Dal carcere Wilde scrive la sua poesia più nota, la Ballata del carcere di Reading (1898), e la lettera-confessione De profundis indirizzata ad Alfred Douglas in cui ribadisce il suo amore appassionato per il giovane e d’altra parte gli imputa la sua rovina (il nome di Wilde era diventato impronunciabile, tanto che i suoi figli furono costretti a cambiare identità anagrafica). Wilde muore a Parigi povero e dimenticato, cinque anni dopo il processo, nel 1900. Alfred Douglas e il fedele Robert Ross ne seguono il feretro. La legge che lo condannò fu abrogata in Inghilterra solo nel 1967. Da quella data Wilde divenne una delle icone del movimento per i diritti degli omosessuali.

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diffusi dal Romanticismo (emblematica La storia del riflesso perduto di Hoffmann del 1814). Il rapporto empatico tra vita e arte, l’inquietante scambio di ruoli tra l’una e l’altra che percorre il romanzo di Wilde, è poi certo memore del noto racconto Il ritratto ovale di E.A. Poe. Del resto, Poe è uno dei grandi modelli della cultura estetizzante, da Baudelaire, che ne diffuse la conoscenza in Europa, allo stesso Wilde. La trama Dorian Gray è un giovane inglese di straordinaria bellezza, al cui fascino soggiace il pittore Basil Hallward, che lo ritrae in un quadro dal quale emana una singolare suggestione. Guardandolo, Dorian formula il desiderio che la sua bellezza e la sua giovinezza perfetta rimangano inalterate nel tempo, e che sia invece il ritratto a invecchiare al posto suo. È quello che poi, come in un racconto fantastico, accadrà veramente, ma solo Dorian sarà a conoscenza della metamorfosi del quadro, nascosto in casa sua sotto un drappo. Ma il quadro non si limiterà a “invecchiare”, bensì riprodurrà via via le trasformazioni dell’animo di Dorian, deturpato dalla corruzione e dal cinismo. Nella vicenda esercita un ruolo di primo piano lord Henry Wotton, un algido esteta che inizia Dorian al culto del bello. In un certo senso Dorian diventa una sua creazione, il frutto di un esperimento freddamente concepito ed eseguito per distaccare sempre più il giovane dalle emozioni e dai valori facendone esclusivamente un cultore della bellezza. Dorian segue sempre più convinto le lezioni del “maestro”, dandosi a una vita depravata e viziosa, ma alla quale si associano gusti estetici sempre più raffinati. Dorian arriva a superare in cinismo lord Henry, provocando il suicidio della giovane Sybil, innamorata di lui, e arrivando alla fine a uccidere Basil, online che lo invita a ravvedersi. Un giorno, inorridito dalla visione della sua D4 Oscar Wilde anima, sempre più orrenda, ritratta nel dipinto, lo colpisce con una Aforismi per i giovani coltellata. Il ritratto riprende la sua incontaminata bellezza e a terra Frasi e filosofie ad uso dei giovani rimane un vecchio ripugnante e avvizzito.

Oscar Wilde

T5

Il tema del “doppio” e la filosofia dell’Estetismo Il ritratto di Dorian Gray, cap. XI

O. Wilde, Opere, a c. di M. d’Amico, Mondadori, Milano 2000

Dal romanzo di Wilde riportiamo questo brano: nella prima parte si delinea il rapporto tra il protagonista e il quadro che lo ritrae; nella seconda si esemplifica la filosofia dell’Estetismo.

Spesso, tornando da una di quelle misteriose e prolungate assenze che davano adito a tante congetture1 tra quelli che erano suoi amici, o credevano di esserlo, saliva furtivamente fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave che ormai si portava sempre dietro, e si fermava, con uno specchio in mano, davanti al ritratto 5 dipinto da Basil Hallward, guardando ora la faccia malvagia e invecchiata sulla tela, ora quella giovane e fresca che gli sorrideva dal vetro lucente. La profondità stessa del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza, e sempre più attratto dalla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una gioia mostruosa e terribile, le orribili linee che segnavano 10 la fronte raggrinzita o serpeggiavano intorno alla bocca carnosa e sensuale, e si chiedeva se fossero peggiori i segni del peccato o i segni dell’età. Appoggiava le sue mani bianche vicino alle mani ruvide e gonfie del quadro, e sorrideva. Disprezzava 1 congetture: ipotesi. quel corpo sformato e quella carne indebolita. L’Estetismo 3 355

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Certo c’erano momenti, la notte, quando non riusciva ad addormentarsi nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza della piccola e malfamata taverna vicino ai Docks2 che frequentava abitualmente sotto falso nome e travestito, in cui pensava a come aveva portato alla rovina la sua anima con una pietà tanto più cocente perché puramente egoistica. Ma momenti del genere erano rari. Quella curiosità per la vita che Lord Henry3 per primo aveva risvegliato in lui il giorno in 20 cui si erano seduti insieme nel giardino del loro amico sembrava aumentare a mano a mano che veniva soddisfatta. Aveva appetiti folli4 che diventavano più ingordi appena venivano saziati. [...] Una o due volte al mese d’inverno, e ogni mercoledì sera nella stagione mondana5, apriva la sua bellissima casa, e i musicisti più rinomati dell’epoca deliziavano gli 25 ospiti con le meraviglie della loro arte. Le sue cene per pochi intimi, preparate sempre con l’aiuto di Lord Henry, erano note per l’attenta scelta e disposizione degli invitati e per il gusto squisito dell’addobbo della tavola, con le sue delicate e armoniose composizioni di fiori esotici, tovaglie ricamate e vasellame antico d’oro e d’argento. Erano in molti, soprattutto tra i più giovani, quelli che vedevano, o immaginavano di 30 vedere, in Dorian Gray la personificazione di un modello spesso sognato nei giorni di Eton o di Oxford6, un modello in cui si fondeva qualcosa della cultura dell’erudito con tutta la grazia, la distinzione e i modi perfetti di un cittadino del mondo [...]. E senza dubbio per lui la Vita stessa era la prima, la più grande delle arti, quella per cui tutte le altre sembravano solo un apprendistato. La moda, che per un istante 35 rende universale quello che in realtà è illusorio, e il Dandismo, che nel suo genere è un tentativo di affermare l’assoluta modernità della bellezza, per lui avevano naturalmente il loro fascino. Il suo modo di vestire, e gli atteggiamenti originali che di tanto in tanto ostentava, esercitavano un influsso notevole sui giovani raffinati che si vedevano ai balli di Mayfair e alle finestre dei club di Pall Mall7, e che lo copiavano 40 in tutto, tentando di mimare il fascino casuale di quelle sue graziose stravaganze, che lui stesso non prendeva troppo sul serio. Infatti, se era stato fin troppo pronto ad accettare la posizione che gli era stata offerta poco dopo aver raggiunto la maggiore età, e anzi provava un piacere sottile al pensiero di poter diventare per la Londra del suo tempo quello che una volta era 45 stato l’autore del Satyricon8 per la Roma imperiale di Nerone, nel fondo del suo cuore desiderava essere qualcosa di più di un semplice arbiter elegantiarum da consultare per la scelta di un gioiello, il nodo della cravatta o il modo giusto di tenere il bastone da passeggio. Cercava di elaborare un nuovo schema di vita con una sua logica filosofica e suoi principi ordinati, che nella spiritualizzazione dei sensi trovasse il 50 suo più alto compimento. L’adorazione dei sensi è stata spesso, e a ragione, biasimata perché gli uomini provano un naturale istinto di orrore per quelle passioni e sensazioni che sembrano più forti di loro e che sanno di condividere con forme di esistenza meno organizzate. Ma secondo Dorian Gray la vera natura dei sensi 15

2 Docks: si tratta dei moli tra London Bridge e Rotherhithe, in cui si trovava la Chinatown di allora, con zone malfamate in cui si fumava l’oppio. 3 Lord Henry: il personaggio che nel romanzo conduce Dorian sulla strada del vizio e insieme della contemplazione della bellezza. 4 appetiti folli: desideri incontrollabili.

5 nella stagione mondana: a Londra il periodo dei grandi balli e dei ricevimenti iniziava ai primi di maggio e terminava in luglio. 6 Eton… Oxford: sedi di antiche e prestigiose università. 7 Mayfair... Pall Mall: località del centro residenziale di Londra, in cui si trovano molte dimore aristocratiche. 8 l’autore del Satyricon: di tratta di Petro-

nio, autore latino del romanzo Satyricon, morto suicida perché implicato nella congiura dei Pisoni contro l’imperatore Nerone. Secondo la testimonianza dello storico Tacito, egli era consigliere di raffinatezza (è questo il significato dell’espressione arbiter elegantiarum) presso la corte di Nerone, ovvero chi decideva, con il suo gusto personale, che cosa dovesse considerarsi elegante.

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non era mai stata capita, ed essi erano rimasti selvaggi e animaleschi solo perché il mondo aveva cercato di costringerli a sottomettersi o di ucciderli con la sofferenza, invece di farli diventare elementi di una nuova spiritualità la cui caratteristica predominante fosse un senso istintivo della bellezza.

Analisi del testo La struttura Il testo può essere diviso in due parti: la prima (rr. 1-22) è incentrata sul tema del “doppio”, la seconda (rr. 23-57) documenta in modo esemplare la concezione dell’Estetismo.

Il tema del “doppio” È qui evidente la presenza del tema del “doppio” su cui, peraltro, si struttura tutto l’intreccio dell’opera. Nel passo è anche abbastanza evidente l’influenza di due letture certo presenti nella “biblioteca” di Wilde: Stevenson appunto e Poe. È dalla suggestione del primo che Wilde trae probabilmente il riferimento alla “doppia vita” di Dorian Gray, raffinato esteta ma anche frequentatore di una «sordida stanza della piccola e malfamata taverna vicino ai Docks che frequentava abitualmente sotto falso nome e travestito» (un ambiente contrapposto alla sua «camera delicatamente profumata»): una seconda vita segreta (percepita dal personaggio come rovinosa per la sua anima), in cui «appetiti folli [...] diventavano più ingordi appena venivano saziati». Dalla suggestione del racconto Il ritratto ovale di Poe (➜ VOL 2 C19 T1 ), in cui è presente il tema del “ritratto vivente”, che assorbe pian piano la vita del soggetto ritratto (in quel caso una giovane donna), Wilde trae il tema della proiezione nel soggetto nel ritratto: in questo caso alla bellezza incontaminata del protagonista si contrappone la deformazione del ritratto, in seguito al passare del tempo, ma soprattutto a causa della vita viziosa e del cinismo che deturpa l’anima di Dorian Gray. Per le molteplici suggestioni letterarie che la ispirano, è significativa anche l’immagine dello specchio, spesso associato nel racconto fantastico al tema del “doppio”: un esempio tra tutti La storia del riflesso perduto di Hoffmann (1814). La presenza dello specchio, in cui Dorian contempla compiaciuto la sua bellezza eternamente giovane, moltiplica il tema: Dorian ha davanti a sé due immagini, l’una, quella ritratta dallo specchio, l’altra quella deformata e orribile del ritratto. In entrambe egli si specchia, ma tra le due qual è quella veritiera?

Dorian Gray emblema dell’esteta La seconda parte del testo sintetizza i principi dell’estetismo che Wilde fece propri nella sua stessa condotta di vita e che enuncia nei celebri aforismi preposti al romanzo (ripresi in parte qualche anno dopo ➜ D4 OL). È descritta innanzitutto la raffinatezza con cui Dorian, aiutato da Lord Henry, suo fedele “consigliere” e maestro di vita, organizza i suoi ricevimenti. Dorian diventa un modello per i giovani della società-bene di Londra anche per il suo modo di vestire e «gli atteggiamenti originali che ogni tanto ostentava»: i giovani raffinati guardano a lui come la Roma di Nerone guardava a Petronio, “consigliere di eleganza” alla corte imperiale. Ma certo a Dorian questo non basta: la sua ambizione va ben oltre gli aspetti più appariscenti del dandysmo, ovvero la scelta di un abbigliamento a tutti i costi originale: Dorian (come il suo creatore, Oscar Wilde) mira a esercitare un ruolo ben più rilevante, a diffondere nella società omologata e volgare del suo tempo un nuovo “credo”, una nuova filosofia, in cui la preminenza assoluta venga data ai sensi, per secoli repressi e mortificati. Naturalmente non si tratta di un elogio della bassa istintualità, ma di un perfezionamento dei sensi che consenta di edificare una civiltà fondata sulla bellezza.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa spinge Dorian a contemplare se stesso nel quadro? Da che cosa sono indotte le trasformazioni ripugnanti che vi osserva? 2. Che cosa induce Dorian a condurre una doppia vita? ANALISI 3. Nella seconda parte del testo, quando si parla dei ricevimenti di Dorian (rr. 23-32) ricorrono verbi e aggettivi che rimandano alla bellezza e alla raffinatezza: individuali. 4. Quale significativa definizione viene data della moda? Spiegane il senso con parole tue.

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Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. In un intervento orale di circa 3 minuti spiega e commenta l’espressione chiave del testo: «E senza dubbio per lui la Vita stessa era la prima, la più grande delle arti, quella per cui tutte le altre sembravano solo un apprendistato».

PER APPROFONDIRE

TESTI A CONFRONTO 6. Petronio, autore della latinità post-classica, nel suo romanzo (Satyricon) testimonia la corruzione e insieme la raffinatezza estrema dell’impero, avviato ormai a un’inesorabile decadenza. È solo una coincidenza che anche Verlaine nella celebre lirica Languore si identifichi nell’«Impero alla fine della decadenza»? Oppure esiste un comune atteggiamento degli scrittori simbolisti e degli esteti a questo proposito?

Il tema del “doppio” Il ritratto di Dorian Gray costruisce l’intreccio sul tema del “doppio”. Introdotto nella cultura europea dalla letteratura romantica tedesca attraverso il racconto di impianto fantastico – da Chamisso, La meravigliosa storia di Peter Schlemihl (1814), e soprattutto da Hoffmann, in vari racconti –, il “doppio” nelle sue varie formulazioni ricorre così frequentemente nella letteratura del secondo Ottocento e del primo Novecento che uno studioso ha parlato addirittura di «epidemia del doppio»: da Poe (William Wilson, 1843, e Il ritratto ovale, 1842), a Maupassant (L’Horlà, 1887), a Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, 1886) a Conrad (Il compagno segreto, 1910) per arrivare, più avanti nel tempo, a Pirandello, nell’opera del quale le figurazioni del “doppio” sono così ricorrenti da costituire un vero e proprio filo conduttore (ricordiamo qui almeno Il fu Mattia Pascal, 1904 ➜ C17). Il tema assume diverse valenze a seconda degli autori e dei modelli culturali. Per verificarlo può ad esempio risultare molto utile il confronto tra due romanzi del “doppio” composti a distanza di pochissimi anni l’uno dall’altro: appunto Il ritratto di Dorian Gray e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di cui presentiamo online un passo significativo.

online

Per approfondire Il doppio e il cinema

Peter Schlemihl vende la sua ombra, dal libro di Chamisso.

Fissare i concetti Decadentismo, Simbolismo, Estetismo 1. Q ual è l’origine del termine Decadentismo? Quale relazione esiste tra Naturalismo e Decadentismo? 2. Quali sono le accezioni con le quali si è soliti designare il Decadentismo? 3. Quale poeta può essere considerato il precursore e il modello di riferimento del Simbolismo? 4. A che cosa allude l’aggettivo maledetti, riferito ai poeti parigini dell’ultimo scorcio del XIX secolo? Chi sono i principali artisti che appartengono alla cerchia dei poeti maledetti? 5. Quale ruolo assume l’uso del simbolo da parte dei poeti maledetti? 6. Quale ruolo deve assumere, secondo Rimbaud, il poeta? 7. Quali caratteristiche deve presentare la poesia, secondo Verlaine? 8. Perché a proposito di Mallarmé si può parlare di «simbolismo oscuro�? 9. Quali sono i principali “manifesti” letterari del Simbolismo? 10. Q uali sono i tratti essenziali dell’Estetismo? Perché può essere definito una tendenza del gusto e un fatto di costume? 11. Q uali sono i romanzi più rappresentativi dell’Estetismo?

online T6 Robert Louis Stevenson

Un celebre caso di “sdoppiamento”: Jekyll e Hyde Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

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Secondo Ottocento Duecento e Trecento La letteratura cortese Decadentismo, Simbolismo, nella Francia feudale Estetismo

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Il Decadentismo: un’etichetta controversa

Il termine “decadentismo” nasce in Francia come espressione del giudizio negativo della critica tradizionalista nei confronti di giovani artisti i quali si proponevano di scandalizzare i benpensanti. “Manifesto” del Decadentismo è considerato il sonetto Languore (1884) di Paul Verlaine. In senso stretto il termine “decadentismo” identifica il movimento letterario che dà vita alla poesia simbolista, i cui principali esponenti sono Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.

2 Il Simbolismo

Nella seconda metà dell’Ottocento si crea una poesia radicalmente nuova, fondata su liberi nessi analogici e un linguaggio allusivo e simbolico. Rispetto al Romanticismo la nuova poesia riprende tematiche già presenti, ma respingendo le effusioni intimistiche e sentimentali e rifiutando qualsiasi ruolo impegnato nella società e nella politica. Maestro indiscusso della nuova poesia è Charles Baudelaire; sulla sua scia si collocano alcuni poeti anticonformisti, definiti da Verlaine “poeti maledetti”: Arthur Rimbaud, che teorizza la necessità che il poeta si faccia mago, visionario, per attingere all’essenza della realtà, per cogliere l’ignoto dentro e fuori di noi e dar voce all’inesprimibile; lo stesso Verlaine, che respinge l’impiego della rima e l’uso definitorio e preciso della parola in nome della pura musicalità e distingue la poesia (sempre fine a sé stessa) da ogni impiego pratico; e Stéphane Mallarmé, nella cui opera in particolare domina un simbolismo oscuro, che rende la poesia un’esperienza per iniziati e il poeta una sorta di “sacerdote” della parola.

3 L’Estetismo

Negli ultimi due decenni dell’Ottocento si afferma la corrente dell’Estetismo, un mutamento della sensibilità degli artisti che assume i caratteri di una netta opposizione al credo naturalista e al ruolo “sociale” impegnato dell’intellettuale e consiste nel culto esasperato della bellezza (ma una bellezza complicata, artificiosa) e nel tentativo di trasformare la propria esistenza in un’“opera d’arte”. Tra i romanzi fondamentali dell’Estetismo vi sono A ritroso di Joris-Karl Huysmans e Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

Zona Competenze Esposizione orale

1. In un intervento orale di massimo 5 minuti spiega per quali aspetti la poetica simbolista segna una radicale frattura rispetto al linguaggio poetico della tradizione.

Scrittura

2. Delinea i tratti che fanno dell’esteta un nuovo modello di uomo e di intellettuale. Per quali aspetti della sua vita, della sua figura e della sua opera Oscar Wilde può impersonare l’esteta?

Sintesi

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Secondo Ottocento CAPITOLO

10 Giovanni Pascoli CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo Pascoli Visto da Manara Valgimigli

Le caratteristiche principali della personalità di Pascoli, fissate nel ricordo dell’amico grecista e filologo Manara Valgimigli (1876-1965), coincidono con il modello di poeta tracciato da Pascoli stesso nel saggio Il fanciullino e sviluppato nelle sue poesie: la tendenza a privilegiare le impressioni, il procedere per «notazioni immediate» piuttosto che per “ragionamenti”, l’attenzione alle “cose” della vita quotidiana («il volto di un bimbo») e della natura («il colore e il rumore del mare»), ma soprattutto la capacità di meravigliarsi, la persistenza di uno “sguardo” infantile.

Aveva quel suo parlare a scatti, di impressioni, di notazioni immediate: tutto cose, res, niente o scarsa razionalità. Perché era tutto nelle cose; e tutto vedeva e notava, e tutto faceva vedere e notare: il volto di un bimbo, il grido di un venditore, dei fiori a una finestra, il colore e il rumore del mare. Stupì, un giorno, al colore azzurrissimo dello stretto: «se ci tuffi una mano – disse – gocciola azzurro». Poeta ut puer. Di espressioni come questa io e tanti potremmo ricordarne parecchie. Del resto, una vita che pareva essa stessa, come si racconta di certi poeti e filosofi antichi, costruita per la sua poesia. Inettitudine assoluta di uomo pratico: spesso impacciato, talora anche permaloso e scontroso e difficile. Viveva con la sua sorella e col suo cane: lui, tozzo e grosso, con quel suo cappelluccio tondo; Gulì al guinzaglio; e Mariù alla finestra che lo seguiva e aspettava nell’andare e tornare. [...] Con la sua sorella, in cucina, badava al mangiare: che amava gioiosamente, com’è costume, un po’ goloso, della gente di Romagna. A Castelvecchio si faceva anche il pane; curava le sue api, i suoi fiori, il suo pezzetto di terra. Insomma, una vita ch’era tutta quanta, naturalmente, una fitta trama di motivi poetici. M. Valgimigli, Pascoli, Sansoni, Firenze 1956

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Il nome di Giovanni Pascoli evoca immediatamente la tradizione scolastica, di cui per decenni è stato uno dei “cavalli di battaglia”: le sue poesie più celebri sono state memorizzate da moltissimi studenti in tutta Italia, soprattutto nelle scuole elementari e medie. Una tradizione di lettura che ne ha tramandato a lungo un’immagine falsata, di poeta ingenuo, semplice, cantore degli affetti familiari e della campagna. Pascoli, al contrario, è uno dei poeti più inquietanti e moderni della nostra letteratura, forse il primo ad aver dato voce nelle sue poesie ai fantasmi dell’inconscio. La critica ne ha ormai messo in luce il ruolo di innovatore della nostra poesia che egli immette nel circuito della cultura europea maggiore quasi inconsapevolmente, per solitaria, geniale intuizione. La sua poesia attinge alla vita della natura e della campagna, ma le immagini impiegate superano il piano descrittivo per assurgere a oscure significazioni simboliche.

1 Ritratto d’autore Temi e forme 2 della poesia pascoliana Pascoli 3 e il Novecento 361 361

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1 Ritratto d’autore 1 Una vita segnata dall’ossessione dei ricordi L’infanzia Giovanni Pascoli nasce nel 1855 a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli). Il padre è amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia; la numerosa famiglia (Giovanni è il quarto di dieci figli) vive in una condizione agiata che consente ai figli maschi di studiare nel prestigioso collegio degli Scolopi a Urbino, dove viene impartita una rigorosa formazione classica. Nonostante la presenza dei fratelli Giacomo e Luigi, per Giovanni il distacco dal contesto familiare e soprattutto dalla madre, è doloroso, segno di un rapporto molto intenso con lei, rafforzato dalla comune sensibilità verso la natura. L’irrompere della tragedia Il 10 agosto 1867 (la data sarà scelta a titolo di una delle più celebri poesie pascoliane ➜ T2 ), quando il poeta ha solo dodici anni, avviene l’evento drammatico che segnerà la sua vita

Giovanni Pascoli (a destra) con il padre e i fratelli Giacomo e Luigi (1862).

Cronologia interattiva 1861

È proclamato il regno d’Italia.

1850

1871

Dopo la breccia di porta Pia, Roma diventa capitale d’Italia. A Parigi si instaura il governo della Comune.

1860 1855

Nasce a San Mauro di Romagna.

1887

1878

Il re Umberto I succede a Vittorio Emanuele II.

1870

1862

1884

Primo governo Crispi.

Inizia la politica coloniale italiana.

1880 1882

Entra nel collegio degli Scolopi a Urbino; vi rimarrà fino al 1871.

Si laurea e comincia a insegnare latino e greco al liceo di Matera.

1867

Il 10 agosto il padre viene ucciso. 1873

Frequenta la facoltà di Lettere a Bologna (è allievo di Carducci). 1875-1878

Dopo gli iniziali successi, gli studi proseguono a fatica. Si avvicina al socialismo anarchico.

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e che è destinato a incidere profondamente sulla sua stessa opera poetica: mentre tornava in calesse a casa, il padre è assassinato. L’omicidio (oggi attribuito a gelosie e rivalità di lavoro) resta impunito. Al trauma per l’evento che lo rende orfano, si accompagna così in Pascoli un senso lacerante di ingiustizia che lo spingerà per lungo tempo a cercare (anche se invano) i responsabili del delitto. La morte violenta del padre, nell’immaginario del poeta, è irrazionalmente associata alla catena di lutti che a breve sconvolse la famiglia (la sorella maggiore, la madre, il prediletto fratello Luigi) ed è da lui considerata all’origine della sua stessa infelicità esistenziale: «il delitto» scrive «che mi privò di padre e di madre, e, via via, di fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita». La centralità della morte del padre nell’universo interiore di Pascoli (dovuta a quella che la psicoanalisi definisce “mancata elaborazione del lutto”) determina la ricorrente presenza nella sua poesia del tema della morte e il costante, ossessivo, riferimento ai familiari defunti. Nella situazione infelice e precaria che si viene a creare, è il fratello maggiore Giacomo ad assumere la guida della famiglia rimasta, diventandone il «piccolo padre», come lo chiamerà affettuosamente Giovanni. Gli studi e la fase della ribellione Completati gli studi liceali, Pascoli ottiene una borsa di studio che gli consente di iscriversi alla facoltà di Lettere a Bologna (1873): a esaminarlo è Giosue Carducci che, professore di letteratura italiana, domina ancora con la sua personalità e la sua opera l’ambiente accademico, mentre le tendenze poetiche europee sono orientate verso nuove concezioni e soluzioni espressive (e a queste, non alla lezione carducciana, si allineerà la poesia pascoliana). La morte nel 1876 anche del fratello maggiore Giacomo sancisce la disgregazione irreparabile del nucleo familiare, aggravando a tal punto il malessere esistenziale del poeta da farlo pensare al suicidio e da indurlo, anche per le gravi difficoltà economiche, a interrompere gli impegni universitari. Si avvicina 1891

Esce l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII.

1911

Il governo italiano presieduto da Giolitti dichiara guerra alla Libia.

1892

Nasce a Genova il Partito socialista italiano. 1896

L’esercito italiano viene sconfitto ad Adua dall’esercito etiope.

1912

Benito Mussolini diventa direttore dell’«Avanti!».

1898

I moti popolari a Milano sono repressi dal generale Bava Beccaris.

1890

1903

Secondo governo Giolitti.

1900

1910 1909

1897

Pubblica il saggio di poetica Il fanciullino; prima edizione dei Poemetti. 1896

Insegna grammatica greca e latina all’Università di Bologna. 1895

Si trasferisce con la sorella Maria a Castelvecchio di Barga in Garfagnana dopo il matrimonio della sorella Ida.

1906

Nuovi poemetti.

Odi e inni. 1905

Succede a Carducci alla cattedra di Letteratura italiana a Bologna. 1904

Primi poemetti e Poemi conviviali.

1920 1912

Pascoli muore a Bologna. 1911

Pronuncia il discorso La grande proletaria si è mossa; pubblica i Poemi italici e Le canzoni di re Enzio.

1903

È trasferito all’Università di Pisa; nello stesso anno pubblica i Canti di Castelvecchio.

1891

Prima edizione di Myricae.

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PER APPROFONDIRE

ai gruppi politici anarchici e socialisti che denunciavano le ingiustizie sociali da cui lui stesso si sentiva colpito e si iscrive all’Internazionale, guidata in Romagna da Andrea Costa. Nel 1879, in seguito a una dimostrazione in favore degli anarchici, viene arrestato con l’accusa di sovversione e oltraggio alla forza pubblica e trascorre alcuni mesi in carcere. L’esperienza traumatica (sebbene venga alla fine scagionato da ogni imputazione grazie alla testimonianza di Carducci) segna la fine della breve stagione della ribellione e dell’attività politica; degli ideali giovanili resterà nel poeta la fedeltà a un’idea di socialismo umanitario che supporterà con i valori del cristianesimo.

Un’interpretazione psicoanalitica La critica letteraria di orientamento psicoanalitico ha interpretato la continua e ossessiva presenza del tema funebre nella poesia di Pascoli attraverso la teoria del complesso edipico che, secondo la concezione freudiana, accomuna nell’infanzia tutti gli individui, e generalmente si risolve nel cosiddetto “periodo di latenza” (quando inizia l’età scolare), mentre per il poeta coincise con la forzata e dolorosa separazione dalla madre e la successiva, improvvisa morte del padre. Secondo Elio Gioanola, studioso particolarmente attento alle dinamiche psichiche attive nell’opera degli scrittori, la perdita del genitore rappresentò per Pascoli la sconvolgente realiz-

zazione delle fantasie di “morte del padre” vissute da ogni bambino nella fase edipica. Quando, per un caso imprevedibile e totalmente estraneo alla sua responsabilità, la morte del padre si realizzò effettivamente, generò nel bambino, ancora incapace di distinguere tra fantasia e realtà, un profondo senso di colpa, che continuò ad angosciarlo per tutta la vita. Quel sentimento suscitò in lui alternativamente il desiderio di condividere il destino paterno (nella poesia Il bolide immagina di ritornare nel luogo dove fu ucciso il padre e di essere a sua volta ucciso) e di espiare quella morte, vissuta inconsciamente come una colpa.

L’insegnamento liceale Dopo aver ripreso gli studi, Pascoli si laurea nel 1882 con una tesi, in letteratura greca, sul poeta Alceo. Appena laureato inizia subito la carriera di insegnante liceale, prima nella lontana sede di Matera, poi a Massa e quindi a Livorno. È questa una fase serena della sua vita, come il poeta stesso la definisce, nella quale riprende l’attività poetica iniziata durante l’università e pubblica la maggior parte delle poesie che confluiscono nella raccolta Myricae (la prima edizione è del 1891). Il progetto di ricostituzione del “nido” familiare In questa circostanza progetta di ricostituire l’unità della famiglia che era stata disgregata dai lutti e chiama a vivere con lui (prima a Massa, poi a Livorno) le sorelle minori Ida e Maria, vissute in quegli anni prima in un collegio di suore e poi ospitate da una zia. Il “nido” familiare così ricostituito rappresenterà da questo momento per Pascoli una difesa nei confronti del mondo esterno, avvertito come minaccioso, ma diventerà al contempo una sorta di prigione che impedirà al poeta di vivere una vita affettiva matura. Verso la fine degli anni Ottanta, dopo il trasferimento a Livorno, emerge nel poeta una condizione di disagio psicologico: la scelta di vivere con le sorelle rinunciando a costituire una famiglia propria sembra non essere sostenuta più da un’emozione vitale ma è basata «sull’esercizio forzato del sacrificio» (Garboli). Il sentimento di infelicità per la rinuncia fatta, e per la forzata castità che ne è derivata, si acuisce nel 1895 quando il progetto del “nido” familiare amorosamente ricostruito viene infranto: Ida, la sorella prediletta (che Pascoli chiamava la reginella), decide di sposarsi, spezzando in questo modo il vincolo di solidarietà esclusiva che si era costituito tra i fratelli e provocando nel poeta un vero e proprio trauma. Nel momento di disorientamento psicologico che lo opprime, Pascoli pensa a sua volta a un possibile matrimonio, ma poi abbandona l’idea e

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rafforza invece il legame con la sorella Maria (Mariù), da questo momento unica compagna della sua esistenza. La nuova fase è sancita dall’acquisto, grazie alle medaglie d’oro vinte al concorso di poesia latina di Amsterdam, di una casa a Castelvecchio di Barga (ora Castelvecchio Pascoli), alla ricerca di un equivalente della dimora familiare originaria di San Mauro.

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Video Visita alla Casa Museo Giovanni Pascoli di Castelvecchio Pascoli

La fama, il ruolo di carducciano poeta vate In seguito ai riconoscimenti ottenuti dalla sua poesia può intraprendere la carriera universitaria: dopo una serie di incarichi nell’ambito delle lingue classiche (prima a Bologna, poi a Messina e a Pisa), nel 1906 succederà a Carducci alla prestigiosa cattedra di letteratura italiana a Bologna. Gli anni dell’insegnamento universitario e di Castelvecchio rappresentano un periodo di intensa creatività e produzione poetica in italiano e latino, a cui si aggiunge anche la composizione di saggi critici e di poetica, il più importante dei quali è Il fanciullino (1897). Nello stesso anno pubblica i Poemetti; nel 1903 i Canti di Castelvecchio e l’anno successivo i Poemi conviviali. A partire dalla fine del secolo il poeta si impegna anche in discorsi celebrativi in occasione di ricorrenze civili o d’occasione (ad esempio L’era nuova nel 1899 e L’avvento nel 1901) o addirittura politici come La grande proletaria si è mossa per la guerra di Libia (1911) (➜ D5 OL). Pascoli avvertiva probabilmente il bisogno di emulare Carducci nell’impegno ideologico, che si manifesta in una produzione poetica di carattere civile giudicata dalla critica poco favorevolmente: nel 1906 escono Odi e inni, e negli anni successivi le Canzoni di re Enzio (1908-1909, di argomento medievale), i Poemi italici (1911), i Poemi del Risorgimento (pubblicati postumi nel 1913). Nonostante i successi e i riconoscimenti, la malinconia e il senso di frustrazione suscitati dalla rinuncia a una vita affettiva normale lo spingono a eccedere nell’alcool, che mina la sua salute. Muore a Bologna nel 1912, anno in cui ottiene l’ennesima vittoria al concorso di Amsterdam con il poemetto Thallusa.

Pascoli passeggia nella sua casa a Barga.

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2 La concezione dell’uomo e la visione del mondo Il tema della violenza primitiva e l’utopia della fratellanza Le radici autobiografiche della visione pascoliana dell’uomo Le radici profonde della concezione pascoliana dell’uomo e della vita vanno cercate nel trauma infantile della morte del padre, rispetto alla quale Pascoli assegna alla propria opera una sorta di funzione riparatrice della memoria e della figura paterna (non a caso Myricae è dedicato al padre). Il tragico evento ispira direttamente alcuni componimenti: dal celeberrimo X agosto (➜ T2 ) in Myricae, a Un ricordo, Il nido dei “forlotti”, Un ritratto, La cavalla storna nei Canti di Castelvecchio. Ma, al di là dei riferimenti espliciti presenti nei testi, l’uccisione del padre costituisce il nucleo chiave dell’immaginario pascoliano, da cui derivano temi ricorrenti come la morte e l’assenza/presenza dei morti e la sua stessa visione della vita umana. Nella prefazione a Myricae, proprio ricordando l’assassinio del padre e la catena di lutti e di dolori che ne derivò, Pascoli esprime in sintesi la sua filosofia: essa è fondata sull’opposizione tra la natura, concepita come buona, e la malvagità istintiva degli uomini: i rapporti umani sono dominati, fin dalle origini dell’umanità, dalla violenza (vicenda fondante in tale concezione è il fratricidio di Caino). Il superamento della ferinità Per Pascoli l’evoluzione dell’uomo (tema chiave del dibattito culturale del tempo) non ha ancora portato all’annullamento della ferinità originaria: la meta dell’evoluzione della specie umana deve essere quello che Pascoli definisce homo humanus, uno stadio che comporta la rinuncia alla violenza. Il superamento dell’istinto aggressivo non si realizza però potenziando la razionalità: nel discorso L’avvento sostiene che a distinguere l’uomo dal bruto non è l’intelligenza ma la pietà; al contrario, a suo avviso, la ragione e la scienza finiscono per allearsi per produrre nuove forme di aggressività attraverso i ritrovati della tecnologia, che arriva a far «piovere la distruzione dal cielo». Solo la pietà, la fratellanza verso i propri simili, fondata sulla comune coscienza della mortalità dell’uomo (come Pascoli afferma nella prosa L’era nuova), può sradicare negli uomini la preminente componente istintuale ponendo così fine alla catena delle violenze. Da questi presupposti deriva l’adesione da parte di Pascoli al cristianesimo, che egli considera essenzialmente come religione del sacrificio e dell’amore testimoniati dalla croce di Cristo. Il messaggio cristiano è in grado di dare un significato al dolore imprescindibile dall’esperienza umana e insegna a dominare l’istintualità, a sublimare l’aggressività nell’amore realizzando l’homo humanus promesso dalla nascita di un bambino in una stalla. Di questa visione del cristianesimo sono espressione i Poemata christiana in cui la nuova fede contrappone al valore del dominio, proprio del mondo romano, il concetto di fratellanza. La missione etica della poesia La poesia stessa ha per Pascoli la missione di esorcizzare il “mostro”, la “bestia” che l’uomo ha dentro di sé: «Sei tu, poeta, e non altri colui che deve spogliare gli uomini della loro ferinità». Per questo la poesia deve cantare «la bontà [...] l’integrazione del genere umano», sopire l’odio tra gli uomini, esercitando una funzione umanizzatrice, così come il mitico poeta Orfeo era capace di ammansire le belve col suo canto.

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Una concezione antipositivistica della realtà La realtà come indecifrabile mistero Pascoli ebbe una formazione positivista di cui resta evidente traccia nella precisione con cui utilizza termini ornitologici o botanici e si riferisce alle fasi e agli strumenti del lavoro dei campi. Ma il poeta matura ben presto una visione critica dello scientismo e dell’ottimismo positivistico: in contrasto con quella concezione, la realtà nella sua poesia appare disgregata, priva di una logica organizzativa e dominata dal mistero e dalla morte. Pascoli esprime le inquietudini proprie del suo tempo, nel quale le istanze irrazionalistiche prevalgono sulla fiducia nella scienza e nel progresso: il significato profondo della realtà risulta inaccessibile all’indagine scientifica, mentre è all’intuizione del poeta che viene attribuito il potere di oltrepassare le apparenze fenomeniche per coglierne il senso. Non è casuale, ma acquista anzi valore emblematico, il fatto che lo scenario di non pochi componimenti pascoliani sia l’oscurità serale o notturna (ad esempio Il chiù e L’assiuolo ➜ T8 ), alla quale a volte alludono esplicitamente i titoli stessi delle liriche (Notte, Mezzanotte, Notte dolorosa ecc.). Nella visione pascoliana la realtà è infatti pervasa dal mistero, un tema che nella lirica Nella nebbia (➜ T12 OL) assume tratti particolarmente angosciosi: nella nebbia che tutto avvolge sembra dissolversi la consistenza stessa della realtà. La ricerca di un senso è condannata a rimanere inesorabilmente sconfitta: un tema che Pascoli rappresenta in molti testi (si veda ad esempio il madrigale Un gatto nero ➜ D1c OL), ma in modo particolarmente emblematico nella figurazione allegorica che è al centro del poemetto Il libro (➜ D1a OL): un uomo sfoglia ansiosamente un libro aperto (significativamente definito «il libro del mistero») cercando una risposta alle eterne domande dell’uomo; ma la sua affannosa ricerca rimane senza esito, così che ricomincia ogni volta da capo a ripercorrere il libro («e torna ad inseguire il vero»). La solidarietà tra gli uomini e il rapporto con la natura come consolazione Di fronte al dolore del mondo e al mistero insondabile della vita, l’uomo può trovare qualche consolazione nei legami familiari e nella solidarietà tra gli uomini, come Pascoli scrive nella prefazione ai Primi poemetti, in cui è evidente la lezione della Ginestra di Leopardi: «Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande e che il meglio che ci sia da fare è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura». Anche la vita semplice e familiare della campagna, a contatto diretto con la natura, assume per Pascoli un ruolo consolatorio rispetto al doloroso destino dell’uomo. Un idillio impossibile D’altra parte in Pascoli l’idillio con la natura che sembra, almeno a prima vista, ispirare molti componimenti, soprattutto in Myricae si rivela solo apparente ed è comunque sempre precario, perché insidiato costantemente dall’irrompere di immagini inquietanti, da segnali di morte, in cui si riflettono le angosce esistenziali del poeta. Ne è quasi emblema la celebre poesia Novembre (➜ T4 ): la natura primaverile, di cui l’anima gode per un momento, è vana apparenza e cela la realtà della gelida stagione dei morti. Del resto sempre in Pascoli le immagini e le voci della natura hanno significati oscuri e nascosti, che è compito del poeta cogliere e trasmettere. Nelle poesie di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, la campagna e la natura, pur rappresentate nei loro aspetti comuni e nelle attività quotidiane, sono sempre animate da presenze misteriose, spesso evocate dai gridi inquietanti degli uccelli, come il chiù nell’Assiuolo (➜ T8 ). Ritratto d’autore 1 367

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Pascoli, il suo mondo e la sua poetica esperienze di vita e visione del mondo

drammi familiari

società dominata dalla violenza

poesia e socialismo umanitario come strumenti per migliorare l’umanità

la realtà è pervasa dal mistero

la realtà è inconoscibile per via razionale

la poesia è una forma di conoscenza pre-razionale

teorizzazioni nel saggio Il fanciullino (1897)

online D1 Il mistero indecifrabile

della condizione umana Il mistero della vita, rappresentato in chiave simbolica, è al centro dei componimenti proposti. In D1a OL protagonisti sono un libro e un uomo intento a sfogliarlo per decifrarne il messaggio nascosto; in D1b OL la ricerca inappagata della verità è presentata in un insolito scenario cittadino, mentre in D1c OL è la figura di un vecchio, che anela a conoscere il significato ultimo dell’esistenza, a simboleggiare un destino comune a tutti gli uomini. Giovanni Pascoli D1a Una trasparente allegoria del mistero della vita Primi poemetti, Il libro Giovanni Pascoli D1b Mezzanotte Myricae Giovanni Pascoli D1c Un gatto nero Myricae

Giovanni Segantini, Le due madri, olio su tela, 1889 (Galleria d’Arte Moderna, Milano).

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3 La poetica Il saggio Il fanciullino Pascoli ha espresso la sua concezione della poesia in alcuni scritti teorici, il più organico e significativo dei quali è certamente Il fanciullino: strutturato in venti brevi capitoli, il saggio è pubblicato nella versione definitiva nel 1903. Il poeta è identificato da Pascoli con il fanciullino: il che significa che è poeta solo chi sa aderire al nucleo infantile che sopravvive nell’individuo adulto, chi sa rivivere il rapporto istintivo e alogico che il bambino ha con la realtà e che nell’età adulta tende a essere represso dal predominio della razionalità, chi è ancora capace di meravigliarsi come solo i bambini sanno fare. Proprio questa facoltà rende il poeta in grado di attingere a una visione più profonda della realtà, di entrare in contatto con il mistero delle cose scoprendovi «le somiglianze e relazioni più ingegnose». La meraviglia del “poeta fanciullo” per Pascoli corrisponde allo sguardo innocente con cui gli antichi guardavano il mondo («Tu sei antichissimo, o fanciullo! E vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente»): concezione analoga a quella leopardiana, espressa in particolare nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, secondo cui gli antichi avevano un rapporto autentico con la natura e la capacità di immaginare e fantasticare, considerata dal poeta di Recanati fonte della vera poesia. La poesia come scoperta dell’intrinseca poeticità delle cose semplici Nella concezione di Pascoli la poesia non è invenzione del poeta ma scoperta di una dimensione poetica che è nelle cose stesse, e si tratta, per Pascoli, delle cose umili, quotidiane (nel caso della sua poesia, per lo più appartenenti al mondo della campagna): sono queste a suscitare in noi emozioni ben più intense che gli oggetti rari, ricercati, se un particolare sguardo le osserva con spontanea adesione “illuminandole”. Perché si realizzi questa visione rivelatrice, è però necessario liberarsi, oltre che dalla logica razionale, dai modelli culturali e dal peso della tradizione retorica (mentre la vera poesia “illumina” le cose, certi poeti “abbagliano” gli occhi). Proponendo un’immagine “ingenua”, “innocente” di poeta, Pascoli polemizza con la tradizione letteraria “alta” e con la tendenza all’imitazione di modelli consacrati, che caratterizza la storia poetica italiana: nella concezione pascoliana la poesia nasce dall’ascolto della natura, non dalla cultura. Il fanciullino “veggente” Al “fanciullino” è attribuita la capacità di vedere oltre l’apparenza delle cose: con lo sguardo meravigliato e stupito che lo contraddistingue, egli entra in contatto con la dimensione profonda della realtà, scoprendo i significati nascosti che sfuggono agli altri uomini, distratti dai problemi materiali della vita. Nella sua capacità di cogliere l’essenza del reale attraverso l’intuizione poetica il fanciullino-poeta pascoliano ha evidenti analogie con la figura del poeta “veggente” della poetica simbolista. La lingua poetica Nel saggio anche il problema dei modi espressivi è ricondotto alla dimensione infantile: il linguaggio della poesia, secondo Pascoli, non deve rifarsi alle convenzioni letterarie, ma assumere come modello quello del bambino, che lo pratica con l’immediatezza e la spontaneità del gioco e fa propria la capacità originaria dell’uomo di dare il nome alle cose («egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò Ritratto d’autore 1 369

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che vede e sente»); il fatto di riportare la parola poetica alla forma ritmica e ludica, propria dell’infanzia dell’umanità e dell’individuo, permette di recuperare l’intensità espressiva della lingua primigenia che il progresso del linguaggio ha perso. I saggi critici pascoliani Se Il fanciullino resta il testo più complesso e completo dell’elaborazione teorica di Pascoli, altri saggi del poeta rappresentano una tappa significativa per la messa a punto della sua poetica: i più significativi sono gli studi critici dedicati a Leopardi (Il sabato, La ginestra), la cui influenza fu importante nell’elaborazione della sua concezione; al poeta di Recanati lo avvicinava, pur nelle profonde diversità, anche la visione pessimistica. Numerosi sono i saggi dedicati da Pascoli ad autori e temi della letteratura, che sono stati raccolti, insieme a scritti di vario genere, in Miei pensieri di varia umanità (1903) e in Prose e discorsi (1907). La produzione critica che oggi viene riconosciuta come più importante è però quella che Pascoli dedicò a Dante e che è raccolta in tre volumi: Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1902); fatta oggetto di giudizi negativi al tempo in cui uscì per i criteri diversi rispetto a quelli dominanti nella lettura della Divina Commedia, è stata oggi rivalutata proprio per l’interpretazione allegorica che la contraddistingue e che rappresenta un’anticipazione delle moderne letture del poema dantesco.

PER APPROFONDIRE

Carl Vilhelm Meyer, Ritratto di un bambino, c. 1914 (Bruun Rasmussem, Copenhagen).

Alle radici del “fanciullino” pascoliano: possibili fonti e consonanze Interpretata talvolta come semplice mito regressivo, di scarso valore teorico, originato dai noti eventi biografici che relegarono il poeta stesso a una condizione “non adulta”, psicologicamente ancorata all’infanzia e ai suoi traumi irrisolti, la “poetica del fanciullino” è invece nutrita di diverse suggestioni culturali che le conferiscono spessore concettuale e significato di proposta autorevole nel panorama letterario del tempo. L’immagine metaforica del fanciullo è tratta dal Fedone di Platone, e ha anche chiare ascendenze vichiane nel parallelismo tra infanzia individuale e infanzia dell’umanità e nel riconoscimento di una fase spontaneamente “poetica” dell’umanità, che utilizza un linguaggio lontano dalla logica razionale. Ma è al pensiero di Leopardi (in particolare alla fase giovanile di esso, antecedente alle Operette morali) a cui è stata più frequentemente accostata la poetica pascoliana: infatti Leopardi associa la facoltà poetica, coincidente con la facoltà immaginativo-fantastica, con la condizione pre-razionale, sia dell’individuo sia dell’umanità. Tuttavia Cesare Garboli, uno dei maggiori studiosi di Pascoli, fa notare che all’epoca in cui Pascoli compone il primo, e più originale, nucleo della sua poetica (1897) poi sviluppato nel Fanciullino, ancora non era iniziata la pubblicazione dello Zibaldone, che fu avviata solo dal 1898, e solo molti anni dopo (1906) sarebbe stato pubblicato il Discorso di un italiano sulla poesia romantica (1818) che contiene le affermazioni leopar-

diane più vicine alla poetica del “fanciullino”. Si tratterebbe perciò più di una consonanza che di un’influenza diretta, fondata sui testi lirici più che sulle riflessioni teoriche leopardiane: ad esempio. nella Canzone ad Angelo Mai (1821) si legge un’enunciazione significativa come questa: «assai più vasto / l’etra sonante e l’alma terra e il mare / al fanciullin, che non al saggio, appare» (vv. 88-90). Più significativo potrebbe essere secondo Garboli il raffronto con poeti e scrittori inglesi dell’Ottocento: in particolare Wordsworth, Ruskin e soprattutto lo scritto Sugli eroi di Thomas Carlyle (1795-1881), pubblicato nel 1896 e che ebbe subito grande successo nella cultura europea: in particolare un passo del capitolo III, intitolato L’eroe come poeta, mostra non poche analogie con la parte iniziale del Fanciullino, non escluso il riferimento al Fedone di Platone presente anche nel testo di Carlyle. Se queste sono ipotesi, un dato certo è l’influenza esercitata sull’elaborazione del Fanciullino dalle riflessioni dello psicologo inglese James Sully (1842-1923) in Studi sull’infanzia (1895). Nella biblioteca di Castelvecchio è stata infatti ritrovata una copia dell’opera, sottolineata e annotata da Pascoli. Lo psicologo inglese può aver fornito alla concezione pascoliana un fondamento anche scientifico, relativo alla psicologia e alla specifiche modalità percettiva del bambino, nonché al suo linguaggio.

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Giovanni Pascoli

Il poeta “fanciullino”

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EDUCAZIONE CIVICA

Il fanciullino I, III, XI I primi due passi antologizzati appartengono ai capitoli iniziali del saggio, che delineano il particolare rapporto del fanciullino-poeta con la realtà, l’ultimo alla parte finale dell’opera, dedicata alla sua funzione di «ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano».

G. Pascoli, Il fanciullino, in Pensieri e discorsi, Mondadori, Milano 1952

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È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi1, come credeva Cebes Tebano2 che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi3. Quando la nostra età è tuttavia4 tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli5 che ruzzano e contendono6 tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo7. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello8. Il quale tintinnio9 segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita10, meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona. [...] Ma è veramente in tutti il fanciullo musico11? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. Egli non avrebbe dentro sé quel seno concavo12 da cui risonare le voci degli altri uomini; e nulla dell’anima sua giungerebbe all’anima dei suoi vicini. [...] Ma io non amo credere a tanta infelicità. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva13. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone

1 brividi: paure. 2 Cebes Tebano: personaggio del dialogo

4 tuttavia: ancora. 5 due fanciulli: quello che è tale per l’età

Fedone di Platone; dopo la dimostrazione di Socrate che l’anima, in quanto immortale, esisteva prima della nascita dell’individuo e continuerà a esistere dopo la morte, Cebes, uno degli interlocutori del filosofo, sostiene che c’è in tutti un fanciullino che ha paura della morte. 3 lagrime... suoi: dolori e gioie che solo il fanciullino può comprendere.

e quello interiore, che è in lui. 6 ruzzano e contendono: si azzuffano e lottano per gioco. 7 un palpito... solo: un’unica espressione in quanto le due voci si sovrappongono. 8 tinnulo... campanello: la sua voce è tintinnante come lo squillo di un campanello.

9 tintinnio: termine onomatopeico come il precedente tinnulo. 10 occupati... vita: impegnati nella realizzazione della nostra esistenza. 11 musico: in quanto interprete dell’armonia della natura. 12 seno concavo: profondità d’animo. 13 ci salva: si intenda, dalla disperazione suscitata dalla morte.

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due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore14, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve15), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive16, e in un cantuccio dell’anima di 35 chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora17. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo 40 nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente18. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare19. Né il suo linguaggio è imperfetto 45 come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo20 anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta. C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra 50 il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere. [...] XI. Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il 55 fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. [...] Ma il poeta non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico21, non maestro, non tribuno o demagogo22, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spade e scudi e vomeri23; e nemmeno, con pace di tanti altri, un 60 artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga24. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. [...] 30

14 fa umano l’amore: priva l’amore della violenza del desiderio, che avvicina l’uomo alla condizione animale. 15 oh! il bisbiglio... belve: la comunicazione complice e affettuosa dei fanciulli è contrapposta alla violenza degli uomini, identificati con le belve (bramire è l’urlare di bestie selvatiche, specialmente del cervo). 16 fa echeggiare... pive: suscita l’emozione per i ritmi militari; pive: zampogne. 17 vapora... allora: rinnova anche in chi – adulto – non crede più, il ricordo della fede vissuta nell’infanzia. 18 l’Adamo... sente: è un riferimento al passo della Genesi (2, 20) sull’origine del

linguaggio: «Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche». 19 impicciolisce... ammirare: richiamo alla tecnica dell’amplificare e diminuire teorizzata da Aristotele nella Retorica. Pascoli la riprende per indicare una rappresentazione della realtà non oggettiva, che corrisponda alle emozioni suscitate nel poeta e capace di trasmetterne i significati simbolici. 20 prodigo: generoso. 21 istorico: storico. 22 tribuno o demagogo: nella società romana il tribuno era il magistrato eletto come portavoce degli interessi della plebe;

qui, come demagogo, il termine indica coloro che usano le capacità oratorie per affermare le proprie idee. 23 con pace... vomeri: la presa di distanza polemica è nei confronti di Carducci maestro e della sua concezione del poeta come artiere (➜ C3 D1 ). 24 un artista... porga: in questo caso oggetto della critica, con un probabile riferimento a D’Annunzio, è il preziosismo estetico, che si limita all’abbellimento di idee altrui; nielli, indica una particolare tecnica di incisione dei metalli a scopo decorativo.

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Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali25? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie26 di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova 70 subito piena delle lagrime di tutti. Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare27. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. 65

25 provvidenze civili e sociali: provvedi-

26 le masserizie: gli oggetti domestici,

menti inerenti la società.

necessari alla vita quotidiana.

27 arringare: esortare e convincere con un discorso.

Concetti chiave La valorizzazione della componente infantile dell’io

I tre brani espongono i principi fondamentali della poetica pascoliana. Il primo (cap. I) enuncia l’idea chiave che ne costituisce il presupposto: per Pascoli in ogni uomo vive un “fanciullino” (immagine metaforica del nucleo essenziale e primigenio dell’“io”), nelle cui percezioni Pascoli identifica la fonte e l’essenza della poesia. Nelle prime fasi della vita il nostro io si identifica totalmente nel fanciullino: le sue emozioni elementari sono anche le nostre. Quando, crescendo, cominciamo a provare nuovi desideri e interessi, questa parte primitiva, e spontaneamente poetica, del nostro mondo interiore non muore, ma sopravvive inalterata: esiste ancora dentro di noi quello sguardo meravigliato (rr. 5-7); uguale è rimasta l’esile voce infantile ma siamo noi a non udirne più il suggestivo richiamo («tintinnio segreto»).

Il “fanciullino” come componente imprescindibile di ogni uomo

Il secondo passo (cap. III) esplicita innanzitutto l’importanza del fanciullino non solo per il poeta ma per ogni uomo, negando la possibilità che in taluni individui possa essere assente: se non ci fosse, non solo l’esistenza sarebbe destinata all’infelicità («tanta a me parrebbe [...] la miseria e la solitudine»), ma addirittura gli uomini non potrebbero mettere in comune i loro sentimenti ed esperienze. Al “fanciullino” infatti appartengono le emozioni universali che animano la vita interiore: la paura, la capacità di sognare e di immaginare, di emozionarsi per le bellezze della natura, di provare sentimenti opposti senza un’apparente ragione. Nell’ultima parte del passo tuttavia Pascoli individua alcune tipologie umane e sociali poco sensibili alla “voce” della poesia (che comunque è assopita, non assente): il professore, troppo austero, il banchiere, attento ai propri interessi, ma anche il contadino e l’operaio, assorbiti dal loro duro lavoro.

Lo sguardo del fanciullino: una poetica dell’irrazionale e dell’“oltre”

La parte più interessante di questo passo consiste nell’indicazione delle qualità del “fanciullino”, in cui si esplicita la visione pascoliana della poesia, che si fonda sull’identità poeta-fanciullino (è poeta solo chi sa aderire al “fanciullino” che è dentro di lui). Viste nel loro complesso, le indicazioni delineano una visione della poesia come regressione a una condizione percettivo-immaginativa propria appunto del bambino, una visione fondata non soltanto sul rifiuto delle mediazioni culturali e dell’armamentario retorico, ma addirittura sull’abdicazione alla razionalità propria dell’uomo adulto: «Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione». Il fanciullino ama le fiabe e le leggende (r. 33); all’uomo moderno dell’età scientifico-positivistica, che ha perduto ormai la fede, il fanciullino suggerisce il barlume della dimensione religiosa sopravvissuta nel ricordo infantile (rr. 34-36). Lo sguardo con cui il fanciullino guarda alla realtà corrisponde di fatto a un’ottica “straniata”, dichiaratamente antioggettiva e antiscientifica («impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare»); grazie alla sua particolare visione, il poeta-fanciullino riesce a vedere oltre la realtà comune, scoprendo nelle cose le «relazioni più ingegnose»: viene qui accennata la tendenza, tipica della poesia pascoliana (e che la rende ben più moderna di quella dannunziana), ad accostare in modo inconsueto particolari apparentemente irrelati che il poeta collega attraverso una rete di

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analogie. Una visione (e una prassi poetica) che trova una spontanea consonanza con le “corrispondenze baudelairiane” (➜ C4), ma a distinguere nettamente le due esperienze è la particolare attenzione di Pascoli alle “piccole cose” semplici (rr. 17-22); sono queste a colpire la sua attenzione, quelle che sfuggono alla maggior parte degli uomini o che questi disdegnano.

Il ruolo del poeta nella società

Nell’ultimo passo (cap. XI) Pascoli si sofferma sul rapporto del poeta con la società riconoscendogli un ruolo fondamentale come «ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano»: questo gli deriva dall’essere espressione e portavoce del “fanciullino” e cioè degli aspetti più profondi e autentici dell’uomo e non dalla deliberata assunzione di uno specifico compito sociale. La poesia, infatti, non deve sottomettersi a scopi pratici perché è utile nella formazione dell’uomo per la sua stessa natura, a prescindere da finalità educative estrinseche che il poeta assolve invece esprimendo semplicemente la parola poetica: «Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo, evidenziane i punti chiave e sintetizza la tesi sostenuta dal poeta. ANALISI 2. Indica le prerogative del poeta fanciullino e le caratteristiche della poesia che a esse corrispondono. 3. Il fanciullino, e quindi il poeta, ha con la realtà un rapporto di tipo alogico: evidenzia nel secondo passo gli elementi che lo esprimono. 4. Il fanciullino è identificato nel testo con «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»: quale aspetto del linguaggio poetico è così espresso? 5. Una delle caratteristiche attribuite al fanciullino è la capacità di individuare relazioni tra le cose attraverso il procedimento analogico: individua il punto del testo in cui tale capacità viene enunciata. A quale poetica puoi ricollegare tale visione?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 6. Secondo Pascoli il poeta può svolgere con la sua opera una funzione educativa e civile, ma il poeta non deve farlo apposta, non deve essere né un tribuno né un demagogo. Condividi la posizione di Pascoli? Ti sembra che oggi, assistendo a quanto avviene nei talk show televisivi o in interventi in rete, gli intellettuali rispecchino l’atteggiamento auspicato da Pascoli? Scrivi le tue riflessioni in un testo di massimo 20 righe. SCRITTURA CREATIVA 7. Riconduci il testo all’interno sia della vita e della poetica pascoliana, sia della poetica del decadentismo e del simbolismo francesi. Scrivi le tue considerazioni in un testo di massimo 15 righe.

Adolfo Tommasi, Petriolo presso Firenze, olio su tela, 1884 (Collezione privata).

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4 L’ideologia sociale e politica Il difficile rapporto con la modernità Nei confronti delle straordinarie innovazioni tecnologiche che stavano rapidamente mutando il volto e le condizioni di vita della società in Italia, la posizione di Pascoli è ambivalente. Nel discorso L’era nuova definisce il secolo XIX che sta per concludersi «secolo della scienza» per l’impressionante produttività del sapere scientifico, di cui cita come emblema il treno e il telegrafo (➜ SCENARI, PAG. 42): ai nuovi mezzi riconosce un’utilità identificata nella velocità con cui gli uomini grazie a essi possono incontrarsi e comunicare. In realtà il poeta conserva una mentalità preindustriale, che ha le sue radici nel mondo rurale a lui familiare (La siepe ➜ D4 OL). Nei confronti della modernità Pascoli manifesta soprattutto preoccupazione e diffidenza: nelle trasformazioni prodotte dal progresso tecnologico vede una minaccia per il mondo contadino, i cui ritmi lenti gli sono congeniali. Nella breve poesia La via ferrata ➜ D3 OL) il mondo della tradizione che sopravvive all’avanzata del progresso è rappresentato da alcune mucche che pascolano placidamente ai margini della via ferrata su cui passa il telegrafo: la pacifica staticità degli animali è contrapposta all’inquieto dinamismo della tecnologia. D’altra parte Pascoli si rende conto che l’avanzata dell’industrializzazione potrebbe sconfiggere (o almeno ridimensionare) il problema dell’emigrazione dei contadini italiani all’estero, online a cui dedica il poemetto Italy (➜ T14 ): un fenomeno imponente D3 Giovanni Pascoli La via ferrata già a fine Ottocento e a cui Pascoli era particolarmente sensibile Myricae per la disgregazione del mondo agricolo che causava. Il rifiuto della lotta di classe in nome di un socialismo umanitario Nella visione pessimistica di Pascoli (motivata, come accennato, innanzitutto dall’omicidio impunito del padre) l’ingiustizia e la sopraffazione dominano la società. Per ribellarsi a questa realtà,aveva aderito in gioventù all’Internazionale socialista. Ma, dopo la difficile esperienza del carcere, e in seguito a una personale maturazione, si allontana dalle giovanili posizioni politiche. Nella maturità rifiuta la teoria marxista della lotta di classe, che considera non una risoluzione delle ingiustizie sociali ma una nuova forma di violenza. Ai violenti conflitti sociali Pascoli contrappone la necessaria concordia tra le classi, ispirata a ideali umanitari: l’impegno ad aiutare i più deboli, la pietà e la solidarietà. La difesa della piccola proprietà terriera Il modello umano in cui Pascoli si riconosceva (e che per certi aspetti idealizzava) era quello del piccolo proprietario terriero, la cui vita laboriosa era scandita dai ritmi rassicuranti delle stagioni e delle attività agricole: un universo naturale e umano ricco di valori positivi minacciato dall’avanzare del moderno capitalismo. Nel poemetto La siepe (➜ D4 OL) la difesa della piccola proprietà agricola è simboleggiata dalla siepe che delimita il confine e che tutela il campetto, garantendo al suo possessore la condizione di individuo libero: «io per te vivo libero e sovrano, / verde muraglia della mia città» (vv. 15-16). Attraverso un’immagine idealizzata del mondo campagnolo il componimento valorizza la funzione sociale della piccola proprietà terriera nel momento delle grandi trasformazioni in atto alla fine dell’Ottocento, quando la concentrazione della terra ad opera di grandi capitali sembrava segnare la fine di quella istituzione, come Pascoli denuncia nel discorso Una sagra (1900): «Il campicello è assorbito dal campo, il campo dalla tenuta, la tenuta dal latifondo, e via via. Intere nazioni, sto per dire, sono espropriate della loro proprietà fondiaria». Ritratto d’autore 1 375

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Il sostegno alla guerra di Libia: il nazionalismo “proletario” di Pascoli Nel discorso appena citato Pascoli critica anche l’aggressiva politica coloniale attuata dalle nazioni più forti a danno delle più deboli: «Si stanno edificando delle Ninivi e Babilonie e delle Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite. Esse conquisteranno, assoggetteranno, cancelleranno, annulleranno, intorno a sé, tutto, e poi si getteranno le une contro le altre con la gravitazione di meteore fuorviate». Nonostante l’analisi lucida e a tratti profetica rispetto alle conseguenze di quella politica (da cui prevede come risultato «un disastro»), Pascoli assume la difesa delle imprese coloniali italiane. In occasione della guerra di Libia (1911), nel discorso La grande Proletaria si è mossa (➜ D5 OL) Pascoli dichiara il proprio sostegno alla spedizione militare italiana (come fecero del resto molti altri intellettuali, tra cui Verga e D’Annunzio).

PER APPROFONDIRE

Le possibili ragioni di una scelta contraddittoria L’adesione di Pascoli alla politica coloniale italiana apparve in contrasto con il suo proclamato rifiuto della violenza e con le idee umanitarie da lui sostenute, e suscitò nei suoi confronti non poche critiche. Le motivazioni di quella scelta contraddittoria, e più in generale del mutamento ideologico del poeta (dal socialismo giovanile a posizioni nazionaliste), sono da ricercare, oltre che nell’influenza esercitata dal clima storico (e dal modello dannunziano), nell’origine sociale di Pascoli e anche nelle sue vicende biografiche. Dalla mitologia familiare Pascoli estende alla nazione intera la concezione protettiva del “nido”: la nazione è il “nido” di un popolo, che va difeso e protetto contro la politica aggressiva di altri popoli più forti. Pascoli accoglie e fa suo un concetto diffuso nella propaganda nazionalista di quegli anni: l’Italia è una nazione “proletaria”, ben diversa dalle nazioni potenti e capitalistiche. È una nazione che vede la sua popolazione più svantaggiata costretta a emigrare in massa. L’impresa coloniale italiana è quindi legittima perché potrà fruttare terra e lavoro agli italiani più poveri, interrompendo il dramma della disoccupazione e dell’emigrazione (a questo tema Pascoli aveva dedicato il poemetto Italy ➜ T14 ). online Un ulteriore elemento di legittimazione del colonialismo italiano si D4 Giovanni Pascoli può individuare nella formazione classicistica di Pascoli che lo inLa siepe Primi poemetti duce a vedere la guerra coloniale come un proseguimento della civilizzazione operata dalla Roma antica nel Mediterraneo; il mito della online rinascita della grande Roma è proposto nello stesso 1911 nell’Inno di D5 Giovanni Pascoli Roma, in occasione dell’anniversario dell’unità d’Italia. Diventerà in «La grande Proletaria si è mossa» Discorso a Barga seguito un modello per la retorica fascista.

Pascoli poeta “vate” Dopo la successione a Carducci all’università di Bologna si afferma nella produzione poetica di Pascoli un nuovo filone: forse spinto dal bisogno di emulare il maestro nell’impegno di poeta “vate”, cantore di valori civili e patriottici, ma anche di competere con il ruolo pubblico assunto da D’Annunzio, compone alcune raccolte dedicate alla celebrazione di quei valori. La prima è Odi ed Inni: pubblicata nel 1906, è preceduta dal motto Canamus (“cantiamo”), che rivela l’intento di una poesia alta, destinata a proporre un modello glorioso alla gioventù italiana a cui era indirizzata. In questa prospettiva il poeta assume come argomento vicende politiche e fatti di cronaca (le guerre coloniali, le esplorazioni polari ma anche i moti del 1898, l’uccisione del re Umberto I e dell’imperatrice Elisabetta

d’Austria, entrambe ad opera di anarchici) che sono commentati in una prospettiva morale e umanitaria, non priva di enfasi oratoria. I Poemi italici (1911) e i Poemi del Risorgimento (composti dal 1906 e incompiuti) sono invece dedicati alla celebrazione delle virtù d’Italia attraverso episodi eroici e personaggi celebri (fra cui Garibaldi e Mazzini). A queste raccolte si aggiungono l’Inno a Roma e l’Inno a Torino, composti in latino per i cinquant’anni dell’unità d’Italia e tradotti in italiano dal poeta. D’argomento storico, ma d’ambientazione medievale, è il trittico delle Canzoni di re Enzio (composte tra il 1908 e il 1909): sono dedicate a Enzo, figlio naturale dell’imperatore Federico II e prigioniero a Bologna (seconda metà del Duecento).

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Temi e forme della poesia pascoliana 1 Un’opera sincronica Pascoli lavorava contemporaneamente a diverse raccolte poetiche: mentre porta avanti la prima raccolta, Myricae (1891), ampliandola e rivedendola (l’ultima edizione è del 1911), avvia in parallelo nuove raccolte, anch’esse nel tempo ampliate e rimaneggiate. La sua poesia, come è stato osservato, procede «per espansioni contemporanee e a raggiera da un nucleo di idee, intuizioni, progetti, intenzioni che rimane sostanzialmente immutato» (Bàrberi Squarotti). Le raccolte poetiche maggiori di Pascoli non delineano quindi una reale evoluzione del suo pensiero e della sua poetica, proprio per la sovrapposizione nel tempo delle varie raccolte, ma configurano il panorama complessivo di una produzione sostanzialmente sincronica, per lo meno per quanto riguarda la poesia maggiore. Oltre alla poesia in italiano, Pascoli si dedica contemporaneamente a quella in latino e alla composizione di saggi critici: emblematica di questo modo di lavorare su più fronti è la presenza di tre tavoli nel suo studio, corrispondenti ai diversi campi e opere a cui il poeta si dedicava

2 L’universo tematico della poesia pascoliana maggiore La natura Sfondo privilegiato e insieme tema centrale della poesia pascoliana è la campagna, il paesaggio rurale, in cui Pascoli di fatto scelse di vivere, una dimensione a cui attribuiva un ruolo protettivo e consolatorio. Pascoli rappresenta la campagna con un’esattezza nomenclatoria che gli deriva dalla cultura positivistica, oltre che dalla propria personale esperienza: dagli aspetti della vita quotidiana, alle scene di lavoro nei campi (Arano, Lavandare ➜ T1 ), ai fenomeni atmosferici (Il lampo, Il tuono ➜ T7 , Temporale ➜ T6 ), ai fiori, ai canti degli uccelli. La rappresentazione della natura nella poesia pascoliana è però solo apparentemente oggettiva: la prospettiva della descrizione è infatti del tutto soggettiva ed è frutto di uno sguardo visionario, alogico, per cui si è dissolta ogni positivistica certezza, non esistono più un ordine, una gerarchia; un particolare può così emergere in primo piano, «l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, il filo di paglia e il sole, gli astri o il sasso, si presentano l’uno dopo l’altro, senza gerarchie di valore o di significato o d’importanza» (Bàrberi Squarotti). La poesia pascoliana della natura non è mai riconducibile a puro descrittivismo anche per la costante presenza della dimensione simbolica: attraverso una rete di corrispondenze di tipo analogico, i dati naturalistici diventano simboli delle emozioni del poeta ma anche degli aspetti più profondi della condizione umana: un aratro abbandonato in mezzo al campo (Lavandare ➜ T1 ) diventa emblema della solitudine di chi è stato lasciato, i segni dell’autunno («di foglie un cader fragile»), che si celano dietro l’apparente risveglio primaverile (Novembre ➜ T4 ), suggeriscono la fragilità e precarietà della vita umana, il canto isolato di un uccello nella notte evoca il pensiero della morte (L’assiuolo ➜ T8 ). Temi e forme della poesia pascoliana 2 377

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L’universo simbolico pascoliano rimanda a una visione fortemente pessimistica: se nella prima produzione (e anche in seguito nei momenti di maggiore serenità interiore) il mondo della campagna è delineato nella pienezza vitale (Alba ➜ T3 OL), senza ombre che lo turbino, ben presto, e poi prevalentemente, gli elementi naturali, in particolare i versi degli uccelli (L’assiuolo ➜ T8 ), si caricano di significati oscuri e negativi, alludono al mistero inquietante del reale, e diventano proiezioni delle angosce del poeta, espressione dell’ossessiva presenza dei morti che segna nel profondo il suo immaginario.

Alfred Sisley, La nebbia, Voisins, olio su tela, 1874 (Museo d’Orsay, Parigi).

L’immagine regressiva del “nido”, centro di una costellazione simbolica In rapporto al dolore generato dalla violenza e dall’ingiustizia che hanno segnato precocemente la sua vita e che dominano nel mondo, Pascoli elabora l’immagine del nido (che sul piano esistenziale ha come corrispettivo il progetto di ricostituzione del nucleo familiare). Espressione della nostalgia per il mondo protettivo dell’infanzia, il nido rappresenta uno dei simboli-chiave della poesia pascoliana: «L’immagine che ritorna più frequentemente entro la poesia familiare del Pascoli è quella della casa come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una sua esistenza senza rapporti con l’esterno, ma brulicante di complici intimità, di istinti e affetti viscerali, sotto il segno di quasi tribali miti, di un linguaggio privato, esclusivo » (Bàrberi Squarotti). Allo stesso ambito semantico del nido si collega una serie di motivi ricorrenti nelle liriche: il canto della madre, il dondolìo della culla, il suono delle campane che evocano il mondo dell’infanzia, percepiti come rassicuranti, in contrapposizione a una realtà avvertita come minacciosa (ad es. Orfano, Il tuono ➜ T7 , La mia sera ➜ T10 OL). Rispetto alla funzione protettiva e consolatoria svolta dall’immagine del nido, l’immagine-simbolo della culla introduce una tendenza regressiva ancora più forte: l’aspirazione al ritorno alla primissima infanzia, intesa come condizione non ancora definita dell’esistenza, desiderio addirittura del ritorno allo stadio prenatale e all’unità indifferenziata madre-figlio. L’associazione culla-nulla, assai frequente nella poesia pascoliana, può a sua volta essere letta come desiderio della morte, sola autentica forma di consolazione, annullamento di ogni dolore. Equivalente simbolico del nido e della sua funzione protettiva è l’immagine della casa: in Il lampo la casa «bianca bianca» appare come una luce e una protezione nella tempesta della notte, lo stesso motivo è riproposto in Temporale (➜ T6 ) con una scena analoga («tra il nero un casolare»). In Nebbia (➜ T11 ) è l’orto ad assumere una valenza difensivo-regressiva: cinto dalla siepe, l’orto identifica una realtà raccolta e protettiva in contrapposizione alle cose lontane «ebbre di pianto». Il poeta respinge e rifiuta il richiamo alla vita che viene da fuori, da lontano: dal nido si esce solo per incontrare la morte (l’immagine del cimitero evocata nelle strofe finali). La figurazione dell’“escluso” Dal drammatico sconvolgimento della realtà familiare in cui era cresciuto, il poeta deriva il sentimento di una dolorosa esclusione, sia dalla serenità dell’infanzia, per sempre infranta da quel tragico lutto, sia da quella immaginata come la normale condizione esistenziale.

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Questo stato interiore è espresso in alcune poesie il cui titolo indica le figure scelte ad emblema di esso: Il mendico, Il pellegrino, Orfano. Attraverso queste figurazioni di chiaro valore simbolico Pascoli rappresenta la propria vita come un faticoso pellegrinaggio lontano dai luoghi amati, nella privazione degli affetti familiari: il tentativo di ritornare alla vita positiva dell’infanzia si rivela infatti solo un miraggio. In Patria (➜ T5 ) il percorso a ritroso nel tempo avviene in forma onirica e si conclude con la rappresentazione di uno stato di radicale esclusione attraverso l’immagine del forestiero in cui il poeta si identifica: il reduce è ormai estraneo alla terra materna e il suo andarsene «a capo chino» rappresenta il fallimento del vagheggiato ricongiungimento con i luoghi e la serenità dell’infanzia. È appena il caso di ricordare che la dimensione psicologica dell’esclusione e dell’estraneità dell’individuo (al suo passato, a se stesso e, più in generale, alla vita degli altri) diventerà un tema fondamentale nella letteratura novecentesca. L’eros Dalla natura il poeta attinge anche le immagini per rappresentare simbolicamente l’esperienza amorosa: non c’è nell’opera di Pascoli un filone esplicito di poesia d’amore e la cosa non stupisce, tenuto conto della sua rinuncia a una vita affettiva matura per farsi custode forzato del mito della famiglia d’origine. Tuttavia l’eros non è assente: compare quasi sempre occultato al di sotto di altri temi, e trova espressione attraverso figure o elementi connessi alla dimensione della natura; in particolare è ai fiori che principalmente si associa la simbologia erotica pascoliana (Gelsomino notturno ➜ T9 e Digitale purpurea ➜ T13 ). La visione dell’eros in Pascoli è sempre fortemente turbata: nell’immaginario del poeta l’esperienza amorosa, a cui egli si accosta con attrazione, morbosa curiosità e insieme repulsione, è comunque sempre esperienza degli altri, dimensione segreta, sulla quale egli, da escluso, può solo fantasticare (e nel Gelsomino notturno ➜ T9 è significativamente la presenza dei morti a condannare l’io lirico a questa posizione di spettatore turbato). L’eros nella poesia pascoliana è contrapposto nettamente alla calda dimensione affettiva dei rapporti familiari, immaginato come possesso violento (Il chiù), ma anche come pericolosa malìa, fascino del proibito che porta addirittura alla morte (Digitale purpurea ➜ T13 ). Il tema cosmico Il mondo della poesia pascoliana non è limitato agli spazi circoscritti della campagna e di una natura resa familiare dal lavoro umano: nella sua opera ricorre anche la presenza della dimensione cosmica e del mistero che la circonda, della vastità dell’universo rispetto alla quale la terra è un piccolo punto sperduto. Nel poemetto Il bolide (dai Canti di Castelvecchio) il poeta adotta una prospettiva visionaria: non è il cielo a essere visto dalla terra, ma la terra a essere vista dal cielo. Il rovesciamento del punto di vista evidenzia la percezione dell’insignificanza del pianeta terrestre e, soprattutto, della fragilità e nullità dell’uomo. Nei versi conclusivi all’immagine della Terra sperduta nell’universo si associa lo smarrimento dell’io lirico: «E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella». Nel poemetto La vertigine (➜ T15 OL in Nuovi poemetti) già il titolo allude alla perdita di ogni riferimento; la precarietà della condizione umana è qui presentata come un’instabilità addirittura fisica (gli uomini si illudono di camminare eretti, ma sono penduli, sospesi nell’abisso. Se venisse a mancare la forza di gravità (come suggerisce il prologo al testo) sarebbero catapultati nell’universo, destinati a errare nello spazio senza fine. Il viaggio siderale dell’io lirico si tramuta in una corsa folle e terrorizzante («veder d’attimo in attimo più chiare / le costellazïoni,

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il firmamento / crescere sotto il mio precipitare»). Il raggiungimento di un approdo, che nell’ultimo verso si configura come annullamento in Dio, rimane pura, inesausta aspirazione.

3 La sperimentazione stilistica

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Interpretazioni critiche Giuseppe Nava Pascoli e il simbolismo europeo

«Un rivoluzionario nella tradizione» Già dalla prima raccolta, Myricae, la poesia di Pascoli si distingue per la sua novità rispetto alla lirica ottocentesca, che interessa ogni ambito del linguaggio poetico: dalla struttura alla sintassi, dagli aspetti metrici e ritmici alle scelte lessicali. La sperimentazione di nuove forme si coniuga però nello stesso tempo con la presenza della tradizione letteraria, come ha messo in rilievo il critico Gianfranco Contini, che ha definito il poeta, con una formula diventata celebre, «un rivoluzionario nella tradizione». Nella prima, e più nota raccolta, Myricae, Pascoli sceglie di affidare il suo messaggio per lo più a composizioni che si distinguono dalla tradizione poetica innanzitutto per la loro brevità: una scelta finalizzata a fare delle sue liriche dei momenti di “illuminazione”, di rivelazione degli aspetti segreti della realtà, come veniva teorizzato dalla poetica del simbolismo. Sempre in Myricae, ma anche nei Canti di Castelvecchio – le raccolte più innovative sul piano formale – spesso le immagini sono accostate non secondo nessi logici immediatamente evidenti, ma sulla base di sottili analogie tra gli elementi rappresentati. Procedimento ricorrente nella poesia pascoliana è anche la presenza di relazioni inusuali tra vicino e lontano e tra determinato e indeterminato, che sconvolge i comuni parametri percettivi e interpretativi. Analogie e particolari suggestioni sono suggerite dall’uso assai insistito della figura retorica della sinestesia, che accosta immagini relative a percezioni sensoriali diverse, uditive, visive e olfattive: «soffi di lampi» (L’assiuolo), «tra l’azzurro penduli, gli strilli / della calandra» (Dall’argine ➜ VERSO L’ESAME DI STATO PAG. 422). Tipicamente pascoliano è anche l’uso dell’aggettivo sostantivato, che attribuisce esistenza separata a una qualità percettiva, ad esempio il colore: «bianco / di strada» (Nebbia ➜ T11 ), «nero di nubi» (L’assiuolo ➜ T8 ). A livello sintattico Pascoli predilige la coordinazione, con brevi frasi collegate spesso per asindeto. Frequente è l’impiego di costrutti ellittici e dello stile nominale (come in Temporale ➜ T6 o in Dall’argine: «Non ala orma ombra nell’azzurro e verde») che creano, insieme all’uso particolare dell’interpunzione (in cui ricorrono i puntini di sospensione, i punti esclamativo e interrogativo), un ritmo franto, espressione di una visione disarmonica, frammentaria del reale. Il fonosimbolismo Nella poesia pascoliana, all’allentarsi dei legami sintattici corrisponde il prevalere della trama fonica, secondo la concezione espressa nel Fanciullino, per cui la poesia è insita nelle cose, e al poeta spetta il compito di scoprirla, dando voce alle cose stesse. All’importanza della dimensione fonica, investita di significazioni simboliche, contribuisce il frequente impiego di figure retoriche di suono, come l’allitterazione e l’assonanza. Ma l’aspetto forse più originale della lingua poetica pascoliana è la presenza rilevante di un livello che Contini ha definito «pre-grammaticale» (cioè relativo a manifestazioni linguistiche estranee alla lingua come istituto e costituita da espressioni e forme che non rimandano a un significato concettuale definito):

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il poeta imita o suggerisce i suoni e le voci della natura – il verso delle rane, dell’assiuolo, delle rondini (gre, chiù, virb) – riproducendoli direttamente attraverso l’onomatopea, o utilizzando sostantivi e verbi di matrice onomatopeica per evocare il rumore o del temporale (bubbolìo) o del tuono (rimbombò) ad esempio. Occorre precisare che nella poesia pascoliana la figura retorica dell’onomatopea non è impiegata semplicemente con una finalità mimetica, ma si distingue per la capacità evocativa e per il valore simbolico attribuiti ai suoni. Del “fonosimbolismo” pascoliano, che utilizza i suoni con uno slittamento dal piano non semantico a quello semantico, è esempio emblematico, nella lirica L’assiuolo (➜ T8 ), il verso lugubre dell’uccello notturno (chiù), la cui insistita iterazione trama la lirica di allusioni luttuose. La sperimentazione metrica Anche nell’ambito metrico Pascoli si rivela un innovatore. Ma la sua è un’innovazione che si realizza non nel rifiuto dei canoni tradizionali ma nel rinnovamento e adattamento di essi alle proprie esigenze poetiche. Pascoli continua infatti a usare i versi tradizionali (in prevalenza senario, settenario, novenario, ma ne trasforma il ritmo attraverso una varietà di procedimenti: enjambements, cesure, puntini di sospensione, che in alcuni casi arrivano anche ad allungare il verso. Una lingua delle “cose” Per quanto riguarda il lessico Pascoli accosta materiali linguistici diversi; dominante nella sua opera è il lessico legato al mondo della natura e alla realtà campestre, ma impiegato in modo fortemente innovativo rispetto alla tradizione poetica. Il criterio che guida le scelte pascoliane è l’aderenza della lingua alle “cose” che il poeta teorizza nel saggio Il sabato, criticando l’espressione «mazzolin di rose e viole» presente nel Sabato del villaggio leopardiano («per troppo tempo gli uccelli sono stati sempre rondini e usignoli, e per troppo tempo i fiori dei mazzolini sono stati rose e viole») giudicata da Pascoli inesatta rispetto al diverso tempo della loro fioritura. La stessa concezione è ribadita nel Fanciullino (➜ D2 ), che sostiene la necessità di rinnovare la lingua poetica per poter dar voce alle emozioni autentiche suscitate nel poeta dal rapporto diretto con la realtà, senza il filtro della mediazione letteraria. Nella poesia pascoliana gli elementi della natura non sono dunque indicati in modo generico o letterario, ma hanno un nome preciso, che attinge spesso a lingue speciali come l’ornitologia e la botanica: i fiori sono di volta in volta identificati con il nome scientifico o con quello popolare («i fior di vitalba» e «le ginestre» in Alba ➜ T3 , le «rose e gigli» in Orfano, la digitale purpurea della lirica omonima); lo stesso vale per le piante (gli ulivi in Alba, «il mandorlo e il melo» nell’Assiuolo ➜ T8 , gli olmi e il melograno in Patria, i viburni nel Gelsomino notturno ➜ T9 ), per gli uccelli (in Alba, oltre alle più comuni rondini, il fringuello; l’assiuolo nella poesia omonima), per gli insetti e per i fenomeni atmosferici come il vento (ad esempio il maestrale in Patria ➜ T5 OL). Dal riconoscimento della dignità poetica delle cose “umili” deriva poi l’uso di un lessico quotidiano e di vocaboli di origine popolare; a essi vengono però affiancati latinismi e termini della tradizione letteraria, che il poeta fa interagire creando un nuovo linguaggio poetico. Nei Poemetti (Primi e Nuovi) lo sperimentalismo linguistico pascoliano si avvale di ulteriori contributi: un esempio particolarmente innovativo è rappresentato dal poemetto Italy ➜ T14 , in cui l’italiano è mescolato al dialetto garfagnino, a termini inglesi e all’italo-inglese degli emigranti (cioè l’inglese adattato alla lingua materna); attraverso questo “impasto” ibrido di lingue il poeta dà voce alla nuova realtà sociale costituita dal fenomeno dell’emigrazione.

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4 Myricae Una elaborazione complessa Myricae, che Pascoli dedica alla memoria del padre Ruggero, è la sua prima e più celebre raccolta poetica: inizialmente (1891) consta di sole 22 liriche ed è concepita come omaggio per il matrimonio dell’amico Raffaello Marcovigi (perciò rivolta a una ristretta cerchia di amici). Segue una complessa elaborazione che si dilata nel tempo, attraverso varie edizioni fino all’ultima, la nona, nel 1911. Le successive edizioni mantengono lo stesso titolo, ma presentano notevoli diversità sia per il numero dei componimenti (che arriva a comprendere 156 poesie già nella quinta stampa del 1900) sia per la struttura interna. A partire infatti dalla seconda edizione (1892) il poeta organizza le liriche in sezioni secondo criteri tematici e metrici e sviluppa, oltre alla rappresentazione della natura, il tema della tragica vicenda familiare. Nella terza edizione (1894) la tematica luttuosa ha ancora più spazio, in stretta connessione con la rappresentazione di una condizione interiore di angoscioso smarrimento. Alla terza edizione è preposta quella che sarà la Prefazione definitiva all’opera, in cui Pascoli collega strettamente la sua opera all’uccisione del padre e ai lutti che ne sono seguiti, evocando la tomba «greggia, tetra, nera» in cui «finì tutta una fiorente famiglia». D’altra parte il poeta invita, nonostante tutto, a “benedire la vita”. Il titolo: una dichiarazione di poetica Il titolo latino (che significa letteralmente “tamerici”, piccoli arbusti che crescono spontaneamente nei campi) è espressione della cultura classicistica di Pascoli: è tratto infatti dalla IV ecloga delle Bucoliche di Virgilio, come esplicita l’esergo in apertura della raccolta: «Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae» (“Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”) che Pascoli però modifica, escludendone la negazione, in «arbusta iuvant humilesque myricae» (“piacciono gli arbusti e le umili tamerici”). La citazione costituisce in sintesi un vero e proprio documento di poetica: dichiara infatti la volontà di Pascoli di porre al centro della sua poesia la dimensione agreste (a cui alludono le piante nella citazione) e insieme la scelta di una poesia “umile”, dimessa, che fin dai suoi esordi intende contrapporsi a ogni aristocratico estetismo. Questa scelta fondamentale, che investe insieme i contenuti e lo stile, è sottolineata anche da molti titoli delle singole liriche, che rimandano al lavoro quotidiano della campagna e a immagini della natura (Arano, Galline, Carrettiere, Lavandare ➜ T1 , Un rondinotto, Alba ➜ T3 OL, Dall’argine ➜ VERSO L’ESAME DI STATO PAG. 422). Se il tema della campagna prevale nella prima edizione (1891), progressivamente, nella successiva elaborazione dell’opera, come si è detto, l’attenzione del poeta si rivolge al proprio mondo interiore, ai traumi della sua esistenza (e più in generale alla sofferenza umana), al mistero della morte, generalmente filtrati dai dati naturalistici (Temporale ➜ T6 , Il lampo, Il tuono ➜ T7 , L’assiuolo ➜ T8 ). I titoli delle sezioni in cui è divisa l’opera, in alcuni casi disposte per opposizione, alternano il riferimento ad aspetti della natura (ad esempio Dall’alba al tramonto, L’ultima passeggiata, In campagna, Alberi) all’evocazione della dimensione interiore (come Ricordi, Le pene del poeta, Le gioie del poeta, Dolcezze, Tristezze). Myricae e la poetica del “fanciullino” La poesia di Myricae trae origine innanzitutto dall’attenzione verso le immagini e i suoni della natura, in relazione con la poetica espressa nel saggio Il fanciullino (➜ D2 ): il poeta-fanciullino è colui che

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indugia a osservare gli elementi della natura che suscitano in lui stupore e meraviglia, mentre lo sguardo dell’uomo adulto, reso distratto dall’abitudine e dalla fretta, non riesce più a percepirne le voci, i colori, i segni. In rapporto all’adozione di tale prospettiva, le liriche di Myricae sono per lo più costituite da testi brevi, che ospitano delle “illuminazioni”, dei flash, in cui il frammentismo impressionistico si apre costantemente alla dimensione simbolica. I procedimenti stilistici attivati in Myricae ricorrono anche in altre raccolte pascoliane (in particolare nei Canti di Castelvecchio): la prevalenza della coordinazione, con periodi franti, ritmi spezzati, la ricorrenza dell’onomatopea, attraverso cui, insieme all’insistito uso di allitterazioni, il poeta riproduce i suoni e le voci della natura, e infine l’uso di una lingua vicina alle cose, che rinuncia deliberatamente agli ornamenti della tradizione letteraria, teorizzato nel Fanciullino. Le scelte metriche In Myricae è impiegata una gran varietà di forme metriche, ma occorre distinguere tra le diverse sezioni: ad esempio In campagna è una sorta di laboratorio di sperimentazione lirico-musicale e ogni poesia si differenzia per la soluzione adottata; in Ultima passeggiata domina l’uniformità metrica. Una delle forme più ricorrenti nella raccolta è il madrigale (L’ultima passeggiata è costituita esclusivamente da madrigali), un genere metrico generalmente corrispondente, nella tradizione lirica, a componimenti di tema e tono allegro: Pascoli usa invece spesso il madrigale per esprimere la sua visione di una realtà contraddittoria, oscillante tra le percezioni vitali e gioiose e i segnali oscuri e minacciosi, ugualmente provenienti dalla natura.

Myricae GENERE

raccolta poetica

DATAZIONE

prima edizione 1891, nona edizione 1911

STRUTTURA

156 componimenti distribuiti in 15 sezioni titolate

TEMI

• la morte e il trauma della perdita; • gli affetti familiari; • la condizione di dolore che caratterizza la vita umana; • il nido come luogo di protezione dal Male esterno; • il rapporto con la natura; • la vita nei campi; • il valore della poesia

STILE

• sperimentalismo metrico e formale; • presenza di termini tecnici e letterari; • frammentismo; • fonosimbolismo; • sintassi paratattica

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T1

Lavandare

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Myricae G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

Il testo fa parte della sezione di Myricae intitolata L’ultima passeggiata e fu inserita nella raccolta nel 1894.

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero1 resta un aratro senza buoi, che pare 3 dimenticato, tra il vapor leggero2. E cadenzato dalla gora3 viene lo sciabordare4 delle lavandare5 6 con tonfi spessi e lunghe cantilene: il vento soffia e nevica la frasca6 e tu non torni ancora al tuo paese!7 quando partisti, come son rimasta! 10 come l’aratro in mezzo alla maggese8.

La metrica Madrigale costituito da due terzine e una quartina in endecasillabi, con schema ABA CBC DEDE.

1 campo … nero: la parte del campo di colore più scuro è stata arata, quella grigia no. 2 il vapor leggero: la lieve foschia autunnale. 3 gora: canale. 4 sciabordare: il rumore prodotto dai panni che vengono sbattuti nell’acqua.

5 lavandare: le lavandaie. 6 nevica la frasca: le foglie cadono a terra, a causa del vento, come se fossero neve. Il verbo “nevica” è usato transitivamente e il soggetto è frasca. 7 e tu…paese: queste parole, come quelle del distico finale, sono pronunciate da una lavandaia che intona un canto popolare, nel quale compiange la propria condizione di abbandono: il fidanzato è partito, probabilmente emigrato, e l’ha

lasciata sola. Nella costruzione di questo canto Pascoli si rifà quasi letteralmente a due testi tratti dai Canti popolari marchigiani, raccolti nel 1875 dallo studioso Antonio Gianandrea. 8 maggese: si tratta del campo lavorato a maggio e lasciato a riposo. Nel sistema della rotazione delle colture, veniva seguita questa procedura affinché il terreno riacquistasse la fertilità.

Analisi del testo L’occasione che ispira Pascoli nella stesura della poesia è una passeggiata tra i campi, in una giornata d’autunno velata da una nebbia leggera, durante la quale egli vede un aratro abbandonato e sente sullo sfondo il canto triste delle lavandaie, intente a lavare i panni in un canale. Nelle prime due terzine il poeta sembra rappresentare un quadretto impressionistico, ma nella quartina conclusiva il ritratto del mondo rurale risulta carico di significati simbolici e trascende la rappresentazione realistica e, apparentemente, oggettiva del paesaggio naturale e degli oggetti e delle situazioni che esso ospita. La trascrizione di un canto popolare intonato da una lavandaia esprime un profondo senso di solitudine e di malinconia e la raffigurazione dell’aratro, che riprende circolarmente l’immagine della prima strofa, funge da emblema della condizione di abbandono e di inutile attesa che caratterizza l’esistenza umana.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. COMPRENSIONE 2. Sul piano letterale il campo mezzo grigio e mezzo nero rappresenta un appezzamento arato a metà. Quale valore simbolico si può attribuire a questa immagine? STILE 3. Per quale motivo, secondo te, il primo e il terzo verso della quartina sono legati da un’assonanza (frasca/rimasta) e non da una rima? ANALISI 4. Nel testo le situazioni descritte sono presentate attraverso sensazioni visive e uditive. Individuale e chiariscine il significato.

Interpretare

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SCRITTURA CREATIVA 5. In un testo poetico sul modello di quello pascoliano, prova a descrivere una scena di lavoro, inserita in un contesto attuale, mostrandone i nascosti significati simbolici. 6. Il madrigale ha al centro il tema dell’abbandono. Ti è mai capitato di entrate in contatto con situazioni di solitudine che ispirano un profondo sentimento di malinconia? Scrivi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

Giovanni Pascoli

T2

X agosto

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Myricae G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

La lirica, pubblicata su rivista nell’agosto del 1896 per il ventitreesimo anniversario della morte del padre Ruggero, fu poi inserita nella quarta edizione di Myricae (1897). Testo chiave per comprendere l’immaginario di Pascoli, rappresenta anche una sintesi di motivi fondamentali della sua poesia, a cominciare dall’immagine del “nido”, dimensione protettiva, rifugio dal male, a sua volta minacciato e sconvolto dalla violenza.

San Lorenzo1, io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade2, perché sì gran pianto3 nel concavo cielo4 sfavilla. 5

Ritornava una rondine al tetto5: l’uccisero: cadde tra spini6: ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini. Ora è là, come in croce7, che tende

La metrica Sei quartine di decasillabi e novenari che rimano secondo lo schema ABAB CDCD. L’alternanza di un verso più lungo e uno più breve corrisponde allo schema del distico elegiaco della poesia latina, composto da un esametro e da un pentametro. Tutte le poesie della sezione intitolata Elegie, di cui X agosto fa parte, sono caratterizzate da questo metro. 1 San Lorenzo: il 10 agosto, anniversario della morte del padre, coincide nel calen-

dario cattolico con la ricorrenza di san Lorenzo. 2 tanto di stelle... cade: la costruzione con il partitivo alla latina sta per “così tante stelle” o “un numero così grande di stelle”; cade è un riferimento al fenomeno astronomico dell’attraversamento del cielo delle stelle cadenti, particolarmente intenso in coincidenza con la notte di san Lorenzo. 3 gran pianto: il cadere delle stelle è interpretato, secondo una tradizione popolare,

come un grande pianto del cielo.

4 concavo cielo: nella volta celeste. 5 tetto: nido, in genere sotto un tetto (metonimia). 6 tra spini: in un cespuglio spinoso. 7 come in croce: la posizione della rondine uccisa, con le ali aperte, richiama per analogia la forma della croce e, quindi, del sacrificio di Cristo.

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quel verme a quel cielo lontano8; e il suo nido9 è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano10.

Anche un uomo11 tornava al suo nido12: l’uccisero: disse: Perdono; 15 e restò negli aperti occhi un grido13: portava due bambole in dono... Ora là, nella casa romita14, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito15, addita 20 le bambole al cielo lontano. E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni16, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male17! 8 cielo lontano: la lontananza allude all’estraneità nei confronti delle vicende terrene. 9 il suo nido: la metonimia rimanda al contenuto, cioè i rondinini. 10 che pigola... piano: il pigolìo sempre più debole dei rondinini, privi del cibo portato dalla madre, prefigura la morte che li aspetta, già allusa nel verso precedente dall’espressione nell’ombra.

11 un uomo: il padre del poeta, la cui vicenda assume valore universale. 12 nido: qui metafora per casa. 13 e restò... grido: negli occhi sbarrati del morto è evidente la dolorosa sorpresa della fine improvvisa della vita. 14 romita: solitaria, per la perdita del capofamiglia; anche in questo caso la condizione è quella di coloro che vi abitano. 15 attonito: stupito per quella morte ina-

spettata e per la violenza che l’ha generata. 16 mondi sereni: i mondi che popolano il cielo, senza la violenza della terra. 17 quest’atomo... Male: nella sua piccolezza (atomo) negli spazi celesti, la terra racchiude il male; l’opacità allude alla sua incapacità di accogliere il bene (oltre al fatto che il pianeta non brilla di luce propria).

Analisi del testo Una figurazione scopertamente simbolica La vicenda della morte del padre non è rievocata nella poesia in forma diretta, con espliciti riferimenti al tragico evento, come avviene invece nella Cavalla storna, ma attraverso le due figure della rondine e dell’uomo, la cui funzione dichiaratamente simbolica è evidenziata dall’articolo indeterminativo (vv. 5 e 13: una rondine… un uomo): sia la rondine sia l’uomo sono infatti emblema di tutti gli esseri colpiti ingiustamente dalla violenza. Allo stesso modo, la loro uccisione è interpretata in chiave universale, come evidenzia la personificazione di Cielo e Male: l’omicidio dell’uomo, così come l’assurda uccisione della rondine, sono testimonianza del “Male del mondo”. Non manca però il coinvolgimento emotivo del poeta, espresso nel primo verso dall’esplicito riferimento all’io lirico (io lo so): in questo modo il problema del Male, che Pascoli scrive con la maiuscola per indicarne la natura cosmica e ineluttabile, viene ricondotto alla drammatica esperienza vissuta dal poeta in prima persona.

Una struttura geometrica a sostegno del messaggio Non può non colpire nel testo la struttura quasi geometrica, fondata su evidenti parallelismi e finalizzata a evidenziare in modo quasi didascalico il tema del dolore e del male universale. La prima e l’ultima strofa si richiamano nel riferimento al pianto delle stelle, conferendo al testo una struttura circolare. Le strofe che si iscrivono all’interno della “cornice” (2-5) sono rispettivamente dedicate all’uccisione della rondine (2-3) e dell’uomo (4-5). Lo stretto rapporto che l’autore vuole sottolineare tra le due tragedie è sottolineato da una serie di parallelismi, ma innanzitutto dall’Anche che apre la quarta strofa collegando strettamente la tragedia dell’uomo a quella della rondine.

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Una funzione coesiva tra i due soggetti è esercitata inoltre dall’uso di tetto per la rondine («Ritornava una rondine al tetto») e di nido per l’uomo («Anche un uomo tornava al suo nido») e dalla ripresa del verbo (torna e ritornava). Da notare anche i legami creati dai verbi tende e addita, entrambi a fine di verso in enjambement, e la ripetizione di lontano: i due esseri uccisi sono uniti, oltre che dal comune destino, dal gesto di invocazione al cielo, in entrambi i casi estraneo (lontano, appunto) ai drammi che accadono sulla terra.

Il tema del sacrificio. L’assenza della fede in un cambiamento L’immagine della rondine uccisa «come in croce» e il perdono pronunciato dall’uomo nei confronti di chi l’ha ucciso suggeriscono un rimando alle parole di Cristo sulla croce e al suo sacrificio, che ha redento l’umanità accecata dal male. Inoltre la prima e l’ultima strofa sono introdotte da invocazioni e allocuzioni («San Lorenzo», «E tu, Cielo») come in una preghiera; lo stesso ritmo ascendente, creato dagli accenti dei decasillabi (su 3a, 6a e 9a sillaba) evoca il tono di un inno religioso. In realtà manca nel testo pascoliano la dimensione della fede e della speranza di un cambiamento: il Cielo assiste allo spettacolo del Male da un’infinita lontananza («dall’alto dei mondi / sereni»); l’unica sua partecipazione è rappresentata dal pianto di stelle (l’immagine è anche in altre liriche dedicate ai lutti familiari come Il giorno dei morti e in Il bolide), che però non comporta alcun riscatto della sofferenza. La visione che il poeta ha della terra è affidata alla pessimistica immagine finale: «quest’atomo opaco del Male!».

L’immagine del nido In stretta relazione con il tema dell’uccisione del padre, è in primo piano l’immagine, fondamentale nell’immaginario pascoliano, del nido, simbolo della casa e della famiglia. Il termine nido compare nella poesia prima nel suo significato letterale (v. 11), poi in quello metaforico (v. 13); in entrambi i casi rappresenta il luogo dell’accudimento e della protezione dal negativo, dal male. Al “dentro” protettivo della casa e del nido si contrappone il “fuori” da cui provengono la minaccia, la violenza, addirittura la morte che irrompe in modo imprevisto, devastando irreparabilmente l’universo chiuso della famiglia-nido. L’ingiustizia terribile che ha colpito la famiglia del poeta è trasposta nell’immagine fortemente patetica dei piccoli della rondine abbandonati, che attendono inutilmente il nutrimento: «e il suo nido è nell’ombra, che attende, / che pigola sempre più piano».

I procedimenti stilistici Il lessico presenta espressioni appartenenti al linguaggio familiare e comune (rondinini), ma anche termini e procedimenti colti (come il costrutto latineggiante «tanto di stelle» e «atomo opaco»). La sintassi è prevalentemente paratattica, con frasi brevi, in particolare nella seconda e quarta strofa; la seconda ha un ritmo spezzato, ottenuto attraverso la rapida successione delle immagini separate dai due punti (vv. 5-8).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Sulla base del contenuto della poesia, sapresti spiegare perché Pascoli abbia scelto di indicare la data della morte del padre con il numero romano? 2. Al titolo e all’invocazione iniziale della lirica è associata l’immagine-simbolo delle stelle cadenti: quale spiegazione dà il poeta del fenomeno? SINTESI 3. Esponi in sintesi il contenuto della lirica. ANALISI 4. Presenta attraverso uno schema gli elementi comuni alla vicenda della rondine e dell’uomo. 5. Spiega con parole tue la perifrasi «quest’atomo opaco del Male» (v. 24): a chi è riferita? Quale significato assume il termine opaco? Quale funzione ha il pianto di stelle nei suoi confronti? 6. L’immagine della croce stabilisce un parallelismo tra la vicenda della rondine (e per estensione dell’uomo) e quella di Cristo: cosa le accomuna? STILE 7. Il termine cielo ritorna nell’ultima strofa con l’iniziale maiuscola: spiega il significato connesso alla variazione ortografica.

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8. Osserva l’alternarsi dei tempi verbali: nella prima e nell’ultima quartina Pascoli utilizza il presente mentre nelle strofe centrali prevalgono i tempi storici: motiva la scelta del poeta in relazione ai temi della lirica.

Interpretare

SCRITTURA 8. Dopo aver delineato nella lirica il ruolo del “nido” in relazione alle vicende simboliche dell’uomo e della rondine, rifletti sui significati simbolici che esso assume nella poetica pascoliana. Quale visione del mondo ne deriva? Quale concezione della famiglia definisce il “nido” pascoliano? LETTERATURA E NOI 9. Al centro del componimento c’è il dolore per l’assenza della figura paterna, un tema centrale nella letteratura di tutti i tempi. In un testo di massimo 15 righe, prova a tracciare un percorso sulla presenza/assenza del padre, e/o, più in generale, degli affetti familiari, nelle opere di autori da te affrontati nel tuo percorso di studi o attraverso letture personali.

LEGGERE LE EMOZIONI

online T3 Giovanni Pascoli

Alba Myricae

Giovanni Pascoli

T4

Novembre Myricae

G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

La lirica, tra le prime e più note di Pascoli, è stata pubblicata su «Vita nuova» nel febbraio 1891 ed è stata poi inserita già nella prima edizione di Myricae, nella sezione In campagna.

Gèmmea1 l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo2 l’odorino amaro3 senti nel cuore... Ma secco è il pruno, e le stecchite4 piante di nere trame segnano il sereno5, e vuoto il cielo6, e cavo al piè sonante sembra il terreno7. Silenzio, intorno: solo, alle ventate8, odi lontano, da giardini ed orti, di foglie un cader fragile9. È l’estate, fredda, dei morti10. La metrica Tre strofe saffiche di tre endecasillabi e un quinario, con schema ABAb.

1 Gèmmea: trasparente, come una gemma. Gemmea è un aggettivo ed è sottinteso il verbo “è”. 2 prunalbo: biancospino 5 3 odorino amaro: odore aspro e non intenso.

4 stecchite: senza foglie. 5 di nere… sereno: disegnano una trama nera nel cielo sereno. 6 vuoto il cielo: il cielo è vuoto perché non ci sono uccelli. 7 e cavo… terreno: il terreno, sotto il piede che lo fa risuonare, è come se fosse vuoto. 8 ventate: raffiche di vento.

9 cader fragile: L’aggettivo fragile è riferito al verbo cader invece che al sostantivo foglie. Si tratta di un’ipallage. 10 È l’estate… morti: si fa riferimento sia al 2 novembre, giorno dei morti, sia all’11 novembre, estate di San Martino.

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Analisi del testo Una descrizione “straniante” La lirica, articolata, in corrispondenza delle tre strofe, in tre momenti, prende spunto da uno scenario naturale campestre che l’io lirico osserva. A prima vista l’impressione del poeta è quella di trovarsi di fronte a un ‘immagine primaverile, colta attraverso la vista (il limpido colore azzurro del cielo, il chiarore del sole) che induce a cercare intorno le manifestazioni tipiche della stagione (come la fioritura degli alberi di albicocco e dei cespugli di biancospino, di cui sembra quasi di avvertire il profumo amaro). Ma la seconda strofa, aperta dalla forte avversativa (Ma) rovescia radicalmente la prima impressione, allineando immagini antitetiche alle precedenti: fiore vs secco/stecchite, Gèmmea, chiaro vs nere. All’illusoria primavera della prima strofa si contrappone un paesaggio spoglio, arido, privo di vita. La terza strofa completa la descrizione della seconda, delineando uno scenario naturale triste, chiaramente autunnale, in cui le folate di vento staccano dagli alberi le foglie, il cui fruscìo è l’unica voce in un desolante silenzio. Lapidaria si staglia nel testo la conclusione: non è primavera, ma è novembre (come dichiara del resto il titolo), il tempo della labile “estate di San Martino” e il tempo dei morti (che si ricordano appunto il 2 novembre). Il senso della caducità si impone su ogni forma di illusione. Ciò che resta è soltanto «l’estate, fredda, dei morti».

Il significato simbolico Il messaggio della lirica è affidato esclusivamente alle immagini naturali, come spesso avviene nella poesia pascoliana. Pascoli vuole alludere con Novembre alle illusioni di serenità e di gioia a cui l’uomo si abbandona, ma che vengono smentite inesorabilmente dalla triste realtà della condizione umana, dominata dal male e dalla presenza minacciosa della morte. La particolare struttura della poesia, fondata su una forte antitesi, potrebbe anche simboleggiare la compresenza nell’uomo e nel poeta Pascoli del fiducioso e consolatorio abbandono alla bellezza della natura e, per contro, del costante affiorare in lui di angosce profonde, collegate alla sua tormentata storia interiore.

Lo stile È facile notare la differenza tra l’andamento sintattico della prima strofa, in cui il periodare scorre più disteso, e il ritmo franto della seconda e soprattutto della terza, caratterizzata da ripetute pause, in rapporto alla contrapposizione di cui si è sopra parlato. Tipica della poesia pascoliana è l’ellissi dei verbi, che scarnifica, rende essenziale, “concentrato”, il discorso poetico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della poesia in massimo 5 righe. COMPRENSIONE 2. Con chi si può identificare, secondo te, il tu del verso 2? ANALISI 3. Perché l’aggettivo fredda (v.12) è isolato tra due virgole? STILE 4. Individua nel testo un ossimoro, una sinestesia e un enjambement e spiegane la funzione espressiva.

Interpretare

SCRITTURA 5. Al centro del componimento c’è il contrasto tra apparenza e realtà. In un testo di massimo 20 righe, esprimi le tue riflessioni in merito a questo tema, facendo riferimento anche a testi di altri autori da te studiati.

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Giovanni Pascoli

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Temporale Myricae

G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

La lirica fu pubblicata nella terza edizione di Myricae (1894) nella sezione In campagna: l’immagine del temporale in arrivo, tratteggiato a colori intensi, si carica di significati simbolici.

Un bubbolìo1 lontano... Rosseggia l’orizzonte, come affocato2, a mare3: nero di pece, a monte4, 5 stracci di nubi chiare5: tra il nero un casolare6: un’ala di gabbiano. La metrica Ballata di settenari in rima secondo lo schema ABCBCCA. 1 bubbolìo: il brontolìo del tuono, affievolito dalla lontananza; il termine deriva dal toscano parlato.

2 affocato: infuocato, per effetto del tramonto del sole. 3 a mare: dalla parte del mare. 4 nero... monte: verso la montagna è nero per le nubi che si addensano.

5 stracci... chiare: nuvole più chiare e dalla forma irregolare, associate a stracci.

6 un casolare: una casa isolata.

Analisi del testo Dal quadro impressionistico alla visione simbolica Il brevissimo componimento rappresenta l’inizio di un temporale, colto attraverso una serie di percezioni, prima uditive poi visive: al rumore iniziale del tuono, enfatizzato dallo spazio che separa il termine bubbolìo dai versi successivi, seguono le trasformazioni del cielo, rappresentate con deciso contrasto cromatico: il rosso verso il mare e il nero verso la montagna. Lo scenario che ne risulta sembra incentrato sui fenomeni naturali e sulle impressioni che ne derivano, ma gli elementi della natura, come abitualmente nella poesia pascoliana, si caricano di significati simbolici: il temporale, preannunciato dal suono cupo riprodotto dall’onomatopea, e soprattutto il nero del cielo (due volte evocato quasi in anafora ai vv. 4 e 6) alludono al dolore, alla drammaticità dell’esistenza. L’unico conforto sembra essere la casa-rifugio, che emerge dallo sfondo oscuro, equivalente simbolico del “nido”. All’immagine rassicurante del casolare è accostata analogicamente, attraverso il rapporto cromatico sottinteso (bianco), l’immagine dell’«ala di gabbiano» in chiusura: evoca il volo, ed è quindi possibile metafora della liberazione dagli affanni e dalle sofferenze della vita. Nei rapidi accostamenti delle immagini ricorre il procedimento di sostantivazione dell’aggettivo, frequente in Pascoli («un nero di nubi laggiù», L’assiuolo ➜ T8 ), che conferisce realtà a una determinazione qualitativa: ad esempio nel sintagma «nero di pece», come nel successivo «tra il nero», il colore del cielo si trasforma da qualità in essenza vera e propria.

Una sintassi poetica antitradizionale Temporale testimonia in modo esemplare le innovazioni introdotte da Pascoli rispetto alla tradizione poetica, misurabili proprio in rapporto al soggetto, apparentemente canonico: una rappresentazione del paesaggio naturale. Le immagini si susseguono senza nessi e gerarchie, come in una serie di fotogrammi irrelati, mentre è alle corrispondenze simboliche, costruite attraverso l’analogia, che spetta costruire, nel profondo, l’unità e il significato del testo. Ogni verso, tranne uno, costituisce una proposizione e dà rilievo a un’«immagine-sensazione» (Mengaldo): il periodo (e il testo intero, nel suo complesso) risulta così frammentato in una serie di brevi enunciati, prevalentemente nominali, accostati per asindeto. Lo stile ellittico è funzionale a rendere il susseguirsi delle impressioni, in rapporto a una visione frammentata della realtà, e anche a una poetica che esclude programmaticamente la mediazione della logica razionale.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi in sintesi il contenuto della lirica. ANALISI 2. Quale effetto, secondo te, produce lo spazio lasciato dal poeta tra il primo verso e i successivi? 3. I colori hanno un ruolo determinante nel tessuto simbolico sotteso al testo: cerca di interpretare il significato della successione dei vari colori. STILE 4. Il bubbolìo del tuono è un esempio del fonosimbolismo pascoliano: spiegane il rapporto con la simbologia delle immagini. LESSICO 5. Nella poesia è presente un unico verbo, al tempo presente: quale significato può avere secondo te questa scelta linguistica?

Interpretare

SCRITTURA 6. Prova a interpretare questa lirica alla luce della relazione che si instaura fra i paesaggi rappresentati, minacciati e sconvolti dalla natura, e gli avvenimenti biografici della vita del poeta. Quali concezioni della natura e del “nido” sono presentate? Argomenta in merito, in un testo di massimo 15 righe.

Giovanni Pascoli

T7

Il tuono Myricae

G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

La poesia fa parte della sezione Tristezze di Myricae.

E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo1 che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, 5 e tacque, e poi rimareggiò rinfranto2, e poi vanì3. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto di una culla. La metrica Ballata di endecasillabi con schema delle rime X ABABBX.

1 col fragor…dirupo: con il fragore di un pendio scosceso. 2 rimareggiò rinfranto: risuonò con il ru-

more di un’onda del mare che si infrange sulla riva. 3 vanì: svanì.

Analisi del testo Dal quadro impressionistico alla visione simbolica Il componimento è strutturato su una sequenza di sensazioni uditive e mostra, come di consueto in Pascoli, la rappresentazione di un paesaggio naturale carico di significati simbolici. L’atmosfera sospesa nella quale è immersa la natura viene interrotta dal fragore di un tuono che rimbomba nell’aria con tutta la sua forza, per poi svanire come un’onda del mare che si infrange sulla riva. Chiude il testo l’immagine della figura materna associata al movimento di una culla: ancora una volta il nido pascoliano sembra fungere da protezione dal male che incombe dall’esterno.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Che cosa mette in scena il componimento? ANALISI 3. Quale sensazione è privilegiata nella lirica? Quali elementi le corrispondono? 4. Analizza nel v. 6 l’espressione «e poi vanì». Quale elemento semantico introduce? Come si rapporta al verso precedente e a quello seguente? 5. La poesia si chiude con l’immagine rassicurante del nido familiare, tuttavia la rima culla/nulla (v. 1 e v.7) sembrerebbe suggerire anche un’altra interpretazione. Quale, secondo te? STILE 6. Rintraccia nei versi indicati le allitterazioni, gli enjambements, le ripetizioni, le parole con valore onomatopeico e fonosimbolico. Motivane anche di volta in volta la funzione. a. vv. 2-3: «col fragor d’arduo dirupo / che frana» b. v. 4: «rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo» c. v. 5: «rimareggiò rinfranto» 7. Perché secondo te la lirica si apre con una congiunzione? Cerca di spiegarlo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Confronta questa poesia con altre di Pascoli che conosci in relazione alla rappresentazione dei fenomeni naturali e al loro valore simbolico. Esprimi le tue considerazioni in un testo di massimo 15 righe.

Giovanni Pascoli

T8

L’assiuolo

AUDIOLETTURA

Myricae G. Pascoli, Myricae, a c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

La lirica fu inserita in Myricae nell’edizione del 1897, nella sezione In campagna. Testimonia in modo esemplare i procedimenti propri della poesia di Pascoli ed è considerata una delle espressioni più alte del simbolismo pascoliano: nella notte chiara e luminosa la voce dell’assiuolo – piccolo rapace notturno, simile alla civetta, dal verso lamentoso – evoca sentimenti angosciosi e il pensiero della morte.

Dov’era la luna1? Ché il cielo notava in un’alba di perla2, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla3. 5

Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù4; veniva una voce dai campi: chiù…

La metrica Tre strofe di novenari a rima alternata, ciascuna chiusa dall’onomatopea che riproduce il verso dell’assiuolo, formato da una sillaba tronca e in rima con il sesto verso della strofa stessa.

1 Dov’era la luna: il chiarore diffuso nel cielo fa pensare alla presenza della luna, che però non si vede. 2 Ché… perla: perché il cielo nuotava, cioè era immerso, in un’alba dal biancore perlaceo.

3 ergersi... vederla: il mandorlo e il melo sembravano protendersi verso il cielo per poter vedere la luna. 4 soffi... laggiù: lampi silenziosi ed evanescenti come un soffio apparivano in lontananza tra nuvole nere.

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Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte5: sentivo il cullare del mare6, sentivo un fru fru tra le fratte7; sentivo nel cuore un sussulto, com’eco d’un grido che fu8. 15 Sonava lontano il singulto9: chiù...

10

Su tutte le lucide vette10 tremava un sospiro di vento: squassavano le cavallette 20 finissimi sistri d’argento11 (tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono più12?...); e c’era quel pianto di morte... chiù... 5 tra mezzo... latte: in mezzo al cielo di un bianco lattiginoso simile a una fitta nebbia. 6 il cullare del mare: lo sciacquìo delle onde calmo e regolare evoca il dondolìo di una culla. 7 un fru fru tra le fratte: un fruscìo indistinto tra i cespugli. 8 un sussulto... fu: un balzo improvviso del cuore sembra al poeta l’eco di un lamento lontano nel tempo. 9 singulto: singhiozzo.

10 le lucide vette: le cime degli alberi, luminose e distinte per effetto del chiarore della luna. 11 squassavano... d’argento: le cavallette scuotendo le elitre producevano un suono metallico simile a quello di sistri d’argento. I sistri erano strumenti musicali degli antichi egizi usati nelle cerimonie in onore della dea Iside (formati da piccole lamelle metalliche, montate su un’asta, venivano scossi e producevano un tintinnìo).

12 tintinni... più: l’immagine e il suono (tintinni) dei sistri evoca l’aldilà; al culto misterico di Iside era collegato la promessa per gli iniziati di una resurrezione dopo la morte, ma Pascoli sembra dubitare di questa possibilità.

Analisi del testo Dalla dimensione impressionistica al simbolismo L’assiuolo è uno degli esempi poeticamente più alti e di più spiccata modernità della poesia pascoliana, in cui impressionismo e simbolismo si fondono con particolare efficacia. La lirica prende avvio dalla raffigurazione di un paesaggio notturno, colto nel momento in cui la luna sta per sorgere nel cielo illuminato dalle prime (rare) stelle; il biancore perlaceo (alba di perla), il silenzio, l’immobilità delle cose, creano un’atmosfera di magica attesa di una rivelazione che ancora non si palesa, segnalata dalla domanda «Dov’era la luna?». Da questo scenario iniziale si susseguono, con la consueta tecnica di accumulo, impressioni visive e acustiche. A differenza però di Temporale (➜ T6 ), in questo caso esse sono filtrate attraverso il punto di vista dell’io lirico, la cui presenza è segnalata dalla ripetizione per ben tre volte del verbo in prima persona (sentivo) al centro del componimento. È proprio grazie alle sue sensazioni ed emozioni che i puri dati naturali si animano e rivelano i significati profondi sottesi allo spettacolo dell’alba lunare, solo apparentemente idillico: in primo piano nella lirica sono infatti, come in tanti altri testi pascoliani, le angosce profonde del poeta: di queste, portavoce e insieme simbolo è qui il verso dell’uccello notturno, rappresentato dall’onomatopea dal suono cupo (chiù) che chiude in modo secco ogni strofa, e la cui angosciosa risonanza emotiva è resa dai puntini di sospensione.

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Il tema della morte Come in altri testi (in particolare Novembre ➜ T4 ) la visione della realtà del poeta è contraddistinta dal contrasto fra apparenza fenomenica e verità del profondo: la notte di luna sembra suggerire emozioni dolci e rasserenanti e addirittura un sentimento vitale grazie all’allusione al nascere del giorno (alba di perla), ma questa positività si incrina ben presto e lo scenario notturno si anima di lugubri connotazioni. Il verso dell’assiuolo (nella tradizione popolare era considerato presagio di lutti) riprodotto in ogni strofa come una sorta di sinistro refrain, evoca il fantasma della morte, che va progressivamente emergendo grazie al climax ascendente: mentre nella prima strofa il verso dell’assiuolo è infatti solo una voce indistinta, nella seconda è singulto per diventare alla fine vero e proprio pianto di morte. Nella strofa finale affiora il motivo funebre attraverso il procedimento analogico: il frinire delle cavallette è infatti associato al suono dei sistri usati dai sacerdoti del rito egiziano di Iside, che prometteva agli adepti la resurrezione dopo la morte; ma le invisibili porte che il rito misterioso prometteva di aprire, per il poeta (e l’uomo moderno che egli qui simboleggia) sembrano essersi chiuse per sempre, come indica la formula interrogativa (vv. 21-22), sancendo l’impossibile ritorno dei morti alla vita.

Una sapiente partitura fonico-simbolica Il messaggio simbolico del testo è affidato all’intenso e sapiente uso degli elementi fonici e onomatopeici. Le voci che popolano la natura nei loro significati misteriosi sono riprodotte dalle numerose onomatopee: oltre al verso del chiù, il fru fru, che evoca i fruscii indistinti provenienti dai cespugli, i tintinni dei sistri richiamati per analogia dal suono prodotto dalle cavallette (squassavano); a esse corrispondono quelle interiori dell’io lirico («com’eco d’un grido che fu»), altrettanto inquietanti: il sussulto e il singulto che agitano il cuore di chi accoglie i richiami provenienti dalla natura. Nella complessa partitura fonica ricorrono i suoni gravi e cupi affidati alle vocali o e u (per la prima: cielo, melo, nero, sentivo, sonava; per la seconda: nubi, lucevano, cullare, fru fru, sussulto, singulto), evocando sentimenti di angoscia; anche la lettera s, che scandisce la lirica con il suo sibilo ossessivo (sentivo, soffi, stelle, sonava, sistri, s’aprono), produce un effetto disturbante in relazione ai pensieri luttuosi dell’io lirico. I legami fonici possono anche trasmettere sensazioni dolci suggerite dalla natura, come nel caso dell’accostamento cullare-mare che allude al piacere infantile di abbandonarsi nelle braccia della madre.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo della poesia in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quale immagine utilizza il poeta per introdurre ogni strofa? ANALISI 3. Evidenzia strofa per strofa la struttura oppositiva, con le immagini corrispondenti. STILE 4. Analizza la sintassi del testo: quale forma prevale? Come spieghi la scelta del poeta? 5. Individua nel testo sinestesie, onomatopee e allitterazioni; valuta per ciascun esempio l’effetto prodotto. 6. Quale valore attribuisci ai puntini di sospensione? LESSICO 7. Rintraccia nel componimento i termini e le espressioni che comunicano una sensazione di mistero e un senso di inquietudine.

Interpretare

SCRITTURA 8. Commenta i vv. 21-22, mettendo in relazione la domanda racchiusa tra parentesi con la visione della vita del poeta e il tema della morte. Esponi le tue riflessioni in una trattazione (max 15-20 righe).

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5 I Canti di Castelvecchio La prima edizione dei Canti di Castelvecchio è del 1903, cui ne seguiranno altre sei; il progetto dell’opera è delineato da Pascoli nel 1902 in una lettera a un amico, in cui prevede una serie di poesie incentrate su «emozioni, sensazioni, affetti», organizzate secondo il succedersi delle stagioni. La riproposta, in apertura, del motto virgiliano «Arbusta iuvant humilesque myricae», sottolinea esplicitamente il rapporto di continuità tra la nuova raccolta e Myricae: comuni a entrambe sono i temi della natura, della dimensione campestre, del ricordo dei morti, che assume nei Canti il carattere di un’ossessiva presenza. Nella prefazione il poeta lega esplicitamente il tema della natura alla morte dei familiari, nominando qui in particolare la madre, a cui è dedicata l’intera raccolta e che è figura dominante nella sezione conclusiva (Il ritorno a San Mauro) e sottolinea il suo compito di riscattare attraverso la sua poesia l’ingiusto destino della sua famiglia. Il titolo della raccolta (Canti di Castelvecchio) fa riferimento da un lato alla località toscana (Castelvecchio di Barga appunto) dove Pascoli aveva ricostituito il “nido” familiare, dall’altro (Canti) richiama in modo diretto la poesia di Leopardi, autore molto amato da Pascoli. Del resto echi leopardiani possono essere ritrovati in più di un testo: dal tema della memoria (in particolare L’ora di Barga) al paragone uomini-formiche (Il ciocco, che rimanda alla Ginestra) alla contrapposizione tempesta-quiete (La mia sera ➜ T10 OL), in cui si intravede il modello della Quiete dopo la tempesta). Rispetto a Myricae quella dei Canti di Castelvecchio è una poesia più ambiziosa: i testi sono in genere più lunghi e complessi (come già si può immaginare dal titolo “canti”), la rappresentazione si amplia con la presenza nella campagna degli uomini, del loro lavoro e delle loro tradizioni; più accentuata inoltre è la dimensione simbolica, in rapporto all’emergere del tema del mistero e della precarietà della vita, dalla quale l’unica protezione è costituita dal nido familiare. I Canti di Castelvecchio sono considerati il momento più ricco dello sperimentalismo metrico pascoliano (Nava): il ricorso a versi meno ricorrenti della tradizione poetica come il novenario, l’uso della rima ipermetra (ipermetro è il verso che ha una sillaba in eccesso rispetto a quelle previste dallo schema metrico: ad es. La mia sera ➜ T10 OL) e delle rime identiche o equivoche, gli intrecci di rime e assonanze, creano una musicalità più varia e complessa rispetto a Myricae.

Canti di Castelvecchio GENERE

raccolta poetica

DATA DI PUBBLICAZIONE

prima edizione 1903, edizione definitiva 1912 (postuma)

TEMI

la morte; gli affetti familiari; il nido protezione; la funzione della poesia; i valori della civiltà contadina; il senso del mistero; la precarietà della vita; la natura; accentuazione della dimensione simbolica

STILE

sperimentalismo metrico; struttura formale di più ampio respiro rispetto a Myricae: utilizzo di rime ipermetre; fonosimbolismo; uso di termini tecnici e dialettali

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Giovanni Pascoli

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Il gelsomino notturno Canti di Castelvecchio

G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, in Poesie a c. di G. Barberi Squarotti, UTET, Torino 2008

Composta nel 1901 per le nozze dell’amico Gabriele Briganti, la lirica fu poi inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio: dall’occasione per cui fu ideata deriva il parallelismo tra i fiori notturni del gelsomino fecondati nella notte e l’unione tra gli sposi che porta alla nascita di una nuova vita.

E s’aprono i fiori notturni1, nell’ora che penso a’ miei cari2. Sono apparse in mezzo ai viburni3 le farfalle crepuscolari4. 5

Da un pezzo si tacquero i gridi5: là sola una casa bisbiglia6. Sotto l’ali dormono i nidi7, come gli occhi sotto le ciglia8.

Dai calici aperti9 si esala10 10 l’odore di fragole rosse11. Splende un lume là nella sala. Nasce l’erba sopra le fosse12. Un’ape tardiva13 sussurra trovando già prese le celle. 15 La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolìo di stelle14. Per tutta la notte s’esala l’odore che passa col vento15. Passa il lume su per la scala; 20 brilla al primo piano: s’è spento16...

La metrica Sei quartine di novenari a rima alternata (ABAB CDCD ecc.).

1 i fiori notturni: il gelsomino notturno i cui fiori, d’estate, si aprono verso il tramonto e si chiudono all’alba. 2 nell’ora... cari: al crepuscolo il pensiero del poeta va ai familiari defunti. 3 viburni: arbusti dai fiori in prevalenza bianchi, uniti in infiorescenze, con frutti simili a bacche, di vario colore: rosso, giallo e anche nero. È nota come lantana o pallone di maggio, mentre il termine botanico ha un suono cupo con valore evocativo. 4 farfalle crepuscolari: le farfalle notturne, forse gli atropi con una macchia impressa sul dorso che ricorda un teschio.

5 i gridi: i richiami degli uccelli, che alla sera smettono di cantare. 6 sola... bisbiglia: l’aggettivo ha valore avverbiale, mentre il verbo suggerisce un dialogo intimo. 7 i nidi: metonimia per uccelli. 8 le ciglia: sineddoche per palpebre. 9 Dai calici aperti: dai fiori del gelsomino, a forma di imbuto e schiusi. 10 si esala: si diffonde. 11 fragole rosse: il profumo del gelsomino è associato a quello delle fragole rosse attraverso il procedimento analogico, a cui si affianca la sinestesia che intensifica la sensazione olfattiva con quella visiva del colore rosso. 12 Nasce... fosse: l’erba che nasce sopra le fosse, cioè le tombe, ricorda il passaggio

dalla vita alla morte come destino degli esseri viventi. 13 tardiva: che si è attardata verso l’alveare. 14 La Chioccetta... stelle: la costellazione delle Pleiadi, che procede nel cielo (l’aia azzurra) con il suo corteo di stelle come una chioccia nell’aia con i suoi pulcini, è indicata col nome popolare di Chioccetta. 15 Per tutta... vento: nella notte si diffonde il profumo trasportato dal vento come richiamo degli insetti. 16 Passa... spento: la casa è vista dall’esterno: il lume che sale per la scala allude al passaggio degli sposi al primo piano.

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È l’alba: si chiudono i petali un poco gualciti17; si cova, dentro l’urna molle e segreta18, non so che felicità nuova19. 17 gualciti: sgualciti, ammaccati. 18 dentro... segreta: nell’ovario, cioè alla

base del pistillo, la parte più interna del fiore, è avvenuta la fecondazione del polline.

19 non... nuova: la gioia di una nuova vita.

Analisi del testo Una rappresentazione “doppia” La lirica è apparentemente incentrata sulla rappresentazione di un suggestivo scenario naturale notturno. Il titolo si riferisce al gelsomino notturno, fiore dal profumo intenso che sboccia verso il tramonto e si chiude all’alba: ai fiori del gelsomino fanno riferimento l’incipit della poesia («E s’aprono i fiori notturni»), i vv. 9-10 («Dai calici aperti si esala / l’odore di fragole rosse»), e la chiusura (vv. 21-24), simmetrica con l’incipit («si chiudono i petali»), che esplicita il riferimento al processo di fecondazione del fiore. Ai riferimenti naturali si alternano nella lirica fotogrammi realistici, che si riferiscono a quanto avviene in una casa durante la notte (vv. 6, 11, 19-20). L’alternanza, senza alcuna logica, tra i due livelli del testo, risulta per chi legge spiazzante: per comprendere il significato della lirica occorre tenere conto dell’occasione nuziale che ispira il componimento e delle dichiarazioni stesse del poeta al proposito: in una nota alla poesia scrive: «E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del Gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua) al nome d’un dio e d’un angiolo, quello d’un povero uomo: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni». Nella casa evocata nella lirica avviene dunque la prima notte di nozze tra due sposi e il concepimento di una nuova vita. Da qui il parallelismo che percorre la poesia tra unione sessuale e fecondazione dei fiori (come si è detto, Pascoli usa molto spesso la simbologia del fiore per alludere all’eros).

La visione pascoliana della sessualità Il vero soggetto della poesia non è dunque la natura, ma l’amore, qui visto nella dimensione propriamente sessuale, cui alludono immagini di scoperta sensualità non attenuata dal filtro simbolico (come il riferimento sinestetico all’«odore di fragole rosse» intensificato dal verbo «si esala», riferito letteralmente all’odore dei fiori, ripetuto due volte). Come si è detto, la visione pascoliana del rapporto sessuale è turbata: il poeta il sesso può solo immaginarlo, con una fantasia quasi adolescenziale che è stata definita “voyeuristica”, per alludere al ruolo di “spettatore” che l’io lirico qui assume. Il rapporto fra i sessi è un’intima e segreta complicità (la casa bisbiglia), da cui egli si sente inesorabilmente escluso (assai significativa è l’immagine dell’ape esclusa dall’alveare, perché arrivata troppo tardi), è qualcosa che avviene lontano da lui (significativo il deittico là) ed è connotato come possesso: ne è evidente trasposizione simbolica l’immagine dei «petali / un poco gualciti» dopo la notte, che ricorre non molto diversa nella poesia Il chiù. L’esclusione dalla vita amorosa è collegata in Pascoli all’ossessione funeraria, che ricorre anche in questa poesia, sempre in forma simbolica: i fiori notturni si aprono (i due coniugi si dispongono all’atto amoroso) quando il poeta pensa invece ai suoi cari, e i suoi cari sono i morti, gelosi custodi della sua fedeltà al nido familiare originario. Nel testo non mancano riferimenti espressamente funebri, come le farfalle crepuscolari, associate dalla tradizione popolare alla morte, o le fosse del v. 12. L’io lirico non può che contrapporre alla vitalità dell’amore la dimensione protettiva del “nido”: il tema, che ha grande rilievo nella poesia pascoliana, qui è evocato dall’immagine rassicurante degli uccellini che dormono nei nidi («Sotto l’ali dormono i nidi») ed è ripreso nell’analogia tra la costellazione delle Pleiadi e una chioccia con i suoi pulcini (vv. 15-16).

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L’andamento ritmico e la sintassi narrativa L’uso della paratassi, costante nella poesia pascoliana, qui risulta particolarmente accentuato: l’intera lirica è costruita sulla successione di brevi frasi che conferiscono alla poesia un ritmo estremamente frammentato: ogni strofa è chiusa dal punto e ulteriormente spezzata dal punto fermo, che la divide in due parti. A questa struttura corrisponde un andamento quasi narrativo, ma senza mediazioni logico-interpretative. Le sequenze si succedono in un crescendo emotivo che tocca il culmine nella penultima strofa: qui il ritmo si fa ancora più spezzato dall’interpunzione, fino all’acme rappresentata dal verbo s’è spento, seguito dai puntini di sospensione, che, come in altri casi, sottolineano il coinvolgimento emotivo dell’io lirico. Tra la fine della quarta strofa e l’ultima esiste una sorta di reticenza, di vuoto, di forte suggestione che spetta al lettore colmare: nel vuoto si colloca l’unione dei due sposi. Nell’ultima strofa infine cade la tensione emotiva: la notte è finita, nel fiore nasce una nuova vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi in sintesi il contenuto della lirica e spiega il parallelismo su cui è incentrata. COMPRENSIONE 2. In che cosa consiste nel testo la dialettica vita-morte? Da quali simboli è espressa? 3. Perché il poeta si autoesclude dall’amore? STILE 4. Quale effetto produce la congiunzione coordinante che apre la poesia? 5. Quale figura retorica è contenuta nell’espressione pigolìo di stelle? (v. 16)

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. La lirica proposta introduce un suggestivo scenario naturale notturno: quale immagine della notte ne deriva? Quale rapporto si istituisce tra l’atmosfera notturna e gli avvenimenti narrati-evocati? Confronta questa immagine con quella di altre liriche (L’assiuolo ➜ T8 , La mia sera ➜ T10 OL) e motivane le differenze. ESPOSIZIONE ORALE 7. In un intervento orale di massimo tre minuti, spiega la definizione di questo componimento fornita dal critico Giacomo Debenedetti (1901-1967) «grande poesia di corrispondenze».

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La mia sera Canti di Castelvecchio

Giovanni Segantini, L’amore alla fonte della vita, olio su tela, 1896 (Galleria d’arte moderna, Milano).

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Collabora all’analisi

T11

Giovanni Pascoli

Nebbia Canti di Castelvecchio

G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, in Poesie a c. di G. Barberi Squarotti, UTET, Torino 2008

La poesia Nebbia, pubblicata in rivista nel 1899, fu inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903). L’immagine della nebbia, definita nelle sue caratteristiche fisiche nel secondo verso, acquista un significato simbolico inedito: il poeta le attribuisce una funzione protettiva nei confronti dei dolori della sua vita attraverso la rimozione dei ricordi del passato, ma soprattutto verso le pulsioni vitali che potrebbero indurlo a lasciare il nido protettivo in cui si è autorecluso.

Nascondi1 le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba2, tu fumo che ancora rampolli3, su l’alba4, 5 da’ lampi notturni e da’ crolli d’aeree frane5! Nascondi le cose lontane, nascondimi quello ch’è morto6! Ch’io veda soltanto la siepe 10 dell’orto, la mura7 ch’ha piene le crepe di valerïane8. Nascondi le cose lontane: le cose son ebbre9 di pianto! 15 Ch’io veda i due peschi, i due meli, soltanto, La metrica Cinque strofe di sei versi, ciascuna composta da tre novenari, un ternario, un novenario, un senario; tutti i versi seguono la rima ABCBCA, mentre i senari rimano tra loro. Il primo verso è eguale in tutte le strofe. 1 Nascondi: ha valore imperativo. 2 scialba: lett. priva di colore, biancastra. 3 rampolli: scaturisci dalla terra. 4 su l’alba: verso il mattino. 5 crolli... frane: crolli causati dal cielo,

che dànno i soavi lor mieli pel nero mio pane10. Nascondi le cose lontane 20 che vogliono ch’ami e che vada11! Ch’io veda là solo quel bianco di strada12, che un giorno ho da fare tra stanco don don di campane13... Nascondi le cose lontane, nascondile, involale14 al volo del cuore! Ch’io veda il cipresso15 là, solo, qui, solo quest’orto, cui presso16 30 sonnecchia il mio cane. 25

con allusione ai temporali annunciati dai lampi. 6 quello ch’è morto: i ricordi dolorosi del passato. 7 la mura: il muro di cinta. 8 valerïane: pianta erbacea la cui radice è usata come calmante. 9 ebbre: piene (letter. “ubriache”). 10 pel... pane: per metafora, le asprezze della vita. 11 che... vada: che vogliono che il poeta viva la vita nella sua pienezza.

12 quel... strada: quella strada bianca, che porta al cimitero.

13 stanco... campane: i rintocchi lenti che accompagnano un funerale.

14 involale: sottraile allo slancio del sentimento che può produrre nuovi dolori. 15 il cipresso: simbolo della morte, a cui il poeta sembra aspirare come meta per il futuro, mentre il presente è rivolto alla dimensione tranquilla e protetta dell’orto. 16 cui presso: presso cui (anastrofe).

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il titolo Nebbia evoca uno scenario naturale, ma il fenomeno atmosferico, delineato nelle sue caratteristiche solo nei primi versi, assume – come sempre nella poesia matura di Pascoli – un significato simbolico. Il poeta chiede alla nebbia di proteggerlo dalle cose lontane affinché egli possa vedere ciò che è presente e “vicino”: rimarcata dalla ripetizione delle strutture sintattiche ed espressioni Nascondi e Ch’io veda, l’opposizione ripropone la dialettica indeterminato e determinato che contraddistingue, nella poesia pascoliana, la rappresentazione spaziale. 1. La lirica è scandita dall’imperativo Nascondi, ripetuto all’inizio di ogni strofa: spiega quale significato assume la forma verbale in questo caso e quale valore attribuisce al componimento la sua ripetizione. Altro elemento ripetuto è il sintagma Ch’io veda: quali sentimenti esprime?

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2. L’espressione cose lontane è vaga e indeterminata dal punto di vista spazio-temporale e lessicale: rintraccia i riferimenti che aiutano a coglierne il senso. 3. Perché il poeta desidera che le cose lontane siano nascoste alla sua vista? Ti sembra che i suoi sentimenti nei loro confronti siano univoci o ambivalenti? 4. Individua gli elementi che corrispondono al “determinato” e “vicino”: quale elemento grammaticale li evidenzia? A quale dimensione fanno riferimento? 5. Quale funzione viene attribuita all’orto e alla siepe che lo circonda? A quale elemento del sistema simbolico di Pascoli corrispondono? 6. Quali significati rappresenta l’immagine conclusiva del cane? L’impulso che spinge il poeta a invocare l’azione della nebbia è tutt’altro che vitale: il suo desiderio di rimozione nei confronti del passato in nome del presente non è rivolto a costruire una nuova vita e il suo pensiero dominante è la morte. 7. Rintraccia nel testo la simbologia funebre: quale valore attribuisce a questa prospettiva? 8. Gli elementi descrittivi riferiti alla nebbia sono scarsi: oltre ai due aggettivi il poeta la definisce tramite un paragone (vv. 3-6): quale significato simbolico assume la nebbia nel testo? Nella lirica le scelte stilistiche sottolineano il desiderio di dimenticare che il poeta affida alla “nebbia”, ma anche le sue segrete e profonde ambivalenze. 9. Il ritmo del testo è sottolineato dalla ripetizione della formula «Nascondi le cose lontane»; nota nella seconda e nell’ultima strofa le riprese nascondimi e nascondile: a quale procedimento retorico corrispondono? 10. O sserva in ogni strofa il ricorso all’interpunzione esclamativa: quale tono conferisce al componimento? Quale sentimento sembra ispirarne l’uso? 11. A nalizza il componimento dal punto di vista dei suoni: ad esempio nella coppia di aggettivi impalpabile e scialba quali consonanti sono accostate? Quale effetto producono? Noti una relazione con le caratteristiche del fenomeno atmosferico e la richiesta del poeta? Osserva quindi l’espressione «stanco / don don»: a quale figura retorica corrisponde? Quale significato le attribuisce l’aggettivo?

Interpretare

L’immagine della siepe, familiare nella poesia pascoliana (ad esempio La siepe ➜ T4 ), non può non ricordare L’infinito di Leopardi: nella lirica del grande poeta di Recanati è proprio la siepe a sbarrare allo sguardo del poeta la visione di ciò che sta al di là di essa («da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»). 12. Confronta la connotazione sociologica della siepe nel poemetto omonimo di Pascoli con la funzione personale e psicologica che il poeta le attribuisce in Nebbia. 13. Spiega come – nonostante l’apparente analogia – la siepe suggerisca a Leopardi e a Pascoli percorsi mentali opposti.

6 I Poemetti Nel 1897, a pochi mesi di distanza dalla quarta edizione di Myricae, Pascoli pubblica con il titolo Poemetti un gruppo di componimenti in terza rima (terzine a rima incatenata); il numero aumenta nell’edizione del 1900 e in quella successiva (1904) che prende il titolo di Primi poemetti, cui segue un secondo libro, i Nuovi poemetti, nel 1909. La struttura narrativa dei Poemetti Già il metro adottato – la terzina dantesca – denota la volontà di Pascoli di realizzare un livello più elevato di poesia, come conferma la nuova citazione virgiliana, tratta dall’incipit della IV egloga: «Paulo maiora canamus» (“Cantiamo cose un po’ più elevate”). Pur nella continuità tematica, rappresentata dalla prevalente dimensione della campagna, rispetto a Myricae i Poemetti si differenziano per la presenza ricorrente di un impianto narrativo, sviluppato in forma di episodi e situazioni della vita dei contadini della Garfagnana (Bàrberi

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Squarotti ha parlato di una sorta di «romanzo georgico»). Il racconto è scandito sul ritmo delle stagioni, dall’autunno (La sementa) all’estate (La mietitura) e le diverse fasi sono collegate dalla vicenda d’amore tra due contadini, Rigo e Rosa; la vita che si svolge nel podere e nella famiglia appare protettiva e rassicurante, in linea con la concezione pascoliana che idealizza il mondo umile della campagna in antitesi alle minacce della realtà moderna. D’altra parte non mancano anche qui le inquietudini tipiche dell’opera pascoliana che si manifestano nel sentimento doloroso della separazione di Rosa dalla casa dei genitori per il suo matrimonio e nelle allusioni cariche di turbamento alla sfera sessuale dell’amore. Un’epica contadina Nella raccolta il mondo della campagna, modello per il poeta di un’esistenza semplice e autentica, diventa emblema dei valori e delle tradizioni contadine oltre lo specifico contesto storico e geografico. L’intento celebrativo di Pascoli proietta quella realtà nella dimensione mitica dell’epica: i Poemetti sono stati definiti dal critico Gianfranco Contini «un controcanto epico... d’un Omero trasferito in Garfagnana»; ne è un segnale l’uso del linguaggio formulare tipico di quel genere, che Pascoli, grande conoscitore della cultura classica, assume da Omero (ma anche da Virgilio) per designare personaggi e oggetti della vita agreste. Altri temi Non tutti i Poemetti (Primi e Nuovi) fanno riferimento al mondo dei campi; nella varietà dei componimenti distinti dal filone principale emergono i temi ricorrenti della poesia pascoliana: l’aspirazione frustrata dell’uomo alla conoscenza del reale (Il libro ➜ D1a OL), la violenza nei rapporti umani ma anche la solidarietà come risposta alla solitudine propria della condizione umana (I due fanciulli), l’angoscia che produce la vastità del cosmo (La vertigine ➜ T15 OL), i turbamenti suscitati dalla scoperta dell’eros (Digitale purpurea ➜ T13 ), l’incombere della morte (Il chiù). Numerosi sono nella raccolta i rimandi letterari, assunti da una pluralità di fonti, dalla Bibbia a Dante, da Petrarca fino a Leopardi. Importante nella raccolta Primi poemetti, il lungo testo Italy (➜ T14 ), in cui Pascoli dà spazio a un tema che gli stava molto a cuore, l’emigrazione: il poeta immagina che alcuni membri di una umile famiglia, emigrata in America (Ghita e Beppe, insieme alla nipotina Molly), ritornino online temporaneamente nel paese d’origine, in Garfagnana e ritrae il T12 Giovanni Pascoli Nella nebbia difficile confronto tra la dinamica realtà americana in cui essi Primi Poemetti ormai vivono e un mondo rimasto immobile nel tempo.

Poemetti GENERE

raccolta poetica

DATA DI PUBBLICAZIONE

prima edizione 1897; Primi poemetti 1904; Nuovi poemetti 1909

TEMI

• il mondo dei campi; • la violenza nei rapporti umani; • le memorie dell’infanzia; • l’emigrazione

STILE

utilizzo della terzina dantesca

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Giovanni Pascoli

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Digitale purpurea

LEGGERE LE EMOZIONI

Primi poemetti G. Pascoli, Primi poemetti, in Poesie a c. di G. Barberi Squarotti, UTET, Torino 2008

Il componimento (pubblicato nel «Marzocco» nel 1898) è poi uscito nella seconda edizione dei Poemetti (1900) e poi dei Primi poemetti del 1904, nella sezione Il bordone – L’aquilone, che si distacca dall’epica contadina prevalente nella raccolta. Secondo la sorella del poeta, Maria, il poemetto gli fu ispirato dal racconto che lei stessa gli fece di un episodio accadutole nel collegio delle suore di Sogliano: in occasione di una passeggiata, le educande avevano notato una pianta mai veduta prima, dai fiori rossi punteggiati di macchie più scure, la digitale purpurea. La suora che le accompagnava aveva vietato loro di avvicinarsi, sostenendo che il fiore emanava un profumo mortalmente velenoso. Nel testo l’episodio è rievocato attraverso i ricordi di due compagne di collegio: il fiore, associato al motivo della morte e il cui nome è indicato solo nel titolo, assume una valenza fortemente simbolica.

I Siedono1. L’una guarda l’altra. L’una esile e bionda, semplice di vesti 3 e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna, l’altra2... I due occhi semplici e modesti3 fissano gli altri due ch’ardono4. «E mai 6 non ci tornasti5?» «Mai!» «Non le vedesti più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai; e le rividi le mie bianche suore, 9 e li rivissi i dolci anni che sai; quei piccoli anni così dolci al cuore...» L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi 12 quell’orto chiuso? i rovi con le more? i ginepri tra cui zirlano6 i tordi? i bussi7 amari? quel segreto canto8 15 misterioso, con quel fiore, fior di...?» «morte9: sì, cara». «Ed era vero? Tanto io ci credeva che non mai, Rachele, 18 sarei passata al triste fiore accanto.

La metrica Tre strofe di terzine a rima incatenata; l’ultimo verso di ogni sezione rima con il penultimo dell’ultima terzina. 1 Siedono: nella finzione Maria e Rachele, protagoniste del poemetto, si ritrovano dopo anni e rievocano l’esperienza del collegio. 2 l’altra: i puntini di sospensione alludono alla diversità della fanciulla bruna, già anticipata dal ma.

3 I due... modesti: sono quelli di Maria, la bionda. 4 gli altri... ardono: il verbo, tipico della passione amorosa, connota l’interlocutrice bruna. 5 E mai... tornasti: sottinteso: al convento delle suore dove furono educande. 6 zirlano: verbo onomatopeico per indicare il trillo dei tordi. 7 i bussi amari: il bosso, pianta sempre-

verde ornamentale, nella corteccia e nelle foglie contiene un alcaloide (buxina) usato in farmacopea. 8 segreto canto: angolo nascosto. 9 fior di... morte: la digitale purpurea è nota come pianta curativa, ma in sovradosaggio risulta tossica e anche letale. L’effetto velenoso è prodotto non dal profumo ma dall’essenza estratta dalle foglie.

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Ché si diceva10: il fiore ha come un miele11 che inebria l’aria; un suo vapor che bagna 21 l’anima d’un oblìo dolce e crudele12 Oh! quel convento in mezzo alla montagna cerulea13!» Maria parla: una mano 24 posa su quella della sua compagna; e l’una e l’altra guardano lontano14. II Vedono15. Sorge nell’azzurro intenso del ciel di maggio il loro monastero, 28 pieno di litanie, pieno d’incenso16. Vedono; e si profuma il lor pensiero17 d’odor di rose e di viole a ciocche18, 31 di sentor19 d’innocenza e di mistero. E negli orecchi ronzano, alle bocche salgono melodie, dimenticate, 34 là, da tastiere appena appena tocche20... Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate21, ospite caro22? onde23 più rosse24 e liete 37 tornaste alle sonanti25 camerate oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete, Ave Maria, la vostra voce in coro; 40 e poi d’un tratto (perché mai?) piangete... Piangono, un poco, nel tramonto d’oro, senza perché26. Quante fanciulle sono 43 nell’orto, bianco qua e là di loro27! Bianco e ciarliero28. Ad or ad or, col suono di vele al vento29, vengono. Rimane 46 qualcuna, e legge in un suo libro buono30.

10 Ché si diceva: erano le suore del convento, come ricorda la sorella del poeta, a intimorire le educande con il racconto della velenosità della pianta. 11 come un miele: un profumo dolce come il miele. 12 un suo... crudele: il fiore emana effluvi odorosi (vapor) che producono un effetto di dimenticanza di sé piacevole ma anche doloroso. 13 cerulea: azzurra come il cielo. 14 lontano: al loro comune passato. 15 Vedono: rievocano. 16 pieno... incenso: risuonante di pre-

ghiere e profumato di incenso. 17 si profuma... pensiero: il ricordo si associa ai profumi del convento. 18 viole a ciocche: violacciocche, piante spontanee con fiori a grappolo. 19 sentor: profumo. 20 tocche: sfiorate. 21 grate: le grate del parlatorio. 22 ospite caro: visita gradita. 23 onde: per cui. 24 più rosse: colorite e animate in viso per il piacere della visita. 25 sonanti: risuonanti delle voci delle educande.

26 senza perché: senza un motivo definito: il pianto è suscitato dalle emozioni che turbano l’animo delle adolescenti. 27 bianco... loro: i vestiti delle educande illuminano di bianco il giardino. 28 ciarliero: pieno di voci. 29 col suono... vento: il rumore prodotto dalle gonne della educande è paragonato a quello delle vele nel vento. 30 in un suo libro buono: un libro che ispira buoni sentimenti, adatto alle educande.

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In disparte da loro agili e sane, una spiga di fiori, anzi di dita 49 spruzzolate di sangue, dita umane31, l’alito ignoto32 spande di sua vita. III «Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani si premono. In quell’ora hanno veduto 53 la fanciullezza, i cari anni lontani. Memorie (l’una sa dell’altra al muto premere33) dolci, come è tristo e pio34 56 il lontanar35 d’un ultimo saluto! «Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!» dice tra sé, poi volta la parola 59 grave36 a Maria, ma i neri occhi no37: «Io,» mormora, «sì: sentii38 quel fiore. Sola ero con le cetonie39 verdi. Il vento 62 portava odor di rose e di viole a ciocche. Nel cuore, il languido fermento d’un sogno che notturno arse40 e che s’era 65 all’alba, nell’ignara anima, spento41. Maria, ricordo quella grave sera. L’aria soffiava luce di baleni 68 silenzïosi42. M’inoltrai leggiera, cauta, su per i molli terrapieni erbosi. I piedi mi tenea la folta 71 erba43. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni! Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! tanta, che, vedi... (l’altra lo stupore 74 alza degli occhi44, e vede ora45, ed ascolta con un suo lungo brivido...) si muore!» 31 dita... umane: il nome della pianta deriva da digitalis: i suoi fiori a grappolo ricordano dita umane; spruzzolate di sangue “cosparse di macchie rosse”, da cui deriva la denominazione purpurea. 32 alito ignoto: il profumo della digitale è ancora ignoto alle educande, indotte dalle suore a evitarlo. 33 l’una... premere: l’una comprende i pensieri dell’altra alla sola pressione della mano. 34 tristo e pio: triste e pietoso. 35 il lontanar: il commiato; il verbo, come

l’aggettivo lontano (v. 25), ha una connotazione emotiva. 36 volta... grave: rivolge seria la parola. 37 ma... no: nel momento della confessione del suo segreto Rachele distoglie gli occhi dall’amica. 38 sentii: odorai. 39 cetonie: coleotteri di color verde. 40 languido... arse: (sentivo) un’inquietudine dolce suscitata da un sogno notturno. 41 nell’ignara... spento: il sogno è svanito (dimenticato) all’alba dall’anima, ancora

inconsapevole del suo significato.

42 baleni silenzïosi: lampi senza tuoni. 43 I piedi… erba: l’erba folta mi tratteneva il passo, come se volesse impedirle di proseguire. 44 lo stupore alza degli occhi: alza gli occhi stupiti; la costruzione con sostantivo astratto al posto dell’aggettivo, ricorrente in Pascoli, lo enfatizza. 45 vede ora: il verbo ha valore non memoriale, come nella sezione centrale, ma conoscitivo: Maria capisce finalmente il valore del divieto.

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Analisi del testo La struttura Il poemetto, suddiviso in tre sezioni, è incentrato sull’incontro tra due ex compagne di scuola (Maria e Rachele) che, ormai adulte, rievocano gli anni in cui erano educande in un convitto di un monastero femminile: nella prima e nella terza sezione i ricordi si snodano attraverso il dialogo, mentre in quella centrale sono filtrati dalla voce narrante, in un lungo flash back. Il verbo Vedono, che lo introduce (v. 26 e, in anafora, al 29) indica (in implicita dialettica con il lontano con cui si chiude la prima sezione) la vivezza di quei ricordi nel pensiero, come se le due amiche stessero guardando un quadro (una foto o un video) che rappresenta il loro passato, reso attuale anche dai verbi al presente e dall’indicatore temporale oggi ripetuto (vv. 35 e 38).

Le figure femminili Nella prima strofa il colloquio è preceduto da un breve ritratto delle due giovani, le cui caratteristiche fisiche incarnano personalità opposte, secondo gli stereotipi dominanti nella letteratura romantica e decadente. Maria, bionda e discreta, rappresenta l’innocenza verginale: il suo rapporto con l’eros – di cui è simbolo la digitale purpurea – non supera la curiosità repressa, perché il divieto delle suore (dal v. 19) ha regolato la sua adolescenza e, si intuisce, la sua stessa vita. Quando, nella terza strofa, la compagna di un tempo le rivela il suo segreto, la sua reazione è un lungo brivido. Nella descrizione di Rachele il colore dei capelli (bruna) e gli occhi che ardono evocano la sensualità; la sua diversità rispetto all’amica è sottolineata dall’avversativa (ma l’altra) e ribadita dalla ripetizione del pronome indefinito seguito dai puntini di sospensione (l’altra..., v. 4). Le due giovani donne con i loro diversi destini risultano però complementari in quanto in esse «si risolve l’attrazione-repulsione verso il simbolo funebre-sessuale del fiore» (Bàrberi Squarotti): attraverso le loro figure si rivela l’ambivalente atteggiamento di desiderio e timore del poeta nei confronti dell’esperienza erotica.

Il tempo rievocato: l’età dell’innocenza e dei turbamenti Nella prima e seconda sezione gli spazi e la vita del monastero sono evocati attraverso particolari posti in primo piano e con la consueta precisione lessicale botanica (vv. 12-14) e ornitologica. Secondo la poetica del “vedere e sentire”, dominano le percezioni sensoriali, con i profumi dei fiori e dell’incenso, i colori del cielo, il verso degli uccelli, i suoni delle preghiere e dei canti. I ricordi compongono immagini di un’età d’incanto, che suscita nostalgia e rimpianto, come sottolineano le espressioni affettive (si noti la ripetizione dell’agg. dolci). Nella memoria il passato si identifica come il tempo dell’innocenza, allusa simbolicamente dai vestiti delle monache a cui corrispondono quelli delle educande nell’orto. Con l’immagine di serenità e purezza contrastano però i segnali che evocano il mistero e una visione angosciata della realtà (vv. 15-16): accentua quella dimensione già nella prima sezione il motivo del “fiore della morte”, ripreso poi alla fine della seconda, con il suo profumo strano e l’avvertimento delle monache. Infine il riferimento ai turbamenti adolescenziali, che si manifestano con i rossori e i pianti immotivati (vv. 41-42), allude a emozioni ignote.

La simbologia floreale: il “fiore della morte” Riprendendo un motivo ricorrente nella letteratura decadente, che associa all’immagine floreale un significato erotico e sessuale, Pascoli affida qui la sua visione della sessualità alla digitale purpurea (come il gelsomino notturno nella lirica omonima), che allude simbolicamente al sesso e alla scoperta dell’eros (vv. 19-21, 47-49, 68-72). Nella prima strofa è circondata di un alone oscuro: la pudica Maria non osa completarne il nome (vv. 15-16, con puntini di sospensione); cresce in un luogo «segreto... misterioso»; è un triste fiore (cioè destinato a portare dolore); il suo profumo è inebriante, ma instilla «un oblìo dolce e crudele» (v. 21). Nella II strofa l’immagine del fiore allude a qualcosa di malato: è contrapposto alle educande agili e sane per il suo aspetto quasi mostruoso (simile a «dita / spruzzolate di sangue»), e di nuovo per il suo profumo, un alito ignoto, che suggerisce emozioni segrete, inconfessabili. Infine nella III strofa, nel racconto drammatico di Rachele del suo segreto incontro, è in primo piano («sentii quel fiore»), vivo nella memoria («quella grave sera»: l’agg. determinativo allude alla lontananza nel tempo ma anche alla forza del ricordo, grave allude al senso di colpa). Nelle parole della giovane l’episodio rivive in una dimensione misteriosa e visionaria (vv. 63-64), sullo sfondo di una natura inquietante (resa dalla sinestesia preziosa, vv. 67-68), in cui il richiamo del desiderio e la dolcezza del piacere però subito dopo si identificano con l’abbandono e il dissolvimento della morte (la parentesi dilata la confessione finale, con un effetto drammatico, di sospensione).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del poemetto in massimo 8 righe. ANALISI 2. Evidenzia nella descrizione delle due figure femminili gli elementi che anticipano il loro diverso rapporto con l’eros. 3. Nel poemetto hanno grande rilievo le sensazioni: indicane la tipologia e spiegane la funzione in relazione alla rievocazione da parte delle due compagne del passato e alla concezione dell’eros. COMPRENSIONE 4. Perché la rievocazione della vita trascorsa in collegio può essere definita “l’età dell’innocenza”, ma anche “dei turbamenti”? LESSICO 5. Rintraccia nel testo esempi di linguaggio simbolico e spiegane il significato in rapporto al contesto. STILE 6. Analizza il ritmo del testo: in relazione a quali momenti del racconto si nota una maggiore frammentazione? Attraverso quali procedimenti è ottenuta?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Le due figure femminili di Maria e Rachele incarnano diverse concezioni della donna e differenti modelli di femminilità. Quali? Argomenta in merito, in un testo di massimo 15 righe. 8. Nel componimento viene affrontato il tema del fascino del proibito. Spesso la giovane età e l’inesperienza a essa correlata inducono a provare attrazione verso qualcosa di ignoto e a cadere nella trasgressione delle regole, pur sapendo di andare incontro al pericolo. Esprimi le tue riflessioni in merito a questo tema in un testo di massimo 15 righe.

Giovanni Pascoli

T14

EDUCAZIONE CIVICA

Italy Primi poemetti

G. Pascoli, Primi poemetti, in Poesie a c. di G. Barberi Squarotti, UTET, Torino 2008

Composto nel 1904, Italy è collocato a chiusura dei Primi poemetti. Preceduto da una solenne dedica agli emigranti che in quegli anni lasciavano l’Italia, molti dei quali diretti negli Stati Uniti, il poemetto si sviluppa in due lunghi canti, per 450 versi complessivi. La narrazione prende avvio dal ritorno in Garfagnana (la regione toscana dove si trovava la casa di Pascoli a Castelvecchio) di Beppe (in America rinominato Joe, da Joseph) e la sorella Ghita, emigrati da anni in America, con la nipotina Molly, nata in America, venuta a casa dei nonni in campagna per curarsi dalla tisi. Caratteristica fondamentale del testo è l’ardita contaminazione fra diversi registri linguistici, finalizzata a esprimere la contrapposizione tra mondi e culture diversi: nei dialoghi tra i personaggi si alternano l’inglese (l’unica lingua in cui sa esprimersi Molly), un italiano dialettale americanizzato e termini del dialetto della Garfagnana.

V Oh! no: non c’era lì1 né pie né flavour2 né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto: 103 «Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»3 La metrica I due canti (ognuno di 225 versi) sono divisi in sezioni ciascuna delle quali è costituita da 8 terzine a rima incatenata, chiuse da un endecasillabo che rima col secondo dell’ultima terzina. 1 lì: in Garfagnana. 2 né pie né flavour: pie “torta, crostata” e

flavour “aroma”. I termini inglesi indicano i dolci che la bambina è abituata a mangiare e che non ci sono a casa della nonna, dove le sono stati offerti i cibi contadini. 3 «Ioe, what... Never?»: nella strofa precedente la nonna ha insistito perché la bambina stia vicino al fuoco dal momento che

nevica: Molly, che non capisce l’italiano e, a maggior ragione, il dialetto garfagnino, interpreta la parola nieva (la forma dialettale, che indica la neve, è simile alla pronuncia di never) come se fosse inglese e, credendo che voglia dire che non tornerà mai in America, si dispera.

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Oh! no: starebbe in Italy sin tanto ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly! 106 E Ioe godrebbe questo po’ di scianto4. Mugliava5 il vento che scendea dai colli bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta 109 fissò la fiamma con gli occhioni molli6. Venne, sapendo della lor venuta, gente, e qualcosa rispondeva a tutti 112 Ioe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta7... molti bisini, oh yes... No, tiene un fruttistendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima8... 115 Conta moneta! può campar coi frutti9... Il baschetto non rende come prima10... Yes, un salone, che ci ha tanti bordi11 ... 118 Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima12...» Il tramontano13 discendea con sordi brontoli14. Ognuno si godeva i cari 121 ricordi, cari ma perché ricordi: quando sbarcati dagli ignoti mari scorrean le terre ignote con un grido straniero15 in bocca, a guadagnar danari 125

per farsi un campo16, per rifarsi un nido...

VI Un campettino da vangare, un nido da riposare17: riposare, e ancora 128 gettare in sogno18 quel lontano grido: Will you buy19... per Chicago e Baltimora, 4 Oh! no... scianto: lo zio rassicura Molly dicendole che starà in Italia solo uno o due mesi, il tempo della sua guarigione, mentre lui godrà di un po’ di riposo (scianto nel dialetto locale). 5 Mugliava: mugghiava, muggiva, cioè ululava (toscanismo); il termine, che evoca il rumore del vento, evoca una natura selvaggia, a cui la bambina non è abituata. 6 molli: umidi di pianto. 7 è fiero... saluta: Joe dà notizie ai vicini di casa dei loro parenti emigrati, alternando parole inglesi con espressioni popolari e toscanismi; fiero per “sta bene”, “è contento del suo stato”: indica l’orgoglio di chi è partito in cerca di fortuna.

8 bisini... scrima: bisini sta per business; fruttistendo per fruit stand, “rivendita di frutta”, checche per cakes, candi per candy, cioè “zucchero candito”, scrima per ice cream; l’elenco dei termini italoamericani segnala il desiderio di esibire la conoscenza della lingua straniera ma anche la diversità linguistica di chi è emigrato. 9 Conta moneta... frutti: incassa parecchi soldi (money), può vivere di rendita. 10 Il baschetto... prima: la prima attività degli emigranti lucchesi era stata quella di venditori ambulanti (baschetto da basket è il cesto dove venivano riposte le merci), ormai non più molto redditizia.

11 un salone... bordi: salone (da saloon) equivale qui a “osteria”, mentre bordi da board, a “tavoli”. È la nuova attività intrapresa, segno di intraprendenza e spirito di adattamento. 12 la stima: è il bastimento (steamer). 13 tramontano: vento di tramontana. 14 brontoli: brontolii. 15 grido straniero: il richiamo dei venditori ambulanti in lingua inglese per attirare acquirenti. 16 farsi un campo: comperarsi un campo. 17 un nido da riposare: una casa dove riposare dopo tante fatiche. 18 gettare in sogno: pronunciare in sogno. 19 Will you buy: volete comperare.

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buy images20... per Troy, Memphis, Atlanta, 131 con una voce che te stesso accora21: cheap22!... nella notte, solo in mezzo a tanta gente; cheap! cheap! tra un urlerìo23 che opprime; 134 cheap!... Finalmente un altro odi, che canta24... Tu non sai come, intorno a te le cime sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo: 137 chi canta, è il gallo sopra il tuo concime25. «La mi’ Mèrica26! Quando entra quel gelo27, ch’uno ritrova quella stufa roggia 140 per il gran coke, e si rià28, poor fellow29! O va per via, battuto dalla pioggia. Trova un farm30. You want buy31? Mostra il baschetto32. 143 Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia33!» Diceva alcuno34; ed assentiano al detto35 gli altri seduti entro la casa nera36, 146 più nera sotto il bianco orlo del tetto37. Uno guardò la piccola straniera38, prima non vista, muta39, che tossì40. «You like this country41...» Ella negò severa: 150

«Oh no! Bad42 Italy! Bad Italy!».

20 buy images: comperare figurine; gli emigranti provenienti dalla Garfagnana vendevano statuine di gesso, in genere di soggetto sacro. 21 accora: rattrista. 22 cheap: conveniente, a buon mercato. 23 urlerìo: il frastuono di rumori e voci della città. 24 un altro... canta: un altro emigrante italiano, che canta nella stessa lingua. 25 Tu... concime: il canto del compatriota suscita nell’emigrante l’illusione di essere in patria e di sentire il verso del gallo; le Alpi sono le Apuane. 26 La mi’ Mèrica: la mia America; tra i presenti un emigrante esprime l’attaccamento per il paese che gli ha dato da vivere. 27 Quando... gelo: è un riferimento agli inverni molto rigidi dell’America del nord. 28 ch’uno... rià: quando arriva il freddo intenso, l’emigrante si può scaldare al calore della stufa a carbone (coke), rossa (roggia) per la temperatura elevata e riprende le forze (si rià). 29 poor fellow: povero diavolo. 30 farm: fattoria. 31 You want buy: vuole comprare? È il richiamo del venditore ambulante, in un inglese semplificato.

32 il baschetto: cfr. nota 10. 33 Anche, l’alloggia: gli dà anche alloggio. 34 alcuno: uno dei presenti, che rievoca la sua esperienza dell’emigrazione. 35 detto: racconto. 36 casa nera: annerita dal fumo del camino (allusione alla povertà dell’ambiente). 37 sotto... tetto: il colore della casa contrasta con il bianco della neve che copre il tetto. 38 la piccola straniera: Molly, la bambina nata negli Stati Uniti da genitori italiani. 39 muta: silenziosa, perché non parla italiano come i presenti. 40 che tossì: riferimento alla malattia che ha indotto gli zii a portarla in Italia, in un clima invernale più mite. 41 You like this country: ti piace questo paese (con la forma interrogativa della lingua colloquiale). 42 Bad: cattiva.

Una famiglia italiana, sbarcata a Ellis Island (New York) nel 1905, in un deposito bagagli.

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Analisi del testo La condizione dell’emigrante Nei versi antologizzati l’esperienza dell’emigrazione è descritta attraverso i racconti di coloro che l’hanno vissuta, riportati dalla voce narrante o attraverso il discorso diretto. Gli aspetti salienti della condizione degli emigranti, riconducibili alla drammatica esperienza dello sradicamento, sono evocati nei versi proposti da frammentari flash-back, da cui traspaiono i sentimenti dei personaggi: li suggeriscono a tratti anche i puntini di sospensione, lasciando al lettore il compito di immaginare il non detto. Nei racconti emergono in primo piano, indimenticabili, il viaggio attraverso gli «ignoti mari» e l’incontro con «terre ignote»: la ripetizione dell’aggettivo, sottolineata dal chiasmo, evidenzia il senso di smarrimento degli emigranti nell’affrontare una realtà sconosciuta, un mondo incomparabile per la sua vastità con il paese di provenienza, come segnala la successione dei nomi delle grandi città attraversate per vendere le povere merci («per Chicago e Baltimora, / buy images... per Troy, Memphis, Atlanta»). Alle fatiche materiali si aggiungono per l’emigrante i disagi psicologi: la necessità di usare una lingua nuova e sconosciuta («con un grido / straniero in bocca»), la solitudine sperimentata nelle metropoli, con l’unico conforto dato dal sentire la propria lingua («Finalmente un altro odi, che canta»), che fa rivivere per un momento l’illusione di essere nel paese natio. Con una tecnica sperimentata in altre poesie (ad esempio Patria ➜ T5 OL), Pascoli rappresenta il potere evocativo di una percezione sensoriale – in questo caso uditiva – che riporta alla memoria un frammento del passato con tale intensità da sostituirsi per un attimo alla realtà presente (vv. 10-12). Al mondo della campagna (la maggior parte degli emigranti erano contadini) si rivolgono i desideri di chi è partito in cerca di fortuna, identificata nel ritorno al paese e nel possesso di un appezzamento di terra con cui mantenere una famiglia («per farsi un campo, per rifarsi un nido»). Una volta realizzato quel sogno, a posteriori gli emigranti rievocano la realtà sperimentata e diventata parte della loro vita («La mi’ Mèrica»), nei suoi aspetti positivi: ne apprezzano le comodità («quella stufa roggia / per il gran coke»), la ricchezza e anche la generosità incontrate («Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia»).

La lingua dell’emigrante Il passo è un esempio significativo dello straordinario sperimentalismo di Pascoli. Il poeta ricrea un originale impasto linguistico, per riprodurre il parlato degli emigranti, di chi cioè ha dovuto imparare qualche parola ed espressione straniera per poter lavorare e comunicare. L’operazione mimetica del poeta non si limita però a riprodurne formalmente la contaminazione linguistica: la mescolanza dell’italiano (con la presenza di alcune costruzioni colloquiali, corrispondenti agli usi popolari e regionali) con termini e frasi di un inglese approssimativo traduce efficacemente il difficile vissuto dei migranti. In particolare nel parlato di Beppe-Joe si alternano termini garfagnini (come scianto, fiero) a locuzioni inglesi (ad esempio, rivolgendosi a Molly, che parla solo inglese: one month or two, poor Molly), a termini stranieri italianizzati (bisini, fruttistendo, checche, candi, scrima, stima…). Nella sesta strofa crea un effetto patetico la ripetizione del verbo buy (“comprare” in inglese) che lascia immaginare facilmente la frustrazione, la stanchezza di chi deve vendere le sue povere merci per sopravvivere. Un effetto patetico accentuato dall’iterazione dell’aggettivo cheap (a buon mercato) che l’emigrante grida disperatamente mentre è «solo in mezzo a tanta/gente»: il suono onomatopeico rimanda al verso degli uccellini che chiedono cibo nel nido e implica una connotazione di fragilità. A loro volta le parole in inglese della bambina che, figlia di italiani, non sa parlare italiano rappresentano emblematicamente la condizione di chi, con l’emigrazione, non riconosce più le proprie origini e si sente estraneo nel paese di origine (ma, nel corso della lunga composizione, la piccola Molly si affezionerà alla nonna e alla povera casa dove recupererà la salute).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Esponi il contenuto dei versi, evidenziando i caratteri della vita degli emigranti come è rappresentata dal poeta. COMPRENSIONE 2. Quali caratteristiche del paese in cui hanno vissuto emergono? ANALISI 3. La casa dove avviene l’incontro è nera (v. 145): spiega il significato di questo dettaglio.

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4. Rintraccia nei sentimenti e nei sogni degli emigranti la presenza dei temi emblematici della poesia pascoliana. 5. La contrapposizione tra mondi diversi – quello povero e arcaico dei contadini e quello benestante e moderno d’oltreoceano – è accentuata dall’alternanza di frasi in italiano e parole in inglese. Rintraccia nel testo esempi di questo sperimentalismo linguistico e poi rispondi: c’è possibilità di comunicazione tra i due mondi? Che cosa comporta, sotto questo aspetto, non riuscire a comunicare nella propria lingua?

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta l’immagine del fenomeno dell’emigrazione delineata in questi versi con quella del testo ufficiale e “politico” del discorso La grande Proletaria si è mossa (➜ D5 OL): noti differenze? SCRITTURA 7. Spiega in che modo lo sperimentalismo linguistico pascoliano riesce a rappresentare il senso dello sradicamento del migrante e la sua perdita d’identità. Argomenta le tue riflessioni in una breve trattazione (max 15 righe), anche facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze di studio. (➜ EDUCAZIONE CIVICA, La difficile condizione dell’emigrante). ESPOSIZIONE ORALE 8. I fenomeni migratori di ieri e di oggi ci mostrano quanto i pregiudizi nei confronti dell’altro da sé siano radicati nella nostra mentalità. Fai una ricerca in rete sulle norme costituzionali che regolano l’accoglienza dello straniero e rifletti sul dolore della perdita di identità che caratterizza la condizione degli emigranti, costretti spesso a rinunciare a una parte di sé stessi, per essere accettati dalla nuova comunità. Esponi alla classe il risultato delle tue riflessioni.

Sguardo sul cinema Nuovomondo, il film Una storia di emigrazione italiana negli Stati Uniti, agli inizi del Novecento, è al centro del film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese. Il titolo, che riprende l’espressione con cui fu indicata l’America ai tempi della scoperta di Colombo, in contrapposizione con la “vecchia” Europa, esprime il sentimento di attesa e speranza dei migranti per una realtà migliore di quella da cui provenivano. Un pastore siciliano, Salvatore Mancuso, deciso a emigrare con la famiglia (i due figli, l’anziana madre e una sorella), vende tutti i suoi beni per pagare il viaggio; durante la traversata atlantica in terza classe, affollata da viaggiatori di condizione simile alla loro, incontrano una giovane ed emancipata signora inglese, Lucy, che viaggia da sola, e di cui Salvatore si fa difensore.

Arrivati a Ellis Island, devono fare i conti con le regole dell’immigrazione statunitense e sottoporsi a esami medici e test di carattere psicologico. La madre di Salvatore, che si rifiuta di farli, è rimpatriata, mentre le donne giovani, non potendo entrare nel paese straniero senza essere maritate, sono costrette a sposare compaesani immigrati da tempo; Lucy si unirà in matrimonio con Salvatore. Attraverso la vicenda della famiglia siciliana e dei compagni di viaggio il regista mette in scena, con un ovvio richiamo alla contemporaneità (oggi, è l’Italia il nuovomondo), i momenti comuni a tutte le migrazioni: il distacco doloroso dalla propria terra, il viaggio in condizioni precarie se non pericolose, l’esperienza frustrante dei pregiudizi nei confronti degli stranieri.

Il manifesto del film.

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EDUCAZIONE CIVICA

La difficile condizione dell’emigrante Proponiamo una riflessione sul tema dell’emigrazione, attraverso la lettura di passi tratti da opere di tre scrittori: Charles Dickens (1812-1870) Edmondo De Amicis (1846-1908) Alessandro Baricco (1958).

1. CHARLES DICKENS, America, 1842

Avevamo a bordo circa un centinaio di passeggeri di terza classe: un piccolo povero mondo. Guardando sul ponte inferiore dove essi passeggiavano, cucinavano e mangiavano, cominciammo a conoscere di vista alcuni tipi fra loro e ci venne la curiosità di apprenderne anche la storia, di sapere con quali speranze erano emigrati in America, per quali motivi tornavano a casa, e quale fosse in genere la loro vita. Dal mastro carpentiere di bordo che era incaricato di sorvegliarli avemmo informazioni, alcune delle quali ci parvero assai strane. Certuni si erano fermati in America solo tre giorni, altri solo tre mesi, e qualcuno era venuto proprio col viaggio d’andata di questa stessa nave con la quale stava ritornando in patria. C’era chi aveva venduto i vestiti per comprarsi il biglietto ed era rimasto coperto di stracci; chi non aveva cibo, e viveva di carità. [...] Tutte le famiglie che avevamo a bordo avevano pressappoco la stessa storia. Dopo aver risparmiato, preso in prestito o dopo aver venduto tutto per pagarsi il biglietto, erano andati a New York pensando di trovarne le strade coperte d’oro; invece le avevano trovate coperte di pietre molto dure. Fiacca l’iniziativa di nuovi lavori; non richieste nuove braccia; se c’era da lavorare, non c’era paga. Ora tornavano in patria, più poveri di quando erano partiti. Uno di loro portava un messaggio di un giovane artigiano inglese, a New York da una quindicina di giorni, indirizzato ad un suo amico abitante vicino a Manchester per incitarlo a raggiungerlo: “Questo sì che è un paese, Jim”, diceva lo scrivente; “mi piace l’America. Qui non c’è dispotismo, e questa è una gran cosa. Basta chiedere, per avere l’impiego, e i salari sono grandiosi. Tutto quello che hai da fare, Jim, è sceglierti un lavoro. Io ancora non ho scelto, ma lo farò presto. Per ora non mi sono deciso se fare il carpentiere o il sarto”.

stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. [...] Delle donne, le più rimanevano sotto [nelle cuccette sottocoperta]; gli uomini, invece, deposte le loro robe, risalivano, e s’appoggiavano ai parapetti. Curioso! Quasi tutti si trovavano per la prima volta sopra un grande piroscafo che avrebbe dovuto essere per loro come un nuovo mondo, pieno di maraviglie e di misteri; e non uno guardava intorno o in alto o s’arrestava a considerare una sola delle cento cose mirabili che non aveva mai viste. [...] Qualche donna aveva gli occhi rossi. Dei giovanotti sghignazzavano; ma, in alcuni, si capiva che l’allegria era forzata. Il maggior numero non mostrava che stanchezza o apatia. Il cielo era rannuvolato e cominciava a imbrunire. Ma lo spettacolo eran le terze classi [...] Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto: il marito seduto e addormentato, la moglie col capo appoggiato sulle spalle di lui, e i bimbi sul tavolato, che dormivano col capo sulle ginocchia di tutti e due: dei mucchi di cenci, dove non si vedeva nessun viso, e non n’usciva che un braccio di bimbo o una treccia di donna. [...]

2. EDMONDO DE AMICIS, Sull’Oceano, 1889

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [...] continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano

Migranti arrivati a Ellis island, 1902.

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EDUCAZIONE CIVICA

3. ALESSANDRO BARICCO, Novecento, 1994

Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa... e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte... magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui, l’America. La sera, dopo il

lavoro, e le domeniche, si era fatto aiutare dal cognato, muratore, brava persona... prima aveva in mente qualcosa in compensato, poi... gli ha preso un po’ la mano, ha fatto l’America... Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido (gridando), AMERICA, c’era già, in quegli occhi, di bambino, tutta, l’America. Lì, ad aspettare.

Raffaello Gambogi, The immigrants, olio su tela, 1894 (Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto dei tre passi proposti. COMPRENSIONE 2. Quale caratteristica positiva dell’America induce un emigrante a invitare un suo connazionale a seguirlo nel Nuovo Mondo? (Testo 1) ANALISI 3. Spiega e commenta il significato delle parole di De Amicis «Quasi tutti si trovavano per la prima volta sopra un grande piroscafo che avrebbe dovuto essere per loro come un nuovo mondo, pieno di maraviglie e di misteri; e non uno guardava intorno o in alto o s’arrestava a considerare una sola delle cento cose mirabili che non aveva mai viste». (Testo 2) 4. Con quale tono viene narrato da Baricco l’arrivo in America? (Testo 3)

Interpretare

SCRITTURA 5. Partendo dai testi proposti e dalle opere di Pascoli rifletti sulla difficile condizione del migrante tra rimpianto e adattamento.

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7 L’inquieto classicismo pascoliano e l’attualizzazione dell’antico Poemi conviviali La raccolta venne pubblicata la prima volta nel 1904 ed era costituita da diciannove componimenti, tutti già comparsi su «Il convito», rivista portavoce dell’estetismo (vi scriveva D’Annunzio). La seconda e definitiva edizione è invece del 1905 e comprende venti liriche. Il titolo è stato da alcuni collegato alla rivista, da altri (con maggiore probabilità), ai canti simposiaci greci e ai carmina convivalia latini, in entrambi i casi composizioni destinate ad accompagnare i banchetti. Già i titoli dei componimenti (ad esempio Solon, La cetra d’Achille, Il sonno d’Odisseo, Alexandros, La buona novella) evidenziano il legame della nuova raccolta con l’antichità classica, greca e latina, e con la prima età cristiana, da cui Pascoli trae personaggi e vicende grazie alla sua vasta competenza della letteratura classica e del mondo antico. Le vicende e i miti antichi sono rivisitati e ampliati, anche attraverso l’inserimento di nuovi episodi, una tecnica che Pascoli deriva dalla poesia ellenistica. La rivisitazione pascoliana della classicità può essere ricollegata alla riscoperta che di quell’epoca era stata fatta negli ultimi decenni dell’Ottocento dal saggista e critico inglese Walter Pater (1839-1894), dalla poesia parnassiana francese, e in Italia in particolare da Carducci. La visione di Pascoli si differenzia però nettamente da quella del maestro: il mondo classico rievocato non ha la solarità di quello carducciano e non è un esempio di “sanità” e pienezza vitale, ma porta i segni dell’inquietudine del suo tempo. I personaggi e le vicende del mondo antico sono riletti con spirito moderno, rappresentano la perdita di significato della realtà, l’ansia di conoscenza mai soddisfatta dell’uomo (Alexandros ➜ T16b OL), la ricerca di un’identità personale che appare problematica e sfuggente persino per uno degli eroi più “forti” dell’antichità: Odisseo nell’Ultimo viaggio (➜ T16a OL), il più ampio dei Poemi conviviali (è costituito da 24 canti brevi). Il poeta immagina che l’eroe omerico ormai vecchio riprenda il mare per ripercorrere le tappe del suo viaggio narrato nell’Odissea; il desiderio di conoscenza del mondo che allora l’aveva guidato si trasforma nell’Odisseo pascoliano nella ricerca della propria identità e del significato della propria esistenza, facendone l’emblema della crisi dell’uomo moderno: «Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi sono io! chi ero!» (vv. 1156-1157). Ma la domanda, che l’eroe rivolge alle sirene, rimane senza risposta.

Poemi conviviali GENERE

raccolta poetica

DATAZIONE

prima edizione 1904, seconda 1905

STRUTTURA

venti componimenti

TEMI

temi tratti dal mondo antico rivisitati con sensibilità moderna

Temi e forme della poesia pascoliana 2 413

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T16

La reinterpretazione delle figure del mito e dell’antichità classica I due testi proposti, tratti dai Poemi conviviali, evidenziano il modo del tutto innovativo con cui Pascoli si accosta ai personaggi del mito o della storia antica. In questo caso sia Ulisse che, ormai vecchio, affronta il suo ultimo viaggio, sia Alessandro Magno che, nella sua ansia di scoprire e conquistare nuove terre, perviene ai confini del mondo conosciuto, diventano “figure” dell’uomo moderno e traducono la concezione pascoliana dell’esistenza.

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L’ultimo viaggio Poemi conviviali, L’ultimo viaggio, canto XXIII, vv. 1108-1158

online T16b Giovanni Pascoli

Alexandros Poemi conviviali

Carmina Composti dal 1891 al 1911 e raccolti dopo la morte del poeta in due volumi dal titolo Carmina (cioè “poesie”), sono organizzati in diverse sezioni; tutti, tranne uno, hanno come sfondo la storia e la cultura romana. Il Liber de poetis (Libro sui poeti) è dedicato ai più importanti poeti latini, con la rievocazione di Virgilio e Orazio. I Poemata christiana (Poesie cristiane) delineano il passaggio dal paganesimo al cristianesimo attraverso le vicende di personaggi che ne vivono dolorosamente il processo e le contraddizioni pur nelle diverse condizioni sociali: dalla nobildonna romana convertita alla nuova fede, alla schiava Thallusa del poemetto omonimo che, privata del proprio figlioletto, è scacciata dai padroni perché si è affezionata troppo al loro. In queste opere, la profonda conoscenza del mondo classico si fonde con una competenza linguistica prodigiosa. La scelta del latino da parte di Pascoli (che implica certamente un pubblico ristretto) non deve però essere considerata uno sterile sfoggio di erudizione: è stato rilevato dai critici Gianfranco Contini e Alfonso Traina che la scelta del latino – lingua solo letteraria e perciò morta – è da inserire nella complessa concezione di Pascoli, per cui la lingua poetica è comunque «una lingua che più non si sa» (Addio! v. 18) e che proprio per questo può restituire integralmente le emozioni più intense.

Carmina GENERE

raccolta poetica

DATA DI COMPOSIZIONE

tra il 1891 e il 1911. Pubblicati postumi

TEMI

temi tratti dalla storia e dalla cultura romana

STILE

elevato: uso della lingua latina

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3 Pascoli e il Novecento 1 Dal “poeta per le scuole elementari” all’audace sperimentatore Nella valutazione della poesia pascoliana pesò a lungo il giudizio di Benedetto Croce che, prima sulla rivista «La critica» (1907) e poi nel saggio Giovanni Pascoli. Studio critico (1920), espresse notevoli riserve su di essa, ravvisandovi «puerilità, leziosaggini, carenza di sintesi». La stroncatura da parte del filosofo del Fanciullino, fondata su una interpretazione riduttiva se non fuorviante del saggio pascoliano, favorì paradossalmente la diffusione e il successo nella scuola italiana, in particolare quella elementare, della poesia di Pascoli, identificata nei temi familiari e nella rappresentazione idillica della campagna a scapito delle componenti più profonde e del simbolismo. Occorre attendere il secondo dopoguerra perché la novità e l’importanza della lezione pascoliana sia adeguatamente compresa e apprezzata grazie soprattutto all’analisi della dimensione stilistica.

online

Per approfondire Una lettera di Pasolini al suo docente di letteratura italiana Carlo Calcaterra

Contini e l’analisi del linguaggio di Pascoli In occasione del centenario della nascita del poeta (1955), durante una conferenza tenuta a San Mauro di Romagna, fu un intervento del filologo e critico Gianfranco Contini poi pubblicato con il titolo Il linguaggio di Pascoli (1958) a dare un contributo decisivo all’analisi degli aspetti formali nella poesia di Pascoli, avviando una nuova fase di studi critici che nei decenni successivi approfondiranno la complessità della sua opera e della sua personalità poetica. Contini analizzava a fondo le scelte lessicali di Pascoli, mettendone in luce lo scostamento rivoluzionario dalla tradizione letteraria, consistente nella contemporanea utilizzazione da parte di Pascoli di tre livelli linguistici: quello che egli chiama “grammaticale”, intendendo con questo termine il linguaggio codificato; il “pregrammaticale”, cioè l’uso frequentissimo delle onomatopee e più in generale la presenza del registro fonosimbolico; e il “postgrammaticale”, termine con il quale Contini allude alla presenza in Pascoli di termini tecnici, gergali. La lettura di Pasolini Il primo a mettere in rilievo, sempre in occasione del centenario, la grande influenza dell’opera di Pascoli sulla poesia del Novecento è però Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che aveva dedicato a Pascoli la sua tesi di laurea all’Università di Bologna (➜ PER APPROFONDIRE Una lettera di Pasolini al suo docente di letteratura italiana Carlo Calcaterra OL). Allievo all’Università di Bologna di Gianfranco Contini, e autore in quegli anni di poesie in friulano oltre che di analisi sulla poesia dialettale e popolare, Pasolini, in un importante saggio del 1955, pubblicato sulla rivista «Officina», rintraccia la fondamentale presenza della lezione pascoliana su correnti e poeti del Novecento. Per Pasolini, in Pascoli coesistono due opposte tendenze: da un lato «una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile, monotono e quasi stucchevole», dall’altro «uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e rinnovarlo incessantemente». Secondo Pasolini lo sperimentalismo pascoliano si traduce in molteplici tendenze stilistiche, ognuna delle quali esercita un influsso determinante su un diverso ambito della poesia del Novecento. In particolare Pasolini individua la presenza del modello pascoliano Pascoli e il Novecento 3 415

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«nel filone centrale della poesia del Novecento», dai crepuscolari ai più importanti autori successivi: Sbarbaro, Saba, Ungaretti, Montale, fino agli ermetici, senza escludere i poeti dialettali.

2 L’influenza di Pascoli sulla lirica novecentesca La «funzione Pascoli» nella poesia dialettale Fin dal 1952, nell’introduzione alla sua antologia di poeti dialettali, Pasolini identifica la presenza di una «funzione Pascoli» nella poesia dialettale novecentesca, alla quale egli stesso apparteneva con la sua produzione poetica in dialetto friulano. Nei confronti della poesia dialettale Pascoli ha svolto un ruolo di indiretto promotore, accordando pieno diritto di cittadinanza letteraria all’universo contadino e sottraendolo a ogni prospettiva in vario senso deformante: i contadini sono rappresentati nella vita quotidiana, di cui ha una conoscenza precisa e diretta. Ma Pascoli è andato anche oltre: a differenza dei veristi, ha guardato al mondo “basso” da una prospettiva “alta”, tentando persino, nei Poemetti, di creare un’epica contadina. Pascoli ha aperto la strada ai dialettali del Novecento anche in ambito propriamente linguistico, introducendo nella letteratissima poesia italiana elementi gergali e dialettali o comunque appartenenti alla realtà della campagna e alle abitudini popolari e scardinando così di fatto il lessico della tradizione poetica alta. Attraverso la voce autorevole di Pascoli anche il dialetto riceve così una sua legittimazione, non come lingua “speciale”, ma come lingua poetica tra le altre, persino più raffinata. La poetica della “semplicità” nei crepuscolari La poetica pascoliana delle “cose umili”, ma anche la regressione al passato e la fuga in dimensioni rassicuranti avvicina alla lezione di Pascoli la poesia crepuscolare. In La signorina Felicita´(➜ C13 T3 ) Guido Gozzano, il più importante poeta crepuscolare, celebra, non senza però una componente ironica, la vita semplice e arcaica della provincia piemontese. La cena che l’io lirico immagina di consumare con Felicita, la figura femminile protagonista del poemetto, è «d’altri tempi, col gatto e la falena / e la stoviglia semplice e fiorita»; si svolge in cucina, fra gli odori «di basilico d’aglio di cedrina» e il rumore delle stoviglie lavate. Una rappresentazione che, come in Pascoli (soprattutto quello di Myricae) corrisponde a una scelta di poetica programmatica, che contrappone oggetti e ambienti quotidiani, volutamente “prosaici”, alle raffinate ambientazioni proprie dell’estetismo dannunziano. In un altro poeta crepuscolare, Sergio Corazzini (1886-1907 ➜ C13) si può rintracciare la presenza della metafora pascoliana del “poeta fanciullino”: in Desolazione del povero poeta sentimentale Corazzini così si definisce: «Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange». La metafora definisce qui esplicitamente un modello diverso da quello carducciano e dannunziano: il poeta non si riconosce nel ruolo di vate, non sa trasmettere valori civili o anche messaggi positivi, oggetto della sua poesia è la sofferenza interiore. Il «piccolo fanciullo» del poeta crepuscolare rappresenta in realtà un’evoluzione in senso riduttivo della poetica pascoliana del “fanciullino”: mentre questi è dotato della capacità di cogliere l’essenza segreta e il mistero delle cose ed è quindi depositario di una conoscenza “superiore”, Corazzini può solo esprimere la sua tristezza, arrivando a negare la sua stessa identità di poeta: «Vedi che io non sono un poeta».

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Lo sguardo infantile di Saba La concezione pascoliana dello sguardo infantile come fonte della poesia è ripresa dal poeta triestino Umberto Saba (1883-1957 ➜ VOL 3B C3), che peraltro può essere accomunato a Pascoli anche dall’incidenza che i traumi infantili hanno nella sua vita e nella sua opera. Anch’egli (in Scorciatoie e raccontini) riconosce il ruolo del “fanciullino”, cioè della componente infantile dell’io, sia per la produzione sia per la fruizione dell’arte. Rispetto alla concezione pascoliana c’è però una importante differenza: secondo Saba solo «là dove il bambino e l’uomo coesistono, in forme il più possibile estreme, nella stessa persona nasce [...] il miracolo [termine con cui il poeta triestino indica la grande poesia]. La poesia non è dunque espressione solo della parte “bambina”, ma nasce da un equilibrio con quella adulta: quando eccede la parte adulta il risultato lascia “freddi”». A Saba sembra che in Pascoli predomini la parte infantile, con un conseguente eccesso di sentimentalismo: «Se quasi solo il bambino esiste, se sul suo stelo si è formato appena un embrione d’uomo, abbiamo il “poeta puer” (Pascoli); ne proviamo insoddisfazione e un po’ di vergogna». La poetica degli oggetti montaliana Nella poesia di Eugenio Montale (1896-1981) è stata rintracciata dalla critica l’influenza del ruolo assegnato nella poesia pascoliana agli oggetti che, posti in primo piano, sono investiti di un significato simbolico: esemplare è in Lavandare l’aratro dimenticato nel campo («Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggero»), simbolo della condizione umana di solitudine. In Meriggiare pallido e assorto (dalla raccolta Ossi di seppia, ➜ VOL 3B C4 T3 ), ad esempio, il paesaggio ligure è delineato a frammenti, con un linguaggio preciso, specie a livello fonico con suoni duri e secchi, e una sintassi semplice: in primo piano sono appunto gli oggetti, con la loro forza evocativa (il «rovente muro d’orto», le «crepe del suolo»), non l’io lirico, la cui presenza traspare solo da alcuni aggettivi. La ricerca di oggettività è però funzionale a esprimere un significato simbolico, in questo caso la visione pessimistica dell’esistenza umana, identificata dall’analogia con la «muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Già Pasolini, nel saggio sopra ricordato, sottolineava il fatto che «tutto il procedimento stilistico montaliano che si definisce nel caricare di un senso cosmico, di un male cosmico, illuminante, un umile oggetto – la poetica dell’“oggetto” insomma – è implicita nella [...] teoria pascoliana del “particolare”». Il tema del nulla nella poesia di Giorgio Caproni L’onda lunga dell’influenza pascoliana arriva fino a Giorgio Caproni (1912-1990 ➜ VOL 3B C19), che porta a compimento la «tradizione del nulla», propria della modernità letteraria, che congiunge Leopardi, Pascoli, Ungaretti fino a Montale. È nella sua raccolta Passaggio di Enea (1943 – 1955) che si delineano le immagini del vuoto e dell’assenza dominanti nella produzione successiva. Nel passaggio del suo personaggio verso l’ignoto si sente l’affinità con la condizione dell’Odisseo del poema conviviale L’ultimo viaggio (➜ T16a OL): il termine ultimo del viaggio di Enea approderà all’assenza totale di significato come per l’eroe di Pascoli. Nelle raccolte successive Caproni matura una visione sempre più pessimistica e desolata della vita: il reale si dissolve in frammenti insensati, mentre gli interrogativi esistenziali ritornano assillanti ma sempre privi di risposte. Anche l’ansia della metà, che in Pascoli era rappresentata soprattutto nella poesia dei grandi spazi cosmici La vertigine (➜ T15 OL), ritorna in Caproni, così come il tema della divinità inconoscibile e inafferrabile della ricerca inappagata che conclude il poemetto pascoliano assomiglia al motivo caproniano del Dio negato e nascosto. Pascoli e il Novecento 3 417

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Romano Luperini Un nuovo ruolo per il poeta Nella sua analisi della poetica pascoliana, Luperini (1940) ne individua i caratteri fondanti: la concezione del poeta non come creatore ma come «umile riconoscitore» della poesia insita nella realtà, la cui opera consiste nel percepire l’essenza nascosta nelle “piccole cose” e non nella loro riproduzione. Il critico evidenzia quindi l’apertura di Pascoli verso le nuove forme poetiche europee come il simbolismo e l’espressionismo e il ruolo anticipatore da lui svolto nei confronti della poesia del Novecento.

R. Luperini, Apparati ideologici del Novecento, Loescher, Torino 1981

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Se il corso della storia sembra preludere al trionfo di una nuova barbarie (come si vaticina anche in Gog e Magog1), esiste però una vita che resta al di qua della storia e della civiltà, una vita segreta degli uomini e delle cose: è la vita dell’infanzia, della campagna, della poesia, da cui si leva un appello alla fraternità, a una solidarietà resa tanto più necessaria dalla misteriosa minaccia incombente della «truce ora dei lupi2». È a questo livello che scatta l’identificazione fra poesia e vita: è un’identificazione che si colloca fuori e, potenzialmente, contro la storia [...] e che eguaglia l’artista all’uomo comune. Se la poesia coincide con la parte più segreta e autentica delle cose di ogni giorno e della vita di ogni uomo, essa sembra perdere [...] ogni carattere eccezionale e aristocratico. Ne è una conferma la stessa concezione pascoliana del poeta, che non è un creatore bensì un umile riconoscitore di ciò che comunque esiste: il poeta non deve inventare nulla, ma solo scoprire la poesia che è già nella realtà, a prescindere dalla sua stessa ricerca.In questa fiducia nella realtà oggettiva è evidente il peso della formazione positivistica di Pascoli. E tuttavia attingere la poesia non significa certo per lui riprodurre naturalisticamente la realtà delle piccole cose, ma percepire un loro «particolare», una loro essenza nascosta: per questa via l’arte di Pascoli può aprirsi al simbolismo e addirittura, secondo alcuni, con un’esagerazione non condivisibile ma comunque significativa, all’espressionismo. In questa apertura democratica (Contini ha parlato di «democrazia poetica3» per questo ingresso della realtà più umile e del suo linguaggio nella poesia), in questa prima incerta [...] coscienza della crisi del tradizionale ruolo aristocratico ed egemone della cultura, in questo trovare la poesia nelle cose e in questo sottrarla al privilegio di pochi esteti, c’è dunque una preparazione di temi che saranno ripresi e sviluppati dal Novecento. Attenzione, però: il fanciullino è sì l’umile interprete della vita come poesia, ma ne è anche lo scopritore, e dello scopritore conserva il privilegio della conoscenza, che va d’altronde unito al merito sociale di custode e dispensatore del valore supremo della consolazione. Il fanciullino è un emarginato nel mondo degli adulti, ma vede meglio di loro. La poesia è un’oasi d’innocenza, ma nella sua ingenuità e alogicità c’è una comprensione del reale superiore a quella fornita dalla scienza e dalla ragione (e qui siamo già al di là del positivismo, in pieno irrazionalismo): da questa oasi sorgono presentimenti e profezie, si levano moniti morali e sociali. [...]

1 Gog e Magog: uno dei Poemi conviviali; il poeta vi riprende la leggenda biblica e coranica di popolazioni asiatiche selvagge e dedite alla violenza.

2 truce ora dei lupi: espressione usata da Pascoli per indicare l’incombere della violenza.

3 Contini… poetica: in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (19381968), Einaudi, Torino 1970.

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Il poeta puro delle piccole cose è anche vate. Il complesso d’inferiorità si rovescia in senso di superiorità e in volontà di dominio. La vita e la poesia si riconciliano così con la storia, con cui sembravano in insanabile contraddizione. La parola «democratica» finisce col porsi al servizio di una nuova operazione restaurativa, col perseguire un nuovo livello di «sublime»: sarà sì un «sublime medio4», più adatto alle aspirazioni della piccola e media borghesia, ma resterà comunque qualcosa di raro, di prezioso. 4 un nuovo… medio: ne parla E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano 1965.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Che cosa intende Luperini parlando di «apertura democratica» (r. 18) a proposito della poesia di Pascoli? 2. Come si manifestano rispettivamente, secondo il critico, la formazione positivistica e il suo superamento nella poesia pascoliana? 3. Qual è il giudizio a cui perviene Luperini circa il ruolo del poeta e della poesia? Come lo argomenta? 4. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento molti e svariati fattori concorrono a modificare il ruolo dell’arte e dell’artista, generando diverse risposte e atteggiamenti. Traendo spunto dalle considerazioni del brano proposto, rifletti sulla figura del poeta e della poesia delineati da Pascoli, allargando eventualmente la tua riflessione ad altri autori che conosci. Illustra le tue riflessioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Produzione

Fissare i concetti Giovanni Pascoli La vita, la poetica e l’ideologia 1. Quale vicenda ebbe particolare importanza nella vita e nella formazione della personalità di Pascoli? 2. Quale atteggiamento mostra Pascoli nei confronti della modernità e del progresso tecnologico? 3. In quale circostanza, in particolare, Pascoli esplicitò una propria posizione politica? Quale orientamento ideologico vi si può riconoscere? 4. Quali elementi avvicinano la poetica e la poesia di Pascoli al simbolismo? 5. Quali sono i cardini della poetica del fanciullino? Myricae 6. Che cosa indica il titolo Myricae? Quale significato programmatico assume? 7. Quali sono i temi affrontati in Myricae? 8. Che cosa si intende con fonosimbolismo? Canti di Castelvecchio 9. Che cosa indica il titolo Canti di Castelvecchio? Quali sono i temi trattati nei Canti? Poemetti 10. Per quale motivo, secondo te, i Poemetti sono stati definiti «un romanzo georgico»? Quale metro contraddistingue la raccolta? In che senso si può parlare per alcuni poemetti di “epos contadino”? Poemi conviviali 11. A quale approccio nei confronti dei personaggi della classicità ricorre Pascoli nei Poemi conviviali?

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Secondo Ottocento Giovanni Pascoli

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Giovanni Pascoli (1855-1912) è una delle figure più significative della poesia italiana tra la fine dell’Ottocento e il Novecento: la sua opera ha influenzato in modo significativo la produzione poetica novecentesca negli aspetti più innovativi, anche se in ambito scolastico è stata a lungo letta soprattutto in funzione dei “buoni sentimenti” o come esaltazione della vita dei campi. La concezione filosofica La formazione di Pascoli è positivistica, ma la sua visione della realtà mette in discussione la concezione che l’uomo possa con la scienza e la tecnica scoprire il significato della vita: la realtà è misteriosa e su di essa incombe la presenza della morte, anche quando l’apparenza comunica un senso di vitalità. Le vicende familiari determinano in lui la visione di una società dominata dalla violenza, da cui deriva il profondo bisogno di giustizia che lo spinge negli anni dell’università ad aderire agli ideali socialisti, per poi approdare a una concezione che rifiuta la lotta di classe. Il cristianesimo e la poesia che possono migliorare l’umanità, elevandola dalla ferinità primitiva fino all’affermazione dell’homo humanus, il cui compito è di porre fine alla violenza. Di fronte ai traumi possono sconvolgere la vita di un uomo l’unica protezione è rappresentata dal “nido” familiare: a questa immagine-simbolo si collegano altre (ad esempio quella della culla) che esprimono il bisogno di regressione all’infanzia di Pascoli, la ricerca di un rapporto di fusione con la madre che lo porta a desiderare la morte per poterla raggiungere. La poetica Secondo Pascoli la poesia è insita nel reale: per coglierla è necessario assumere lo sguardo “meravigliato” dei bambini: poeta è dunque chi sa vedere il mondo con gli occhi innocenti di un fanciullino, di cui mantiene l’approccio intuitivo e alogico con la realtà; grazie ad esso attinge al significato profondo e misterioso delle “cose”. Pascoli e il suo tempo Il poeta assume un atteggiamento critico nei confronti della società urbana che si afferma alla fine dell’Ottocento, che egli sente come una minaccia per il mondo semplice della campagna in cui si riconosce; nei confronti della tecnologia ha una posizione ambivalente: anche se in essa vede un pericolo per la condizione arcaica della vita dei campi, ne apprezza le possibilità che offre di comunicare più velocemente e facilmente. Rispetto alle vicende politiche, in particolare l’impresa coloniale italiana che culmina con la guerra di Libia, manifesta nel discorso La grande proletaria si è mossa (1911) un’adesione che contrasta con i suoi ideali umanitari, ma la giustifica in nome della soluzione del problema dell’emigrazione.

2 Temi e forme della poesia pascoliana

Myricae La raccolta, che ebbe numerose edizioni (dal 1891 al 1911), ha un titolo programmatico: le “tamerici” (di ascendenza virgiliana) alludono alla semplicità della vita dei campi, tema fondamentale della raccolta; ma la visione del poeta di quella realtà si carica di significati misteriosi e delle sue inquietudini interiori. Ricorrente è la presenza della morte, attraverso il ricordo dei familiari defunti o evocata dai suoni lugubri della natura. Canti di Castelvecchio Nei Canti di Castelvecchio (1903) ritornano il tema della natura e l’attenzione alle cose umili e quotidiane, che si caricano di un significato simbolico; al senso

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dell’ignoto e del mistero che domina la vita dell’uomo corrisponde la dimensione protettiva del “nido” familiare. Dal punto di vista formale segnano il culmine dello sperimentalismo pascoliano, con un uso accentuato del fonosimbolismo. Poemetti Pubblicati nel 1897, si sviluppano nei Primi poemetti (1904; 1907) e nei Nuovi poemetti (1909); li accomuna l’impianto narrativo, supportato dal metro (la terzina dantesca); all’ambientazione agreste, che costituisce il filo conduttore, si alternano storie e temi diversi (l’amore in Digitale purpurea, le memorie infantili in Aquilone, la ricerca del significato della vita nel Libro, il problema dell’emigrazione in Italy, gli spazi astrali e siderali). Poemi conviviali La raccolta (1904 e 1905) comprende i testi pubblicati sulla rivista «Il Convito» (da cui probabilmente deriva il titolo). I temi e i personaggi, tratti dall’antichità, sono rivissuti con sensibilità moderna, diventando espressione delle angosce e degli interrogativi dell’uomo contemporaneo. Il linguaggio poetico Le soluzioni espressive che Pascoli adotta corrispondono alla sua visione di una realtà disgregata, priva di certezze. L’uso frequente delle analogie corrisponde alla concezione della realtà in cui i legami fra le diverse componenti non sono di tipo logico ma frutto della sensibilità del poeta. Anche la frequenza delle sinestesie rivela l’importanza data alle sensazioni; i fonosimbolismi, che rappresentano il contributo stilistico di Pascoli al simbolismo europeo, caricano il testo di suggestioni e allusioni. La sintassi, prevalentemente paratattica, restituisce le sensazioni visive, acustiche e olfattive, frammenti senza ordine logico, che solo lo sguardo dell’io lirico può ricomporre. Nel lessico, termini aulici sono accostati a tecnicismi e dialettismi, a parole di uso quotidiano e a stranierismi.

3 Pascoli e il Novecento

L’influenza di Pascoli sulla lirica novecentesca Nonostante la poesia pascoliana sia stata per anni interpretata riduttivamente come poesia semplice e addirittura infantile, dal secondo dopoguerra si è cominciato ad apprezzare la produzione pascoliana per la sua complessità e novità e a considerare l’enorme influenza che esercitò su diversi autori e diverse linee poetiche del Novecento. La lezione pascoliana ha aperto la strada alla poesia dialettale, soprattutto grazie alla sperimentazione linguistica e di conseguenza alla legittimazione del dialetto a lingua poetica, ma anche ai crepuscolari (in particolare Gozzano e Corazzini) che hanno reinterpretato la poetica delle “cose umili”, della regressione al passato e dell’evasione in una dimensione rassicurante. Anche in Umberto Saba si avverte l’influenza pascoliana: l’autore triestino recupera infatti la visione dello sguardo fanciullo come ispirazione poetica e a Pascoli lo accomuna il peso dei traumi infantili nella sua vita e nella sua produzione. Eugenio Montale di Pascoli assimila specialmente l’importanza degli oggetti in poesia: protagonisti sono gli oggetti e le suggestioni che evocano, non l’io lirico.

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo di circa 20 righe spiega, facendo riferimento alle liriche studiate, perché il critico Gianfranco Contini definì Pascoli un «rivoluzionario nella tradizione».

Esposizione orale

2. In un intervento orale di circa 10 minuti esponi la poetica pascoliana con particolare riferimento al saggio Il fanciullino.

Competenza digitale

3. Realizza una presentazione multimediale che metta in evidenza le connessioni tra i temi della poesia pascoliana e gli aspetti culturali e socio-politici della crisi di fine secolo.

Sintesi Secondo Ottocento

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario

Giovanni Pascoli

Dall’argine Myricae G. Pascoli, Myricae, a. c. di G. Nava, Salerno, Roma 1991

Pubblicato in rivista nel 1891, e quindi nella prima edizione di Myricae nella sezione In campagna, il componimento è incentrato sulle immagini e i suoni colti dal poeta dalla sommità di un argine nell’ora del mezzogiorno.

Posa1 il meriggio su la prateria2. Non ala orma ombra nell’azzurro e verde3. Un fumo al sole biancica4; via via fila e si perde5. 5

Ho nell’orecchio un turbinìo di squilli, forse campani di lontana mandra6; e, tra l’azzurro penduli7, gli strilli della calandra8.

1 Posa: sta immobile. 2 prateria: pianura. 3 Non... verde: non vi sono voli

4 biancica: biancheggia. 5 fila... perde: assume la forma di

(ala) di uccelli nel cielo, non un’orma o un’ombra nei prati verdi.

6 campani… mandra: provenien-

un filo e si disperde. ti da campanacci appesi al collo

di animali da pascolo (mandra “mandria, armento”). 7 tra... penduli: come sospesi nel cielo azzurro. 8 calandra: uccello simile all’allodola.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Presenta il contenuto della poesia e descrivine sinteticamente la struttura metrica. 2. A che cosa allude la presenza del fumo (v. 3)? Quale tema può evocare? 3. Individua in questo componimento i temi e i procedimenti che contraddistinguono la ricerca poetica pascoliana: percezioni sensoriali, accostamenti rapidi, costruzioni ellittiche, sinestesia. Per ciascuno di essi fornisci un esempio e chiariscine la funzione espressiva. 4. Rintraccia esempi di linguaggio fonosimbolico. 5. Quali sensazioni prevalgono nelle due quartine?

Interpretazione

Facendo riferimento alla produzione poetica di Pascoli e/o di altri autori o forme d’arte a te noti, elabora una tua riflessione sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti affrontano la rappresentazione del paesaggio naturale.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e interpretazione di un testo argomentativo Testo tratto da E. Gianola, Storia letteraria del Novecento in Italia, SEI, Torino 1975

[...] Nella sua1 poesia ricorre una simbologia costante, facilmente rintracciabile in alcuni temi continuamente ritornanti e spiegabile, almeno fino ad un certo punto [...], col riferimento alle ossessioni, fobìe2, angosce interiori del poeta. In tale direzione, la figura simbolica più ricorrente appare quella del «nido», 5 sia nella forma propria e specifica della dimora degli uccelli, sia in quella trasposta della «casa», del «focolare» della «culla», dell’«orto», del «muro», della «siepe» e così via. La poesia pascoliana è piena di nidi e di uccelli, oltre che di erbe piante e fiori, e sappiamo anche quanto il poeta si facesse scrupolo di risultare 10 un competente conoscitore della fauna e della flora di cui tanto abbondantemente si serviva: c’è addirittura in lui uno scrupolo positivistico di esatta informazione e di completezza. Eppure tali figure così vistosamente naturalistiche sono i veicoli normali di significazioni3 e allusioni inconsce4, a cominciare appunto dalla figura del nido, che appare al centro di questa 15 costellazione simbolica. Il nido, intanto, è sempre presentato come un luogo di caldo conforto, di sicurezza, di rifugio, di protezione; magari è «rozzo di fuori, radiche e stecchi», ma dentro, pieno com’è di musco5 e lanugine, è tiepido e sicuro. In quel componimento quasi programmatico che è il X agosto è offerto un esatto parallelo tra il nido delle rondini e la famiglia 20 del poeta, privato quello della madre che portava il cibo, questa del padre. Il nido è proprio il luogo della famiglia, unita e solidale contro i pericoli esterni, dove il padre adempie il ruolo di colui che procura il cibo, e la madre quello della custode trepida e vigilante. Nella forma più originaria, il nido si presenta nell’immagine della culla, in cui si realizza in pienezza 25 il rapporto di assoluto conforto e protezione madre-figlio, in un limbo di dimenticanza del mondo e dei suoi pericoli e pene, nel calore di una dipendenza del tutto appagante. Al limite, il nido è il grembo materno, il rapporto per eccellenza viscerale6, ciò che sta prima della vita e prima della morte, in quella condizione limbica7 in cui il mondo è completamente abolito e di 30 conseguenza la paura non esiste. Il nido è insomma figura dell’«incapacità di vivere». Il Pascoli attraverso questa immagine esprime la sua paura del mondo, della vita e degli uomini: non per nulla quando compare il simbolo del nido, esso è sempre accompagnato dal motivo contrastante del pericolo (il temporale, «Il lampo», 35 «Il tuono», la notte nera, ecc.) in una tipica contrapposizione dentro-fuori, dove da un lato si accumulano gli elementi del conforto del calore della protezione, dall’altra quelli della minaccia del terrore dell’angoscia. Il rife1 sua: di Pascoli 2 fobìe: paure. 3 significazioni: significati. 4 inconsce: riferite all’inconscio

5 musco: muschio. 6 per eccellenza viscerale: più profondo per il legame fisico che lo caratterizza.

7 limbica: qui nel significato di situazione indeterminata quale è quella prenatale.

e legate alla sfera dell’analisi psicologica.

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rimento psicologico evocato da tale immagine è quello della «regressione all’infanzia», nel tentativo di recuperare in fantasia uno stato di sicurezza e 40 di felicità. [...] Un altro elemento fondamentale che rientra nella simbologia del nido è quello costituito dalla presenza dei «morti», i cari morti familiari, madre padre fratelli, che continuamente ritornano a confortare, ammonire, vigilare, redarguire anche il figlio rimasto a protezione di ciò che avanza del nido originario. I «morti» pascoliani hanno la fondamentale caratteristica di 45 appartenere a una specie di limbo in cui sono contemporaneamente presenti le caratteristiche della vita e della morte, e comunque di possedere, benché in forma imperfetta, la possibilità di continuare a convivere e a comunicare coi vivi (si pensi a La voce8). Tra i rimasti e quelli che se ne sono andati il legame affettivo non si è mai allentato ed i loro rapporti non hanno 50 mai conosciuto interruzioni e interferenze dall’esterno: anzi i morti sono diventati i garanti in eterno di tale continuità. In questa prospettiva, anche la frequente immagine del cimitero è una variante del simbolo centrale del nido: cinto dal muro, dalla siepe, rallegrato dalla presenza degli uccelli e delle erbe fiorite, anche il cimitero rappresenta un ambito chiuso, protetto, 55 esclusivo, all’interno del quale si mantiene viva quella circolazione affettiva che dominava nel nido originario: vivi e morti sono ancora visceralmente uniti, in solidale comunione d’interessi e affetti. 8 La voce: uno dei Canti di Castelvecchio, in cui il poeta evoca la voce della madre che lo chiama con il vezzeggiativo Zvanî (Zuanì, Giovannino) nei momenti di difficoltà.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il contenuto del testo. 2. Secondo il critico quali connotazioni sono stabilmente associate alla simbologia del nido? 3. Perché l’autore sostiene che il cimitero «è una variante del simbolo centrale del nido»? Che cosa accomuna nido e cimitero? 4. Che cosa intende dire Gioanola quando afferma, riferendosi a Pascoli, che «c’è addirittura in lui uno scrupolo positivistico di esatta informazione e di completezza»?

Interpretazione

Il critico analizza la ricorrenza ossessiva nella poesia pascoliana del tema del “nido” e dei suoi equivalenti simbolici, che interpreta come espressione della «sua paura del mondo, della vita e degli uomini», individuando una contrapposizione costante tra gli elementi che indicano il pericolo e quelli che offrono protezione e conforto. Elabora un testo nel quale esprimi le tue opinioni sul tema della paura di vivere e di entrare in contatto con il mondo esterno.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Ferdinando Fontana, 1881, Il canto degli emigranti (canto sull’emigrazione, tradotto e divulgato da F. Fontana su testo anonimo tedesco. Riportato da Gianfausto Rosoli, Studi sull’emigrazione, marzo 1982, pp. 134-136).

Noi siamo pecore, figli di pecore. Di generazione in generazione, i lupi si scaldano con la nostra lana e si cibano con la nostra carne. Un giorno vennero a dirci che in un paese molto vasto, ma molto lontano, noi avremmo potuto campare meno peggio. 5 Oh pecore, pecore – ci gridarono – badate che c’è il mare da attraversare. E noi lo attraverseremo. E se fate naufragio e vi annegate? Meglio morire d’un colpo che agonizzare tutta la vita. Oh povere pecore, ma voi non sapete che in quel paese molto vasto e molto 10 lontano ci sono delle malattie tremende. Nessuna malattia potrebbe essere più tremenda di quella che noi soffriamo di padre in figlio: la fame.

A partire dal testo proposto e traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, rifletti sul tema dell’emigrazione che costringe a lasciare la propria terra e ad affrontare con rassegnazione disperata i pericoli del mare, per raggiungere un nuovo mondo dove poter cercare di sopravvivere alla fame.

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Secondo Ottocento CAPITOLO

11 Gabriele D’Annunzio

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo D’Annunzio visto da Edmondo De Amicis... Numerose sono le attestazioni della straordinaria capacità di D’Annunzio di affascinare con il suo modo di parlare. Quella che segue è la testimonianza di Edmondo De Amicis (1846-1908), il celebre autore di Cuore.

Parla con voce esile, un po’ velata [...]. Ma la forza del suo discorso deriva dalla mirabile ricchezza, dalla delicatezza e proprietà del linguaggio, dall’arte finissima di dar valore ad ogni parola, di dire le cose più comuni come le più difficili in modo che vi penetrano e vi s’imprimono nel cervello come se egli ve la segnasse con la penna, di rappresentare quello che dice non solo con le parole e con le frasi, ma anche col suono della voce, coi movimenti delle labbra, con gli atti della mano, con l’espressione dello sguardo. [...]. Ascoltandolo e guardandolo, si capisce ch’egli prova nel parlare un godimento artistico simile a quello che deve provare nello scrivere [...]. Dal suo modo di parlare mi parve di comprendere bene per la prima volta la sua arte di scrivere. Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a c. di G. Oliva, Rocco Carabba, Lanciano 2002

...e da sé medesimo Ecco ora uno stralcio da una lettera inviata il 6 aprile 1886 da D’Annunzio a don Maffeo Sciarra, proprietario del giornale «La Tribuna». Viene enunciata la propensione dello scrittore a una vita dispendiosa che soddisfacesse il suo culto del bello e il suo sfrenato edonismo.

Io ho, per temperamento, per istinto, il bisogno del superfluo. L’educazione estetica del mio spirito mi trascina irresistibilmente al desiderio e all’acquisto delle cose belle. Io avrei potuto benissimo vivere in una casa modesta, sedere su seggiole di Vienna [le celebri Thonet], mangiare in piatti comuni, camminare su un tappeto di fabbrica nazionale, prendere il the in una tazza di tre soldi, soffiarmi il naso con fazzoletti da due lire alla mezza dozzina [...]. Invece, fatalmente, ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avorii, ninnoli, tutte quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa.

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Gabriele D’Annunzio ha avuto un ruolo di primo piano tra Ottocento e Novecento non solo nella cultura, ma anche nella politica e nel costume. Un ruolo da lui stesso voluto, secondo la tendenza estetizzante di fine secolo a contaminare vita e letteratura. L’opera d’arte forse più celebre di D’Annunzio fu la sua stessa vita, proposta all’opinione pubblica come modello di un’esistenza ispirata al culto della Bellezza. Prima che un autore di successo D’Annunzio fu un “personaggio”, in grado di influenzare le giovani generazioni per la sua capacità di promuovere la propria immagine. Scrittore molto prolifico, si dedicò a ogni genere letterario facendosi mediatore e interprete delle principali tendenze emergenti in Europa (estetismo, simbolismo, superomismo). La fama di D’Annunzio è però legata alla produzione lirica, e in particolare alla raccolta Alcyone, in cui si mostra grande virtuoso della parola e dà vita a una poesia musicale che influenzerà i poeti del Novecento.

1 Ritratto d'autore D’Annunzio prosatore 2 e drammaturgo D’Annunzio 3 poeta 427 427

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1 Ritratto d’autore 1 Alla ricerca di una vita inimitabile Gli anni della formazione Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara, allora poco più che un borgo, nel marzo del 1863, da una famiglia benestante (il padre – Rapagnetta di cognome, mentre Gabriele per interessi patrimoniali prende quello di uno zio ricco – era anche stato sindaco della città). Intuendone le capacità, il padre iscrive il figlio a una delle più elitarie scuole dell’epoca, il collegio Cicognini di Prato, dove il giovanissimo studente ha modo di distinguersi. Appena sedicenne, esordisce con la raccolta di versi Primo vere, pubblicata nel 1879 a spese paterne. È proprio in questa occasione che D’Annunzio offre la prima prova delle sue spregiudicate iniziative autopromozionali: infatti fa pubblicare sulla «Gazzetta della Domenica» di Firenze la notizia della propria morte improvvisa, presentandosi come giovane promessa della lirica italiana. La patetica notizia suscita grande scalpore con conseguente reclamizzazione del primo “prodotto editoriale” del giovanissimo autore. Durante l’ultimo anno di liceo D’Annunzio conosce a Firenze Giselda Zucconi (ribattezzata Lalla): è il primo di quegli incontri erotico-sentimentali che costelleranno l’intera sua vita e che, trasfigurati letterariamente, entreranno nelle sue pagine (➜ PER APPROFONDIRE D’Annunzio e le donne PAG. 430).

Cronologia interattiva 1871

Roma capitale d’Italia.

1882

Germania, Austria e Italia firmano la Triplice Alleanza.

1883

Esce Così parlò Zarathustra di Nietzsche. 1898

Sanguinosa repressione di manifestazioni popolari a Milano.

1860

1870

1880

1863

1890

1900

1889

Il piacere.

Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara. 1879

1891-94

Pubblica, ancora studente liceale, la raccolta Primo vere. 1881

Si trasferisce a Roma. 1882-83

Canto novo, Terra vergine e Intermezzo di rime.

Escono i romanzi Giovanni Episcopo, L’Innocente, Trionfo della morte.

1891

Si trasferisce a Napoli. 1894

Inizia la relazione con Eleonora Duse. 1897

È eletto deputato nelle file della Destra.

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A Roma: un giovane ambizioso in cerca di fama Nel novembre del 1881 D’Annunzio si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di Lettere, ma alle aule universitarie preferisce la mondanità della capitale. Inizia anche a collaborare con varie riviste letterarie e con editori come il Sommaruga (molto discusso nella Roma dell’epoca per le sue disinvolte iniziative editoriali) acquistando notorietà come brillante cronista dei salotti romani. Inoltre il matrimonio con la giovanissima Maria Hardouin duchessa di Gallese (1883), per quanto “scandaloso” (il matrimonio riparatore segue a una “fuga d’amore”), gli apre le porte della società aristocratica romana. L’unione con Maria, che gli darà tre figli maschi, durerà pochi anni a causa dell’incostanza sentimentale del poeta, continuamente attratto da nuovi amori.

PER APPROFONDIRE

D’Annunzio ritratto nello studio del villino Mammarella di Francavilla (1883).

Un brillante cronista mondano La frequentazione delle redazioni di periodici e quotidiani di successo (dal «Fanfulla della Domenica» alla «Cronaca Bizantina», alla «Tribuna») consente a D’Annunzio di conoscere i gusti del pubblico, a partire da quello della Roma umbertina, a cui poi indirizzerà le sue opere. Assumendo vari pseudonimi D’Annunzio descrive «ricevimenti e case patrizie, balli, prime teatrali, concerti e infinite altre occasioni mondane, traccia eleganti profili di

donne, racconta aneddoti, autoinvestendosi della funzione di arbitro di eleganza a beneficio non tanto dell’aristocrazia che descrive, quanto di quei ceti medi che consumano i giornali, e le sue cronache mondane, con l’occhio invidioso e meravigliato di bambini ghiotti davanti alle vetrine del pasticcere» (Senardi). D’Annunzio ha così in mano materiali potenzialmente narrativi, situazioni, figure che confluiranno ben presto nel Piacere.

1911

Occupazione italiana della Libia.

1914-1918

1900

Prima guerra mondiale.

Umberto I è assassinato.

1900

1922

1933

Marcia su Roma.

1910

1920

Hitler diventa cancelliere.

1930

1940

1910

Schiacciato dai debiti fugge in Francia.

1938

Muore al Vittoriale (Gardone Riviera).

1915

Torna in Italia e si arruola come volontario.

1903-1904

Primi tre libri delle Laudi e il dramma La figlia di Iorio.

1919

Alla testa di un gruppo di ribelli occupa Fiume. 1916

Il Notturno.

1900

Il fuoco.

Ritratto d’autore 1 429

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Nascita di uno scrittore di successo Tra il 1882 e il 1883 D’Annunzio si afferma come poeta, pubblicando Canto novo, Intermezzo di rime e Il libro delle vergini, ed esordisce come narratore con i racconti abruzzesi di Terra vergine. Iniziano però anche le prime difficoltà economiche per un tenore di vita ben al di là delle sue possibilità finanziarie: pressato dai creditori, è costretto a chiedere anticipi presso i propri editori su opere letterarie ancora da scrivere. Nel 1889 pubblica Il piacere, il suo romanzo più noto, che ne consacra presso il pubblico del tempo l’immagine di raffinato esteta. Il soggiorno a Napoli Nei due anni successivi D’Annunzio vive a Napoli, dove incontra Maria Gravina, nobildonna di origine siciliana che gli darà due figli, e conosce Georges Hérelle, che traduce le sue opere in francese, lanciandolo sul mercato editoriale d’oltralpe e facendone un personaggio di fama europea. È di questo periodo anche l’incontro con l’opera di Nietzsche, da cui scaturiranno gli atteggiamenti superomistici di due opere, Trionfo della morte (1894) e soprattutto Le vergini delle rocce (1895).

PER APPROFONDIRE

La Duse e La Capponcina: «come un principe rinascimentale» Risale al 1894 l’inizio della relazione di D’Annunzio con la grande attrice Eleonora Duse, allora all’apice della sua carriera. Il legame sentimentale (senz’altro quello più vantaggioso per pubblicizzare e mitizzare l’“inimitabile” vita di D’Annunzio) fu intessuto nella villa La Capponcina, situata sulle colline fiorentine e arredata dallo stesso D’Annunzio con preziose suppellettili e raffinati oggetti d’arte che contribuirono a consolidare la sua immagine pubblica di esteta. Tra il 1898 e il 1910, alla Capponcina D’Annunzio compone i primi tre libri delle Laudi, il più celebre dei quali è Alcyone. Il rapporto con la Duse non fu solo di carattere sentimentale: i due amanti furono legati anche da una fruttuosa (soprattutto per D’Annunzio) collaborazione artistica iniziata con La città morta (1898), prima opera teatrale dannunziana, ispiratagli proprio dalla grande attrice, anche se la protagonista della prima parigina sarà Sarah Bernhardt. Nel 1904 la Duse contribuisce al trionfo del più fortunato dei drammi dannunziani, La figlia di Iorio. Quello stesso anno la relazione si interromperà definitivamente.

D’Annunzio e le donne Nella sua vita, dalla prima giovinezza alla vecchiaia, D’Annunzio ebbe moltissime relazioni erotico-sentimentali, che contribuirono anch’esse a creare la fama di una sua “vita inimitabile”. Il cercare sempre nuove conquiste (certo anche per una sostanziale incapacità di tessere relazioni affettive stabili) era per lui vitale, non solo per appagare la sua prorompente sensualità, ma anche per trovare sempre nuove fonti di ispirazione per la sua opera: coerentemente con la coincidenza arte-vita che fu propria dello scrittore, nelle sue opere rifluiscono le sue avventure amorose ed erotiche e rivivono le donne amate: l’esempio più noto e importante riguarda il romanzo Il fuoco (1900), nel quale la Duse è presa palesemente a modello per il personaggio della Foscarina. Frequente in particolare nei romanzi è l’utilizzazione, a volte quasi letterale, delle lettere tra il poeta e le donne amate. Non bello, senza dubbio, tuttavia Gabriele esercitava un fascino irresistibile sulle donne che decideva di conquistare, un fascino soprattutto legato alla sua grande capacità di usare la parola in modo seduttivo. A ognuna delle donne amate D’Annunzio attribuì uno pseudonimo letterario (ad esempio Alessandra di Rudinì è Nike, Eleonora Duse è Ghisola o Perdita, Luisa Baccara è Barbarella). Alcune di esse rispondono al prototipo della femme fatale, a cui si richiamano anche non pochi personaggi femminili presenti nell’opera dannunziana: dalla “nemica” del Trionfo della morte alla perversa Isabella di Forse che sì forse che no.

La danzatrice russa Ida Rubinštejn.

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La fuga a Parigi Nel 1910 la situazione finanziaria di D’Annunzio diventa sempre più critica. I creditori assediano La Capponcina e il poeta, che non ha mai interrotto l’abitudine a una vita di lusso sfrenato, si vede costretto a espatriare. Accompagnato da Nathalie de Goloubeff, la fiamma del momento, decide quindi di ritirarsi a Parigi dove la sua fama non dava, da anni, segni di cedimento e dove, proprio in quel periodo, stava uscendo a puntate sulla «Grande Revue» il romanzo Forse che sì forse che no. E così D’Annunzio si immerge nella vita mondana della Ville lumière. Successivamente soggiornerà ad Arcachon, sulla costa atlantica. Le scelte politiche, il rientro in Italia e l’interventismo Già dagli ultimi anni del secolo D’Annunzio aveva deciso di entrare in politica con scelte che appaiono abbastanza sconcertanti: entrato a Montecitorio tra i banchi dell’estrema destra l’11 novembre 1897, lo ritroviamo, poco più di due anni dopo, nei seggi dell’estrema sinistra. Di convinzioni tendenzialmente antidemocratiche, D’Annunzio giustifica il cambio di schieramento sostenendo che decideva di andare «verso la vita» in contrasto con i «molti morti» presenti nella sua parte. Nel 1915, dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, D’Annunzio ritorna in Italia nelle nuove vesti di vate della patria. In occasione dell’inaugurazione di un monumento ai Mille sullo scoglio di Quarto, tiene un celebre discorso in favore dell’intervento dell’Italia in guerra. (➜ D2 OL) Le azioni di guerra Il conflitto mondiale è vissuto da D’Annunzio all’insegna del più impavido vitalismo. Esente dalla leva per limiti di età, si arruola come volontario. In una delle prime azioni, durante l’ammaraggio con un idrovolante, rimane ferito alla testa. La ferita gli causa la perdita della vista dall’occhio destro ed è costretto a un lungo periodo di convalescenza al buio. Ma riesce a comporre un’opera, il Notturno, grazie all’aiuto della figlia Renata, che gli prepara innumerevoli cartigli – strisce di carta lunghe e sottili, su ognuno dei quali l’autore poteva scrivere una sola riga di testo – che poi lei metteva in ordine. Tornato in piena attività, il poeta si rilancia nel conflitto con lo stesso impeto iniziale e, nell’intento costante di alimentare il proprio mito, organizza clamorose azioni belliche come la Beffa di Buccari e il volo su Vienna (durante quest’ultimo furono lanciati sulla capitale austriaca 50.000 volantini con un messaggio scritto dallo stesso D’Annunzio). (➜ PER APPROFONDIRE D’Annunzio eroe di guerra PAG. 432) La Prima guerra mondiale si chiuse con l’armistizio del novembre 1918, lasciando D’Annunzio disorientato dall’improvvisa mancanza della “droga” dell’azione. Deluso dalla “vittoria mutilata” dagli accordi internazionali che impedirono l’annessione dell’Istria e della Dalmazia all’Italia, organizza l’impresa di Fiume: contro gli ordini dei suoi superiori, alla testa di un manipolo di alcune migliaia di ribelli dell’esercito italiano (i cosiddetti “arditi”), occupa la città alto-adriatica decretandone l’annessione all’Italia e vi instaura un governo provvisorio. L’intervento delle truppe regolari italiane nel cosiddetto “Natale di sangue” del 1920 pose fine all’avventura dannunziana.

Gabriele D’Annunzio con alcuni Arditi a Fiume nel 1919.

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PER APPROFONDIRE

D’Annunzio eroe di guerra La ricerca dell’azione eroica Verso la fine del conflitto mondiale, quando asserisce di sentire «fetor di pace», D’Annunzio si fa promotore di azioni belliche esaltanti: il suo narcisistico protagonismo lo induce alla spasmodica ricerca dell’azione eroica. Si tratta di imprese volte soprattutto ad alimentare il suo mito come personaggio più che realmente efficaci in termini bellici. «Osare l’inosabile»: la Beffa di Buccari Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918 D’Annunzio prese parte all’azione militare nota come Beffa di Buccari. Una pattuglia di tre MAS (l’acronimo stava a indicare i celebri motoscafi antisommergibili, prima che lo stesso D’Annunzio ne modificasse il significato nel motto Memento audere semper, “Ricorda di osare sempre”) riuscì a insinuarsi per oltre 80 km nelle acque nemiche del Quarnaro, a penetrare nella baia di Buccari (attuale Croazia) e a scagliare contro le navi nemiche alla fonda sei siluri, cinque dei quali si impigliarono nelle reti di protezione. Un unico siluro arrivò a bersaglio esplodendo e provocando l’allarme. L’audace spedizione ebbe, come detto, essenzialmente importanti risvolti psicologici enfatizzati dal messaggio incluso da D’Annunzio in tre bottiglie ornate da nastri tricolori e

online

Per approfondire Il Vittoriale

affidate alle acque della baia: «In onta alla cautissima flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile...». Il volo su Vienna Soltanto un anno dopo, D’Annunzio compì un’altra impresa, progettata fin dal 1917. L’azione, a scopo rigorosamente politico e dimostrativo, ebbe luogo il 9 agosto 1918. Una pattuglia di undici velivoli dell’aviazione italiana partì alla volta dell’Austria. Dieci erano monoposto; a bordo dell’undicesimo, il posto accanto al pilota era occupato da Gabriele D’Annunzio. Sette degli undici aerei riuscirono a sorvolare Vienna e a lanciare circa 50.000 volantini con un messaggio in italiano di D’Annunzio, colmo di retorica e impossibile da tradurre efficacemente. A questi ne furono aggiunti quindi altri 350.000 circa, recanti un messaggio meno elaborato e tradotto in tedesco. Il volo indisturbato della pattuglia aerea italiana sul cielo di Vienna produsse un clamore internazionale riuscendo particolarmente efficace come azione propagandistica a uso interno.

Il rapporto con il fascismo Gli anni successivi all’impresa di Fiume vedono l’ascesa del movimento fascista. D’Annunzio risulta ben presto personaggio troppo ingombrante per rientrare nei piani del partito e di Mussolini; di fatto, perciò, sarà estromesso dalla politica attiva, sebbene il fascismo utilizzi più di un elemento del linguaggio e della gestualità rituale dannunziani: dall’enfasi retorica dei discorsi al saluto romano, a singoli slogan, per arrivare al celebre grido di battaglia Eia, eia, alalà (che D’Annunzio aveva tratto da Pindaro ed Eschilo). In compenso Mussolini mostrerà sempre nei confronti del poeta la deferenza dovuta al Vate della patria (che nel 1924 aveva ricevuto dal re il titolo di principe di Montenevoso) e soprattutto ne finanzierà senza limiti l’ultima “impresa”: l’edificazione del Vittoriale. L’esilio dorato nel Vittoriale Gabriele D’Annunzio trascorre gli ultimi diciassette anni di vita in una sorta di esilio dorato a Gardone Riviera, sul lago di Garda, in una villa che ebbe la possibilità di ristrutturare e trasformare nel ben noto Vittoriale degli Italiani grazie alle sovvenzioni del regime. D’Annunzio concepì la grandiosa residenza come una sorta di monumento a se stesso, alle proprie imprese, ma soprattutto come documento per i posteri del suo raffinato gusto estetico, espresso dai sontuosi arredi e dagli oggetti personalmente scelti. È qui che nel 1938 D’Annunzio muore colpito da un’emorragia cerebrale. I funerali solenni si svolgono al Vittoriale alla presenza di Mussolini e delle massime autorità. Nel 1963, nel centenario della nascita, le spoglie di D’Annunzio sono state traslate, come egli desiderava, sull’altura che si trova sopra il Vittoriale, in un’arca posta su un imponente basamento, che sovrasta le arche di alcuni dei legionari che lo accompagnarono nell’impresa di Fiume.

online D1 Gabriele D’Annunzio

Il bisogno del superfluo di un esteta squattrinato Lettera a Maffeo Sciarra

online D2 Gabriele D’Annunzio

«Beati quelli che hanno vent’anni»: D’Annunzio superuomo-tribuno Orazione per la Sagra dei Mille (Discorso di Quarto) VII

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2 Tra ideologia e poetica Una produzione vastissima e multiforme L’opera di D’Annunzio è vastissima e spazia fra tutti i generi letterari (dalla poesia alla narrativa al teatro) senza escludere l’attività giornalistica e l’oratoria politica, nella volontà di cimentarsi in ogni campo e di sperimentare sempre nuove strade, suggerite spesso anche dalla letteratura straniera. È tuttavia indubbio che nell’imponente corpus dannunziano si possa cogliere una medesima impronta: nonostante le continue metamorfosi, D’Annunzio rimane sostanzialmente uguale a se stesso e pienamente riconoscibile dai lettori, come egli stesso di certo auspicava. Una letteratura “di secondo grado” Gli esordi letterari di D’Annunzio avvengono sotto l’apparente segno dell’eredità carducciana in poesia e di quella verista in prosa, ma fin dall’inizio l’uso dei modelli in D’Annunzio non è paragonabile ad alcun altro scrittore: accanito e onnivoro lettore fin da adolescente, è capace di assimilare in modo sorprendente non solo modi e stilemi della tradizione letteraria più illustre, ma anche ogni novità letteraria (come il simbolismo francese e l’estetismo decadente), che entra poi a far parte del suo personale universo poetico. La dipendenza da un input che provenga dalla letteratura altrui è espressamente dichiarata dal primo degli autobiografici eroi dannunziani, Andrea Sperelli, a cui D’Annunzio attribuisce, in un passo celebre, il proprio stesso “metodo” (➜ T2 ). Nell’opera dello scrittore pescarese circola un gran numero di citazioni o echi letterari senza che sia istituita una gerarchia o una distinzione tra i modelli e senza che i “debiti” vengano dichiarati: D’Annunzio fu espressamente accusato di plagio nel 1895 da Enrico Thovez sulla «Gazzetta letteraria»; ma, anche senza parlare di plagio vero e proprio, è indubbio che la sua è sempre letteratura “di secondo grado”, che si nutre, letteralmente, di altra letteratura (il critico Luciano Anceschi l’ha definita «manieristica»). Una tendenza nata – secondo gli interpreti più accreditati – dal bisogno di vincere un’insicurezza di fondo, un senso di vuoto angoscioso che lo scrittore percepisce fin dall’inizio della sua carriera e che lo accompagnerà per tutta la vita. Il culto della parola Nonostante la costante tendenza ad assimilare modelli diversi, come si è detto, la poesia e la prosa dannunziane recano l’impronta inconfondibile dell’autore, fedele nel tempo a una poetica che ha il suo centro unificante nel culto della parola, a prescindere dai contenuti, come evidenzia la lirica Le stirpi canore (➜ D4 OL). È una parola aulica, sempre lontana dall’uso comune, nutrita dalla linfa della tradizione letteraria, dal Trecento in poi; ma D’Annunzio utilizza anche termini tecnici (ad esempio il lessico della navigazione e la nomenclatura botanica), attinti da vocabolari e repertori anche molto antichi, che consultava continuamente, termini che, a loro volta, diventano peregrini, preziosi, quando immessi nel sontuoso tessuto della scrittura dannunziana. Come nel simbolismo francese, anche per D’Annunzio la parola è capace di evocare, ma il poeta abruzzese ne ricerca soprattutto il valore musicale (la celeberrima Pioggia nel pineto è un vero e proprio spartito musicale). A differenza però dei simbolisti, D’Annunzio non rifiuta lo strumentario della retorica e il bagaglio della tradizione – come Verlaine nell’Art poétique – ma anzi ne sfrutta abilmente ogni espediente. Ritratto d’autore 1 433

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Una “poetica dell’eccesso” Più che selezionate, parole e immagini sono accumulate per avvincere, quasi per stordire il lettore: quella di D’Annunzio è sempre una “poetica dell’eccesso”, della ridondanza, finalizzata alla seduzione del pubblico: una prerogativa che accomuna la lirica, il romanzo, ma anche il teatro e i discorsi stessi di D’Annunzio, volti a trascinare le moltitudini grazie alla reboante oratoria. Una visione “pagana” della vita D’Annunzio non è tanto interessato, come quasi sempre i poeti, a esplorare e rappresentare la propria storia interiore (anche perché la sua è una poesia sostanzialmente immobile nel tempo, di fatto aproblematica). Fondamento dell’universo poetico dannunziano (compresi i romanzi) è una spiccata sensualità, intesa in senso lato come costante riferimento a un mondo di sensazioni fisiche, esplorate (in particolare nella lirica) in rapporto all’elemento della natura e alla fusione panica (PAROLA CHIAVE PAG. 480) con essa, che si realizza appunto attraverso un potenziamento della sfera sensoriale. Alla base della poesia dannunziana sta una visione pagana della vita, concepita come vitalismo, voluttà di vivere pienamente ogni stimolo, di assaporare fisicamente ogni sensazione, ogni piacere della vita. Da questa visione, celebrata nella Laus vitae (➜ D5 OL), nascono celebri composizioni come Meriggio o La pioggia nel pineto.

Tra estetismo e superomismo L’estetismo dannunziano del Piacere Già le raccolte poetiche degli anni Ottanta sono ispirate da un’estetizzante ricerca della bellezza formale, ma è soprattutto nel Piacere (1889) che si esplicita l’adesione di D’Annunzio all’estetismo: un’adesione che allinea il romanzo dannunziano ai contemporanei modelli europei (da Wilde a Huysmans ➜ C9), introducendo anche in Italia la figura dell’esteta, incarnato dal protagonista dell’opera, l’aristocratico Andrea Sperelli. Andrea ricerca ossessivamente la bellezza e il piacere estetico, considerati come valori supremi; il motto «vivere la vita come un’opera d’arte» accomuna il personaggio al suo creatore: anche D’Annunzio, a sua volta modello di moderno esteta, infatti, cerca (e sempre cercherà) di «portare il sublime nel quotidiano» (Anceschi) attraverso le sue raffinate ed esibite abitudini di vita. Come Wilde e Huysmans, D’Annunzio avverte la crisi del ruolo dell’intellettuale e dell’artista nella società borghese di fine secolo, nella quale l’arte è costretta a misurarsi prosaicamente con le esigenze del mercato: una crisi che induce gli eroi decadenti a fuggire da un mondo in cui è bandita la bellezza per rifugiarsi in una dimensione che cerchi di riaffermarne il culto. Gustav Klimt, Giuditta I, 1901 (Österreichische Galerie Belvedere, Vienna).

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Il risvolto “commerciale” della proposta estetizzante A differenza però degli scrittori europei citati, D’Annunzio ha ben chiare (come evidenzia l’intervista a Ugo Ojetti del 1895 ➜ SCENARI PAG. 75 D11b ) le dinamiche del mercato culturale e intende sfruttarne le opportunità. È un mercato che sta decretando il successo commerciale della letteratura d’appendice per soddisfare «l’appetito sentimentale della moltitudine». La proposta dannunziana della bellezza come valore assoluto (sia nel romanzo sia nella sua stessa vita) si configura allora in D’Annunzio come il sogno di una vita eletta consapevolmente, confezionato a uso di un pubblico piccolo-borghese desideroso di evasione e di riscatto sociale.

PER APPROFONDIRE

La presa di distanza dall’esteta-inetto Insieme all’attestazione dell’estetismo, Il piacere ne segna però contemporaneamente il fallimento. Andrea Sperelli, alla fine, è uno sconfitto, da cui l’autore prende significativamente le distanze: una sconfitta esistenziale non solo dovuta alla grettezza della società di massa, sorda alla sensibilità artistica, ma anche, e soprattutto, alla mancanza di nerbo morale del protagonista, tutto sommato vicino alla figura dell’inetto ben presente in tante pagine della letteratura italiana ed europea del tempo.

D’Annunzio imprenditore di sé stesso Nel panorama sociale di fine Ottocento che vede la crescita del modello economico capitalista e un’incipiente commercializzazione dell’arte, l’artista vive una profonda crisi d’identità (➜ SCENARI, PAG 59): all’isolamento sdegnoso, simboleggiato dall’Albatros baudelairiano (➜ C4 T2 ), D’Annunzio contrappone una mirata strategia autopromozionale, sostenuta da un consapevole utilizzo dei mezzi di comunicazione. Già lo evidenzia il falso annuncio della propria morte fatto pubblicare in occasione della sua prima, precocissima, uscita letteraria (Primo vere). L’uscita del suo primo romanzo, Il piacere, è accuratamente preparata da cronache mondane e articoli giornalistici che creano nel pubblico un orizzonte d’attesa adeguato allo spirito del romanzo. Geniale trovata di marketing fu poi l’idea di far vivere il protagonista del romanzo, Andrea Sperelli, fuori dalla pagina: D’Annunzio commissionò allo scultore Sartorio un’acquaforte il cui soggetto riprendeva una scena “piccante” del romanzo (Elena Muti dormiente discinta su una coperta istoriata mentre un levriero le lambisce il seno). L’acquaforte, firmata A. Sperelli calcographus, sarebbe poi stata messa in vendita nell’atelier dello scultore. D’Annunzio cercò in ogni modo di fare di sé un personaggio pubblico e di pubblicizzare al contempo la propria attività letteraria: le innumerevoli avventure erotiche, il lusso sfrenato, le stesse imprese belliche (seppur compiute in età matura), persino i duelli, a cui ricorreva spesso (nonostante fossero proibiti in Italia dal 1875), tutto ciò che poteva far parlare di sé era consapevolmente (e spesso cinicamente) sfruttato come mezzo di autopromozione. Importante nella creazione del proprio personaggio fu anche l’uso, allora modernissimo, di immagini fotografiche che ritraevano il poeta, i suoi amori, le sue amicizie, l’ambiente raffinato in cui viveva, a volte allusive a sue opere (sempre in occasione della pubblicazione del Piacere, l’autore si fece ritrarre in atteggiamenti all’Andrea Sperelli).

Significativa è anche la cura del tutto particolare della veste editoriale dei suoi libri, che lo scrittore volle sempre ricercata e preziosa: un’indiretta pubblicità del “prodotto D’Annunzio”, nella convinzione che un pubblico piccolo-borghese avrebbe potuto vedere nella lettura dei suoi libri un elemento di distinzione rispetto alla massa. Ma D’Annunzio sfruttò la propria notorietà addirittura al di fuori del campo editoriale per battezzare (ben retribuito) prodotti commerciali come profumi e liquori. Fu poi lui nel 1917 a dare il nome “la Rinascente” a un grande magazzino milanese in piazza Duomo, nato nel 1877 e ricostruito dopo un terribile incendio.

Un giovane D’Annunzio prende appunti sul suo taccuino.

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L’incontro con Nietzsche e il superomismo All’inizio degli anni Novanta D’Annunzio viene a conoscenza – e ne rimane molto colpito – dell’opera di Nietzsche (in particolare della Nascita della tragedia e di Così parlò Zarathustra), che inciderà in modo rilevante sulla sua opera (➜ SCENARI, PAG 66). D’Annunzio non accoglie le componenti più espressamente filosofiche del pensiero di Nietzsche (la critica al progresso e al mito della scienza, l’attacco corrosivo alle convenzioni e alle ideologie), ma solo quegli aspetti che, in una lettura sostanzialmente banalizzante, potevano saldarsi con i tratti già costitutivi della sua stessa visione del mondo: l’esaltazione del vitalismo pagano, lo spirito dionisiaco, la svalutazione della morale comune, il rifiuto dell’egualitarismo. Ciò che di superomistico era già tendenzialmente presente in Andrea Sperelli (l’accentuato spirito aristocratico, il disprezzo per le omologanti idee democratiche) trova un supporto ideologico nella dottrina nietzschiana producendo una svolta nella visione dannunziana, che si traduce nella creazione di nuovi personaggi, complementari se non proprio alternativi all’esteta Andrea Sperelli. Si tratta non più, come per l’esteta, di rifuggire dalla degradata società moderna, ma di assumere all’interno di essa una funzione attiva, volta ad affermare il predominio dei migliori sulla massa, come nel caso del protagonista del romanzo Le vergini delle rocce (1895 ➜ D6 ). Il superomismo assume così in D’Annunzio tratti anche politici, associandosi a un’aggressiva ideologia nazionalistica e a velleità imperialistiche, in linea con il clima ideologico degli ultimi anni del secolo. Anche in questo caso D’Annunzio dipinge personaggi che gli corrispondono: iniziava infatti in quegli anni a ritagliare per sé il nuovo ruolo di Vate della patria. Il superomismo interessa anche la lirica È importante precisare che il superomismo non interessa solo i romanzi ma anche la lirica maggiore, al centro della quale sta una visione pagana e vitalistica dell’esistenza, che fa dell’io lirico il centro di sensazioni eccezionali, privilegiate: anche in questo ambito emerge la figura del superuomo, che solo può vivere pienamente la fusione panica con la natura dominante in tante pagine delle Laudi (quasi un manifesto dell’associazione tra panismo e superomismo è l’Inno alla vita, la Laus vitae, che apre il poema Maia ➜ D5 OL). Il superomismo si coniuga con l’estetismo Per concludere occorre dire che l’adesione al superomismo non cancella affatto la propensione all’estetismo – vera costante, anzi, della vita e dell’opera di D’Annunzio – ma lo trasforma, assegnando alla figura dell’esteta (che era perdente nel Piacere) un ruolo creativo da protagonista in una nuova società, nella quale la genialità artistica e la Bellezza trovino riconoscimento (è questo il progetto che anima Il fuoco, 1904) e in cui il poeta riacquisti il ruolo di creatore di miti per l’umanità che era stato proprio del mondo antico.

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Gabriele D’Annunzio

«Il verso è tutto»: una celebre dichiarazione di poetica

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Il piacere, II, I G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. I, Mondadori, Milano 1988

Questo celebre passo del romanzo Il piacere contiene una significativa dichiarazione di poetica, attribuita ad Andrea Sperelli, il primo degli alter ego dannunziani. Nella prima parte del testo, Sperelli-D’Annunzio elogia le capacità illimitate del verso: un’esaltazione replicata in altre dichiarazioni indirette di poetica che D’Annunzio affida anche alle liriche stesse (ad esempio, per citare anche solo i testi più noti, Le stirpi canore ➜ D4 OL e L’onda). L’ultima parte del brano è forse ancora più importante: D’Annunzio vi esprime infatti un aspetto chiave del suo modo di poetare, ovvero la dipendenza quasi obbligata da precedenti modelli poetici capaci di suggestionarlo.

– […] Il verso è tutto1. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’u5 na spada, più flessibile d’un virgulto2, più carezzevole d’un murmure3, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come 10 un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto. Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame e da ogni dominio; 15 non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, 20 disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere. Quale gioia è più forte? – Andrea socchiuse un poco gli occhi, quasi per prolungare quel particolar brivido ch’era in lui foriero della inspirazione4 quando il suo spirito 25 si disponeva all’opera d’arte5, specialmente al poetare. Poi, pieno d’un diletto non mai provato, si mise a trovar rime con la èsile matita su le brevi pagine bianche del taccuino. Gli vennero alla memoria i primi versi d’una canzone del Magnifico6: Parton leggieri e pronti dal petto i miei pensieri... 1 Il verso è tutto: l’asserzione «e il Verso è tutto» è presente anche nell’ultimo dei sonetti Al poeta Giovanni Marradi in onore della nona rima, nella raccolta poetica L’Isottèo del 1886.

2 virgulto: germoglio, ramo giovane. 3 murmure: mormorio. 4 foriero della inspirazione: annuncio dell’ispirazione poetica.

5 si disponeva all’opera d’arte: si preparava alla creazione artistica. 6 Magnifico: Lorenzo de’ Medici, detto “il Magnifico” (1449-1492), signore di Firenze e raffinato poeta.

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Quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno d’una intonazione musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai verseggiatori antichi di Toscana. Un emistichio7 di Lapo Gianni, del Cavalcanti, di Cino8, del Petrarca, di Lorenzo de’ Medici, il ricordo d’un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti9, una qualunque concordanza di parole belle e bene sonanti, una 35 qualunque frase numerosa10 bastava ad aprirgli la vena11, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all’armonia della prima strofa. 30

7 emistichio: una delle due parti di un verso. 8 Lapo Gianni... Cino: i poeti nominati sono tutti toscani e appartengono allo

stilnovo: Lapo Gianni, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia. 9 epiteti: appellativi.

10 numerosa: armoniosa (latinismo, da numerus, “ritmo, melodia”). 11 vena: la vena poetica.

Concetti chiave La forza della suggestione e la poetica dell’accumulo

Il testo si apre con una sorta di assioma di indubbia suggestione, anche se non se ne coglie immediatamente il senso: «Il verso è tutto». Quanto segue vorrebbe esemplificare la lapidaria sentenza iniziale, enumerando le qualità del verso, che nel passo è sinonimo della Poesia stessa, o per lo meno di una poesia che si ispira a una visione estetizzante. Più che ad argomentazioni razionali D’Annunzio fa appello alla suggestione creata dalle singole immagini e alla forza trascinante dell’“accumulo”, tipica della sua scrittura: ben nove aggettivi per definire il verso, a cui seguono addirittura dieci paragoni dei quali l’uno intensifica l’altro per continue aggiunte, per “accumulo”, appunto. Il seguito del testo sembrerebbe esplicitare le qualità del verso, ma l’uso incalzante dell’enumerazione, i costrutti anaforici nuovamente travolgono il lettore, inducendolo ad abbandonare ogni sorveglianza logica per lasciarsi andare alla seduzione del flusso delle immagini, sostanzialmente fine a sé stesso.

Il “metodo” di Sperelli/D’Annunzio

Meno nota, ma anche più interessante, la seconda parte del passo (da r. 17), in cui emerge la sovrapposizione tra D’Annunzio e il suo personaggio, che diventa addirittura esplicita nell’ultima parte. La riflessione di Sperelli prende le mosse dall’idea che un verso davvero perfetto si emancipi dal suo creatore, dal tempo e dallo spazio in cui è stato prodotto e viva di vita propria («è di tutti e di nessuno [...] come la luce»). Un verso perfetto è un verso che svela, dandogli in un certo senso una vita sublime e assoluta, un pensiero già esistente, «preformato nella oscura profondità della lingua» (si tratta di un concetto che D’Annunzio deriva dal filosofo Arthur Schopenhauer). Quindi, più che creare, il grande poeta “discopre” e “disviluppa” qualcosa che già esiste nelle potenzialità della lingua. E ciò che viene “scoperto” diventa, in un certo senso, di tutti. D’Annunzio sembra qui voler dare dignità filosofica alla pratica costante, se non al vero e proprio metodo, del suo modo di poetare, che è esplicitato alla fine del brano: quella di D’Annunzio è una poesia che prende le mosse da altra poesia, dalla suggestione anche solo musicale, dei versi altrui, che affollano, in una sorta di immenso magazzino intertestuale, la sua prodigiosa memoria letteraria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in massimo 3 righe. COMPRENSIONE 2. È difficile sintetizzare le qualità che D’Annunzio attribuisce al verso perfetto: perché? ANALISI 3. Quale aspetto fondamentale del modo di far poesia di D’Annunzio viene attribuito a Andrea Sperelli?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di massimo tre minuti, spiega quali caratteristiche della parola poetica, sottolineate da D’Annunzio, si collegano all’estetismo decadente.

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D4 Gabriele D’Annunzio Le stirpi canore Alcyone

D5 Gabriele D’Annunzio Laus vitae Laudi, I, vv. 1-21; 43-84

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Gabriele D’Annunzio

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EDUCAZIONE CIVICA

Il compito dei poeti Le vergini delle rocce

G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. II, Mondadori, Milano 1989

Nelle prime pagine del romanzo, di cui riproduciamo alcuni stralci, il protagonista, il nobile Claudio Cantelmo, principale incarnazione del superuomo dannunziano, enuncia una visione dichiaratamente elitaria della società e della cultura (i «pochi uomini superiori» sono contrapposti ai «molti»). Una visione che assume chiaro significato politico nel fosco ritratto della corrotta e degenerata società contemporanea. Cantelmo, esteta-superuomo, si sente chiamato al compito di avviare un processo di rigenerazione, ma il tempo è ancora lontano. L’ultima parte del passo delinea il ruolo attivo che gli intellettuali devono assumere nuovamente, difendendo e diffondendo il culto della Bellezza.

Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all’arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma1: – Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno 5 sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. – E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s’ac10 cresce di bellezza e di dolore. [...] Assai lontano, in verità, appariva il giorno2; poiché l’arroganza delle plebi3 non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano4. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più 15 osceni connubii5 che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d’una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina6 dove pareva non potesse novellamente7 levarsi tra gli smisurati fantasmi d’imperio8 se non una qualche magnifica dominazione armata d’un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache9 l’onda delle basse 20 cupidigie10 invadeva le piazze e i trivii11, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica12, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto13. [...] Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia 25 delle rime14 nell’evocare imagini d’altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte

1 assioma: principio indiscutibile. 2 Assai lontano... il giorno: il giorno in cui Claudio avrebbe potuto concretizzare il compito di guida per gli uomini. 3 plebi: con questo termine spregiativo si fa riferimento al popolo in senso lato (tutti coloro che non sono le élite). 4 coloro... secondavano: la classe politica, accusata di assecondare la plebe. 5 connubii: compromessi.

6 la cerchia... divina: le mura di Roma, la città divina la cui grandezza è stata voluta da un superiore destino (da qui il termine fatale, attribuito alla cerchia delle mura). 7 novellamente: da ultimo. 8 smisurati fantasmi d’imperio: grandiose memorie della potenza passata. 9 cloache: fogne. 10 basse cupidigie: volgari brame (si allude alla speculazione edilizia che stravol-

geva il volto della capitale).

11 trivii: crocicchi, incroci. 12 titanica: grandiosa. 13 senza che mai... delitto: D’Annunzio contrappone alla meschina volgarità la grandezza del male. 14 esausta... rime: dopo aver esaurito l’abbondanza (dovizia) dei versi.

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e nel numerare i colori delle foglie caduche15; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio16? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii17 il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l’avvento delle Repubbliche, l’accesso delle plebi al 30 potere? [...]». Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa18 che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e 35 pur19 con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni20 le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte 40 simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodaiuoli21. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia22 vociferare nell’assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per 45 vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide23, sono atte a raccattar lo stabbio24 ma non degne di levarsi 50 per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele25. Difendete l’an55 tica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo26. Un ordi60 ne di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente Dante Gabriel Rossetti, La ghirlandata, la distruzione alla distruzione!». 1873 (Guildhall Art Gallery, Londra).

15 numerare... caduche: D’Annunzio ironizza su una poesia che si accontenta di ripiegamenti intimistici (letteralmente “descrivere i colori delle foglie autunnali”). 16 officio: compito, ruolo. 17 senarii doppi: come più avanti i decasillabi, sono i metri fra i più usati per la poesia risorgimentale. 18 cantori alunni della Musa: i poeti. 19 pur: anche.

20 Attendete… veleni: inasprite al massimo grado. 21 coloro che... chiodaiuoli: i sostenitori dell’uguaglianza, paragonati sprezzantemente ai chiodaiuoli che fanno uguali le teste dei chiodi. 22 gli stallieri della Gran Bestia: i rappresentanti del popolo in parlamento. L’immagine della «Gran Bestia» è tratta da Nietzsche.

23 l’epiteto... di Taide: nel XVIII canto dell’Inferno (nella bolgia degli adulatori) Dante descrive la prostituta Taide (personaggio del commediografo latino Terenzio), intenta a graffiarsi con «l’unghie merdose» (v. 131). Cantelmo dice che Dante userebbe lo stesso epiteto per le mani dei rappresentanti del popolo. 24 stabbio: letame (di animali). 25 le tele: i quadri. 26 il Verbo: la parola.

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Concetti chiave Il nuovo ruolo del poeta, esteta-superuomo

A distanza di pochi anni dal Piacere D’Annunzio prospetta, attraverso le parole di Claudio Cantelmo, nuovo suo alter ego, una diversa immagine del poeta, che non nega la prospettiva estetizzante, ma la coniuga con l’idea che sia necessario un ruolo attivo, e anzi aggressivo, del poeta nella società (il poeta è comunque sempre parte di una élite «di pochi uomini superiori»). Si tratta di una visione maturata in rapporto all’evoluzione della società italiana (siamo alla fine convulsa del secolo, percorsa da gravi tensioni sociali) e alla forte influenza della lettura di Nietzsche, che D’Annunzio compie all’inizio degli anni Novanta. D’Annunzio inizia a interessarsi di politica e, a un anno dalla pubblicazione delle Vergini delle rocce, verrà eletto in parlamento nelle file della Destra. La poesia deve dunque farsi “azione”, il poeta deve assumere nella realtà del tempo un ruolo di primo piano, cercando di cambiare, grazie all’uso della parola, alla forza del “Verbo” (e cioè sostanzialmente attraverso gli strumenti della retorica), un mondo che Cantelmo-D’Annunzio considera ormai totalmente imbarbarito e degenerato.

Una visione antidemocratica

Il nuovo ruolo del poeta si lega strettamente a una visione fortemente negativa del proprio tempo, per definire il quale D’Annunzio ricorre a toni apocalittici che sembrano memori delle apostrofi dantesche: un tempo giudicato attraverso l’osservatorio privilegiato di Roma, la città eterna, che gli appare profanata da «basse cupidigie» e dove regna l’opportunismo e il trasformismo politico («osceni connubi»). L’assimilazione frettolosa, e sostanzialmente approssimativa, del pensiero di Nietzsche sfocia in una visione violentemente antidemocratica: colpiscono ancora oggi in questo testo le parole sprezzanti con cui Cantelmo-D’Annunzio attacca la democrazia e schernisce i rappresentanti del popolo in parlamento. È oltremodo significativo che la contestazione avvenga sulla base di motivazioni non politiche, ma esclusivamente estetiche: l’avvento dei ceti popolari (significativamente definiti plebi) al governo, la democrazia, per D’Annunzio minacciano la Bellezza, privilegio, nella sua concezione, di pochi eletti che devono impegnarsi a difenderla contro l’avvento dei nuovi barbari. E, ancora, è significativo che D’Annunzio – come del resto nei suoi discorsi propriamente politici (si veda il Discorso di Quarto D2 OL) – non segua sempre un ragionamento logico stringente, che poggi su argomentazioni razionali, ma faccia appello soprattutto all’adesione emotiva di chi legge. I toni accesamente intolleranti del passo appaiono oggi tristemente profetici dei tragici sviluppi della storia italiana ed europea del XX secolo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Sintetizza l’assioma da cui prende le mosse il passo (rr. 1-10). Quale conseguenza ne trae subito dopo l’io narrante? 2. Quale è il compito che D’Annunzio attribuisce nel suo tempo ai poeti? ANALISI 3. All’inizio del terzo paragrafo (rr. 24-30) si dà un giudizio indirettamente limitativo sul recente ruolo dei poeti: in che senso? 4. Riguardo al presente, secondo te, le interrogative che seguono prospettano una reale possibilità per i poeti o sono solo retoriche? Motiva la tua risposta.

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 5. In un testo di massimo 10 righe spiega in che modo nel testo sia presente una fusione tra estetismo e superomismo. ART. 1 COSTITUZIONE 6. Quale rapporto tra intellettuale e potere si configura nel passo? In che modo D’Annunzio esprime le sue posizioni antidemocratiche?

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D’Annunzio prosatore e drammaturgo La produzione narrativa di D’Annunzio è vastissima e articolata: all’interno delle opere in prosa si trovano infatti novelle, romanzi, prose autobiografiche, che nel loro complesso – a prescindere dal giudizio sui risultati artistici – ci danno l’idea di un’instancabile energia creatrice.

1 Gli esordi: nel nome di Verga L’attività narrativa di D’Annunzio si apre con la raccolta di bozzetti abruzzesi Terra vergine del 1882. L’opera nasce sotto il segno dei modelli naturalisti e veristi allora molto influenti (le novelle verghiane di Vita dei campi erano state pubblicate solo da un paio d’anni); ma, al di là di una dichiarata aderenza alle forme e ai propositi del naturalismo e a quelli verghiani, l’approccio di D’Annunzio alla narrazione è nettamente diverso e, ormai, decisamente decadente. L’ambientazione è provinciale e rusticana, ma manca del tutto a D’Annunzio l’intento di indagare con metodo scientifico un contesto sociale: le novelle ritraggono un’umanità primordiale, ferina, dominata da un erotismo vorace, da passioni violente e crudeli; la rappresentazione della natura è lirica ed estetizzante; anche la compiaciuta voce del narratore è ben lontana dall’impersonalità di Verga e Capuana. All’interno di questo atteggiamento narrativo di base si collocano anche le altre raccolte di novelle degli anni immediatamente successivi, tra online cui i racconti raccolti con il titolo San Pantaleone (1886), che, T1 Gabriele D’Annunzio L’Abruzzo primordiale di Terra vergine selezionati e variamente rielaborati, confluiranno nelle NovelTerra vergine le della Pescara, edite nel 1902.

2 D’Annunzio romanziere «O rinnovarsi o morire!» L’espressione, usata da D’Annunzio nella prefazione al romanzo Giovanni Episcopo, può valere per l’intera sua produzione, costantemente aperta a sperimentare nuovi temi e forme. Certamente può sintetizzare l’itinerario che D’Annunzio compie nei suoi romanzi, anche per la suggestione esercitata sullo scrittore da modelli della letteratura e più in generale della cultura europea (dall’estetismo al romanzo russo al pensiero di Nietzsche). I romanzi dannunziani, in tutto sette, si susseguono, a parte l’ultimo, in tempi ravvicinati e sono scritti e pubblicati, per la maggior parte, alla fine dell’Ottocento: Il piacere (1889), Giovanni Episcopo

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(1891), L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894), Le vergini delle rocce (1895). Il fuoco è pubblicato nel 1900 e l’ultimo romanzo, Forse che sì forse che no, nel 1910. La centralità della dimensione autobiografica Tutti i romanzi dannunziani hanno un risvolto autobiografico, più o meno marcato, ed è forse questa caratteristica a rendere facilmente riconoscibili come “dannunziane” pagine scritte in tempi diversi: l’autore si proietta infatti nei protagonisti, “doppi”, sia pur filtrati dall’artificio letterario, di D’Annunzio stesso, nella sua evoluzione ideologica e psicologica. Andrea Sperelli del Piacere, Tullio Hermill dell’Innocente, Giorgio Aurispa del Trionfo della morte, Claudio Cantelmo delle Vergini delle rocce, prospettano diverse sfaccettature di un unico personaggio che rimanda all’autore per vari aspetti (dalla sensualità al culto esasperato della Bellezza, alla visione elitaria e sprezzante della società contemporanea). Al contempo, nei diversi protagonisti si riflette la figura del moderno intellettuale, alla difficile ricerca di un ruolo e di una identità. Il superamento del naturalismo Fin dal primo romanzo D’Annunzio si discosta nettamente dal modello verista, anche per l’influenza dell’estetismo europeo, proponendo una nuova tipologia di personaggi (tra dandy e superuomini), nuovi scenari, un rapporto tra narratore e vicenda narrata lontanissimo dall’impersonalità verghiana e uno stile ricercato, che utilizza esclusivamente un lessico prezioso, aulico, e indulge alla ricerca di musicalità.

3 Il piacere: il romanzo dell’estetismo I “romanzi della rosa” Nel 1889 D’Annunzio pubblica presso l’editore milanese Treves Il piacere, primo romanzo di un “ciclo della rosa”, che lo scrittore intendeva dedicare al tema della voluttà. I “romanzi della rosa” saranno poi completati con L’innocente (1892) e Trionfo della morte (1894). Un titolo innovativo Già con il titolo D’Annunzio segnala la sua distanza dal verismo verghiano che proprio in quegli anni stava dando le sue prove maggiori (I Malavoglia sono del 1881 e Mastro-don Gesualdo dello stesso 1889): pone infatti in primo piano non un tema sociale ma l’eros, il “piacere”, appunto. Nell’opera il “piacere” non è solo quello erotico, ma è anche quello estetico: l’esistenza di Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo, ruota infatti intorno alla ricerca ossessiva del bello in ogni sua forma, dalla bellezza femminile a quella artistica, a quella degli oggetti rari e preziosi di cui è appassionato collezionista. Con Il piacere D’Annunzio introduce per primo nella cultura italiana l’estetismo decadente, proponendosi così come mediatore di una tendenza culturale che in Francia aveva trovato grande seguito con l’uscita del romanzo À rebours di Huysmans (1884 ➜ C9 T4 ), uno dei principali modelli a cui D’Annunzio si ispira. L’ambientazione: il romanzo di Roma Il romanzo traspone sulla pagina il vero e proprio innamoramento di D’Annunzio per Roma (in particolare la Roma barocca), che fa da sfondo alle vicende del romanzo con i suoi paesaggi naturali, i suoi monumenti, le piazze, i palazzi aristocratici. Fulcro della rappresentazione del Piacere sono gli ambienti mondani della capitale, che D’Annunzio aveva potuto personalmente conoscere nel ruolo di cronista del bel mondo. Il piacere potrebbe anche essere considerato, per la frequenza delle descrizioni ispirate da Roma, un Baedeker, cioè una guida turistica d’eccezione della Città Eterna. D’Annunzio prosatore e drammaturgo 2 443

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Un impianto narrativo antiverista La struttura narrativa del romanzo si contrappone all’impianto della narrativa verista: innanzitutto Il piacere è povero di fatti e privilegia l’analisi interiore e psicologica del protagonista. Rifiuta inoltre un andamento lineare, fondato sulla coincidenza fabula-intreccio: ampia parte del romanzo è infatti occupata da un lunghissimo flash back. Al superamento della tradizione naturalistica contribuiscono anche i continui, compiaciuti indugi descrittivi che frammentano l’asse principale della narrazione. Una narrazione (quasi costantemente focalizzata sul punto di vista del protagonista), affidata a una voce narrante onnisciente che appare ben lontana dall’impassibilità del narratore verghiano. Alla voce principale si alternano frequentemente le voci dei vari personaggi (primo fra tutti il protagonista, ma un lungo tratto del racconto è affidato alle pagine del diario di Maria, una delle due protagoniste femminili). Un personaggio moderno La novità principale del romanzo, e la chiave della sua modernità, sta però nella figura del protagonista: con Andrea Sperelli, D’Annunzio non solo introduce nella narrativa italiana la figura dell’esteta ma propone un personaggio già novecentesco, scisso, alla costante ricerca di un centro stabile, o, come sostiene il critico Vittorio Roda, dal bisogno di riempire un vuoto interiore angosciosamente avvertito. Incapace di un rapporto autentico con il mondo, Andrea Sperelli è trascinato in una giostra senza fine sull’onda labile delle sensazioni, ma al soddisfacimento del piacere segue la sazietà. In lui si annida «il tarlo dell’autoanalisi, un cerebralistico e mistificante bisogno di introspezione, che impedisce alle emozioni di sgorgare spontanee, ai sentimenti di espandersi e di vivere con schietta naturalezza, alimentando in Sperelli un accidioso scontento di sé» (Senardi). Il risultato è la solitudine, a cui già di per sé lo condanna la sua esasperata vocazione estetica. Dalla vita alla letteratura Il piacere attinge al vissuto dell’autore per più di un aspetto: il mondo in cui Andrea si muove è lo stesso a cui le nozze con la duchessa Maria Hardouin di Gallese hanno consentito a D’Annunzio di accedere e che ha ritratto nei suoi articoli giornalistici (ai quali ampiamente si ispira per raffigurare eventi, arredi di palazzi, e anche personaggi dell’alta società romana). Inoltre, proprio nel periodo in cui scrive Il piacere, D’Annunzio vive un’intensa storia d’amore con Barbara Leoni, che presta alla narrazione più di un riferimento, per la tendenza (o addirittura la precisa volontà) di D’Annunzio ad abbattere i confini tra l’arte e la vita. Lo testimonia il confronto con l’amplissimo carteggio (oltre mille lettere) con Barbara giunto quasi intatto fino a noi: interi passi della corrispondenza rifluiscono pressoché inalterati nel romanzo, numerosi sono gli aspetti appartenuti a Barbara nella vita reale che nella narrazione sono attribuiti alle amanti di Andrea. Questo poi è da considerarsi un “doppio” dello stesso D’Annunzio: il culto estetizzante della bellezza, l’esasperata sensualità, l’aridità affettiva, la tendenza alla mistificazione sono solo alcuni dei tratti che di certo accomunano Andrea Sperelli al suo creatore. • Libro primo All’inizio del romanzo il protagonista, Andrea Sperelli, giovane discendente di una famiglia patrizia romana, attende ansiosamente la visita di una sua ex amante, Elena Muti, nella speranza di poter riallacciare la relazione. Elena giunge però all’appuntamento solo per deludere le sue attese, manifestandogli l’intenzione di voler essere per lui ormai solo sorella e amica. • A questo punto si apre un ampio flash back in cui viene dapprima tratteggiato analiticamente il personaggio di Andrea, e in seguito ripercorsa la storia dell’a-

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more tra i due, dal primo incontro all’improvvisa partenza di Elena, che lo abbandona senza spiegazioni. Andrea si immerge in una vita dissipata, corteggia altre donne, tra le quali la moglie di un amico: ne segue un duello in cui rimane gravemente ferito. • Libro secondo Durante la convalescenza, ritiratosi a Schifanoia (presso Ferrara), nella villa della cugina, il protagonista medita sulla propria vita, alla ricerca di un equilibrio interiore da trasporre nella propria attività artistica. Ma un’altra donna entra nella sua vita: si tratta di Maria Ferres, moglie di un diplomatico sudamericano, in visita alla villa. Andrea è immediatamente affascinato dalla bellezza pura e spirituale di Maria, del tutto contrastante con quella di Elena, e cerca di sedurla. Maria, come si desume dal suo diario, tenta di resistergli ma alla fine cede alle sue lusinghe e si innamora di Andrea. • Libro terzo Ormai guarito, Andrea torna a Roma. Qui, un incontro casuale con Elena (preludio alla visita dell’ex amante che inizia il romanzo) chiude anche il lungo flash back. La seconda parte è tutta incentrata sulla vita dissoluta di Andrea e il suo tentativo, perverso quanto vano, di possedere entrambe le donne. • Libro quarto Respinto da Elena, Andrea si rivolge a Maria, ma lei, proprio nel momento in cui sembrerebbe più disponibile e bisognosa del suo amore (il marito è caduto in disgrazia), fugge sconvolta e umiliata quando Andrea tra le sue braccia evoca il nome di Elena. • Il finale ci mostra Andrea, sconfitto e angosciato, che ritorna al suo palazzo dopo che i beni di Maria e del marito sono stati venduti all’asta. Una voce narrante ambigua Nel romanzo sono frequenti gli interventi commentativi moralistici del narratore che prende le distanze dal suo personaggio, condannandone l’indifferenza etica. Rispondendo alle critiche sulla moralità del romanzo avanzate dal suo editore, D’Annunzio addirittura dichiara di aver voluto rappresentare in Andrea Sperelli una sorta di mostro morale. In realtà questo atteggiamento è troppo insistito per convincere e, soprattutto, è evidente la contraddittorietà nella voce narrante tra esibita deprecazione e adesione compiaciuta, che deriva dalla palese sovrapposizione fra Andrea e il suo creatore. Le figure femminili Nel Piacere D’Annunzio inaugura la galleria di personaggi femminili che rivestono un ruolo importante nei suoi romanzi. Due sono le figure evocate nel libro, che costituiscono una coppia vistosamente antitetica: Elena, sensuale, capricciosa e amorale, è la femme fatale dal fascino perverso e dalla femminilità indecifrabile; Maria rappresenta, all’opposto, una femminilità austera e delicata.

Alfredo Ricci, L’Isaotta Guttadauro di Gabriele D’Annunzio, 1886.

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Forse i nomi stessi delle due donne sono stati scelti per rappresentare due opposti: Elena rimanda all’archetipo di ogni seduttrice rovinosa, cioè Elena di Troia; Maria (a cui D’Annunzio attribuisce a volte tratti quasi stilnovistici) rimanda alla donna casta e pura per eccellenza, la vergine madre di Cristo. Due figure antitetiche che Andrea, in un gioco di specchi, cerca di sovrapporre, alla ricerca dell’amante ideale (➜ T3 ). Lo stile Lo stile del Piacere è caratterizzato dall’«esagerazione dell’eleganza» (per usare un’espressione dello stesso D’Annunzio): è uno stile aulico e raffinato, che ben corrisponde alla figura di Andrea Sperelli-D’Annunzio. Concepito per colpire i lettori, è volutamente alto, distante non solo dal linguaggio comune, ma anche dallo stile letterario consolidato: il lessico è arcaizzante e iperletterario; domina nel romanzo una ricerca sapiente, quasi virtuosistica, di simmetrie, parallelismi ed effetti fonico-ritmici.

Il piacere GENERE

manifesto dell’estetismo dannunziano

DATA DI PUBBLICAZIONE

1889

STRUTTURA

quattro libri

PROTAGONISTA

Andrea Sperelli

FIGURE FEMMINILI

Elena Muti (amore passionale) e Maria Ferres (amore spirituale)

CONTENUTO

esperienze artistiche, erotiche ed estetiche della vita inimitabile dell’esteta Andrea Sperelli (alter ego di D’Annunzio)

TEMI

piacere erotico ed estetico vita vissuta come un’opera d’arte culto della bellezza rifiuto delle convenzioni borghesi visione antidemocratica introspezione psicologica, sconfitta esistenziale

AMBIENTAZIONE

Roma barocca e aristocratica

STILE

aulico e raffinato, lessico iperletterario

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Analisi passo dopo passo

Gabriele D’Annunzio

Ritratto di un «giovine signore italiano del XIX secolo»

T2

Il piacere I, II G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. I, Mondadori, Milano 1988

È la parte iniziale di un lungo flash back, in cui il narratore presenta il protagonista, Andrea Sperelli, soffermandosi sulla sua formazione e delineandone l’indole.

Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era 5 tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte1. A questa classe, ch’io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell’a10 mabile vita del XVIII secolo2, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo3, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli 15 qualità ereditarie. [...] Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano4 del XIX secolo, il legittimo campione5 d’una stirpe 20 di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale. Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ venti anni, 25 le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica6 sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi7. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto 1 Sotto il grigio... e di arte: la presentazione del protagonista, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, è preceduta da un duro giudizio del narratore sulla decadenza dell’Italia, che egli attribuisce alla democrazia parlamentare (identificata dalla pregnante espressione metaforica «il grigio diluvio democratico»). 2 arcadica... XVIII secolo: in quanto fiorì nel Settecento, quando in Italia erano

dominanti i canoni di naturalezza e grazia espressiva dell’accademia letteraria dell’Arcadia. 3 atticismo: il termine designava uno stile oratorio piano e lineare, contrario all’abuso di figure retoriche, che aveva come modello la prosa greca attica del IV secolo a.C.; qui è usato per indicare proprietà ed eleganza di linguaggio (simile al precedente urbanità, che vale “decoro formale”).

1. La famiglia Sperelli Il narratore, onnisciente, presenta la famiglia aristocratica a cui appartiene il protagonista e di cui è unico e degno erede. A differenza della narrativa verista, il narratore apertamente rivela il suo giudizio, del tutto positivo sulle abitudini e i gusti della famiglia di Andrea Sperelli, e al contrario, negativo sul suo tempo (valutato attraverso parametri estetici più che politici). Una traccia dell’ottica naturalista si può invece ritrovare nell’allusione all’ereditarietà di gusti e comportamenti, che dai suoi antenati passano naturalmente ad Andrea. Sul piano stilistico, emerge già il gusto per l’accumulazione e la predilezione per forme della tradizione antica, come l’uso frequente del troncamento (special, tradizion, ideal).

2. L’educazione di Andrea La formazione di Andrea, lontana da ogni consuetudine di istruzione scolastica, è piuttosto simile a quella dei gentiluomini settecenteschi, in particolare per il ruolo fondamentale esercitato dall’esperienza del viaggio. È significativo che si parli di educazione estetica e per nulla di educazione morale.

4 giovine signore italiano: probabile allusione al protagonista del Giorno di Parini, priva però del risvolto satirico proprio dell’opera settecentesca. 5 campione: rappresentante esemplare. 6 estetica: indirizzata a riconoscere, apprezzare e coltivare il bello. 7 senza... pedagoghi: senza limiti e vincoli di precettori.

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passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere. Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente8 vivere; aveva una scienza profonda della 35 vita voluttuaria9 e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico10. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace 40 coniugale. Finalmente11 s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa. L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quando in con45 spetto delle realità12 umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento13: e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé14; poiché 50 la grande forza sensitiva15, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale, che il padre stesso non aveva rite55 gno a deprimere16. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo17 gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente 60 sebben con lentezza. Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La supe65 riorità vera è tutta qui». Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. 30

8 largamente: con piena disponibilità di mezzi. 9 scienza... vita voluttuaria: conoscenza teorica e insieme cognizione pratica della vita dedita alla voluttà, cioè al puro piacere. 10 inclinazione... fantastico: tendenza ad abbandonarsi alle fantasticherie romantiche alla George Byron (1788-1824), poeta inglese dalla vita avventurosa, nelle cui

opere scrisse di personaggi d’eccezione, spesso in scenari esotici o estremi. 11 Finalmente: alla fine. 12 in conspetto delle realità: in presenza di realtà. 13 corrotto... esperimento: Andrea non è stato solo influenzato dalla raffinata cultura inculcatagli dal padre, ma anche dalla sua attitudine a sperimentare le proprie

3. Il padre Nel ritratto del padre confluiscono riconoscibili modelli letterari, sia settecenteschi (la filosofia del piacere dei libertini) sia romantici (la passionalità e l’eccezionalità da eroe byroniano).

4. Curiosità e sensualità Il primo ritratto di Andrea ne focalizza la tendenza, alimentata dall’incessante curiosità, a sperimentare quanto attiene alla sfera dei sensi, in lui particolarmente sviluppata, e a cercare lo stimolo di sempre nuove sensazioni, a detrimento della forza morale, che sempre più si indebolisce. 5. Un patrimonio di massime L’insegnamento paterno si condensa in massime che possono a prima vista sembrare sapienziali. Si tratta però di una “sapienza” ben lontana da quella tradizionalmente considerata tale, dall’antichità in poi (il narratore infatti ne sottolinea la sostanziale ambiguità): non riguarda il piano dei valori, bensì la ricerca del bello, a cui la vita stessa deve consacrarsi, il culto della libertà, inteso in modo velato come esasperazione dell’individualismo, l’incessante ricerca del nuovo di cui lo spirito si possa appagare. Massime che mal si conciliano con la debolezza della volontà di Andrea. A quale precedente espressione è contrapposta la «debolissima... potenza volitiva» di Andrea?

inclinazioni. 14 prodigo di sé: pronto a darsi, in questo contesto pronto a gettarsi a capofitto in ogni esperienza. 15 sensitiva: si intende ciò che è in relazione alla sfera dei sensi, che travalica l’etica e la volontà. 16 deprimere: svalutare. 17 circolo: cerchio.

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La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi18». 70 Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo19 d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni». Ma queste massime volontarie, che per l’ambigui75 tà loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria20, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima. Un altro seme paterno aveva perfidamente frutti80 ficato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma21. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio 85 dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofisti 90 fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso22». Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto ver95 so sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio. Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò 100 solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a 105 Roma, per predilezione. Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe 18 Habere, non haberi: in latino “Possedere, non essere posseduti”. 19 vano pascolo: inutile preoccupazione. 20 natura involontaria: natura incapace di volere, priva di forza di volontà (potenza volitiva, subito dopo), in opposizione

alle massime volontarie che il padre aveva cercato di trasmettergli. 21 il seme del sofisma: l’abitudine a un ragionamento inutilmente artificioso e menzognero. 22 al secolo... gaudioso: il V secolo a.C.,

6. Una contraddizione nella voce narrante Non è difficile notare nel passo la compresenza nella voce narrante di condanna esplicita e adesione implicita: dove si può notare l’una e l’altra?

7. Roma, la città più amata Le inclinazioni personali e la raffinata educazione ricevuta conducono Andrea a fare di Roma la sua città di elezione (è evidente la proiezione autobiografica). La Roma che il personaggio ama non è quella della classicità e delle rovine, ma quella barocca della passata grandezza della Chiesa e della nobiltà, cornice e palcoscenico ideali per le ambizioni e i modelli eletti da Andrea Sperelli (vorrebbe essere un «Principe romano»). Sono citati alcuni luoghisimbolo della Roma prediletta dal gusto estetizzante del protagonista.

e in particolare il periodo del governo di Pericle, il fondatore della democrazia ateniese, è considerato il periodo di massimo splendore della civiltà greca.

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tutto il Colosseo per la Villa Medici23, il Campo Vaccino24 per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe25. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini26 l’attraeva assai più della ruinata 115 grandiosità imperiale27. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese28; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese29; una villa, 120 come quella d’Alessandro Albani30, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche 125 suo superbo amore31. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda: «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano». Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, 130 stabilì il suo home32 nel palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti33, su quel dilettoso tepidario34 cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze 135 furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti35, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta 110 dato

23 Villa Medici: villa tardo-cinquecentesca – proprietà del cardinale, poi granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici –, progetto ambizioso di villa-museo per collezioni di antichità, con parco e belvedere scenografici e un ricco orto botanico; vi lavorò l’architetto e scultore Bartolomeo Ammannati. 24 Campo Vaccino: con questo nome veniva designata nel passato l’area conosciuta come Foro romano. 25 Fontanella delle Tartarughe: fontana in piazza Mattei, progettata da Giacomo della Porta, completata dal Bernini. 26 Colonna... Barberini: importanti famiglie nobiliari romane. 27 ruinata grandiosità imperiale: le rovine, i resti archeologici della Roma imperiale. 28 un palazzo... come quello Farnese: palazzo cinquecentesco della famiglia Farnese alla cui realizzazione e decorazione contribuirono i più grandi architetti e artisti del tempo, quali appunto Michelangelo, che diresse i lavori soprattutto

della facciata a metà del secolo, e i citati Carracci (Annibale e Agostino, pittori bolognesi che affrescarono la Galleria e il Camerino sul finire del secolo). 29 galleria... quella Borghese: il riferimento dannunziano è alle ricchissime collezioni di capolavori della scultura e pittura italiana, dal XV al XVIII secolo (da Antonello da Messina a Caravaggio e al Bernini), oggi raccolte nel museo della Galleria Borghese, che si trovavano nella cinquecentesca villa Borghese Pinciana. 30 una villa... Albani: riferimento alla villa settecentesca del cardinale Albani, noto collezionista e conoscitore d’antichità, che ospitò, in veste di catalogatore dei pezzi antichi e di studioso, il noto archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann; bussi “bossi” (arbusti sempreverdi, dal legno compatto, duro, usato per lavori di ebanisteria). 31 componessero... amore: creassero uno scenario affascinante a qualche sua eccezionale esperienza d’amore. 32 il suo home: la sua dimora (in inglese).

33 palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti: esempio di ambientazione reale della trama fittizia. Andrea Sperelli prende dimora nella casa progettata e appartenuta a Federico Zuccari, pittore italiano del periodo manierista (fine Cinquecento), che rappresenta uno dei maggiori esempi di casa d’artista in Italia. 34 tepidario: nelle antiche terme romane era l’ambiente per i bagni in acqua tiepida; il termine nel tempo è passato a indicare una serra riscaldata in modo naturale, dai raggi del sole; ed è in riferimento a questo secondo significato che qui è definita «l’assolata pendice del Pincio» Trinità dei Monti, che con la celebre scalinata dirada fino a piazza di Spagna, dando luogo a una fra le più movimentate scenografie della Roma settecentesca. 35 Era una... de’ morti: con queste espressioni si indica un periodo di relativo tepore che può seguire ai primi freddi della stagione autunnale, in genere collocabile fra il giorno dei morti (il 2 novembre) e la festa di san Martino (11 novembre).

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d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi. Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una 145 prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L’anima converte in fenomeni psichici le 150 impressioni dell’organismo mal definite, a quella guisa che36 il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno. Certo egli ora entrava in un novello stadio37. – Avrebbe alfin trovato la donna e l’opera capaci 155 d’impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. 160 Avido d’amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de’ pensieri 36 a quella guisa che: allo stesso l’imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per modo in cui. 165 educazione, era vulnerabile in ogni parte, acces37 novello stadio: sibile al dolore in ogni parte. nuova condizione. 140

8. L’autunno romano Le notazioni atmosferico-paesaggistiche relative al dolce, languido, dorato autunno romano creano una consonanza di tipo simbolista con il senso di vuoto, la malinconia, il vago malessere che il protagonista avverte proprio nel momento di iniziare la sua nuova vita. La precisazione che chiude il passo è ispirata invece ancora da una considerazione scientifico-positivista.

9. L’autoanalisi del personaggio Il testo si chiude con un’autodiagnosi del protagonista, affidata a un soliloquio, con un tratto in discorso diretto libero che affonda nell’interiorità del personaggio. Sebbene entrato «in un novello stadio» della sua esistenza, Sperelli manca di un “centro”, che vorrebbe identificare in un’opera artistica fondamentale e in una donna-chiave, capace di monopolizzare i suoi affetti. La domanda retorica (presuppone infatti una risposta negativa) evidenzia l’assenza di tale centro nella vita del giovane. La conseguenza (di fatto protratta per tutto il romanzo) sarà una dispersività degli slanci, la vanificazione di ogni tensione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il testo nelle principali sequenze, titolandole. COMPRENSIONE 2. Che tipo di esistenza conduce Andrea fino ai vent’anni e quale ruolo vi svolge il padre? ANALISI 3. Quale idea può ricavare il lettore sul protagonista dal passo di apertura del romanzo? Usa cinque aggettivi per definirne la figura. STILE 4. La prosa, particolarmente ricca e ricercata, vuole rispecchiare il gusto stesso del protagonista. Individua nel testo: – le citazioni (in lingua latina o straniera); – gli arcaismi; – forme grammaticali desuete; – forme etimologiche o vicine all’origine latina; – aggettivi qualificativi in sovrabbondanza; – le enumerazioni.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Nel testo ricorre più volte il termine arte: potrebbe costituire la parola chiave del testo? Se sì, perché? Indica prima tutte le ricorrenze del termine in contesto, riconosci se ci sono sfumature di senso e presenta il risultato della tua analisi in un intervento orale di massimo tre minuti.

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Gabriele D’Annunzio

Tra Elena e Maria: l’immagine della «terza Amante ideale»

T3

LEGGERE LE EMOZIONI

Il piacere III, III G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. I, Mondadori, Milano 1988

Andrea ha appena assistito a un concerto in cui erano presenti entrambe le donne chiave del romanzo: Elena Muti (un tempo sua amante) e Maria Ferres che ancora non è riuscito a far sua. Alla fine del concerto Elena gli offre un passaggio sulla sua carrozza e, inaspettatamente, lo bacia. L’accaduto ispira ad Andrea alcune riflessioni sul suo modo di vivere l’amore e sulla sua stessa identità di persona.

Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa1 di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d’un laccio2. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza parlare. 5 Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni3 terribili e soavi che duravano fino all’ambascia4 e davano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido5 che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli salì per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari. 10 Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po’ velata: Discendi. Addio. Quando verrai? Chi sa! Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per riprendere 15 la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor fluttuanti in una nebbia torbida, guardava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò. [...] Si compiacque a lungo nel considerar l’avventura6. Si compiacque, in ispecie, della 20 maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio. E l’imagine del boa suscitò l’imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta capellatura vergine che un tempo faceva languir d’amore le educande nel monastero fiorentino7. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento; travide la terza 25 Amante ideale8. Entrava in una disposizion di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo, ripensava:

1 boa: lunga striscia di pelliccia o piume di struzzo, che le signore del tempo portavano intorno al collo. 2 in guisa d’un laccio: come fosse un laccio. 3 antiche... congiunzioni: unioni (delle loro bocche nei baci che si erano scambiati in passato). 4 ambascia: qui, alla lettera “respiro affannoso”. 5 roscido: umido, acquoso (letteral. “rugiadoso”).

6 l’avventura: ciò che era accaduto nella carrozza. 7 vasta capellatura... fiorentino: in precedente passo del romanzo (l. II, cap. II) è descritta la splendida capigliatura di donna Maria, nera, lunga e folta che fin dai tempi della gioventù, nell’educandato presso il quale dimorava, aveva suscitato l’ammirazione e l’invidia di tutte le compagne.

8 Di nuovo... Amante ideale: nuovamente Andrea sovrappone l’attrazione per le due donne, Elena e Maria (i due desiderii) e immagina la prospettiva di un duplice soddisfacimento; nella sua fantasia intravede (travide: forma verbale scelta per la sua ricercatezza, vicina all’origine latina trans-videre, vedere oltre) una terza figura femminile come amante, in cui si fondano le caratteristiche di Elena e Maria.

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– Ieri, una grande scena di passione9, quasi con lacrime; oggi una piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d’essere sincero nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso, un’ora prima del bacio d’Ele30 na, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani, certo, ricomincerò. Io sono camaleontico, chimerico10, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l’unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch’io mi rassegni. La mia legge è in una parola: Nunc11. Sia fatta la volontà della legge. 35 Rise di sé medesimo. E da quell’ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria morale. Senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, senza alcun rimorso, egli si diede tutto a porre in opera le sue imaginazioni12 malsane. Per trarre13 Maria Ferres a cedergli, usò i più sottili artifizii, i più delicati intrichi, illudendola appunto nelle cose dell’anima, nella spiritualità, nell’idealità, nell’intima vita del cuore14. Per proseguire 40 con egual prestezza15 nell’acquisto della nuova amante e nel riacquisto dell’antica, per profittar d’ogni circostanza nell’una e nell’altra impresa, egli andò incontro a una quantità di contrattempi, d’impacci, di bizzarri casi; e ricorse, per uscirne, a una quantità di menzogne, di trovati16, di ripieghi meschini, di sotterfugi degradanti, di bassi raggiri. La bontà, la fede, il candore di Donna Maria non lo soggiogavano. 45 Egli aveva messo a fondamento della sua seduzione il versetto d’un salmo: «Asperges me hyssopo et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor17». La povera creatura credeva di salvare un’anima, di redimere un’intelligenza, di purificare con la sua purità un uomo macchiato; credeva ancor profondamente alle parole indimenticabili udite nel parco, in quella Epifania dell’Amore18, al conspetto 50 del mare, sotto gli alberi floridi. E questa fede appunto la ristorava e la sollevava in mezzo alle lotte cristiane che di continuo si combattevano nella sua conscienza19, la liberava dal sospetto, la inebriava d’una specie di misticismo voluttuoso in cui ella effondeva tesori di tenerezza, tutta l’onda raccolta de’ suoi languori, il fior più dolce della sua vita. 55 Per la prima volta, forse, Andrea Sperelli si trovava innanzi a una vera passione; per la prima volta si trovava innanzi a uno di quei grandi sentimenti feminili, rarissimi, che illuminano d’un bello e terribile baleno il ciel grigio e mutevole degli amori umani. Egli stesso se ne curò. Divenne lo spietato carnefice di sé stesso e della povera creatura. 60 Ogni giorno un inganno, una viltà.

9 Ieri... passione: il giorno prima Maria aveva manifestato a Andrea il proprio turbamento per l’amore che sentiva prorompere dentro di sé. 10 camaleontico, chimerico: mutevole (nel senso di adattabile all’ambiente e alla situazione come il camaleonte), multiforme (come la mitologica Chimera, insieme leone, drago e capra). 11 Nunc: ora, adesso (in latino, nel testo). È qui dichiarato il vero imperativo del cuore del protagonista: l’attimo. 12 imaginazioni: fantasie. 13 trarre: indurre.

14 illudendola... vita del cuore: per conquistare Maria, Andrea fa riferimento a tutto ciò che attiene alla sfera dei nobili sentimenti, degli ideali. 15 prestezza: rapidità. 16 trovati: strategemmi. 17 Asperges me, Domine... nivem dealbabor: è una citazione dal salmo 51 (“Purificami con issopo e sarò mondato; lavami e sarò bianco ancor più della neve”; l’issopo è una pianta officinale dalle proprietà antisettiche e balsamiche). L’inganno di Andrea nei confronti di Maria, al fine di sedurla, è quello di presentarsi come desideroso di essere da lei purificato.

18 Epifania dell’Amore: epifania è termine che deriva dal greco e che significa “manifestazione, apparizione”; qui il narratore fa riferimento alla rivelazione dell’amore (con la maiuscola per entrambi i termini voluta dal narratore che ne enfatizza il significato) vissuta dalla spirituale e candida Maria durante una passeggiata nel parco di Schifanoia (l. II, cap. IV). 19 lotte cristiane... conscienza: lo spirito puro di Maria avverte cristianamente come colpevole la passione per Andrea e la vive in modo conflittuale con i suoi convincimenti morali.

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Analisi del testo Il boa di Elena... la treccia di Maria La prima parte del passo ha carattere narrativo e rievoca la scena erotica tra Elena e Andrea all’interno della carrozza che li riconduce alle loro abitazioni dopo il concerto a cui hanno assistito (ma Andrea era in compagnia di Maria Ferres). La fugacità della situazione (i due ex amanti saranno insieme per pochissimo tempo, al riparo da sguardi indiscreti) induce Elena a concedere a Andrea un lungo bacio, dopo averlo attirato a sé con il boa di pelliccia: un oggetto seducente, perfettamente in linea con la natura del personaggio di Elena, affascinante e sensuale femme fatale. L’immagine del boa di martora richiama ad Andrea, per contrasto, la lunga treccia nera di Maria e attiva un gioco eccitante di sovrapposizione fra le due donne: la seduttrice voluttuosa Elena e la fragile e sentimentale Maria, che sublima la sua passione nel desiderio di essere una guida spirituale per l’uomo, di redimerlo dalla sua vita dissoluta nella convinzione, da lui stesso coltivata («Egli aveva messo a fondamento della sua seduzione il versetto d’un salmo», r. 46) che fosse anche suo desiderio l’essere purificato dai propri peccati e guarito dalla sua malattia interiore. Innamoratasi di lui, diventerà la vittima del suo cinico edonismo. Nella sovrapposizione delle due immagini femminili («Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento»), Andrea arriva a fonderle in un’unica figura: quella che lo stesso protagonista, attraverso le parole del narratore onnisciente, intravede come «la terza Amante ideale», una figura creata da lui stesso, che appartiene all’arte e non più alla vita vera.

Il fatalismo cinico di Andrea La riflessione sulla propria singolare capacità di vivere passioni che al momento sembrano vere e assolute, ma che non lasciano alcuna traccia nel suo animo al punto da poterle mescolare e confondere, porta Andrea alla presa di coscienza della propria natura più profonda, definita attraverso una serie di aggettivi in crescendo: «Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente». Da questo momento Andrea consapevolmente agirà in modo cinico e spietato per ottenere i propri scopi: il possesso fisico della pura Maria, come anche la riconquista dell’antica amante, saranno ricercati senza «alcun riguardo, senza alcun ritegno, senza alcun rimorso». Il protagonista cede a una sorta di fatalismo cinico abbandonandosi alla legge di vivere l’attimo, in cui la sfera morale cede il passo a quella degli istinti. Riemerge una caratteristica del personaggio, quella dell’inganno e della finzione, della menzogna, dell’artifizio, della viltà. Proprio in questo momento il narratore, che sembrava aderire al punto di vista del personaggio, fa sentire la propria voce distaccata giudicante, soprattutto nell’aggettivazione («miseria morale... imaginazioni malsane... ripieghi meschini... sotterfugi degradanti... bassi raggiri»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il passo in massimo tre righe.

Interpretare

COMPRENSIONE 2. Spiega il senso della frase «La mia legge è una parola: Nunc». 3. Come giudichi il comportamento cinico e predatore di Andrea Sperelli? Quale immagine del mondo maschile, secondo te, emerge dal passo? Come dovrebbe comportarsi un uomo in una relazione amorosa?

LEGGERE LE EMOZIONI

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Renato Barilli La svolta narrativa del Piacere

«Un erede moderno di Andrea Sperelli»

Interpretazioni critiche

Sguardo sul cinema

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rinnovarsi o morire»: 4 «O dai romanzi “alla slava” al Trionfo della morte L’influenza del romanzo russo Poco tempo dopo Il piacere (1889), tra il 1891 e il 1892 D’Annunzio pubblica in rapida successione due romanzi: Giovanni Episcopo e L’innocente (poi ripubblicato qualche anno dopo nella trilogia dei “romanzi della rosa”). I due romanzi (ma in parte anche il successivo Trionfo della morte) sono composti per diretta influenza del romanzo russo di Tolstoj e soprattutto di Dostoevskij che si iniziava proprio allora a conoscere in Italia. Da Dostoevskij D’Annunzio deriva lo schema narrativo della confessione, usato in entrambi i romanzi e, in particolare nell’Innocente, lo scavo nei meandri della psiche e il tema della colpa (anche se mancano in D’Annunzio i risvolti religiosi e morali propri dello scrittore russo). Il trapianto di temi propri della letteratura russa, come la ricerca di una rigenerazione morale, risulta forzato e poco congruente con i caratteri tipici del personaggio dannunziano, alieno da un autentico travaglio morale. In ogni caso in questi romanzi D’Annunzio ricerca, rispetto allo stile del Piacere, una forma espressiva meno sovrabbondante, più essenziale. Vicina ai temi e soprattutto al clima psicologico dei due romanzi è la raccolta poetica Poema paradisiaco, composta nello stesso periodo (➜ T11 ).

Giovanni Episcopo Il breve romanzo è interamente occupato dal racconto diretto, quasi una confessione, del protagonista, che dà il titolo all’opera, un impiegato dalla debole personalità, soggiogato da Giulio Wanzer, un amico equivoco e prepotente. Un giorno l’uomo scompare (fugge in Argentina) perché accusato di furto. Intanto, seppur deriso dai colleghi di ufficio, Giovanni sposa Ginevra, una giovane di dubbia reputazione, che mira solo a sistemarsi. Il matrimonio entra subito in crisi, la donna tradisce impudentemente Giovanni e nemmeno la nascita di un figlio, di cui la madre non si prende cura, riesce a riunirli; è Giovanni a pensare a Ciro con totale dedizione, finché perde il lavoro a causa della condotta della moglie. Dopo dieci anni, Wanzer ricompare e si installa da padrone in casa di Giovanni, diventando l’amante di Ginevra. Quando Giulio alza le mani su Ciro (che poi morirà per febbre cerebrale), Giovanni lo uccide a coltellate.

L’innocente Anche in questo caso la vicenda è narrata in prima persona dal protagonista che confessa in un memoriale la storia che lo ha portato a commettere un delitto, nel tentativo di espiarne la colpa. Tullio Hermil (nuova autoproiezione dell’autore) è un giovane esteta di prorompente sensualità e personalità contraddittoria. Egli tradisce ripetutamente la moglie Giuliana che, una sola volta, in un momento di debolezza, si concede a un fugace rapporto extraconiugale. Decisosi a recuperare il matrimonio, Tullio si ritira con la moglie in una loro dimora di campagna dove insegue una rinascita spirituale. Alla notizia che Giuliana aspetta un figlio dall’amante, prima Tullio sembra accettare la situazione; ma poi, la nascita del bambino conferma in lui il sentimento irrefrenabile di odio per l’“intruso” al punto che, sempre più ossessionato, nella notte di Natale (forse con il silenzioso assenso della moglie), espone nudo all’aria gelida il neonato, l’“innocente” che dà il titolo al romanzo, provocandone la morte. D’Annunzio prosatore e drammaturgo 2 455

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Trionfo della morte Il Trionfo della morte, concepito a ridosso della pubblicazione del Piacere e uscito parzialmente a puntate nel 1890 con il titolo L’invincibile, è pubblicato in volume nel 1894. Il romanzo costituisce una sorta di sviluppo del Piacere (anche questo romanzo del resto attinge all’esperienza amorosa di D’Annunzio con Barbara Leoni e il carteggio tra i due fornisce ampio materiale alla narrazione): il tema della crisi del protagonista maschile viene qui ulteriormente approfondito fino a pervenire a un esito tragico. Come di consueto nella sua opera, anche nel caso del Trionfo della morte D’Annunzio scrive sotto la suggestione di nuove letture, di cui la critica ha puntualmente identificato gli echi nella nuova opera: dal ciclo di romanzi sul “culto dell’io” (Le cult du moi) dello scrittore francese Maurice Barrès, ai versi del poeta vittoriano Algernon C. Swinburne (da cui D’Annunzio deriva la figura della femme fatale dominatrice), dall’opera di Wagner (in particolare il dramma in musica Tristano e Isotta) alla lettura del filosofo Nietzsche, probabilmente iniziata nelle fasi finali di elaborazione del romanzo. Un nuovo “doppio” dannunziano: Giorgio Aurispa Nel Trionfo della morte permangono componenti di tipo naturalistico (come l’esplorazione di una sorta di “caso clinico” o l’individuazione di un’ascendenza familiare genetica nella “malattia” del protagonista). La struttura del romanzo è però già moderna, caratterizzata da una trama estremamente esile, ma soprattutto è moderno il personaggio di Giorgio Aurispa, nuovo alter ego dannunziano dopo Andrea Sperelli e in parte Tullio Hermil. Come lui, Giorgio Aurispa è caratterizzato da un io disgregato, dalla costante ricerca di riempire un vuoto interiore e dalla tendenza a un’esasperata autoanalisi (➜ T4 OL) che alla fine risulta solo autodistruttiva. Un abbozzo di superuomo D’altra parte Giorgio Aurispa presenta anche tratti distintivi rispetto ad Andrea Sperelli, segnando una sorta di tappa intermedia tra l’esteta e il superuomo (che sarà poi propriamente incarnato da Claudio Cantelmo, protagonista delle Vergini delle rocce). Mentre compone il romanzo D’Annunzio legge Così parlò Zarathustra di Nietzsche e questa lettura rifluisce nel romanzo: anche Giorgio (come D’Annunzio) si esalta leggendo Nietzsche e spera, facendo proprio il suo messaggio, di ritrovare l’energia vitale, di vincere le oscure pulsioni di morte che lo paralizzano: se riuscirà ad acquisire «le virtù dell’uomo dionisiaco», riuscirà ad annullare «il fiacco, l’oppresso, il titubante» dentro di sé (➜ T6 OL). Per ora però il superomismo rimane aspirazione

Sguardo sul cinema L'innocente, di Luchino Visconti Dal romanzo L’innocente, nel 1976 fu tratto un film dal regista Luchino Visconti (1903-1976). Sempre di Visconti vanno ricordate altre versioni cinematografiche di grandi romanzi della letteratura italiana e straniera: La terra trema (1948) ispirato ai Malavoglia di Giovanni Verga; Il Gattopardo (1963) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Morte a Venezia (1971) tratto dall’opera di Thomas Mann.

E. Medioli – osò ritoccarlo. L’ipoteca di D’Annunzio, del dannunzianesimo e dell’incontro “inevitabile” con il represso decadentismo del regista pesò negativamente sul giudizio dei critici, tra cui pochi si resero conto delle profonde differenze strutturali, narrative e persino figurative che distaccano il film dal romanzo, e dallo sguardo lucidamente critico con cui il regista lo mise in immagini.»

«Ultimo film di Luchino Visconti che morì dopo averne approntato un primo montaggio. Nessuno dei suoi collaboratori – compresi gli sceneggiatori S. Cecchi D’Amico e

Il Morandini 2008, Dizionario dei film, a cura di L. Morandini e M. Morandini, Zanichelli 2007

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velleitaria: Giorgio Aurispa resta infatti dominato più che dominatore, vittima della propria inettitudine alla vita prima ancora che della donna-nemica Ippolita, femme fatale (➜ T5 ). Uno stile per il romanzo psicologico moderno Al Trionfo della morte è anteposta un’importante introduzione (in forma di dedica all’amico Francesco Paolo Michetti, pittore e fotografo di una certa fama) in cui D’Annunzio sottolinea la novità del suo romanzo, che consiste nell’assoluta centralità dell’analisi, coerentemente condotta, di un solo personaggio. Ma sua ambizione è stata soprattutto «costituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna»: per D’Annunzio, la lingua italiana, nella sua ricchezza, è perfettamente duttile a rappresentare gli stati d’animo più complicati che la psicologia moderna va rivelando. Aspetti che la tradizione narrativa recente (D’Annunzio polemizza con il verismo) ha del tutto trascurato, preoccupata di narrare vicende più che di esplorare l’anima e la psicologia profonda dei personaggi. Fulcro del romanzo (consta di 24 capitoli, suddivisi in 6 parti) è la difficile relazione tra Giorgio Aurispa, giovane intellettuale con frustrate velleità di successo, e la bellissima Ippolita Sanzio, possessiva femme fatale. Il rapporto tra i due, fondato sull’attrazione sessuale, è minato ormai da una sottile reciproca insofferenza ed è percepito da Giorgio come distruttivo, capace di sottrargli energie vitali e capacità creative. Chiamato in soccorso dalla madre, Giorgio ritorna al paese natale, in Abruzzo. Là si immerge in una rete di relazioni familiari fallimentari: una realtà a cui Giorgio contrappone il ricordo assillante dello zio Demetrio, a lui simile, morto suicida. L’arrivo di Ippolita inizialmente sembra prospettare un po’ di serenità: i due amanti si illudono di poter rivivere l’ardore di un tempo, ma ben presto Giorgio ricade in una cupa abulìa e identifica sempre più in Ippolita la “nemica”. I tentativi successivi di riguadagnare un equilibrio interiore lo vedono immergersi prima nel misticismo e poi nella meditazione sul “verbo di Zarathustra” di Nietzsche, ma entrambi i tentativi falliscono. Sempre più affascinato dall’idea della morte come riconquista di una perduta completezza, in un crescendo parossistico, Giorgio Aurispa dà la morte a se stesso e all’amante gettandosi nel vuoto, a lei avvinto. online T4 Gabriele D’Annunzio

Autoanalisi e ossessione funebre Trionfo della morte II, XX

A. Beltrame, illustrazione di Gabriele D’Annunzio che parla al popolo di Roma, nel teatro Costanzi, contro il "giolittismo".

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Giovanni Episcopo GENERE

romanzo-confessione

DATA DI PUBBLICAZIONE

1891

PROTAGONISTA

Giovanni Episcopo, debole impiegato

TEMI

la colpa

MODELLI

romanzi russi di Tolstoj e soprattutto di Dostoevskij

STILE

più essenziale rispetto allo stile del Piacere

GENERE

romanzo-confessione

DATA DI PUBBLICAZIONE

1892

PROTAGONISTA

Tullio Hermil, esteta seduttore

FIGURA FEMMINILE

Giuliana, moglie di Tullio, succube del marito

TEMI

la colpa

L’innocente

Trionfo della morte GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1894

PROTAGONISTA

Giorgio Aurispa, tappa intermedia tra l’esteta e il superuomo

FIGURA FEMMINILE

Ippolita Sanzio, femme fatale, seduttrice-nemica

TEMI

analisi di un io disgregato, superomismo come ispirazione velleitaria

STILE

prosa narrativa adeguata all’analisi psicologica

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Gabriele D’Annunzio

T5

Ritratto di Ippolita, la Nemica Trionfo della morte V, II

G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. I, Mondadori, Milano 1988

Ritiratisi in riva all’Adriatico nel tentativo di recuperare lo slancio del loro rapporto, Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio sono qui colti dall’autore sulla spiaggia, dopo un bagno in mare. Giorgio riflette amaramente sulla propria crescente debolezza, anche fisica, attribuita al ruolo distruttivo della Nemica, della quale D’Annunzio fa un eloquente ritratto.

Pareva egli a sé stesso quasi puerilmente debole e trepido1, come diminuito d’animo e di forze dopo una prova sfavorevole. Immergendo il suo corpo nel mare, dando la fronte al sole pieno, percorrendo a nuoto una breve distanza [...], egli aveva sentito per indizii indubitabili l’impoverimento del suo vigore, la declinazione2 della sua 5 giovinezza, tutta l’opera distruttiva della Nemica; aveva sentito ancòra una volta il ferreo cerchio stringersi intorno alla sua attività vitale e ridurne ancora una zona all’inerzia e all’impotenza. Il senso di quel languore muscolare gli diveniva più profondo come più egli guardava la figura della donna alzata nella luce del giorno. Ella aveva disciolti i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate 10 dall’umidità le cadevano su gli omeri così cupe che sembravano quasi di viola. Il suo corpo svelto3 ed eretto, come avvolto nelle pieghe di un peplo4, si disegnava metà sul campo glauco del mare e metà su la chiarissima trasparenza celeste5. Appena si scorgeva fuor della capellatura6 il profilo della faccia reclinata e intenta. Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno: metteva i piedi nudi su la ghiaia 15 scottante mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l’ardore; e poi così caldi li tuffava nell’acqua blanda7 che lambiva la ghiaia. E in quella duplice sensazione ella pareva gustare una voluttà infinita, obliosamente8. Ella si temprava, si fortificava, comunicando con le cose libere e sane, lasciandosi penetrare dalla salsedine e dal raggio. Come mai poteva ella essere, nel tempo medesimo, così inferma e 20 così valida9? Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza10 tante contrarietà e assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un’ora sola? La donna taciturna e triste che covava dentro di sé il male sacro, il morbo astrale; l’amante cupida e convulsa il cui ardore era talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi lugubri d’agonia11; quella stessa creatura, alzata sul lido del mare, 25 poteva raccogliere e sostenere ne’ suoi sensi tutta la naturale delizia sparsa nelle cose che la circondavano, apparire simile ai simulacri della Bellezza antica inchinati sul cristallo armonioso di un ellesponto12.

1 trepido: timoroso. 2 la declinazione: il declino. 3 svelto: snello, agile. 4 peplo: abito femminile dell’antica Grecia; consisteva in un rettangolo di lana ripiegato, che si fissava sulle spalle con fibule e si teneva aderente con una cintura. 5 si disegnava... celeste: la figura di Ippolita si staglia per metà contro lo sfondo azzurro (glauco) del mare e per la parte superiore contro l’azzurro più luminoso del cielo (trasparenza celeste).

6 capellatura: capigliatura. 7 blanda: temperata, qui vale “fresca”. 8 obliosamente: dimenticando il resto, perdendosi in quella sensazione piacevole. 9 così inferma... valida: così malata e così sana. Ippolita soffre di epilessia (il male sacro nominato poco dopo nel testo: esso era dovuto, secondo gli antichi, alla possessione degli dèi; da qui il termine morbo astrale).

10 nella sua sostanza: nel suo organismo. 11 l’amante... d’agonia: Ippolita è amante bramosa e frenetica (cupida e convulsa) e nel suo ardore irrefrenabile, capace di spaventarlo, Giorgio riconosce aspetti, e pulsioni, di morte. 12 simile... ellesponto: simile alle antiche statue (simulacri della Bellezza antica) poste in riva all’Ellesponto, l’odierno stretto dei Dardanelli che in Turchia divide l’Europa dall’Asia.

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13 perspicacia: lucidità di analisi. 14 bassa stirpe: Ippolita è di origini piccolo-borghesi. 15 intentamente: fissamente. 16 realità: realtà. 17 eravi: vi era.

La superiorità di quella resistenza era palese. Giorgio la considerava con un rammarico che a poco a poco addensandosi assumeva la gravità di un rancore. Il 30 sentimento della sua debolezza s’intorbidiva di odio, mentre la sua perspicacia13 si faceva sempre più lucida e quasi vendicativa. Non erano belli i piedi nudi ch’ella a volta a volta scaldava su la ghiaia e rinfrescava nell’acqua; erano anzi difformati nelle dita, plebei, senz’alcuna finezza; avevano l’impronta manifesta della bassa stirpe14. Egli li guardava intentamente15; non guar35 dava se non quelli, con uno straordinario acume di percezione e di esame, come se le particolarità della forma dovessero rivelargli un segreto, E pensava: «Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditarii della sua razza sono in lei, indistruttibili, pronti a svilupparsi e ad insorgere contro qualunque constrizione. Io non potrò mai far nulla per purificarla. Io non potrò se non sovrapporre alla 40 realità16 della sua persona le figure mute, voli dei miei sogni, ed ella non potrà se non offrire alla mia ebrezza solitaria i suoi indispensabili organi...» Ma, mentre il suo pensiero riduceva la donna a un semplice motivo d’imaginazioni e toglieva ogni valore alla forma palpabile, per la stessa acutezza della percezione particolare egli sentiva d’esser legato appunto alla qualità reale di quella carne e non solo a quanto 45 eravi17 di più bello, ma specialmente a quanto eravi di men bello in lei.

Analisi del testo Un rapporto ambivalente

online T6 Gabriele

D’Annunzio Giorgio Aurispa e Nietzsche Trionfo della morte V, III

Il passo proposto è preceduto da una precisazione cronologica: è mezzogiorno, «l’ora panica» (➜ T15c ), ma nel trionfo di luce del mezzogiorno Giorgio percepisce solo la propria debolezza, l’angosciosa diminuzione dell’energia vitale, che attribuisce all’“opera distruttiva” di Ippolita, apertamente denominata qui la Nemica. Al contrario, osservando l’amante asciugarsi al sole in completa armonia e partecipazione con la natura, Giorgio ha, netta, la percezione della sua misteriosa forza vitale. Ippolita è apparentemente una donna malata (soffre di epilessia e di attacchi isterici), eppure la sua adesione alla realtà esprime una vitalità da cui il protagonista si sente sovrastato, incapace com’è di vivere pienamente e con equilibrio la propria esistenza. Di fronte a Ippolita, Giorgio si comporta in modo ambivalente: prova come un rammarico, che “si addensa” poi in un sentimento di rancore, quasi di odio per la sua vitalità fisica e per il potere che esercita su di lui attraverso la sua ardente sensualità, disprezza i dettagli del suo corpo che al suo sguardo di raffinato esteta appaiono plebei (i piedi), ma al contempo è preda del potere seduttivo della donna. Da qui la consapevolezza che la relazione amorosa con la “nemica” Ippolita costituisce un limite insuperabile alla propria realizzazione e al perseguimento di una vita superiore, finalmente piena. Quando tutti i tentativi di Aurispa saranno stati frustrati (l’esplorazione dell’Abruzzo ancestrale, l’immersione nel misticismo, l’adesione al pensiero dionisiaco di Nietzsche), il rancore contro Ippolita condurrà il protagonista al tragico epilogo del romanzo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il brano (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Perché la donna viene chiamata “Nemica”? ANALISI 3. Analizza il personaggio di Ippolita nel brano e descrivine le caratteristiche. 4. Il passo è costruito sulla netta antitesi tra Giorgio e Ippolita: su quali aspetti si fonda?

Interpretare

SCRITTURA 5. In un testo di massimo 10 righe spiega quale visione dell’amore esprime D’Annunzio attraverso il personaggio di Ippolita.

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5 I romanzi del superuomo Le vergini delle rocce Le vergini delle rocce fu composto a partire dall’ottobre del 1894. Iniziò ad apparire a puntate all’inizio del 1895 sulla rivista «Il Convito» e fu pubblicato in volume verso la fine dell’anno. Avrebbe dovuto essere il primo romanzo di un ciclo (i “romanzi del giglio”, fiore simbolo della purificazione dalle passioni), ma il progetto non ebbe seguito. Superomismo e ideologia politica Le vergini delle rocce è il primo romanzo espressamente ispirato alla dottrina nietzschiana, qui utilizzata in chiave propriamente politica. Gli spunti superomistici sono particolarmente evidenti nell’esposizione del programma ideale del protagonista, Claudio Cantelmo, nella prima parte del romanzo (➜ D6 ). Lo sprezzante sdegno nei confronti della volgarità della società borghese, ricettacolo di vizi e corruzione, grigiamente uniformante, priva di qualsiasi slancio ideale, crea i presupposti per la definizione dei connotati sociopolitici del superuomo: adesione a un’ideologia violentemente antidemocratica e antiparlamentare. Il romanzo evidenzia però un superuomo incompiuto e sostanzialmente velleitario, che preferisce attendere e procrastinare (accantona il proprio disegno in attesa che i tempi ne permettano la realizzazione, rinuncia alla creazione di una suprema opera d’arte, di fatto non riesce a trovare chi genererà il “redentore”). In sostanza, dietro l’aggressivo e determinato Claudio Cantelmo, ricompaiono le caratteristiche dell’inetto, già viste in Andrea Sperelli e Giorgio Aurispa. La trama Il protagonista, Claudio Cantelmo, discendente da una nobile famiglia, è un artista, cultore della bellezza, che nutre però anche un ambizioso programma etico-politico: rifondare una civiltà aristocratica, in una sorta di nuovo Rinascimento, contro la volgarità e la decadenza dei tempi moderni. Ma il momento appare ancora lontano; così Cantelmo si ritira in una villa di famiglia ai confini dell’Abruzzo e inizia a frequentare un fatiscente palazzo dove vivono con la loro famiglia tre fanciulle (le “vergini delle rocce” del titolo, modellato su un celebre dipinto di Leonardo da Vinci), Anatolia, Massimilla, Violante, della principesca dinastia dei Capece-Montaga, ormai decaduta. Cantelmo aspira a scegliere una di esse per generare il futuro re di Roma, il Superuomo che realizzerà un nuovo ordine sociale, ma la complementarità delle indoli delle tre “vergini” gli rende difficile la scelta. Alla fine rivolge la sua proposta alla forte e “sana” Anatolia, che però rifiuta perché il compito le appare troppo grande. Il progetto di Cantelmo, perciò, naufraga in una cupa atmosfera di disfacimento e di morte.

Il fuoco Un superuomo alla ricerca dell’opera “totale” Con Stelio Èffrena, protagonista del Fuoco, pubblicato nel 1900, la galleria degli eroi dannunziani si arricchisce di un nuovo personaggio, nel quale i tratti superomistici, ormai fatti propri da D’Annunzio, si fondono con quelli dell’esteta: nel gioco di specchi che caratterizza l’attività di D’Annunzio come romanziere, l’autore questa volta si autorappresenta nelle vesti di un giovane e brillante intellettuale, teso alla creazione di un’opera d’arte “totale”, che racchiuda cioè in sé poesia, musica, teatro (il “fuoco” che dà il titolo all’opera è l’arte stessa, capace di dare la gloria e vincere la morte). Una concezione che si ispira alla poetica wagneriana, e il musicista tedesco entra D’Annunzio prosatore e drammaturgo 2 461

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all’interno della trama stessa del romanzo: Il fuoco si chiude con i funerali di Wagner, avvenuti effettivamente a Venezia nel 1883 (dove è ambientato il romanzo), con Stelio Èffrena che ne porta la bara. Stelio e Foscarina: una proiezione autobiografica Importante ruolo ha nel romanzo il rapporto amoroso del protagonista con Foscarina, celebre attrice all’apice della sua carriera che, mortificando amor proprio e libertà personale, si mette al servizio della genialità artistica dell’amante. Sia nei tratti di Foscarina sia nella successione di eventi che scandisce il rapporto tra i due, si intravede la relazione che D’Annunzio ebbe con la grande attrice Eleonora Duse. La fine della relazione è anticipata nel romanzo: consapevole del suo prossimo declino fisico (Stelio è più giovane di lei), esaurita la sua funzione di Musa ispiratrice, Eleonora-Foscarina si ritira con dignità, lasciando libero Stelio Èffrena di perseguire i suoi programmi artistici che rimarranno, anche in questo caso, incompiuti.

Forse che sì forse che no La tensione superomistica a confronto con la civiltà moderna Dopo un decennio dedicato alla poesia e alla scrittura teatrale, D’Annunzio ritorna al romanzo con Forse che sì forse che no, pubblicato nel 1910. Con Paolo Tarsis, ulteriore proiezione dell’autore sulla pagina, la tensione superomistica si serve di un nuovo mezzo per affermarsi: il tema della tecnologia, delle macchine, dei motori che l’acume di D’Annunzio, sempre pronto a recepire le novità, non esita a far proprio (e l’autore stesso più tardi avrebbe pensato come sottotitolo a Romanzo dell’ala). Siamo all’indomani della pubblicazione del Manifesto del futurismo ed è iniziata l’esaltazione del mito della velocità e del dinamismo aggressivo (➜ C12 T1 ). D’Annunzio stesso in quel periodo si appassiona ai primi voli aerei e dopo pochi anni, facendo leva sul proprio inesauribile vitalismo, inizia a ricavarsi il ruolo di poeta Vate anche attraverso azioni temerarie come il volo su Vienna. La trama Paolo Tarsis (ultimo alter ego dannunziano) è un aviatore, legato in una tormentata relazione a Isabella Inghirami che si frappone, nuova Nemica, alla realizzazione del superuomo. Entro torbide relazioni familiari (Isabella ha un fratello, Aldo, cui è legata da una passione incestuosa, e una sorella, Vana, che ama segretamente Paolo), fra viaggi in auto per l’Italia (è da un’iscrizione del Palazzo ducale di Mantova che D’Annunzio trae il titolo) e gare aviatorie, Isabella scivola inesorabilmente verso la follia. Paolo, proprio mentre sembra cedere all’influsso nefasto della Nemica e cercare la morte in un’impresa eroica (il primo volo dalle coste tirreniche alla Sardegna), in un estremo slancio di vitalismo e di volontà, riesce a portare a termine l’impresa.

Il soffitto della Stanza del labirinto di Palazzo Ducale a Mantova da cui è stato tratto il titolo del romanzo.

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Le vergini delle rocce GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1895

PROTAGONISTA

Claudio Cantelmo, superuomo velleitario

FIGURE FEMMINILI

Anatolia, Massimilla e Violante

CONTENUTO

superomismo del protagonista che va alla ricerca di una donna in grado di garantirgli un erede che possa condurre al riscatto dalla degradazione

TEMI

superomismo e ideologia politica antidemocratica e antiparlamentare, ispirati al pensiero di Nietzsche

GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1900

PROTAGONISTA

Stelio Èffrena, superuomo-esteta

FIGURA FEMMINILE

Foscarina, dietro la quale si nasconde, in una proiezione autobiografica, la figura di Eleonora Duse

TEMI

ricerca dell’opera d’arte “totale” che fonda in sé poesia, musica e teatro, su ispirazione del modello wagneriano

Il fuoco

Forse che sì forse che no DATA DI PUBBLICAZIONE

1910

PROTAGONISTA

Paolo Tarsis, appassionato di motori e aeroplani, ultimo alter ego di D’Annunzio

FIGURA FEMMINILE

Isabella Inghirami, donna-nemica

TEMI

superomismo, tecnologia, macchine e motori

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6 L’“altro” D’Annunzio e l’esplorazione dell’“ombra” La rinuncia al romanzo e la sperimentazione di una nuova prosa Dopo il 1910 D’Annunzio rinuncia all’impianto romanzesco e alla maschera del protagonista autobiografico per esporsi in prima persona nella pagina. La scrittura è ora impiegata a scandagliare, anche attraverso la memoria, la vita interiore del poeta, portando in primo piano l’”ombra”, cioè le ossessioni e i fantasmi interiori (l’ansia esistenziale, l’orrore-attrazione per la morte) da sempre presenti in D’Annunzio, ma spesso occultati dall’ebbrezza vitalistica. Parallelamente, D’Annunzio è impegnato a sperimentare nuove forme di prosa, diaristica, frammentaria, lirico-visionaria, in linea con le contemporanee esperienze letterarie in Italia (ad esempio la prosa vociana). Nuovi testi per una nuova scrittura La prosa più rappresentativa di questa tendenza è senz’altro il Notturno, tanto che l’intero periodo, per alcune caratteristiche comuni alle diverse opere, è stato etichettato dalla critica come “notturno”. Gli scritti variamente riconducibili a questa fase dannunziana sono: Le faville del maglio (1911-1914), prose liriche su tematiche soggettive e intime, la Contemplazione della morte (1912) scritta in occasione della morte di Giovanni Pascoli e di un amico di D’Annunzio, in parte il racconto La Leda senza cigno (1913) e il più tardo Libro segreto (1936), che raccoglie anche frammenti precedenti, di impronta memorialistica. Un testo ritrovato Nel 1982 è stato pubblicato da Luciano Anceschi, come introduzione all’edizione Mondadori di tutte le poesie di D’Annunzio, il componimento Qui giacciono i miei cani, forse l’ultimo testo scritto dal poeta abruzzese. La poesia è datata 1935 e fu ritrovata alla fine degli anni Settanta, scritta a matita sul foglio di guardia di un libro francese di viaggi appartenuto al poeta. In essa si avverte il passaggio dal superomismo al nichilismo. Gaetano Previati, Notturno, 1909 (Fondazione il Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera).

Il Notturno Il Notturno è innanzitutto una sorta di diario del periodo di infermità del poeta, in cui, quasi per associazioni libere, si insinuano immagini, ricordi ed esperienze di vita vissuta (soprattutto in guerra), ma anche riflessioni sull’esistenza. Se il Notturno, come vuole il titolo, è prima di tutto una scrittura che nasce dal buio della cecità, al contempo allude anche all’“ombra”, al lato oscuro, celati dietro il personaggio solare e vitale, che la nuova scrittura discopre e rivela. A questa dimensione corrisponde a livello stilistico un nuovo D’Annunzio. L’enfasi retorica cede il passo a una prosa essenziale, frammentaria per necessità (il sistema dei cartigli, a cui più avanti facciamo riferimento, non permetteva certo il dispiegarsi di lunghi periodi), ma anche per scelta: privato della vista, lo scrittore è costretto a esprimersi con gli altri sensi e, in parallelo, anche ad ascoltare la propria interiorità. D’Annunzio si libera dallo stile più aulico per accogliere modi espressivi più moderni, in linea con le più innovative scelte linguistiche del tempo (addirittura forse precedendole). La prosa del Notturno è una prosa essenziale, lontana dall’enfasi reto-

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rica consueta in D’Annunzio, in cui domina la paratassi (e a volte persino i costrutti nominali), una prosa ad andamento lirico-musicale («La parola che scrivo nel buio, ecco, perde la sua lettera e il suo senso. È musica»), ma che si apre anche a torsioni espressionistiche, in rapporto a una dimensione allucinata, visionaria (lo scrittore stesso usa del resto per sé la qualifica di “veggente”). La genesi Il Notturno deve la sua genesi (e anche il titolo) all’incidente accaduto a D’Annunzio nel 1916 durante l’ammaraggio di un idrovolante sul quale si trovava come osservatore. Perso irreparabilmente l’uso dell’occhio destro, nel tentativo di salvare il sinistro (che pure aveva subìto un distacco di retina), D’Annunzio fu costretto a rimanere bendato, pressoché immobile nella più totale oscurità. Ma il desiderio di scrivere era, come sempre, prorompente: D’Annunzio ideò allora un particolare metodo, aiutato dall’amata figlia Renata, che cominciò a preparare per lui, e a riordinare via via, innumerevoli cartigli, strisce lunghe e sottili di carta, che potevano contenere ciascuno una riga sola, così da non sovrapporre nuove righe a quelle già scritte. I cartigli utilizzati per il Notturno furono più di 10.000. Trascritti pazientemente da Renata, furono poi suddivisi in tre parti (denominate Offerte) e pubblicati nel 1921 da Treves in volume con un frontespizio particolarmente allusivo. All’artista, il pittore e incisore Adolfo De Carolis (1874-1928), l’immagine era stata suggerita dall’autore.

Notturno GENERE

diario

CONTENUTO

memorie del periodo di convalescenza a cui D’Annunzio fu costretto a seguito di una ferita agli occhi; volto intimo del poeta

STILE

prosa essenziale e frammentaria

Gabriele D’Annunzio

T7

Le prime parole tracciate nelle tenebre

LEGGERE LE EMOZIONI

Notturno G. D’Annunzio, Prose di ricerca, a c. di A. Andreoli e G. Zanetti, vol. I, Mondadori, Milano 2005

Il passo, tratto dalle primissime pagine del Notturno, rievoca il momento in cui si avvia la scrittura “notturna”, propiziata dalla pietosa Renata, alias Sirenetta, la figlia di D’Annunzio, che gli fornisce i famosi cartigli su cui riuscirà a scrivere anche senza vedere. Nel testo già si evidenziano le caratteristiche proprie della prosa “notturna”.

Quando la Sirenetta1 s’accosta al mio capezzale col suo passo cauto e mi porta il primo fascio di liste eguali, tolgo pienamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. Sento che sono divenute più sensibili, con nelle ultime falangi qualcosa d’insolito, che somiglia a un chiarore affluito2. 1 la Sirenetta: così D’Annunzio, secondo la consuetudine di ribattezzare le donne della sua vita, denomina la figlia Renata,

nata nel 1893 dalla sua relazione con Maria Gravina. 2 che somiglia... affluito: paragone diffi-

cilmente parafrasabile, frutto di un’associazione sinestetica tra percezione tattile e visiva.

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5 Tutto è buio. Sono in fondo a un ipogeo3.

Sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina4. Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell’officio mio5. 10 Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov’è dipinta all’esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l’orrore della vita6? Il mio capo resta immobile, stretto nelle sue bende. Dalle anche alla nuca una volontà d’inerzia mi rende fisso come se veramente l’imbalsamatore avesse compiuta 15 su me la sua opera7. Sùbito le mie mani trovano i gesti, con quell’istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole8 quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose. Prendo una lista, la palpo, la misuro. Riconosco la qualità della carta dal lieve suono. 20 Non è quella consueta che mi fabbricavano a mano pagina per pagina gli artieri di Fabriano9 ponendovi la filigrana della mia impresa10 che ora mi sembra tremenda come un supplizio perpetuo. È liscia, un poco dura, tagliente ai margini e agli spigoli. È simile a un cartiglio non arrotolato, simile a uno di quei cartigli sacri che i pittori mettevano nelle loro tavole11. 25 V’è un che di religioso nelle mie mani che lo tengono. Un sentimento vergine rinnova in me il mistero della scrittura, del segno scritto. Odo crepitare il cartiglio fra le mie dita che tremano. Sembra che la mia ansia soffi sul tizzo ardente che ho in fondo all’occhio12. Vampe e faville s’involano13 nel turbine dell’anima. 30 Sento su le mie ginocchia la mano della pietosa. Le sollevo leggermente per ricevere la tavoletta. È, per me oscurato14, come una tavoletta votiva15. La lista v’è distesa. Fra il pollice, l’indice e il medio prendo il cannello16. Il medio ha tuttora il solco del lavoro ostinato. Nulla dies sine linea17. E tremo davanti a questa prima linea che sto per tracciare nelle tenebre.

3 ipogeo: tomba monumentale (si riferisce alle tombe egizie). 4 cassa... guaina: il poeta si immagina in un sarcofago egizio ornato del caratteristico dipinto che ritrae il defunto. Probabilmente l’immagine è stata suscitata dalla presenza sul suo capo di bende, simile a quelle con cui nell’antico Egitto erano avvolti i morti. 5 Agli altri... officio mio: D’Annunzio si immagina come uno scriba egizio defunto. L’uso funerario egizio era quello di fare omaggio ai defunti di cibo, ma anche di oggetti a loro cari. In questo caso la figlia caritatevole (la pietosa) gli sta recando quanto gli può servire, nonostante le tenebre, per continuare il suo compito (l’officio mio) di scrittore.

6 Se mi levassi... vita: l’immagine ango-

12 Sembra... all’occhio: sembra che

sciosa restituisce al lettore la visione ambivalente che lo scrittore aveva della vita (bellezza... orrore). 7 l’imbalsamatore... opera: riferimento alla consuetudine nel culto funerario egizio di imbalsamare i defunti. 8 nottole: pipistrelli. 9 gli artieri di Fabriano: gli artigiani della cartiera storica di Fabriano. 10 la filigrana della mia impresa: l’immagine in filigrana (visibile in trasparenza nell’impasto di carta) del mio motto allegorico-simbolico. 11 È simile... tavole: propriamente, il cartiglio è raffigurato, dipinto o scolpito, come un rotolo cartaceo con un’iscrizione allusiva.

l’ansia febbrile che prelude a una nuova forma di creazione alimenti la dolorosa fiamma (tizzo ardente) che brucia in fondo all’occhio ferito. 13 s’involano: se ne volano via (termine aulico). 14 oscurato: che vivo ora nell’oscurità. 15 votiva: allude al valore sacro della scrittura (e anche al senso religioso del gesto consentito dalla pietà della figlia che lo assiste). 16 il cannello: l’asticciola della penna. 17 Nulla dies sine linea: la massima latina (“Non passi alcun giorno senza scrittura”) spiega anche l’espressione «Il medio ha tuttora il solco del lavoro ostinato», per la sua abitudine a scrivere sempre.

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Analisi del testo Nascita del D’Annunzio “notturno”: un rito iniziatico Nel passo D’Annunzio trasmette al lettore l’emozione che ha comportato in lui infermo, sofferente, costretto al buio, la possibilità insperata di riprendere a scrivere grazie all’idea, attuata concretamente dalla figlia Renata, di utilizzare sottili strisce di carta su cui comporre riga per riga. La rievocazione dell’evento che sta alla base dell’intero Notturno si allontana quasi subito dai toni realistico-cronachistici per assumere connotazioni evocative, simboliche. Lo scrittore allude a una sorta di rito iniziatico che passa attraverso la morte: dal buio nascerà un nuovo artista, un rinnovato D’Annunzio, sembra dirci il poeta attraverso il riferimento al sepolcro («Sono in fondo a un ipogeo») e la suggestiva identificazione nello scriba egizio defunto. La figlia amata, anziché frutti e focacce che gli egizi portavano in dono ai defunti, gli porta gli strumenti del suo officio: la carta su cui scrivere, adattata alla particolarissima situazione, e la penna. È significativo che la striscia di carta sia paragonata ai cartigli presenti nelle pitture e che l’inizio della nuova scrittura sia connotato in modo quasi sacrale (rr. 25-26). Nella nuova parola che nascerà, D’Annunzio sperimenterà la sua capacità di essere scrittore “al buio” e “del buio” (nel senso che la prosa “notturna” registrerà sensazioni, ricordi emergenti dal profondo, anche allucinazioni).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi è la Sirenetta e quale ruolo svolge all’interno della vicenda narrata? 2. Spiega il senso della frase latina Nulla dies sine linea in rapporto al contesto e spiega perché rappresenti l’espressione chiave del passo. ANALISI 3. Individua nel testo le frasi che sottolineano gli stati d’animo e le sensazioni dell’autore. STILE 4. Analizza il passo proposto dal punto di vista sintattico: quali considerazioni puoi fare? Noti differenze rispetto alle scelte stilistiche precedenti?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI 5. Nel passo è sottolineata la valenza “sacra” della scrittura. Ti è mai capitato di mettere su carta le tue emozioni e i tuoi sentimenti? Quanto conta la scrittura nella tua vita?

Studiare con l'immagine L’immagine riprodotta a fianco è quella del frontespizio che il pittore e incisore Adolfo De Carolis realizzò per il Notturno di D’Annunzio su suggerimento dello stesso autore: «Per i disegni: simboli della notte, emblemi della profondità, figure funebri. [...] Le ali della Notte piegate, dalle tempie, a ricoprire gli occhi. Uno sguardo intenso, uno sguardo spirituale, di sotto un’ombra di penne. La vita in forma di allucinazione». a. Illustra la scena raffigurata, i personaggi e le azioni che svolgono. Scrivi una breve didascalia. b. Quale relazione si instaura, secondo te, fra il testo e il frontespizio di De Carolis? c. In che modo De Carolis è riuscito a rappresentare le «ali della Notte»? d. Dall’immagine è possibile rintracciare elementi in comune con il testo in merito soprattutto alla tematica del vedere/non vedere? Argomenta (max 10 righe). e. Secondo te, De Carolis è riuscito a cogliere artisticamente i suggerimenti del poeta?

online T8 Gabriele D’Annunzio

La morte del cane Libro segreto

online T9 Gabriele D’Annunzio

«Qui giacciono i miei cani» Versi d’amore e di gloria

Frontespizio del Notturno con un’illustrazione di Adolfo De Carolis (1921).

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7 D’Annunzio e il teatro Il teatro come “palcoscenico” del poeta-superuomo A partire dal 1897 D’Annunzio si cimenta anche con la scrittura teatrale. Nella scelta non è ininfluente la relazione amorosa avviata due anni prima con una celeberrima attrice di teatro: Eleonora Duse (1858-1924). Le motivazioni che spingono lo scrittore a tentare questa strada (con risultati artistici assai discontinui) sono però più complesse del semplice rapporto con una famosa attrice. È significativo infatti che l’inizio dell’attività teatrale coincida con l’aprirsi della stagione politica nella biografia dannunziana e con l’immissione nei romanzi della tematica superomistica: il D’Annunzio che con la sua trascinante oratoria conquistava le folle vede nel teatro un personale palcoscenico, un mezzo che avrebbe potuto suscitare verso la sua ideologia, la sua poetica e il suo stesso “personaggio”, un consenso ben più ampio di quello che poteva derivargli dai lettori di poesia e di narrativa. Un teatro antiborghese e antirealista Nel suo insieme il teatro dannunziano si configura come una restaurazione, aggiornata al tempo, della tragedia classica: D’Annunzio ripropone – in una società che considerava degradata e mediocre – un teatro “alto”, fondato, com’era quello classico, su grandi conflitti, e perciò antiborghese e antirealistico, sostenuto da uno stile sublime, capace di affascinare il pubblico. Il teatro dannunziano più frequentemente è identificato come “teatro di parola”, proprio perché le virtù autonome della parola, sempre ricercata e preziosa, sono prioritarie rispetto all’azione scenica; o anche come “teatro di poesia”, sia perché D’Annunzio rifiuta ogni contaminazione con la dimensione del quotidiano, sia perché non pochi drammi sono in versi (e alcuni di essi furono anche musicati). Il teatro dannunziano occupa un posto del tutto particolare nel quadro teatrale europeo (➜ C8) che aveva visto la nascita del dramma borghese e nel quale si preparavano le innovazioni del Novecento: un posto che di fatto rimase marginale. I principali testi teatrali dannunziani Uno dei primi testi teatrali di D’Annunzio è La ville morte (La città morta), scritta sotto la diretta ispirazione del lungo viaggio in Grecia del 1895 e rappresentata in francese a Parigi nel 1898, con la partecipazione della grande attrice Sarah Bernhardt. Vi si tratta la vicenda oscura dei membri di una spedizione archeologica intenta a scavare le rovine dell’antica Micene dove si consumarono le luttuose vicende degli Atridi, al centro delle tragedie di Eschilo e Sofocle. Nel gruppo, ma in particolare nel personaggio di Leonardo, sembrano rivivere le colpe e il fato degli antichi eroi. A partire dallo stesso 1898 fa il suo ingresso nella produzione teatrale di D’Annunzio la figura del superuomo, che si lega in alcuni drammi a tematiche politiche di tipo nazionalistico e imperialistico (La gloria, 1899 e poi La nave, 1907). Parallelamente a quanto avviene nei romanzi, anche nella sua drammaturgia si ripropone sistematicamente lo scacco, la sconfitta del superuomo, dovuto tanto a debolezze intrinseche dei vari personaggi quanto a forze contrarie alla tensione vitale degli eroi. Con Francesca da Rimini (1901), ispirata al celeberrimo episodio dantesco, inizia la produzione teatrale in versi, che tende a enfatizzare ulteriormente la propensione dannunziana per un “teatro della parola”. I più importanti drammi in versi sono La figlia di Iorio (1903), La fiaccola sotto il moggio (1905), Fedra (1909).

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La figlia di Iorio La tragedia di maggior successo di D’Annunzio, considerata anche la sua opera teatrale più riuscita, è La figlia di Iorio. Il sottotitolo dell’opera (Tragedia pastorale in tre atti) allude allo scenario in cui si svolge il dramma: la società agricolo-pastorale abruzzese che l’autore aveva già rappresentato nelle novelle giovanili di Terra vergine. D’Annunzio sceglie di nuovo un ambiente primitivo e barbarico, regolato da leggi non scritte e caratterizzato da istinti primordiali, e ne recupera sulla scena le usanze, le credenze magiche, i rituali, gli oggetti, ne evoca le “voci” (attraverso i proverbi e i canti). Di questo universo popolare arcaico egli stesso si sente parte ed erede: significativamente dedica alla propria famiglia e all’Abruzzo stesso la tragedia, definendola «canto dell’antico sangue». Anche se non mancano risvolti di tipo antropologico, la vicenda non è però ispirata a criteri di rappresentazione realistica né si propone un obiettivo di documentazione sociologica: l’Abruzzo evocato è immerso in una dimensione favolosa, atemporale ed è lo scenario di una sorta di rappresentazione mitica di eterni conflitti, come quello edipico tra padre e figlio. La trama della Figlia di Iorio Primo atto Una giovane donna, inseguita da un gruppo di pastori ubriachi che vogliono usarle violenza, irrompe in una casa durante la festa di nozze del pastore Aligi. È Mila di Codra, la figlia del mago Iorio, ritenuta essa stessa strega e prostituta; la comunità decide di non accoglierla, ma al momento di cacciarla di casa Aligi è trattenuto dalla visione dell’angelo custode di Mila muto e sofferente dietro di lei. Il pastore convince gli inseguitori (tra cui riconosce il proprio padre Lazaro) a desistere dai loro propositi. Secondo atto Aligi, ammaliato da Mila, lascia la propria casa e la propria sposa e va a vivere con lei sulla montagna, in castità. Ornella, la sorella di Aligi, si reca da lui e supplica Mila di lasciar tornare il fratello. Poco dopo arriva anche Lazaro, a ricordare al figlio gli obblighi di obbedienza e a intimargli di lasciare Mila che vuole per sé. Al rifiuto del figlio, lo fa portare via legato da due pastori. Liberato da Ornella, Aligi sorprende il padre mentre cerca di prendere Mila con la forza e lo uccide con un’ascia (➜ T10 OL). Terzo atto Condannato a morire in modo orribile dalle leggi della comunità, il parricida è salvato in extremis da Mila che, ammettendo di essere una strega, si addossa la responsabilità di aver spinto al delitto Aligi con un

Eleonora Duse.

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sortilegio e sceglie di essere arsa sul rogo pur di salvare l’amato. Il dramma si chiude con Aligi che, inebriato dal vino che gli era stato somministrato per condurlo al supplizio, impreca contro la strega, e con Ornella che, a conoscenza della verità, bacia i piedi della martire preannunciandole la conquista del paradiso.

La figlia di Iorio GENERE

tragedia

DATAZIONE

1903

STRUTTURA

tre atti

AMBIENTAZIONE

società agricolo-pastorale abruzzese rappresentata in una dimensione favolosa

CONTENUTO

rappresentazione, in una dimensione fiabesca, di un mondo arcaico e barbarico e dei suoi conflitti

online T10 Gabriele D’Annunzio

Il parricidio La figlia di Iorio atto II, scene VII-VIII

Francesco Paolo Michetti, La figlia di Iorio, 1895 (Palazzo della Provincia, Pescara).

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3 D’Annunzio poeta 1 Dall’esordio alle opere del periodo romano Primo vere e il modello carducciano L’esordio poetico di D’Annunzio è assai precoce: compone infatti la prima raccolta di versi, Primo vere (il titolo in latino significa letteralmente “all’inizio della primavera”), già durante gli anni liceali. Pubblicata a spese del padre, la raccolta nasce sotto la dichiarata influenza di Carducci: capace fin da giovanissimo di intuire le novità del panorama letterario, D’Annunzio individua nelle Odi barbare carducciane un sicuro e autorevole modello per i suoi primi versi. Canto novo: la scoperta della dimensione panica È però con Canto novo che D’Annunzio realizza la prima opera poetica davvero personale. La raccolta esce nel 1882, ma in seguito sarà profondamente rivista, ridotta di molto (23 componimenti contro i 63 originali) e ripubblicata presso Treves nel 1896. La prima edizione di Canto novo è contigua alle novelle di Terra vergine (➜ T1 OL) e con queste condivide il recupero di una primitiva comunione tra individuo e natura che trascende la civiltà. L’incontro con il filosofo Nietzsche innesterà poi nella seconda edizione sovrastrutture pseudo-filosofiche superomistiche. D’Annunzio centra qui l’ambito della sua ispirazione più originale e genuina, quella identificazione panica con la natura che tornerà in numerose altre sue prove: le poesie di Alcyone, di cui Canto novo è l’embrione: come Alcyone è infatti il diario di un’estate, che ha come protagonisti, oltre all’io lirico, il sole, il mare, la natura. Esperienze estetizzanti Due anni dopo Canto novo, D’Annunzio è già coinvolto nella vita dei salotti romani e la sua scrittura risente dell’ambiente dentro cui l’autore si muoveva e a cui si rivolgeva. L’Intermezzo di rime (pubblicato in prima edizione nel 1884, e poi, col titolo Intermezzo insieme a Canto novo, nella già citata riedizione di Treves del 1896) è connotato da toni decadenti e atmosfere lascive, ai limiti di quanto convenzionalmente accettato all’epoca e che, infatti, suscitarono molto scandalo. Nel 1890 esce in un unico volume L’Isottèo-La Chimera, un’altra prova dell’estrema duttilità creativa dannunziana, capace di esercizi di stile su modelli poetici della tradizione: in questo caso D’Annunzio riprende esempi rinascimentali, rivisitati però in chiave decadente alla luce del gusto preraffaellita (il movimento pittorico preraffaellita, nato in Inghilterra verso la metà dell’Ottocento, invocava il ritorno a forme artistiche pure, ispirate a contenuti di una religiosità misticheggiante, secondo esempi artistici precedenti al pittore rinascimentale Raffaello). Nel 1892 vedono la luce le Elegie romane, colme di languida sensualità, ispirate alla declinante relazione amorosa con Barbara Leoni e scritte in metri barbari carducciani. Il Poema paradisiaco e la “bontà” in versi Chiude questo periodo l’uscita del Poema paradisiaco, pubblicato nel 1893 insieme alle Odi navali. Se queste ultime sono caratterizzate da una gonfia retorica nazionalistico-imperialista, il Poema paradisiaco D’Annunzio poeta 3 471

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sembra corrispondere invece a una pausa dell’ardore vitalistico e alla riscoperta degli affetti familiari. Il libro è concepito come un percorso che, attraverso la memoria autobiografica, porta al distacco dalle passioni, dalle brame sensuali e al recupero della dimensione di innocenza propria dell’infanzia, protetta dal calore dei legami familiari. Il Poema rivela quella stessa tendenza al ripiegamento intimistico che, nello stesso periodo, porta D’Annunzio a scrivere, sotto l’influsso dei grandi narratori russi, romanzi come Giovanni Episcopo e L’innocente. Un modello per la poesia crepuscolare Più che altro però il Poema paradisiaco è il frutto di nuove suggestioni letterarie: dalle Myricae pascoliane (➜ C10), da poco pubblicate (1891), a un certo filone dell’opera di Verlaine (➜ C9), ai simbolisti belgi, come Maeterlinck, che ispireranno poi i poeti crepuscolari (➜ C13). Non a caso questi ultimi guarderanno al Poema paradisiaco come a un modello, soprattutto per la condizione psicologica di languida estenuazione, la vena malinconica, il vago misticismo e l’impiego di uno stile dimesso, a tratti prosastico (➜ T11 ). La struttura e il titolo La scelta di denominare “poema” una raccolta di liriche (in tutto 54) è certo motivata dall’intenzione di sottolinearne la coesione (come del resto conferma la presenza del Prologo e dell’Epilogo). La raccolta è divisa in tre sezioni, i cui titoli in latino (Hortus conclusus, Hortus larvarum, Hortulus animae: cioè “Giardino chiuso”, “Giardino delle maschere”, “Giardinetto dell’anima”) rimandano al titolo generale (letteralmente in greco paradiso significa “giardino”).

Lettera autografa di D’Annunzio al regista Guido Salvini, 1936.

Poema paradisiaco GENERE

raccolta di liriche

DATA DI PUBBLICAZIONE

1893

TEMI

• riscoperta degli affetti familiari • pausa dall’ardore vitalistico • ripiegamento intimistico

STILE

dimesso, a tratti prosastico

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Gabriele D’Annunzio

T11

Nuovo messaggio Poema paradisiaco

G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. I, Mondadori, Milano 1982

La poesia, una delle più significative del Poema paradisiaco, fa parte del Prologo dell’opera. Costituisce una sorta di risposta alla precedente lirica Il buon messaggio, in cui il poeta aveva promesso alla sorella Anna (a cui in entrambi i testi si rivolge) un imminente ritorno alla casa della sua infanzia, dove avrebbe rivisto la madre. Qui il poeta si trova a dover sconfessare la promessa fatta (il titolo originario della lirica era infatti La vana promessa). Il ritorno certo avverrà, ma in un futuro meno prossimo, e lo celebrerà Consolazione, nella sezione Hortulus animae (➜ T12 OL).

Perdonami, tu buona. Io dissi, è vero, dissi: – Domani tornerò, domani vi rivedrò1. – E siamo ancor lontani, 4 Anna, e tu credi che non sia sincero il mio vóto2! Oh, perdonami. Io mi sento morire. È questa, è questa oggi la sola verità. Non so dirti altra parola 8 che questa. Cade ogni proponimento, mi lascia ogni speranza. Tutto è vano3. Io non vedrò fiorire il bianco spino lungo le siepi né pe’ solchi il lino 12 cerulo né tremante alzarsi il grano4; e non la madre, e non su quello smorto viso, su quell’estenuato viso un po’ di sole; e non il suo sorriso; 16 e non su que’ rosai bianchi dell’orto le sue mani più pure delle rose nuove... E le coglierebbe ella, le nuove rose, è vero?, a fiorir la stanza dove 20 io comporrei canzoni maliose5 per consolare il suo dolente cuore; e cadere vedrei come ad un lieve La metrica Quartine di endecasillabi con

/ domani? Dunque aspettami, sorella».

rime ABBA.

2 il mio vóto: la mia promessa. 3 Tutto è vano: come altrove nel Poema

1 Io dissi... vi rivedrò: il poeta fa esplicito

paradisiaco, il poeta è preda di un momento di scorata crisi esistenziale. 4 Io non vedrò... il grano: il poeta non farà in tempo a essere presente nella casa materna per la stagione in cui fioriscono il biancospino e il lino cerulo (“celeste”, dal colore dei suoi fiori) e in cui il grano inizia a crescere, tenero (perciò tremante).

riferimento ai vv. 13-18 della lirica Il buon messaggio, in cui, riferendosi alla madre, prometteva: «Non pianga. Tornerà quel suo figliuolo / a la sua casa. È stanco di mentire. / Tornerà. Né vorrà più mai partire: / certo, più mai. Da troppo tempo è solo. // Domani tornerà… – Vuoi tu che torni

5 E le coglierebbe... maliose: le rose del giardino serviranno per adornare la stanza nella quale il poeta comporrà poesie ammaliatrici (maliose). Sia i rosai bianchi sia le canzoni che sanno incantare torneranno in Consolazione, la più nota lirica del Poema paradisiaco, al centro della quale è la visita, finalmente avvenuta, all’amata madre.

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fiato6 le foglie miti come neve 24 su la pagina, al suo pensier d’amore; ed ella non si stancherebbe mai di guardarmi, e il suo sguardo su la fronte io sentirei, e sentirei la fronte 28 divenir pura come non fu mai... Aspettami, ti prego! Io dissi, è vero, dissi: – Domani tornerò, domani vi rivedrò. – E siamo ancor lontani. 32 Ma aspettami, Anna, aspettami. Dispero7 io forse? Credi tu che io sia perduto? Ma non vedi, non vedi tu che io sogno la mia casa? Non vedi tu che io sogno 36 i tuoi rosai? Quando sarò venuto, oh allora... – Aspettami, Anna. E dille, dille che m’aspetti. Vedrai che questa volta non rimarrà delusa. Questa volta, 40 oh per la luce de le sue pupille tènere, io non avrò promesso in vano. Questa volta, fiorire il bianco spino lungo le siepi e lungo i solchi il lino 44 cerulo, e a poco a poco alzarsi il grano, e lei che a poco a poco si colora di salute, e noi due stare a’ suoi piedi, e il suo sorriso... – Ma tu non mi credi, 48 Anna? Quando sarò venuto, oh allora... 6 fiato: soffio.

7 Dispero: credo nell’impossibile.

Analisi del testo Il tema Come nella lirica Buon messaggio, anche in Nuovo messaggio il poeta dialoga con la sorella, elevata a personificazione simbolica del calore della famiglia d’origine, emblema vivente del mito della bontà («Perdonami, tu buona») che ispira il D’Annunzio del Poema paradisiaco. Ma centrale nel testo è soprattutto la figura della madre (effettivamente venerata da D’Annunzio nella sua vita): il ritorno a lei (che ricorre non a caso anche nel Trionfo della morte) si configura, nell’immaginazione del poeta, come il tentativo di recuperare l’innocenza e l’autenticità dell’infanzia, e coincide con il sogno di una rigenerazione spirituale di cui il poeta avverte la necessità in questa fase della sua vita e della sua produzione. Nella purezza della madre, il “figliol prodigo” D’Annunzio vorrebbe ritrovare la propria stessa purezza smarrita: l’aggettivo puro, vera parola-chiave del componimento, è significativamente attribuito prima alle mani della madre («le sue mani più pure delle rose [...]», v. 17) e poi alla fronte del poeta («sentirei la fronte / divenir pura come non fu mai», vv. 27-28), ma il condizionale segnala che si tratta appunto di un desiderio, forse irrealizzabile.

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Uno stile colloquiale e prosastico La lirica costituisce un esempio delle caratteristiche stilistiche proprie del Poema paradisiaco. D’Annunzio cerca qui, in particolare, di mimare una situazione colloquiale: a questo obiettivo risponde la paratassi dominante, l’uso di proposizioni molto brevi, il ricorrere di interrogazioni, esclamazioni, puntini di sospensione. Anche il lessico è in genere molto lontano dal consueto gusto prezioso di D’Annunzio: i termini appartengono per lo più a un registro semplice, piano, quasi prosastico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della lirica. STILE 2. Nelle strofe terza e quarta sono iterate forme negative: a quale finalità risponde questa scelta? ANALISI 3. Nella poesia si fa riferimento alla vegetazione che circonda la casa della madre. Quale significato ha per il poeta questo richiamo? LESSICO 4. Individua e trascrivi alcuni esempi dello stile colloquiale e prosastico che caratterizza il testo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Al centro della lirica c’è il tema della casa e della famiglia: indica la differenza rispetto al tema del “nido pascoliano”.

online T12 Gabriele D’Annunzio

Consolazione Poema paradisiaco

2 ll progetto delle Laudi Dopo l’incontro con il pensiero nietzschiano, D’Annunzio concepisce l’ambizioso progetto di una vasta opera in versi (Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi), ispirata alla visione superomistica del mondo, che lo consacri come nuovo poeta Vate, capace di cantare la totalità del reale (la natura, ma anche la storia, incarnata dagli eroi) e di dare vita a un “nuovo rinascimento”. Il progetto iniziale delle Laudi prevedeva 7 libri corrispondenti ai nomi mitologici degli astri della costellazione delle Pleiadi. Il progetto rimarrà però incompiuto: usciranno nel 1903 i primi tre libri (Maia, Elettra, Alcyone), mentre Merope (ispirata dalla guerra di Libia) attenderà fino al 1912 e Asterope, sulla Prima guerra mondiale, uscirà solo nel 1933 con il nuovo titolo Canti della guerra latina; ma i due ultimi volumi, caratterizzati da toni magniloquenti e dall’enfasi retorica, sono ormai lontani dallo spirito iniziale del progetto. Maia: verso un “nuovo rinascimento” Il primo libro delle Laudi, il più ampio, in realtà fu l’ultimo a essere composto, ma nell’imminenza della pubblicazione il poeta decise di collocarlo in apertura della raccolta. Maia esordisce con due testi (Alle Pleiadi e ai Fati e L’Annunzio) che costituiscono il prologo all’intero ciclo delle Laudi: il primo celebra il mito di Ulisse, il secondo esalta il vitalismo pagano, l’ebbrezza della dimensione panica che D’Annunzio intende rivitalizzare nel mondo moderno. Tolti i due testi iniziali, Maia consiste nella Laus vitae (Lode della vita ➜ D5 OL) un D’Annunzio poeta 3 475

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poema di 8400 versi, organizzati nel metro della “strofa lunga”. Il poema è strutturato sullo schema del viaggio-itinerario già prediletto dall’allegorismo medievale. Il viaggio inizia dalla Grecia, culla del mito ed essa stessa mito per i poeti (D’Annunzio trasfigura il viaggio in Grecia che aveva realmente compiuto nel 1895), modello di una civiltà in cui vivevano lo spirito dionisiaco, la pienezza gioiosa dell’esistenza, il culto della bellezza: una dimensione perduta, ma che può risorgere. Mediatore fra antico e moderno è D’Annunzio stesso, poeta-superuomo capace di condurre il mondo verso una nuova “primavera dello spirito”, un “nuovo rinascimento”. È l’incontro con l’eroe greco Ulisse, posto all’inizio del poema, a consacrarlo campione di un’umanità superiore. Il viaggio nel passato ritorna in seguito nella parte dedicata agli affreschi di Michelangelo della Cappella Sistina e al culto del rinascimento. Ma il poema non esclude il riferimento al presente, alle moderne città, brulicanti di folle anonime, che sembrano escludere la bellezza e la dimensione del sublime. A differenza di altri scrittori del suo tempo, D’Annunzio non si limita però a denunciare, da una aristocratica distanza, il degrado della società di massa, ma cerca di farsi cantore epico, parecchi anni prima del futurismo, dell’attivismo frenetico e dell’inusitata bellezza del mondo delle fabbriche e delle macchine (➜ T13 ). Il viaggio termina nella solitudine del deserto.

PER APPROFONDIRE

Elettra: l’ispirazione patriottica Il secondo libro delle Laudi esce, in volume con Alcyone, alla fine del 1903 e costituisce una sorta di controcanto ai temi di Maia: la prospettiva è qui più direttamente politica o comunque patriottica. Il motivo ispiratore è la rievocazione del passato glorioso della nazione, antitetico a un presente deludente. La celebrazione delle glorie italiche passa da Dante all’impresa dei Mille, da Verdi alle Città del silenzio (venticinque città italiane fissate nella loro memoria storica in altrettanti bozzetti). Il libro si chiude con il Canto augurale per la nazione eletta, una delle liriche oratorie più enfaticamente nazionalistico-bellicistiche di D’Annunzio, che documenta in modo eloquente la misura dei debiti (in ambito retorico e ideologico) del fascismo nei confronti del poeta abruzzese.

La “strofe lunga” Per Maia D’Annunzio utilizza una strofa da lui ideata, che chiama strofe lunga: è qui costituita da 21 versi ineguali (con prevalenza di novenari) liberi da uno schema fisso di rime. Il numero di versi non è casuale: infatti 21 sono anche i canti che compongono la Laus vitae. Ogni strofa accoglie un libero gioco di rime, assonanze, iterazioni e realizza effetti fonicoritmici sempre diversi. Secondo le sue stesse dichiarazioni nel Libro segreto, il poeta volle creare con la strofa lunga

uno strumento poetico duttile, in cui la libertà creativa non fosse limitata da alcun vincolo. La strofa lunga ritorna anche in Alcyone, ad es. nella celeberrima La pioggia nel pineto. Significativa è la lirica alcyonia L’onda, in cui D’Annunzio, attraverso la descrizione di un’onda marina, tesse la lode della strofa lunga, qui esemplificata da un’unica strofa di ben 102 versi, che offre una testimonianza sorprendente del virtuosismo di D’Annunzio.

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Gabriele D’Annunzio

T13

«Alba delle città terribili»

EDUCAZIONE CIVICA

Laudi, Maia, vv. 295-315 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. II, Mondadori, Milano 1984

Nella parte conclusiva della XVI sezione del poema Maia (da cui è tratta questa strofa), D’Annunzio evoca le città moderne da lui stesso definite terribili.

Alba delle città terribili, aurora che squilla con mille trombe di rame1 sul silenzio opaco dei tetti chiamando i dormenti a battaglia2, primo dardo che il Sole scaglia 301 a fiedere3 le sfere d’oro su le cupole ancor notturne4 e le cime ardue5 dei camini emuli delle torri6 e le bianche statue degli archi trionfali, Speranza volante su ali recenti7 come i fiori nati 308 sotto le rugiade celesti, passo degli artefici dèsti all’opere sonoro come scalpitìo d’esercito grande8, rombo che si spande dai mossi congegni9 per vitreo duomo10, oh Alba, oh risveglio dell’Uomo 315 eletto al dominio del Mondo11!

1 trombe di rame: immagine analogica che allude alle sirene delle fabbriche. 2 chiamando... a battaglia: richiamando gli operai che ancora dormono a recarsi al lavoro quotidiano, presentato, in un’ottica epica, come una battaglia. 3 fiedere: ferire. Il verbo regge la serie di compl. oggetti che segue (le sfere d’oro, le cime ardue, le bianche/statue). 4 notturne: ancora immerse nel buio della notte. 5 ardue: alte.

6 emuli delle torri: capaci di gareggiare con le torri (delle antiche città). 7 Speranza... recenti: la speranza, che sorge ogni mattina nella metropoli, è rappresentata come una creatura vivente che vola con nuove (recenti) ali verso una meta indeterminata. 8 passo... grande: il passo sonoro degli operai (artefici) che, svegliatisi, si apprestano al lavoro, è paragonato (di nuovo un’immagine di tono epico) a quello di un grande esercito in marcia.

9 che si spande... congegni: che si espande dai macchinari rimessi in moto nelle fabbriche. 10 per vitreo duomo: un’altra ardita immagine analogica: attraverso le vetrate (delle fabbriche) che ricordano quelle delle cattedrali. 11 oh... del Mondo: l’alba che nasce nella città moderna diventa simbolo della nascita di una nuova èra dominata da superuomini, destinati (eletto, “scelto”) a dominare il mondo.

Analisi del testo Nelle prime cinque strofe – che precedono quella qui antologizzata – dominava una rappresentazione di gusto baudelairiano, con tratti quasi espressionistici, in cui la moderna metropoli appariva come luogo del degrado etico ed estetico; nell’ultima invece D’Annunzio ribalta questa prospettiva, scoprendo nella città, che all’alba riprende le attività lavorative, un particolare e nuovo alone poetico. La sfida affrontata dal poeta (e, si può dire, vinta) è quella di cantare attraverso rinnovati modi epici la modernità. La strofa è strutturata su una sequenza di immagini che si rafforzano a vicenda e che, nel loro insieme, costruiscono il quadro della città novecentesca, rappresentata attraverso un ampio uso di metafore e immagini analogiche che anticipano la poesia novecentesca.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della strofa. COMPRENSIONE 2. Alla fine del testo D’Annunzio introduce un’enfatica esaltazione riconducibile all’ideologia superomistica. Cerca di spiegarne il senso in rapporto al testo. ANALISI 3. Ti sembra che si possa parlare per questo testo di “epica della modernità”? In che senso? Attraverso quali espedienti D’Annunzio realizza un tono epico?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

STILE 4. Quello che hai letto è un esempio di “strofe lunga”: individuane nel testo le caratteristiche peculiari. 5. La descrizione delle città industriali, colte nella loro grandezza talora oscura, rivela CITTÀ E COMUNITÀ SOSTENIBILI un D’Annunzio attento indagatore della città e del vissuto cittadino: quali aspetti della città qui sono sottolineati? In che modo l’autore descrive, sente e vede la città? Quali sensazioni sono a essa collegate?

3 Alcyone Le circostanze di composizione e il titolo Alcyone, terzo libro delle Laudi, è il capolavoro poetico di D’Annunzio: la poesia dannunziana conosce qui certamente i suoi esiti più alti, fondati su un abbandono del poeta a un’ispirazione più propriamente lirica, per lo più libera da pesanti sovrastrutture ideologiche, e su uno sperimentalismo formale che saprà influenzare molta poesia del Novecento. Alcyone esce, insieme ad Elettra, prima del Natale 1903 (ma porta la data dell’anno successivo). I componimenti che il libro raccoglie (in tutto 88) furono scritti d’estate, nel corso di circa quattro anni (la composizione inizia nell’estate del 1899, continua negli anni successivi, ma la maggior parte dei testi è composta nell’estate del 1902 tra la Versilia e il Casentino). Come gli altri libri delle Laudi, il titolo è derivato dal nome di una delle stelle delle Pleiadi, Alcione appunto (per cui D’Annunzio poi sceglie la grafia Alcyone nella penultima edizione dell’opera del 1931). La struttura L’opera raffigura, in una sorta di diario lirico, lo scorrere di un’intera estate, da giugno a settembre. È strutturata in cinque sezioni, ognuna delle quali dedicata a un momento della stagione estiva: dalla prima sezione, in cui si comincia ad avvertirne l’arrivo (il paesaggio è quello dei colli tra Fiesole e Firenze), alle sezioni centrali (II-IV) in cui esplode l’ardore dell’estate (lo sfondo è la Versilia), fino all’ultima sezione, in cui la stagione ormai declina e si preannuncia l’autunno. Salutando tristemente la fine dell’estate, nella composizione di chiusura il poeta si congeda anche dagli amati luoghi versiliesi («Ma cade il vespro, e tempo è d’esulare», Il commiato, v. 73). L’itinerario dell’io lirico La parabola stagionale si intreccia e si fonde con l’itinerario dell’io lirico-D’Annunzio, proteso alla ricerca di una vita superiore. Un itinerario che prende le mosse dall’ebbrezza dionisiaca legata ai riti antichi della campagna (come la trebbiatura, evocata con enfasi retorica nel Ditirambo I), per approdare all’estasi panica di celebri composizioni come La pioggia nel pineto (➜ T15a ) e soprattutto Meriggio (➜ T15c ), esperienza esaltante di una spersonalizzazione nella natura che coincide con una vita divina. Ma avanza il declino dell’estate e, in parallelo, la coscienza che il sogno del divino è precluso all’uomo, un tema rappresentato dal fallimento dell’audace volo di Icaro, a cui è dedicata un’amplissima sezione di Alcyone (Ditiram-

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bo IV). In Icaro il poeta si identifica («Le sue prove amo innovare/io nell’ignoto...») e, nella lirica Altius egit iter, immagina di incontrarlo. Nella lirica appena precedente, L’ala sul mare (➜ T16 OL), riferendosi all’ala di Icaro che ondeggia nel mare in cui l’eroe è precipitato, si chiede: «Chi la raccoglierà? Chi con più forte/lega saprà rigiugnere le penne/sparse per ritentare il folle volo?». La citazione dantesca (“folle volo”) associa significativamente Ulisse a Icaro (e implicitamente, attraverso le interrogazioni retoriche, entrambi gli eroi a D’Annunzio stesso, che di essi si considera degno erede): nonostante il tragico epilogo, il volo di Icaro è espressione di una sfida ardita, in ultima analisi è una manifestazione della volontà superomistica di trascendere i limiti umani che contraddistingue D’Annunzio stesso. Nell’ultima parte di Alcyone si accampa sempre più la percezione angosciosa dell’avanzare del tempo e della morte (Nella belletta ➜ VERSO L’ESAME DI STATO PAG. 507). Un “libro” organico Alcyone non è una semplice raccolta di liriche, ma è concepito come un vero e proprio canzoniere, in cui la disposizione dei testi non è casuale e prevede riprese e corrispondenze tra le varie sezioni, oltre che la studiata collocazione dei quattro Ditirambi: testi per lo più ampi (ispirati fin nel nome agli antichissimi canti corali greci che accompagnavano le feste in onore di Dioniso), espressione di quello spirito dionisiaco che D’Annunzio, sulla scia di Nietzsche, vuole richiamare in vita. Inoltre – a evidenziare ulteriormente la volontà dannunziana di fare di Alcyone un “libro” – il poeta colloca in apertura due testi che fungono da prologo (La tregua e Il fanciullo), motivando la poetica alcyonica e gettandone le basi, e chiude simmetricamente l’opera con un testo conclusivo (Il commiato) che suona come malinconico congedo e dall’estate e dall’esperienza alcyonica. Un prologo metaletterario Già il titolo del primo testo della raccolta, La tregua, segnala apertamente che nel più generale progetto delle Laudi Alcyone rappresenta una fase di pausa, in cui ha “tregua”, appunto, l’enfasi oratoria dei due libri precedenti (Maia e Elettra), in relazione all’allentarsi dell’impegno politico e della conseguente scomparsa delle tematiche storico-politiche. Ma quale poesia emergerà da questa “tregua”? Vi dà in parte riposta già la conclusione della Tregua, in cui il poeta, parlando di sé in terza persona, dichiara: «Scorse gli Eroi su i prati d’asfodelo. / Or ode i Fauni ridere tra i mirti, // l’Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo». Quella di Alcyone sarà dunque una poesia che, dopo aver celebrato (in particolare in Elettra) i grandi del passato, canterà la Natura, il mito e il trionfo dell’estate (Stabat nuda Aestas ➜ T15b ). Il successivo poemetto Il fanciullo delinea ulteriormente il tipo di poesia che D’Annunzio vuole creare, simboleggiata da uno sfuggente fanciullo musico che col suo flauto incanta tutte le creature, modulando una melodia che «sembra assommare in sé tutti i molteplici aspetti della natura, in una perfetta armonia cosmica» (Roncoroni) e che, a sua volta, pare dissolversi nelle forme della natura. Il tema dominante: la fusione panica con la natura La parte più significativa di Alcyone si fonda sulla variazione di pochi, insistiti temi, o addirittura forse di un unico tema: l’immedesimazione dell’io lirico con la natura, la celebrazione di quel vitalismo panico che pervade molta della poesia dannunziana ma che in Alcyone tocca il suo vertice. Ne deriva la ricorrenza del motivo della metamorfosi, che D’Annunzio trae soprattutto dal poeta latino Ovidio, ma che rielabora in modo personale: metamorfosi dell’essere umano (innanzitutto l’io lirico) in natura, ma anche metamorfosi della natura in essere umano (Stabat nuda Aestas). Da questo nucleo fondamentale derivano le più celebri composizioni di Alcyone. D’Annunzio poeta 3 479

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Una nuova versione del Superuomo La critica moderna sottolinea la sostanziale continuità di Alcyone con gli altri precedenti libri delle Laudi. Una continuità che si fonda sulla persistenza del mito del superuomo in cui D’Annunzio aveva trovato da tempo il proprio “centro”. Anziché però declamarne le eccezionali capacità per una rinascita socio-politica (come nelle Vergini delle rocce), D’Annunzio rappresenta in Alcyone un diverso volto del superuomo: la sua eccezionalità rispetto alla comune umanità qui consiste nella capacità percettiva sovrumana, nello straordinario affinamento dei sensi, che gli consente di identificarsi con la natura e di interpretarne la voce. Nella visione del poeta come nuovo Orfeo, capace di cogliere, come nessun altro, il segreto messaggio della natura, D’Annunzio dimostra l’assimilazione, personalmente interpretata, della poesia simbolista francese. «Maraviglioso artefice son io» Connessa con questa visione è l’eccezionalità della parola poetica del superuomo-poeta, che riesce a riprodurre in modo straordinario suoni, odori, colori della natura e a rappresentare la fusione tra “io” e natura. A questo obiettivo sono finalizzate le scelte stilistiche, che fanno di Alcyone il libro poetico più sperimentale di D’Annunzio, quello con cui i poeti del Novecento non potranno non confrontarsi. D’Annunzio crea dei veri e propri spartiti musicali attraverso gli effetti fonici delle parole scelte, il libero gioco delle assonanze, consonanze, allitterazioni, gli effetti ritmici dovuti a iterazioni, ricorrenti anafore, ecc. L’uso dell’accumulo travolge il controllo logico-razionale del lettore, trascinandolo in una dimensione in cui sono le impressioni sensoriali a dominare. Quanto al lessico, caratteristico dello stile dannunziano è l’uso costante di termini colti, lontani dall’uso, preziosi. A livello metrico, anche in Alcyone D’Annunzio ricorre alla “strofe lunga” e al verso libero. Il progetto iniziale prevedeva 7 libri; ne sono stati realizzati 5. TITOLI

Maia

Elettra

Alcyone

Merope

Asterope

DATA PRIMA EDIZIONE

1903

1903

1903

1912

1933

• celebrazione del mito • vitalismo pagano • dimensione panica • culto della bellezza • viaggio tra passato e presente

• celebrazione dei passati fasti italici • prospettiva politica

• vacanza estiva da giugno a settembre • simbiosi panica con la natura • diverso volto del superuomo • libro organico • strutturato in cinque sezioni

• celebrazione della guerra di Libia

• allontanamento dallo spirito iniziale dell’opera

tono solenne

enfasi oratoria

estrema musicalità della parola; raffinatezza lessicale e virtuosismo linguistico

magniloquente

commemorativo

CONTENUTI

Parola chiave

STILE

panismo Il termine panismo deriva da Pan, la divinità greca agreste, metà uomo e metà capro, che simboleggia la liberazione delle forze istintuali nel mondo naturale. In relazione a D’Annunzio, indica una concezione della vita caratterizzata dalla tensione a fondersi con la natura attraverso un’esaltazione della dimensione istintuale e sensoriale. Alla base della concezione panica (da distinguere nettamente dal panteismo, che implica

l’idea della presenza di Dio in ogni aspetto del cosmo e della natura) sta la convinzione di una sostanziale continuità esistente fra uomo e natura (dal greco pan “tutto”): da qui le frequenti metamorfosi presenti nella poesia dannunziana, l’umanizzazione della natura (come in Stabat nuda Aestas) o, viceversa, il passaggio a vegetale o animale dell’uomo (come in Meriggio o nella Pioggia nel pineto).

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Gabriele D’Annunzio

T14

La sera fiesolana Alcyone

G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. I, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1984

Al quarto posto in Alcyone, tuttavia La sera fiesolana è la prima nata della raccolta. La poesia esprime le impressioni e sensazioni del poeta, che si rivolge a una figura femminile, al morire di una sera di prima estate. Come risulta da uno dei Taccuini, l’occasione che ha ispirato la lirica è la suggestione di una gita ad Assisi, fatta un paio d’anni prima in compagnia della Duse (➜ PER APPROFONDIRE Il “francescanesimo” di D’Annunzio PAG. 484).

Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta1 5 su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie2 mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo 10 ove il nostro sogno si giace3 e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo4 e da lei beva la sperata pace5 senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo6! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva 20 tepida e fuggitiva7, commiato lacrimoso de la primavera8, su i gelsi e su gli olmi e su le viti 15

La metrica Tre strofe di 14 versi di varia lunghezza, con rime non regolarmente disposte e assonanze, intervallate da una lauda alla sera di tre versi (un endecasillabo, un ipermetro, un quinario), in rima variata con gli ultimi versi della strofa precedente.

1 Fresche... lenta: il poeta si rivolge (come farà poi anche nella Pioggia nel pineto) a una figura femminile, augurandosi che il suono delle sue parole le dia (sien “siano”) un senso di freschezza come le foglie fruscianti del gelso nelle mani di chi (è il contadino), nella sera, le sta sfrondando, in silenzio e lentamente (s’attarda a l’opra lenta, “indugia nell’operazione che si prolunga”).

2 l’alta scala... spoglie: la scala del raccoglitore diventa scura (con il calare del buio) e spicca contro il fusto del gelso, a cui la luce della sera fa assumere un riflesso argenteo (s’inargenta) con i suoi rami (al femm. arcaico e toscano rame) spogli. 3 la Luna... si giace: la luna è ormai vicina (prossima) a sorgere dall’orizzonte azzurro del cielo (soglie / cerule) e sembra distendere davanti a sé un velo di tenue luce, in cui si placa il sogno d’amore che lega il poeta alla donna. 4 nel notturno gelo: nell’aria fresca della sera. 5 beva... pace: trovi lo sperato refrigerio (espressione metaforica), prima ancora che la luna spunti.

6 Laudata sii... del cielo: è la prima delle tre lodi (ispirate certamente al Cantico di frate Sole) rivolte alla Sera, che viene personificata in una figura femminile dal viso di luminosa opalescenza, dai grandi occhi umidi in cui si raccoglie (si tace) la pioggia o l’umidità (l’acqua del cielo). 7 bruiva... fuggitiva: produceva (cadendo) un lieve sussurro (dal francese bruit “rumore”), tiepida e passeggera (come sono le piogge di fine primavera). 8 commiato... primavera: addio malinconico (lacrimoso) della primavera. La perifrasi è apposizione alla pioggia: la primavera (pronta a cedere il passo all’estate) si congeda con una pioggia che assomiglia a un pianto.

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e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde9, 25 e su ’l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su ’l fieno che già patì la falce e trascolora10, e su gli olivi, su i fratelli olivi 30 che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti11. Laudata sii per le tue vesti aulenti12, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora13! Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti14; e ti dirò per qual segreto 40 le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire 45 e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte15. 35

Laudata sii per la tua pura morte, 50 o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle16!

9 dai novelli... si perde: dalle nuove, rosee dita (i teneri germogli dei pini) che sembrano giocare col vento che si allontana. 10 su ’l fieno... trascolora: sull’erba tagliata, che ha già subìto (patito) la falce e che sta seccando e mutando colore. 11 su gli olivi... e sorridenti: sugli olivi (qui chiamati fratelli con epiteto francescano) che con il timbro argenteo delle loro foglie colorano i colli di un pallore connotato di santità (l’ulivo è simbolo sacro sin dall’antichità e, in particolare, ben presente nella liturgia cattolica) e li rendono sorridenti. 12 aulenti: profumate (l’aggettivo allude ai profumi della sera). 13 pel cinto... odora: la cintura che cinge la sera (probabilmente la linea dell’oriz-

zonte) è paragonata al ramo di salice con cui si lega un fascio di profumato fieno falciato. 14 Io ti dirò... dei monti: il poeta rivelerà verso quali favolosi regni d’amore li inviti il fiume (l’Arno, che scorre alle pendici della collina di Fiesole) le cui fonti perenni (eterne) parlano (gorgogliano) all’ombra degli alberi secolari (antichi rami) nel silenzio sacrale dei monti (nell’antichità le fonti erano considerate sacre). Con Io ti dirò (anche al v. 39) l’io lirico emerge in primo piano, e il poeta si rappresenta come colui che solo sa rivelare (qui, in particolare, alla donna) i misteriosi segreti della natura. 15 ti dirò... più forte: le svelerà anche il segreto per il quale le colline si incurvano

sui limpidi orizzonti in un movimento che è paragonato a quello che le labbra fanno quando, sul punto di rivelare qualcosa, si serrano come se all’improvviso fosse sopravvenuta la memoria di un divieto. Le dirà come il desiderio di rivelare il segreto renda le colline belle oltre ogni umano desiderio (uman desire) e anche, nel loro silenzio, ogni volta nuovamente capaci di confortare (sempre novelle consolatrici), tanto che ogni sera l’anima sembra amarle di un amore sempre accresciuto. 16 Laudata sii... le prime stelle: la lode finale coglie la sera nel momento di passare nella notte ormai prossima (di “morire” nella notte: a questo allude il sintagma tua pura morte), annunciata dal brillìo (palpitare) delle prime stelle.

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Analisi del testo La struttura e l’articolazione tematica Se l’ispirazione della lirica è certamente unitaria, l’architettura del componimento è scandita in tre strofe, ognuna delle quali, nella prima edizione, aveva un proprio titolo, quasi costitui­ ssero tre momenti distinti della contemplazione della sera. • La prima strofa è dedicata al trascolorare della campagna toscana al calare della sera: un momento particolarmente suggestivo, in cui si prepara l’apparizione della luna, annunciata ma non ancora visibile (La natività della luna era appunto il titolo della strofa). La Luna (personificata già dalla maiuscola) è evocata quasi come una presenza mitica, così come la Sera, antropomorfizzata fin dalla prima delle tre laude: la prima lode della sera enfatizza il motivo della luce (il chiarore diffuso del viso di perla) e poi quello dell’acqua (l’umidore vespertino o le pozze della pioggia serale come grandi umidi occhi). L’ultima parte della prima lauda funge così da nesso con la seconda strofa. • La seconda strofa (La pioggia di giugno, il titolo originale) è tutta giocata sulle sensazioni, prima uditive (il verbo onomatopeico bruiva e poi visive, suscitate dal cadere della pioggia d’inizio estate, con un continuo sfumare cromatico: dal rosato degli aghi di pino, al trascolorare del grano dal verde all’oro, per finire con il riferimento al pallore degli olivi, francescanamente ricondotti alla sfera mistica (i fratelli ulivi), che colora d’argento i colli. In primo piano la componente olfattiva: le vesti della sera sono aulenti, il fieno, legato dal salice, che richiama la cintura (metaforica) della Sera, odora. Dal vago misticismo della seconda strofa si passa a una dimensione più sensuale. • La terza strofa (originalmente intitolata Le colline) introduce il tema del mistero della natura, che suggerisce prima l’immagine degli indeterminati reami d’amor verso cui il fiume (l’Arno) richiama il poeta e la sua compagna; e poi l’originale trasfigurazione dei pendii collinari in labbra serrate a custodia di un segreto: quello stesso della natura. La strofa è aperta dalla frase assertiva, Io ti dirò, ripresa quattro versi dopo con E ti dirò. Il poeta si propone come esclusivo interprete di quel mistero, conformemente alla poetica del simbolismo decadente francese: un veggente alla Rimbaud, che però non rifiuta, sdegnosamente ogni comunicazione con il lettore. Il componimento si chiude con il dissolversi della luce della sera nella notte in cui “palpitano” le prime stelle.

Una musicalità evocativa Lo svolgersi della lirica non segue uno sviluppo logico, né ha uno scopo descrittivo, ma evoca in modo indeterminato la corrispondenza fra stati d’animo e natura (una corrispondenza a cui è funzionale l’uso della sinestesia: all’inizio della prima e della seconda strofa le parole sono definite Fresche e Dolci). D’Annunzio (come poi in modo più accentuato nella Pioggia nel pineto) vuole soprattutto conferire alla lirica un andamento musicale. A creare la partitura del testo contribuisce la struttura sintattica, volta a creare un ritmo fluido: ogni strofa è costituita di un unico periodo, in cui la proposizione principale è all’inizio e da essa si dirama poi la sequenza di immagini affidate alle varie proposizioni dipendenti. Ma vi contribuisce soprattutto l’uso delle rime, delle sinestesie, delle assonanze e delle allitterazioni sapientemente collocate e il ruolo stesso attribuito alla parola, scelta più per la sua suggestione fonico-evocativa che per il suo significato intrinseco.

La rivisitazione estetizzante del Cantico di frate Sole

Le tre laude introdotte dopo ogni strofa rimandano inequivocabilmente al celebre Cantico di Francesco d’Assisi. Un’eco francescana si coglie inoltre nel riferimento agli olivi (vv. 29-30), definiti fratelli, e nell’allusione alla “santità” del paesaggio collinare (nella realtà attorno Fiesole, presso Firenze) affine a quello umbro. La rivisitazione di motivi francescani nasce dalle suggestioni di un viaggio ad Assisi, compiuto con la Duse nel 1897 e di cui D’Annunzio dà analitica testimonianza in uno dei suoi Taccuini (➜ PER APPROFONDIRE Il “francescanesimo” di D’Annunzio). Ma si tratta di una rivisitazione tutta “laica”, ispirata com’è a una visione estetizzante di gusto decadente, lontanissima dal misticismo francescano.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Illustra sinteticamente il contenuto della lirica (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. A chi si rivolge il poeta nella lirica? ANALISI 3. Individua i riferimenti che si collegano all’antropomorfizzazione della sera e all’umanizzazione degli elementi naturali e spiega come si attua il panismo dannunzian. LESSICO 4. Indica nella lirica termini ed espressioni relativi alla vista, al tatto, all’udito, all’odorato. Hai trovato delle contaminazioni tra sensi diversi (sinestesie)?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. La sera è un soggetto poetico ricorrente in poesia. Confronta la lirica dannunziana con il sonetto foscoliano Alla sera (➜ VOL 2 C15 T11 ) e la poesia di Pascoli La mia sera (➜ C10 T10 OL). In un testo di massimo 15 righe metti in evidenza in particolare la diversa interpretazione della sera nei tre poeti, punti di contatto e le differenze, le soluzioni stilistiche adottate, il differente contesto storico-culturale che caratterizza le composizioni.

PER APPROFONDIRE

ESPOSIZIONE ORALE 6. Facendo opportuni riferimenti al testo e all’approfondimento (➜ PER APPROFONDIRE Il “francescanesimo” di D’Annunzio), in un intervento orale di massimo 3 minuti spiega perché si può parlare di una rivisitazione “laica” di motivi francescani.

Il “francescanesimo” di D’Annunzio Il viaggio ad Assisi e La sera fiesolana Nel 1897 D’Annunzio e la Duse si recarono ad Assisi, patria di san Francesco. D’Annunzio e la sua compagna ne furono molto impressionati: come testimoniano alcune pagine del Taccuino XIV, non poche suggestioni allora provate diventarono, trasfigurate poeticamente, immagini della Sera fiesolana. Un solo esempio basta per darne un’idea: «È il crepuscolo. Si scende ad Assisi per una valle, che corre tra i campi fertili, rinfrescati dalla pioggia che continua a cadere pianamente, mollemente, con un crepitio lieve. L’odore della terra e della verdura è sparso nella sera. [...] Incomincia il flauto roco e soave dei grilli, mentre sulla collina di Assisi un albore vago annunzia la natività della luna [La natività della luna era il titolo scelto per la prima strofa della Sera fiesolana]». Il progetto delle Laudi La sera fiesolana nasce in un periodo in cui D’Annunzio, come rivela lui stesso, è affascinato da Francesco e pensa addirittura di comporre una tragedia “francescana” intitolata Frate Sole (ma il progetto poi fu interrotto). Invece ebbe seguito il progetto poetico a cui D’Annunzio dà il titolo di Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, di cui Alcyone costituisce il libro più famoso e poeticamente realizzato. Basta leggere anche solo qualche testo della raccolta per comprendere quanto il misticismo del santo di Assisi sia estraneo allo spirito della poesia dannunziana: nel poeta abruzzese la compenetrazione uomo-natura coincide con la pagana celebrazione delle facoltà sensoriali, della dimensione corporea, in una prospettiva panico-superomistica che esclude ogni tensione religiosa. Misticheggiante può essere solo la forma, non l’ispirazione della sua poesia.

Tracce francescane nel Vittoriale La figura del santo di Assisi ritorna come insistita presenza anche molti anni dopo, nella casa-mausoleo del Vittoriale. Immagini e citazioni francescane sono disseminate un po’ dappertutto, rivelando la natura, appunto, estetizzante e decadente del francescanesimo di D’Annunzio: il richiamo alla penitenza, l’immagine della morte, in una contaminazione di sacro e profano, rendono ancora più eccitante la sensualità, di cui lo scrittore fu schiavo fino alla fine dei suoi giorni. I richiami francescani sono assai numerosi: dalla statua del santo collocata in un piccolo giardino al bassorilievo che sulla facciata della casa riproduce i versi del Cantico (seppur con una significativa variazione nell’ultimo verso: «Beati quelli ke morranno a buona guerra», con cui il poeta-soldato si permette un’autoesaltazione), alle due lunette, poste nel vestibolo, che rappresentano Francesco e Chiara. Una delle stanze della sontuosa dimora è chiamata “stanza del lebbroso”: in essa D’Annunzio si ritirava per meditare sulla morte. Sopra il letto (dove, per sua esplicita volontà, il poeta sarà esposto dopo la sua morte) è collocato un dipinto che raffigura san Francesco che abbraccia D’Annunzio come lebbroso. Quanto potesse essere autenticamente francescano lo spirito di D’Annunzio lo dimostra la sua decisione di richiamare nel colore delle pareti il saio francescano, simbolo della povertà dell’ordine fondato dal santo: a questo fine venne utilizzato un numero enorme di pelli di daino, tenute insieme da lacci dorati. Il tutto per la modica spesa di 42.000 lire del 1924: una cifra per quei tempi esorbitante! Le informazioni relative al Vittoriale sono tratte da: A. Andreoli, Il Vittoriale, Electa, Milano 1993

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T15 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. I, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1984

Il tema della metamorfosi I tre testi che seguono, due dei quali sono tra i più celebri di Alcyone, esemplificano in modo diverso il tema, centrale in questa raccolta poetica, della metamorfosi panica. Nella Pioggia nel pineto il poeta-io lirico vive la trasformazione in natura all’unisono con una figura femminile che lo accompagna in questa esperienza. In Stabat nuda Aestas è invece la natura, qui nelle vesti dell’Estate, ad antropomorfizzarsi, assumendo le sembianze di una giovane donna di sensuale bellezza. In Meriggio infine il poeta vive, in una solitudine totale, l’immedesimazione nella natura: in questo testo l’esperienza della metamorfosi panica si coniuga con la dimensione superomistica.

Gabriele D’Annunzio

T15a

La pioggia nel pineto

online

Analisi testuale

LEGGERE LE EMOZIONI

Alcyone La pioggia nel pineto, la più celebre lirica dannunziana, appartiene alla sezione centrale di Alcyone, dedicata alla pienezza dell’estate. Spunto della lirica (come lo scrittore stesso esplicita in uno dei suoi Taccuini) è la pioggia improvvisa che coglie il poeta e la sua accompagnatrice, qui denominata Ermione, mentre si trovano in una pineta contigua al litorale della Versilia. Sul tema della pioggia (che produce suoni diversi sulle differenti forme di vegetazione), D’Annunzio costruisce una vera e propria partitura musicale. Fulcro della composizione è la progressiva immersione dell’io lirico e di Ermione nella vita della natura, la loro metamorfosi panica.

Taci1. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo 5 parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane2. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse3. 10 Piove su le tamerici salmastre ed arse4, piove su i pini scagliosi ed irti5, piove su i mirti 15 divini6, su le ginestre fulgenti La metrica Quattro strofe ciascuna composta di 32 versi di varia misura con libero ricorrere di rime e assonanze. Ogni strofa è chiusa dal nome Ermione.

1 Taci: con un primo imperativo, cui fa eco immediato il successivo Ascolta del v. 8, il poeta si rivolge a Ermione, la donna che lo accompagna, il cui nome (nel mito, si chiamava così la figlia di Elena e Menelao) ritorna in ogni finale di strofa.

2 Su le soglie... lontane: sul limitare del bosco il poeta non ode più le parole pronunciate da Ermione (parole articolate da un essere umano), ma è teso ad ascoltare parole inconsuete e straordinarie, che gocce e foglie lontane (cioè nel folto del bosco) dicono, sussurrano (parlare è usato in senso transitivo): sono i suoni della pioggia che inizia a cadere. 3 Piove… sparse: piove (il verbo, reiterato più volte, scandirà tutta la prima strofa)

da nuvole sparse: perciò è una pioggerella leggera. 4 su le tamerici… arse: sulle tamerici (arbusti tipici delle coste mediterranee) coperte di sale marino e bruciate dal sole. 5 scagliosi ed irti: dalla corteccia squamosa e dagli aghi irti (in riferimento alle foglie aghiformi). 6 divini: anticamente il mirto era sacro alla dea Venere.

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di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti7, 20 piove su i nostri vólti silvani8, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti9 25 leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella10, su la favola bella 30 che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione11. Odi?12 La pioggia cade su la solitaria 35 verdura con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade13. 40 Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, 45 né il ciel cinerino14. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti15 50 diversi sotto innumerevoli dita. E immersi 7 su le ginestre... aulenti: sulle ginestre splendenti (fulgenti, latinismo, da fulgere) per il giallo intenso dei loro fiori raccolti (accolti) a mazzi, sui ginepri pieni di bacche profumate (coccole aulenti). 8 su i nostri vólti silvani: l’attenzione del poeta si sposta alla pioggia che cade su di lui e la sua compagna. I loro volti sono definiti silvani, “silvestri”, perché la pioggia li sta assimilando alla vegetazione circostante: inizia il processo di fusione uomo-natura.

9 vestimenti: vestiti. 10 sui freschi.. novella: anche l’anima viene come rigenerata dalla pioggia, si rinnova e fa scaturire (schiude, in genere riferito all’area semantica del fiore) pensieri freschi e nuovi. 11 su la favola... o Ermione: l’amore è definito favola bella, labile illusione di felicità. 12 Odi?: il poeta riprende a rivolgersi alla compagna, ora con una forma interrogativa.

13 con un crepitìo... men rade: il suono della pioggia che cade sulla vegetazione del bosco deserto (solitaria verdura) è continuo ma cambia di intensità (dura e varia) a seconda dell’infittirsi o diradarsi del fogliame. 14 Risponde... cinerino: al suono della pioggia (pianto) risponde il frinire delle cicale che non spaventa (impaura) né la pioggia portata dall’austro (vento che spira da sud) né il cielo nuvoloso e scuro, color della cenere (cinerino). 15 stromenti: strumenti.

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noi siam nello spirto silvestre, 55 d’arborea vita viventi16; e il tuo vólto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome 60 auliscono come le chiare ginestre17, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale18 a poco a poco più sordo19 si fa sotto il pianto 70 che cresce; ma un canto vi si mesce20 più roco che di laggiù21 sale, dall’umida ombra remota. 75 Più sordo e più fioco s’allenta22, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. 80 Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare23 l’argentea pioggia che monda24, 85 il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria 90 è muta; ma la figlia 65

16 spirto silvestre... viventi: il poeta e la sua compagna diventano partecipi della vita segreta del bosco, si assimilano alle piante (arborea vita). Inizia la compenetrazione tra uomo e natura. 17 il tuo vólto... ginestre: il volto di Ermione, inebriato dalla pioggia, è bagnato (molle) come una foglia, mentre i suoi ca-

pelli profumano (auliscono; cfr. aulenti al v. 19) come le gialle ginestre. 18 l’accordo... cicale: il canto concorde delle cicale che cantano nell’aria. 19 sordo: smorzato. 20 vi si mesce: si mescola a esse. 21 di laggiù: un punto indeterminato della pineta dove si trovano (come si dice nel

v. successivo) delle zone umide (forse un acquitrino). 22 s’allenta: si indebolisce. 23 crosciare: scrosciare. 24 monda: ripulisce l’aria e la vegetazione (e contemporaneamente rigenera l’animo del poeta e della donna).

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del limo25 lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! 95 E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca 100 ma quasi fatta virente26, par da scorza tu esca27. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca 105 intatta28, tra le pàlpebre gli occhi son come polle29 tra l’erbe, i denti negli alvèoli30 son come mandorle acerbe. 110 E andiam di fratta in fratta31, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi32) 115 chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, 120 su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, 125 su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.

25 la figlia dell’aria... la figlia del limo: la cicala (già definita aerea al v. 66) è contrapposta alla rana, figlia del fango (limo), che gracida da chissà quale remota e misteriosa zona del bosco (cfr. v. 74). 26 virente: verdeggiante. 27 par da scorza... esca: sembri uscita

dalla corteccia di un albero (come una ninfa dei boschi). 28 intatta: non ancora colta. 29 polle: piccole sorgenti d’acqua, vene sorgive. 30 alvèoli: cavità in cui i denti hanno radice.

31 di fratta in fratta: di cespuglio in cespuglio. 32 e il verde... i ginocchi: la vegetazione fitta, con la sua forza (il verde vigor rude) ostacola il cammino senza meta dei due avviluppandosi alle loro caviglie (malleoli) e alle ginocchia.

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Analisi del testo Un testo musicale La lirica costituisce uno degli esempi più significativi del virtuosismo dannunziano nell’usare la parola per creare straordinari effetti fonici: La pioggia nel pineto è infatti strutturata come una vera e propria partitura musicale, all’ascolto della quale il lettore è invitato ad abbandonarsi. Della poetica decadente D’Annunzio fa sua la ricerca nella poesia soprattutto della musicalità (si veda Arte poetica di Verlaine): nella parola infatti egli ricerca soprattutto l’evocatività suggestiva del suono. In questa celeberrima lirica la prodigiosa abilità di D’Annunzio non solo riesce a riprodurre la musica della pioggia (non si tratta soltanto di un testo descrittivo-mimetico), ma affronta – e vince – la sfida di creare un testo musicale con le parole anziché con i suoni: le «parole più nuove» sono al contempo la musica della pioggia sulla vegetazione, ma anche, e forse soprattutto, le parole “magiche” del poeta stesso, che solo è capace di cogliere e tradurre il linguaggio della natura.

Le scelte metriche e retoriche Sfruttando la libertà offerta dalla strofa lunga, D’Annunzio alterna differenti tipi di versi, in genere brevi (prevale il senario) o brevissimi (come il ternario), creando così una grande varietà ritmica. Nell’obiettivo primario di realizzare effetti fonici, ricorre alla rima (anche al mezzo) e alle figure di suono: assonanze, consonanze, allitterazioni, onomatopee. Accentuano infine il carattere musicale della composizione le anafore (a cominciare dall’iterazione insistente del verbo-chiave Piove), le epifore (ogni strofa si chiude con il nome Ermione), i parallelismi e le riprese di interi versi.

Il tema della metamorfosi e del panismo Centro tematico della lirica, come in altri testi di Alcyone, è l’immersione nel mondo della natura, qui attivata dalla rigenerante pioggia estiva, e la metamorfosi panica; in questo caso essa non riguarda, come in Meriggio (➜ T15c ), solo l’io lirico, ma anche la figura femminile che lo accompagna: i due abbandonano la propria identità umana per trasformarsi in creature vegetali che vivono pienamente la comunione con la natura silvestre. Una metamorfosi progressiva, il cui inizio è segnalato, già nella prima strofa (v. 21), dall’aggettivo silvani attribuito ai volti bagnati dalla pioggia dei due protagonisti. Nella seconda strofa la fusione dei due con la natura si intensifica («E immersi / noi siam nello spirto / silvestre, / d’arborea vita viventi» vv. 52-55). Le similitudini, che paragonano il volto di Ermione e i suoi capelli profumati a elementi naturali, esplicitano ulteriormente il motivo, che giunge all’apice, in un crescendo di sensazioni (sottolineato dal ripetersi della congiunzione e) nell’ultima strofa: in essa ricompaiono similitudini il cui secondo termine di paragone è tratto dalla natura («il cuor nel petto è come pèsca / intatta...» vv. 104-105). La metamorfosi è ormai completa e coincide con una sorta di «estasi panica» (Roncoroni) e di inebriante ri-nascita: «E tutta la vita è in noi fresca / aulente...», vv. 102-103. Il ruolo mediatore dell’io lirico-superuomo Mediatore della fusione panica è il poeta-superuomo, di cui Alcyone rivela un nuovo volto rispetto ai testi in prosa e a Maia, primo libro delle Laudi: la sua eccezionalità rispetto ai comuni esseri umani si manifesta qui nella superiore capacità di cogliere le voci della natura, attraverso l’affinamento estremo delle percezioni, delle sensazioni. Ed è l’io lirico a introdurre la compagna (miticamente trasfigurata per essere degna compagna del Superuomo) nella dimensione panica, attraverso una sorta di iniziazione. Essa è segnalata dai verbi che aprono le prime tre strofe: il primo (v. 1 Taci.) è un invito perentorio a far tacere le parole del linguaggio umano perché sia possibile per Ermione recepire le misteriose voci della natura, quel linguaggio che il poeta-superuomo percepisce istintivamente («non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove»). Il secondo è maggiormente interlocutorio (v. 33 Odi?), al terzo (v. 65 Ascolta, ascolta) corrisponde l’insistente richiamo alla donna perché si ponga in sintonia con la natura. La favola bella Negli ultimi versi della prima strofa (vv. 29-32, ripetuti con una lieve variazione, nella quale non è da vedere un particolare significato, alla fine dell’ultima, vv. 116-128) D’Annunzio introduce il tema dell’amore, senza però che esso occupi un posto davvero rilevante nella lirica: l’amore è solo una bella, fugace, illusione che irretisce i due amanti che ignorano dove potrà condurli così come, senza una meta, attraversano la pineta («chi sa dove, chi sa dove!», v. 94 e v. 115).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi accompagna il poeta nella sua esperienza panica? STILE 2. Quale significato dai all’espressione «parole più nuove», contrapposta a «parole... umane»? 3. Esamina il piano sintattico-lessicale: prevale la paratassi o l’ipotassi? Sai spiegare la ragione della scelta del poeta? Nel testo sono presenti alcuni termini rari e preziosi, all’interno di un tessuto linguistico abbastanza comune: sai individuarli? ANALISI 4. Utilizzando l’analisi della prima strofa come campione, indica: – i tipi di verso impiegati; – le rime, comprese le rime al mezzo; – gli enjambements; – le ripetizioni e i parallelismi; – le allitterazioni e le assonanze. Cerca quindi di valutare l’effetto prodotto dalle scelte del poeta.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. In un testo di 20 righe esplicita le due principali dimensioni del testo: il virtuosismo della parola e il tema del panismo. 6. La lirica di D’Annunzio ci mostra la fusione panica tra uomo e natura. Ti è mai capitato di sentirti completamente immerso nella natura e di ascoltare le parole da essa pronunciate, dimenticandoti della realtà? Scrivi le tue impressioni in un testo di massimo 15 righe.

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Stabat nuda Aestas Alcyone La lirica è accomunata dalla scelta del titolo latino, dal metro e dalla clausola tronca dell’ultimo verso ad altre composizioni di Alcyone (ad es. Furit aestus) che precedono, a modo di preludi, un Ditirambo (in questo caso il III). Il titolo latino deriva da un verso delle Metamorfosi di Ovidio (II, 28) che raffigurava l’Estate accanto al trono del Sole: «Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat» (“Stava nuda l’Estate e portava ghirlande di spighe”). Partendo da questo spunto, D’Annunzio personifica l’estate in una donna misteriosa e sfuggente che appare all’improvviso al poeta (e io lirico) nella vegetazione assolata e che egli cerca di raggiungere.

Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini1 ove estuava l’aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa2. 5 Le cicale si tacquero3. Più rochi4 si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giù pe’ fusti5. Riconobbi il colùbro dal sentore6. La metrica Tre strofe di otto endecasillabi

2 ove estuava... effusa: dove l’aria ardeva

sciolti, con assonanze.

(estuava, latinismo) quasi tremando, come fosse la vampa d’una fiamma che si diffonde tutt’intorno. 3 si tacquero: con uso riflessivo arcaico. 4 rochi: fiochi.

1 Primamente... dei pini: per prima cosa intravidi il suo piccolo (stretto) piede sfiorare leggero (scorrere) il suolo coperto dagli aghi di pino bruciati dal sole.

5 Copiosa... pe’ fusti: abbondante, la resina stillò (gemette) e scese giù per i tronchi degli alberi. 6 Riconobbi... dal sentore: avvertii la presenza di un serpente (colùbro) dal suo odore (sentore).

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Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorsi l’ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell’argento pallàdio trasvolare senza suono7. Più lungi, nella stoppia, l’allodola balzò dal solco raso8, 15 la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch’io per nome la chiamai. 10

Tra i leandri9 la vidi che si volse. Come in bronzea mèsse nel falasco entrò10, che richiudeasi strepitoso11. 20 Più lungi, verso il lido, tra la paglia marina il piede le si torse in fallo12. Distesa cadde tra le sabbie e l’acque, il ponente13 schiumò ne’ suoi capegli14. Immensa apparve, immensa nudità. 7 Scorsi... senza suono: il poeta scorge le ombre grigioazzurre che i rami degli ulivi proiettano sulla schiena arcuata (falcata) della donna e i capelli biondo-rossastri (il colore richiama le messi mature) che volano, impalpabili (trasvolare senza suono), nell’argento delle fronde degli ulivi, anticamente sacri a Pallade (nell’argento palladio). 8 solco raso: il solco del campo dove il grano è stato falciato. 9 leandri: oleandri (con aferesi iniziale). 10 Come in bronzea… entrò: come fra la messe matura, color del bronzo entrò fra i falaschi (il falasco è un’erba palustre dalle lunghe foglie). 11 richiudeasi strepitoso: si chiudeva nuovamente dietro di lei con un secco strepito. 12 tra la paglia marina… in fallo: tra le alghe secche abbandonate dalle onde (la paglia marina) il piede le rimase impigliato e si storse (facendola così cadere). 13 il ponente: vento marino (che in Versilia viene da ponente). 14 schiumò ne’ suoi capegli: franse le onde, suscitando la schiuma fra i capelli.

Giulio Aristide Sartorio, La Gorgone e gli eroi, 1897 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna).

Analisi del testo La metamorfosi della Natura Solo il titolo ci guida a identificare l’evanescente figura di donna che l’io lirico insegue dopo la sua improvvisa comparsa: è l’estate stessa. La sua apparizione si inserisce in un clima teso di aspettativa di un momento miracoloso, di un’epifania; nella luce abbagliante, nel calore torrido, l’intera natura sembra partecipare all’evento: le cicale smettono di frinire, i ruscelli scorrono con voce meno cristallina. La donna-dea fugge, così velocemente da poterla solo ritrarre per brevi, fugaci immagini (il piede, la schiena arcuata, i capelli fulvi). L’inseguimento si conclude in riva al mare dove la creatura si rivela nella sua abbagliante nudità mentre si fonde con la schiuma marina. Attraverso una nuova versione del motivo della metamorfosi, è qui riproposta l’identificazione panica tra elemento umano e naturale. È però la natura questa volta, a differenza di quanto accade nella Pioggia nel pineto e in Meriggio, a subire il processo di trasformazione, a essere antropomorfizzata e divinizzata, ad assumere sembianze femminili, generando la tensione sensuale che percorre in crescendo il componimento fino a sfociare nel finale: «Immensa apparve, immensa nudità». Il desiderio della fusione panica acquista una connotazione marcatamente erotica.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Illustra sinteticamente il contenuto della lirica (max 5 righe). TECNICA NARRATIVA 2. La lirica presenta un andamento quasi narrativo, o forse più ancora cinematografico: indica le sequenze in cui può essere suddivisa. LESSICO 3. Individua nel testo la presenza, in rapporto al tema, di sensazioni relative ai diversi campi sensoriali e fai la schedatura delle espressioni linguistiche. STILE 4. Il testo è particolarmente ricco di metafore: individuale e spiegane il significato in rapporto al contesto.

PER APPROFONDIRE

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Metti a confronto in un testo di massimo 20 righe la rivisitazione del mito in D’Annunzio e in Pascoli, mettendo in evidenza la diversa visione esistenziale che ne emerge.

D’Annunzio e il mito La produzione letteraria di D’Annunzio è costellata di immagini e richiami mitologici, riconducibili alla presenza della classicità in molte sue opere, in particolare quelle liriche, anche sul piano formale: dalle ricche similitudini al lessico prezioso, molto spesso impregnato di latinismi e grecismi. Una scelta che corrisponde alla volontà del poeta di nobilitare il più possibile la parola poetica e di proporsi al suo tempo, che considerava impoverito di Bellezza e degradato, come nuovo poeta Vate. Anche nel teatro dannunziano il riferimento al mito corrisponde alla volontà di dare un respiro poetico alla rappresentazione drammaturgica, innalzandola al di sopra della dimensione del quotidiano, oggetto del dramma borghese: a parte la ripresa diretta del mito in Fedra, D’Annunzio sceglie come sfondo per il dramma La città morta Micene, il luogo mitico in cui si consumò la tragica vicenda degli Atridi; e ripropone nella Figlia di Iorio, ambientata in un Abruzzo atemporale, temi del mito e della tragedia classica come il parricidio. L’interesse per il mito si intensifica dopo il suo viaggio in Grecia (a metà degli anni Novanta) da cui riporta forti suggestioni e ancor più in seguito alla lettura di Nietzsche. Se la Grecia classica appare al poeta culla della bellezza, della poesia, del mito, egli vuole riproporre nel presente la dimensione perduta. Tra i colli fiorentini e il litorale della Versilia, scenario di Alcyone, riappaiono così figure di ninfe e semidei, ma innanzitutto – come ha suggerito il critico Gibellini – magico-mitica è la dimensione in cui il poeta immerge il lettore nelle liriche alcyonie: una dimensione temporale sospesa, metastorica, dove vive un eterno presente, una dimensione ideale per una parola poetica che abbia come prerogative principali la musicalità e la capacità evocativa.

Il mito si lega in Alcyone al tema centrale della fusione panica io-natura, celebrata attraverso il ricorrente motivo, proprio della mitologia greca, della metamorfosi, in cui si avverte l’eco dei versi delle Metamorfosi ovidiane, opera letta e amata da D’Annunzio fin dagli anni liceali: vi si narrano trasformazioni di uomini e ninfe in piante o animali (la più celebre, anche per le frequenti trasposizioni artistiche, è quella della ninfa Dafne, amata da Apollo, trasformata in pianta di alloro). Divinizzata in Alcyone è la Natura: la vera e propria teofania della Luna, la sua apparizione divina, nella Sera fiesolana (➜ T14 ), la sensuale raffigurazione dell’Estate come donna-dea che fugge verso il mare in Stabat nuda Aestas. Attraverso l’iniziazione metamorfica, entrano a far parte della Natura anche gli esseri umani (il poeta e la sua compagna) predestinati a questa eccezionale esperienza. Figura mitica per eccellenza in Alcyone (ma anche in Maia) è il poeta stesso, che fa suo, identificandovisi, il mito del Superuomo nietzschiano. Solo lui può confrontarsi con gli antichi eroi e presentarsi come loro erede ideale nel riproporre la dimensione del sublime nel mondo moderno: in Maia immagina che su di lui si posi lo sguardo di Ulisse, in Alcyone (Altius egit iter) si immedesima in Glauco (da pescatore divenuto divinità marina) e soprattutto in Icaro, il cui mito è reinterpretato da D’Annunzio in chiave superomistica: il suo volo diventa una sfida prometeica per superare i limiti umani. (➜ T16 OL) Ma in un certo modo in Alcyone sono mitizzate anche le virtù della parola poetica dannunziana, esse stesse metamorfiche (Le stirpi canore ➜ D4 OL): parole che consentono al poeta-superuomo, quasi novello Orfeo, non solo di imitare la Natura, ma di gareggiare con la sua potenza e il suo fascino, oltre che di tradurre pienamente l’immedesimazione “divina” dell’uomo con essa.

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Gabriele D’Annunzio

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Meriggio Alcyone Nell’ora più calda di un torrido pomeriggio estivo, il poeta è sulla spiaggia del litorale toscano, presso la foce dell’Arno, e contempla il paesaggio marino. A poco a poco si sente assimilare dagli elementi naturali che lo compongono fino ad arrivare, alla fine, a una fusione panica alla quale in questo testo D’Annunzio conferisce espressamente caratteri superomistici. «E la mia vita è divina»: con questa asserzione trionfante si chiude la lirica, una delle più suggestive di Alcyone.

A mezzo il giorno sul Mare etrusco1 pallido verdicante come il dissepolto 5 bronzo dagli ipogei2, grava la bonaccia. Non bava di vento intorno alita3. Non trema canna su la solitaria 10 spiaggia aspra di rusco, di ginepri arsi4. Non suona voce, se ascolto. Riga di vele in panna verso Livorno 15 biancica5. Pel chiaro silenzio6 il Capo Corvo l’isola del Faro7 scorgo; e più lontane, forme d’aria nell’aria8, 20 l’isole del tuo sdegno, o padre Dante, la Capraia e la Gorgóna9 Marmorea corona di minaccevoli punte, 25 le grandi Alpi Apuane

La metrica Quattro strofe lunghe (ognuna di 27 versi) con libero gioco di rime e assonanze. Chiude, isolato, un ottonario.

1 Mare etrusco: il mare Tirreno, su cui si affacciava l’antica Etruria (ora la Toscana).

2 pallido... ipogei: il mare appare di un colore verdastro (verdicante) pallido, simile a quello degli oggetti di bronzo recuperati dagli antichi tumuli sotterranei (ipogei) etruschi. 3 Non bava… alita: attorno non soffia un refolo (bava) di vento. 4 la solitaria... arsi: la spiaggia deserta irta

(aspra) di pungitopo (rusco) e di ginepri bruciati dal sole. 5 Riga di vele... biancica: una fila di barche a vela, bloccate dall’assenza di vento (in panna), biancheggia in lontananza, verso Livorno. 6 chiaro silenzio: sinestesia che associa il chiarore abbagliante del primo pomeriggio d’estate con il silenzio. 7 Capo Corvo... Faro: località che si affacciano sul golfo di La Spezia (compl. ogg. di scorgo, al v. 18, che regge anche l’isole del tuo sdegno ecc.). 8 forme d’aria nell’aria: forme (apposizio-

ne di isole) quasi incorporee (per la lontananza) nell’azzurro del cielo; con rima interna. 9 l’isole... la Gorgóna: la Capraia e la Gorgona, isole dell’arcipelago toscano, sono citate da Dante nel XXXIII canto dell’Inferno, in cui il sommo poeta esorta sdegnato le isole a muoversi verso la foce dell’Arno bloccando il fluire delle acque e annegando così i pisani, per vendicare l’orribile morte del conte Ugolino e dei suoi discendenti di cui si narra nel celebre canto.

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regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte10. La foce è come salso stagno. Del marin colore, 30 per mezzo alle capanne, per entro alle reti che pendono dalla croce degli staggi, si tace11. Come il bronzo sepolcrale 35 pallida verdica in pace quella che sorridea12. Quasi letèa, obliviosa, eguale, segno non mostra 40 di corrente, non ruga d’aura13. La fuga delle due rive si chiude come in un cerchio di canne, che circonscrive 45 l’oblìo silente14; e le canne non han susurri. Più foschi i boschi di San Rossore fan di sé cupa chiostra; ma i più lontani, 50 verso il Gombo, verso il Serchio, son quasi azzurri15. Dormono i Monti Pisani coperti da inerti cumuli di vapore16. 55

Bonaccia, calura, per ovunque silenzio. L’Estate si matura sul mio corpo come un pomo che promesso mi sia,

10 Marmorea corona... assunte: le Alpi

12 pallida verdica... sorridea: riprenden-

Apuane sono, per metafora, assimilate a una corona di vette marmoree (sono montagne ricche di marmo) che dominano il mare (regnano il regno amaro; costrutto arcaico transitivo), come fossero elevate verso il cielo (assunte) dal loro stesso orgoglio. 11 La foce... si tace: la foce dell’Arno se ne sta immobile (si tace), di un colore del tutto simile a quello del mare, tralucendo in mezzo ai capanni dei pescatori e le reti appese a pertiche incrociate (staggi); salso “salato”.

do l’immagine iniziale, il poeta rappresenta l’acqua della foce: se fino a poco prima sembrava sorridere come animata dalla brezza che la increspava, adesso giace immobile ed è di un verde smorto. 13 Quasi letèa... d’aura: simile al Lete, il fiume degli inferi pagani che portava l’oblio della vita alle ombre dei morti, l’acqua è immobile, senza segno di corrente o increspatura della superficie provocata dall’aria (ruga d’aura). 14 La fuga... l’oblìo silente: visto dalla foce, l’Arno sembra quasi essere chiuso

dalle due rive che in lontananza paiono congiungersi; e i canneti sembrano circoscriverlo in un silenzio dimentico di tutto (l’oblìo silente). 15 Più foschi... quasi azzurri: i boschi della tenuta di San Rossore appaiono come disposti in cerchio (chiostra); più scuri quelli vicini al punto d’osservazione del poeta, più chiari, quasi azzurri, sfumati nel colore del cielo, quelli più lontani, verso la foce del Serchio e il litorale del Gombo. 16 inerti cumuli di vapore: agglomerati di nuvole, immobili anch’essi per mancanza di vento.

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che cogliere io debba con la mia mano, che suggere io debba con le mie labbra solo17. Perduta è ogni traccia 65 dell’uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo18 umano m’abbandona. Non ho più nome. E sento che il mio vólto 70 s’indora dell’oro meridiano19, e che la mia bionda barba riluce come la paglia marina20; 75 sento che il lido rigato con sì delicato lavoro dall’onda e dal vento è come il mio palato, è come 80 il cavo della mia mano ove il tatto s’affina21. 60

E la mia forza supina si stampa nell’arena, diffondesi nel mare22; 85 e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore23. E io sono nel fiore 90 della stiancia24, nella scaglia della pina, nella bacca del ginepro: io son nel fuco25, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, 95 in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. 17 L’Estate... solo: in questa atmosfera sospesa, calda e d’immobile quiete, l’Estate (la maiuscola iniziale la personifica, la mitizza) è avvertita dal poeta come un frutto (pomo) maturo a lui solo promesso, un frutto di cui a lui solo sia dato godere. Irrompe nel testo la tematica superomista. 18 duolo: dolore, sofferenza. 19 oro meridiano: il colore dorato del meriggio.

20 paglia marina: sono le alghe secche arenate sulla spiaggia. 21 s’affina: acuisce la propria capacità di provare sensazioni. 22 E la mia forza... nel mare: la pressione che il poeta, sdraiato, esercita sulla sabbia, vi imprime la sagoma del suo corpo, che si dissolve nel mare al giungere delle onde. 23 e il fiume... il mio sudore: la metamorfosi continua, e il corpo del poeta si assi-

mila agli elementi naturali. Il termine pube è qui nella sua variante femminile (aulica, derivata direttamente dal latino). 24 stiancia: pianta palustre delle dune sabbiose. 25 fuco: varietà di alga.

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Ardo, riluco26. E non ho più nome. 100 E l’alpi e l’isole e i golfi e i capi e i fari e i boschi e le foci ch’io nomai27 non han più l’usato nome che suona in labbra umane28. 105 Non ho più nome né sorte29 tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte. E la mia vita è divina30. 26 riluco: risplendo di luce. 27 nomai: nominai. 28 non han più... labbra umane: insieme con il poeta, in questa fusione completa,

sono gli elementi naturali stessi ad aver perso il nome convenzionalmente loro attribuito. 29 sorte: destino.

30 E la mia vità è divina: il poeta-superuomo ha ormai superato la condizione umana per partecipare della vita divina.

Pierre Bonnard, Paesaggio marino nel Sud della Francia, c. 1945 (Collezione privata).

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

A livello di contenuto, la lirica è divisibile in due sequenze, corrispondenti rispettivamente alle prime due strofe e alle ultime due. 1. Dai un titolo nominale alle due sequenze e poi indica sinteticamente il loro rapporto in relazione al tema fondamentale della lirica. Le prime due strofe apparentemente hanno un carattere descrittivo, indicano il momento della giornata (il mezzogiorno) e delineano, quasi come in un quadro impressionistico, il paesaggio in cui si trova l’io lirico: la foce dell’Arno presso Marina di Pisa, dalla quale il suo sguardo spazia dai luoghi più vicini ai più lontani, individuati con precisione toponomastica, anche con riferimenti letterari. Tipico della poesia dannunziana è l’accumulo di parole e immagini, riscontrabile particolarmente in questo testo. 2. Nell’insieme dei riferimenti geo­grafici ne spicca uno letterario: individualo e poi riconoscine la funzione nel testo.

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In realtà nella descrizione naturalistica si insinua il costante riferimento al silenzio, all’immobilità stagnante che pervade il paesaggio, all’assoluta solitudine dell’io lirico: si crea così un clima di sospensione, che prepara la metamorfosi panica che occuperà le successive due strofe. 3. Quali espressioni (nomi, aggettivi, verbi) creano l’impressione di un assoluto silenzio? 4. Individua le immagini, i paragoni e ogni altro elemento, retorico e metrico-ritmico (ad es. le frequenti pause) che concorrono a suggerire il senso di opprimente immobilità che domina il paesaggio estivo. Sapiente, come sempre, è la ricerca di effetti fonici attraverso l’impiego delle figure di suono ed estremamente varia è la distribuzione delle rime all’interno della strofa lunga. La scelta sintattica privilegia la paratassi: prevalgono nettamente brevi frasi enunciative. 5. Individua nella prima strofa – rime (ci sono rime baciate?); – assonanze; – allitterazioni. 6. Quale effetto vuol creare il poeta attraverso le scelte sintattiche e il frequente ricorso all’enjambement? La seconda parte della composizione (III e IV strofa) si apre con una ripresa essenziale del tema dell’immobilità e del silenzio in due versi privi di verbo («Bonaccia, calura, / per ovunque silenzio»). Nei versi immediatamente successivi della terza strofa inizia a delinearsi il tema della metamorfosi e, parallelamente, l’io lirico emerge in primo piano, come evidenzia l’enfatica ricorrenza, da qui fino alla fine della lirica, del pronome di prima persona. La metamorfosi avviene in modo graduale: dapprima il poeta identifica l’estate in un frutto maturo proprio a lui destinato. Poi, in uno scenario in cui manca ogni altra presenza umana, l’io lirico inizia a perdere la sua identità e ad avvertire sempre più la comunione con la natura, attivata da una sempre più sottile capacità di percepire sensazioni. 7. Nella terza strofa, trascrivi le occorrenze pronominali o aggettivali di prima persona, che rimandano all’emergente centralità dell’io lirico. 8. Quale significato riveste la dichiarazione «Non ho più nome»? 9. Nella terza strofa, la comunione con la natura è sottolineata da una serie di paragoni. Individuali. La quarta strofa, relativamente allo slancio verso la fusione panica, è costruita in un crescendo che culmina nel verso finale, la cui forza suggestiva deriva dallo stacco rispetto al resto della composizione. Al ritmo lento della prima parte del testo, si sostituisce un ritmo martellante e trascinante: i versi sono tutti brevi e fondati su una struttura sintattica ripetuta. Segnala la dissoluzione dell’io nella natura l’eliminazione dei paragoni: ora il poeta “è” la natura («il fiume è la mia vena» ecc.). La perdita dell’identità intellettuale, culturale, sociale è sottolineata dall’iterazione della formula «Non ho più nome». 10. Quale effetto produce l’uso insistente del polisindeto e delle ripetizioni? 11. Le indicazioni geografiche precise scompaiono nella seconda parte del testo: come lo spieghi? 12. Qual è il significato della dichiarazione enfatica che chiude la poesia: «E la mia vita è divina»?

Interpretare

A proposito dell’estasi panica che chiude la poesia e conferisce a tutto il testo un significato, Roncoroni scrive: «egli attinge un suo “infinito” superumano e pagano e vi naufraga molto più dolcemente di quanto non succedesse al poeta romantico. [...] Nel momento culminante di questa formidabile esperienza, in verità, panismo e superomismo si danno la mano». 13. Commenta, in un testo di massimo 15 righe, le due affermazioni del critico. La prima implica un confronto con L’infinito leopardiano.

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Il mito di Icaro Alcyone, L’ala sul mare

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4 L’influenza e l’eredità di un poeta di successo La fortuna del personaggio D’Annunzio D’Annunzio vive e scrive in un contesto socio-culturale (dalla fine del XIX secolo al primo Novecento), in cui il prestigio e l’identità stessa dell’intellettuale, e in particolare del poeta, sono messi in discussione dall’avvento della società di massa e dalla graduale trasformazione del prodotto culturale in merce. D’Annunzio, che fin dall’inizio punta con determinazione al successo, rappresenta un caso quasi unico di grande notorietà presso un pubblico per quei tempi vasto, che egli riesce non solo a conquistare ma anche a influenzare. La fama di D’Annunzio si deve anche all’abile diversificazione della sua produzione in tutti i generi letterari, alla sua onnipresenza sulla scena culturale: dalla poesia al romanzo, al teatro, fino all’attività giornalistica e politica. Il “dannunzianesimo” L’influenza di D’Annunzio sui contemporanei si manifesta innanzitutto a livello di costume. Già il successo del Piacere, abilmente costruito, induce una vera e propria moda, che continua nel tempo: i giovani si atteggiano infatti a Andrea Sperelli, o a D’Annunzio stesso; i ricchi borghesi ne imitano il gusto negli arredi o ricercano gli stessi passatempi; le donne assumono gli atteggiamenti e l’abbigliamento delle femmes fatales dei suoi romanzi. Il dannunzianesimo (come il fenomeno è stato definito) è consapevolmente alimentato, come si è visto, dallo stesso D’Annunzio, abilissimo nel costruire il proprio mito, propagandando le proprie abitudini di dandy raffinato, la propria immagine di fascinoso seduttore, e in seguito anche di eroe di guerra sprezzante del pericolo. La vita inimitabile del poeta è di fatto la sua più fortunata opera d’arte, offerta come modello anche a quella piccola borghesia che pure D’Annunzio disprezzava, ma di cui sapeva cogliere e interpretare, come nessun altro, l’avidità di cose belle, i sogni di riscatto sociale. L’influenza politica Le doti di oratore trascinante, il vitalismo indomito fanno di lui un protagonista nella propaganda interventista e, ormai vecchio, raccolgono intorno alla sua nuova immagine di comandante ardimentoso, nell’impresa di Fiume, giovani che riesce a infiammare e aggregare. Grandissima è poi l’influenza dell’oratoria dannunziana sul fascismo che si appropria, più in generale, del suo stile politico: «Del fascismo D’Annunzio aveva [infatti] anticipato, con soluzioni di perfetta funzionalità sperimentate nel teatro e nell’oratoria interventista e fiumana, le strategie di coercizione emotiva, le modalità di un rapporto irrazionale e mistico [...] del Capo con le masse» (Senardi). D’Annunzio e il Novecento: tra contestazione e “attraversamento” In ambito letterario, più in particolare poetico, D’Annunzio ripropone l’immagine già romantica e poi carducciana, del poeta Vate, portavoce dello spirito della nazione, e punta a un registro alto, a una poesia sublime per temi e forme. Un’immagine e un ruolo della poesia che i giovani poeti e gli intellettuali che si affacciano alla ribalta letteraria subito dopo la scomparsa dell’Immaginifico quasi all’unanimità rifiutano, assumendo atteggiamenti e compiendo scelte apertamente polemiche nei confronti del maestro: si ha quasi l’impressione di un rifiuto programmatico nei confronti di un “padre scomodo” proprio perché ingombrante. È il caso dei futuristi (da Papini a Marinetti, a Soffici) che attaccano D’Annunzio, ma al contempo derivano da lui gli atteggiamenti antidemocratici, l’individualismo sprezzante, il vitalismo pagano, il culto esasperato dell’azione.

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Anche i crepuscolari rifiutano l’equiparazione dannunziana tra poesia e sublime, il repertorio superomistico, l’immagine del vate, ma dietro ogni loro scelta è presente il riferimento, anche se polemico, ironico o addirittura parodico (come nel caso di Gozzano) a D’Annunzio: in questo senso Senardi parla di «dannunzianesimo rovesciato» (ma d’altra parte uno dei modelli del riferimento alla dimensione semplice, umile, dimessa, prosastica tipica dei crepuscolari è proprio un’opera di D’Annunzio: il Poema paradisiaco). Già Montale, fin dall’inizio degli anni Cinquanta, aveva parlato di necessario “attraversamento” di D’Annunzio da parte della poesia moderna, cioè dell’obbligo per i poeti del Novecento di misurarsi con la lezione dannunziana, ma è stato un saggio fondamentale del critico P.V. Mengaldo (D’Annunzio e la lingua poetica del Novecento, 1972) a evidenziare autorevolmente l’effettiva presenza del modello dannunziano in molti poeti novecenteschi, a cominciare appunto dai crepuscolari, a prescindere dall’adesione ai temi della poesia dannunziana. Anche nei vociani la visione del mondo e la concezione della poesia sono antitetiche a quelle dannunziane, ma non mancano i debiti verso il poeta abruzzese, soprattutto a livello lessicale, e più in generale stilistico: una celebre composizione di Campana, La Chimera (➜ C13 T8 ), è dannunziana già nella scelta del titolo, ma i Canti orfici «sono tutti trapunti di lessico e di cadenze dannunziane» (Gibellini). Quanto a Montale, Mengaldo ha evidenziato innanzitutto il frequente riuso (all’interno però di un costante abbassamento tonale) del linguaggio alcyonico, ma la lezione dannunziana si avverte su più fronti: dalla ricerca di effetti fonici grazie soprattutto all’uso intensivo di rime interne e assonanze, alla ripresa di singole immagini come ad es. la «belletta di novembre» di Non recidere, forbice, quel volto (➜ VOL 3B C4 T10a ), che rimanda al madrigale Nella belletta (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 507). Come già nei crepuscolari, D’Annunzio è, sul piano di poetica e ideologia, un modello a cui contrapporsi, ma è comunque una presenza costante: dietro i poeti laureati nominati da Montale nella lirica programmatica I limoni c’è D’Annunzio stesso, ultimo poeta Vate, la cui poesia è evocata fin dall’imperativo iniziale: Ascoltami, che non può non richiamare l’appello rivolto a Ermione nella Pioggia nel pineto (Ascolta, ascolta...). Nonostante il netto rifiuto nei confronti delle sue idee, D’Annunzio ha esercitato sulla poesia novecentesca un’influenza consistente e persistente: ha contribuito a mediare la lezione simbolista, introducendola in Italia, ha sancito il primato del verso libero, poi dominante in tutta la poesia moderna, ed è ricorso spesso alla figura dell’analogia, che sarà poi ampiamente utilizzata soprattutto da Ungaretti.

D’Annunzio in una fotografia di Varischi & Artico, inizio Novecento.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Giorgio Bàrberi Squarotti vs Giulio Ferroni Proponiamo due interpretazioni critiche che leggono in modo opposto l’esperienza poetica e la figura di D’Annunzio. La prima è di Giorgio Bàrberi Squarotti (1929-2017), critico letterario, poeta e professore di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea; la seconda è di Giulio Ferroni (1943), critico letterario e professore di Letteratura italiana in varie università.

Giorgio Bàrberi Squarotti Le ragioni della sperimentazione dannunziana G. Bàrberi Squarotti. Invito alla lettura di Gabriele D’Annunzio, Mursia, Milano 1982

Il critico Bàrberi Squarotti invita a leggere la figura e l’opera di D’Annunzio nella sua totalità, superando i pregiudizi di tipo moralistico e politico, i luoghi comuni che hanno a lungo compromesso una corretta interpretazione dell’autore, ma anche le letture critiche riduttive, concentrate esclusivamente su singoli aspetti della sua vita e della sua attività. Questo studio monografico si iscrive nella più generale tendenza della critica negli ultimi decenni a una revisione complessiva di D’Annunzio, nel nome di una valorizzazione del suo importante ruolo intellettuale e culturale nel tempo.

L’attività letteraria di Gabriele d’Annunzio abbraccia più di cinquant’anni di storia culturale e politica, sempre attentamente accompagnata dalla creazione e dalla coltivazione1 di un mito biografico con cui d’Annunzio abilmente unì le vicende della sua scrittura, onde garantirsi non soltanto fama e successo, [...] 5 ma anche il costante ascolto del messaggio di volta in volta affidato alle varie opere e, infine, la presenza e l’inesauribilità dei materiali di vita e di esperienza da fissare [...] nella scrittura. Proprio per reggersi e potersi riproporre ai lettori per un così lungo arco di anni, l’opera dannunziana è inevitabilmente portata a scandirsi in un’accanita 10 sperimentazione di modi, di temi, di forme, di generi, di occasioni di scrittura, fra lirica e novella, romanzo e tragedia, poema e prosa di memoria, eloquenza politica e cronaca mondana, critica e diario [...]. Al tempo stesso, d’Annunzio 1 coltivazione: mantenimento (nel tempo).

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attraversa impavidamente [...] le più diverse vicende e mode della cultura europea fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, nell’ambizioso 15 tentativo di compendiarne, anzi di esaltarne in sé, nella sublime virtù della propria scrittura, ogni significato e ogni valore, al tempo stesso facendosi giudice e liquidatore di limiti, degradazioni, decadenze degli altri [...]. In questa prospettiva d’Annunzio si propone come il supremo ed estremo artifex2 che, sull’orlo della distruzione di ogni bellezza della natura e dell’arte a 20 opera della volgarità economica e speculativa3 della società borghese di massa, fa della propria opera, che è l’ultima proponibile prima del silenzio definitivo, il museo universale di tutto quanto di bello è esistito nella natura o è stato creato dall’arte nel passato o ancora esiste e ancora si crea pur nel cono d’ombra della distruzione e della fine che incombe sull’arte. Per questo d’Annunzio accoglie 25 e assume successivamente diversi modi e modelli: per adeguarsi al mutevole sviluppo delle tendenze, delle forme, delle idee, degli interessi, spesso cogliendo spunti e proposte appena abbozzate, ma subito riconosciute [...], come quelle che sono destinate alla fortuna della moda ovvero come quelle che meglio paiono definire la situazione storica [...]. 30 Ma c’è, in d’Annunzio, anche un’effettiva curiosità di provarsi con generi, motivi, linguaggio, poetiche quanto più è possibile diversi fra di loro, in una gara di abilità che è, poi, anche una gara con la molteplicità degli aspetti del mondo, con le possibilità della parola, con il carattere multiforme delle possibili invenzioni della letteratura come della vita, tutte da riconoscere e da sottoporre al 35 proprio inesauribile e inimitabile magistero. La lettura dell’opera dannunziana deve, di conseguenza, riconoscere queste che sono le strutture ideologiche che la reggono: l’esperimento, la diversità, la variazione delle forme, l’inventività [...], ma sempre sull’orlo del silenzio, con la coscienza di essere sul punto della morte dell’arte e della bellezza del passato, mentre una nuova arte, sì, si può 40 profetare e presagire, ma non ancora vedere davvero attuata, così come l’uomo destinato a rifondare i Valori e cancellare la decadenza e la morte e la volgarità dal mondo non riesce ancora a formarsi e a operare, e chi più tenta di avvicinarsi all’immagine di esso finisce a subire scacco e rovina4. Porsi davanti all’opera di d’Annunzio con il senno di poi del gusto mutato o della 45 diffidenza per le forme preziose e raffinate o per le vicende straordinarie e inverosimili, significa ancora una volta voler liquidare, in nome della diversità di stile e di linguaggio, le idee che d’Annunzio propone nelle sue opere e che appartengono a un’esperienza fondamentale della cultura europea fra Ottocento e Novecento, e anche l’effettiva azione trasgressiva ed eversiva che esse compirono [...]. 50 Se motivi e ragioni dell’opera di d’Annunzio ancora tanta resistenza e tanta opposizione incontrano, è anche perché permane un’idea di letteratura come ordine e misura, in rapporto con la quale la dismisura dannunziana appare un attentato e un’ingiuria, oppure l’idea della letteratura come rispecchiamento 2 artifex: in lat., letteralmente “artefice”. Qui si intende sottolineare il ruolo eccezionale del poeta, capace di trasfigurare la realtà. 3 volgarità... speculativa: gros-

solanità del pensiero economico e della bassezza del livello speculativo, cioè filosofico-ideologico. 4 l’uomo destinato... rovina: si allude alla figura del superuomo

che, nei protagonisti dei romanzi dannunziani, in cui l’autore si proietta, non riesce veramente a realizzarsi, ma è sempre destinato alla sconfitta.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

della sola realtà storico-fenomenica5 (e non come conoscenza e interpretazione). 55 L’invito alla lettura dell’intera opera di d’Annunzio vale anche come invito a riconoscere di nuovo il carattere estremamente complesso e polivalente della letteratura, la pluridimensionalità dei modi e delle forme di essa, e, altresì, ad attraversare veramente l’esperienza fondamentale della crisi dell’arte e della vita che troppi ottimismi ufficiali di diversi regimi hanno cercato di cancellare o, 60 almeno, di esorcizzare durante tutto il Novecento. 5 permane... storico-fenomenica: l’autore fa riferimento prima alla persistenza di un’idea sostanzialmente classicistica della letteratura, la cui visione estetica esalta l’“ordine” e la “misu-

ra”, quindi della visione propria del realismo (e del neorealismo del secondo Novecento) in cui la letteratura è concepita come “rispecchiamento” della realtà storico-fenomenica. Entrambe

le visioni sono incompatibili con il multiforme universo dell’arte dannunziana (per cui il critico parla di dismisura).

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Secondo il critico, quali motivazioni personali e quale valutazione relativa al proprio tempo inducono D’Annunzio a confrontarsi «in un’accanita sperimentazione» (rr. 9-10) con generi, modi, temi? 2. In che senso il critico parla dell’opera di D’Annunzio come «museo universale»? 3. Bàrberi Squarotti identifica il fondamento della mutevole storia artistica di D’Annunzio nei seguenti elementi: «l’esperimento, la diversità, la variazione delle forme, l’inventività» (r. 37): spiega e motiva l’affermazione, indicando anche esempi tratti dalle tue letture del poeta. 4. Quali concezioni estetiche, secondo il critico, possono impedire una corretta comprensione dell’opera dannunziana? 5. Il critico parla di un’azione «trasgressiva ed eversiva» (r. 49) che D’Annunzio ha esercitato nel suo tempo: condividi questo giudizio? Ci sono oggi, secondo te, personaggi pubblici che esercitano nel nostro tempo un’influenza simile a quella che il critico attribuisce a D’Annunzio?

Giulio Ferroni Un abile camaleontismo funzionale al mercato G. Ferroni, Gabriele D’Annunzio, in Aa. Vv., La cultura del 900, a c. di A. Berardinelli, Mondadori, Milano 1982

Il passo del critico Ferroni formula un giudizio del tutto discordante da quello di Bàrberi Squarotti: Ferroni vede nella versatile attività letteraria di D’Annunzio, sempre protesa verso l’innovazione, una risposta consapevole e pragmatica da parte del poeta alle leggi del mercato editoriale, che giudica in modo limitativo.

Fin dagli anni del primo soggiorno romano (la cui esperienza culmina nel romanzo Il piacere, 1889) D’Annunzio sa di destinare la propria opera a un mercato di massa: la sua ricerca di successo fa leva su di un’esplicita analisi dei meccanismi della produzione libraria e della diffusione dei modelli culturali; egli ha precisa coscienza 5 del fatto che sta nascendo un’industria culturale che può imporre degli oggetti mitici [...], sostenendosi magari su un’immagine tutta pubblicitaria dell’autore-produttore. L’identificazione estetizzante tra arte e vita è motivata in D’Annunzio non da un’autentica convergenza con contemporanee esperienze europee, ma da un diretto bisogno di mercato: la sua vita deve essere «inimitabile» come un’opera d’arte, perché 10 deve imporre l’immagine divistica dell’autore come feticcio1 singolare, supporto a 1 feticcio: oggetto di ammirata venerazione.

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una produzione che invece si sviluppa attraverso banali stereotipi, muovendosi meccanicamente tra generi ed esperienze diversi, che non è mai necessario approfondire. La famosa mutabilità di D’Annunzio, il suo camaleontismo2, non è altro che disposizione a produrre-riprodurre oggetti estetici in serie, con una sostanziale indifferenza 15 per la loro origine e provenienza. Gli oggetti in serie devono ogni volta far credere di essere unici e irripetibili, circondandosi di un’“aura” posticcia3, avvolgendosi in un compiaciuto narcisismo. Il lettore entra fino in fondo nel circolo produzioneconsumo se arriva a identificarsi con questa falsa irripetibilità. Si tratta di un “individualismo di massa” (legato chiaramente a un tessuto sociale ancora “arretrato”) 20 che nell’azione fascista troverà la sua più integrale traduzione politica. All’elaborazione di questi meccanismi D’Annunzio fa giocare materiali culturali del tipo più diverso, su una base che, a dispetto di4 tutti i suoi accostamenti alle esperienze simbolistiche e decadenti, resta assolutamente classicistica: egli ha comunque cancellato dal linguaggio classicistico della tradizione italiana l’impronta 25 accademica-professorale carducciana, creando il monstrum di un linguaggio classicistico massificabile5, aperto (anche se solo in superficie), a contatto col “parlato” e a suggestioni “musicali” (e queste aperture gli hanno per-messo un’ulteriore, equivoca sopravvivenza fino all’ermetismo e oltre). Il materiale culturale accumulato da D’Annunzio assicura di per sé la possibilità di 30 una “distinzione in serie”: tutta l’opera dannunziana può essere in realtà riconosciuta come uno sterminato museo. Una Italia “turistica” (dalla Roma del Piacere alla Venezia del Fuoco, 1900, alla Volterra di Forse che sì forse che no, 1910, e così all’infinito), mediocre emblema di una compiaciuta conquista piccolo-borghese del territorio nazionale, si maschera da scenario di passioni eccezionali; dipinti da mu6 35 seo si gabellano per oggetti destinati al godimento privato di personaggi che nella loro esistenza prolungherebbero le formule di un aristocratico rinascimento. La città dannunziana si atteggia a perfetto scenario estetico, secondo i connotati di un mondo pre-industriale che [...] annuncia già la propria vicina distruzione. E la natura

2 camaleontismo: straordinaria

3 “aura” posticcia: prestigio crea-

capacità di mutamento (il camaleonte è un rettile che può cambiare colore per mimetizzarsi).

to ad arte, credito artificiale. 4 a dispetto di: nonostante. 5 creando il monstrum… massificabile: creando il “fatto incredibi-

le, la stravaganza” (lat. monstrum) di un linguaggio classicistico – di per sé elitario, raffinato – che si apre ai gusti di massa. 6 si gabellano: si spacciano.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

dannunziana fa apparire le forme di un mondo contadino di maniera, abitato da una retorica ferinità primigenia7, da banali materiali georgico-mitologici; ben lungi dall’essere luogo della violenza originaria della stirpe (come ad es. pretenderebbe La figlia di Jorio, 1904) o di sottili vibrazioni analogiche (come ad es. pretenderebbe Alcyone, 1903), essa è piuttosto cassa di risonanza per declamazioni entusiastiche o per performances sportive ed erotiche. Quello che del resto sembra interessare di 45 più D’Annunzio, nei suoi attraversamenti del territorio nazionale, è l’elemento onomastico (interminabili successioni di nomi di artisti, di opere, di luoghi geografici, di personaggi storici ecc.): come a garantire alla piccola borghesia l’appropriazione totalizzante della cultura attraverso l’uso di un prezioso Baedeker8. 40

7 retorica ferinità primigenia: primordiale ferinità fittizia (si allude in particolare alle prime prove narrative di D’Annunzio, come Terra vergine (➜ T1 OL).

8 Baedeker: guida da viaggio per turisti. Secondo il giudizio (fortemente limitativo) di Ferroni, l’opera di D’Annunzio ha esercitato nei confronti del pubblico

piccolo-borghese un ruolo analogo a quello appunto di una guida turistica, è stata una specie di prontuario, di guida sintetica al Bello e alla cultura “alta”.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Dividi il testo in sequenze, cercando di ricostruire l’argomentazione del critico. 2. Nel testo sono presenti alcune espressioni che corrispondono a ossimori: individualismo di massa; linguaggio classicistico massificabile; distinzione in serie. Spiega quale funzione esercitano in rapporto al contesto. 3. Entrambi i critici usano per l’opera di D’Annunzio l’immagine metaforica del “museo” ma motivandola in modo molto diverso. Metti a confronto le rispettive posizioni di Bàrberi Squarotti e di Ferroni; poi cerca di formulare un tuo giudizio in merito (max 15 righe).

Fissare i concetti Gabriele D’Annunzio Ritratto d’autore 1. Quale fu la formazione letteraria di D’Annunzio? 2. Perché si può dire che D’Annunzio fosse alla ricerca di una vita inimitabile? 3. Quale posizione assunse D’Annunzio nei confronti della guerra? 4. Quale rapporto ebbe D’Annunzio con il fascismo? 5. Che ruolo ebbe nell’ideologia dannunziana il pensiero di Nietzsche? 6. Che cosa si intende con superomismo? 7. Quali sono i tratti essenziali della poetica dannunziana? 8. In che cosa consiste il panismo dannunziano? 9. Quale influenza ha avuto D’Annunzio sulla società e il costume? D’Annunzio prosatore e drammaturgo 10. Quali sono i romanzi più importanti di D’Annunzio? 11. Come viene presentato il mito dell’esteta e del superuomo nei romanzi di D’Annunzio? 12. Quali peculiarità presenta la figura di Andrea Sperelli, protagonista del Piacere? 13. Come si conclude il romanzo Il piacere? 14. P er quale motivo D’Annunzio decide di cimentarsi con l’attività teatrale? 15. P erché il teatro dannunziano può essere definito antiborghese e antirealista? D’Annunzio poeta 16. Quali sono le caratteristiche del Poema paradisiaco? 17. Qual è il progetto delle Laudi? 18. Quali temi vengono trattati in Alcyone? 19. Il Notturno ci mostra un D’Annunzio diverso rispetto alla sua precedente produzione poetica. In che senso?

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Secondo Ottocento Duecento e Trecento La letteratura Gabriele D’Annunzio cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Il legame tra vita e letteratura Gabriele D’Annunzio (1863-1938) ebbe un ruolo di primo piano non solo nella cultura del suo tempo ma anche nella politica e nel costume. In D’Annunzio vita e letteratura sono strettamente connesse e interdipendenti: nella sua opera (in particolare nei romanzi) rifluiscono perciò eventi, incontri, figure della vita dello scrittore. A sua volta la vita si conforma soprattutto a modelli estetici, al culto del Bello e successivamente anche al mito dell’azione eroica, del vitalismo: dopo la propaganda interventista in occasione della Prima guerra mondiale, D’Annunzio è protagonista di clamorose azioni belliche, in particolare l’occupazione di Fiume. L’evoluzione dell’ideologia e della poetica In una prima fase D’Annunzio si ispira soprattutto all’estetismo decadente europeo, di cui è testimonianza in particolare Il piacere (1889); poi il centro della sua visione del mondo, pur senza rinnegare la disposizione estetizzante, diventa il mito del superuomo, che D’Annunzio deriva da una lettura personale, abbastanza approssimativa, dell’opera di Nietzsche. Il mito del superuomo si radica in un terreno favorevole: l’individualismo, l’attivismo, il vitalismo, lo spirito antidemocratico erano propri di D’Annunzio ben prima che conoscesse Nietzsche. In ambito poetico D’Annunzio è uno straordinario virtuoso della parola, di cui sfrutta la forza evocativa e la suggestione musicale.

2 D’Annunzio prosatore e drammaturgo

Il distacco dal modello verghiano D’Annunzio esordisce in campo narrativo seguendo la lezione verghiana, ma la sua prima raccolta di novelle (Terra vergine, 1882) mostra in realtà una netta distanza dal verismo verghiano, sia per il sostanziale disinteresse al documento di interesse sociale, sia per la tecnica narrativa, ben lontana dall’impassibilità verista.

L’estetismo del Piacere Il primo romanzo di D’Annunzio è anche il più celebre: Il piacere (1889) impone sulla scena letteraria italiana la figura di un esteta (in cui l’autore stesso si autoritrae) che conduce una vita dissipata alla ricerca della Bellezza e del piacere. Romanzi sul modello russo Sulla scia dell’interesse per il grande romanzo russo di Dostoevskij e Tolstoj, D’Annunzio compone alcuni romanzi “psicologici” (Giovanni Episcopo, L’innocente) contraddistinti dal ripiegamento e dalla ricerca di affetti familiari; ma si tratta di una ricerca contraddittoria e forse non veramente autentica. La fase superomistica La lettura di Nietzsche comporta l’introduzione della tematica del superuomo nel pensiero e nell’opera dannunziani: nei romanzi questa tematica conosce diverse valenze e manifestazioni. Nelle Vergini delle rocce la tensione superomistica si associa al tema del riscatto politico, da un presente privo di valori e di ideali in un’ottica violentemente antidemocratica. Incarnano in vario modo il superuomo i tre protagonisti di Trionfo della morte, Il fuoco e Forse che sì forse che no. Ma si tratta sempre di un superuomo mancato, che non riesce a realizzarsi, apparentemente per il dominio distruttivo di figure femminili, ma in realtà per un’intima debolezza e un’oscura pulsione di morte. Il teatro La concezione superomistica si manifesta anche nella drammaturgia. D’Annunzio utilizza il teatro come mezzo per diffondere le sue idee fra un vasto pubblico. Si tratta di un

Sintesi

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teatro che per temi e scenari si contrappone al teatro borghese mettendo in scena grandi passioni degne della tragedia classica e utilizzando in alcuni casi il verso. Il dramma più riuscito è La figlia di Iorio, incentrato sul tema dell’invincibilità dell’attrazione erotica. L’ultimo D’Annunzio: la fase “notturna” Nel 1916 compone il Notturno, una serie di ricordi, pensieri, riflessioni, composti al buio, mentre era convalescente da un incidente che lo aveva privato della vista. La situazione particolare favorisce inedite scelte stilistiche: il poeta abbandona l’enfasi magniloquente per una prosa essenziale e si concede un ascolto più sincero della propria interiorità, esplorando l’ombra, il lato oscuro di sé stesso.

3 D’Annunzio poeta

Gli esordi e il periodo romano D’Annunzio pubblica giovanissimo la sua prima raccolta di versi, Primo vere, sul modello carducciano. Il successivo periodo romano, dopo alcune raccolte contrassegnate da sensualità e vitalismo, si chiude con il Poema paradisiaco, d’ispirazione intimista. Il grande progetto delle Laudi Nel 1903 D’Annunzio pubblica le Laudi, i primi tre libri (Maia, Elettra, Alcyone) di un ciclo di sette dal titolo complessivo di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, un ambizioso progetto poetico che non fu portato a compimento. Maia è un lunghissimo poema, strutturato sul tema del viaggio, in cui l’io lirico si fa mediatore tra passato e presente; Elettra è un’enfatica rievocazione del glorioso passato della civiltà italiana in una prospettiva più strettamente politica e nazionalistica; ma è al terzo libro, Alcyone, che è affidata la fama di D’Annunzio poeta. La natura del libro è più propriamente lirica: attraverso il diario di un’estate, D’Annunzio rappresenta il tema della fusione panica io-natura e sperimenta una poesia incentrata sulla musicalità della parola, secondo i dettami della poetica decadente, con risultati poetici spesso molto alti. Influenza ed eredità di D’Annunzio Gabriele D’Annunzio è uno dei poeti più noti, ma anche più discussi, della letteratura italiana. Assai celebre al suo tempo, anche per il protagonismo che ispirò il suo modo di vivere, subì poi una specie di censura da parte della critica e del pubblico, soprattutto perché considerato in qualche modo legato al fascismo, della cui retorica nazionalistica fu effettivamente l’ispiratore e il precursore. Oggi si vede nella sua figura di intellettuale e nella sua opera un’eloquente testimonianza del clima ideologico (in cui emergono istanze irrazionalistiche e antidemocratiche) e delle tendenze letterarie (estetismo e simbolismo) presenti in Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento e che riconoscono in D’Annunzio (insieme a Pascoli) uno dei precursori della poesia moderna. Anche le correnti poetiche che hanno avversato e rifiutato il suo modello ne sono state influenzate.

Zona Competenze Scrittura

1. Scrivi un breve testo (max 15 righe) sul Notturno, immaginando di doverlo pubblicare come introduzione a un’edizione scolastica dell’opera. 2. Negli ultimi decenni è stata sempre più messa in luce la capacità di D’Annunzio di confrontarsi con il mercato editoriale. Facendo riferimento alla sua biografia e all’opera complessiva, in un testo di massimo 15 righe, presenta le modalità con cui lo scrittore affrontò il mercato del suo tempo e i diversi esiti che ne conseguirono.

Esposizione orale

3. Per una relazione orale (max 8 minuti) ricostruisci scelte, situazioni, esperienze biografiche in cui si rispecchia la concezione dannunziana della vita come opera d’arte.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Gabriele D’Annunzio

Nella belletta Alcyone Versi d’amore e di gloria, I, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1982

Nella belletta1 i giunchi hanno l’odore delle persiche mézze2 e delle rose passe3, del miele guasto e della morte. Ora tutta la palude è come un fiore lutulento4 che il sol d’agosto cuoce, con non so che dolcigna5 afa di morte. Ammutisce6 la rana, se m’appresso. Le bolle d’aria salgono in silenzio. 1 belletta: fanghiglia stagnante nelle zone paludose.

2 persiche mézze: pesche quasi marce. 3 passe: appassite, sfiorite.

4 lutulento: fangoso. 5 dolcigna: dolciastra. 6 ammutisce: ammutolisce.

Comprensione e analisi

1. Presenta sinteticamente il contenuto della poesia. 2. Di cosa è simbolo la belletta? 3. Spiega la rilevanza delle sensazioni olfattive presenti nel componimento. 4. Analizza la poesia dal punto di vista sintattico e motiva le scelte dell’autore. Ti sembra che la struttura del testo sia semplice o complessa?

Interpretazione

5. Commenta le immagini presenti nel distico finale. Quale impressione ti comunicano? Facendo riferimento alla produzione poetica di D’Annunzio e/o di altri autori o forme d’arte e te noti, elabora una tua riflessione sul tema del disfacimento e della morte nella letteratura e nell’arte.

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo A. Savinio1, Pronomi, in Nuova enciclopedia, Adelphi, Milano 1985

Sulla controversia tra lei e voi non ho udito ancora la parola giusta, che è questa: il passato regime2 ha voluto imporre l’uso del voi non perché il voi è più italiano del lei, non perché è meno servile, non perché è di più facile articolazione nel plurale, ma perché il voi è dannunziano. «Dannunziano» è più che una forma letteraria, più che una variante dell’estetismo, più che l’imitazione dell’opera e della vita di Gabriele D’Annunzio: è una condizione fisiologica. Dannunziani si nasce, non si diventa.

1 Savinio: Alberto Savinio (1891-1952), pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico (fratello del pittore Giorgio de Chirico), scrittore, pittore e musicista.

2 passato regime: si fa riferimento al regime fascista.

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Il dannunzianesimo precede la nascita di colui che a questa forma mentale ha dato il proprio nome, ossia di Gabriele D’Annunzio, e le sue origini affondano nella notte dei tempi. Gli uomini del passato regime erano tutti dannunziani a cominciare dal loro capo, e il fascismo stesso nella sua essenza e nelle sue manifestazioni esteriori non era se non un’emanazione del dannunzianesimo. Prima di diventare il pronome «obbligato» degli uffici pubblici, della prosa dei giornali e dei dialoghi delle commedie dei film, il voi era il pronome usato dai dannunziani, ossia dai cattivi letterati, dagli attori «eleganti» (a differenza degli attori popolari che hanno sempre fatto uso del lei) e soprattutto delle donne intellettuali e mondane. Nel tentativo di costringere gli italiani ad abbandonare il lei e a fare uso del voi, era implicita la volontà di ridurre tutti gli italiani alla condizione dei cattivi letterati, degli attori «eleganti» e delle donne intellettuali e mondane, in una parola dei dannunziani. Criticare quello che è stato è vano, ed io non critico: denuncio un vizio che sotto il passato regime raggiunse uno stato di virulenza, ma che preesisteva al passato regime e che in Italia anzi esiste allo stato endemico: quel virus dannunziano che anche alle cose più semplici e naturali dà una forma estetizzante, tronfia e cafona, e si riassume nei princìpi del «rendere la vita bella» e del «vivere pericolosamente»: forma rettorica3 tra le più perniciose, che come tale va perseguitata inesorabilmente e distrutta […]. Si sono compilati dei vocabolari per facilitare la comprensione della lingua di D’Annunzio: si compilino piuttosto dei vocabolari delle parole dannunziane, perché gli italiani imparino a conoscerle e evitarle. 3 rettorica: grafia arcaica per retorica.

Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è la tesi sostenuta da Savinio? 2. Che cosa intende dire Savinio quando definisce ciò che è «dannunziano» come «una condizione fisiologica»? 3. Per quale motivo Savinio definisce il virus del dannunzianesimo in Italia «endemico»? 4. Quale invito fa Savinio nell’ultima parte del testo? Con quale scopo? Dopo aver letto le considerazioni dello scrittore Alberto Savinio, rifletti su quale ruolo assuma nella nostra vita il vizio dell’apparire, che porta a mostrarsi diversamente da quello che si è e a camuffare la realtà, abbellendo «anche le cose più semplici e naturali».

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il critico Carlo Salinari (1919-1977), in Miti e coscienza del Decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano 1960, individua nel clima storico politico che caratterizza l’ultimo scorcio del Novecento e nell’influenza del pensiero di Nietzsche l’inevitabile «punto di arrivo della personalità dannunziana», segnata dal velleitarismo cioè dalla «sproporzione, nel superuomo, fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà, tra la tensione spasmodica della volontà e la sua capacità di concretarsi». Partendo dalle parole del critico e traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, rifletti su quanto la megalomania, fondata sulla sproporzione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, possa segnare la natura umana.

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Primo Novecento

Scenari socio-culturali L’età della crisi e le avanguardie Nel primo Novecento al modello positivistico si contrappongono nuovi modelli di pensiero: dal tempo-durata di Bergson, al superuomo di Nietzsche, alla nuova visione dei fenomeni psichici di Freud: teorie che eserciteranno larga influenza sulla letteratura. In Italia, nelle riviste fiorentine, si afferma un clima irrazionalistico e antidemocratico. In editoria decade il romanzo storico-patriottico e si afferma il romanzo d’appendice, così chiamato perché è pubblicato come supplemento dei giornali con l’obiettivo di incrementarne l’acquisto. Straordinario successo ebbero anche i romanzi d’avventura esotici. Si accellera il processo di unificazione linguistica grazie ai mezzi di comunicazione di massa, alla diffusione dell’istruzione, all’emigrazione, alla leva obbligatoria.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Generi e forme della letteratura 4 L’evoluzione della lingua 511 511

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L’età della crisi e le avanguardie Sguardo sulla storia L’età giolittiana I primi quindici anni del Novecento rappresentano per l’Italia una fase di sviluppo. Il decollo industriale al Nord è sostenuto dalla politica liberale di Giolitti, che cerca di conciliare gli interessi della borghesia imprenditoriale con quelli del proletariato. Il progetto di democratizzazione dello Stato italiano culmina con l’introduzione nel 1912 del suffragio universale maschile. Nello stesso anno nasce il Partito popolare che, insieme al Partito socialista, segna la fine dell’egemonia politica dei gruppi liberali ottocenteschi. La conquista della Libia (1911) è invece una concessione alle forze nazionalistiche. La prima guerra mondiale Il 28 giugno 1914 l’assassinio a Sarajevo di Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, fa precipitare i conflitti accumulatisi tra gli Stati europei: il contrasto per le colonie tra inglesi e tedeschi, le contrapposte mire espansionistiche di Austria e Russia, la volontà di rivalsa della Francia sulla Prussia, le aspirazioni indipendentistiche nei Balcani. La conseguenza è un lungo conflitto di posizione e di trincea, con costi umani altissimi. Nel 1917 l’Intesa (Inghilterra, Francia, Italia) perde come alleato la Russia, dove è iniziata la Rivoluzione, ma acquista gli Stati Uniti. Nell’autunno del 1918 la controffensiva sui fronti francese e italiano costringe gli imperi centrali alla resa.

Cronologia interattiva 1900

Il re Umberto I viene ucciso dall’anarchico Bresci. 1911

Conquista italiana della Libia.

1900

1905

1915

Entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa.

1910

1915

1914

Assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e inizio della Prima guerra mondiale.

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Alla fine della guerra la geografia politica europea è profondamente cambiata: sono scomparsi gli imperi germanico, austro-ungarico e ottomano, mentre nasce l’Unione sovietica. Alla conferenza di pace di Versailles (1919) la Germania subisce pesanti condizioni di pace e nasce la Società delle Nazioni. L’Italia in guerra L’Italia entra in guerra nel 1915 a fianco delle potenze dell’Intesa, abbandonando la Triplice alleanza a cui la legava un patto difensivo, con l’obiettivo di completare l’unità della nazione. Dopo la pesante sconfitta subita a Caporetto nel 1917, l’attacco di Vittorio Veneto nell’autunno del 1918 contribuisce alla resa degli imperi centrali. Il dopoguerra Alla fine della guerra sono forti le tensioni sociali causate da inflazione, carovita e disoccupazione che colpiscono operai e contadini ma anche il ceto medio. Grande è la delusione dei reduci per le promesse disattese e per la “vittoria mutilata” (i modesti riconoscimenti territoriali all’Italia). I Fasci di combattimento, fondati a Milano nel 1919 da Mussolini, ottengono vasti consensi tra gli ex combattenti con un programma di sostegno dei loro diritti e di richiesta di mutamenti sociali. Le proteste degli operai (1920) con l’occupazione delle fabbriche mettono in evidenza la difficoltà delle istituzioni liberali ad affrontare la crisi e orientano l’opinione pubblica moderata verso una soluzione politica autoritaria, favorita dalle violenze delle squadre fasciste nel 1921 e 1922.

1919-1921

Il biennio rosso in Italia con l’occupazione delle fabbriche. 1919

1922

Nascita della Società delle Nazioni.

Marcia su Roma.

1920

1925

1930

1919

Trattato di Versailles delle potenze dell’Intesa con la Germania.

1917

Rivoluzione russa.

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1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura crisi della visione democratico-progressista 1 La e l’avanzare del nazionalismo Nel primo Novecento entra in crisi la visione democratico-progressista che aveva caratterizzato l’età del Positivismo, una visione che aveva coinvolto e orientato anche la cultura e la letteratura, soprattutto in Francia. Nella patria del Naturalismo Zola e altri scrittori avevano veramente creduto che la denuncia da parte della letteratura e degli intellettuali dei mali della società, dell’oppressione delle classi popolari, avrebbe contribuito alla risoluzione dei problemi. Si afferma, al contrario, un’idea del popolo come “massa” (➜ VOL 3B PAG. 42), il cui consenso occorre con tutti i mezzi e a tutti i costi assicurarsi da parte di chi detiene il potere o intende conquistarlo. Caratterizza poi marcatamente i primi decenni del Novecento l’affermazione di una visione politica nazionalista, fondata sull’idea che la nazione e la difesa dei suoi interessi, del suo prestigio internazionale sia superiore a ogni rivendicazione sociale: in questo periodo si verifica la trasformazione degli ideali nazionali, propri della prima metà dell’Ottocento, in un nazionalismo aggressivo, fondato sulla espansione imperialistica. La competizione tra le nazioni finisce per sfociare, quasi naturalmente, nella guerra, complici gli interessi economici legati all’industria bellica. Già nei primi anni del Novecento si verifica una vera e propria “corsa agli armamenti” e, nelle classi dirigenti, si cominciò a guardare alla guerra come mezzo per arginare i conflitti sociali e per consolidare la coesione nazionale. Le tendenze nazionalistiche si affermano anche in Italia, associandosi a un culto dell’attivismo giovanile, della forza e persino della violenza, che troveranno poi piena attuazione nella propaganda e nella prassi politica del fascismo.

2 Un’epoca dominata dal culto della velocità L’automobile Nel primo Novecento continua e si accentua, in rapporto alle esigenze del capitalismo industriale, la creazione di nuove tecnologie e di nuove macchine che trasformano i modi di vivere, la mentalità e plasmano l’immaginario, nel quale domina l’esaltazione del dinamismo, dell’energia vitale, della velocità. Esaurita la novità del treno, sarà l’automobile ad ereditarne il ruolo di simbolo di modernità, velocità, contrapposte ai ritmi lenti del passato. Nel celebre manifesto futurista del 1909 Marinetti addirittura arriva a anteporre la bellezza dell’automobile in corsa alla celebre statua classica della Vittoria alata di Samotracia (➜ C12 T1 ). L’automobile nasce alla fine del secolo (la FIAT in Italia è fondata nel 1899), ma, dati i costi elevati, rimarrà per decenni in Europa mezzo di trasporto esclusivo, più che altro uno status symbol elitario: così certamente lo interpreta D’Annunzio. Fin dall’inizio l’automobile si lega al mito della velocità, fortemente sentito nel primo Novecento. L’ebbrezza della velocità è così descritta da Mario Morasso nello

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scritto La nuova arma (la macchina), del 1905: «La velocità ha, per così dire, su di noi l’effetto delle sostanze estasianti, è una specie di oppio, di morfina immateriale e invisibile, al pari di questi inebrianti essa pare che ci trasporti fuori di noi, che sostituisca alla nostra personalità consueta, affannosa, tediosa e dolorosa una personalità diversa, intatta e fresca, un’anima novella». Non a caso D’Annunzio, abilissimo nel recepire i temi e le tendenze culturali emergenti, apre il romanzo Forse che sì, forse che no (1910) con l’immagine di un’automobile lanciata a folle velocità, in cui due amanti, Paolo e Isabella, sfidano la morte per provare l’ebbrezza del rischio. Le automobili cercano ben presto di viaggiare sempre più velocemente ma anche le grandi navi, adibite ai viaggi transcontinentali sfidano arditamente i tempi di percorrenza dei tragitti: la tragedia stessa del Titanic, lussuosa nave da crociera naufragata durante il viaggio inaugurale per la collisione con un iceberg nella notte del 14 aprile 1912, si verificò proprio perché la nave avanzava tra i banchi di ghiaccio a tutta velocità (il commediografo George Bernard Shaw e lo scrittore Joseph Conrad al proposito lanciarono sui giornali del tempo pesanti accuse pubbliche). Si realizza un sogno impossibile: l’uomo vola Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vengono costruiti i primi aeroplani. Delle molte invenzioni ideate in questa epoca l’aereo è forse la più sconvolgente e quella che più si presta a incarnare la modernità, realizzando uno dei sogni impossibili dell’uomo, quello di volare. Gli aeroplani svolgeranno un primo ruolo importante durante la Prima guerra mondiale, ma dovranno passare più di cinquant’anni perché vengano adibiti a mezzo di trasporto. Tuttavia il volo amatoriale si impone prestissimo all’ammirazione collettiva: in Forse che sì, forse che no, D’Annunzio (è lui a coniare il termine velivolo) tenta di produrre un’“epica del volo” nelle pagine memorabili che rappresentano una delle prime, mortali, sfide aeree (➜ D1 ). D’Annunzio stesso vola per la prima volta già nel 1909 e in guerra si distinguerà per spericolate imprese nei cieli.

Gabriele D’Annunzio e Natale Palli nell’aeroplano biposto che li condurrà sui cieli di Vienna nel 1918.

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Gabriele D’Annunzio

Una nuova epica: il volo dei primi aeroplani

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Forse che sì, forse che no Il passo, tratto dal romanzo di D’Annunzio Forse che sì, forse che no (1910) ritrae il volo di un aeroplano durante una gara. Nella gara si sfidano due amici: Giulio Cambiaso e Paolo Tarsis, uno dei personaggi principali del romanzo. Nell’ebbrezza della sfida estrema Giulio Cambiaso rischierà troppo, portandosi a un’altezza eccessiva. L’aereo precipita e il giovane pilota muore.

G. D’Annunzio, Forse che sì, forse che no, Fondazione del Vittoriale degli Italiani, Roma 1939

Come l’aquila nella valle arenosa1 non balza a volo ma parte con rapido passo, corre accompagnando la corsa con un crescente fremito di penne, si separa dalla sua propria ombra salendo con debole erta2, alfine si libra su la vastità dell’ali rimontando il filo del vento: prima gli artigli segnano impronte profonde, dopo a grado a grado 5 più lievi, sinché sembrano appena scalfire la sabbia, e l’ultima traccia è invisibile: così la macchina3 su le sue tre ruote leggere correndo nel fumo azzurrigno, quasi che l’erbe secche della brughiera le ardessero sotto, lasciava la terra. Rapidamente s’inalzò. Alla manovra del timone d’altura4 beccheggiò5 fuggendo i mulinelli, che sorgevano dal calore del suolo per aggirarla in piccole volute. Affrontò 10 il vento; e aveva l’oscillazione del gabbiano quando rimonta6, simile a quella dell’acrobata su la corda tesa. S’inchinò verso la prima meta nella virata; si raddrizzò; diritta e veloce a saetta percorse la linea verde della pioppaia7 di Ghedi; sorpassò i casali, contrastando ai rìfoli8, orzeggiando9 di continuo; entrò nel riverbero candido delle nuvole, fu bella come la figura del dio solare di Edfu10, come l’emblema so15 speso su le porte dei templi egizii, tutt’ala11.

1 arenosa: sabbiosa. 2 con debole erta: con una lenta salita. 3 la macchina: l’aereo. 4 timone d’altura: è il timone di profondità (altura è termine marinaresco, propriamente); il timone è la parte mobile dell’impennaggio verticale di un aereo con cui si mantiene o si varia il moto in senso verticale, in questo caso (in senso

orizzontale con il timone di direzione). 5 beccheggiò: oscillò (termine tecnico usato per lo più nella navigazione delle imbarcazioni a vela). 6 rimonta: risale verso l’alto. 7 pioppaia: piantata di pioppi, pioppeto. 8 contrastando ai rìfoli: cercando di contrastare la forza dei colpi di vento. 9 orzeggiando: portando la prua verso la

direzione del vento; orzeggiare (per il più comune orzare) è usato nella navigazione a vela. 10 dio solare di Edfu: il falco. Riferimento al tempio egizio di Edfu, antico luogo di culto dedicato a Horus, divinità dei cieli, che aveva la sua manifestazione (ipostasi) nel falco. 11 tutt’ala: ad ali spiegate.

Concetti chiave Uno stile virtuosistico per un’epica moderna

Da gran virtuoso della parola D’Annunzio offre qui un saggio della sua abilità nel rappresentare il volo dell’aeroplano, assumendo il ruolo, che lo scrittore abruzzese sentiva particolarmente, di “cantore epico della modernità”: questo ruolo, nel momento in cui egli si accinge a descrivere un oggetto e una situazione ancora ignoti alla letteratura (il volo dei primi aerei, appunto), si concretizza in due direzioni: da un lato lo scrittore utilizza termini tecnici, attinti al lessico della navigazione (beccheggiare, timone d’altura, orzeggiare), dall’altro innalza il racconto a un livello epico attraverso una prosa sostenuta e soprattutto con l’uso di ampi paragoni, come quello d’apertura, che ricordano i testi omerici, o di immagini “alte” come quella finale, allusiva al simbolo alato che sovrasta le porte dei tempi egizi. Le scelte dannunziane ricordano da vicino le soluzioni ideate da Vincenzo Monti un secolo prima, quando decise di farsi cantore epico del volo della prima mongolfiera (Ode al signor di Mongolfier).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il testo proposto. STILE 2. Individua e spiega paragoni e metafore presenti nel testo.

Interpretare

SCRITTURA 3. Spiega quali elementi testuali (immagini, espressioni, stile ecc.) rimandano all’intenzione di D’Annunzio di creare un’“epica del moderno”.

Anche in ambito artistico si sviluppa nel primo Novecento una vera e propria “estetica della velocità” ad opera di futuristi, frutto di studi e ricerche cromatiche, plastiche e fotografiche (fotodinamica). Ad esempio, Giacomo Balla, che dal Dinamismo di un cane al guinzaglio a del 1912 (in cui il concetto di movimento è raffigurato tramite la replica in successione di soggetti “figurativi” in moto), attraverso la Velocità di automobile (1913) b , approda nel 1913-14 con Velocità astratta c alla rappresentazione della velocità in sé, senza riferimenti.

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A sua volta, un altro grande futurista, Umberto Boccioni testimonia con varie prove plastiche (alcune purtroppo andate distrutte) e pittoriche questa ricerca sui centri di forza e sul dinamismo. Nel 1913 il bronzo Forme uniche nella continuità dello spazio d è «la rappresentazione dei moti della materia nella traiettoria che ci viene dettata dalla linea di costruzione dell’oggetto e della sua azione» (come scrisse lo stesso artista); l’anno dopo, in Dinamismo di un corpo umano (I) e , le forme-colore diventano «forze centrifughe», in una s-composizione che risolve in un modo nuovo i contrasti di forma e colore.

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La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 517

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3 La metamorfosi dell’idea del tempo Il concetto della relatività del tempo Già nel secondo Ottocento inizia a essere discussa la nozione di tempo assoluto e oggettivo. È prima di tutto l’ambito scientifico a mettere in discussione questo concetto: si fa strada l’idea secondo cui le coordinate temporali sono relative a un sistema specifico di riferimento: per il fisico e filosofo Ernst Mach (1838-1916) il tempo assoluto è «un’inutile concezione metafisica». Su questa strada Albert Einstein arriverà a smantellare la nozione di tempo assoluto: per il grande fisico il tempo esiste solo quando se ne effettua una misurazione, e tali misurazioni variano a seconda del moto relativo dei due oggetti implicati. Nella legge della relatività generale del 1916 Einstein conclude che «ogni sistema di riferimento ha il suo proprio tempo»: all’immagine dell’universo come «unico orologio» propria della meccanica classica, Einstein oppose la teoria dei «molti orologi». Contribuisce a demolire l’idea di tempo assoluto anche la filosofia: in particolare il filosofo francese Henri Bergson (➜ PAG. 519) sostiene che il tempo ha una natura essenzialmente fluida, è “durata”, non semplice somma di “atomi temporali”. Tempo e letteratura La letteratura non può non risentire delle nuove concezioni: se i grandi romanzi naturalisti e veristi hanno come sfondo una concezione “spazializzata” e scientifica del tempo, secondo la quale gli eventi si iscrivono in un’ordinata successione cronologica, nella letteratura primo-novecentesca subentra invece la visione di un tempo “fluido”, un tempo interiore, in cui passato e presente sono interconnessi. Il tema del tempo sarà al centro della grande narrativa del primo Novecento, da Proust a Joyce, da Svevo a Virginia Woolf (➜ C16): addirittura la Recherche di Proust è stata definita un «libro sul tempo» (➜ C16), ma la stessa cosa si potrebbe dire anche per La coscienza di Zeno (➜ C18). La più ardita rappresentazione del tempo interiore si ritrova nell’Ulisse di Joyce (1922): nel caotico “flusso di coscienza” di Molly (➜ C16 T5 ) Joyce rappresenta la compresenza di passato-presente-futuro. La valorizzazione del passato personale Nella letteratura primo-novecentesca al mito del passato storico, caro all’età del Romanticismo (si pensi all’esaltazione dell’età medievale ricorrente in molti testi), si sostituisce la centralità del passato individuale, di cui per la prima volta filosofi, psicologi e scrittori avvertono l’importanza. In particolare la teoria freudiana (➜ PAG. 520) attribuisce alla storia passata dell’individuo la possibilità di orientare in modo decisivo l’assetto della personalità: nel metodo psicoanalitico rivivere il passato remoto attraverso la guida dell’analista è l’unico modo per risolvere nodi conflittuali che creano al soggetto gravi problemi esistenziali.

La natura del tempo visione del tempo non più solo oggettivo

in fisica teoria della relatività (Einstein)

in filosofia tempo come durata interiore (Bergson)

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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 L’antipositivismo e i nuovi modelli di pensiero La contestazione del modello positivista Il modello positivistico e scientista, con il corollario di un determinismo meccanicistico, viene attaccato già nello stesso ambito scientifico: vengono messe in discussione le nozioni “oggettive” di tempo-spazio e i presupposti stessi della fisica newtoniana. In ambito filosofico il positivismo viene messo in discussione da pensatori che, pur da diverse posizioni, sostengono l’impossibilità di assimilare scienze della natura e scienze dello spirito e attaccano la visione materialistica e l’evoluzionismo, tentando di costruire modelli di pensiero alternativi al razionalismo positivistico. Di Friedrich Nietzsche abbiamo già parlato (➜ SCENARI PAG. 66), altri pensatori che incidono fortemente sulla visione del mondo del tempo sono sicuramente Henri Bergson e Sigmund Freud. Quest’ultimo appartiene all’ambito medico, ma l’ideazione del metodo di cura psicoanalitico che a lui si deve (ed è tuttora utilizzato) estende la sua importanza ben oltre l’ambito medico: investe infatti i campi della mentalità, della cultura e della stessa letteratura.

Bergson e il tempo-durata Dal tempo spazializzato al tempo interiore L’esponente più noto in Francia della rivincita antipositivistica è Henri Bergson (1859-1941), che esercita un grande influsso ben al di fuori della cerchia ristretta dei filosofi e degli accademici: le sue lezioni, seguite da un numerosissimo pubblico, anche femminile, diventano un vero e proprio appuntamento mondano. Nelle sue opere principali (Materia e memoria del 1896; L’evoluzione creatrice del 1907) Bergson confuta l’applicazione dei metodi scientifici nello studio dei fenomeni che riguardano la coscienza, con un particolare riguardo al tema del tempo: egli sostiene che esiste una differenza radicale fra temporalità dei fenomeni e fatti naturali (di cui si occupa la fisica) e temporalità dei fatti di coscienza. Questi ultimi non si succedono in modo prevedibile e misurabile, non sono una successione di istanti tutti uguali, misurabili meccanicamente dall’orologio. Il tempo della coscienza non è un tempo spazializzato, ma è “flusso”, ovvero è un tempo-durata: nel presente vive la memoria del passato e l’anticipazione del futuro. L’evoluzione “creatrice” Nell’Evoluzione creatrice Bergson contesta il materialismo deterministico e l’evoluzionismo positivistici. Per il filosofo francese opera nell’universo una forza cosmica che egli chiama élan vital, “slancio vitale”, che origina gradualmente tutte le forme naturali: dalla più bassa, la materia (in cui l’élan vital perde la sua capacità creativa) fino alla più elevata che è lo spirito umano, la coscienza libera dell’individuo. L’evoluzione universale non è frutto di leggi meccanicistiche, ma è un’evoluzione “creatrice”, per sua natura libera e imprevedibile. All’interno dell’esame delle facoltà umane, è importante la distinzione, introdotta da Bergson, fra intelletto (con il quale opera la scienza e che schematizza la realtà in Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 519

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formule astratte) e intuizione (che si esprime al suo massimo nell’arte e raggiunge una conoscenza profonda della realtà).

Freud e la rivoluzione psicoanalitica La psicoanalisi è un metodo per la cura delle malattie nervose ideata dal medico viennese Sigmund Freud (1856-1939), tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. La scoperta dell’inconscio È dall’ambito scientifico e positivistico che Freud prende le mosse per enunciare quella teoria dei fenomeni psichici che, nata come terapia (la psico-analisi), andrà ben oltre i confini medici per diventare un vero e proprio codice culturale chiave del Novecento. Studiando l’isteria (che il celebre neurologo francese Jean-Martin Charcot cercava di curare attraverso l’ipnosi), Freud arriva ben presto a ipotizzare l’esistenza di una parte profonda della psiche non accessibile alla coscienza (da qui il termine «inconscio» ➜ D2 OL), caratterizzata da una propria vitalità, in cui risiedono impulsi e desideri (prevalentemente di natura sessuale) “censurati”, secondo il meccanismo che Freud chiama «rimozione», dalla sfera cosciente (cioè l’«Io»). Alla base di molte patologie psichiche vi è per Freud la presenza di conflitti profondi (generatori di angoscia nel soggetto), che hanno le loro radici nell’inconscio. La figura dello psicoanalista Sconvolgendo la prospettiva comune al tempo, per cui le malattie mentali erano considerate frutto di tare ereditarie o comunque motivate da cause esclusivamente organiche, Freud ne affida la cura al “lavoro analitico” di una nuova figura di terapeuta, lo “psico-analista” appunto, di cui egli fu il primo, autorevole, esempio. L’interpretazione dei sogni Un aspetto fondamentale della terapia analitica è la particolare attenzione rivolta ai sogni: il testo fondamentale a cui Freud affida il suo pensiero in proposito è L’interpretazione dei sogni (1900). Secondo Freud il sogno costituirebbe una difesa dalle pulsioni inconsce che si manifestano maggiormente durante lo stato del sonno, quando le censure operate dall’Io tendono ad allentarsi. Interpretando i sogni del paziente e decifrando il linguaggio simbolico attraverso cui si esprimono, il terapeuta giunge a cogliere il nucleo conflittuale da cui si originano i sintomi nevrotici. La scoperta della centralità della dimensione sessuale Nel 1905 Freud pubblica Tre saggi sulla teoria sessuale, in cui lo studioso formula una fondamentale (e per quei tempi sconvolgente) teoria. Si riteneva che la sessualità fosse totalmente assente nel bambino, mentre Freud teorizza la presenza della pulsione sessuale (che egli definisce «libido») già nelle primissime fasi di vita dell’essere umano e considera lo stadio infantile di essa elemento di fondamentale importanza nello sviluppo successivo della psiche umana. Oggetto della pulsione sessuale è per il bambino inizialmente il proprio stesso corpo, ma in un secondo momento tale oggetto è cercato al di fuori di sé e secondo Freud si orienta verso la madre. La figura del padre di conseguenza sarebbe vissuta in modo conflittuale, come rivale. Il «complesso di Edipo» Questa esperienza traumatica, di fatto inaccettabile dalla coscienza, successivamente viene rimossa dall’Io durante la crescita dell’individuo e sarebbe la reale motivazione dell’amnesia che ricopre i primi anni di vita di ogni individuo, lasciando però profonde tracce nella psiche. Freud definisce questa dinamica psichica «complesso di Edipo», dalla tragedia greca Edipo re di Sofocle in cui Edipo è destinato dal fato a uccidere il padre e a sposare la propria madre Giocasta, macchiandosi perciò di incesto. Secondo Freud il rapporto edipico costituisce una tappa

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Per approfondire Cinema e psicoanalisi

fondamentale nello sviluppo psichico di ogni soggetto, poiché, quando tale conflitto viene superato, il bambino si allea con la figura paterna identificandosi in essa, mentre al contrario una situazione edipica irrisolta crea gravi problemi al soggetto: in ambito letterario ne offre un’evidente testimonianza il capitolo della Coscienza di Zeno sulla morte del padre (➜C18 T7 ), ma anche Kafka e Tozzi (➜C15), che in più di uno loro scritto testimoniano in modo paradigmatico una situazione edipica.

online D2 Sigmund Freud È necessario ammettere l’esistenza dell’inconscio Metapsicologia

La psicoanalisi Freud

scoperta dell’inconscio

inaccessibilità alla coscienza di una parte della psiche

PER APPROFONDIRE

Sigmund Freud nel suo studio a Vienna.

Da teoria contestata a codice culturale chiave del Novecento L’ostilità degli ambienti accademici e la diffusione della psicoanalisi Le teorie freudiane suscitarono un enorme scalpore all’epoca e l’opposizione degli ambienti accademici, che assunse toni di vera indignazione. Non è difficile comprenderne la ragione: il padre della psicoanalisi attribuiva alle pulsioni sessuali un ruolo primario nell’evoluzione della psiche in una società che ancora censurava la dimensione della sessualità. Ancor più, Freud arrivava a dissacrare, attribuendogli la presenza della pulsione sessuale, il mondo dell’infanzia, considerato per definizione asessuato, innocente e puro. Ma soprattutto sosteneva che molti comportamenti, apparentemente razionali e motivati da scelte morali, siano in realtà frutto della repressione e “sublimazione” degli istinti sessuali e comunque abbiano le loro radici nell’inconscio. Ancor più, Freud scalzava del tutto il principio della sicura conoscibilità di sé stessi, che poggiava sull’identificazione dello “psichico” con il cosciente e proponeva un’immagine della personalità non più unitaria. Nonostante una forte opposizione, la tecnica terapeutica psicoanalitica riuscì ad affermarsi e a diffondersi. Con il suo successivo sviluppo (non è qui il caso di nominare le varie “scuole”) è considerata a tutt’oggi metodo fondamentale nella cura delle nevrosi.

L’influenza della psicoanalisi in ambito artistico e culturale Le intuizioni freudiane rispetto al funzionamento dell’apparato psichico esercitarono enorme influenza in moltissimi ambiti, dalla letteratura all’arte, al cinema. Ad esempio i surrealisti come Dalí o Magritte hanno elevato la dimensione onirica a oggetto di interesse artistico, ricorrendo spesso a un uso psicoanalitico degli oggetti, delle figure, dei dettagli nei loro dipinti. Nella letteratura la rivoluzione psicoanalitica ha portato agli scrittori la consapevolezza dei processi psichici, modificando i modi e le tecniche della rappresentazione letteraria: è il caso ad esempio del romanzo La coscienza di Zeno di Svevo (che si struttura proprio su una terapia psicoanalitica). La stessa critica letteraria deriverà dalla psicoanalisi importanti strumenti per analizzare il testo letterario nelle sue strutture “profonde” (rivelatori sono alcuni studi su Pascoli, Svevo, Pirandello, Gadda, condotti dalla critica di indirizzo psicoanalitico). Ma nel corso del Novecento i concetti cardine della psicoanalisi hanno addirittura permeato il costume contribuendo a una trasformazione dei comportamenti e della mentalità, introducendo l’attenzione alla sfera psicologica e la disponibilità all’accettazione delle parti “oscure” di noi. In definitiva, la psicoanalisi è stata molto di più di una geniale intuizione nella cura delle malattie nervose, essendo diventata via via uno dei più importanti modelli culturali di riferimento del Novecento.

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2 La cultura antipositivistica in Italia Il neoidealismo di Croce. L’arte come “intuizione pura” Il sistema filosofico crociano Nell’ambito delle filosofie che si contrappongono al positivismo, si segnala in Italia innanzitutto il pensiero di Benedetto Croce (1866-1952), sia come filosofo sia come intellettuale e critico letterario, destinato a esercitare per decenni un’influenza così marcata da aver fatto parlare di vera e propria “dittatura culturale”. La posizione filosofica di Croce si contrappone al positivismo, ma non certo in nome di quella “cultura dell’irrazionalismo” che si andava diffondendo anche in Italia e di cui fu anzi un fiero oppositore (➜ D3 OL), bensì per proporre un sistema filosofico organico e razionale, a cui ci si limita a fare qui un rapidissimo accenno. Il sistema filosofico crociano si riallaccia in parte all’idealismo tedesco: anche Croce identifica il reale con l’attività spirituale del soggetto, iscritta però nel divenire della storia. Nell’attività dello spirito Croce distingue tra la sfera teoretica, conoscitiva (che comprende l’arte, come conoscenza del particolare e la filosofia come conoscenza dell’universale) e la sfera pratica, a cui appartengono l’economia, ma anche la politica e la scienza, alla quale il filosofo nega lo statuto di conoscenza assoluta perché basata su pseudo-concetti di valore puramente strumentale e l’etica. La visione dell’arte In questo ambito a noi interessa soprattutto la visione che Croce ha dell’arte, iscritta dal filosofo all’interno del sistema filosofico a cui si è fatto riferimento. L’arte appartiene al primo stadio della vita dello spirito: per Croce essa è intuizione, nettamente distinta dalla sfera filosofica; intuizione che è tutt’uno, spontaneamente, con l’espressione e che ha per oggetto il sentimento (come sinonimo di “stato d’animo”, non nel senso di effusione incontrollata delle passioni). In quanto atto creativo “puro”, illuminazione a-razionale, l’arte vera non ha né deve avere finalità pratiche, non può essere portavoce di un’ideologia politica o teologica: unico suo scopo è l’arte stessa, la bellezza, che non può essere valutata con criteri a essa estrinseci, neppure etici. Le opere d’arte sono espressione unica e inimitabile: non ha quindi senso valutare l’opera in rapporto ai generi letterari, alle correnti, che nulla hanno a che fare con il suo valore estetico, così come non hanno senso le minuziose indagini linguistiche e tecniche. La visione crociana dell’arte e la conseguente visione dell’attività del critico (identificata tutto sommato in un raffinato esercizio impressionistico e nella selettiva distinzione tra “poesia” e “non poesia” persino all’interno di uno stesso testo) avrà un’influenza enorme sulla cultura italiana.

L’inquieto irrazionalismo delle riviste fiorentine All’inizio del Novecento, si diffonde in Italia, con epicentro a Firenze, un movimento di idee che contribuisce a mettere in crisi il modello di pensiero positivistico. Se ne fanno portavoce alcune riviste, fondate l’una dopo l’altra e che per lo più, come «Il Leonardo» (1903-1907), «Il Regno» (1903-1906), «Hermes» (1903-1906) e, più avanti, «Lacerba» (1913-1915), hanno vita assai breve. Soprattutto «Il Leonardo» e «Il Regno» hanno in comune la forte contaminazione tra cultura e politica e una visione militante dell’intellettuale, che si schiera ideologicamente in modo marcato. Caratterizza le posizioni di molti giovani intellettuali, che operano nelle varie riviste, l’attacco alla mediocrità dello Stato giolittiano, o la sprezzante contestazione dei

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valori democratici ed egualitari; sul piano culturale si nota l’adesione, a volte confusa e velleitaria, alle filosofie europee antipositivistiche (come Bergson o Nietzsche) o, nel caso del «Leonardo», al pragmatismo del filosofo americano William James. Quella che sembra la costante comune di queste riviste è un inquieto irrazionalismo, un individualismo esasperato che diventa volontà di protagonismo, a cui corrisponde il disprezzo ostentato per le masse, frutto di un’interpretazione distorta e tendenziosa della teoria darwiniana, magari corretta con il superuomo nietzschiano giunto in Italia nell’interpretazione vulgata di D’Annunzio. La più marcatamente politica delle riviste è «Il Regno», fondata da Enrico Corradini nel 1903, portavoce di aggressive istanze nazionalistiche e imperialistiche e della difesa di una concezione autoritaria dello Stato come espressione dei “migliori”. In occasione della guerra russo-giapponese la rivista esalta la guerra come dimensione eroica e la bellezza delle nuove armi per la prima volta impiegate. La più “letteraria” delle riviste è «Hermes», fondata da Borgese, critico autorevole e autore anche del romanzo Rubè (➜ C14 T2 ) che propone come modello D’Annunzio. Due intellettuali di spicco: Papini e Prezzolini In primo piano nelle riviste del primo Novecento sono due intellettuali, inquieti, attivissimi, costantemente disponibili alle “avventure intellettuali”: Giovanni Papini (1881-1956) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982), i cui nomi ricorrono in più di una rivista e che furono protagonisti del rovente clima ideologico di quegli anni. Ad esempio Papini fonda, con Prezzolini, «Il Leonardo», ma lo si ritrova poi anche come direttore in una breve fase della rivista «La Voce» (nel periodo 1912-1914) e alla fine come fondatore, con Ardengo Soffici, di «Lacerba», la rivista del futurismo: inizialmente soltanto artistico-letteraria, in seguito allo scoppio della guerra, assume violente posizioni interventiste, rispecchiate nell’articolo di Papini Amiamo la guerra. D’altra parte è evidente un collegamento tra il Papini che firma nel 1914 quello sconcertante articolo e il Papini che, presentando più di dieci anni prima il programma del «Leonardo» parla di «giovani... anelanti a una superior vita intellettuale […] che vogliono intensificare la propria esistenza. […] Nella vita sono pagani e individualisti-amanti della bellezza e dell’intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno [atteggiamento pavido influenzato da certi comportamenti cristiani] e di servitù plebea». Il giudizio negativo di Croce Questo clima ideologico è giudicato severamente da Benedetto Croce che fonda, nel 1903, insieme a Giovanni Gentile, una rivista dal titolo significativo: «La Critica»; ma a differenza delle altre riviste del tempo, questa avrà vita più lunga: pubblicata per quarant’anni, accompagna gran parte della vita di Croce, di cui divulga il pensiero e di cui testimonia l’equilibrio e il rigore intellettuale in anni assai difficili della storia italiana. «La Voce» La rivista più importante è «La Voce», destinata a incidere anche su alcuni orientamenti letterari (e appunto “vociano” definisce una specifica tendenza del primo Novecento). Negli otto anni della sua vita (1908-1916) «La Voce» conobbe varie fasi e molti direttori. Fondata da Prezzolini, nella prima fase (1908-1911) la rivista affrontò con serietà problemi concreti della società e della cultura italiana: dalla questione meridionale, alla questione femminile, al problema della scuola e molti altri. In uno dei primi articoli Prezzolini scriveva che occorreva «reagire alla retorica degli Italiani obbligandoli a veder da vicino la loro realtà sociale». Non a caso alla rivista sono chiamati a collaborare anche storici, come Gaetano Salvemini, filosofi (Benedetto Croce e Giovanni Gentile), economisti (come Luigi Einaudi) e pedagoModelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 523

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gisti (Giuseppe Lombardo Radice). È significativo e positivo, inoltre, il fatto che alla rivista collaborassero allora intellettuali di diverse tendenze politiche, dai cattolici ai socialisti, ai liberali, in una posizione equilibrata e certamente distante, anche per l’influenza di figure come Croce e Salvemini, dalle posizioni irrazionalistiche dei più. Il nodo della questione libica (1911) divise però i vari collaboratori, ponendo di fatto fine alla prima fase: se Prezzolini approvava l’intervento italiano, Salvemini lo disapprovava nettamente e uscì dalla rivista fondando «l’Unità» (1911-1920). Una fase di transizione In seguito a questo momento di crisi, per alcuni mesi (1912-1913) la rivista è diretta da Papini con un orientamento più letterario che culturale in senso globale. Un volto nuovamente militante è assunto dalla rivista tra la fine del 1913 e il 1914, guidata nuovamente da Prezzolini (1914): «La Voce», se da un lato diventa espressione dell’idealismo di Croce e Gentile (peraltro contaminato con la filosofia di Bergson e Sorel), ospita in campo ideologico e politico posizioni conservatrici, irrazionalistiche, interventiste. Non è un caso che Prezzolini dopo poco plauda alla nascita del quotidiano «Il Popolo d’Italia» e si unisca a Mussolini. L’ultima fase e «La Voce» “bianca” Infine per due anni (1914-1916) «La Voce» ridiventa rivista esclusivamente letteraria, sotto la guida di Giuseppe De Robertis (è la cosiddetta «Voce» “bianca”, dal colore della copertina). Di fatto viene rovesciata la prospettiva della necessità “morale” dell’impegno, che ispirava il momento di fondazione della rivista: si privilegia infatti l’autonomia dell’arte rispetto alla politica e al contempo è teorizzato un ideale di “arte pura”, che può (e forse deve, secondo De Robertis) prescindere dalle istanze sociali e politiche: una forma d’arte che ben si rispecchia nella “poetica del frammento”, nella pagina di breve respiro, stilisticamente perfetta. In questa fase pubblicano sulla voce molti scrittori destinati a grande rilevanza, come Ungaretti, Saba, Campana, Rebora, Sbarbaro e il critico Renato Serra. Di Renato Serra è il celebre Esame di coscienza di un letterato, pubblicato nel 1915 (➜ C14 T6 ): spiegando le ragioni “morali” che lo inducono ad andare in guerra, Serra evidenzia la crisi di quella “religione delle lettere” in cui egli stesso, come altri intellettuali vociani, si era identificato e che avvertiva come anacronistica e quasi colpevole, in un momento storico drammatico per la collettività e per il paese. online D3 Benedetto Croce Gli effetti rovinosi dell’irrazionalismo Storia d’Italia dal 1871 al 1915

L’inquieto irrazionalismo delle riviste tra le riviste italiane di primo Novecento

«Lacerba»

«La Voce»

posizioni confusamente nietzschiane

in un primo tempo è su posizioni impegnate, poi sostiene un’arte “pura”

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3 Generi e forme della letteratura Il Futurismo italiano e le avanguardie Proprio in Italia nasce la prima delle avanguardie “storiche” europee: il Futurismo, fondato da Filippo Tommaso Marinetti. Come già enunciato dal nome del movimento, il Futurismo si propone di infrangere ogni legame con il passato, realizzando un radicale cambiamento, che interessi non solo l’arte, la letteratura, il teatro, ma ogni aspetto della vita. Un programma rivoluzionario, affidato a vari “manifesti”. In ambito letterario il Futurismo teorizza l’abolizione delle forme letterarie codificate dalla tradizione e un uso del tutto libero del linguaggio (fino alle cosiddette “parole in libertà”). Sulla scia del futurismo italiano, nasceranno in varie capitali europee (da Zurigo a Parigi, da Berlino a Mosca e a Londra) varie avanguardie, come il dadaismo e il surrealismo, caratterizzate da istanze di contestazione e provocazione.

La poesia italiana del primo Novecento: “crepuscolari” e “vociani” Al modello dannunziano, ma anche alla mitizzazione futurista della modernità (➜ C12), si contrappongono in vario modo le principali esperienze poetiche del primo Novecento: i poeti “crepuscolari” (➜ C13) scelgono polemicamente di rappresentare una realtà dimessa, “antisublime” per eccellenza, introducendo nella poesia un repertorio di oggetti e situazioni provinciale, malinconico, prosaico. Un mondo presente anche in Gozzano, ma cifra distintiva del poeta torinese è l’ironia con cui dissolve quel mondo e la propria stessa immagine di poeta («un coso con due gambe detto guidogozzano») in evidente antitesi a ogni ideologia superomistica (➜ C11). Una diversa linea è presente nei cosiddetti “poeti vociani” (Rebora, Campana, Sbarbaro) che anticipano la grande poesia novecentesca, sia per la riflessione sui temi chiave della condizione umana, sia per l’impiego del simbolismo secondo la lezione (in particolare per Campana) della poesia francese (➜ C4, C9).

Il grande romanzo europeo della “crisi” Nel primo Novecento si afferma la grande narrativa europea di Mann, Proust, Joyce, Woolf (➜ C16), Kafka (➜ C15), che rivoluziona profondamente le forme narrative, mettendo in discussione radicalmente i canoni del naturalismo, in relazione a una situazione storico-culturale ormai profondamente mutata, che comporta nella maggior parte degli scrittori la percezione profonda della “crisi”. Oggetto privilegiato della narrazione diventa l’interiorità, analizzata e rappresentata con nuove tecniche narrative (la più radicale di esse è il “flusso di coscienza” con cui Joyce riproduce senza alcun filtro interpretativo, ma addirittura neppure logico, il libero fluire dei pensieri). Tema ricorrente è il disagio, il disadattamento, la “malattia interiore”, espressione della crisi dell’uomo moderno nel naufragio dei

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valori e nello sconvolgimento degli stessi paradigmi conoscitivi che non consentono più una conoscenza oggettiva della realtà. Uno degli aspetti più significativi del romanzo europeo del primo Novecento è la trattazione del tempo che, anche sulla base di suggestioni filosofiche (Bergson) non corrisponde più al tempo cronologico e spazializzato, ma è esclusivamente “tempo interiore”, soggettivo.

La narrativa di Pirandello, Svevo e Tozzi Le sole opere assimilabili per la novità delle soluzioni narrative, per le tematiche e per l’altezza dei risultati artistici alla grande narrativa europea sono le opere di Pirandello (➜ C17) e Svevo (➜ C18). L’opera narrativa di Pirandello (ancor più noto come autore di teatro) interessa innanzitutto una vasta produzione novellistica, in cui è evidente il distanziamento dal verismo per la presenza di un’ottica “umoristica” che scava “oltre” i fatti per rivelare scomode verità. Tra i romanzi spicca Il fu Mattia Pascal, dall’intreccio apparentemente bizzarro, ma in realtà volto a dissolvere l’unità del personaggio e a trattare il tema dell’impossibilità per l’uomo di vivere una vita autentica, priva di maschere. Il romanzo più radicale della produzione pirandelliana è Uno, nessuno e centomila, in cui il tema della dissoluzione dell’io si traduce in una dissoluzione stessa della forma romanzo, dispersa nelle mille, angosciose elucubrazioni del narratore protagonista. Il romanzo italiano più importante del primo Novecento è però sicuramente La coscienza di Zeno (➜ C18), del triestino Italo Svevo, omaggio ironico alla psicoanalisi, su cui si struttura il romanzo stesso, che utilizza una trattazione anticonvenzionale del tempo (il cosiddetto “tempo misto”) che ricollega il romanzo sveviano alle principali esperienze europee. Il romanzo ha per protagonista Zeno, la più emblematica immagine della figura dell’“inetto” ricorrente nella narrativa del primo Novecento: inetti sono anche i protagonisti dei romanzi pirandelliani e quelli di Tozzi, autore senese tuttora poco noto in Italia ma sempre più valorizzato dalla critica. In Con gli occhi chiusi, il più noto romanzo di Tozzi, è centrale il conflitto con il padre, ben presente anche nella Coscienza di Zeno (ma anche nelle opere di Kafka). Manca però totalmente in Tozzi la prospettiva ironica, centrale nel capolavoro di Svevo. La frammentazione della scrittura, che ha tratti espressionistici, traduce l’angosciosa visione della realtà dell’autore.

Il teatro A livello di storia dei generi, si può notare che si dissolvono ormai le forme del teatro classico: innanzitutto la tragedia (forse proprio per quell’impossibilità del “tragico” nel mondo moderno che Pirandello sottolinea nella celebre pagina di Il fu Mattia Pascal intitolata «lo strappo nel cielo di carta») ma anche la commedia con contenuti espressamente “comici”. Nasce la nuova forma del “dramma”, evoluzione della commedia “seria” che esisteva anche nella produzione di Carlo Goldoni. In ambito europeo i drammi di Ibsen, Strindberg e Cechov, con varie modalità, fondano il teatro moderno per la acuta penetrazione delle contraddizioni e del vuoto di valori della borghesia, facendo del palcoscenico, tendenza che poi Pirandello esaspererà, il centro di un dibattito ideologico non certo rasserenante per il pubblico (➜ C8).

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Rispetto al coevo teatro europeo, il teatro italiano del secondo Ottocento e dei primi anni del Novecento offre senza dubbio un panorama modesto. La poetica verista in ambito teatrale aveva prodotto un teatro dialettale, ispirato a temi veristici (un esempio forse di una qualche qualità è Cavalleria rusticana di Verga). In seguito il teatro guarda ad esempi stranieri e si afferma il dramma borghese, incentrato sul tema dell’adulterio, o comunque sulla famiglia borghese. Dal teatro borghese prende le mosse in Italia il filone “grottesco” che porta all’esasperazione paradossale i temi del dramma borghese, mentre il teatro futurista ricerca anche in questo ambito la provocazione del pubblico che caratterizza più in generale il movimento. È Pirandello (ma siamo già ormai alla fine del primo quindicennio del Novecento) a conferire al teatro italiano una dimensione europea, come testimonia anche il successo internazionale dei suoi drammi. Prendendo le mosse dal grottesco, congeniale alla sua stessa poetica umoristica, Pirandello procede in una sperimentazione che lo porta al “teatro nel teatro”, il cui esempio più celebre sono i Sei personaggi, che rende particolarmente ambigui i confini tra realtà e finzione teatrale e impiega il dramma come spazio metateatrale, per dibattere i problemi stessi del teatro moderno.

4 L’evoluzione della lingua L’affermazione del fiorentino Il dibattito di fine Ottocento che aveva visto fronteggiarsi manzoniani, favorevoli al modello fiorentino, e ascolani, contrari a ogni imposizione, si esaurisce nei primi anni del Novecento con l’affermazione del fiorentino come lingua di cultura per tutta l’Italia. Introduzione di termini di uso comune Nella lingua letteraria si assiste al fenomeno dell’abbassamento del registro linguistico dovuto al fatto che si introducono da parte dei movimenti d’avanguardia termini di uso comune sia in prosa che in poesia. Anche la sintassi si fa semplice attraverso l’adozione da parte degli autori di una sintassi paratattica. Italiano parlato unitario Anche nell’italiano parlato si tende all’unificazione, a seguito di vari fattori: la riduzione dell’analfabetismo grazie al diffondersi dell’istruzione; il fenomeno dell’emigrazione che ha il merito di mettere in contatto gli individui con nuove realtà culturali; la leva obbligatoria; la diffusione dei giornali, il cinema, la radio.

Fissare i concetti L’età della crisi e le avanguardie 1. Per quale motivo nel primo Novecento entra in crisi la visione democratico-progressista? 2. Che cosa vuol dire che avanza il nazionalismo? 3. Quali sono le nuove scoperte che trasformano i modi di vivere? 4. Come cambia il concetto di tempo tra fine Ottocento ed inizio Novecento? 5. Quali furono i principali pensatori che si opposero al positivismo? 6. Quali cambiamenti si verificarono nella lingua letteraria e nella lingua parlata?

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Libri, lettori, lettura

L’editoria alla conquista di un pubblico nuovo Il romanzo d’appendice e popolare, antenato delle fiction televisive Nei gusti del pubblico, per ovvie ragioni, decade ormai il romanzo storico-patriottico e si afferma il romanzo d’appendice, così chiamato perché è pubblicato come supplemento dei giornali con l’obiettivo di incrementarne l’acquisto. Romanzo d’appendice diventa sinonimo di “romanzo popolare”, destinato a un pubblico medio e piccolo-borghese e addirittura al ceto operaio appena alfabetizzato. A questa tipologia di pubblico si rivolgono anche altri romanzi a dispense (non in appendice, ma in fascicoli settimanali o mensili) che cominciano a circolare (stampati da case editrici come Salani a Firenze o Sonzogno a Milano). Proprio nell’obiettivo di conquistare un vasto pubblico, il romanzo d’appendice sfrutta intrecci in genere patetico-sentimentali, ricchi di colpi di scena, propone elementari conflitti tra bene e male e personaggi dalla psicologia semplificata. Presuppone una specifica modalità di lettura, fondata sul coinvolgimento emotivo e sull’immedesimazione (e sarà per questo molto apprezzato dal pubblico femminile). La pubblicazione a puntate crea un particolare orizzonte d’attesa: il lettore deve ricordare la puntata precedente a cui quella nuova si ricollega e si proietta nell’attesa spasmodica di quanto avverrà nella puntata successiva, non diversamente dai “cicli” di fiction televisive. Importante testimonianza di romanzi d’appendice sono le opere di Carolina Invernizio (1851-1916), prolifica narratrice con ben 120 romanzi di largo successo all’attivo. La scrittrice vogherese predilige la suspense, con trame impostate su misteri o intrighi da svelare, raccontate anche con titoli da cronaca nera (La sepolta viva, La morta nel baule, o il più celebre Il bacio d’una morta). Protagonista dei suoi romanzi è sempre la donna, a cui sono attribuite doti di intraprendenza e coraggio quasi maschili, ma pur sempre nel rispetto dei ruoli: «Una sorta di femminismo» osserva il critico Vittorio Spinazzola, studioso di sociologia della letteratura, «adatto a incontrare gli stati d’animo di larghe masse di donne del popolo e della piccola borghesia, desiderose di veder riconosciuta la loro dignità, senza per questo fuoriuscire dalla carriera sicura di angelo del focolare». Il romanzo esotico di avventura Straordinario successo ebbero i romanzi d’avventura esotici di Emilio Salgari che intuì sagacemente e sfruttò il nuovo interesse del pubblico per i viaggi e le esplorazioni di nuovi mondi. Salgari si rivolge anche, e forse soprattutto, agli adolescenti. Le mirabolanti avventure di Sandokan o del Corsaro Nero mettono al centro un eroe ribelle che si trova fuori dalla legalità per aver subìto gravi torti e le cui imprese sanguinarie sono finalizzate alla vendetta, riscattata però da una forte dose di senso etico: il protagonista lotta sempre infatti contro l’oppressione e l’ingiustizia. La visione di Salgari era decisamente anticolonialista, come si può notare soprattutto nel ciclo dei romanzi della Malesia (ad esempio Le tigri di Mompracem, 1900; Sandokan alla riscossa, 1907). La narrativa educativa per ragazzi Un altro caso di successo straordinario riguarda la narrativa pedagogica cioè Pinocchio di Carlo Collodi e Cuore di De Amicis (➜ C1). Entrambi i romanzi si rivolgevano in modo specifico ai ragazzi: veri e propri bestseller del tempo (ma non solo di quel tempo) furono capaci di interpretare l’esigenza di valori comuni nell’Italia unificata.

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Cézanne (1839 - 1906) sono due esempi di questa diversificazione: se infatti Munch è interessato a una resa espressionista ed emotiva attraverso una pittura deformante, Cézanne semplifica e ordina la realtà dandone una traduzione geometrica quasi inespressiva. Le due opere qui presentate, pur con presupposti e finalità diversi, dimostrano entrambe la necessità per gli artisti di accantonare alcune delle regole alla base della pittura accademica: la ricerca dell’equilibrio compositivo, la verosimiglianza, la resa idealizzante dei corpi, l’impiego della prospettiva e del chiaroscuro.

1 L’urlo

2 Donna con caffettiera

Nell’Urlo, la cui prima versione risale al 1893, il norvegese Munch rappresenta un uomo davanti alla ringhiera di un ponte che si tiene il volto deformato e quasi scheletrico tra le mani, mentre alle sue spalle il fiume sembra fondersi con un cielo rosso sangue. Le linee curve che caratterizzano le pennellate attraverso cui è costruito il paesaggio contrastano con la resa prospettica del ponte. Il corpo dell’uomo in primo piano si sforma in una esse allungata, e l’ovale della bocca semiaperta emette un grido storpiando il volto a forma di scheletro. L’opera è diventata una vera icona della storia della pittura e della rappresentazione della tragedia esistenziale dell’uomo, che percepisce una natura deformata dalla sofferenza. Lo stesso Munch scrisse: «il cielo era di sangue… e sentivo un grande urlo infinito che pervadeva la natura».

Contrariamente all’uomo dell’Urlo, la figura femminile del dipinto di Cézanne appare inserita in una staticità geometrica mentre riprende compositivamente la forma della caffettiera. Il tavolo, così come la parete alle sue spalle, non rispettano la prospettiva, anzi appiattiscono lo spazio e sembrano tradirne le regole di rappresentazione. Il tratto pittorico è essenziale e delinea forme solide ma estremamente sintetiche. Cézanne rifiuta le vibrazioni di luce impressioniste: sceglie invece gli elementi di una realtà assoluta ridotta all’essenziale, come lui stesso scrive in una lettera per «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono».

di E. Munch

Edvard Munch, L’urlo, 1893 (Galleria nazionale, Oslo).

Arte nel tempo

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento vi è un proliferare di ricerche pittoriche Il superamento diversificate e fortemente legate all’individualità dell’artista e della sua visione, accomunate dal pensare la pittura come uno strumento di indagine della propria della mimesi realtà. L’urlo di Edvard Munch (1863 - 1944) e Donna con caffettiera di Paul

di P. Cézanne

Paul Cézanne, Donna con caffettiera, olio su tela, 1895 ca. (Musée d’Orsay, Parigi).

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Primo Novecento Duecento e Trecento La letteratura Scenari socio-culturali cortese nella della L’età Francia crisi feudale e le avanguardie

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Nel primo Novecento entra in crisi la visione democratico-progressista e si afferma un’idea del popolo come “massa”. La politica si fa nazionalista e aggressiva, fondata com’è sull’imperialismo. La competizione tra le nazioni finisce per sfociare nella guerra. Le nuove tecnologie trasformano i modi di vivere; domina l’esaltazione del dinamismo, dell’energia vitale e della velocità.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofiche-scientifiche

Bergson confuta l’applicazione dei metodi scientifici nello studio dei fenomeni che riguardano la coscienza, con particolare riguardo al tema del tempo. Freud ipotizza l’esistenza di una parte profonda della psiche non accessibile alla coscienza (l’«inconscio» ), in cui risiedono impulsi e desideri (prevalentemente di natura sessuale) “censurati”, secondo il meccanismo della «rimozione» dalla sfera cosciente (cioè l’«Io»).

3 Generi e forme della letteratura

In Italia nasce il Futurismo, fondato da Tommaso Marinetti, che si propone di infrangere ogni legame con il passato. Nascono in alcune capitali europee varie avanguardie, come il dadaismo e il surrealismo. Alla mitizzazione futurista della modernità si contrappongono i poeti “crepuscolari”. Una diversa linea è presente nei cosiddetti “poeti vociani”. In Europa si afferma la narrativa di Mann, Proust, Joyce,Woolf, Kafka. Oggetto privilegiato della narrazione diventa l’interiorità. Il romanzo italiano più importante di questo periodo è La coscienza di Zeno di Italo Svevo. In ambito europeo i drammi di Ibsen, Strindberg e Cechov fondano il teatro moderno. È Pirandello a conferire al teatro italiano una dimensione europea,.

4 L’evoluzione della lingua

Si afferma il fiorentino come lingua di cultura per tutta l’Italia.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Spiega per quali motivi le riviste fiorentine del primo Novecento rientrano nell’orientamento culturale e filosofico antipositivista (max 3 minuti).

Testi a confronto

2. Individua e stabilisci gli elementi di parallelismo tra i romanzi d’appendice e le moderne fiction televisive in merito alla costruzione delle vicende, alle modalità di diffusione, alle tecniche di fidelizzazione. Costruisci una tabella, quindi commentala oralmente.

Competenza digitale

3. Realizza materiale digitale in cui raccogli informazioni sul cambiamento di vita delle persone determinato dall’invenzione dell’automobile e poi dell’aereo.

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Primo Novecento CAPITOLO

12 Le avanguardie

Nel primo Novecento si affermano in Europa (in particolare in Italia, Francia e Germania) le avanguardie, movimenti di rottura che investono la letteratura, l’arte e anche il cinema. Le avanguardie sono caratterizzate da un forte spirito programmatico, che si traduce nella ricorrente presenza di manifesti in cui vengono radicalmente contestati i codici artistici vigenti e le convenzioni della tradizione, in nome di un’arte “nuova”, capace di contrapporsi alla subordinazione dei prodotti artistici alle leggi del mercato. La prima avanguardia è il Futurismo italiano, a cui seguiranno l’Espressionismo (soprattutto in area tedesca), il Dadaismo e il Surrealismo (quest’ultima è l’avanguardia più duratura nel tempo). Il Futurismo, nato in Italia a opera di Filippo Tommaso Marinetti, esalta la velocità, il dinamismo proprio dei tempi moderni, inneggia all’aggressività vitalistica e alla guerra. In ambito letterario sostiene la libertà totale dell’artista, non solo dalla tradizione, ma persino dalle norme sintattiche o dalla punteggiatura: da qui nascono le famose “parole in libertà”.

1 Caratteri delle avanguardie 2 Il Futurismo 3 Le altre avanguardie 531 531-556_12_Avanguardie_minor_3A.indd 531

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1 Caratteri delle avanguardie La stagione delle avanguardie La stagione delle avanguardie “storiche” (così definite per distinguerle dalle neoavanguardie degli anni Sessanta del secolo scorso), è un momento della cultura europea di grande ricchezza inventiva e di ardita sperimentazione, che si colloca, pur con qualche appendice, tra il primo e il secondo decennio del Novecento. Il primo movimento d’avanguardia è il Futurismo italiano, fondato da Filippo Tommaso Marinetti: l’atto di fondazione è considerato il Manifesto pubblicato a Parigi sul giornale «Le Figaro», il 20 febbraio 1909 (➜ T1 ). Al Futurismo seguono in Europa altri movimenti d’avanguardia: l’Espressionismo, il Dadaismo e infine il Surrealismo, ultima tra le avanguardie, le cui manifestazioni si protraggono fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Movimenti globali contro la tradizione Caratteristica comune delle avanguardie è il loro carattere di esperienze “globali”: vengono infatti coinvolti l’ideologia, diversi campi artistici (dalla letteratura al teatro e al cinema, dall’arte figurativa alla musica), senza escludere il costume (esistono infatti persino una cucina e una moda futuriste ➜ PER APPROFONDIRE La cucina futurista, PAG. 550). Comune alle avanguardie è la rottura radicale con la tradizione, sostenuta da una forte coscienza innovativa: da qui la massiccia presenza di “manifesti” programmatici (quelli del Futurismo furono addirittura più di cinquanta) nei quali viene enfatizzata proprio la ricerca di novità.

Parola chiave

Contro la mercificazione dell’arte Le avanguardie possono essere interpretate come la ribellione degli scrittori, e degli artisti in genere, alla crescente mercificazione dell’opera d’arte, alla tendenza a ridurla a prodotto di consumo di massa, che già da tempo si stava manifestando (ne era stato critico implacabile già Baudelaire) e che all’inizio del Novecento si accentua vistosamente: case editrici, galleristi, critici, collezionisti ormai controllavano e orientavano il mercato, costringendo la produzione artistica entro canali obbligati, condizionati dalla ricerca del consenso del pubblico. Le avanguardie esasperano dunque la carica eversiva del messaggio artistico, contestando in modo esibito le concezioni estetiche e i modelli della tradizione e ponendosi in conflitto con il gusto dominante del pubblico: un pubblico che non si vuole assecondare, ma, al contrario, disorientare, provocare. A questo proposito risultano significative le «serate futuriste», il cui scopo, più che quello di proporre opere teatrali interessanti, era di scandalizzare il pubblico, addirittura insultandolo, così da provocarne le reazioni.

avanguardia Il significato originario del termine avanguardia attiene al campo semantico militare: avanguardia è un reparto avanzato, mandato in avanscoperta con compiti esplorativi o per una difesa preventiva. A partire dal secondo Ottocento, il termine assume un significato traslato di tipo politico ed è usato in particolare dagli ideologi di matrice marxista (da Marx ed Engels fino a Lenin e Gramsci) per designare il Partito comunista stesso: esso svolge un ruolo di avanguardia,

appunto, e di coscienza critica nei confronti delle masse popolari, di cui interpreta i bisogni e promuove in modo avanzato le rivendicazioni. Solo a partire dal Futurismo il termine è impiegato in ambito artistico-letterario, ma sempre con una forte connotazione ideologica: sono “avanguardia” i gruppi intellettuali che sono “più avanti” della visione comune, che svolgono un’azione dirompente nei confronti della tradizione.

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Le avanguardie volevano non solo contestare il passato, ma anche e soprattutto gettare le basi di nuove forme artistiche, ponendo le premesse dell’arte del futuro. Questo avvenne forse però più nell’ambito delle arti figurative che nel campo letterario.

Le avanguardie “storiche” FUTURISMO

ESPRESSIONISMO

DADAISMO

SURREALISMO

• rottura con la tradizione • lotta contro l’arte delle accademie

• provocazione contro il gusto dominante • lotta alla mercificazione dell’arte

• volontà di innovare radicalmente • intenti programmatici

Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911 Spregel Museum, Hannover

La copertina della rivista Surréalisme dell’ottobre 1924, edita e Pavesi con testi di vari autori (tra cui Apollinaire) e illustrazioni di Robert Delaunay.

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2 Il Futurismo online

Gallery Il Futurismo, un movimento “totale”

La copertina di Guerrapittura, opera di Carlo Carrà del 1915.

Marinetti: un intellettuale con vocazione “internazionale” Il fondatore del Futurismo e l’iniziatore dei movimenti d’avanguardia fu Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), un italiano con spiccata vocazione internazionale. Nato ad Alessandria d’Egitto, si forma a Parigi, dove si laurea in lettere alla Sorbona e dove assimila la lezione dei simbolisti e conosce il pensiero di Bergson e di Nietzsche. Nel 1905 si trasferisce a Milano, dove fonda la rivista «Poesia» che ospiterà i principali testi poetici futuristi, ma più in generale si adopererà per far conoscere la poesia moderna italiana e straniera. Nel 1909 pubblica sul quotidiano parigino «Le Figaro» il Manifesto del Futurismo in francese (diffuso subito dopo anche in italiano), a cui segue il Manifesto della letteratura futurista (1912) e molti altri manifesti, come il Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), in cui si gettano le basi del «teatro sintetico» futurista. Instancabile organizzatore del movimento (ad esempio con le celebri «serate futuriste»), Marinetti ne diffonde i princìpi in Francia e in Russia. In politica, è favorevole all’impresa di Libia e interventista, guarda con favore all’ascesa del fascismo (che accoglie non pochi motivi ideologici e immagini del Futurismo e in un certo senso ne ingloba l’ideologia). Nel 1929 Marinetti, un tempo fautore della distruzione di ogni accademia, diventa Accademico d’Italia. Muore a Bellagio nel 1944 dopo aver aderito alla Repubblica di Salò. Marinetti va ricordato soprattutto per la sua opera di ideologo e divulgatore del futurismo, ma ha lasciato anche una multiforme produzione, da poemetti come Zang tumb tuuum del 1914 a romanzi come Mafarka il futurista (1909) e Alcova d’acciaio (1921). L’ideologia politica Soprattutto negli anni “eroici” (cioè dal 1909 al 1916 circa), il Futurismo è un movimento “totale”, in cui c’è una saldatura assai stretta fra tutti gli ambiti (dalla visione culturale più generale, a quella politica, alle posizioni in ambito teatrale, letterario, artistico, e anche del costume). Sul piano più strettamente ideologico l’esperienza futurista si inquadra nel clima di diffuso irrazionalismo testimoniato dalle riviste fiorentine (➜ SCENARI, PAG 522), di cui condivide la violenta polemica contro la stasi dello Stato giolittiano, la polemica antiparlamentare e l’esaltazione della guerra «sola igiene del mondo». Caratterizza il Futurismo un aggressivo vitalismo, un atteggiamento di ribellismo e sovversivismo, aspetti che, neutralizzati della componente anarcoide, entreranno a far parte del modello ideologico fascista: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno». Anche le posizioni politiche appaiono molto simili: il Programma politico futurista del 1913 si apre con una dichiarazione di acceso nazionalismo che non ha bisogno di commenti: «Italia sovrana assoluta. La parola ITALIA deve dominare sulla parola LIBERTÀ. Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani».

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Non a caso Marinetti plaudirà al fascismo nascente e in un intervento del 1924 ne sottolineerà i rapporti stretti con il movimento da lui fondato (conserviamo le lettere maiuscole dell’originale): «Il Fascismo, nato dall’Interventismo e dal Futurismo si nutrì di principi futuristi. Il Fascismo contiene e conterrà sempre quel blocco di patriottismo ottimista orgoglioso violento prepotente e guerriero che noi futuristi, primi tra i primi, predicammo alle folle italiane. Perciò sosteniamo strenuamente il Fascismo». L’adesione alla civiltà moderna Assai significativa è l’adesione dei futuristi alla civiltà moderna, al progresso tecnologico e al futuro (da qui il nome del movimento), e l’esaltazione dei suoi simboli: dalla metropoli con il suo chiasso, la sua vita frenetica, le sue ardite costruzioni, al treno, all’automobile in corsa, vero mito chiave della modernità (la FIAT nasceva nel 1899), contrapposto a tutto ciò che sa di passato, di immobilità, di conservazione. Il passatismo è il bersaglio polemico principale dei futuristi: è rappresentato dalle biblioteche, dai musei, dalle stesse sculture dell’arte antica (celeberrimo è il punto del primo manifesto in cui Marinetti enuncia un nuovo credo estetico, asserendo che un’automobile in corsa è più “bella” della Vittoria di Samotracia). Se il poeta futurista Luciano Fólgore scrive un’Ode all’Elettricità, significativi di per sé sono già i titoli scelti dagli autori futuristi, come Aeroplani (1909) di Paolo Buzzi, Il canto dei motori e Città veloce dello stesso Fólgore. Verso questo passato (che tende anche a configurarsi come una contrapposizione fra la Milano dell’industria e del progresso e Roma, passatista, con i suoi «inutili ruderi») i futuristi assumono consapevolmente il ruolo di liquidatori, anzi di “incendiari” (➜ T1 ). Una nuova visione della letteratura, antiromantica e antidecadente In ambito letterario il Futurismo assume fin dallo scritto Uccidiamo il chiaro di luna! (di pochi mesi successivo al primo manifesto) un atteggiamento polemico verso il sentimentalismo romantico, ma anche verso aspetti della letteratura del tempo, come la poesia crepuscolare: i futuristi attaccano l’intimismo, lo psicologismo, il decadentismo, rinnegando anche il modello dei simbolisti, pure loro maestri riconosciuti, definiti negativamente «ultimi amanti della luna». Di Marinetti è l’importante Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) in cui le posizioni ideologiche di fondo del movimento assumono la forma più specifica di una rivoluzione anche letteraria, attraverso una specie di programma, scandito in singoli punti (➜ T2 ). Spicca nel manifesto innanzitutto la proposta di distruggere tutto ciò che ha a che fare con l’io in senso psicologico-sentimentale, per introdurre la dimensione del corpo: la letteratura ha sempre dato importanza primaria ai sentimenti, invece ora dovrà riferirsi alle sensazioni fisiche, peso, odore, Luigi Russolo, Automobile in corsa, 1912-1913 (Centre Pompidou, Parigi). rumore. Il Futurismo 2 535

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L’«immaginazione senza fili» e le «parole in libertà» Altrettanto importante è l’elogio dell’immaginazione, dell’intuizione alogica, del disordine programmatico, della libertà assoluta dell’ispirazione, in cui può, e deve, trovare posto anche il brutto, contrapposto all’ordine razionale. La “velocità”, il dinamismo, impongono la necessità di eliminare aggettivi e avverbi, di porre i verbi all’infinito, di abolire in quanto inutile e vincolante la punteggiatura, di usare, al posto delle tradizionali similitudini, catene ininterrotte di condensazioni analogiche (l’«immaginazione senza fili»); inoltre, la libertà assoluta del comporre impone non solo il verso libero e l’abolizione della metrica, ma addirittura lo scardinamento della sintassi nelle famose «parole in libertà». Anche solo da questi riferimenti sintetici si può cogliere la dipendenza del Futurismo dalle innovazioni portate avanti dai simbolisti, che vengono però radicalizzate e portate ai limiti estremi. Ma la rivoluzione espressiva introdotta dal Futurismo va ancora oltre, valorizzando anche l’aspetto grafico, nell’intenzione di proporre una letteratura Da sinistra, Palazzeschi, Carrà, soprattutto “visiva”: da qui la dislocazione libera delle parole nella pagina (spesso Papini, Boccioni con l’intento di riprodurre visivamente un oggetto, un fenomeno, una sensazione e Marinetti nel 1914. fisica), l’uso di diversi corpi tipografici e così via (➜ T2 ). La contestazione della tradizione teatrale Particolare attenzione riserva il Futurismo all’ambito teatrale, in cui Marinetti porta avanti una battaglia contro ogni tradizione in nome dell’assoluta originalità (furono molteplici i Manifesti del teatro futurista). Le pièces sono spesso fulminee, ultrasintetiche, ridotte a poche battute, prive d’azione teatrale, nell’intento dichiarato di provocare il pubblico, come viene espressamente dichiarato nello scritto La voluttà di essere fischiati: Marinetti vi teorizza il «disprezzo del pubblico» delle prime, l’orrore del successo, e la necessità di eliminare dalle scene teatrali il canonico “triangolo borghese” che imperversava nei gusti del pubblico (➜ C8). I principali esponenti Non è casuale che il cuore del Futurismo sia Milano, allora la città industriale d’Italia, simbolo della moderna metropoli; ma ci fu anche un Futurismo fiorentino, raccolto attorno alla rivista «Lacerba», fondata nel 1913 da Papini e Soffici. Principali esponenti nell’ambito letterario sono Paolo Buzzi (1874-1956), Enrico Cavacchioli (1885-1954), il già nominato Luciano Fólgore (pseudonimo di Omero Vecchi, 1888-1977) e altri. Non pochi sono gli scrittori che attraversano una fase futurista, ma non si identificano esclusivamente in essa, come il ferrarese Corrado Govoni (1884-1965), che vive una stagione futurista (Rarefazioni e parole in libertà, 1915), ma la cui poesia più rappresentativa è riconducibile al gusto crepuscolare (Le fiale, Armonie in grigio e in silenzio) e Aldo Palazzeschi (1985-1974, ➜ T7 ). Tuttavia, gli esiti artistici più convincenti e importanti del Futurismo italiano non si ritrovano nella letteratura bensì nell’arte: si pensi ad artisti di grande rilevanza come Balla o Boccioni. Più interessante artisticamente è il Futurismo russo, diretta filiazione del movimento marinettiano (il Manifesto è tradotto in Russia nel 1910 e lo stesso Marinetti si reca tre anni dopo in Russia). Presto però i due movimenti si distanziano l’uno dall’altro per evidente incompatibilità ideologica: mentre il Futurismo marinettiano è nazionalista e bellicista, il Futurismo russo sposa la causa della Rivoluzione d’ottobre. Il suo maggiore rappresentante è Majakovskij (➜ T6 OL).

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Filippo Tommaso Marinetti

T1

«Il coraggio, l’audacia, la ribellione...» Manifesto del Futurismo

F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a c. di L. De Maria, Mondadori, Milano 1968

Il 20 febbraio 1909 sul quotidiano parigino «Le Figaro» Marinetti pubblica quello che è considerato l’atto di nascita del movimento futurista. Il Manifesto vero e proprio, che qui presentiamo, è preceduto da un’ampia introduzione che lo colloca in un preciso contesto storico-culturale e ne illumina la genesi. Il Manifesto è presentato come l’esito finale di una veglia febbrile, in cui Marinetti e pochi giovani accoliti, profeti di un nuovo Verbo, si rivolgono ai pochi uomini “vivi”. Sono spinti dalla «scopa della pazzia», e a essi Marinetti, che li guida, rivolge parole esortatorie: «Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio... Diamoci in pasto all’Ignoto...!».

1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il 5 salto mortale. Lo schiaffo ed il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile1 da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia2. 10 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un ca15 rattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata 20 l’eterna velocità onnipresente. 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî3, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e 25 combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati 30 da violente lune elettriche4; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano5; le 1 Un automobile: al tempo il nome automobile era considerato di genere maschile. 2 Vittoria di Samotracia: la Nike, celebre statua d’età ellenistica, conservata al museo parigino del Louvre.

3 libertarî: coloro che sostengono il valore della libertà e lottano per affermarlo. 4 lune elettriche: lampade, fari, in generale luci artificiali che illuminano la notte.

5 le stazioni... fumano: qui, e nelle righe che seguono, il linguaggio si fa metaforico e analogico: le stazioni sono rappresentate come esseri viventi che inghiottono i treni (le serpi) fumanti.

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officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante 35 degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta6. È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di cice40 roni e d’antiquarii. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. Musei: cimiteri!... Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri 45 odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese7! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti... ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo... Ma non ammetto che si conducano quo50 tidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? [...] Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione. Volete dunque sprecare tutte le vostre forze migliori, in questa eterna ed inutile 55 ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti? In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvari di sogni crocifissi, registri di slanci troncati!...) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i 60 moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: – l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato... Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi! E vengano dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per 65 inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate! 6 le officine... entusiasta: dopo le stazioni, sono evocati con un linguaggio immaginoso altri luoghi e oggetti simbolo della modernità: dalle officine, ai ponti,

alle navi, alle locomotive, agli aeroplani. 7 assurdi macelli... contese: i musei diventano per i pittori e gli scultori teatro di una lotta sanguinosa per primeggiare e

perché la loro opera possa essere esposta all’ammirazione del pubblico.

Analisi del testo Un manifesto ideologico Gli undici punti in cui si articola il Manifesto del Futurismo prospettano una nuova visione di cultura e di letteratura: all’introspezione, presentata come statica (l’immobilità pensosa, l’estasi, il sonno) è contrapposta la bellezza della velocità, dell’ardimento, dell’aggressività. Il nuovo mito poetico da cantare è la velocità, rappresentata dall’automobile in corsa, immagine

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di una nuova bellezza messa di fronte a quella antica, a sua volta simboleggiata dalla celebre Vittoria alata di Samotracia. Al mito della velocità è connessa anche l’esaltazione della guerra «sola igiene del mondo»: la guerra è il contrario della stasi, è movimento, cambiamento radicale ottenuto attraverso la distruzione. Altro tema presente nel manifesto è il rifiuto radicale, espresso in modi volutamente provocatori, del passato, i cui simboli sono le biblioteche, i musei, le accademie, che hanno la funzione di conservare una tradizione illustre, che Marinetti e i futuristi propongono di spazzare via per far posto alla civiltà del futuro, di cui si considerano i profeti. Da qui l’esaltazione, espressa in modi poetici, attraverso ardite metafore, della civiltà moderna: ai musei, alle biblioteche, custodi di un passato morto, Marinetti contrappone la frenetica realtà delle officine, dei cantieri, i ponti, le navi, le ferrovie, e gli aeroplani, simboli della modernità. Nel testo che segue il manifesto vero e proprio, Marinetti ribadisce – in modo più argomentato, rispetto alla prosa aforistica del manifesto – l’antipassatismo, in nome dello slancio vitale, un concetto probabilmente tratto dalla lezione del filosofo Bergson (L’evoluzione creatrice è del 1907). Assai significativa è l’identificazione dei giovani futuristi in “incendiari”, pronti a distruggere coraggiosamente ogni icona del passato. Non a caso una raccolta di Palazzeschi (➜ T7 ), che aderì per qualche tempo al Futurismo, si intitola proprio L’incendiario.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in 5 righe il testo, indicando autore, destinatari, finalità e parole chiave. ANALISI 2. Rintraccia nel documento le dichiarazioni che assumono un significato più marcatamente ideologico e politico, in rapporto al contesto storico. 3. Nel documento è evidente una volontà provocatoria: cita qualche esempio e spiegane la funzione in rapporto al contesto. COMPRENSIONE 4. Riesci a spiegarti perché Marinetti teorizza il «disprezzo della donna» (punto 9) e la lotta contro il femminismo (punto 10)? STILE 5. Marinetti fa abbondante uso nel testo di suggestive metafore: individua e commenta quelle che ti sembrano più significative.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. Al “noi” a cui fa riferimento l’intero documento Marinetti attribuisce i caratteri di un nuovo modello umano: che cosa lo contraddistingue e quali altri modelli umani risultano opposti a esso? Rispondi in un intervento orale di massimo 3 minuti. SCRITTURA 7. Dopo aver consultato il vocabolario: a. ricerca il significato etimologico del termine manifesto e le diverse sfumature di significato che può assumere, rifletti poi sul diverso significato rispetto a quello odierno; b. spiega la specifica accezione del termine qui presente e ricerca accezioni del termine che siano vicine all’uso che ne fa l’autore; c. rielabora infine una tua personale definizione di manifesto legata alla poetica e agli ideali che caratterizzarono il Futurismo.

Il Futurismo si presenta Manifesto del Futurismo 1909

mito della velocità

esaltazione del dinamismo

celebrazione della guerra

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Filippo Tommaso Marinetti

T2

Una poetica d’avanguardia Manifesto tecnico della letteratura futurista

F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a c. di L. De Maria, Mondadori, Milano 1968

Nel 1912 Marinetti prepone all’antologia I poeti futuristi il Manifesto tecnico della letteratura futurista, in cui enuncia i punti chiave della sua poetica. Come si può subito notare, si tratta di una poetica d’avanguardia, che scardina i princìpi estetici vigenti in nome di un’assoluta libertà di chi scrive e di un’innovazione radicale delle forme poetiche che trova la sua manifestazione più vistosa nelle «parole in libertà» e nell’«immaginazione senza fili».

[...] Ecco che cosa mi disse l’elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l’elica soggiunse: 1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono. 2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e 5 non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce. 3. Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la 10 nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. 4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unita l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono. 5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo15 torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto. [...] 6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno segni della 20 matematica: + – x : = > <, e i segni musicali. 7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press’a poco, a una specie di fotografia. (Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello 25 stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.) L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orche30 strale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo1, può abbracciare la vita della materia. [...] 8. Non vi sono categorie d’immagini, nobili o grossolane o volgari, eccentriche o naturali. L’intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita. 1 policromo, polifonico, e polimorfo: che si presenta multicolore, con più suoni, e sotto forme diverse.

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9. Per dare i movimenti successivi d’un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale. [...] 10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza cauta e guardinga bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine. 40 11. Distruggere nella letteratura l’«io», cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l’essenza a colpi d’intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici 45 né i chimici. Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi, la respirazione, la sensibilità e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno, ecc. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia. Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate piuttosto 50 i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di dilatazione, di coesione, e di disgregazione, le sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di elettroni. [...] Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora trascurati: 1. Il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti); 55 2. Il peso (facoltà di volo degli oggetti); 3. L’odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti). Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi. La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo preoccupato di 60 se stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane. [...] Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un’arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi. Esser 65 compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a meno, d’altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista mediante la sintassi tradizionale e intellettiva. [...] Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!» Ciò è bene inteso! E che 70 fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! non prendete di quest’arie da grandi sacerdoti, nell’ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull’Altare dell’Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente 75 le parole in libertà! 35

Analisi del testo L’elica dell’aereo come “voce” dell’enunciazione Marinetti immagina che il manifesto della nuova letteratura sia enunciato dall’elica dell’aereo su cui sta sorvolando Milano. Nel manifesto sono molti i punti importanti. Ci limitiamo a segnalare i principali.

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L’abolizione della psicologia a favore della materia In linea con il Manifesto del 1909, in cui era esaltato il vitalismo istintuale, qui Marinetti sostiene la necessità di abolire dalla letteratura l’«io», cioè la psicologia, descritta e rappresentata fino all’estenuazione, per sostituirle la materia, introducendo riferimenti al rumore, al peso, all’odore, fino ad allora assenti nella rappresentazione artistica. Ed effettivamente Marinetti, in molte sue poesie, fa riferimento all’ambito sensoriale, introducendo soprattutto i suoni.

La valorizzazione dell’intuizione alogica Secondo aspetto importante è la valorizzazione nella nuova poesia del potere dell’intuizione (contrapposta all’intelligenza), che non deve avere regole, neppure logiche, che può perseguire il disordine, che crea una catena illimitata di immagini analogiche inusitate, senza preoccuparsi né della loro bellezza (è ora di accogliere il “brutto” in letteratura), né della loro comprensibilità. Il credo della nuova poesia è l’«immaginazione senza fili». Da qui conseguono le più ardite asserzioni del manifesto, come l’invito ad abolire la sintassi e la punteggiatura, regole basilari della scrittura tradizionale.

L’adesione al dinamismo in ambito espressivo Altrettanto importante è l’adesione al mito della “velocità”, al dinamismo, che impone uno scrivere telegrafico, essenziale, che non contempli inutili soste, che eviti aggettivi e avverbi, ormai considerati inutili orpelli ornamentali. Marinetti preciserà poi in un apposito manifesto (11 maggio 1913) l’intuizione qui enunciata delle «parole in libertà».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Spiega la particolare prospettiva scelta dall’autore per il suo Manifesto (Marinetti attribuisce all’elica di un aereo su cui sta sorvolando Milano le norme di una nuova letteratura). 2. Individua i presupposti concettuali che motivano la prescrizione che intima la distruzione della sintassi, l’abolizione della punteggiatura, dell’aggettivo, l’uso del verbo all’infinito.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di massimo tre minuti, partendo dall’analisi di questo testo, spiega cosa significa “poetica d’avanguardia”. SCRITTURA 4. In un testo di massimo 10 righe, spiega cosa significa, secondo Marinetti, “distruggere nella letteratura l’‘io’”.

La letteratura futurista Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912)

visione anti-romantica e anti-decadente

rifuto di psicologismo e intimismo

spazio alla libertà dell’immaginazione e dell’intuizione

scardinamento della sintassi: “parole in libertà”

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Filippo Tommaso Marinetti

T3

Un esempio di paroliberismo: Correzione di bozze + desideri in velocità Parole in libertà, Zang tumb tuuum

F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a c. di L. De Maria, Mondadori, Milano 1968

Il testo è tratto dal primo capitolo di Zang tumb tuuum, pubblicato nel 1914.

Analisi del testo L’applicazione delle teorie futuriste Marinetti stesso applica il paroliberismo, l’«immaginazione senza fili» e le innovazioni radicali teorizzate nel Manifesto tecnico del 1912 in testi come quello proposto, tratto dal primo capitolo (Correzione di bozze+desideri in velocità) di Zang tumb tuuum: questo “poemetto” in varie sezioni, pubblicato nel 1914, prende spunto dal viaggio di Marinetti sul fronte della guerra turco-bulgara, a cui assiste nel 1913, ricavandone le forti impressioni che poi vi traspone.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Quali aspetti del manifesto tecnico vedi applicati in questo testo? Elencali. STILE 2. Ricerca le parole chiave e commenta le scelte grafico-tipografiche.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 3. Prova a “mimare” Filippo Tommaso Marinetti, imitando anche la sua tecnica narrativa di artista futurista (tono espositivo, lessico, temi, scelte grafico-tipografiche ecc.), e scrivi un tuo personale breve testo “d’avanguardia” prendendo spunto dall’attualità.

online T4 Filippo Tommaso Marinetti

Bombardamento Zang tumb tuuum

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Valentine de Saint-Point

T5

Ogni donna deve possedere «delle qualità virili»

EDUCAZIONE CIVICA

Manifesto della donna futurista Futuriste. Letteratura. Arte. Vita, a c. di G. Carpi, Castelvecchi, Roma 2009

Nonostante il forte maschilismo, addirittura la misoginia, che caratterizza il Futurismo a cominciare dal Manifesto del 1909, il movimento annovera nelle sue file anche delle artiste. Sono donne emancipate, come Valentine de Saint-Point (1875-1953), scrittrice e pittrice francese, battagliera autrice di due manifesti: il Manifesto della donna futurista, scritto per controbattere alla misoginia del manifesto marinettiano e letto dall’autrice stessa a Parigi nel 1912, e il Manifesto futurista della lussuria (1913). Riportiamo alcuni passi dal primo manifesto.

È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta soltanto di femminilità e di mascolinità. [...] Ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità. Ecco perché il futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione. 5 Per ridare una certa virilità alle nostre razze intorpidite nella femminilità, bisogna trascinarle alla virilità, fino alla brutalità. Ma bisogna imporre a tutti, agli uomini e alle donne ugualmente deboli, un dogma nuovo di energia, per arrivare ad un periodo di umanità superiore. Ogni donna deve possedere non soltanto delle virtù femminili, ma delle qualità 10 virili; altrimenti è una femmina. E l’uomo che ha soltanto la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto. Ma, nel periodo di femminilità in cui viviamo, solo l’esagerazione contraria è salutare. Ed è il bruto che si deve proporre a modello. [Il testo procede esaltando eroine guerriere come le Amazzoni, Giovanna d’Arco, don15 ne crudeli e lussuriose, come Cleopatra, Messalina, prototipo di una donna “virile”, mentre invece viene condannato il movimento femminista.] Ma si lasci da canto il Femminismo. Il Femminismo è un errore politico. Il Femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. Non bisogna dare alla donna nessuno dei diritti reclamati dal Femminismo. 20 L’accordar loro questi diritti non produrrebbe alcuno dei disordini augurati dai futuristi, ma determinerebbe, anzi, un eccesso di ordine. [...] Già da secoli si cozza contro l’istinto della donna, null’altro si pregia di lei che la grazia e la tenerezza. L’uomo anemico, avaro del proprio sangue, non le domanda più che di essere un’infermiera. Essa si è lasciata domare. Ma gridatele una parola 25 nuova, lanciate un grido di guerra, e con gioia, cavalcando di nuovo il suo istinto, essa vi precederà verso conquiste insperate. [...] Donne, per troppo tempo sviate fra le morali e i pregiudizi, ritornate al vostro istinto sublime: alla violenza e alla crudeltà. [...] Invece di ridurre l’uomo alla servitù degli esecrabili bisogni sentimentali, spin30 gete i vostri figlioli e i vostri uomini a superarsi. Siete voi che li fate. Voi avete su loro ogni potere. All’umanità voi dovete degli eroi. Dateglieli! Parigi, 25 marzo 1912

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Analisi del testo Il modello di donna futurista Valentine de Saint-Point, rispondendo al «disprezzo della donna» enunciato in uno dei punti del Manifesto del 1909, traspone, nell’immagine di donna che vi è esaltata, il modello futurista di umanità: la donna non deve essere femminile, sensibile, sentimentale, protettiva, indulgere alle tradizionali qualità attribuite al sesso femminile, ma far prevalere la componente istintuale, in cui sta la forza e la specificità della donna, saper essere violenta e crudele come tante eroine dell’antichità. In un punto (non antologizzato) di questo manifesto, e soprattutto nel secondo firmato da Valentine de Saint-Point (Manifesto futurista della lussuria), inoltre è esaltato il valore liberatorio e creativo della lussuria e condannata ogni forma di perbenismo e di chiusura morale nella sfera sessuale. Effettivamente molte donne futuriste manifestarono nella vita ardimento “maschile” e sprezzo del pericolo, ad esempio praticando con una passione straordinaria il volo aereo, e nella vita privata esibirono, come la stessa SaintPoint, comportamenti erotici disinibiti.

Il ruolo creativo del “femminile” Assai significativa è d’altra parte la polemica nei confronti del femminismo, che nel primo Novecento anche in Italia si stava diffondendo: alle rivendicazioni femministe dei diritti della donna e della sua dignità all’interno della famiglia e della società, la Saint-Point contrappone il ruolo creativo originario del “femminile”, la forza dell’istinto. Di fatto la scrittrice finisce per riproporre, pur con toni enfatici e aggressivi, la tradizionale dicotomia madre-amante e una sostanziale subordinazione, per lo meno sul piano teorico, delle energie creatrici del femminile all’uomo, l’“eroe” che la donna (madre o amante) deve generare e contribuire a forgiare. Valentine de Saint–Point nel 1914.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo, indicandone il tema principale (max 5 righe). ANALISI 2. Indica gli aspetti del testo (tono espositivo, lessico, temi...) che possono essere ricondotti al Futurismo e gli aspetti che invece rimandano a un’angolazione “femminile” del movimento.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

COMPRENSIONE 3. Perché la battaglia femminista di fatto viene respinta? 4. Quale modello culturale di donna, secondo te, emerge dal Manifesto di Valentine de Saint-Point? Lo condividi? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 15 righe.

UGUAGLIANZA DI GENERE

online T6 Vladimir Majakovskij La guerra è dichiarata

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Corrado Govoni

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Una poesia “visiva” Palombaro

C. Govoni, Rarefazioni e parole in libertà, in E. Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Librex, Milano 1986

Questa celebre poesia appartiene alla fase futurista della produzione di Corrado Govoni (1884-1965), la cui maggiore produzione appartiene all’ambito simbolista e crepuscolare. Corrado Govoni, giovanissimo, strinse amicizia con Corazzini, Palazzeschi e Papini e collaborò a importanti riviste nel primo Novecento. Documentano la sua adesione al Futurismo le raccolte Poesie elettriche (1907) e Rarefazioni e parole in libertà (1915).

Concetti chiave Un interprete delle “parole in libertà”

Palombaro è una poesia “visiva”, una «tavola parolibera» in cui l’immagine presentata va integrata per via analogica con la didascalia. Nel testo di Govoni si ritrova la poetica delle “parole in libertà” teorizzata, e fatta propria in alcune sue opere, da Marinetti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

ANALISI 1. Osserva e interpreta l’insieme delle definizioni che si riferiscono al palombaro. SCRITTURA 2. Rifletti sul rapporto presente fra testo e immagine in un breve testo, domandandoti se ancora oggi esso sopravvive in qualche forma d’arte (max 20 righe).

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Aldo Palazzeschi Palazzeschi e la provocatoria poetica del “controdolore” Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani) nasce a Firenze nel 1885. Frequentando una scuola di recitazione conosce il poeta Marino Moretti, di cui diventa grande amico. Appena ventenne pubblica la sua prima raccolta poetica (I cavalli bianchi, 1905), a cui seguono altre raccolte vicine all’area poetica dei crepuscolari (Lanterna, 1907 e Poemi, 1909). Entra quindi in rapporto con Marinetti e il movimento futurista, al cui spirito si richiamano la raccolta di versi L’incendiario (1910) e l’antiromanzo Il codice di Perelà (1911), storia allegorica e grottesca su «un uomo di fumo». L’incontro con il Futurismo è certo favorito dalla disposizione personale di Palazzeschi al riso dissacrante, a una forma di arte ludica e gioiosa (da alcuni ascritta allo spirito della tradizione toscana), che lo scrittore teorizza esplicitamente in una sorta di manifesto di Aldo Palazzeschi poetica, Il controdolore (1913) pubblicata su «Lacerba» (in un’edizione successiva nel 1913. intitolato L’antidolore) in cui compie una vera e propria apologia del riso, portando al limite estremo l’irrisione futurista verso il sentimentalismo: «Ridere quando se ne ha voglia, quando cioè il nostro ingegno, il nostro istinto più profondo ce ne suggeriscono il diritto, sviluppare questa che è la sola facoltà divina dell’essere umano». Palazzeschi suggerisce la necessità di una nuova pedagogia che insegni a ridimensionare le sofferenze, a ridere di sé e dei drammi della vita, della morte stessa, come autoterapia, come antidoto a quella che considera una deleteria “cultura della sofferenza”: «Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere non appena se ne sente la necessità». Sempre nel 1913, con Soffici e Papini, è a Parigi, dove conosce importanti esponenti delle avanguardie europee (dai pittori Picasso e Braque al poeta Apollinaire). Già nel 1914 prende le distanze da Marinetti, anche per ragioni etico-politiche: antinterventista, sarà poi in seguito anche antifascista. Il resto della sua vita si svolge a Firenze (fino al 1940), con vari soggiorni nell’amata Parigi, e in seguito a Roma, dove muore nel 1974. Scrive moltissimo nel corso della sua lunga attività, che abbraccia più di cinquant’anni, rivelando sempre estro e originalità, ma la fase migliore della sua produzione rimane la prima: poesie (oltre a L’incendiario, Cuor mio, 1968; Via delle cento stelle, 1972), racconti (Stampe dell’Ottocento, 1932; Il buffo integrale, 1966), romanzi (oltre a Il codice di Perelà, la sua opera più famosa è Le sorelle Materassi, 1934).

I Giardini di Campo di Marte visti dalla base della Tour Eiffel, 1900

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Aldo Palazzeschi

T7

LEGGERE LE EMOZIONI

Lasciatemi divertire L’incendiario

A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire in Poeti italiani del Novecento, a c. di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978

La poesia è introdotta nella raccolta L’incendiario (1910), composta quando Palazzeschi era vicino alle posizioni del Futurismo (è evidente la presenza dei modi provocatori, dissacranti propri del Futurismo), ma si potrebbe dire che la ricerca quasi del nonsense, di una poesia che si identifichi con il puro suono, avvicini Palazzeschi alla più estrema delle avanguardie, il Dadaismo. Lasciatemi divertire è anche e soprattutto espressione di una “poetica del divertimento”, del «controdolore» che contrappone la visione di Palazzeschi alla dolorosa testimonianza di tante voci della poesia contemporanea, come quelle dei “vociani”.

Tri tri tri, fru fru fru, uhi uhi uhi, ihu ihu ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire 10 poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto1.

25

Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie3, sono la... spazzatura delle altre poesie.

30

Bubububu, fufufufu, Friù! Friù!

5

Cucù, rurù, rurù cucù, 15 cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche. 20 Sono la mia passione2. Farafarafarafa, Tarataratarata, Paraparaparapa, Laralaralarala!

La metrica Strofe di versi liberi. 1 Il poeta... il suo diletto: la voce che parla nella prima strofa è quella di un anonimo interlocutore che difende il poeta, fatto

oggetto di critica da parte della collettività; insolentire, “insultare”; corbellerie, “stupidaggini, sciocchezze”. 2 Cosa sono... mia passione: in questa strofa le voci sono almeno due: le

Se d’un qualunque nesso 35 son prive, perché le scrive quel fesso? Bilobilobilobilo blum! 40 Filofilofilofilofilo flum! Bilolù. Filolù. U.

domande risentite appartengono a un nuovo interlocutore, a cui il poeta stesso risponde difendendo il suo diritto alle licenze poetiche. 3 grullerie: scemenze.

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Non è vero che non voglion dire, vogliono dire qualcosa. Voglio dire... come quando uno si mette a cantare senza saper le parole. Una cosa molto volgare. 50 Ebbene, così mi piace di fare.

75

45

Aaaaa! Eeeee! Iiiii! Ooooo! 55 Uuuuu! A! E! I! O! U!

Labala 80 falala eppoi lala... e lalala, lalalalala lalala. Certo è un azzardo un po’ forte scrivere delle cose così, 85 che ci son professori, oggidì, a tutte le porte.

Ma giovinotto, diteci un poco una cosa, non è la vostra una posa, 60 di voler con così poco tenere alimentato un sì gran foco4? Huisc... Huiusc... Huisciu... sciu sciu, 65 Sciukoku... Koku koku, Sciu ko ku.

70

Lasciate pure che si sbizzarrisca, anzi, è bene che non lo finisca, il divertimento gli costerà caro: gli daranno del somaro.

Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Infine, io ho pienamente ragione, i tempi sono cambiati, gli uomini non domandano più nulla dai poeti: 95 e lasciatemi divertire! 90

Come si deve fare a capire? Avete delle belle pretese, sembra ormai che scriviate in giapponese. Abì, alì, alarì. Riririri! Ri.

4 un sì gran foco: un così grande fuoco: allude all’ispirazione poetica come è rappresentata e pensata dalla tradizione che qui Palazzeschi contesta.

Analisi del testo Un modo dissacrante per parlar di poesia Certamente anticonformistico e già di per sé dissacrante è il modo scelto da Palazzeschi per parlare di poesia: in Lasciatemi divertire, alla centralità dell’io lirico si sostituisce una pluralità di voci anonime tra le quali si insinua quella del poeta, in una situazione che mima la quotidianità: in questo modo un argomento “alto” qual è il dibattito letterario, viene ricondotto al livello di chiacchiere della gente comune. Già questa scelta, al di là delle singole prese di posizione all’interno del testo, implica un evidente “abbassamento” dell’idea di poesia e un’indiretta svalutazione del ruolo autorevole del poeta.

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Anche in un altro noto testo poetico (Chi sono?) Palazzeschi riflette sul ruolo del poeta, demitizzandolo («Chi sono? / Son forse un poeta? / No certo»), per concludere con la definizione di sé come saltimbanco («Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia»). L’immagine del poeta-clown è derivata da Baudelaire, ma viene piegata da Palazzeschi a una significazione ludica e trasgressiva.

La poetica del “divertimento” In Lasciatemi divertire il testo poetico oggetto del dialogo tra vari interlocutori e il poeta è rappresentato da semplici sequenze di suoni, talvolta onomatopeici, ma per lo più privi di qualunque significato (si può parlare di nonsense). Evidentemente già questo implica una precisa presa di posizione sul valore e sul ruolo della poesia nella società moderna: non solo la poesia non ha più un’importante funzione sociale («gli uomini non domandano più nulla / dai poeti»), ma non è neppure sofferta testimonianza autobiografica, come nei “vociani”. La poesia, addirittura, non ha contenuti significativi da trasmettere, è un’attività “inutile” e incomprensibile ai più, la cui funzione consiste esclusivamente nel divertimento del poeta, che gioca con suoni e parole.

La provocazione nei confronti dei fautori della tradizione Naturalmente questa visione della poesia non può non scandalizzare i tradizionalisti, i fautori della “sacralità” o per lo meno della serietà dell’attività poetica. All’enunciazione della poesia come nonsense si contrappongono infatti le proteste, ora benevole (piccole corbellerie) ora risentite (indecenze), delle voci che fanno da contrappunto alla poesia-divertimento assurdo, che arrivano a definire il poeta con un insulto vero e proprio: quel fesso (che si è permesso di scrivere cose senza nesso). Dietro la polemica “messa in scena” nel dialogo si intravede il gusto della provocazione irriverente del pubblico cara ai futuristi, l’attacco da essi condotto, fin dal primo manifesto (1909) alle figure istituzionali della cultura, qui rappresentate dai professori (v. 85).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Su che cosa è incentrato il dialogo che occupa la maggior parte della poesia? 2. Chi sono gli interlocutori? ANALISI 3. Individua le espressioni del testo che rimandano alla “poetica del divertimento” di Palazzeschi ed elencale. STILE 4. Rintraccia gli elementi tipici del parlato presenti nel testo: quali considerazioni puoi fare?

Interpretare

PER APPROFONDIRE

LEGGERE LE EMOZIONI

LESSICO 5. Evidenzia i termini e le espressioni ironiche: a chi si riferiscono e perché? 6. Lasciatemi divertire è espressione della provocatoria “poetica del controdolore” manifestata attraverso una risata. Quanto conta nella tua vita la possibilità di esternare le emozioni facendo ricorso al riso? Credi che ridere possa avere anche una funzione liberatoria?

La cucina futurista Come si è detto, il Futurismo volle essere un movimento antipassatista “globale” che coinvolgesse i più diversi campi dell’arte, del costume e della vita stessa. Ci furono una moda futurista, e anche una cucina futurista: il 28 dicembre 1930, sulla «Gazzetta del Popolo» di Torino, è pubblicato un manifesto di cucina futurista, scritto da Marinetti e dal pittore futurista Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo). L’obiettivo è quello di suggerire la dieta adatta a una «vita sempre più aerea e veloce» (anche in questo caso impera il mito della velocità!), in cui deve essere bandita la pastasciutta: il cibo nazionale per eccellenza è considerato difficilmente digeribile, induce «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo» e, inoltre, «l’abolizione della pasta-

sciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso». Nel manifesto si teorizza «l’invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutra gli occhi ed ecciti la fantasia prima di tentare le labbra», come il famoso carneplastico, un polpettone ripieno di undici varietà di verdure a cui è data la forma di una scultura, o «la creazione di bocconi simultanei e cangianti che contengano dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi. Questi bocconi avranno nella cucina futurista la funzione analogica che le immagini hanno nella letteratura. Un dato boccone potrà riassumere una intera zona di vita, lo svolgersi di una passione amorosa o un intero viaggio nell’estremo Oriente».

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3 Le altre avanguardie 1 L’Espressionismo

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Sguardo sul cinema Il cinema espressionista

Ernst Ludwig Kirchner, Strada berlinese, 1913 (MoMA, New York).

Estremizzazione e deformazione del linguaggio L’Espressionismo è un importante movimento che si diffonde soprattutto in Germania, a cominciare dall’ambito pittorico per coinvolgere poi la letteratura, il cinema e il teatro, con risultati artistici nel complesso molto più elevati di quelli raggiunti dal Futurismo italiano. La poetica del movimento è definita tra il 1916 e il 1917 da due critici, Hermann Bahr e Kasimir Edschmid: “espressionista” è sinonimo di esasperazione dell’espressività, grido di protesta contro la società e le sue istituzioni; espressionista è quell’arte che usa in modo estremo il linguaggio, sottoponendolo a un’estremizzazione e deformazione iperespressiva. È connessa all’Espressionismo tedesco una visione etico-politica che contesta l’egoismo della società capitalistica in modo radicale, a volte anarchico, e una visione dell’uomo volta a riscoprirne la naturalità, l’eros disinibito, le forze istintuali contro ogni forma di repressione. La visione espressionista è caratterizzata da una disperata negatività, da una visione tragica della vita, di cui è amplificata la negatività attraverso un’ottica deformante, esasperatamente soggettiva, che dà luogo a una rappresentazione per lo più onirica e allucinata. Nell’Espressionismo si manifesta la protesta verso la crisi morale della società borghese, che induce gli artisti a focalizzarsi sugli aspetti più negativi, a volte orribili della realtà (➜ T8 OL), ma anche una sete di assoluto e di verità che nel mondo moderno appare sempre più frustrata. Nella pittura spiccano Otto Dix e nella grafica George Grosz, ma se si intende la categoria “Espressionismo” in senso più ampio – come una forma d’arte che dà voce all’interiorità profonda degli artisti e ai loro fantasmi mentali – allora possono essere considerati espressionisti anche Van Gogh o Edvard Munch (il suo celeberrimo L’urlo del 1885 potrebbe essere il manifesto dell’Espressionismo). Tra i musicisti ricordiamo Arnold Schönberg e Alban Berg, tra i drammaturghi il primo Bertolt Brecht, tra i poeti Trakl, Benn, Heym, Stramm, i prosatori Döblin e Kubin. Particolarmente importante è l’influsso dell’Espressionismo nel cinema, in cui spicca una serie di opere che costituiscono dei capitoli importanti della storia del cinema come Il gabinetto del dottor Caligari (1920), Nosferatu (1922) e infine Metropolis (1927) Le altre avanguardie 3 551

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Tendenze espressioniste nella letteratura italiana del Novecento In Italia non è esistito un movimento espressionista vero e proprio, ma singole voci letterarie possono ricondursi allo spirito di questo importante movimento, come alcuni aspetti della narrativa “crudele” del senese Tozzi, alcune novelle e alcuni testi teatrali di Pirandello (che peraltro ben conosceva la cultura tedesca, online essendosi formato a Bonn), la propensione alla deformazione T8 Gottfried Benn Una lirica “crudele” grottesca di Gadda e la lirica di alcuni poeti dell’area “vociana” Bella gioventù, Morgue, II come Rebora.

Espressionismo visione negativa della realtà

raffigurazione onirica, allucinata

raffigurazione degli aspetti cupi e angoscianti

linguaggio iper-espressivo

2 Il Dadaismo online

immagine interattiva Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta

Fotografia del 1917 dell’opera Fontana, realizzata da Marcel Duchamp e andata perduta.

Un’arte totalmente de-sublimata Tra il 1916 e il 1921, quando il Futurismo sta esaurendo la sua fase creativa e propositiva, nasce a Zurigo, e si sviluppa poi soprattutto a Parigi, il Dadaismo. Ispiratore e figura centrale del movimento è il poeta di origine rumena Tristan Tzara (1896-1963), autore del primo manifesto del Dadaismo (1918), cui ne seguiranno altri. Con il Futurismo e l’Espressionismo il Dadaismo ha in comune la contestazione della società e delle forme codificate dell’arte, percepite ormai come sclerotizzate; ma lo contraddistingue in particolare una visione ideologica sostanzialmente anarchica, se non addirittura nichilista, nata dal disgusto per le stragi della Prima guerra mondiale (i dadaisti non si propongono di creare un nuovo mondo, come invece i futuristi, e rifiutano qualsiasi forma di impegno politico e sociale), e una concezione del tutto relativistica dell’opera d’arte. Secondo il Dadaismo chiunque può diventare artista e qualsiasi oggetto può diventare “artistico”: tra i primi artisti del movimento figura il pittore parigino Marcel Duchamp (1887-1968), che crea forme d’arte da oggetti banali, sottratti al contesto del quotidiano (celeberrima la ruota di bicicletta che Duchamp monta su uno sgabello). Se la società trasforma ormai l’arte in merce, in oggetto di consumo, provocatoriamente i dadaisti trasformano l’“oggetto” in arte. Il termine stesso dada (leggi dadà) scelto a identificare il movimento non significa niente (nacque per caso, sfogliando un dizionario) e allude a un’arte totalmente de-sublimata (cioè sliricizzata, abbassata) in cui l’aspetto ludico, il non sense, o semplicemente un’espressione nata per caso può avere la stessa dignità di un testo serio, proprio perché non esiste nella realtà alcun ordine e gerarchia e l’uomo stesso è “caos”, «informe entità infinitamente variabile», come si legge nel manifesto dadaista. Di conseguenza l’arte non può essere «una cosa seria» (➜ D2 ).

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L’ambito letterario in cui è più evidente la deflagrazione dei codici tradizionali attuata dai dadaisti è il teatro: di fatto è distrutto il dialogo, ogni personaggio parla per conto suo, in una sorta di soliloquio multiplo che attacca alle fondamenta la specificità della forma teatro.

Dadaismo arte de-sublimata

realtà concepita come caos

qualsiasi cosa può diventare arte

non-senso dell’arte stessa

Tristan Tzara

Un testo provocatorio sul far poesia

D2

Per fare una poesia dadaista T. Tzara, Manifesto sull’amore debole e sull’amore amaro, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1971

Questo componimento, scritto dal fondatore del Dadaismo Tristan Tzara, offre un esempio dell’atteggiamento provocatorio dei dadaisti nei confronti delle regole imposte dall’arte poetica.

Prendete un giornale. Prendete un paio di forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia. 5 Ritagliate l’articolo. Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto. Agitate dolcemente. Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nell’ordine con cui le estrarrete. 10 Copiate coscienziosamente. La poesia vi rassomiglierà. Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, incompresa dalla gente volgare.

Concetti chiave Una ricetta dissacrante

In questo testo, che è una specie di provocatoria “ricetta”, Tzara teorizza un modo dissacrante di fare poesia, che comporta il corrosivo svuotamento di ogni serietà dell’attività letteraria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

COMPRENSIONE 1. Quale invito viene rivolto al lettore da Tzara? ESPOSIZIONE ORALE 2. Quello che viene enunciato come un metodo di composizione potrebbe a prima vista sembrare uno scherzo, ma così non è: quale concezione di poesia emerge dalla provocazione di Tzara? Rispondi in un intervento orale di massimo 2 minuti.

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3 Il Surrealismo Un’arte proveniente dall’inconscio L’avanguardia europea che si inoltra maggiormente nel Novecento è il Surrealismo. Nasce a Parigi nel 1924, anno del manifesto surrealista a opera di André Breton (1896-1966). Breton, Aragon e altri intellettuali erano stati in contatto con il Dadaismo, ma se ne distaccano per fondare un nuovo movimento d’avanguardia: «Il Surrealismo nacque dalle ceneri di Dadà» affermò Tzara. Caratterizzano espressamente il Surrealismo, rispetto agli altri movimenti d’avanguardia, l’influenza dell’opera di Freud, ma anche il pensiero di Marx (diversamente del nichilismo distruttivo del Dadaismo, il Surrealismo crede nell’impegno politico e lotta per una società libera, che restituisca all’uomo la sua autenticità e pienezza di vita). Nella concezione surrealista è fondamentale, appunto sulla base della lezione di Freud, che l’arte faccia riferimento all’inconscio, di cui il padre della psicoanalisi aveva svelato l’importanza centrale nella vita psichica. Il Surrealismo crede necessario sondare le profondità sconosciute dell’uomo, poiché la realtà privilegiata e “vera” è proprio l’inconscio. Il modo più importante per attingere alla vita dell’inconscio è quello di affidarsi al sogno, di dare spazio alla dimensione onirica, ma anche agli stati allucinatori e alle fantasie, che consentono di trascendere la realtà e accedere a una “sovra-realtà” (da qui il termine “surrealismo”), cioè una realtà diversa, che si trova oltre quella filtrata dalla consapevolezza e dalla censura razionale. In ambito letterario Breton teorizza l’«automatismo psichico», un modo di liberarsi dai vincoli della ragione così da esprimere, attraverso libere associazioni, registrate dalla cosiddetta «scrittura automatica», il funzionamento reale del pensiero, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale. Al Surrealismo aderiscono artisti di grandissimo rilievo come Magritte, Dalí, Miró, De Chirico. Ma anche il cinema surrealista conta figure di prima grandezza come René Clair, Luis Buñuel, Antonin Artaud. online In Italia forse l’unica figura che può essere ascritta al surreaD3 André Breton Segreti dell’arte magica surrealista lismo europeo è Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Primo manifesto del Surrealismo Chirico, 1891-1952).

Surrealismo l’arte accede a una “sovra-realtà”

importanza dell’inconscio (da Freud)

impegno politico (da Marx)

• libere associazioni • dimensione onirica

Fissare i concetti Le avanguardie 1. Quali sono le principali avanguardie europee? Che cosa le accomuna? 2. Chi sono i protagonisti del Futurismo italiano? Quali sono le peculiarità del movimento? 3. Che cosa significa il termine “dada”? 4. Quale importante teoria del primo Novecento ispira il Surrealismo?

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Primo Novecento Duecento e Trecento La avanguardie Le letteratura cortese nella Francia feudale

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Caratteri delle avanguardie

Tra il primo e il secondo decennio del Novecento si affermano in Europa dei movimenti caratterizzati da un’ardita sperimentazione che si è soliti definire avanguardie storiche per distinguerli dalle cosiddette (e successive) neoavanguardie: le principali avanguardie sono il Futurismo che nasce in Italia, l’Espressionismo, il Dadaismo e il Surrealismo, che ha una vita più lunga nel tempo. Le avanguardie sono ispirate dalla volontà di creare un’arte totalmente nuova (in ambito letterario e artistico), che si pone in un rapporto di rottura con la tradizione, e da una forte coscienza programmatica, che si traduce nei molti “manifesti” che enunciano i principi basilari dei vari movimenti.

2 Il Futurismo

La prima delle avanguardie storiche europee nel tempo fu il Futurismo italiano, che ebbe grande risonanza e influenza in tutta Europa (Francia, Russia, Inghilterra) e di cui fu ispiratore e promotore Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Il Futurismo è prima che artistico un movimento ideologico, che si inquadra nel clima irrazionalistico del primo Novecento e nella contestazione dello Stato giolittiano. Nel celebre Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi su «Le Figaro», il futurismo combatte la stasi, esalta il dinamismo, la violenza, la guerra «sola igiene del mondo» perché capace di indurre cambiamenti radicali. Molte posizioni e slogan saranno ereditati dal fascismo. Marinetti e i futuristi inneggiano alla modernità, alla velocità, di cui è simbolo la macchina in corsa, attaccano in nome del futuro tutto ciò che può rappresentare la cultura del passato. Centro del Futurismo è la città più moderna d’Italia, cioè Milano. Il manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) enuncia i principi cardine della rivoluzione auspicata da Marinetti in ambito letterario. – Il rifiuto del sentimentalismo, dello psicologismo, in nome di un’arte che attinga alle sensazioni. – La necessità di dare spazio all’immaginazione, alla libera ispirazione contro i vincoli della tradizione letteraria e addirittura della logica. – L’abolizione in nome della libertà compositiva delle norme metriche, lo scardinamento della sintassi, l’eliminazione della punteggiatura per le “parole in libertà”, l’uso creativo della grafica in nome di una letteratura che valorizzi la “visività”. Gli esiti migliori del Futurismo vanno cercati però non nella letteratura ma nell’arte figurativa che comprende nomi di primo piano, oggi considerati dei grandi artisti, come Boccioni o Balla.

3 Le altre avanguardie

L’Espressionismo L’Espressionismo è un’avanguardia diffusa soprattutto in Germania in ambito pittorico, letterario, teatrale e anche cinematografico. All’Espressionismo corrisponde una visione cupa, negativa della società moderna, che viene radicalmente

Sintesi

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contestata. Secondo questa prospettiva la tendenza è quella di rappresentarne gli aspetti orribili, angoscianti, e di esasperare-deformare immagini e linguaggio in funzione iperespressiva (come ad esempio nelle poesie di Trakl, Benn, Stramm o nei dipinti di Otto Dix). Il termine “espressionismo”, al di là della sua specificità, è stato impiegato come categoria estetica più generale, ogni volta che si ritrova un’insistenza su aspetti grotteschi o la deformazione del linguaggio per effetti iperespressivi (come in un narratore come Gadda o un poeta come Rebora). Il Dadaismo Il primo manifesto del Dadaismo, nato a Zurigo e affermatosi soprattutto in Francia, è del 1918. Ne è autore il poeta di origine rumena Tristan Tzara (1896-1963). Il Dadaismo prende nome dalla parola dada, una parola ritrovata casualmente, che non significa niente e la cui scelta a emblema del movimento allude a un’idea disimpegnata di arte, o addirittura al non senso dell’arte stessa in una realtà percepita come caos, anarchia. Per i dadisti qualsiasi cosa può diventare arte (come la ruota di bicicletta di Duchamp o i pezzetti di un giornale assemblati a caso) in un mondo dove l’arte è ridotta a merce. Il Surrealismo Il Surrealismo nasce a Parigi nel 1924 per iniziativa di André Breton (18961966), autore del primo manifesto del movimento. A differenza del Dadaismo, da cui pure prende le mosse, il Surrealismo, ispirandosi al pensiero marxista, crede nell’impegno politico. Altrettanto importante è l’influenza di Freud da cui i surrealisti derivano l’importanza dell’inconscio, la necessità che l’arte attinga a una sovrarealtà oltre la dimensione razionale. Da Freud è derivato anche il metodo delle “libere associazioni”, registrate da quella che Breton definisce «scrittura automatica». Enorme è l’importanza del Surrealismo soprattuto in ambito artistico (Dalí, Miró, De Chirico) e cinematografico (Buñuel).

Zona Competenze Esposizione orale

1. In un intervento orale di massimo 3 minuti, riassumi alla classe le principali innovazioni tecniche apportate dal movimento futurista in ambito letterario.

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Primo Novecento CAPITOLO

13 La poesia in Italia nel primo Novecento

Nell’età giolittiana, all’aggressivo vitalismo e al culto della modernità del Futurismo, si contrappongono da un lato il malinconico ripiegamento intimistico della poesia crepuscolare, dall’altro il pessimismo esistenziale e la tensione etica dei poeti “vociani”. In polemica con la figura del poeta vate (Carducci) e del poeta superuomo (D’Annunzio), i crepuscolari danno vita a una poesia minimale e dimessa, dai contenuti volutamente prosastici e provinciali. Su un altro versante, i poeti “vociani” – per alcuni dei quali si è parlato di espressionismo (in particolare per Rebora) – pongono al centro della poesia, concepita come vocazione e rivelazione, la sofferta ricerca del senso dell’esistenza e sperimentano nuove soluzioni stilistiche, anticipando la grande poesia novecentesca.

1 Iunacrepuscolari: poesia

con la “p” minuscola

Gozzano: 2 Guido crepuscolarismo e ironia

3 ILa“vociani”. poesia come vocazione di vita

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I crepuscolari: una poesia con la “p” minuscola Nascita di un’etichetta critica Nell’età giolittiana si iscrive la produzione di alcuni poeti che vengono ancora oggi definiti “crepuscolari”. L’etichetta critica, che implicava originariamente un giudizio sostanzialmente limitativo, si deve al critico e scrittore Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). In un articolo, pubblicato su «La Stampa» il 10 settembre 1910, Borgese definiva “crepuscolari” gli autori di tre nuovi volumi di poesie pubblicati in quell’anno: Carlo Chiaves (1882-1919), Fausto Maria Martini (1886-1931) e Marino Moretti (1885-1979). La loro poesia appariva a Borgese segno di una condizione spirituale malinconica, di un ripiegamento intimistico rinunciatario, testimonianza di «una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne», con allusione alla poesia, in vario modo autorevole, di Carducci e Pascoli, che Borgese vedeva tramontare di fronte all’emergere di modalità poetiche estenuate, comunque costituzionalmente diverse. Il termine ebbe grande fortuna critica, finendo, come spesso è accaduto, per accomunare poeti in realtà assai diversi tra loro: oltre ai tre già citati e ad altri minori, fanno parte dei crepuscolari anche Sergio Corazzini e Guido Gozzano, forse i più noti del gruppo.

Harold Gilman, Interno, 1907 ca (Tate Britain, Londra).

Alcuni punti fermi sui crepuscolari Nonostante la diffidenza della critica moderna per le etichette generalizzanti, la definizione è tuttora largamente impiegata, ma certo ha perduto l’originaria connotazione limitativa e implica alcune fondamentali acquisizioni. • I crepuscolari non si possono considerare un movimento, né una “scuola” con un comune programma poetico, né la poesia crepuscolare ha avuto un unico centro, ma appare testimoniata in diverse zone d’Italia: Corazzini è romano, Moretti emiliano, Gozzano piemontese; tuttavia non mancarono contatti e scambi epistolari tra i poeti delle diverse zone. Per alcuni poeti quella crepuscolare è solo una fase, all’interno di un itinerario poetico che può comportare anche radicali spostamenti e che è comunque complesso: è il caso del ferrarese Corrado Govoni (1884-1965) che, dopo aver inaugurato la poesia crepuscolare con la raccolta Armonie in grigio e in silenzio (1903), attraversa una fase futurista, per superare poi anche questa in un cammino personale di ricerca poetica. E lo stesso vale per il fiorentino Aldo Palazzeschi (1885- 1974). • Il principale elemento comune dei poeti ascritti all’area crepuscolare è una sensibilità malinconica, una condizione di disagio esistenziale, che non ha ancora la profondità filosofica del “male di vivere” montaliano, ma che si configura essenzialmente come inerzia spirituale, rinuncia. I crepuscolari vivono volutamente ai margini dell’attivismo vitalistico che caratterizza il loro tempo, sono incapaci di aderire alle mitologie dannunziane e alle ideologie irrazio-

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nalistiche che circolavano negli ambienti intellettuali nei primi decenni del secolo. Di fronte a una realtà storica avvertita come minacciosa e aggressiva, si rifugiano in dimensioni se non appaganti, almeno più rassicuranti: l’infanzia (Corazzini e Moretti), il passato e la serenità opaca della provincia (Gozzano e Moretti). Certo l’evasione non appaga del tutto, altrimenti non si spiegherebbe la diffusa malinconia che aleggia nelle loro pagine, né l’ironia con cui Gozzano dissacra e dissolve i mondi che la sua stessa poesia ha evocato. • I crepuscolari rappresentano la loro condizione interiore e i loro precari “rifugi” attraverso oggetti, ambienti, situazioni concrete, che assumono il significato di emblemi (una tendenza che sembra anticipare la trasposizione oggettiva e simbolica di Montale: il grande poeta ligure del resto, non a caso, è uno dei primi a mostrare interesse per la poesia crepuscolare ➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Montale interpreta il successo di Gozzano PAG. 583). Gli ambienti prediletti dai crepuscolari sembrano scelti proprio per evocare una sensazione di tristezza e squallore: corsie d’ospedale, giardini ombrosi, chiese abbandonate, ma anche interni piccoloborghesi antiquati, come nel caso dell’incipit di una delle più celebri poesie di Gozzano, L’amica di nonna Speranza, in cui si ritrova un vero e proprio catalogo di oggetti che connotano un salotto démodé:

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici [...] • Le scelte tematiche dei crepuscolari, le situazioni e gli ambienti ricorrenti nella

loro poesia, risentono direttamente dell’influenza di alcuni poeti minori francoTheo van Rysselberghe, La lettura, 1903 (Museo di belle arti, Gand).

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belgi tardo-simbolisti: Maurice Maeterlinck (1862-1949), Francis Jammes (18681938), Georges Rodenbach (1855-1898), Jules Laforgue (1868-1938), ma non è assente anche la lezione di Paul Verlaine (➜ C9), mentre i crepuscolari appaiono lontani dal simbolismo più audace e rivoluzionario. Anche nello stile – prosastico, colloquiale, apparentemente dimesso, seppure sorvegliato e a volte marcatamente letterario (è il caso in particolare di Gozzano) – si fa sentire l’influenza di questi poeti; ma si avverte anche la presenza di Pascoli e dello stesso D’Annunzio, se pure il D’Annunzio del Poema paradisiaco (1893). • Proprio per la crisi di certezze che sottende la loro esperienza poetica, i crepuscolari, per quanto riguarda la concezione della poesia e del ruolo del poeta, si contrappongono nettamente al D’Annunzio più noto e al poeta-artiere e vate di Carducci (➜ C3); ma sono altrettanto lontani dal poeta “veggente” di Rimbaud (➜ C9), che solo sa decifrare l’essenza del reale in una poesia oracolare e iniziatica. Quella crepuscolare è infatti una poesia con la “p” minuscola, antieroica, volutamente dimessa, che non ha nessuna verità da asserire o scoprire, ma assume il ruolo minimale di pura e semplice testimonianza umana. Corazzini chiede al suo lettore: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» (➜ D1 ); Moretti scrive «non ho nulla da dire»; Gozzano arriva ad asserire di vergognarsi di essere un poeta (La signorina Felicita ➜ T3 ) e, rovesciando ironicamente ogni velleità superomistica, si autorappresenta come «un coso con due gambe / detto guidogozzano». Anche in questo senso i crepuscolari preannunciano alcune, ben note, posizioni di Montale, testimoniate in modo esemplare nella poesia Non chiederci la parola. (➜ VOL 3B C4 T2 )

Crepuscolarismo: non una scuola ma una tendenza poetica

AUTORI

• Marino Moretti • Sergio Corazzini • Guido Gozzano

CARATTERISTICHE

• rifiuto del modello del poeta vate (D’Annunzio) e del poeta veggente (Rimbaud) • poesia antieroica e opposta al vitalismo del Futurismo

TEMI

• vicende intime e quotidiane • realtà provinciale e opaca • condizione spirituale malinconica

LINGUA E STILE

•prosa media e dimessa • lessico quotidiano

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1 Sergio Corazzini La biografia e le opere Nasce a Roma nel 1886. In seguito a un dissesto finanziario, la sua famiglia, prima in condizioni agiate, si trova improvvisamente in difficoltà economiche. Corazzini, ancora ragazzo, è costretto a lasciare gli studi per impiegarsi in una compagnia di assicurazioni. Tuttavia continua a coltivare la sua passione per la poesia: pubblica i suoi primi versi in dialetto romanesco a soli sedici anni; in seguito arriva a pubblicare diverse raccolte, anche se alquanto esili (la più ampia non arriva a venti liriche): Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1905), Piccolo libro inutile (1906) che contiene anche composizioni giovanili dell’amico Alberto Tarchiani, Elegia (1906) e Libro per la sera della domenica (1906). Nonostante la giovanissima età diventa un punto di riferimento per un gruppo di giovani poeti attivi a Roma. Malato di tubercolosi, muore poco più che ventenne nella sua città natale nel 1907.

Sergio Corazzini

D1 S. Corazzini, Piccolo libro inutile, in Poeti italiani del Novecento, a c. di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978

Desolazione del povero poeta sentimentale Piccolo libro inutile La poesia apre la raccolta Piccolo libro inutile (pubblicato nel 1906, è composto di soli otto testi); sicuramente è la lirica che sintetizza in modo esemplare la poetica di Corazzini ma anche alcuni aspetti più generali della sensibilità crepuscolare.

I. Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange1. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio2. 5 Perché tu mi dici: poeta? II. Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. Oggi io penso a morire.

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III. Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle catedrali3

La metrica Versi liberi raggruppati in otto sezioni di varia lunghezza. 1 Io non sono... piange: nella risposta, che l’io lirico rivolge a un “tu” generico, alla domanda che apre la poesia, non si deve vedere, come potrebbe a prima vista sembrare, una negazione dell’essere

poeta, ma piuttosto l’enunciazione di una concezione di poesia opposta all’immagine del poeta vate o veggente: Corazzini sottolinea che la sua poesia si origina dal pianto, dalla tristezza. 2 non ho che... Silenzio: al culto della parola, proprio di chi si può considerare un poeta, Corazzini contrappone le la-

grime, la propria tristezza, a cui si addice la dimensione della solitudine, il Silenzio (che l’uso della maiuscola sembra quasi divinizzare). 3 i grandi... catedrali: è il primo dei numerosi riferimenti alla dimensione del sacro e della religiosità che percorrono la poesia.

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mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, 15 rassegnato come uno specchio4, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. IV. Oh, non maravigliarti della mia tristezza! 20 E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per5 morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria 25 di sgranare un rosario di tristezza6 davanti alla mia anima sette volte dolente7 ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme. V. 30 Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù8. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio9. VI. Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo 35 dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare 40 per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. 4 rassegnato come uno specchio: attraverso il paragone Corazzini può alludere alla propria passività: lo specchio non può far altro che riflettere, senza alcuna partecipazione, ciò che gli si presenta davanti. 5 come se fossi per: come se stessi per. 6 Le mie lagrime… tristezza: il poeta ricorre all’analogia, strumento della poesia moderna. Il rosario è un oggetto devozionale fatto di grani, che si percorrono con le dita, recitando un ciclo di preghiere, in genere rivolte alla Madonna. Qui il poeta allude alla sua pena di vivere, per cui le

lacrime potrebbero scandire un rosario in cui anziché recitare preghiere, si esprimerebbe la tristezza del cuore. 7 sette volte dolente: nuovamente un’immagine religiosa. In questo caso Corazzini attinge alla devozione popolare: la Vergine è in alcune raffigurazioni della devozione popolare è trafitta da sette spade (la “Vergine dei sette dolori”; sette è un numero ricorrente nella simbologia cristiana: sette sono ad esempio i peccati capitali). 8 Io mi comunico... di Gesù: ancora una volta torna il tema religioso, in un’imma-

gine analogica. Il poeta afferma di nutrirsi del silenzio come se si comunicasse. 9 E i sacerdoti... il Dio: il poeta afferma che a fargli cercare e trovare il silenzio (il Dio) sono stati (per paradosso) i suoni che ci frastornano quotidianamente (in questo senso definisce i romori «i sacerdoti del silenzio»). In questo testo Corazzini fa spesso uso di varianti o forme grafiche letterarie o meno comuni come romori o cotidianamente, o più sopra lagrime, catedrali.

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VII. Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi10, a poco a poco, 45 per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. VIII. Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. 50 Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. 55 Amen.

10 sfogliarsi: appassire e perdersi come le foglie di un fiore appassito che cadono.

Concetti chiave Una dichiarazione di poetica

La poesia è divisa in otto sezioni di diversa ampiezza. In essa il poeta si rivolge a un destinatario indeterminato dietro al quale si può immaginare il lettore: proprio a un ideale lettore è indirizzata quella che, a tutti gli effetti, costituisce una dichiarazione di poetica, propria innanzitutto di Corazzini ma che, per certi aspetti, risulta più in generale indicativa della sensibilità crepuscolare. La prima sezione è aperta e chiusa dalla domanda: «Perché tu mi dici: poeta?» e introduce il tema fondamentale della composizione. Il termine chiave poeta vi compare ben tre volte e sempre in una posizione forte del verso (cioè alla fine). Nel corso della composizione il tema dell’identità del poeta verrà più volte ripreso, arricchendosi via via di nuove connotazioni. Corazzini, riprendendo Jammes, ostenta il suo “non essere poeta” (vv. 2, 17, 27, 51), una dichiarazione che va interpretata in realtà come volontà di essere un poeta opposto al modello ‘alto’ di poeta: artiere, esteta, tribuno e quant’altro la cultura del tempo proponeva in modi sprezzanti nei confronti dell’umanità comune. Il poeta-Corazzini (il «povero poeta sentimentale» del titolo) è invece vicino alla comune umanità e in nessun modo si sente superiore a essa: povere e comuni sono infatti le sue tristezze, semplici le sue gioie. Nella conclusione della poesia la distanza rispetto ai modelli ‘alti’ viene ribadita e sintetizzata: «io so che per esser detto: poeta conviene / viver ben altra vita!». In questa contrapposizione l’io lirico arriva ad autorappresentarsi come «un piccolo fanciullo che piange» (v. 3), una figura che dell’umanità costituisce in un certo senso il limite estremo in basso. Non ci troviamo certo di fronte a una ripresa del “fanciullino” pascoliano: Corazzini, che ben conosce Pascoli, non prospetta attraverso l’identificazione del poeta in un fanciullino una conoscenza superiore (come appunto teorizzato da Pascoli), ma il poeta-fanciullo è qui solo un testimone del proprio personale dolore e non sa dare un’interpretazione neppure della propria tristezza: «E non domandarmi; / io non saprei dirti che parole così vane» (vv. 20-21).

La malattia interiore

Domina la poesia una visione della vita connotata come infelicità, il termine chiave morire ricorre molte volte e sempre in posizione forte: o incipitale («Io voglio morire», v. 10) o a fine verso («Oggi io penso a morire», v. 9; «sono un fanciullo triste che ha voglia di morire», v. 18; «come se fossi per morire», v. 23). Non si tratta di un’infelicità che ha profonde radici filosofiche, come quella leopardiana e poi montaliana, ma piuttosto di una malinconia sottile, di una stanchezza rassegnata del vivere, che caratterizza del resto la poesia crepuscolare in genere e che Borgese avvertiva in alcuni poeti nella sua recensione del 1910. Una malinconia sofferente che in Corazzini, anche per ragioni biografiche, assume i caratteri espliciti di “malattia” («Oh, io sono veramente malato!», v. 48).

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Il motivo religioso

Nella V e VI sezione viene introdotto nel testo il motivo religioso, anticipato dalle metafore della IV sezione, che attingono al lessico devozionale: «sgranare un rosario di tristezza», «davanti alla mia anima sette volte dolente». La poesia assume ora il carattere quasi di una confessione e si chiude con Amen, come una preghiera. Bisogna ricordare che il riferimento a temi religiosi era diffuso nella cultura decadente ed era ampiamente presente anche nei poeti franco-belgi a cui attingono spesso i crepuscolari, associandosi spesso a compiacimenti estetizzanti (come in Huysmans e D’Annunzio). Non è il caso di Corazzini, in cui sembra di cogliere una genuina aspirazione all’ascesi religiosa («Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù»), che rimane però indeterminata. Complessa e di interpretazione non facile appare l’immagine che occupa la VI sezione: il poeta si identifica in Cristo che, dopo la notte passata in dolorosa solitudine nel giardino di Getsemani (vv. 41-42), è umiliato, battuto e infine messo in croce. L’immagine regressiva del poeta «piccolo fanciullo che piange» è radicalizzata attraverso il riferimento al Cristo: in una vera e propria voluttà di sofferenza l’io lirico si raffigura come una creatura fragile, indifesa e umiliata rimarcando così l’abissale distanza che separa Corazzini da modelli di poeta come D’Annunzio, protagonista in quegli anni della scena letteraria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della poesia (5 righe max). LESSICO 2. Individua gli aggettivi che alludono alla semplicità, alla banalità, alla povertà e spiega quale significato assumono nell’interpretazione complessiva della poesia. STILE 3. Nel testo sono ricorrenti le anafore e, più in generale, le ripetizioni: individua le principali e cerca di spiegare perché Corazzini vi ricorre con tanta insistenza. 4. Dal punto di vista formale la lirica presenta un andamento decisamente prosastico: quali sono le scelte stilistiche (metriche, lessicali, sintattiche…) utilizzate? In che modo le scelte formali si coniugano con la visione del mondo del poeta e concorrono a delineare il suo stato d’animo?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Rileggi ➜ C10 D2 in cui Pascoli enuncia la “poetica del fanciullino” e fai un confronto con il “poeta-fanciullo” di Corazzini. Quali le possibili analogie? Quali le differenze?

2 Marino Moretti

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Verso il Novecento “Piogge poetiche”… tra Verlaine, D’Annunzio, Moretti e Montale

online T1 Marino Moretti

A Cesena Il giardino dei frutti

La biografia e le opere Nato a Cesenatico (1885-1979), abbandona presto gli studi regolari per iscriversi a una scuola di recitazione a Firenze dove stringe un’amicizia profonda con Aldo Palazzeschi. Le sue prime raccolte poetiche, con cui ottiene un certo successo e si fa conoscere negli ambienti letterari, recano titoli di per sé indicativi di un’idea di poesia “anti-eloquente” e ispirata a temi del quotidiano: Poesie scritte col lapis (1910), uno dei tre volumi per i quali il critico Giuseppe Antonio Borgese conia l’etichetta critica di “poesia crepuscolare”; Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti (1916). A queste raccolte ne seguiranno molte altre, nella lunga attività poetica di Moretti: se non mancano elementi di evoluzione dalla prima maniera poetica, d’altra parte lo scrittore si mantiene sostanzialmente fedele nel tempo a quell’attenzione al quotidiano, alla rievocazione di figure semplici, di oggetti e ambienti domestici, a quell’intonazione colloquiale che ne fanno il poeta crepuscolare per eccellenza. Moretti è autore anche di romanzi, tra cui L’Andreana (1935) e La vedova Fioravanti (1941). Muore a Cesenatico nel 1979.

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Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 1 Una vita insidiata dalla malattia La formazione Guido Gozzano, il maggiore poeta dei crepuscolari, nasce a Torino nel 1883 da una famiglia della buona borghesia: il nonno materno era stato amico personale di D’Azeglio e di Cavour. Tranne che per alcune brevi parentesi, la vita di Guido si svolge tutta tra Torino e il Canavese, dove la sua famiglia soggiornava durante le vacanze estive; la stessa poesia gozzaniana risulta indissolubilmente legata a quei luoghi: alla città natale il poeta dedica, nell’ultima sezione della sua raccolta poetica principale (I colloqui), un affettuoso, ma anche leggermente ironico, ritratto (vv. 43-48):

Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia d’un tal garbo parigino, in te ritrovo me stesso bambino, ritrovo la mia grazia fanciullesca e mi sei cara come la fantesca che m’ha veduto nascere, o Torino! Dopo la morte del padre, Gozzano si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, senza peraltro mai laurearsi (anche se nella Signorina Felicita si presenta come “avvocato”): frequentava infatti più volentieri le lezioni di letteratura tenute da una personalità di spicco come il poeta e letterato Arturo Graf (1848-1913) e le riunioni che si tenevano presso la sede della “Società di cultura”. Fin dall’adolescenza era stato conquistato dalla poesia: Dante, Petrarca, Leopardi costituiranno le fonti principali della sua memoria letteraria cui poi attingerà abbondantemente la sua poesia. L’apprendistato poetico si svolge però nel nome di D’Annunzio, di cui Gozzano conosceva a memoria L’Isotteo, La Chimera e Il poema paradisiaco. Ben presto però il costituirsi di una visione amara e al contempo ironica dell’esistenza, a cui contribuisce certo in modo determinante l’esperienza drammatica della malattia (la tubercolosi), porta lo scrittore a staccarsi dal maestro (si tratta di un distacco insieme etico ed estetico). Gozzano sviluppa verso di lui un atteggiamento di dissacrante polemica, di cui può essere testimonianza l’equiparazione ironica Ulisse-D’Annunzio in alcuni corrosivi versi di una delle Poesie sparse, L’ipotesi (➜ T5 OL). In parallelo si accosta invece al modello dei poeti tardo-simbolisti stranieri, in particolare a Francis Jammes, di cui si riscontrano nella sua poesia non pochi prestiti. Gozzano legge anche Schopenhauer e Nietzsche, autori da poco pubblicati in Italia e centrali nell’orientare in senso antipositivistico la cultura italiana del primo Novecento. Un anno chiave nella biografia umana e poetica di Gozzano Il 1907 è un anno cruciale nella breve esistenza di Gozzano: esordisce infatti, riscuotendo notevole successo, con la sua prima raccolta poetica, dal titolo emblematico: La via del rifugio. Nello stesso anno Gozzano inizia la breve, ma importante, relazione amorosa con la scrittrice Amalia Guglielminetti (1881-1941), anch’essa esordiente in poesia con Le vergini folli. Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 2 565

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Infine, nel 1907 Gozzano si scopre ammalato di una malattia che allora non perdonava: la tubercolosi. Da quel momento la malattia e la costante minaccia della morte costituiranno una presenza tematica centrale nella sua poesia (➜ T2 OL), come risulta evidente nella raccolta principale, a cui è legata la fama del poeta piemontese: I colloqui, pubblicato con successo nel 1911 presso Treves. In India: «viaggio per fuggire altro viaggio»... Nel 1912, sperando in un miglioramento della sua malattia, Gozzano intraprende un viaggio in India (vi allude ironicamente nella Signorina Felicita definendolo «viaggio per fuggire altro viaggio», cioè per sfuggire alla morte). Da quei luoghi lontani e affascinanti invia una serie di articoli e reportages al quotidiano «La Stampa», ma, nonostante l’apparenza, per lo più i testi non sono frutto di esperienze dirette: nella descrizione dei luoghi, Gozzano utilizza abilmente fonti documentarie, guide turistiche e letterarie. Le prose di viaggio sono state raccolte e pubblicate dopo la sua morte nel volume Verso la cuna del mondo (1917). Il «viaggio per fuggire altro viaggio» non ebbe il risultato sperato perché il fisico del poeta era ormai inesorabilmente minato dalla malattia. La morte, la cui evenienza Gozzano aveva sempre considerato con ironico distacco (➜ T2 OL), lo coglie nel 1916 a soli 33 anni. Lasciava incompiuto un poemetto in endecasillabi sciolti, ispirato alla poesia didascalica del Settecento: Le farfalle, in cui il soggetto naturalistico entomologico (la trasformazione del bruco in farfalla) doveva rappresentare simbolicamente la vita, in divenire sempre più perfetto, dello spirito. Pur nello stato di abbozzo (ne restano solo dei frammenti) il poema testimonia la volontà di Gozzano di sperimentare nuove direzioni poetiche.

2 Temi e costanti stilistiche della poesia di Gozzano Il libro dei Colloqui: una moderna Vita nuova Un percorso esistenziale e poetico I colloqui non sono una semplice silloge di liriche, ma si configurano, per esplicita volontà dello scrittore, come libro organico: Gozzano stesso indicò il piano che presiede all’opera in una lunga lettera scritta in risposta a un’inchiesta proposta agli scrittori più noti dal quotidiano «Il momento». Nella lettera Gozzano fa riferimento a un «filo ciclico» che lega tra di loro le poesie e alla divisione del libro in tre parti, che disegnano un percorso esistenziale e insieme poetico. I titoli scelti per le tre sezioni hanno valore simbolico: Il giovenile errore (una citazione dal primo sonetto del Canzoniere di Petrarca, che allude all’illusione dell’amore); Alle soglie (con riferimento all’irrompere della malattia e del pensiero della morte); Il reduce (la conquista di una rassegnata saggezza). La coesione tra le parti di questa moderna Vita nuova, o moderno Canzoniere, è segnalata, tra l’altro, dall’omonimia del testo che apre la prima sezione e che dà il titolo all’intera raccolta (I colloqui) e del testo che chiude la terza sezione, e l’intera opera. L’ambiguo rapporto arte-vita L’opera lirica di Gozzano, rappresentata in particolare dal libro dei Colloqui, è dichiaratamente autobiografica e ha al centro l’esperienza esistenziale di Guido. Ma non si deve certo pensare a una confessione sincera e immediata: il poeta torinese introduce infatti costantemente, e in modo particolarmente compiaciuto, un filtro letterario (attraverso echi e citazioni dirette)

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tra l’esperienza di vita e la pagina. Si è parlato al proposito di “letteraturizzazione” della vita: un atteggiamento che, pur con modalità tutte personali, riconduce all’equiparazione arte-vita propria dell’Estetismo (➜ C9). La concezione della poesia A differenza degli esteti, però, Gozzano ha una visione “riduttiva” della poesia: in forte polemica con il poeta-esteta-tribuno D’Annunzio, venditore di “miti” alle folle, la poesia è per Gozzano solo una “piccola voce”; essa può offrire una lieve consolazione («una fiorita d’esili versi consolatori»: Totò Merumeni, ➜ T4 v. 52), i suoi contenuti sono modesti e prosaici («ciarpame reietto, così caro alla mia Musa!»). La letteratura può talvolta dare gloria, ma è una gloria transitoria anche per i grandi: si ricordi il ritratto di Tasso, l’autore della Gerusalemme liberata, confinato nel solaio della Signorina Felicita (➜ T3 , vv. 160-168). Tuttavia, pur continuamente dissacrate e demitizzate, la letteratura e la poesia sono la dimensione in cui Gozzano si rifugia, sentendosi del tutto estraneo ai valori collettivi, anche etico-politici, enfatizzati dai moderni retori e condivisi dai più: nella poesia Pioggia d’agosto scrive: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole che i retori t’han fatto nauseose». Percorre infatti la poesia di Gozzano un senso di profondo distacco dal mondo contemporaneo, «quella cosa tutta piena / di lotte e di commerci turbinosi, / la cosa tutta piena di quei “cosi / con due gambe” che fanno tanta pena», come scrive nella Signorina Felicita (➜ T3 , vv. 183-186) dove è evidente il rovesciamento polemico del mito superomistico. L’estraneità di Gozzano però, a ben vedere, va oltre il rifiuto di una contemporaneità rumorosa, nutrita di falsi ideali: Gozzano è addirittura estraneo alla vita, certo anche in rapporto alla precarietà della sua esistenza di malato, che lo induceva a un atteggiamento di programmatico distacco: «Non vivo. Solo, gelido, in disparte / sorrido e guardo vivere me stesso» (I colloqui). Legata com’è a temi d’evasione, la letteratura tende allora nell’opera di Gozzano a configurarsi come alternativa alla realtà e al contempo, in una sorta di circolo vizioso, come condanna a non vivere pienamente nella realtà. L’evasione nel passato Il tempo è il vero protagonista, a livello tematico, della poesia maggiore di Gozzano: con la sua «malìa di sillabe» la poesia sa evocare dimensioni lontane dal tempo presente. Sono molte le poesie legate a una regressione temporale, sollecitata da un “oggetto mediatore”, come la cartolina ingiallita, una stampa, una fotografia o anche semplicemente una data. Il passato può essere quello del poeta stesso o quello collettivo (ad esempio l’età risorgimentale, rivissuta negli ambienti borghesi). Alla mitizzazione del futuro, propria del Futurismo e ai miti aggressivi del tempo, attaccati con corrosiva ironia, Gozzano contrappone un mondo vecchiotto e provinciale, evocato nei luoghi comuni della conversazione da salotto (L’amica di nonna Speranza), nei suoi gusti, ambienti e oggetti, nelle sue figure emblematiche (il farmacista, il notabile ecc.). Tuttavia l’ironia – vera cifra della poesia di Gozzano – dissolve e dissacra il mondo alternativo evocato, a cui il poeta non riesce ad aderire fino in fondo per la sua costituzionale “diversità” di letterato raffinato, a suo modo esteta anch’egli: «l’esteta gelido… il sofista» in cui si autoritrae nella Signorina Felicita. La coesistenza di celebrazione e parodia In Gozzano è costante lo sdoppiamento in una parte sognatrice, che cerca rifugio nella memoria personale o collettiva, e una parte ironica, dissacrante. Questa condizione di sdoppiamento impedisce che l’evasione eserciti un’azione non solo davvero appagante, ma anche pienamente consolatoria: deriva da qui quella coesistenza di «celebrazione complice e di parodia ocGuido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 2 567

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culta» (Sanguineti), che si traduce in uno sguardo “doppio”, il cui emblema può essere la celebre espressione «le buone cose di pessimo gusto» (L’amica di nonna Speranza). «Non agogno che la virtù del sogno»: il tema dell’amore Il recupero memoriale porta alla ribalta soprattutto l’esperienza amorosa, evocata quasi sempre in rapporto ad ambienti precisi: il parco del Valentino a Torino (Invernale), Villa Amarena nel Canavese (La signorina Felicita), il salotto borghese (L’amica di Nonna Speranza). Nei Colloqui Gozzano ricostruisce a posteriori una sorta di educazione sentimentale, che risulta nel suo insieme fallimentare: il poeta non ha incontrato la “donna della salute”, ha respinto l’amore quando tendeva a farsi esperienza reale (lo evidenziano con chiarezza le poesie scritte per Amalia Guglielminetti), ha amato solo le figure del “sogno”; nella poesia Cocotte dichiara esplicitamente «non amo che le rose che non colsi / Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state». In realtà Gozzano amò veramente solo la sua arte e, insieme a essa, forse corteggiò seriamente e attese un’unica donna: la «Signora vestita di nulla» (➜ T2 OL) che lo raggiunse nell’agosto 1916. Patina letteraria e dimensione prosaica L’aspetto certamente più vistoso della scrittura di Gozzano è la voluta patina letteraria che la caratterizza e che stride con Paolo Poli l’evocazione di ambienti e contenuti quotidiani e borghesi. Lo strumento principale di legge L’amica di nonna Speranza questa scrittura è la citazione (a volte sorprendentemente “scoperta”) con cui in modo consapevole Gozzano iscrive la sua poesia in una catena intertestuale le cui fonti predilette sono Dante, Petrarca, D’Annunzio e, in maniera meno evidente, Leopardi. La citazione ha essenzialmente due funzioni. La prima si lega alla tendenza di Gozzano a “letteraturizzare” la vita, come se solo il rimando a fonti illustri possa conferire uno statuto di esistenza a temi come l’amore e altri. La seconda ha una funzione “straniante”, spesso parodica o comunque tale da introdurre una nota dissonante rispetto al contesto in cui la citazione si iscrive (Montale, uno dei primi estimatori di Gozzano, ha parlato di capacità di far «cozzare l’aulico col prosaico», la tradizione poetica alta con la cultura dal basso). Una funzione analoga è spesso rivestita dalla rima, che Gozzano impiega in abbondanza, coerentemente con l’uso, che caratterizza la sua poesia, di forme metriche tradizionali, in controtendenza con le scelte d’avanguardia. Gozzano ricorre alla rima molto spesso per associazioni pregnanti o addirittura sconcertanti, come nella celeberrima Nietzsche : camicie (La signorina Felicita); in ogni caso assegna alle associazioni create dalla rima una funzione di rilevante valore per la ricostruzione della rete di significati del testo. Altra caratteristica distintiva della poesia di Gozzano è la tendenza online prosastica, che si esplicita attraverso l’uso molto frequente del diaT2 Guido Gozzano Alle soglie logato e la presenza di vere e proprie sequenze narrative, che conI colloqui, strofe I e III feriscono ai suoi testi un carattere marcatamente antilirico. online

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Temi e costanti stilistiche della poesia di Gozzano TEMI

• autobiografici • antilirici: vita quotidiana e mondo della provincia • visione “riduttiva” della poesia

STILE

• patina letteraria • ironia • prosasticità

I colloqui (1911)

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Guido Gozzano

T3 G. Gozzano, I colloqui, a c. di M. Guglielminetti e M. Masoero, Principato, Milano 2004

La signorina Felicita, ovvero la felicità I colloqui Il poemetto La signorina Felicita, una delle composizioni più note di Gozzano, ne esprime esemplarmente la poetica. Dopo una lunga elaborazione, fu pubblicato su «La Nuova Antologia» il 16 marzo 1909 e quindi inserito nella seconda sezione dei Colloqui. Al centro della lirica è l’evocazione di Felicita, una ragazza semplice e provinciale che vive con il padre a Villa Amarena, nel Canavese, e che il poeta ha conosciuto durante una vacanza. Alla figura di Felicita il poeta associa il sogno di una vita felice, sana, concreta, lontana dalle complicazioni intellettualistiche. Un sogno a cui non sa aderire fino in fondo e che finisce per investire della sua ironia. Riproduciamo ampia parte del poemetto.

10 luglio: Santa Felicita. I Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo1. E ti rivedo ancora, 5 e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico2. Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? 10 O cuci i lini e canti e pensi a me3, all’avvocato4 che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te. Pensa i bei giorni d’un autunno addietro, Vill’Amarena a sommo dell’ascesa5 15 coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata6, e l’orto dal profumo tetro di busso7 e i cocci innumeri8 di vetro sulla cinta vetusta9, alla difesa…

La metrica Sestine di endecasillabi pre-

2 E ti rivedo... che non dico: il polisindeto

valentemente rimati secondo lo schema ABBAAB.

lega indissolubilmente l’immagine della signorina Felicita ai luoghi del Canavese cari al poeta. I versi risentono della suggestione di una celebre composizione carducciana: Traversando la Maremma toscana. 3 A quest’ora... a me: secondo il modello del simbolista francese Francis Jammes (18681938), fonte prediletta di Gozzano, la ragazza è ritratta nella concretezza delle sue occupazioni quotidiane, prosaiche e modeste. 4 all’avvocato: si tratta dello stesso Gozzano, che così era comunemente chiama-

1 scende il ricordo: le poesie più tipiche di Gozzano prendono le mosse da una regressione nel passato, che può essere sollecitata, come in questo caso, da una data: il 10 luglio, giorno dedicato a santa Felicita, ricorda al poeta una ragazza conosciuta in vacanza (Gozzano trascorreva le vacanze sempre nella casa di famiglia ad Agliè, nel Canavese).

to, anche se non aveva mai terminato gli studi giuridici. 5 a sommo dell’ascesa: alla sommità della salita. 6 la sua Marchesa dannata: l’antica proprietaria della villa, della quale di parlerà più avanti (vv. 135-150). 7 busso: bosso, robusta pianta ornamentale sempreverde, dalle foglie piccole e velenose; usata soprattutto per le siepi. 8 innumeri: innumerevoli. 9 cinta vetusta: vecchio muro di cinta.

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Vill’Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina10.

Bell’edificio triste inabitato! Grate panciute, logore, contorte! Silenzio! Fuga delle stanze morte11! Odore d’ombra! Odore di passato! Odore d’abbandono desolato! 30 Fiabe defunte delle sovrapporte12! 25

Ercole furibondo ed il Centauro, le gesta dell’eroe navigatore, Fetonte e il Po, lo sventurato amore d’Arianna, Minosse, il Minotauro, 35 Dafne rincorsa, trasmutata in lauro tra le braccia del Nume ghermitore13... Penso l’arredo – che malinconia14! – penso l’arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia 40 sui divani corinzi dell’Impero15, la cartolina della Bella Otero16 alle specchiere... Che malinconia! Antica suppellettile forbita17! Armadi immensi pieni di lenzuola 45 che tu rammendi pazïente... Avita semplicità che l’anima consola, semplicità dove tu vivi sola con tuo padre la tua semplice vita18! [...] 10 La tua casa... da contadina: le pannocchie di granoturco arrivano fino al tetto (cimasa) della casa nascondendone la facciata. Gozzano la paragona a una dama del Seicento vestita da contadina (cfr. anche nota al v. 172). 11 Fuga delle stanze morte: sequenza delle stanze ormai disabitate. 12 Fiabe defunte delle sovrapporte: le storie mitologiche che decorano lo spazio sopra le porte specie nei palazzi signorili. 13 Ercole... Nume ghermitore: esempi delle immagini mitologiche cui appena si è fatto riferimento: Ercole che uccide il centauro Nesso che gli ha rapito Deianira; Ulisse, l’eroe navigatore; Fetonte, punito da Giove

e fatto precipitare nel Po per aver guidato il carro del Sole; Arianna, abbandonata da Teseo; Minosse, mitico re di Creta e il Minotauro (mostro con testa di toro e corpo di uomo ucciso da Teseo); Dafne, la ninfa tramutata in alloro quando il dio Apollo (il Nume ghermitore) cercò di rapirla. 14 Penso l’arredo – che malinconia: inizia una strofa esemplarmente gozzaniana. Gozzano ricorda l’arredamento kitsch della villa che, nel ricordo, gli ispira un senso di profonda malinconia (ma in Gozzano per i vecchi ambienti e oggetti del passato c’è sempre un misto di attrazione nostalgica e di repulsione).

15 la pirografia... dell’Impero: un’incisione praticata col pirografo (cioè con una punta rovente) sul legno dei divani stile Impero, cioè neoclassico. 16 Bella Otero: Carolina Otero (1868-1953) era una ballerina di origine francese, diventata famosissima come attrice di varietà in Francia. La cartolina che la raffigura è stata infilata nella cornice di uno specchio (al tempo le specchiere erano quelle che ricoprivano le ante interne degli armadi). 17 forbita: tirata a lucido. 18 Avita... semplice vita: la ripetizione per tre volte di termini riferiti alla semplicità introduce il motivo conduttore del poemetto; avita “arcaica, patriarcale”.

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III Sei quasi brutta19, priva di lusinga20 nelle tue vesti quasi campagnole, 75 ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga21... E rivedo la tua bocca vermiglia22 80

così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi23 leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia...

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina24. Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina: e più d’ogni conquista cittadina 90 mi lusingò quel tuo voler piacermi25! 85

Ogni giorno salivo alla tua volta26 per soleggiato ripido sentiero. Il farmacista non pensò davvero un’amicizia così bene accolta, 95 quando ti presentò la prima volta l’ignoto villeggiante forestiero27. Talora – già la mensa era imbandita – mi trattenevi a cena. Era una cena d’altri tempi, col gatto e la falena28 100 e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi e Maddalena decrepita29, e la siesta e la partita... Per la partita30, verso ventun’ore giungeva tutto l’inclito collegio 105 politico locale31: il molto Regio 19 Sei quasi brutta…: inizia ora e si dispiega per due strofe il ritratto di Felicita, che incarna i simboli di una tranquilla vita borghese cui il poeta mostra di aspirare (ma a cui non può veramente aderire). Il ritratto delinea una figura femminile agli antipodi delle femmes fatales dannunziane. 20 priva di lusinga: priva di ogni attrattiva. 21 beltà fiamminga: bellezza tipica delle donne ritratte dai pittori fiamminghi (secc. XVI-XVII).

22 vermiglia: rossa. 23 efelidi: lentiggini. 24 blandizie femminina: civetteria femminile. 25 quel... piacermi: è un bell’esempio dell’uso della citazione con risultati ironici propria di Gozzano. Il verso ricalca l’atteggiamento di Cunizza da Romano che Dante immagina di incontrare in paradiso (Pd IX 14 e sgg.).

26 alla tua volta: verso casa tua. 27 l’ignoto villeggiante forestiero: il poeta stesso, che appunto soggiornava ad Agliè. 28 la falena: grossa farfalla notturna. 29 Maddalena decrepita: la vecchia governante. 30 la partita: la partita a carte. 31 l’inclito... locale: l’insieme illustre (inclito; evidentemente ironico) dei notabili, delle persone che contano, del luogo.

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notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma – poiché trasognato giocatore32 – quei signori m’avevano in dispregio... M’era più dolce starmene in cucina 110 tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina33... Maddalena con sordo brontolio disponeva gli arredi ben detersi34, rigovernava lentamente ed io, già smarrito nei sogni più diversi, accordavo le sillabe dei versi 120 sul ritmo uguale dell’acciotolio35. 115

Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse...) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d’un grillo canterino 125 mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio, e il mio destino... Vedevo questa vita che m’avanza36: chiudevo gli occhi nei presagi grevi37; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, 130 ed ecco rifioriva la speranza! Giungevano le risa, i motti brevi38 dei giocatori, da quell’altra stanza. IV Bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme39! 135 In quella tomba, tra le vane forme di ciò ch’è stato e non sarà più mai, bianca bella così che sussultai, la Dama apparve nella tela enorme40: 32 poiché trasognato giocatore: dato che ero un giocatore distratto. 33 cedrina: pianta aromatica dal profumo di limone. 34 detersi: ripuliti. 35 accordavo... dell’acciotolio: si può leggere in questi due versi una dichiarazione di poetica: dicendo che accorda il ritmo della sua poesia al rumore prodotto dal-

le stoviglie rigovernate, Gozzano vuole sottolineare il carattere antiaulico della sua poesia. 36 m’avanza: mi rimane. 37 presagi grevi: presentimenti tristi. 38 motti brevi: parole isolate. 39 Bellezza... dorme: come è bella e riposante la vista dei solai dove giacciono le cose rifiutate nel tempo.

40 la Dama... enorme: tra le cose accumulate nel solaio il poeta scorge all’improvviso il grande ritratto della Marchesa, antica proprietaria della casa.

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«È quella che lasciò, per infortuni41, 140 la casa al nonno di mio nonno... E noi la confinammo nel solaio, poi che porta pena42... L’han veduta alcuni lasciare il quadro; in certi noviluni s’ode il suo passo lungo i corridoi...» Il nostro passo diffondeva l’eco tra quei rottami del passato vano, e la Marchesa dal profilo greco, altocinta, l’un piede ignudo in mano, si riposava all’ombra d’uno speco 150 arcade, sotto un bel cielo pagano43. 145

Intorno a quella che rideva illusa nel ricco peplo44, e che morì di fame, v’era una stirpe45 logora e confusa: topaie, materassi, vasellame, 155 lucerne, ceste, mobili: ciarpame reietto, così caro alla mia Musa46! Tra i materassi logori e le ceste, v’erano stampe di persone egregie; incoronato delle frondi regie 160 v’era Torquato nei giardini d’Este47. «Avvocato, perché su quelle teste buffe si vede un ramo di ciliegie48?» Io risi, tanto che fermammo il passo, e ridendo pensai questo pensiero: 165 Oimè! La Gloria! un corridoio basso, tre ceste, un canterano49 dell’Impero, la brutta effigie incorniciata in nero e sotto il nome di Torquato Tasso! Allora, quasi a voce che richiama50, 170 esplorai la pianura autunnale dall’abbaino secentista, ovale, 41 infortuni: rovesci economici. 42 poi che porta pena: dato che porta sfortuna. La frase è pronunciata da Felicita.

43 la Marchesa... pagano: il ritratto della Marchesa è di gusto settecentesco, nelle fogge neoclassiche: la donna (dal profilo greco) è ritratta con un vestito a vita alta (altocinta) e si trova in una grotta campestre (uno speco arcade) in un ambiente mitologico (pagano). 44 peplo: la veste alla greca imposta dalla moda neoclassica.

45 una stirpe: il termine aulico è usato in senso ironico, per significare la massa degli oggetti accatastati in soffitta intorno alla tela, come si capisce subito dopo. 46 ciarpame... Musa: celebre espressione che corrisponde a una dichiarazione di poetica: le cose ammucchiate e rifiutate nel solaio (ciarpame) sono oggetto della poesia di Gozzano. Il senso della espressione è il rifiuto di una concezione estetizzante della poesia, fondata sul culto della Bellezza.

47 Torquato nei giardini d’Este: in corsivo perché è il titolo della stampa, che ritrae il poeta cinquecentesco Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata, nei giardini della corte estense di Ferrara. 48 un ramo di ciliegie: tale sembra all’ingenua signorina Felicita la corona d’alloro che per tradizione incoronava la fronte dei grandi poeti a simboleggiare la gloria. 49 canterano: mobile simile al cassettone. 50 a voce che richiama: seguendo il richiamo di una voce.

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a telaietti fitti51, ove la trama del vetro deformava il panorama come un antico smalto innaturale. Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese: Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta52, gli alberi, le chiese; e il mio sogno di pace si protese 180 da quel rifugio luminoso ed alto. 175

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena, ma laggiù, oltre i colli dilettosi, c’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci53 turbinosi, 185 la cosa tutta piena di quei «cosi con due gambe» che fanno tanta pena... L’Eguagliatrice54 numera le fosse, ma quelli vanno, spinti da chimere vane55, divisi e suddivisi a schiere 190 opposte, intesi56 all’odio e alle percosse: così come ci son formiche rosse, così come ci son formiche nere... Schierati al sole o all’ombra della Croce57, tutti travolge il turbine dell’oro; 195 o Musa – oimè! – che può giovare loro il ritmo della mia piccola voce? Meglio fuggire dalla guerra atroce del piacere, dell’oro, dell’alloro...

200

L’alloro... Oh! Bimbo semplice che fui, dal cuore in mano e dalla fronte alta! Oggi l’alloro è premio di colui che tra clangor di buccine s’esalta, che sale cerretano alla ribalta per far di sé favoleggiar altrui58...

51 abbaino… a telaietti fitti: qui si intende la finestrina del solaio, dalla fitta intelaiatura, che affaccia sul tetto spiovente; secentista (cfr. v. 23 una dama secentista) perché «Villa Amarena, un tempo signorile costruzione baroccheggiante, […] oggi è ridotta ad una casa di campagna» (Guglielminetti-Masoero). 52 Ivrea… la Serra dritta: Ivrea conserva varie torri medievali, tra cui quelle del castello; Montalto è Montalto Dora; la Serra d’Ivrea è un costone morenico che separa il Canavese dal Biellese.

53 commerci: relazioni umane. 54 L’Eguagliatrice: la morte che rende gli uomini tutti uguali. 55 chimere vane: miraggi irreali. 56 intesi: volti. 57 Schierati... della Croce: il poeta allude ai due principali schieramenti politici del tempo: quello cattolico e quello socialista (il cui simbolo era il sole nascente). 58 Oggi l’alloro... favoleggiar altrui: il poeta è ben consapevole che la piccola voce della sua poesia non può imporsi in un mondo

in cui la gloria poetica (l’alloro) è preda di chi sale, come un ciarlatano (cerretano), alla ribalta facendosi annunciare con lo strepito (clangor) delle trombe da guerra (buccine) per diventare un mito presso la folla. Questi versi tracciano un ritratto sarcastico e polemico di D’Annunzio, il poeta-tribuno, che nel dramma La nave usa l’espressione «il clangore delle buccine», qui ripresa da Gozzano. Anche «favoleggiare altrui» è una citazione, ma dantesca (Pd II 51).

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«Avvocato, non parla: che cos’ha?» «Oh, Signorina! Penso ai casi miei, a piccole miserie, alla città... Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...» – «Qui, nel solaio?...» – «Per l’eternità!» – 210 «Per sempre? accetterebbe?...» – «Accetterei!» [...] 205

VI Tu m’hai amato59. Nei begli occhi fermi luceva una blandizie femminina; tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina; e più d’ogni conquista cittadina 295 mi lusingò quel tuo voler piacermi! 290

Unire la mia sorte alla tua sorte per sempre, nella casa centenaria! Ah! Con te, forse, piccola consorte vivace, trasparente come l’aria, 300 rinnegherei la fede letteraria che fa la vita simile alla morte60... Oh! questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta61, 305 meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta! Tu non fai versi. Tagli le camicie per tuo padre. Hai fatta la seconda 310 classe, t’han detto che la Terra è tonda, ma tu non credi... E non mediti Nietzsche62... Mi piaci. Mi faresti più felice d’un’intellettuale gemebonda63... Tu ignori questo male che s’apprende64 315 in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti, tutta beata nelle tue faccende. 59 Tu m’hai amato...: la sesta sezione del poemetto, che nella prima strofa riprende esattamente i vv. 85-90, è dedicata al sogno di vita rappresentato dal matrimonio (improbabile) con Felicita, immune dal tarlo corrosivo del pensiero, in alternativa alla “non vita” della letteratura.

60 fa la vita... morte: rende la vita artificiosa, lontana dalle gioie comuni, e simile alla morte. 61 inteso alla moneta: intento a far denari. 62 Nietzsche: il nome del filosofo tedesco, che fu un mito per la generazione di Gozzano e che lui stesso lesse avidamente, è fatto rimare con camicie del v. 308.

È forse l’esempio più vistoso e più noto dell’“effetto choc” di cui parlava Montale, prodotto dall’accostamento ardito tra “aulico” e “prosaico”. 63 gemebonda: lamentosa. 64 s’apprende: si insinua e si attacca tenacemente: il male a cui il poeta allude è l’inquietudine esistenziale degli intellettuali.

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Mi piaci. Penso che leggendo questi miei versi tuoi, non mi comprenderesti, ed a me piace chi non mi comprende. Ed io non voglio più essere io! Non più l’esteta gelido65, il sofista66, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio67 325 come tuo padre, come il farmacista... 320

Ed io non voglio più essere io! [...] VIII Nel mestissimo giorno degli addii mi piacque rivedere la tua villa. La morte dell’estate era tranquilla in quel mattino chiaro che salii 385 tra i vigneti già spogli, tra i pendii già trapunti di bei colchici lilla68.

Amedeo Modigliani, Ritratto di una cameriera, 1916 (collezione privata).

Forse vedendo il bel fiore malvagio che i fiori uccide e semina le brume69, le rondini addestravano le piume 390 al primo volo, timido, randagio; e a me randagio parve buon presagio accompagnarmi loro nel costume70. «Vïaggio con le rondini stamane...» – «Dove andrà?» – «Dove andrò? Non so... Vïaggio. 395 vïaggio per fuggire altro vïaggio71... Oltre Marocco, ad isolette strane72, ricche in essenze, in datteri, in banane, perdute nell’Atlantico selvaggio... Signorina, s’io torni73 d’oltremare, 400 non sarà d’altri già74? Sono sicuro

65 l’esteta gelido: «l’innamorato della Bellezza pura, il dannunziano» (Guglielminetti-Masoero); gelido “senza passioni”. 66 il sofista: il capzioso ragionatore. 67 in oblio: in una vita oscura, appartata. 68 colchici lilla: piccoli fiori color lilla, velenosi (v. 387 malvagio). 69 semina le brume: porta con sé le nebbie autunnali.

70 e a me randagio... nel costume: e a me, che mi preparavo a partire, sembrò di buon auspicio (per la guarigione del suo male) imitarle («accompagnarmi loro nel costume»). Il poeta si prepara al lungo viaggio che lo porterà in paesi lontani, come le rondini si preparano alla traversata autunnale del mare verso i climi caldi.

71 fuggire altro vïaggio: cercare di evitare la morte.

72 isolette strane: le Canarie. 73 s’io torni: nel caso io tornassi. 74 non sarà d’altri già: non sarà ormai sposata con qualcun altro.

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di ritrovarla ancora? Questo puro amore nostro salirà l’altare?» E vidi la tua bocca sillabare a poco a poco le sillabe: giuro. Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette75, coi nomi e con la data memoranda76: trenta settembre novecentosette... Io non sorrisi. L’animo godette 410 quel romantico gesto d’educanda. 405

Le rondini garrivano assordanti, garrivano garrivano parole d’addio, guizzando ratte come spole77, incitando le piccole migranti... 415 Tu seguivi gli stormi lontananti78 ad uno ad uno per le vie del sole... «Un altro stormo s’alza!...» – «Ecco s’avvia!» – «Sono partite...» – «E non le salutò!...» – «Lei devo salutare, quelle no: 420 quelle terranno la mia stessa via79: in un palmeto della Barberia80 tra pochi giorni le ritroverò...» Giunse il distacco, amaro senza fine81, e fu il distacco d’altri tempi, quando 425 le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine82... M’apparisti così come in un cantico 430 del Prati83, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico... Quello che fingo d’essere e non sono! 75 saette: le frecce di Cupido, simbolo dell’amore. 76 memoranda: da ricordare. 77 ratte come spole: rapide come i rocchetti dei telai. 78 lontananti: che si allontanano. 79 terranno… via: faranno il mio stesso itinerario.

80 Barberia: letteralmente la terra dei Berberi, qui sta per l’Africa settentrionale. 81 amaro senza fine: ripete, invertendola, un’espressione dantesca («sanza fine amaro», Pd XVII 112) 82 Giunse... confine: l’addio tra Felicita e l’“avvocato” è paragonato all’addio tra i soldati che partivano e le loro amate, dai

capelli lisci divisi in due bande a incorniciare il viso e le ampie gonne foderate con la crinolina. Le diligenze e il confine forse alludono a patrioti esuli. 83 Prati: Giovanni Prati (1814-1884), poeta sentimentale della seconda generazione romantica.

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Analisi del testo Un personaggio e un mito di felicità costruiti a tavolino Leggendo La signorina Felicita si potrebbe essere indotti a pensare a un’esperienza amorosa del poeta con una ragazza di provincia realmente esistita. Anche se non si può negare un risvolto autobiografico, senza dubbio Felicita è soprattutto un personaggio costruito “a tavolino” dal poeta per delineare un ideale femminile opposto alle donne fatali dannunziane. La storia del testo è rivelatrice: il celebre ritratto di Felicita («Sei quasi brutta…», vv. 73 e sgg.) nasce suggestionato (in negativo) dall’impressione lasciata a Gozzano da una giovane cameriera, conosciuta durante un suo soggiorno in montagna, e di cui il poeta traccia un impietoso ritratto in una lettera del 3 agosto 1907 ad Amalia Guglielminetti: Non ho una Mila per compagna [personaggio della tragedia La figlia di Jorio di D’Annunzio], ma una servente indigena e prosaicissima... È un’onestissima fanciulla, figlia di Maria, ed io nutro per lei la più rispettosa ripugnanza: immaginate un corpo diciottenne, ma che in città sdegnerebbe una vecchia ottuagenaria, immaginate un volto quadrato, scialbo, roseo, lentigginoso, senza pupille, senza ciglia, senza sopracciglia, e un viscidume di capelli gialli, tirati, lisci aderenti e stretti alla nuca in un fascio di trecciuole minute e su tutto il volto i segni dell’idiozia ereditaria. È evidente la sovrapposizione delle due figure, ma anche la trasformazione idealizzante operata dal poeta sulla «servente indigena e prosaicissima» per creare il personaggio di Felicita. È inevitabile dedurne che Felicita non è una figura reale, ma è stata costruita dal poeta come mito poetico che avrebbe dovuto incarnare la sua aspirazione (per altro non sincera fino in fondo) a vivere una vita vera, a riscaldare il cuore dell’esteta gelido, a infrangere quello che il critico Renato Serra (1884-1915) definirà il “carcere” della letteratura. Ancora più significativo per comprendere la complessa ideazione del poemetto è il componimento L’ipotesi (➜ T5 OL), rimasto nelle Poesie sparse (quindi non inserito nei Colloqui), che Gozzano stesso definisce il preludio della Signorina Felicita: in una fantasticheria una volta tanto rivolta al futuro (c’è anche l’indicazione di una data precisa: «nel mille e... novecento... quaranta», v. 20), Gozzano immagina sé stesso vecchio, sposato ormai da anni a Felicita (qui più espressamente connotata come ingenua e ignorante), inserito in una tranquilla vita borghese nell’ipotesi (improbabile, come si comprende dall’inizio del poemetto) che la «Signora vestita di nulla», cioè la morte, non arrivi. Anche L’ipotesi conferma dunque il carattere di “fantasticheria” poetica del celebre componimento e del personaggio femminile eponimo, che vi domina accanto all’avvocato, nel quale si proietta Gozzano stesso. È proprio per questo suo carattere di creazione letteraria quasi programmatica che La signorina Felicita risulta particolarmente indicativa della concezione di vita e di poesia di Gozzano.

Il rovesciamento della donna fatale dannunziana e il mito della felicità borghese Felicita è costruita da Gozzano come consapevole rovesciamento della donna fatale, della “vampira” seduttrice, di cui abbonda la letteratura del tempo e che ricorre anche nell’opera di D’Annunzio (➜ C11): il nome stesso Felicita è l’antitesi di nomi femminili fascinosi, come ad esempio Ippolita del dannunziano Trionfo della morte. A una bellezza sofisticata e perversa si oppone la «faccia buona e casalinga», allo sguardo seduttivo «l’iridi sincere» dal colore azzurro, in cui il termine aulico iridi è accostato al prosaico riferimento al colore delle stoviglie («azzurre d’un azzurro di stoviglia»). Felicita è legata a una vita semplice, fatta di banali occupazioni quotidiane (è celebre la prima domanda: «A quest’ora che fai? Tosti il caffè», v. 8), come rammendare le lenzuola, confezionare camicie anziché leggere Nietzsche (come detto, la rima Nietzsche: camicie è tra le più citate di Gozzano per l’ardita contaminazione di ‘alto’ e ‘basso’). La figura di Felicita incarna il sogno di una vita semplice e concreta (l’area semantica della semplicità ricorre più volte), lontana dal tarlo corrosivo e dall’aridità del pensiero: vivere con lei forse trasformerebbe l’esteta gelido, il sofista in un uomo concreto come il farmacista (da notare l’associazione per contrasto dei due termini posti in rima ai vv. 321 e 325). Ma nel momento stesso in cui elabora tale mito di felicità borghese, Gozzano se ne distacca, attraverso il distanziamento critico e ironico della rappresentazione: la signorina Felicita rappresenta davvero per l’io lirico, come recita il titolo, la felicità? Oppure già nel titolo si insinua l’ironia che serpeggia poi per tutto il componimento? Gozzano non potrà mai diventare,

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come auspica nell’Ipotesi, un tranquillo borghese, così come non potrà mai essere «un buono / sentimentale giovine romantico»: il commento finale «Quello che fingo d’essere e non sono!» esplicita la frattura tra l’“essere” e il “voler essere” che è anche frattura tra Felicita e l’io lirico.

Gli ambienti Felicita non esisterebbe come personaggio al di fuori del suo mondo provinciale e vecchiotto di cui è l’emblema Villa Amarena, antica villa ora decaduta, con le pannocchie che ne coprono la facciata, gli ortaggi che maturano nell’ex parco, il suo arredamento démodé e un po’ kitsch. È un mondo di provincia tranquillo, ripetitivo nei suoi ritmi quotidiani (la cena, la partita a carte con i notabili del luogo), che si svolgono sempre negli stessi luoghi (il salotto e la cucina). Un mondo che appartiene ormai al passato e che la moderna, rumorosa civiltà metropolitana si avvia a cancellare. Pur evocato con nostalgia, in Gozzano il passato non è mito fascinoso, come per altri autori del tempo: rivive infatti già corroso dallo sguardo implacabile dell’ironia ed è in genere connotato di squallore e tristezza («Odore d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato!»), non per nulla il luogo che metaforicamente lo rappresenta è il solaio.

Il giudizio sul mondo contemporaneo D’altra parte è proprio dal solaio della vecchia villa decaduta (e quindi da una prospettiva di “distanza” insieme temporale e spaziale) che Gozzano guarda e giudica il mondo a lui contemporaneo, che si stende “fuori” e lontano da Villa Amarena («ma laggiù, oltre i colli dilettosi, / c’è il Mondo»). Un mondo su cui il poeta pronuncia un severo giudizio (vv. 181-204): Gozzano rifiuta i miti superomistici e vitalistici e si sente del tutto estraneo agli opposti schieramenti che dominano la scena politica, come pure alla dilagante corruzione. Inadatto a vivere nella Storia, e forse nella realtà stessa, Gozzano può solo rifugiarsi nel mondo fittizio della letteratura.

Il ciarpame reietto e la visione gozzaniana della poesia La visita al solaio di Villa Amarena (IV sezione) è una parte centrale del poemetto. Nel solaio si trovano gli emblemi del passato, significativamente sono oggetti-rifiuto («rottami del passato vano») ammassati alla rinfusa («una stirpe logora e confusa»), tra cui le gerarchie sono sconvolte: tra i materassi e le ceste, oltre al ritratto in posa neoclassica della Marchesa, si trova anche, abbandonato, un ritratto del Tasso con la corona d’alloro che Felicita, nella sua ignoranza, scambia per un ramo di ciliegio: «Avvocato, perché su quelle teste / buffe si vede un ramo di ciliegie?» (vv. 161-162). La buffa domanda della ragazza – che già di per sé demistifica la gloria poetica – è commentata subito dopo dall’esclamazione del poeta: «Oimè! La Gloria!» (v. 165) che svela il valore simbolico della scena. Nel solaio Gozzano sceglie idealmente gli oggetti “cari alla sua Musa”: oggetti dimenticati, ciarpame reietto che la poesia dei “poeti laureati” non può che disprezzare. L’indiretta polemica nei confronti delle scelte auliche della poesia dannunziana si esplicita poi nel sarcastico giudizio sul personaggio pubblico di D’Annunzio: «Oggi l’alloro è premio di colui...» dei vv. 201-204.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto delle diverse sezioni e attribuisci a ognuna di esse un titolo. COMPRENSIONE 2. Perché il poeta si sofferma analiticamente a descrivere gli arredi di Villa Amarena? ANALISI 3. Quale importante funzione esercita la data posta in apertura del componimento? STILE 4. Rintraccia i passi in cui è più evidente il ricorso all’ironia e cerca di spiegarne la funzione. LESSICO 5. Analizza il lessico usato da Gozzano e raccogli qualche esempio dell’accoppiata lessico aulicoletterario e lessico quotidiano-prosaico.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. L’autorevole modello a cui Gozzano si contrappone polemicamente è D’Annunzio: per quali aspetti La signorina Felicita si iscrive in tale confronto polemico? Indicali e analizzali con puntuali riferimenti testuali.

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Guido Gozzano

T4

Totò Merumeni I colloqui

G. Gozzano, I colloqui, a c. di M. Guglielminetti e M. Masoero, Principato, Milano 2004

Mentre nella Signorina Felicita Gozzano si autoritrae in modo diretto e più scoperto, in Totò Merumeni utilizza una controfigura. L’immagine complessiva di uomo e di intellettuale che si ricava dal testo completa quella presente nella Signorina Felicita, mettendo in luce il complesso rapporto di Gozzano con il modello dannunziano, a cui indirettamente si fa riferimento. Pubblicata nei Colloqui nella III sezione, Il reduce, la composizione era uscita prima su rivista, nel 1911.

I Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei balconi secentisti1 guarniti di verzura2, la villa sembra tolta da certi versi miei, 4 sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura3... Pensa migliori giorni la villa triste4, pensa gaie brigate sotto gli alberi centenari, banchetti illustri nella sala da pranzo immensa 8 e danze nel salone spoglio da gli antiquari5. Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo, Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone6, s’arresta un automobile7 fremendo e sobbalzando, 12 villosi forestieri8 picchiano la gorgòne9. S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma vive Totò Merùmeni10 con una madre inferma, 16 una prozia canuta ed uno zio demente.

La metrica Quartine di doppi settenari, per lo più a rima alternata (ABAB) o anche incrociata (ABBA)

1 secentisti: forma meno comune di secenteschi (La Signorina Felicita: v. 23 «come una dama secentista» e v. 171 «dall’abbaino secentista» e nota). Come Vill’Amarena, anche questa è una costruzione baroccheggiante come molte ville sabaude. 2 guarniti di verzura: ornati di piante e fiori. 3 Libro di Lettura: si riferisce all’antologia delle scuole elementari del tempo. Ironico rimando alla propria produzione poetica (e alla villa di Felicita). 4 Pensa... triste: la villa triste ricorda i (suoi) giorni migliori.

5 spoglio da gli antiquari: spogliato dagli antiquari (che ne hanno acquistato i mobili). 6 Casa Ansaldo... Casa Oddone: illustri casate piemontesi i cui membri un tempo frequentavano la villa. 7 un automobile: al tempo era considerata di genere maschile. 8 villosi forestieri: al prestigio riservato delle antiche famiglie piemontesi appena citate Gozzano contrappone la recente ricchezza esibita di anonimi personaggi venuti da fuori a bordo di automobili e impellicciati (villosi, “vestiti di pelli, selvatici”). 9 picchiano la gorgòne: picchiano al battaglio di bronzo del portone, che raffigura la testa di una gorgone (come Medusa), dalle chiome serpentine, secondo un certo gusto liberty.

10 Totò Merùmeni: il protagonista del testo, in cui l’autore si rispecchia. Il nome singolare del personaggio è presumibilmente derivato, con storpiatura ironica, dal titolo di una commedia del commediografo latino Terenzio (sec. II a.C.), Heautontimoroúmenos, che significa “Il punitore di se stesso”: il protagonista si sottopone a un duro lavoro per punirsi di aver obbligato il figlio a partire soldato per fargli dimenticare una giovane di umile condizione che egli amava. La scelta non è casuale, ma si ricollega al carattere del personaggio gozzaniano: un antieroe, un inetto a vivere, antitesi vivente del Superuomo.

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II Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa11, molta cultura e gusto in opere d’inchiostro12, scarso cervello, scarsa morale, spaventosa 20 chiaroveggenza13: è il vero figlio del tempo nostro. Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»14 (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere15, Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette 24 ai suoi trascorsi16 che sarà bello tacere17. Non è cattivo. Manda soccorso di danaro al povero, all’amico un cesto di primizie; non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro 28 pel tema, l’emigrante per le commendatizie18. Gelido19, consapevole di sè e dei suoi torti, non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche «... in verità derido l’inetto che si dice 32 buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti...20» Dopo lo studio grave21, scende in giardino, gioca coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita; i suoi compagni sono: una ghiandaia22 rôca, 36 un micio, una bertuccia che ha nome Makakita... III La Vita si ritolse tutte le sue promesse. Egli sognò per anni l’Amore che non venne, sognò pel suo martirio23 attrici e principesse 40 ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne. Quando la casa dorme, la giovinetta scalza, fresca come una prugna al gelo mattutino, giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza 44 su lui che la possiede, beato e resupino24... 11 tempra sdegnosa: carattere sprezzante, specie verso meschinità e bassezze. 12 opere d’inchiostro: opere letterarie. Si tratta di una citazione dal proemio dell’Orlando furioso («Quel ch’io vi debbo, posso di parole / pagare in parte e d’opera d’inchiostro»). 13 chiaroveggenza: capacità di previsione, lucidità di giudizio. 14 «vender parolette»: un’altra citazione, questa volta da Petrarca (Canzoniere, CCCLX, 81), dove l’espressione è impiegata per identificare la professione di avvocato (a tale professione Gozzano pensava in un primo momento di dedicarsi). 15 baratto o gazzettiere: truffatore (ba-

ratto per barattiere, “che fa commercio di cose pubbliche”; ricorda i dannati nell’Inferno dei canti XXI-XXII) o giornalista. L’abbinamento tra i due termini implica la svalutazione per una professione che nel primo Novecento attirava molti intellettuali, ma che era anche espressione di interessi di parte e non era immune da legami con il potere politico ed economico. 16 ai suoi trascorsi: alla sua vita passata. 17 che... tacere: memoria dantesca (If IV 104: «’l tacere è bello»). 18 le commendatizie: lettere di raccomandazione, utili a chi va in cerca di lavoro (emigrante). 19 Gelido: distaccato, freddo.

20 «… in verità... forti...»: Gozzano trae la citazione da Così parlò Zarathustra, l’opera con cui Nietzsche enuncia la teoria del Superuomo, di cui Totò costituisce l’antitesi. Sogg. di derideva è il Nietzsche; l’ugne “le unghie”. 21 grave: pesante, faticoso. 22 ghiandaia: un uccello della famiglia dei corvidi, dal becco nero, buon imitatore di suoni (rôca). 23 pel suo martirio: per poter provare una grande passione amorosa, che faccia soffrire e lo tormenti illudendolo (come avviene nei melodrammi o nei romanzi sentimentali). 24 resupino: supino.

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IV Totò non può sentire25. Un lento male indomo26 inaridì le fonti prime del sentimento; l’analisi e il sofisma27 fecero di quest’uomo 48 ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento. Ma come le ruine che già seppero il fuoco28 esprimono29 i giaggioli dai bei vividi fiori, quell’anima riarsa esprime a poco a poco 52 una fiorita d’esili versi consolatori...30 V Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende, quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima31. Chiuso in sè stesso, medita, s’accresce32, esplora, intende 56 la vita dello Spirito33 che non intese prima. Perché la voce34 è poca, e l’arte prediletta immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va, Totò opra35 in disparte, sorride, e meglio aspetta. 60 E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà36. 25 non può sentire: non può provare emozioni e sentimenti. 26 indomo: indomabile, incurabile. 27 l’analisi e il sofisma: la tendenza a analizzare ogni cosa in modo sterilmente compiaciuto, con corrosiva e capziosa indagine. 28 le ruine... il fuoco: le rovine che già hanno conosciuto il fuoco.

29 esprimono: producono, fanno nascere. 30 una fiorita... consolatori…: una fioritura di fragili versi che portano consolazione.

31 l’indagine e la rima: la riflessione filosofica e la creazione poetica. 32 s’accresce: accresce le sue conoscenze. 33 la vita dello Spirito: Gozzano allude al suo nuovo interesse per una sorta di spiritualismo panteistico (o, secondo altri,

all’interesse per la filosofia idealistica di Benedetto Croce). 34 la voce: la vena poetica. 35 opra: opera, lavora (meditando e scrivendo). 36 Un giorno... morirà: la poesia si chiude con la citazione di un verso di Francis Jammes, uno dei modelli prediletti di Gozzano.

Analisi del testo Il ritratto consapevolmente costruito di un inetto Totò Merùmeni è un testo di fondamentale importanza per comprendere il rapporto di Gozzano con la cultura del suo tempo e, indirettamente, il carattere della sua proposta poetica, cui il poeta allude nell’ultima parte del testo. Nella figura di Totò Gozzano proietta alcune componenti della sua stessa personalità, seppur filtrate, come sempre avviene nella sua poesia, da una distanza ironica e mediate da molteplici allusioni letterarie: il ritratto si colloca così in una dimensione volutamente ambigua, a mezzo tra realtà e finzione letteraria. È evidente comunque, al di là dei riflessi autobiografici, l’intenzione di Gozzano di fare di Totò un personaggio esemplare, in rapporto alla posizione critica del poeta nei confronti dei miti estetizzanti e superomistici che dominavano al suo tempo: in particolare, dietro la maschera di questo personaggio si profila la polemica di Gozzano nei confronti di D’Annunzio e dei suoi modelli di comportamento personali e letterari, che vengono consapevolmente rovesciati nel ritratto di Totò.

Un nome-emblema, una vita prosaica Le velleità superomistiche sono contestate già dal nome-emblema che Gozzano sceglie per il suo personaggio: “il punitore di sé stesso”, l’inetto, l’opposto dell’orgoglioso vitalismo dannunziano e del modello umano prospettato da Nietzsche.

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Totò vive quasi da eremita, in un suo isolamento antitetico rispetto al protagonismo del poeta-tribuno D’Annunzio, sempre al centro della vita sociale, culturale e anche politica: «chiuso in sé stesso», Totò «opra in disparte», dedicandosi unicamente alla poesia e allo studio. La vita di Totò-Gozzano, che certo non ha i tratti della “vita inimitabile” di D’Annunzio, si consuma lentamente nella tranquilla attesa della fine («Un giorno è nato. Un giorno morirà»), una fine che a sua volta nulla avrà a che vedere con “la bella morte”, la fine gloriosa decantata da tanti eroi contemporanei, veri o presunti. Anche il luogo di campagna dove Totò si è ritirato è agli antipodi delle sontuose dimore dannunziane (dalla Capponcina al Vittoriale): una vecchia villa un po’ malandata e spogliata dai suoi arredi, dove Totò vive con la compagnia senile e malata di «una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente»). Il carattere di consapevole costruzione letteraria di questo luogo è dichiarato da Gozzano nella prima quartina: «la villa sembra tolta da certi versi miei, / sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…». È un modello di villa “gozzaniana”, con una sua consistenza libresca.

Totò figlio del suo tempo Ma Totò non è solo una controfigura di Guido, è anche «il vero figlio del tempo nostro» (v. 20): è un decadente, un esteta, seppur fallito, privo di sentimenti, di «scarsa morale», preda di un «lento male indomo», vittima di una disposizione intellettualistica («l’analisi e il sofisma», v. 46) che paralizza la volontà di vivere e l’autenticità del sentire.

La concezione della poesia Sulla constatazione che «Totò non può sentire» (v. 45), Gozzano innesta un riferimento alla sua concezione della poesia: «esili versi consolatori» che riescono a fiorire nell’aridità dello spirito, nel deserto del cuore, così come germogliano i coloriti giaggioli tra le rovine di un edificio distrutto dalle fiamme. La poesia non ha il compito di trasmettere grandi messaggi: è una voce “esile”, che però è capace di consolare dai dolori e dalle amare disillusioni della vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta il contenuto del testo in massimo 5 righe. COMPRENSIONE 2. Quale scelta di vita fa il protagonista? ANALISI 3. Indica il significato che, secondo te, rivestono nel testo i seguenti elementi: a. l’ambiente in cui vive Totò e le figure che gli stanno accanto; b. l’attività a cui si dedica; c. la presenza “notturna” della cuoca diciottenne.

Interpretare

SCRITTURA 4. In un testo di circa 15 righe delinea il ritratto di Totò Merùmeni, mettendo in luce i tratti che lo pongono in antitesi al superuomo dannunziano e che lo rendono un “escluso” dalla vita.

online T5 Guido Gozzano

L’ipotesi Poesie sparse, vv. 111-154

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Interpretazioni critiche Eugenio Montale Montale interpreta il successo di Gozzano

Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 2 583

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I “vociani”. La poesia come vocazione di vita 1 I “vociani”: verso la modernità Significato e limiti di una etichetta critica Contemporanea all’esperienza crepuscolare si svolge quella di alcuni scrittori che si suole raggruppare ancora oggi sotto l’etichetta comune di “vociani” perché furono in vario modo vicini all’ambiente intellettuale e alle posizioni di fondo della rivista fiorentina «La Voce» (in particolare nella sua prima e seconda fase di pubblicazione, sotto la direzione prima di Prezzolini e poi del critico Giuseppe De Robertis). Come la maggior parte delle formule critiche generalizzanti, anche quella di “vociani” ha dei limiti oggettivi, per la mancanza di una poetica comune ai vari scrittori e la conseguente difficoltà di unificare esperienze poetiche dissimili: ben poco hanno in comune, per citare solo i “vociani” maggiori, la poesia onirica e visionaria di Campana, l’espressionismo radicale di Rebora, la prosaica e dimessa testimonianza esistenziale di Sbarbaro. Fatta questa premessa, l’etichetta può anche essere mantenuta, ma a patto di considerarla esclusivamente come indicazione generica, allusiva a un “clima” intellettuale di forte portata innovativa nel panorama letterario italiano del primo Novecento. Crepuscolari e vociani I vociani condividono con i crepuscolari il disagio esistenziale di fronte alla crisi di valori e conoscitiva in cui si trovano a vivere e a scrivere: ne deriva per entrambi il rifiuto dei miti futuristi e dell’ideologia superomistica. Alle enunciazioni dannunziane di una vita e di una poesia sublimi, i vociani contrappongono, come i crepuscolari, un’idea di poesia sofferta e “minimale” (lo testimoniano i titoli stessi, alquanto emblematici, di alcune raccolte: Pianissimo, Quisquilie, Trucioli di Sbarbaro, Frantumi di Boine). Rispetto ai crepuscolari, i poeti “vociani” mostrano però la tendenza a un più approfondito scavo nelle inquietudini dell’io e soprattutto compiono scelte stilistiche e metriche di più forte sperimentalismo, che avviano la definitiva dissoluzione delle forme della tradizione. Per quest’ultimo aspetto alcuni dei poeti vociani possono essere considerati espressione di una vera e propria avanguardia, accanto (e in opposizione) a quella futurista.

Le principali caratteristiche della letteratura “vociana” Nonostante le indubbie differenze tra i singoli autori, è possibile indicare alcune caratteristiche di fondo dell’esperienza vociana, anche se è bene precisare che non tutte sono presenti in ogni scrittore. Centralità della riflessione etica e autobiografismo “metafisico” Ricorrente nei poeti e scrittori “vociani” è la tendenza a fare della letteratura una testimonianza etica, che può diventare adesione alle sofferenze collettive in rapporto alla guerra, come nel caso di Piero Jahier (Con me e con gli alpini, ➜ C14 T5 ) o ricerca interiore dell’assoluto come in Rebora (➜ D2 OL). Al valore della poesia come sofferta testi-

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monianza morale si associa il nuovo significato che viene dato alla dimensione autobiografica, che è molto presente nei vociani: lontanissimo dal compiacimento proprio dell’estetismo e dall’ipertrofia dell’io di marca superomistica, l’autobiografismo dei “vociani” è testimonianza di una ricerca personale del senso dell’esistere, nel naufragio dei valori collettivi e sullo sfondo di una concezione pessimistica del mondo e della vita. La dimensione autobiografica diventa così (come sarà anche in Montale) l’ambito preferenziale per illuminare la condizione dell’uomo moderno: in questo senso il filologo Gianfranco Contini ha parlato di «autobiografismo metafisico». Poetica del “frammento” e abbattimento dei confini tra prosa e poesia In rapporto a una visione ormai destrutturata della realtà, domina la produzione dei “vociani” una marcata tendenza al “frammentismo”, che implica, per quanto riguarda la prosa, una rinuncia alla stessa struttura romanzesca, sostituita da flash disarticolati, nei quali si manifesta una volontà introspettiva e un’attitudine fondamentalmente lirica. In ambito poetico prevale il “frammento lirico” svincolato da qualsiasi tentativo di una costruzione globale di senso. Proprio la ricerca di una concentrazione espressiva legata al frammento abbatte i confini tra prosa e poesia: la prosa è infatti caratterizzata da un andamento lirico (Frantumi di Boine e anche Trucioli di Sbarbaro) o comunque nelle raccolte si alternano indifferentemente testi prosastici e in versi come nei Canti orfici di Campana (➜ T9 OL) o anche in Con me e con gli alpini di Jahier (➜ C14 T5 ). Espressionismo Per alcuni poeti che in qualche modo afferiscono all’area vociana (Boine, Jahier, Slataper, ma soprattutto Rebora) si può parlare di “espressionismo”, in un’accezione diversa (e più limitata) rispetto a quella con cui ci si riferisce a una delle avanguardie europee, soprattutto di area tedesca (➜ C12); si tratta per i vociani sopra nominati di un espressionismo che investe essenzialmente il piano delle scelte espressive: contaminazione di lessico “alto” e “basso”, neologismi e arcaismi, termini aulici e dialettali, estrema tensione della lingua verso nuove significazioni, che comporta la forzatura delle strutture sintattiche e del lessico. L’autore più significativo in questo senso è certamente Rebora, oggi considerato uno dei grandi del primo Novecento, mentre l’etichetta “espressionista” ben poco può adattarsi a un poeta come Campana (vicino piuttosto al “maledettismo” tardoottocentesco di Rimbaud) e, ancor meno, a Sbarbaro.

Poeti “vociani” esperienze diverse ma comune contiguità con la rivista «La Voce»

• componente autobiografica • pessimismo esistenziale • riflessione etica

• “frammentismo” • superamento della divisione prosa/poesia

• espressionismo • sperimentalsmo

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2 Clemente Rebora: un poeta espressionista Nell’itinerario poetico ed esistenziale di Clemente Rebora, oggi considerato uno dei grandi poeti del primo Novecento, esiste una sorta di filo rosso ed è la tensione etica, l’indagine spirituale che alla fine troverà nell’adesione alla fede una risoluzione appagante. Come ha osservato Carlo Bo, e come testimoniano anche i testi qui presentati, c’era però da sempre in lui la “sete dell’eterno”, che negli anni precedenti la “conversione” si configura come drammatica ricerca della verità. La formazione Clemente Rebora (1885-1957) nasce a Milano in una famiglia della media borghesia di tradizioni laiche e garibaldine. Dopo essersi iscritto alla facoltà di medicina a Pavia, passa ben presto agli studi letterari nella città natale, dove si laurea nel 1910. Fin dalla giovinezza Rebora mostra una spiccata vocazione etica, nel 1911 scriveva: «Vorrei giovare ed elevare tutto e tutti, smarrirmi come persona per rivivere nel meglio e nel desiderio di ciascuno».

Clemente Rebora in uniforme durante la Prima guerra mondiale.

L’insegnamento, la collaborazione con «La Voce», i Frammenti lirici Dopo la laurea si dedica con grande dedizione all’attività di insegnante, operando in particolare nelle scuole tecniche e serali, dove a quei tempi poteva incontrare un’umanità disagiata cui manifestare la propria solidarietà. Collabora intanto alla prima «Voce», dove pubblica nel 1913 i Frammenti lirici, la sua maggiore e più innovativa raccolta poetica, caratterizzata da uno stile aspro e dissonante, di marca espressionistica. L’esperienza traumatica della guerra e l’interesse religioso Partecipa quindi alla Grande Guerra sul fronte goriziano, in fanteria. Tuttavia non riesce a resistere al contatto diretto con l’ingiustizia del dolore e della morte (➜ C14 T7a ): in seguito allo scoppio ravvicinato di una bomba riporta un grave trauma psichico che induce i medici a congedarlo. Dopo la guerra emerge in lui un sempre più forte interesse religioso. Nel 1922 pubblica i Canti anonimi: il titolo evidenzia la contestazione di ogni forma di individualismo, la ricerca, anche come poeta e non solo come uomo, dell’anonimato e dell’impersonalità. In questa breve raccolta Rebora rinuncia alle marcate forme espressionistiche proprie dei Frammenti lirici per una poesia scarna, essenziale, densamente simbolica. La “conversione” e la scelta del sacerdozio Intorno agli anni Trenta matura in lui quella conversione alla fede che lo indurrà alcuni anni dopo, quando ha già oltrepassato i cinquant’anni (1936), a diventare sacerdote nell’ordine rosminiano. Dopo anni di silenzio poetico, l’ispirazione riaffiora, parallelamente a una grave malattia che prima lo costringe a letto e poi lo porta alla morte (1957). Ne nascono i Canti dell’infermità (1955-1957), che hanno al centro una tematica religiosa. Uno stile “incandescente” La poesia maggiore di Rebora, in stretto rapporto con la tensione morale che la ispira, è caratterizzata da una sistematica deformazione del linguaggio a fini di iperespressività.

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Una deformazione che avvicina Rebora all’Espressionismo tedesco primo-novecentesco, ma anche a esempi di poesia religiosa “estrema”, da quella medievale di Jacopone da Todi a quella dello scrittore novecentesco Giovanni Testori. Gli aspetti più significativi e ricorrenti di questa operazione riguardano il verbo, vero asse portante della sperimentazione stilistica di Rebora, il cui uso estremamente libero da ogni convenzione produce inedite significazioni.

I Frammenti lirici I Frammenti lirici (1913) sono la più importante raccolta poetica di Rebora, che la critica riconosce ormai come una delle più alte espressioni della poesia primonovecentesca. Al contrario di quanto il titolo farebbe pensare, non si tratta di una serie irrelata di testi: al contrario, i Frammenti lirici sono un libro organico, una sorta di “poema unitario”, nel quale i singoli testi dialogano fra di loro e si illuminano l’un l’altro. Vi si manifesta una tensione etica profonda, la ricerca drammaticamente frustrata di un senso nel reale, che induce il poeta a rifiutare la vuota e rumorosa società moderna, simboleggiata dalla città: mentre i futuristi celebrano la civiltà della macchina e la città moderna come simbolo del progresso tecnologico, Rebora, analogamente ad altri poeti “vociani”, vede invece la città come mondo dell’inautenticità e della degradazione morale. Idealmente contrapposta alla campagna, la città è il mondo in cui è compromessa l’armonia uomo-natura, in cui i rapporti umani sono snaturati, in cui viene frustrato lo slancio dell’anima oltre i vincoli terreni. A questa urgenza morale corrisponde uno stile unico nel panorama della poesia primo-novecentesca, aspro, dissonante, caratterizzato da una vera e propria «incandescenza stilistica» (Mengaldo) per il quale la critica ha parlato concordemente di espressionismo. Un espressionismo che investe anche le Prose liriche, composte nel periodo bellico, e persino le lettere, come evidenzia anche questa dichiarazione, tratta da una lettera del 1911: «Mi sbatto nel contrasto tra l’eterno e il transitorio», una dichiarazione che potrebbe essere scelta come emblema della ricerca esistenziale e poetica di Rebora e della sua stessa concezione di poesia (➜ D2 OL).

Frammenti lirici GENERE

raccolta poetica

STRUTTURA

poema unitario, libro organico

DATA

1913

TEMI

• rifiuto della società moderna, • tensione etica verso il mondo ultraterreno

STILE

aspro, espressionistico

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PER APPROFONDIRE

L’espressionismo di Rebora L’espressionismo di Rebora si fonda sull’iterazione di alcuni procedimenti, di cui forniamo qui alcuni esempi (suggeriti dal critico Baldini). • Frequentissima associazione tra concetti astratti e verbi concreti: «slancio di creazione / perché sì duro t’incrosti / negli urbani sviluppi?» (II, 35-37); «rumina l’ozio e aduna i suoi cocci» (V, 17); oppure anche il contrario: «sguinzaglia l’eterno» (➜ T6 v. 23), in cui il verbo sguinzagliare, usato abitualmente come sinonimo di “liberare dal guinzaglio i cani” regge un concetto astratto come l’eterno. L’ultimo esempio testimonia anche la frequente contaminazione, anch’essa di gusto espressionistico, tra termini ‘alti’ e ‘bassi’. • Sovvertimento dell’uso normale del verbo: verbi intransitivi sono usati transitivamente come in «pullula luci» (XII, 40-41); «speranze nell’occhio del cielo divampa» (v. 8); oppure verbi transitivi-riflessivi sono usati come intransitivi: «mentre l’attimo svena» (XXXIX, 11); «chi soffre e accieca». • Predilezione per verbi con prefisso s- (scardina, sguinzaglia, spennecchia, sgrumando, schiomando, springa, spurga).

Questo e altri aspetti rimandano alla suggestione esercitata su Rebora dallo stile comico-realistico di Dante infernale e “petroso”. • Accumulazione dei verbi: «che sguazza... che spezza... che schizza... che strizza» spesso asindetica: «Romba, splende, s’inspira...» (VIII, 12). • Uso dell’elenco, e più in generale di martellanti ripetizioni, per intensificare un’idea: «Sciorinati giorni dispersi / Cenci all’aria insaziabile / Prementi ore senza uscita / Fanghiglia d’acqua sorgiva / Torpor d’attimi lascivi [...] / Forsennato voler» (VI, 1-7). • Sfruttamento estremo delle potenzialità espressive dell’aggettivo, con continue condensazioni analogiche: «ghiotta luce», «floscio il tempo», «caso lucente» ecc. Al di là dell’uso dell’aggettivo Rebora impiega costantemente ardite analogie che poi saranno utilizzate dalla poesia novecentesca: «fiala soave dell’estro», «slanci arcuati di luce», «accesa corolla dei sensi». • Infine assai frequenti, e spesso molto ardite, sono le sinestesie, come in questi esempi: «e si palpavan i sonori tonfi»; «nereggia negli echi»; «tinnir luminoso».

online D2 Clemente Rebora

O poesia, nel lucido verso Frammenti lirici, XLIX

Clemente Rebora

T6

O carro vuoto sul binario morto Frammenti lirici

C. Rebora, Frammenti lirici, in Le poesie, a c. di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1994

Si tratta di uno dei testi più noti e significativi di Rebora. Il tema che il poeta vuole trattare è la condizione umana, soggetta a leggi inesorabili che imprigionano la libertà dello spirito, soffocando la tensione dell’uomo verso i più alti valori e costringendolo a una condizione massificata. Ritorna in O carro vuoto il contrasto tra cielo e terra, tra bisogno di valori e di assoluto e “incatenamento” nella vuota monotonia dei giorni che domina in O poesia, nel lucido verso. Per trattare il tema della condizione umana Rebora utilizza qui l’emblema del carro vuoto a cui direttamente si rivolge: un vagone ferroviario che viene agganciato dalla locomotiva e compie un lungo viaggio, immagine simbolica del cammino della vita.

O carro vuoto sul binario morto1, ecco per te la merce rude d’urti, e tonfi2. Gravido3 ora pesi sui telai tesi4; 5 ma nei rantoli gonfi si crolla fumida e viene La metrica Versi liberi. 1 O carro... morto: come si può notare dal primo verso, la poesia utilizza il moderno ambiente della stazione ferroviaria (tra gli altri consacrato da Carducci nella celebre poesia: Alla stazione. In una mattina d’autunno). Ma siamo qui ben lonta-

ni dalla volontà di evocare un ambiente realistico, come si deduce dal fatto che il poeta si rivolge a uno dei vagoni (O carro vuoto). Il lettore anche comune si attende inevitabilmente un’utilizzazione simbolica dell’oggetto evocato, come infatti avviene e come il seguito della poesia evidenzia.

2 ecco per te... tonfi: la normale operazione di carico di un vagone con merci pesanti acquista un’inusitata significazione in rapporto a quella antropomorfizzazione del vagone che si accentuerà nel corso della poesia. 3 Gravido: pieno. 4 sui telai tesi: sulle balestre, sulle molle.

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annusando con fascino orribile la macchina ad aggiogarti5. Via dal tuo spazio assorto6 10 all’aspro rullare d’acciaio al trabalzante7 stridere dei freni, incatenato nel gregge per l’immutabile legge del continuo aperto cammino: 15 e trascinato tramandi e irrigidito rattieni le chiuse forze inespresse su ruote vicine e rotaie incongiungibili e oppresse8, 20 sotto il ciel che balzàno9 nel labirinto dei giorni nel bivio delle stagioni contro la noia sguinzaglia l’eterno, verso l’amore pertugia l’esteso10 25 e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, mentre la terra gli chiede il suo verbo e appassionata nel volere acerbo paga col sangue, sola, la sua fede11. 5 ma nei rantoli... aggiogarti: la locomotiva che avanza (si crolla, letter. “si scuote”) per agganciare il vagone diventa una minacciosa figura vivente: il vapore che emette (fumida) con suoni simili a un rantolo (nei rantoli gonfi: immagine analogica) diventa il gesto di un animale che annusa una preda. 6 Via dal tuo spazio assorto: espressione ellittica del verbo: il vagone viene portato via dallo spazio tranquillo (ma assorto è ben più pregnante) in cui stava. Il senso dell’agg. assorto, attribuito per metonimia allo spazio occupato dal vagone, è evidentemente metaforico: si va delineando sempre più la valenza simbolica dell’oggetto scelto dal poeta come referente. Ricorda la ripresa di Montale nei suoi Ossi di seppia con Meriggiare pallido e assorto. 7 trabalzante: che fa sobbalzare. 8 e trascinato... oppresse: usando termini che alludono all’ambito ferroviario l’autore va delineando il complesso messaggio

simbolico del testo. Letteralmente il testo si può intendere all’incirca così: “E (‘quando sei’) trainato (trascinato), trasmetti (tramandi) e (‘quando sei’) fermato (irrigidito) trattieni le inespresse energie che sono in te («le chiuse forze inespresse») su ruote vicine e sulle rotaie che non si congiungono mai (incongiungibili) e oppresse, a loro volta, dal tuo peso”. 9 balzàno: imprevedibile. Il cielo, con le sue continue metamorfosi, è simbolo positivo (anche in senso genericamente religioso), contrapposto al rigido, “necessario” e opprimente cammino prestabilito del vagone (e dell’uomo di cui il vagone è simbolo) su binari fissi. 10 contro la noia... l’esteso: il cielo, opponendosi alla noia (in senso esistenziale e filosofico non lontano da quello leopardiano), libera (sguinzaglia) la dimensione dell’eterno, aprendo (all’uomo) la strada dell’amore e apre un varco (pertugia) all’interno della materia (l’esteso).

Il linguaggio usato dal poeta si fa qui arditamente espressionistico nel coniare neologismi (il verbo pertugiare, derivato da pertugio, “anfratto, buco”) e nell’uso del verbo sguinzagliare, abbinato qui inopinatamente a un termine astratto e “importante” come l’eterno. 11 e non muore... la sua fede: la poesia si chiude con versi di difficile e certo non univoca interpretazione. Proponiamo una possibile lettura: i valori che il cielo simbolicamente rappresenta non possono né vivere veramente né morire, mentre la terra (l’uomo) chiede un messaggio certo (il suo verbo richiama il messaggio cristiano). Ma il cielo non risponde alla domanda appassionata e forse prematura (è forse questo il senso dell’espressione nel volere acerbo) e la terra (l’uomo) paga in termini di sofferenza e solitudine la sua ricerca di una risposta salvifica.

Analisi del testo Un testo simbolico La lirica prende spunto dal moderno ambiente della stazione ferroviaria di cui utilizza gli oggetti e in parte anche il linguaggio settoriale (carro vuoto, binario morto, telai, freni, rotaie). Il vagone vuoto che attende di essere caricato di merci pesanti e aggregato alla locomotiva per poi intraprendere il viaggio con altri vagoni uguali assurge però subito al ruolo di emblema (c’è chi ha parlato di vera e propria allegoria) della condizione umana.

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Una condizione sospesa tra vuota inattività (il vagone vuoto si trova fermo su un binario morto) e irreggimentazione, obbligo di seguire secondo una legge inesorabile («per l’immutabile legge», v. 13) un itinerario di cui non conosce l’approdo («continuo aperto cammino», v. 14) ripercorrendo ripetitivi rituali collettivi (significativa la forte metafora «incatenato nel gregge» del v. 12) che condannano all’inautenticità. Le forze inespresse, le energie segrete che ogni essere possiede sono infatti destinate a rimanere chiuse dentro di lui, così come il vagone è trascinato dai ritmi della locomotiva senza poter scegliere il percorso e il ritmo del suo cammino. Secondo alcune interpretazioni il testo potrebbe alludere più precisamente alla nascita: l’essere umano viene strappato dalla condizione di attesa e di raccoglimento in cui si trova nel grembo materno (a cui alluderebbe lo spazio assorto) e inesorabilmente aggiogato da un’ineludibile “necessità” che ne determina il destino nel corso della vita, senza avere alcuna possibilità di realizzare la propria identità unica e di esercitare una libertà di scelta.

Tra doloroso pessimismo e speranza religiosa Nel testo si manifesta una concezione pessimistica della vita umana, a cui si contrappone il riferimento al cielo (vv. 20-25). Alla dimensione della “cieca necessità” a cui l’uomo è condannato, Rebora contrappone l’imprevedibilità (ma l’agg. balzàno allude addirittura alla bizzarria) del cielo, che rappresenta simbolicamente, con le sue continue metamorfosi, la positività dei valori, la dimensione spirituale, la tensione all’assoluto. Guardando al cielo l’uomo può aprire una breccia nella cieca, materialistica, ottusità dell’esistenza (pertugia l’esteso), cogliendo anche solo per un attimo la dimensione dell’eterno e dell’amore. Ma la lirica si chiude con una nota nuovamente pessimistica. L’uomo che cerca risposte, che chiede al cielo il suo verbo, è condannato a soffrire in solitudine, pagando cara la sua appassionata ricerca.

Un esempio di poesia espressionistica Il testo è un vero condensato delle scelte radicali in ambito stilistico-linguistico che fanno di Rebora l’autore simbolo della tendenza espressionistica: l’intensificazione del valore espressivo dell’aggettivo (ad esempio assorto, associato per metonimia allo spazio, o lo straordinario balzàno attribuito al cielo); la scelta di verbi inusitati, soprattutto in rapporto al complemento che reggono («sguinzaglia l’eterno») o addirittura di neologismi: pertugia (probabile memoria dantesca: «Breve pertugio dentro da la Muda», If XXXIII 22) associato a l’eterno; l’uso transitivo di verbi intransitivi («speranze... divampa»; «tripudi... conflagra») e viceversa (accieca); accumulo di verbi, anche legati da analogie foniche, come nella serie sguazza… spezza… schizza… strizza. Edward Hopper, Convoglio ferroviario, 1908.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. COMPRENSIONE 2. Perché il vagone viene definito gravido (v. 3)? ANALISI 3. Secondo te, il carro è soltanto un oggetto passivo?

Interpretare

SCRITTURA 4. O carro vuoto può essere letto come esempio della tensione morale propria della poesia denominata “vociana” e di Rebora in particolare: fanne una presentazione sintetica, in un testo di massimo 20 righe, che evidenzi tale prospettiva.

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3 Il Rimbaud italiano: Dino Campana

Il poeta Dino Campana in una fotografia giovanile.

Un poeta discusso Nel 1914 il poeta toscano Dino Campana (1885-1932) pubblica i Canti orfici: una raccolta di una trentina di testi poetici e di prose liriche che costituiscono una delle più originali testimonianze poetiche del primo Novecento. Proprio per la sua ardita originalità, per la difficoltà di inquadrarla nelle tendenze letterarie del tempo (Campana fu di fatto un isolato), ma anche per l’associazione quasi obbligata con la tragica biografia del poeta (ricoverato più volte in manicomio, vi trascorse gli ultimi quindici anni della sua vita), l’opera di Campana fu ignorata dai contemporanei. Peraltro i giudizi della critica non sono ancora oggi concordi e oscillano tra il considerare Campana un epigono della poesia tardo-ottocentesca, i cui procedimenti simbolici risultano oscuri e le cui innovazioni sono più apparenti che reali (la linea Contini, sostanzialmente ripresa da Mengaldo), al ritenerlo tra i più grandi poeti del Novecento (Sanguineti) per arrivare a un giudizio di più equilibrata valutazione (Asor Rosa). Quest’ultimo studioso mette in luce la «volontà autoriale» che presiede all’elaborazione dei Canti orfici e sottolinea la necessità di una rigorosa distinzione tra le stranezze comportamentali dell’autore, che appartengono esclusivamente alla sua tormentata biografia, e le prerogative della sua poesia, il cui carattere visionario è certo frutto anche di stati psichici alterati e allucinatori, ma non più di quanto avviene in Arthur Rimbaud (1854-1891), teorico di un programmatico “deragliamento dei sensi”. Sulla figura di Campana come intellettuale ha gettato nuova luce la pubblicazione, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, di lettere e documenti inediti: essi hanno contribuito a illuminare i rapporti del poeta toscano con l’ambiente culturale e letterario del suo tempo e la sua concezione assoluta della poesia intesa come vocazione e iniziazione, in forte polemica con le tendenze letterarie più affermate del suo tempo.

Un’esistenza tormentata Lo spettro della follia Dino Campana nasce a Marradi presso Firenze nell’agosto del 1885 da una famiglia della piccola borghesia. Verso i quindici anni inizia a manifestare un atteggiamento ribelle e aggressivo verso la famiglia e il suo controllo, un atteggiamento presto etichettato come squilibrio mentale (il padre parlava di «impulsività brutale»). Dopo aver iniziato a studiare chimica all’Università di Bologna (studi che non concluderà mai, pur avendo tentato più volte di riprenderli), appena ventunenne (1906) per qualche tempo è internato nel manicomio di Imola. La diagnosi parla di «esaltazione psichica, impulsività e vita errabonda», tendenze comportamentali a quel tempo sufficienti per parlare di follia e giustificare un ricovero coatto. Inizia da qui l’emarginazione progressiva che caratterizzerà la sfortunata esistenza del poeta, i ripetuti ricoveri in manicomi in Italia, ma anche all’estero (nel 1910 lo si ritrova nel manicomio di Tournai in Belgio).

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La vocazione al vagabondaggio All’esperienza della reclusione si alternano nella vita di Campana molte esperienze di viaggio in varie zone dell’Europa e del mondo, di cui è difficile ricostruire la successione cronologica: oltre a peregrinare per varie città italiane, si reca in Svizzera, a Parigi, fino a compiere un lungo viaggio, a quei tempi avventuroso, in Argentina e Uruguay. L’esperienza del viaggio, concepita come evasione da una realtà sempre più frustrante ma anche come esperienza conoscitiva, è vitale per Campana: pur di viaggiare farà i mestieri più diversi, anche umilissimi, da manovale a pianista in caffè e bordelli, da mozzo a fuochista sulla nave “Odessa” diretta ad Anversa, sulla quale si imbarca per tornare in Europa dall’America latina. Ne ricaverà una vasta esperienza di mondi diversi, il possesso di varie lingue (almeno cinque) che gli consentiranno l’accesso in originale alle letterature straniere, ma soprattutto un complesso di immagini e sensazioni che, ricreate, rifluiranno nella sua poesia. La costituzionale vocazione al vagabondaggio, il rifiuto delle regole di comportamento comuni, la contestazione violenta delle istituzioni letterarie hanno alimentato l’interpretazione che fa di Campana forse l’unico vero esempio in Italia di “poeta maledetto” alla maniera di Verlaine e Rimbaud, da lui ben conosciuti, così come Baudelaire.

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Documento critico Ardengo Soffici Come Campana vendeva i Canti orfici nei caffè

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Per approfondire Sebastiano Vassalli Ricercando Dino Campana

Un manoscritto smarrito Verso il 1913 Campana cerca di pubblicare le sue poesie e prose, contattando prima Prezzolini, allora direttore della «Voce», e successivamente Papini e Soffici, direttori della rivista «Lacerba», ma senza riceverne alcuna manifestazione di interesse. Il manoscritto delle sue poesie e prose, originariamente intitolato Il più lungo giorno, addirittura è smarrito per distrazione da Soffici (tra le cui carte fortunosamente sarà ritrovato solo nel 1971). La vicenda suscita in Campana un’angoscia profonda e alimenta un grave complesso di persecuzione, che a sua volta lo spinge sempre più ai margini della società. Disperando di poter riavere il manoscritto, Campana si diede a riscriverlo, a suo dire, a memoria. Ne esce, di fatto, un nuovo libro con il nuovo titolo di Canti orfici, che riesce a far pubblicare nel 1914 a Marradi grazie all’intervento economico di un amico. Nel 1916 inizia una turbinosa e appassionata relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo (18761960 ➜ SCENARI PAG 57) poi troncata in modo drammatico l’anno successivo. Nel 1918 viene rinchiuso definitivamente nel manicomio di Castel Pulci presso Firenze, dove morirà per setticemia nel 1932.

Sibilla Aleramo fotografata da Mario Nunes Vais.

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I Canti orfici

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Per approfondire Da Il più lungo giorno ai Canti orfici

I Canti orfici sono una raccolta mista di prose liriche e versi, con le caratteristiche del “frammento” tipiche della poesia simbolista (richiamano soprattutto Illuminazioni e Una stagione all’inferno di Rimbaud) e testimoniate ampiamente nei “vociani”. Tuttavia, Campana non si riconobbe “vociano”, e anzi in più occasioni manifestò un atteggiamento di ostentato dissenso verso questi poeti. I Canti orfici non si devono considerare una semplice antologia di testi ma un vero e proprio “libro”, pensato e progettato come tale (e di libro parla lo stesso Campana): una sorta di itinerario insieme esistenziale e poetico di cui i singoli testi rappresentano delle tappe, segnalate e scandite dalle partizioni tra di essi. Un itinerario che rimanda al tema del viaggio, centrale nell’immaginario (e nella vita stessa) di Campana.

Canti orfici raccolta mista di prose liriche e versi (1914)

poesia come rivelazione, esperienza iniziatica

poesia visiva, successione a-logica di immagini

online T7 Dino Campana

Genova Canti orfici, I, vv. 1-19

Dino Campana

T8

La Chimera Canti orfici

D. Campana, Canti orfici, a c. di F. Ceragioli, Rizzoli, Milano 1982

La Chimera, che apre la sezione Notturni dei Canti orfici, è uno dei testi più noti di Campana. Il poeta si rivolge a una misteriosa figura femminile, la cui sfuggente bellezza egli cerca di cogliere e rappresentare. Una figura a cui, nell’ultimo verso, e nel titolo, il poeta dà il nome di Chimera: nella mitologia classica la chimera è un essere composto di parti di diversi animali (la testa di leone, la coda di drago, il corpo di capra), ma “chimera” è anche, nella lingua comune, un sogno vano, qualcosa di irraggiungibile. Attraverso l’evanescente figura femminile, Campana allude forse all’ispirazione poetica, ricercata ardentemente ma sempre sfuggente.

Non so se tra roccie il tuo pallido viso m’apparve, o sorriso di lontananze ignote fosti, la china eburnea 5 fronte fulgente o giovine suora de la Gioconda1: o delle primavere La metrica Versi liberi. 1 Non so se... de la Gioconda: il poeta si rivolge qui e per tutta la lirica a una misteriosa, sfuggente, figura femminile.

“Non so se il tuo pallido viso mi apparve tra [le] rocce, o (se sei stata) sorriso di lontananze ignote, o giovane sorella (suora) della Gioconda (il celeberrimo dipinto di Leonardo), splendente la tua chinata

fronte pallida (accusativo di relazione alla greca: ‘quanto alla tua fronte…’; eburnea ‘d’avorio’)”.

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spente, per i tuoi mitici pallori o Regina o Regina adolescente2: 10 ma per il tuo ignoto poema di voluttà e di dolore musica fanciulla esangue, segnato di linea di sangue nel cerchio delle labbra sinuose, 15 regina de la melodia: ma per il vergine capo reclino, io poeta notturno vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo3, io per il tuo dolce mistero 20 io per il tuo divenir taciturno4. Non so5 se la fiamma pallida fu dei capelli il vivente segno del suo pallore, non so se fu un dolce vapore, 25 dolce sul mio dolore, sorriso di un volto notturno6: guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti e l’immobilità dei firmamenti e i gonfii rivi che vanno piangenti 30 e l’ombre del lavoro umano7 curve là sui poggi algenti8 e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. 2 o delle primavere... adolescente: o regina, regina adolescente, per i tuoi mitici pallori, delle età passate (le primavere spente). 3 ma per il tuo... del cielo: ma, o armoniosa (musica è aggettivo) e pallida (esangue) fanciulla, regina della melodia, per (compl. di causa o, forse meglio, di fine) il tuo misterioso (ignoto) messaggio di piacere e dolore, segnato da una linea di sangue nel cerchio delle tue labbra sinuose: ma per il tuo virginale capo reclinato, io poeta notturno vegliai le stelle splendenti nelle distese celesti (pelaghi del cielo).

4 io per il tuo... taciturno: nei due versi

6 Non so... notturno: nella descrizione ri-

spicca l’ellissi del verbo (presumibilmente lo stesso vegliai del v. 18); taciturno può riferirsi sia a io sia a divenir. 5 Non so: è ripreso l’inizio della poesia, ripetuto anche al v. 24 (è tipica dello stile di Campana la ripresa di sintagmi, che crea nei suoi testi una sostanziale circolarità). Il poeta sottolinea nuovamente l’enigmaticità dell’evanescente figura femminile; vapore vale “emanazione, spirito, aura”.

compare il riferimento al pallore, già presente nei primi versi (pallida, pallore). La figura femminile appare al poeta capace di apportare, con il suo sorriso, consolazione nella sua vita dolorosa (dolce sul mio dolore... sorriso di un volto notturno). 7 l’ombre del lavoro umano: gli uomini al lavoro (ma l’espressione è poeticamente indeterminata). 8 poggi algenti: colli freddi, invernali.

Analisi del testo Un’enigmatica figura femminile Nel testo viene evocata una figura femminile affascinante e non priva di sensualità. Il poeta cerca di descriverne i tratti, ma la dubitativa che apre il testo (Non so, ripresa al v. 24), subito introduce il motivo della indecifrabilità, creando attorno alla figura un alone di mistero: è reale apparizione o immagine affiorata da “ignote lontananze”, forse dal passato stesso del poeta? All’enigmaticità concorre anche il riferimento alla Gioconda di Leonardo (v. 6), emblema per eccellenza di femmineo mistero (ma il vergine capo reclino è memore di un altro quadro leonardesco: La Vergine delle rocce).

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Una figura simbolica Nella figurazione della fanciulla entrano componenti dell’archetipo femminile decadente (l’insistito riferimento all’esangue pallore, cui fa da contrappunto la «linea di sangue / nel cerchio delle labbra sinuose» può ricordare certe femmes fatales del tempo), e fors’anche su Campana agì la memoria di una raccolta dannunziana ricca di figure femminili e intitolata proprio La chimera (1890). In particolare ci sembra significativo l’inizio del poemetto Gorgon: Ella avea diffuso in volto quel pallor cupo che adoro. Le splendea l’alma ne gli occhi quale in chiare acque un tesoro. Ne la bocca era il sorriso fulgidissimo e crudele che il divino Leonardo perseguì ne le sue tele. Nel testo di Campana prevale però un tono decisamente antirealistico che toglie concretezza ai singoli dettagli della figurazione femminile: più che una donna è evocata un’immagine della femminilità, che viene piegata a una significazione sicuramente simbolica, anche se non decifrabile in modo univoco. Alcuni riferimenti (come quello al «poema di voluttà e dolore» o all’armonia di cui la figura femminile è portatrice: musica fanciulla, regina de la melodia) rendono plausibile l’identificazione tra la fanciulla e la poesia, o più propriamente l’ispirazione poetica. Come la fanciulla qui evocata, anche l’ispirazione è infatti mistero (e alla dimensione del mistero, si ricordi, allude il titolo complessivo della raccolta di Campana: Canti orfici); è metamorfica e ha molteplici volti e nature, come la chimera mitologica; la si intravvede, sembra di coglierla, ma è sempre sfuggente: non a caso la poesia si chiude con l’invocazione struggente della Chimera («e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della poesia in massimo 5 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è, secondo te, la funzione dell’incipit di questa poesia? ANALISI 3. Rintraccia le analogie presenti nel testo e spiegane il frequente ricorso da parte del poeta in rapporto al contesto. STILE 4. Identifica i numerosi enjambements presenti nel testo, cercando di valutare l’effetto prodotto.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Sicuramente La Chimera è un testo di difficile comprensione. A questa “oscurità” contribuiscono certo alcune scelte proprie della poesia di Campana: dal lessico indeterminato e allusivo, alle ellissi (in particolare del verbo), all’uso variabile di uno stesso elemento grammaticale (come ad esempio o, impiegato sia come interiezione vocativa sia come congiunzione disgiuntiva), all’uso ambiguo della preposizione per e soprattutto alle inversioni e alla separazione del soggetto dal verbo. Individua nel testo questi elementi e presentali alla classe in un intervento orale di massimo cinque minuti.

online T9 Dino Campana Sogno di prigione Canti orfici

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4 Camillo Sbarbaro: la poesia del disincanto Il poeta Camillo Sbarbaro.

Una vita “normale” La vita del poeta ligure Camillo Sbarbaro è agli antipodi della “vita inimitabile” di D’Annunzio ma anche del disperato “maledettismo” di Campana: nato a Santa Margherita Ligure nel 1888 trascorre un’esistenza priva di eventi rilevanti, che si svolge per la maggior parte in Liguria dove Sbarbaro lavora prima come impiegato alla Società siderurgica e quindi all’Ilva di Genova. Al ritorno dal fronte di guerra dove aveva operato come sottotenente di fanteria, abbandona l’impiego nell’industria e sceglie di vivere di lezioni private. Durante la guerra aveva iniziato a collezionare e studiare muschi e licheni: una passione che diventerà competenza specialistica, facendo di Sbarbaro un esperto a livello internazionale. Nel 1951 si ritira a vivere a Spotorno con la sorella. Muore nel 1967. La produzione letteraria In ambito poetico Sbarbaro esordisce con l’esigua raccolta Resine (1911), ma si afferma grazie alla pubblicazione di Pianissimo (1914), avvenuta a Firenze presso le edizioni de «La Voce», accolto dalla critica con giudizi positivi. Negli stessi anni collabora a varie importanti riviste del tempo, come «La Riviera Ligure», «Lacerba» e «La Voce».A Pianissimo seguono le prose poetiche di Trucioli (1920) e quindi lunghi anni di silenzio poetico, interrotti solo nel secondo dopoguerra con vari volumetti di poesie dai titoli ispirati alla “poetica del frammento” e a una visione riduttiva della propria poesia, come risulta già dai titoli (Scampoli, 1960; Gocce, 1963; Contagocce, 1965; Quisquilie, 1967).

Pianissimo Pubblicata nel 1914, Pianissimo è la principale raccolta di versi di Sbarbaro, a cui è legata la sua fama poetica. Quarant’anni dopo, nel 1954, Sbarbaro procede a ristampare l’opera affiancando alla prima redazione una nuova versione che unanimemente la critica ha considerato inferiore (e non è privo di significato il fatto che il poeta non la sostituisca, ma l’affianchi alla versione originaria). Ritoccherà nuovamente il testo in occasione della pubblicazione di tutte le sue liriche (tranne Resine) nel 1961. Pianissimo non è una semplice silloge di poesie, ma un breve canzoniere con una sua coesione interna: lo testimoniano i richiami fra i testi e la specularità delle poe­ sie scelte dal poeta per aprire le due parti in cui il libro appare diviso (Taci, anima stanca di godere e Taci, anima mia. Son questi i tristi ➜ T10 OL) e per chiuderle (Il mio cuore si gonfia per te, Terra e Talora nell’arsura della via ➜ T11 ). Il libro è composto da una trentina di testi (alcuni di essi erano già stati pubblicati su riviste) attraverso cui si snoda una sorta di percorso autobiografico incentrato sulla ricorrenza di pochi, fondamentali, temi. Il titolo Pianissimo è termine del linguaggio della musica, che ne rispecchia il carattere di schiva, antiretorica, testimonianza. Pianissimo e «La Voce» Fu il letterato ligure Angelo Barile, amico di Sbarbaro, a proporre la pubblicazione di Pianissimo per le edizioni di «La Voce»: scrivendo al direttore della rivista, Prezzolini, Barile parla di una poesia «di sommessa e commossa interiorità» e aggiunge: «A Sbarbaro la pubblicazione da parte della Libreria della Voce sarebbe indubbiamente cara per ragioni, soprattutto, d’indirizzo estetico e ideale». Barile sottolineava dunque espressamente la consonanza fra la linea della «Voce» e i caratteri della poesia di Sbarbaro. Effettivamente l’etichetta “vociano” per Sbarbaro ha un suo senso, in particolare per la centralità della dimensione autobiografica e per la sincera tensione morale che ispira il suo canzoniere: «Sbarbaro restituisce una dimensione etica alla poesia, recupera un rapporto tra la scrittura

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e l’esistenza, restituisce all’esperienza poetica un centro costituito dall’io» (Polato). Non è invece corretto parlare per Sbarbaro di “espressionismo”: la sua poesia è del tutto aliena da quella violenta ed eversiva polemica verso la società e il mondo che caratterizza l’Espressionismo ed è caratterizzata sul piano stilistico dal rispetto delle norme sintattiche, dal rifiuto programmatico delle violazioni degli istituti linguistici proprie dell’Espressionismo. Le scelte metriche stesse rimandano alla tradizione.

I temi e lo stile: tra Leopardi e Baudelaire verso Montale La crisi di identità dell’uomo moderno La poesia di Pianissimo è incentrata sulla riflessione autobiografica, che il poeta ligure vede come strumento per introdurre una più generale tematica negativa, che percorre l’intero suo canzoniere: il poeta rappresenta in Pianissimo la crisi di identità dell’uomo moderno, che consegue al disincanto, alla lacerazione delle illusioni. Un tema che avvicina Sbarbaro a Leopardi, a cui rimanda anche la scelta dell’endecasillabo, alternato qua e là da settenari (e da qualche verso più breve): una versificazione adottata nella canzone libera leopardiana. Un linguaggio antimelodico Ma in Sbarbaro la condizione della modernità, simboleggiata dall’immagine del “deserto”, annienta la possibilità del dispiegarsi consolatorio del “canto” («Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto» in Taci, anima stanca di godere ➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 602): la gravità della crisi, che coinvolge il soggetto stesso, non solo privo di certezze, ma disgregato, sdoppiato e ormai svuotato persino dei sentimenti («La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca […] Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso»), porta Sbarbaro alla scelta di un linguaggio prosastico, spoglio, disadorno, che rispecchia l’aridità interiore e il deserto di valori e sentimenti proprio della vita moderna. Il tema negativo della città moderna Lo spazio in cui il tema del disadattamento è “messo in scena” è la città moderna. Sbarbaro rovescia, come Campana e come Rebora, il mito futurista della città e ne fa lo scenario-simbolo della negatività dell’esistere, della disgregazione dei rapporti umani e del soggetto stesso: l’uomo di Sbarbaro, impersonificato dall’io lirico, si aggira come un sonnambulo tra strade anonime, passa in mezzo a individui-folla che non si riconoscono: «Rasento le miriadi degli esseri / sigillati in sé stessi come tombe» (Nel mio povero sangue qualche volta). Per il tema negativo della città, già a partire dai primi lettori, la critica ha suggerito la diretta influenza di Baudelaire, di cui Sbarbaro riprende anche la dialettica tra il richiamo del peccato, l’abbandono alla lussuria e l’opposta tensione verso la purezza degli affetti. Le occasioni “epifaniche” È frequente nella poesia di Sbarbaro un tema-situazione che anticipa Montale: alcune poesie introducono un’improvvisa “illuminazione” epifanica rivelatrice sia del negativo dell’esistenza e della frattura incolmabile tra io e mondo, sia della possibilità insperata di scorgere improvvisamente, nel deserto dell’esistenza, un’immagine perduta di luce e di bellezza, come avviene nella lirica Talora nell’arsura della via (➜ T11 ) che chiude Pianissimo.

Pianissimo breve canzoniere (1914) online T10 Camillo Sbarbaro

Taci, anima mia. Son questi i tristi Pianissimo

• disincanto • crisi della modernità • città alienate

• versificazione tradizionale • linguaggio prosastico

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Camillo Sbarbaro

T11

Talora nell’arsura della via Pianissimo

C. Sbarbaro, Pianissimo, a c. di L. Polato, Il Saggiatore, Milano 1983

La lirica Talora nell’arsura della via è posta in chiusura di Pianissimo ed è una delle liriche più rappresentative di Sbarbaro: il tema dell’improvviso – epifanico – irrompere di un’immagine positiva, e la vanificazione rapida della momentanea illusione, anticipano la tematica di una fondamentale lirica montaliana, I limoni (➜ VOL 3B C4 T1 ).

Talora nell’arsura della via1 un canto di cicale mi sorprende. E subito ecco m’empie2 la visione di campagne prostrate nella luce... 5 E stupisco che ancora al mondo sian3 gli alberi e l’acque tutte le cose buone della terra che bastavano un giorno a smemorarmi4... 10

Con questo stupor sciocco l’ubbriaco riceve in viso l’aria della notte5.

Ma poi che sento l’anima aderire ad ogni pietra della città sorda com’albero con tutte le radici6, sorrido a me indicibilmente e come 15 per uno sforzo d’ali i gomiti alzo7... La metrica Versi sciolti, prevalentemente endecasillabi.

1 nell’arsura della via: espressione metaforica per alludere alla città, in Pianissimo luogo-simbolo dell’inaridimento dell’anima. Arsura significa letteralmente “aridità, secchezza”, che comporta desiderio di bere. Il termine è ripreso da Montale in una lirica di Ossi di seppia, Gloria del disteso mezzogiorno: «L’arsura, in giro; un martin

pescatore / volteggia».

2 m’empie: mi riempie l’anima (forma poetica aulica). 3 ancora al mondo sian: ancora esistano. 4 smemorarmi: a farmi dimenticare della mia condizione. 5 Con questo... della notte: l’analogia tra l’improvvisa, stupefatta, percezione del poeta e il vano stupore dell’ubriaco svela la natura illusoria dell’attimo fuggente di felicità. 6 Ma poi... le radici: all’illusione momen-

tanea succede la consapevolezza dei vincoli che legano inesorabilmente il poeta alla realtà “pietrificata”, alla condizione di atonia di cui la città è il simbolo negativo. 7 sorrido... alzo: il sorriso che il poeta rivolge a sé stesso è un sorriso di autocommiserazione per aver nutrito, sia pure momentaneamente, un’illusione: il gesto dei gomiti che mimano il movimento delle ali è patetico. Non esiste la possibilità di evadere dalla città sorda.

Analisi del testo L’occasione “epifanica” Il nucleo lirico della poesia, che chiude Pianissimo, è, si è già detto, un’occasione “epifanica”: il poeta si trova immerso nella consueta condizione dell’“aridità” («nell’arsura della via») quando l’ottusa dimensione del quotidiano viene infranta: un canto di cicale funge da improvvisa illuminazione. Complice il ricordo, affiora un’appagante (m’empie) immagine di luce, legata a una natura amica, contrapposta al “deserto” della città («gli alberi», «l’acque», «le cose buone della terra»). Già il distico successivo, però, snodo tra i primi versi e gli ultimi, incrina la positività della visione: essa viene assimilata infatti alla percezione distorta dell’ubriaco. I cinque versi successivi sanciscono la definitiva sconfitta del volo dell’anima: l’uomo è inesorabilmente incatenato alla dura, sorda realtà, come l’albero le cui radici sono saldamente piantate nella terra. Ogni tentativo di svincolarsi dalla dura necessità dell’esistere è sterile velleitarismo, simboleggiato nella poesia dal patetico gesto di chi vorrebbe volare senza avere le ali.

Ma l’illusione manca... Sbarbaro e Montale In Pianissimo è ricorrente il tema della “necessità”, intesa come cieco determinismo dell’esi-

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stere, simboleggiato dall’immagine del cerchio. Un determinismo che nel complesso dell’opera viene quasi fatalisticamente accettato, una volta che il poeta ne ha preso chiara coscienza: «Ma poiché in quel momento è così chiara / la mia vista, che di varcare il cerchio / nel quale la Necessità ci chiude / più non m’illudo» (A volte quando penso alla mia vita). Il tema della “necessità” che domina l’esistenza umana sarà ripreso e approfondito da Montale negli Ossi di seppia («il confine / che a cerchio ci rinchiude», Incontro); ma è costante nella prima raccolta di Montale anche il senso dell’attesa, l’inesausta tensione verso il “varco”, l’infrazione (l’anello che non tiene), la possibilità miracolosa di una sintonia con il cosmo che infranga il cieco determinismo dell’esistere. Come Sbarbaro però, anche Montale è incapace di illusioni durature («Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose», I limoni): il senso positivo della vita, inaspettatamente scoperto, è costantemente insidiato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto della poesia in non più di 5 righe, poi individua il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2. Perché il poeta si stupisce che ancora possano esistere «gli alberi e l’acque / tutte le cose buone della terra»? ANALISI 3. La poesia è articolata su una struttura antitetica: individua e interpreta i principali elementi di contrapposizione. LESSICO 4. La città è definita sorda: quale significato metaforico attribuisci a questo aggettivo in rapporto alla visione di Sbarbaro? STILE 5. Il poeta costruisce una rete fonica che collega a distanza, attraverso l’assonanza (e l’impiego di vocali aperte e e a), i termini campagne – acque – terra. Quale significato acquista questo collegamento?

Interpretare

SCRITTURA 6. In un testo di massimo 10 righe illustra questa poesia di Sbarbaro, delineandone la vicinanza con il clima dell’Espressionismo.

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Interpretazioni critiche Giorgio Bàrberi Squarotti La società borghese ripudia la poesia

Fissare i concetti La poesia in Italia nel primo Novecento I crepuscolari: una poesia con la “p” minuscola 1. A che cosa allude il termine “crepuscolarismo”? Da chi è stato coniato? 2. Q uali sono le caratteristiche della poesia “crepuscolare”? Quali autori meglio rappresentano la sensibilità “crepuscolare”? Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia 3. Perché per Guido Gozzano si può parlare di un crepuscolarismo improntato all’ironia? 4. I Colloqui di Gozzano sono una semplice antologia di testi? 5. Quale concezione della poesia emerge dalle opere di Gozzano? I “vociani”. La poesia come vocazione di vita 6. Quali sono le caratteristiche che accomunano, secondo un’etichetta critica tradizionale, gli scrittori vociani? 7. Quali sono i caratteri distintivi dell’autobiografismo vociano? 8. Perché Rebora può essere definito un poeta espressionista? 9. Perché Campana intitola la sua raccolta poetica Canti orfici? Che cosa significa l’aggettivo orfico? 10. In che modo viene rappresentata da Sbarbaro la crisi di identità dell’uomo moderno?

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Primo Novecento La poesia in Italia nel primo Novecento

Sintesi con audiolettura

1 I crepuscolari: una poesia con la “p” minuscola

Il termine “crepuscolari” è stato coniato dal critico Giuseppe Antonio Borgese ed è tuttora impiegato per identificare un gruppo di poeti del primo Novecento, fra cui Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907) e soprattutto Guido Gozzano (1883-1916), il maggiore dei crepuscolari. Il “crepuscolarismo” non è un movimento e neppure una scuola, ma piuttosto un clima poetico, una tendenza che si manifesta in zone diverse dell’Italia e che si contrappone sia al vitalismo superomistico dannunziano sia all’aggressiva ricerca di modernità del futurismo. Nelle liriche dei crepuscolari domina il disagio esistenziale, un senso di malinconica rinuncia, la tendenza all’evasione da un presente avvertito come minaccioso. La concezione della poesia e del ruolo del poeta propria dei crepuscolari li distingue sia dall’idea carducciano-dannunziana di poeta vate sia dal “veggente” del simbolismo francese. Nei crepuscolari, la visione antieroica della poesia si manifesta nella predilezione per ambienti provinciali, tristi, squallidi e nella scelta di uno stile dimesso e prosastico.

2 Guido Gozzano: crepuscolarismo e ironia

La breve esistenza di Guido Gozzano è segnata dalla costante presenza della malattia (la tubercolosi) che ne determinerà la morte a soli 33 anni e che ricorre spesso, come tema, nelle sue poesie. L’opera maggiore di Gozzano è la raccolta di liriche I colloqui (pubblicata con successo nel 1911), selezionate secondo un disegno organico e divise in tre sezioni. Si tratta di un’opera autobiografica, ma i dati dell’esperienza personale sono filtrati da frequenti rimandi alla tradizione letteraria di cui Gozzano era ottimo conoscitore. La poesia di Gozzano è spesso legata a una regressione temporale nel passato, personale o collettivo, un mondo borghese e provinciale evocato negli ambienti (come il salotto) e negli oggetti che più lo identificano. Tipico di Gozzano è tuttavia lo sguardo ironico con cui dissolve il potenziale fascino del passato. È una disposizione che investe anche lo stile: egli utilizza spesso citazioni ed espressioni letterarie, immettendole però ironicamente in un contesto antilirico e prosastico.

3 I “vociani”. La poesia come vocazione di vita

I poeti vociani: verso la modernità Parallelamente all’esperienza crepuscolare si sviluppa una diversa tendenza poetica, la cosiddetta poesia “vociana”: il termine, coniato dalla critica e non dai poeti, allude alla vicinanza di alcuni di essi alla rivista «La Voce». I principali poeti noti come “vociani” sono Clemente Rebora, Dino Campana, Camillo Sbarbaro. Li accomuna ai crepuscolari il rifiuto dei miti futuristi e della magniloquente poesia dannunziana in relazione a una visione pessimistica della realtà. Rispetto però ai crepuscolari, i vociani approfondiscono il pessimismo esistenziale, facendo della loro poesia una testimonianza della più generale crisi etica e conoscitiva del loro tempo. Inoltre la loro poesia lascia ampio spazio alla dimensione simbolica, anticipando la poesia maggiore del Novecento. Clemente Rebora L’urgenza della testimonianza etica è centrale nella poesia di Clemente Rebora (1885-1937), oggi considerato dalla critica uno dei grandi poeti del Novecento.

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Nella sua biografia spiccano, per i riflessi che ne derivano alla sua ispirazione poetica, due esperienze chiave: il trauma della guerra, vissuto personalmente sul fronte, e la “conversione”, che lo indurrà ormai maturo a diventare sacerdote. L’opera più innovativa di Rebora è la raccolta Frammenti lirici (1913), in cui il poeta milanese esprime una visione negativa della città moderna, vista come mondo dell’alienazione e del degrado. Nei Frammenti lirici si coglie pienamente la straordinaria novità della poesia di Rebora che ha fatto parlare, anche nel suo caso, di “espressionismo”: la deformazione della sintassi e del linguaggio per effetti di espressività e la densità delle immagini simboliche e analogiche. Dino Campana Uno dei poeti più interessanti dell’area vociana e più in generale del primo Novecento è il toscano Dino Campana (1885-1932). Campana ebbe un’esistenza inquieta e difficile, caratterizzata dalla ribellione, dall’esperienza del viaggio (tema chiave della sua poesia) e dallo squilibrio psichico (ricoverato più volte in manicomio, vi trascorse gli ultimi quindici anni della vita e vi morì). L’opera a cui è legato il nome di Campana è la raccolta di versi e prose liriche Canti orfici (pubblicata nel 1914), che scandiscono un itinerario insieme esistenziale e poetico. La poesia è concepita da Campana come misteriosa rivelazione, esperienza iniziatica per pochi, analogamente alla visione di Rimbaud del poeta “veggente”. Questa visione si traduce in una poesia densa di immagini analogiche, di costrutti ellittici che ne rendono ardua la lettura e l’interpretazione. Camillo Sbarbaro Ligure di origini, Camillo Sbarbaro (1888-1967) è una figura schiva e appartata, dalla vita “normale”. Si afferma con la raccolta Pianissimo, pubblicata nelle Edizioni della «Voce» nel 1914: una sorta di mini-canzoniere (solo una trentina di poesie) che delinea un percorso autobiografico. Sbarbaro condivide con i crepuscolari una visione “riduttiva” della poesia, testimoniata anche dai titoli delle sue raccolte (oltre a Pianissimo, Trucioli, Scampoli, Gocce, Quisquilie e altre analoghe). La poesia di Sbarbaro è caratterizzata dallo scavo interiore, condotto con uno stile che rimanda, anche nella versificazione, alla tradizione. Tema fondamentale è la crisi d’identità dell’uomo moderno, la perdita di certezze e illusioni, sullo sfondo della città moderna, simbolo di alienazione. Per più di un aspetto l’opera di Sbarbaro anticipa la poesia di un altro ligure, Eugenio Montale.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Facendo riferimento ai testi antologizzati, riassumi alla classe in massimo 5 minuti l’idea di poesia proposta dai crepuscolari.

Scrittura

2. In un testo di massimo 15 righe confronta due esperienze biografiche diverse ed emblematiche del clima socio-culturale del primo Novecento: Gozzano e Campana. 3. In un testo di circa 20 righe, metti a confronto l’immagine della città che emerge nella poesia di Rebora, Campana e Sbarbaro.

Sintesi

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Primo Novecento 601

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Camillo Sbarbaro

Taci, anima stanca di godere Pianissimo C. Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano, 1985

La poesia fa parte della raccolta Pianissimo (1914) e testimonia la «rassegnazione disperata» e l’estraneità dell’uomo rispetto al mondo che lo circonda.

Taci1, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata2). Nessuna voce tua odo se ascolto3: 5 non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di speranza, e neppure di tedio4. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena 10 d’una rassegnazione disperata5. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato … Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello 20 che è, soltanto quel che è. 15

La vicenda6 di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto7. 25

Comprensione e analisi

Interpretazione

Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.

1 Taci: il verbo taci è all’indicativo presente ed esprime una constatazione del poeta che è a colloquio con la propria anima. 2 All’uno… rassegnata: l’anima appare indifferente sia alla gioia sia al dolore. 3 Nessuna… ascolto: l’anima, come si dirà al v. 9, ammutolita. 4 Tedio: noia. In senso leopardiano. 5 Disperata: priva di speranza. 6 La vicenda: l’alternarsi. 7 Perduto… deserto: il mondo ha perso ogni lusinga.

1. Sintetizza il contenuto della lirica. 2. Che cosa rappresenta l’immagine del sonnambulo che cammina? 3. Individua le rime presenti nel testo e indicane la funzione espressiva. 4. Individua i termini che afferiscono all’area semantica del silenzio e spiegane il valore all’interno del testo. 5. A quale conclusione giunge il poeta negli ultimi versi? Al centro della poesia è la «rassegnazione disperata» del poeta di fronte al mondo. Partendo dal testo e facendo riferimento alla produzione poetica di Sbarbaro e/o di altri autori a te noti, elabora una tua riflessione sulle modalità con cui la letteratura affronta il tema.

602 Primo Novecento 13 La poesia in Italia nel primo Novecento

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Primo Novecento CAPITOLO

14 La Grande Guerra: dal mito alla realtà

La Grande Guerra ispirò una vastissima produzione artistica e letteraria che ci consente di rivivere il grande impatto che il primo conflitto ebbe sulla mentalità e l’immaginario, oltre che sulla vita della popolazione. La narrativa, in particolare, testimonia l’entusiasmo con cui molti giovani aderirono alla guerra, arruolandosi come volontari, spinti dall’imperante retorica patriottica, ma anche dal desiderio di riscattare la mediocrità della vita quotidiana: è il caso del protagonista del romanzo Rubè di Borgese. Anche la maggior parte degli intellettuali si schierò a favore della guerra, pur con motivazioni diverse: all’esaltazione futurista della «guerra sola igiene del mondo» si contrappone la posizione dello scrittore e critico Renato Serra, che nella guerra vedeva l’occasione per uscire dall’isolamento tradizionale del letterato e condividere un destino comune. Ma la letteratura sulla guerra testimonia soprattutto la disillusione di fronte alla condizione della vita in trincea, la presa di coscienza di una terribile realtà di morte: dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque alle testimonianze dei poeti che si si trovarono a vivere in prima persona l’esperienza della guerra sul fronte, come Rebora e Ungaretti.

retorica 1 Dalla all’orrore della guerra

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14 La Grande Guerra: dal mito alla realtà

1 Dalla retorica all’orrore della guerra 688 1 Le giovani generazioni e la guerra 688 T1 Il mito del sacrificio per la patria e la sua revisione critica

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Erich Maria Remarque

T1a «Mentre essi continuavano a scrivere

e parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi»

Niente di nuovo sul fronte occidentale, 10

LEGGERE LE EMOZIONI

690

Luigi Pirandello

T1b Il dramma di un padre Novelle per un anno, Quando si comprende

T2 La guerra: una «divina necessità»

692

Giuseppe Antonio Borgese

T2a «Era il 31 luglio 1914» Rubè

T2b Verso il campo di battaglia

693

Rubè

2 Gli intellettuali e la guerra 695 Giovanni Papini T3 La provocatoria celebrazione futurista del «caldo bagno di sangue»

697

Amiamo la guerra

Vladimir Vladimirovič Majakovskij

T4 Immagini futuriste per condannare la guerra La guerra è dichiarata

Piero Jahier

T5 Per chi morire Dichiarazione

Renato Serra T6 «Si ha voglia di camminare, di andare»

699

Esame di coscienza di un letterato

3 La crudeltà e l’orrore della guerra 702 T7 Il dramma dei soldati in trincea

703

Clemente Rebora

T7a La morte invocata Viatico

Giuseppe Ungaretti

T7b Diario di una notte in trincea Veglia

Federico de Roberto

T8 Una grande abbuffata immaginaria: il registro comico per raccontare la guerra La retata

SGUARDO SUL CINEMA La Grande Guerra al cinema

704

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Sintesi con audiolettura 705 Zona Competenze 706 Video e Audio www.centenario1914-1918.it

Per approfondire Immagini dal fronte: la Grande Guerra al cinema

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Emilio Lussu Il nemico da vicino

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604 Primo Novecento 14 La Grande Guerra: dal mito alla realtà

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Primo Novecento CAPITOLO

15 L’ombra del padre: Kafka e Tozzi

Durante il Novecento, anche grazie alla diffusione degli strumenti psicoanalitici, si fa strada una nuova visione dell’individuo e il genere del romanzo se ne fa interprete, sondando per la prima volta anche le zone d’ombra dell’io. Una di queste è la relazione conflittuale con la figura del padre, nucleo tematico dominante nell’opera di due autori del primo Novecento: Franz Kafka (1883-1924) e Federigo Tozzi (1883-1920). Lontanissimi per origine e cultura, sono accomunati dal rapporto antagonistico con l’elemento paterno che dalla vita trapassa nelle opere di entrambi.

conflitto con la 1 Ilfigura paterna: un tema centrale nella letteratura del Novecento

2 Franz Kafka 3 Federigo Tozzi 605

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1

Il conflitto con la figura paterna: un tema centrale nella letteratura del Novecento Un tema generazionale Nella letteratura ci sono temi che ricorrono in ogni epoca, come l’amore o l’amicizia; altri invece caratterizzano particolari periodi. A partire dal primo Novecento assume inedita centralità il tema del difficile rapporto con la figura paterna. Il “conflitto con i padri” può configurarsi come un vero e proprio scontro generazionale in nome della rottura con il passato, come nei movimenti d’avanguardia del primo Novecento (➜ C12): in particolare l’espressionismo si può considerare per certi aspetti una rivolta dei “figli” contro i “padri”; a sua volta il futurismo impone con aggressività il mito della modernità e della giovinezza, in contrapposizione a una tradizione sentita come ormai superata. Ma sono soprattutto i romanzi a dare voce al disagio esistenziale che consegue al difficile rapporto con la figura paterna, in particolare attraverso la ricorrente proposta della figura dell’“inetto”, incapace di adattarsi alla vita e di agire in modo costruttivo nel mondo: ne sono esempio, tra molti altri, Zeno Cosini nella Coscienza di Zeno e i personaggi di Kafka e di Tozzi, come vedremo. La trasformazione dell’istituzione familiare Ci si può chiedere la ragione dell’emergere del tema nella cultura del primo Novecento. Una prima causa possono essere le trasformazioni che proprio in quel secolo investono l’istituto della famiglia: il passaggio dalla società patriarcale alla famiglia mononucleare moderna favorisce indubbiamente la conflittualità tra padri e figli. Nella famiglia mononucleare moderna il padre diventa punto di riferimento assoluto: è lui che fissa le norme di comportamento e le impone ai figli.

PER APPROFONDIRE

L’influenza della psicoanalisi A imporre il tema del problematico rapporto con la figura paterna è soprattutto lo sviluppo delle ricerche psicologiche, e in particolare l’affermazione della psicoanalisi freudiana, con la quale molti scrittori e artisti (come lo stesso Kafka) vengono in contatto. Con la formulazione del “complesso di Edipo” Freud mette in luce come il rapporto con i genitori sia la base per la formazione della personalità. Già nel 1900, nell’Interpretazione dei sogni, Freud descrive il “complesso di Edipo”, rifacendosi al mito messo in scena da Sofocle nell’Edipo re (V secolo a.C.): Edipo uccide il padre e si unisce con la madre, inconsapevole della loro identità.

Il declino del Padre-normativo nella società moderna In epoca recente, come rilevano diversi psicoanalisti, il rapporto genitori-figli sembra sempre meno riconducibile al modello edipico: i padri appaiono più propensi a dialogare con i figli che a imporre autoritariamente la loro legge, così che si parla oggi addirittura di un’«evaporazione del padre», della «dissoluzione del Padre-normativo», come sostiene lo psicoanalista Massimo Recalcati: «Il nostro tempo

sembra sancire l’irrimediabile declino della rappresentazione edipica del Padre mettendosi apertamente sotto il segno dell’“anti-Edipo”, esercitando una critica radicale dell’equivalenza freudiana di Padre e Legge». M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011

606 Primo Novecento 15 L’ombra del padre: Kafka e Tozzi

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Secondo Freud il mito rispecchia il desiderio profondo di ogni figlio, sepolto nell’inconscio. Il superamento del “complesso di Edipo” coincide con l’instaurarsi di una personalità equilibrata e matura: il figlio rivolge l’amore, prima indirizzato alla madre, verso una nuova figura di donna e, non più in conflitto con il padre, ne interiorizza la legge. Nell’Introduzione alla psicoanalisi (1932) Freud evidenzia come il mancato superamento del complesso edipico sia la premessa per l’instaurarsi della nevrosi. Osserva infatti: «l’individuo umano deve dedicarsi al grande compito di svincolarsi dai genitori e solo dopo la soluzione di questo compito può cessare di essere un bambino e diventare un membro della comunità sociale. […] Ai nevrotici, però, questo distacco non riesce affatto: il figlio rimane per tutta la vita piegato sotto l’autorità del padre». Una rappresentazione che si attaglia perfettamente all’“inetto” della letteratura novecentesca. Konstantin Somov, Ritratto di A. Somov, il padre dell’artista, olio su tela, 1897 (Museo di Stato Russo, San Pietroburgo).

1 Kafka e Tozzi: due scrittori con sorprendenti affinità Kafka e Tozzi: punti in comune Lo scrittore ceco Franz Kafka (1883-1924) e il senese Federigo Tozzi (1883-1920), nonostante le differenze di personalità, ambiente culturale e stile letterario, sono stati spesso accostati proprio per la centralità che assume nelle opere di entrambi, in modo diretto o indiretto, il tema del rapporto con la figura paterna. Ma diversi altri elementi accomunano i due scrittori. • A livello biografico, entrambi vissero effettivamente un conflitto con il padre, che tutti e due gli scrittori mettono in rapporto con la propria difficoltà ad affrontare la vita. Il padre di Kafka e quello di Tozzi hanno alcune caratteristiche simili, come la grande energia vitale e il fatto di “essersi fatti da sé”, conquistando con le proprie forze il benessere economico; ma soprattutto hanno in comune un atteggiamento svalutante verso i figli, intellettuali e incapaci negli affari. • La ribellione anarchica: come il protagonista del romanzo Con gli occhi chiusi, Tozzi converte la ribellione nei confronti della figura paterna in tendenza anarchica («naturalmente mi sento portato alla ribellione aperta, magari violenta. Nei momenti di eccitazione mi balenano immagini criminose di anarchico», scrive alla fidanzata). Analogamente tutta l’opera di Kafka (che a sua volta aveva frequentato circoli anarchici) è animata da uno spirito antiautoritario. • Il rapporto con l’espressionismo: Kafka è in contatto con ambienti intellettuali dell’avanguardia espressionista, di cui condivide i temi, anche se il suo stile preciso e cristallino è distante da quello degli espressionisti. Nel caso di Tozzi vengono ricondotti a un ambito espressionistico in senso lato le immagini violentemente deformate e lo stile fortemente soggettivo. • L’interesse per la psicologia del profondo. Nella Praga mitteleuropea Kafka conosce ben presto la psicoanalisi freudiana; non si hanno invece indizi che Tozzi abbia conosciuto i testi di Freud; legge però opere di psicologia come quelle di William James (1842-1910), filosofo pragmatista, da cui ricava una moderna immagine della psiche come flusso di coscienza. • Il superamento del realismo ottocentesco verso forme narrative moderne e sperimentali. Il conflitto con la figura paterna: un tema centrale nella letteratura del Novecento 1 607

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2 Franz Kafka

1 Un impiegato modello con la vocazione per la letteratura

Kafka in un ritratto fotografico giovanile.

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Per approfondire La cultura yiddish

La formazione e gli interessi culturali Franz Kafka nasce a Praga nel 1883, primogenito e unico figlio maschio (in seguito nacquero tre sorelle). I genitori sono entrambi ebrei (la madre proveniva da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica; il padre, di origini poverissime, era divenuto un agiato commerciante). Tradendo le aspettative del padre, con il quale sviluppa un rapporto conflittuale, Franz non intende proseguire le attività della famiglia ma, dopo la laurea in giurisprudenza, si impiega in un istituto statale di assicurazione per gli infortuni sul lavoro. Svolge il suo lavoro con scrupolo, ma avverte in realtà una profonda insofferenza per tutto ciò che lo distoglie dalla vocazione letteraria. Durante gli anni universitari Kafka incontra Max Brod, che diviene suo inseparabile amico, e che in seguito sarà il suo biografo e il curatore delle sue opere, in gran parte pubblicate postume. Con Max Brod, anch’egli impiegato e dedito all’attività letteraria, Kafka prende parte all’intensa vita intellettuale di Praga; conosce tra l’altro, nel 1911, una compagnia di attori, che, in un locale praghese, il Café Savoy, proponevano il teatro yiddish (è la lingua delle comunità ebraiche dell’Europa orientale) e lo indussero ad avvicinarsi alla cultura e alle tradizioni dell’ebraismo orientale, che avrebbero avuto un’importanza essenziale per le sue opere. La crisi e le opere fondamentali Il 1912, anno di composizione della Metamorfosi, segna per Franz una grave crisi personale e, insieme, la messa a fuoco dei suoi temi letterari più profondi. La crisi ha origine da un avvenimento in apparenza positivo: Franz si fidanza con l’ebrea berlinese Felice Bauer. È però immediatamente colto da scrupoli e dubbi che lo porteranno non soltanto a sciogliere qualche anno dopo il fidanzamento, ma a mettere in discussione tutta l’impostazione della sua vita. Da una parte, infatti, Kafka – anche perché condizionato dai difficili rapporti familiari – sente di non essere adatto al matrimonio e di volersi dedicare soltanto alla scrittura; dall’altra, si sente in colpa perché la religione ebraica giudica con severità chi non forma una famiglia. Da questa situazione psicologica estremamente angosciante, come testimoniano i Diari, nascono alcune delle opere più importanti di Kafka, come il racconto La metamorfosi e il romanzo Il processo, alle quali principalmente si deve la sua fama. Il timore di una scelta sentimentale definitiva si ripropone nella relazione con Milena Jesenka (le Lettere a Milena ne sono un significativo documento). Nel 1917 Kafka scopre di essere malato di tubercolosi, malattia che lo condurrà a morte nel 1924, a quarantun anni. Rimasero incompiuti i romanzi: America, Il processo (➜ T2 ) e Il castello, pubblicati postumi, per le cure di Max Brod (che così contravvenne al volere dell’amico Franz che gli aveva chiesto di distruggere la maggior parte delle sue opere, incompiute).

608 Primo Novecento 15 L’ombra del padre: Kafka e Tozzi

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America, iniziato nel 1912, racconta la storia di un ragazzo sedicenne, Karl Rossman, costretto dalla famiglia a emigrare in America per sfuggire a uno scandalo. Kafka descrive l’America, che non aveva mai visto, come un mondo avventuroso, ma anche come immagine di una modernità frenetica e meccanizzata, totalmente alienata. Il castello, l’ultimo romanzo di Kafka (cominciato nel 1922, e anch’esso interrotto), per alcuni critici il suo capolavoro, è tutto dominato dall’idea di un sopramondo inaccessibile. La vicenda del romanzo ruota attorno alla figura dell’agrimensore K. (la sua professione, quella di misurare i campi per suddividerli equamente, allude alla razionalità e al senso della giustizia del personaggio) che è invitato dai funzionari di un misterioso castello a prestare la sua opera in un villaggio di contadini, ma viene continuamente ostacolato nei suoi tentativi di essere introdotto nel castello e accolto nel villaggio. Il castello appare un mondo ambivalente come il tribunale del Processo: da una parte ha i caratteri di un universo burocratico, seonline Sguardo sul cinema gnato dall’arbitrio e da una complessità insensata e caotica, dall’altro Il film Delitti e segreti (1991), di Steven di un mondo trascendente e inaccessibile, e sembra rappresentare la Soderbergh, è una libera rievocazione della vita e delle opere di Kafka. Verità suprema.

2 La patologia dei rapporti familiari: La metamorfosi La struttura, l’ambientazione, i personaggi La metamorfosi, uno dei capolavori del Novecento, è un racconto lungo che Kafka scrive in soli venti giorni tra il novembre e il dicembre del 1912 ed è una delle poche opere dello scrittore praghese pubblicate durante la sua vita (1916). Il protagonista è un rappresentante di commercio, Gregor Samsa, proiezione autobiografica dello scrittore. Il racconto è diviso in tre capitoli, che corrispondono agli atti di un dramma, coincidenti con le fasi principali della tragica vicenda del protagonista. Essa si svolge (fino alla morte di Gregor) in un interno borghese: la casa della famiglia Samsa. I comprimari sono la madre, la sorella e il padre di Gregor, una figura autoritaria e violenta (in cui si rispecchia in modo evidente il padre dello scrittore). La vicenda Una mattina Gregor si sveglia trasformato in un enorme, ripugnante, scarafaggio (da qui il titolo del racconto). Dopo penosi tentativi riesce a scendere dal letto e ad aprire la porta della stanza con le mandibole. Alla sua comparsa in salotto, dove si trova l’intera famiglia e anche un funzionario inviato dal suo principale, preoccupato dall’inconsueto ritardo di Gregor, il mostruoso aspetto di Gregor suscita sgomento e orrore. Terrorizzato, il funzionario fugge. Il padre, agitando minacciosamente un bastone e un giornale, ricaccia Gregor nella sua stanza. Il secondo capitolo è dedicato alla lenta trasformazione-regressione di Gregor alla condizione animalesca: l’uomo-scarafaggio si nutre degli avanzi che la sorella gli porta, inizia a strisciare lungo le pareti. Quando la sorella decide di togliere i mobili dalla stanza, Gregor copre però con il suo corpo il ritratto fotografico di una figura femminile a lui cara (una diva dell’epoca) per impedire che gli sia tolto. La madre, vedendo la scena, sviene. Interviene nuovamente il padre che lo colpisce con delle mele, una delle quali gli si conficca nella schiena (causandogli una letale infezione). La grave ferita indebolisce Gregor, ma i familiari si curano sempre meno di lui, confinato ormai tra i rifiuti che vengono accumulati nella sua stanza. Preoccupati dalla difficile situazione economica in cui la mancanza dello stipendio di Gregor li ha messi, i familiari decidono di affittare una stanza della casa a tre pensionanti. Una sera la sorella suona per loro Franz Kafka 2 609

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il violino e Gregor, affascinato dal suono, esce dalla sua tana. Quando i pensionanti, inorriditi, minacciano di andarsene, la sorella decreta la necessità di eliminare Gregor, ma lo scarafaggio, persa ormai ogni volontà di vivere, si lascia morire. Un racconto allegorico Da subito il racconto di Kafka fu considerato non un testo semplicemente fantastico, ma una vera e propria allegoria, anche se diverse ne sono state le interpretazioni. Del resto le opere kafkiane sono sempre polisemiche, enigmatiche e consentono molteplici “letture”, che non esauriscono mai tutte le implicazioni presenti nei testi. Il tema dell’alienazione Nel racconto emerge il tema novecentesco dell’alienazione: anche prima di trasformarsi in insetto la vita di Gregor è totalmente alienata, dato che lavora in una ditta in cui la sua dignità non viene riconosciuta, il suo tempo è fagocitato dagli spostamenti e dal lavoro, che non gli permettono alcuna evasione al di fuori del cerchio della famiglia. Significativamente, l’unica donna della vita di Gregor, oltre alla sorella e alla madre, è una figura femminile ritagliata da un giornale; l’unica occupazione al di fuori dell’attività di rappresentante, sono lavori d’intaglio; l’unica lettura, l’orario delle ferrovie. Il tema della malattia Un’altra chiave interpretativa può essere quella della malattia (tema anch’esso prettamente novecentesco): nel mondo reale, nessuno si trasforma in insetto, ma i corpi, come quello di Gregor, sono ugualmente devastati dalla malattia e dalla vecchiaia, che costringe chi le subisce ad adattarsi a progressive limitazioni, a dover dipendere dagli altri, a sentirsi di peso e inutili. Anche se, nel periodo in cui scrive La metamorfosi, non si era ancora manifestata la tubercolosi, che l’avrebbe condotto a morte, Kafka è descritto dai biografi come ipocondriaco e ossessionato dal rapporto con il corpo.

PER APPROFONDIRE

Il tema centrale della famiglia La più evidente chiave interpretativa del racconto è però la denuncia della famiglia come luogo di odi, gelosie, rivalità tanto più terribili quanto più sotterranee, regno del disamore più che dell’amore. Come risulta nei diari e nelle lettere, Kafka ha un giudizio molto critico verso la famiglia borghese, considerandola un organismo in cui, come scrive alla sorella Elli, le creature che non corrispondono a determinate esigenze vengono «maledette o divorate oppure l’una e l’altra cosa».

Praga mitteleuropea, città dell’ebraismo e della magia Nel primo Novecento Praga è una delle più singolari e affascinanti città della Mitteleuropa. La sua cultura, commista di elementi slavi, tedeschi ed ebraici, ne fa uno dei centri più rappresentativi dell’impero austro-ungarico, ormai giunto al culmine del suo splendore culturale, e della sua crisi politica. La componente slava, a Praga numericamente maggioritaria, è la parte più povera della popolazione, emarginata dal potere politico e dalla cultura. Nell’impero dipendente dall’Austria, il tedesco è la lingua della classe dominante, costituita in buona parte da ebrei di lingua e di cultura tedesca, che si trovano in una posizione paradossale: dopo l’apertura del ghetto apparentemente integrati nel modo di vivere occidentale, sono in realtà sempre più odiati ed emarginati dal resto della popolazione per il crescente nazionalismo ceco. Sono così indotti a guardare indietro, alle proprie origini, al ricco patrimonio culturale degli ebrei di una città, Praga, che, fin dal Medioevo, era stata famosa per la magia, per la Cabbala (gli insegna-

menti mistici dell’ebraismo medievale), per le leggende, come quella del Golem, un automa creato da un mago cabalista per difendere gli ebrei dalle persecuzioni. La suggestione esercitata dalla Praga magica (come è definita in un noto libro di Angelo Maria Ripellino), trova riscontro nei romanzi degli ebrei praghesi (come Il Golem di G. Meyrink, del 1915), nei film espressionisti (in particolare quelli di Paul Wegener, che nel 1920 gira Der Golem, dalle atmosfere tenebrose e inquietanti). E le città del Processo e del Castello, in superficie moderne metropoli burocratiche, ordinate secondo un’apparente e illusoria razionalità, ma nelle quali vive nel profondo la dimensione della trascendenza e del mistero, secondo molti interpreti, fra i quali Ripellino stesso, non sono, in fondo, altro che una sola, splendida e misteriosa città, Praga. G. Janouch, Colloqui con Kafka, in F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, p. 1086. Testo di riferimento: A.M. Ripellino, Praga magica [1973], Einaudi, Torino 1991.

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Per approfondire La metamorfosi come “antifiaba”

Il rapporto antagonistico con la figura paterna Centro dell’universo familiare nella Metamorfosi è sicuramente la figura paterna, percepita dal figlio come antagonistica e punitiva e con la quale è impossibile per il protagonista comunicare in alcun modo. È il padre che respinge e addirittura aggredisce fisicamente Gregor e ne causa la morte; mentre la madre e la sorella, per lo meno in alcuni momenti della vicenda, ne hanno pietà, il padre lo respinge e condanna fin dall’inizio. Particolarmente significativa, nel secondo capitolo, è la scena che precede il lancio delle mele con cui il padre cerca di colpire e annientare il figlio-insetto: il padre appare al figlio, in una visione deformante dai tratti espressionistici, una figura vigorosa e terribile, verso cui il figlio-insetto prova un senso di inferiorità e un profondo senso di colpa. La vicenda del racconto traspone certamente in termini metaforici e simbolici il rapporto conflittuale che Kafka ebbe realmente con il padre e che è testimoniato dalla celebre Lettera al padre: scritta quando lo scrittore aveva già 36 anni, costituisce la più efficace chiave di lettura del racconto. La chiave di lettura de La metamorfosi: la Lettera al padre La Metamorfosi ha una chiara radice autobiografica, che risulta ancora più evidente se si legge la Lettera al padre, scritta vari anni dopo, nel 1919, e non destinata alla pubblicazione, in cui Franz tenta di chiarire i propri difficili rapporti con il genitore. La lettera, che consigliamo di leggere per intero (come La metamorfosi), costituisce un documento psicologico di sorprendente attualità: Kakfa analizza con estrema lucidità i più profondi risvolti del rapporto tra padre e figlio. Franz non può accusare il padre di nessuna colpa grave, ma gli può attribuire soltanto una serie di errori educativi tutto sommato umani e comuni, che però, nel suo caso, hanno prodotto danni incalcolabili: Franz ha interiorizzato dentro di sé un padre terribile, che ha minato per sempre la sua sicurezza e la sua capacità di vivere. La sottigliezza con cui, nella lunga lettera, Kafka distingue cause ed effetti, colpe ed errori, incompatibilità caratteriali e difficoltà di comunicazione e analizza le irreparabili conseguenze di parole incaute e atti irriflessivi, costituisce un documento psicologico prezioso e di sorprendente attualità. Proponiamo qualche passo della lettera in cui sono particolarmente evidenti le corrispondenze con La metamorfosi (Le citazioni sono tratte da: F. Kafka, Lettera al padre, trad. di F. Ricci, Newton Compton, Roma 1993). I principi educativi paterni «Tu hai agito verso di me come dovevi agire, solo che devi smettere di credere che il mio soccombere a questo tuo agire sia dovuto a una particolare cattiveria da parte mia. Ero un bimbo pauroso, ma ero anche testardo, come lo sono i bimbi; sicuramente la mamma mi ha anche un po’ viziato, ma non posso credere che fosse così difficile indirizzarmi, non posso credere che una parola gentile, un tacito prendermi per mano, uno sguardo buono non avrebbero potuto ottenere da me tutto quel che si voleva. […] Tu sai trattare un bambino solo come tu stesso sei fatto, con forza, strepito e iracondia; e nel caso specifico la cosa ti sembrava inoltre ancora più adatta, perché volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso». Il potere delle parole: lo scarafaggio «Bastava che io nutrissi un po’ d’interesse per qualcuno – data la mia natura non accadeva tanto spesso – che tu, senza riguardo alcuno per i miei sentimenti e senza rispettare il mio giudizio, attaccavi con gli insulti, le calunnie, le umiliazioni. Dovevano pagarne le spese persone innocenti e infantili, come l’attore jiddisch Löwy. Senza conoscerlo, lo paragonasti in Franz Kafka 2 611

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un modo orribile, che ho già dimenticato, a uno scarafaggio […]. Incomprensibile mi è sempre stata la tua totale mancanza di sensibilità per il dolore e la vergogna che potevi infliggermi con le tue parole e i tuoi giudizi; era come se non avessi la benché minima idea del tuo potere». L’impossibilità di comunicare «L’impossibilità di un rapporto tranquillo ha avuto un’altra conseguenza, davvero molto naturale: ho disimparato a parlare. Non sarei comunque divenuto un grande oratore, ma avrei senz’altro dominato il linguaggio umano, abitualmente fluente. Tu cominciasti però assai presto a togliermi la parola, la tua minaccia: “Non una parola di replica!” e la relativa mano alzata mi accompagnano da sempre. Davanti a te mi veniva – tu sei, per quel che riguarda le tue cose, un oratore eccellente – una parlata incespicante e balbuziente; anche questo era troppo per te, e alla fine tacqui, dapprima forse per orgoglio, e poi perché davanti a te non sapevo né pensare né parlare». Il potere assoluto del padre «Terribile era anche quando, gridando, correvi intorno al tavolo per acchiappare qualcuno; evidentemente non lo volevi acchiappare, ma sembrava, e alla fine la mamma lo metteva in salvo. Ancora una volta, almeno così pareva al bimbo, si era rimasti in vita per tua grazia, e si continuava a vivere per tuo immeritato dono. Sono rilevanti a questo proposito le minacce per le conseguenze della disobbedienza. Se io cominciavo a fare qualcosa che non ti piaceva, e tu mi minacciavi di insuccesso, il timore reverenziale per la tua opinione era tale che l’insuccesso, anche se forse solo in seguito, era inevitabile. Io perdetti ogni fiducia nelle mie azioni.

Frontespizio della seconda edizione della Metamorfosi (la prima è del novembre 1915, volume 22-23 della collana “Der jüngste Tag”) con un’illustrazione di Ottomar Starke. La centralità del tema della famiglia nell’opera era stata suggerita dall’autore stesso: discutendo con l’editore relativamente all’illustrazione che avrebbe dovuto comparire sulla copertina del libro, Kafka manifestò la sua contrarietà all’idea di rappresentare l’insetto, anche da lontano, e chiese invece di raffigurare padre, madre e sorella davanti a una porta spalancata su una stanza immersa nell’oscurità: un’immagine presumibilmente allusiva al lato oscuro, inquietante, dell’istituto familiare.

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Ero incostante e incerto. Più crescevo e maggiori erano le prove che mi potevi opporre a dimostrazione della mia mancanza di valore; e gradualmente cominciasti ad avere anche ragione, da un certo punto di vista. Di nuovo mi guardo bene dall’affermare che sono divenuto così solo per causa tua: tu hai solo rafforzato quello che già c’era, ma l’hai rafforzato notevolmente, proprio perché disponevi di un enorme potere su di me, e l’hai impiegato tutto».

La metamorfosi GENERE

racconto lungo in chiave allegorica

DATA DI PUBBLICAZIONE

1912

TEMI

alienazione, malattia, rapporto con la figura paterna, la famiglia

T1

La trasformazione di Gregor

LEGGERE LE EMOZIONI

Nei passi proposti assistiamo a due momenti centrali del dramma vissuto dal protagonista della Metamorfosi di Kafka. In T1a OL Gregor Samsa si ritrova improvvisamente trasformato in un mostruoso insetto, materializzazione simbolica della sua condizione esistenziale; al centro di T1b è il rapporto tra Gregor e il padre, tra i quali vige la più assoluta incomunicabilità online T1a Franz Kafka

Gregor diventa un insetto La metamorfosi

Franz Kafka

T1b

La prima sortita di Gregor e la cacciata da parte del padre La metamorfosi

F. Kafka, La metamorfosi, intr. di G. Baioni, trad. di G. Schiavoni, Rizzoli, Milano 1989

Siamo ancora nella prima delle tre parti del racconto. Come Gregor aveva previsto, il suo implacabile capo gli ha mandato un funzionario per accertarsi delle sue condizioni e fargli velatamente intendere che una sua ingiustificabile assenza potrebbe causare un licenziamento. Terrorizzato da questa possibilità, che creerebbe gravi problemi alla famiglia, oppressa dai debiti, Gregor riesce ad aprire la porta e si precipita fuori per cercare di convincere il funzionario delle sue buone ragioni. Naturalmente l’effetto sortito è quello opposto e, alla vista del gigantesco insetto, il funzionario fugge terrorizzato. L’intenzione di Gregor era quella di salvare la famiglia dalla miseria, ma il padre è ben lontano dal comprenderla, come mostra la sua reazione furibonda.

Ormai però Gregor non aveva tempo di badare ai propri genitori; il procuratore era già sulle scale; con il mento appoggiato alla ringhiera guardò dietro di sé per l’ultima volta. Gregor prese la rincorsa per esser certo di afferrarlo; il procuratore dovette però sospettarlo, poiché saltò parecchi gradini tutti in una volta e sparì; 5 ma strillò un «Uh!» che echeggiò per tutta la scala. Purtroppo quella fuga del Franz Kafka 2 613

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procuratore parve far perdere davvero la testa anche al padre, che finora aveva mantenuto una relativa calma; infatti, anziché rincorrerlo, o per lo meno anziché evitare di ostacolare Gregor nell’inseguimento, afferrò con la destra il bastone che il procuratore aveva lasciato su una seggiola insieme al cappello e al soprabito, 10 agguantò con la sinistra un grosso giornale sulla tavola e, pestando i piedi, si diede a ricacciare Gregor nella sua stanza brandendo bastone e giornale. Tutte le implorazioni di Gregor non valsero a nulla, e d’altronde esse non venivano comprese; per quanto umilmente egli volgesse il capo, suo padre pestava i piedi in maniera sempre più energica. Per di più la mamma, malgrado facesse freddo, aveva spalan15 cato una finestra e, sporgendosi fuori, si premeva il viso fra le mani. Tra la strada e la scala si formò un’impetuosa corrente d’aria: le tende svolazzarono e i giornali sparsi sulla tavola frusciarono; alcuni fogli si sparpagliarono sul pavimento. Inesorabile, il padre incalzava emettendo sibili che parevan quelli di un selvaggio. Ma Gregor non aveva ancora alcuna esperienza dell’arte di retrocedere, per cui si 20 muoveva davvero molto lentamente. Se Gregor avesse solo potuto voltarsi! Sarebbe sùbito stato in camera sua. Ma temeva, con la lunga giravolta, di far perdere la pazienza al padre, e ogni momento quel bastone fra le mani paterne minacciava di assestargli un colpo mortale sulla schiena o sulla testa. Alla fine però Gregor non ebbe altra scelta, poiché notò con sgomento che nell’indietreggiare non sapeva 25 nemmeno mantenere la direzione giusta; sicché, tra continui e atterriti sguardi di sbieco al padre, cominciò a voltarsi il più in fretta possibile, in realtà però molto adagio. Forse il padre si avvide della sua buona volontà, perché non lo disturbò in tale movimento ma, a tratti, addirittura si mise a dirigere le operazioni motorie di Gregor da lontano, con la punta del bastone.

Analisi del testo La cacciata da parte del padre: un motivo ricorrente di grande rilevanza simbolica La centralità del rapporto con il padre nella Metamorfosi è ribadita dal fatto che la cacciata di Gregor nella sua stanza da parte del padre si ripete, con sottili, ma significative variazioni, altre due volte, nelle altre due parti del racconto, secondo una perfetta simmetria fondata sull’iterazione ternaria. Nel confronto fra le tre scene, si può osservare come Kafka diversifichi sapientemente la tonalità della narrazione, passando dal sottile umorismo del primo scontro tra padre e figlio, al drammatico duello del secondo, alla malinconica resa del figlio ormai definitivamente sconfitto, nel terzo. Il primo scontro tra padre e figlio, che vediamo in questo testo, è inserito in un contesto non privo di elementi umoristici, dalla fuga precipitosa dell’atterrito funzionario della ditta, al fatto che il padre adirato appaia all’insetto come «un selvaggio». In tutte e tre le situazioni si evidenziano le difficoltà di comunicazione fra padre e figlio: il padre, erroneamente convinto della malignità e colpevolezza di Gregor, vede come una sfida quello che in realtà è un atto responsabile e umano (in questa scena il tentativo di non perdere il lavoro, così importante per la famiglia, nella seconda la volontà di soccorrere la madre e nella terza l’amore per la sorella e per la musica), e utilizza ogni mezzo a disposizione (qui il bastone lasciato dal procuratore e il giornale) per aggredire il figlio.

La regressione infantile del protagonista Un’altra caratteristica della scena, che rimanda alla psicoanalisi, è la regressione del protagonista: il narratore, attraverso il discorso indiretto libero e la focalizzazione su Gregor (che si manterrà inalterata nel racconto fino alla morte del figlio-insetto), mostra che i pensieri di Gregor, un giovane in età lavorativa, sono identici a quelli di un bambino aggredito da un adulto. Con la metamorfosi il padre sembra tornato all’onnipotenza della situazione passata, quando, rispetto al bambino, appariva un gigante dalla forza smisurata.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi i brani in circa 10 righe di testo. COMPRENSIONE 2. Perché, secondo te, Gregor Samsa si trasforma in un insetto? 3. Quali aspetti del carattere e della vita di Gregor emergono dai passi proposti? ANALISI 4. Attraverso la vicenda surreale, il racconto di Kafka fa emergere con chiarezza le tensioni e i conflitti esistenti fra i componenti della famiglia; prova a spiegare quali dinamiche psicologiche familiari siano messe in luce dalla metamorfosi. Analizza in particolare il rapporto fra Gregor e il padre. 5. Evidenzia nel testo il tema dell’ansia legato al lavoro e al tempo.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 6. Il motivo della metamorfosi ha un’origine classica, e nell’antichità ha ispirato Ovidio e Apuleio. Ricerca in rete altri esempi letterari (o filmici) in cui siano presenti metamorfosi e realizza un PowerPoint, nel quale indicherai il significato simbolico della trasformazione nei diversi casi da te riportati. SCRITTURA 7. Il povero Gregor, oppresso dal padre e dal datore di lavoro, mostra di avere un difficile rapporto con le figure che incarnano l’autorità. Tu come ti rapporti con l’autorità? Hai uno spirito ribelle o ti mostri sempre e comunque cedevole verso chi esercita il potere?

Odilon Redon, Il Ragno che piange, carboncino su carta, 1881 (collezione privata).

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3 Dal padre al tribunale interiore: Il processo L’emergere del tema religioso Il rapporto irrisolto con il padre è certamente alla radice dell’immaginario di Kafka e determina in ampia parte le tematiche dell’intera produzione dello scrittore praghese. Si deve però evidenziare che negli anni successivi alla Metamorfosi, Kafka si dedica sempre più allo studio dell’ebraismo e coltiva interessi religiosi: in particolare, approfondisce la tradizione ebraica popolare chassidica, ma legge anche il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855). Nelle opere successive alla Metamorfosi dunque, come Il processo e Il castello, i temi kafkiani si caricano sempre più di connotazioni metafisiche: una dimensione di cui occorre tener conto, sebbene l’interpretazione delle opere dell’autore praghese rimanga aperta ed enigmatica, tanto che il filosofo tedesco Theodor Adorno (1903-1969) arriva a definirle «parabole di cui è stata sottratta la chiave».

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Per approfondire Il chassidismo

Il processo, tra psicologia e metafisica Nel Processo, in America e nel Castello acquistano sempre più rilevanza temi legati a una problematica religiosa: la colpa e la punizione, la legge, la ricerca della Verità. Temi però che, nell’interpretazione kafkiana – soprattutto per quanto riguarda Il processo – possono in parte essere ancora ricondotti al rapporto con il padre. Del resto, secondo alcuni pensatori, da Feuerbach a Freud, l’immagine di Dio è costruita su quella paterna. Lo stesso Kafka, nella Lettera al padre, descrive il genitore come il creatore, con caratteristiche che ricordano la divinità suprema, di una legge tanto severa quanto incomprensibile: «tu, misura assoluta di tutte le cose, personalmente non ti attenevi ai comandamenti che mi imponevi. In questo modo il mondo per me risultò diviso in tre parti: una in cui vivevo io, lo schiavo, sotto leggi che erano state escogitate soltanto per me e che inoltre, non sapevo perché, non ero mai in grado di rispettare completamente». Il tema – centrale del Processo – di una legge imperscrutabile, che l’individuo trasgredisce suo malgrado (non essendo neppure in grado di comprenderla), meritando la punizione di un potere che lo condanna senza possibilità di difesa, si carica così di una duplice valenza, da una parte psicologica e autobiografica, dall’altra metafisica e religiosa. Le circostanze della composizione Il processo, una delle opere più note di Kafka, non è stata mai completato: lo scrittore vi lavora a intervalli tra il 1914 e il 1917 in un periodo storico catastrofico (sono gli anni della Prima guerra mondiale) e in circostanze personali assai difficili (proprio nel 1914 rompe, con gravi sensi di colpa, il fidanzamento con Felice Bauer), senza giungere a una redazione definitiva. Alla sua morte, l’amico Max Brod, in base alle carte lasciate da Kafka, che comprendevano vari capitoli, fra cui quello conclusivo, organizzò e pubblicò l’opera nel 1925. La trama Josef K. (l’iniziale mette in risalto la natura anonima e impersonale del protagonista, ma anche la sua affinità con lo stesso Kafka), un funzionario di banca di trent’anni, una mattina viene arrestato. Non può però difendersi perché non gli viene detto quale sia la sua colpa, né in base a quale legge sia stato giudicato, e neppure quale sia il tribunale che lo ha considerato colpevole. Tale tribunale però si rivela fin dall’inizio del tutto singolare: non procede a un vero e proprio arresto perché dà per scontato che l’imputato si recherà spontaneamente alle sedute, di solito fissate di domenica, in ambienti sordidi e inquietanti, come le soffitte di una casa popolare alla periferia della città, del tutto incongrui agli ambiti consueti della Giustizia. Attorno al tribunale si muovono inoltre strani personaggi: funzionari corrotti, donne facili, vecchi e strani avvocati, intermediari misteriosi, come il pit-

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tore Titorelli. In breve tempo il processo invade tutti gli spazi della vita di K., anche perché, per ragioni misteriose, sin dall’inizio tutti sembrano esserne a conoscenza. Alla vigilia del suo trentunesimo compleanno, Josef K. viene giustiziato, ma ancora non sa di cosa sia colpevole. Il tema della legge Tema fondamentale del Processo è la Legge e la sua natura inafferrabile per l’uomo (di cui K. è emblema). Il concetto di legge ha varie valenze nel romanzo: la legge, che il protagonista è accusato di avere violato, ha a che fare, da un lato, con il dovere morale e il senso di colpa (richiamando perciò situazioni della Lettera al padre), dall’altro con il diritto, e in questo caso appare emanazione di un apparato burocratico anonimo, labirintico, impenetrabile, che giudica e punisce senza che sia possibile per l’individuo accedervi e discolparsi (ne deriva la tipica dimensione angosciosa che connota l’intero romanzo e a cui comunemente è associato l’aggettivo kafkiano ). Ma, in rapporto all’interesse maturato in Kafka per la dimensione religiosa e allo studio della tradizione ebraica, nel romanzo la Legge allude anche ai precetti della religione trasmessi dalla Bibbia, il Libro indiscutibile per gli ebrei, alla legge divina e al trascendente. L’enigma del trascendente In ogni caso il “divino”, per l’uomo che ricerca ansiosamente la Verità, è imperscrutabile enigma, non certo appagante certezza. Ma forse è l’uomo stesso che, prigioniero della sua razionalità, non sa accedere al divino, alla Legge: sembrerebbe questo il senso della parabola, intitolata Davanti alla Legge, che Kafka inserisce nel penultimo capitolo, Il Duomo, uno dei più suggestivi del Processo. Una dimensione onirica Più ancora della Metamorfosi, nel Processo non solo regna una dimensione onirica, ma è dominante proprio la “logica del sogno” (è probabile la suggestione di Freud e della sua Interpretazione dei sogni) che sovverte i rapporti causa-effetto e il principio di identità, così che le cose, gli ambienti, le figure umane, si trasmutano continuamente, mostrandosi di volta in volta sotto luci diverse: i personaggi possono apparire ora in una luce sordida e ripugnante, avvolti nella corruzione, ora circonfusi da un’aura di trascendenza; così le affollate stanze del tribunale possono tornare a essere un modesto appartamento, o, in un quadro visto nella casa del pittore Titorelli, la dea della giustizia improvvisamente può apparire come dea della caccia. D’altra parte anche, e soprattutto nel Processo, la descrizione mantiene un carattere minuziosamente realistico e un tono impassibile, creando un’inquietante contaminazione di reale e irreale.

Parola chiave

Il processo GENERE

romanzo incompiuto

DATAZIONE

composizione tra il 1914 e il 1917, pubblicazione (postuma) nel 1925

TEMI

legge, trascendenza, dimensione onirica

kafkiano L’aggettivo kafkiano è comunemente (e anche troppo frequentemente) usato, con allusione alle opere di Kafka, in riferimento ad atmosfere e situazioni angosciose, paradossali, assurde, di cui sfugge il significato e/o in cui ci si viene a

trovare senza poter immaginare vie d’uscita. Terreno elettivo per il crearsi di situazioni “kafkiane” è l’incontro-scontro con una burocrazia impersonale e oppressiva, di cui il cittadino si scopre vittima.

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Franz Kafka

T2

Il labirinto della giustizia

EDUCAZIONE CIVICA

Il processo, cap. II (Primo interrogatorio) F. Kafka, Il processo, trad. di P. Levi, Einaudi, Torino 1983

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono»: è l’incipit del romanzo. Da quel momento, il processo assorbe tutto il resto della vita del protagonista, senza che egli sia mai condotto in prigione. Così, le misteriose autorità preposte alla sua pratica lo avvisano che la domenica avrebbe dovuto presentarsi per una prima inchiesta, a cui ne sarebbero seguite molte altre. Anche il luogo indicato appare strano, un caseggiato popolare in una strada nei sobborghi della città.

K. si avviò alla scala per salire alla camera dell’interrogatorio, ma si arrestò subito perché oltre a quella scala ne vide nel cortile altre tre, ed inoltre sembrava che in fondo ci fosse un piccolo passaggio che conduceva in un altro cortile. Trovava irritante che non gli avessero precisato meglio la collocazione della camera: lo trat5 tavano con una negligenza ed indifferenza ben strane, ma lui gliel’avrebbe cantata chiara. Poi si decise e salì per una delle scale, ritornando col pensiero a quanto aveva sentenziato la guardia Willem, che il tribunale è attratto dalle colpe; se le cose stavano così, non c’era dubbio che la camera dell’interrogatorio si doveva trovare sulla scala che K. aveva scelta a caso. 10 Salendo, disturbò una banda di ragazzini che stavano giocando sui gradini, e che lo guardarono con ostilità mentre lui interrompeva la loro schiera. Si disse: «Se dovessi tornare qui, bisognerà che mi porti dietro o dei dolciumi per ingraziarmeli, o un bastone per picchiarli». Dovette perfino aspettare un momento al primo piano, finché una palla non avesse compiuto la sua traiettoria: due bambini dai visi stra15 volti, adulti e furfanteschi lo avevano afferrato ai pantaloni per trattenerlo. Avrebbe potuto allontanarli con le brutte, ma temeva di fargli male, e loro avrebbero gridato. La ricerca vera e propria cominciò al primo piano. Non poteva certo chiedere esplicitamente della commissione d’inchiesta, ed allora si inventò lì per lì un certo falegname Lanz – gli era venuto in mente quel nome perché si chiamava così il capitano, 20 il nipote della signora Grubach1 – e si accinse a chiedere a tutte le porte se questo falegname Lanz abitava lì, per poter così dare un’occhiata all’interno degli alloggi. Ma si accorse subito che lo stratagemma era inutile: quasi tutte le porte erano aperte e i bambini vi entravano e ne uscivano. Erano per lo più camerette misere, ad una sola finestra, che fungevano anche da cucine; molte donne vi armeggiavano ai 25 focolari, reggendo in braccio i neonati e lavorando con la mano libera, e ragazzine appena adolescenti, con indosso, sembrava, solo un grembiale, correvano indaffarate su e giù. I letti non erano rifatti: vi giacevano ammalati, o gente che ancora dormiva, o altri sdraiati sulle coperte con tutti i loro vestiti. Se trovava chiusa la porta, K. bussava, e domandava se un falegname Lanz abitava lì: per lo più veniva 30 ad aprire una donna, ascoltava la domanda, poi si volgeva indietro a qualcuno che si levava a sedere sul letto: – Questo signore chiede se abita qui un falegname che si chiama Lanz. – Un falegname Lanz? – ripeteva l’uomo sul letto. – Sì, – diceva K., quantunque chiaramente la commissione d’inchiesta non fosse in quell’alloggio, e quindi la sua indagine fosse esaurita. 1 signora Grubach: è un’affittacamere.

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Molti credevano che a K. premesse assai trovare questo Lanz, ci pensavano su, gli veniva in mente un falegname che però non si chiamava Lanz, o un cognome che a Lanz era vagamente simile; oppure chiedevano ai vicini, o accompagnavano K. ad una porta molto lontana dove forse, secondo loro, poteva abitare in subaffitto una persona che corrispondeva alla richiesta, o dove c’era qualcuno meglio informato di 40 loro. Alla fine K. non ebbe più bisogno di fare domande: alla gente lo conduceva di sua iniziativa di piano in piano. Si pentì della sua idea, che pure da principio gli era sembrata così pratica. Al quinto piano decise di rinunciare alla ricerca, prese congedo da un giovane operaio simpatico che lo voleva accompagnare ai piani superiori, e discese. Ma poi gli ritornò la stizza per l’inutilità di tutta l’impresa, tornò a salire 45 e bussò alla prima porta del quinto piano. La prima cosa che vide nella piccola camera fu un grosso orologio a muro che segnava già le dieci. – Abita qui un certo falegname Lanz? – domandò. – Entri, – disse una giovane dai luminosi occhi neri, che stava lavando panni infantili in un mastello, e con la mano bagnata gli indicò la porta della camera accanto, che era aperta. 50 K. ebbe l’impressione di entrare in un’assemblea. C’era un pigia pigia di gente scompagnata, ma nessuno si curò del nuovo venuto. Stavano tutti in una camera a due finestre, di media grandezza, cinta da una galleria schiacciata dal soffitto; essa pure era gremita di persone che erano costrette a stare chinate, ed urtavano contro il soffitto con la testa e le spalle. Respinto dal tanfo, K. tornò indietro e disse alla 55 donna, che forse lo aveva capito male: – Cercavo un falegname, un certo Lanz... – Sì, – disse quella, – prego, entri pure –. Forse K. non le avrebbe dato ascolto, ma la donna gli si accostò, afferrò la maniglia e disse: – Dopo di lei devo chiudere, non può più entrare nessuno. [...] 35

Analisi del testo La logica onirica e l’assurdo Il brano evidenzia i caratteri surreali del racconto kafkiano. Lo stile meticoloso e preciso contrasta con la dimensione onirica dei luoghi in cui K. ricerca, e infine misteriosamente trova, la sede dell’inchiesta. L’edificio che gli è indicato è quanto di più distante dalla maestosità di un palazzo di giustizia: è invece un dimesso condominio popolare di periferia. Appena K. vi si addentra, però, si rivela un labirinto, immagine del disorientamento del personaggio. Anche i rapporti fra gli spazi – come avviene nei sogni – sono incongrui: dopo un’infilata di misere abitazioni di una stanza, con una sola finestra, in un appartamento, una porta aperta lo introduce in un ambiente da incubo: una stanza sovraffollata, su cui si affaccia una bassa galleria anch’essa traboccante di spettatori, piegati per non urtare nel soffitto. Alle caratteristiche surreali dei luoghi corrisponde la logica del racconto, che, in contrasto con l’esperienza consueta, approda all’assurdo, suggerendo altresì una prospettiva metafisica. Il protagonista cerca il luogo dell’inchiesta, ma nello stesso tempo ritiene che la sua stessa colpa lo attragga nella sede del giudizio. Chiede indicazioni fuorvianti (vergognandosi di essere processato, inventa di essere alla ricerca di un fantomatico falegname Lanz), eppure raggiunge la meta; una donna, che nonostante le sue parole, sa benissimo cosa sta cercando, gli spiega che la porta del tribunale è ancora aperta solo per lui (in modo del tutto analogo a quanto avviene nell’apologo Davanti alla legge).

L’ambivalenza del racconto Si comprende quindi come la narrazione non risponda a una logica “diurna”, ma “notturna”, simile a quella dei sogni descritta da Freud e debba perciò essere decifrata alla luce non della ragione, ma della simbologia dell’inconscio. Così, ad esempio, l’orologio che campeggia nella stanza fa comprendere a K. di essere in ritardo, sebbene non gli fosse stata indicata

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l’ora dell’appuntamento, e sembra ammonire sull’incombere del tempo; allo stesso modo le presenze che affollano il palazzo, in gran parte donne e bambini, possono essere messe in rapporto con il senso di colpa dell’autore per la sua rinuncia al fidanzamento e al matrimonio. La miseria stessa del palazzo sembra alludere al senso di colpa di K., ebreo benestante, verso la popolazione slava, allora in gran parte molto povera. Interpretazioni e suggestioni lasciate alla libertà del lettore, perché non possono essere dimostrate, come tutto ciò che fa parte della logica dell’inconscio; così come è propria della logica dell’inconscio l’ambivalenza, per cui tutto è reversibile all’opposto: così i bambini, simbolo di innocenza, appaiono nel racconto anche come presenze minacciose e inquietanti, «dai visi stravolti, adulti e furfanteschi», e la donna, alla prima apparenza una comune massaia, si rivela dotata di onniscienza come una sibilla, una profetessa in grado di introdurre K. nei misteriosi luoghi in cui era stato chiamato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il passo in circa 10 righe di testo. COMPRENSIONE 2. Che sentimenti prova K. nel corso del racconto? Motivane di volta in volta le ragioni. ANALISI 3. Quali elementi del racconto evocano un’atmosfera onirica?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 4. Il protagonista del Processo appare stritolato nei meccanismi imperscrutabili di una macchina della giustizia che non gli riserva un regolare processo e gli nega la possibilità di conoscere le accuse che gli sono state mosse. Credi che oggi una simile situazione possa verificarsi solo nei paesi arretrati o anche nell’evoluto occidente? Fai una ricerca in Rete e individua storie di personaggi del Novecento e degli anni Duemila che sono stati vittime di “errori giudiziari” o ai quali non è stato concesso un giusto processo ed esponi il risultato della tua indagine alla classe.

Franz Kafka In KAFKA, il rapporto conflittuale con il padre è all’origine di

FRANZ KAFKA influenze culturali

cultura e tradizioni yiddish

psicoanalisi (Freud)

online T3 L’esclusione di Josef K. T3a Franz Kafka

L’arresto Il processo, cap. I

espressionismo spirito di antagonismo

sensi di colpa

La metamorfosi

Il processo

online

Sguardo sul cinema

T3b Franz Kafka L’esecuzione Il processo, cap. X

Il processo di Orson Welles

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3 Federigo Tozzi

1 Una vita breve, dominata dall’“ombra” del padre Tozzi «palombaro del profondo» Come si è detto, anche nell’opera di Federigo Tozzi (1883-1920) il tema del rapporto fra padre e figlio è centrale, e connesso con quello fra individuo e realtà: nei personaggi di Tozzi, infatti, proprio la relazione traumatica con la figura paterna determina il disadattamento e l’inettitudine di fronte alla vita. Un disadattamento che lo scrittore – definito, con una suggestiva immagine metaforica, «palombaro del profondo» dal critico Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) – rappresenta attraverso un’analisi psicologica così acuta e con una tecnica narrativa così originale, da collocarlo tra i maggiori scrittori del Novecento italiano. Oggi non si considera più da tempo Tozzi come uno scrittore tardo-verista (nonostante i suoi evidenti debiti con la tradizione naturalista), ma se ne riconosce piuttosto il volto modernista, allineato con le acquisizioni della cultura europea del primo Novecento.

Federigo Tozzi.

Un’infanzia e una giovinezza difficili Il rapporto conflittuale con il padre, tema fondamentale dei romanzi di Tozzi – in particolare Con gli occhi chiusi, il più direttamente autobiografico – segna anche la vita dell’autore. Federigo Tozzi nasce a Siena nel 1883 dopo sette tra fratelli e sorelle (tutti morti subito dopo la nascita o piccolissimi). La madre, una donna mite e malata di epilessia, muore quando Federigo ha solo dodici anni; il padre, un uomo autoritario e collerico, da umili origini, era divenuto proprietario di una trattoria tra le più rinomate di Siena e di alcuni poderi. L’incomprensione tra padre e figlio provoca nel ragazzo, chiuso e sensibile, un disadattamento di cui sono segni evidenti le fughe da casa e i problemi di inserimento scolastici: dopo aver cambiato diverse scuole, alla fine interrompe gli studi senza conseguire alcun diploma, proseguendo la propria formazione culturale da autodidatta. Trova poi un lavoro come impiegato presso le Ferrovie dello Stato (a cui si ispirerà per il romanzo Ricordi di un impiegato, uscito postumo), fino alla morte del padre, nel 1908. Dall’inettitudine come erede all’affermazione come scrittore Anche allora – come sottolinea il critico Giacomo Debenedetti in uno studio in chiave psicoanalitica (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Kafka-Tozzi: il tema psicoanalitico del rapporto con il padre, PAG. 629), e come, impietosamente, lo stesso Tozzi mette in luce nei suoi romanzi autobiografici, in particolare Il podere – il traumatico rapporto con la figura paterna lo condiziona: come i personaggi del suoi romanzi, anche Federigo sembra infatti spinto da una inconscia smania a distruggere tutto ciò che il padre aveva accumulato. Sposa Emma Palagi (con cui intratteneva da tempo un legame osteggiato dal genitore) e si disfa della trattoria senza curarsi di ricavarne un compenso adeguato. Quanto ai poderi ereditati, dopo un fallito tentativo di amministrarli (testimoniato, pur con esagerazione romanzesca, nel romanzo Il podere), è costretto a venderne uno, affittando l’altro. Si stabilisce poi con la famiglia a Roma per tentare di affermarsi in ambito letterario, incoraggiato dal riconoscimento delle sue qualità da Federigo Tozzi 3 621

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parte di Pirandello e del critico-romanziere Borgese, allora molto noto. In pochi anni di intensa attività (nel 1917) pubblica Bestie, una raccolta di passi lirico-narrativi che risente del frammentismo vociano (le varie situazioni descritte vengono collegate soltanto dal fatto che si accompagnino all’apparizione di animali, a volte funzionali a una trama, a volte misteriose e simboliche); nel 1919 il romanzo autobiografico Con gli occhi chiusi; intanto, collabora con articoli e saggi a diverse riviste. Ma nel 1920, proprio quando iniziava a riscuotere un certo successo, lo scrittore muore di polmonite a soli trentasette anni. In quello stesso anno sono pubblicati, postumi, gli altri due romanzi: Il podere e Tre croci. Altri scritti verranno editi in seguito, fra i quali molti dei racconti, spesso di notevole qualità letteraria.

2 Tra eredità naturalista e sperimentalismo Il carattere delle opere di Tozzi Le opere di Tozzi sembrerebbero, a un’analisi superficiale, ispirate alla poetica del Verismo: fanno infatti riferimento a un ambiente rurale (la campagna nei dintorni di Siena) raffigurato con tratti concreti e apparentemente realistici attraverso una narrazione asciutta ed essenziale, in cui il narratore si astiene da qualunque intervento giudicante. In realtà la narrativa di Tozzi, in particolare nel primo romanzo (Con gli occhi chiusi), ha carattere fortemente sperimentale: le situazioni sono filtrate dalla visione distorta e deformata dei protagonisti, in preda a ossessioni, nevrosi, inibizioni. Di qui una scrittura per la quale si è parlato di “espressionismo”: come i pittori espressionisti deformano gli oggetti rappresentati per investirli di emozioni violente e spesso angosciose, così Tozzi raffigura cose e persone filtrandole attraverso l’impatto traumatico che queste assumono sui suoi personaggi nevrotici e inibiti (il critico Baldacci ha parlato di «scrittura della nevrosi»). Ne emerge un’immagine della realtà minacciosa e inquietante, come se il suo peso fosse destinato a schiacciare chi, come la maggior parte dei personaggi tozziani, non ha gli strumenti per affrontarla. Il favore dei critici e lo scarso successo di pubblico All’apprezzamento praticamente unanime dei critici per l’opera di Tozzi non corrisponde quello del pubblico. Difficilmente i lettori, e in particolare i giovani, si accostano volentieri a questo autore, respinti non soltanto dalla difficoltà dello stile, ma anche dalla crudeltà spesso intollerabile del suo mondo, quasi privo di spiragli di luce, dominato dall’egoismo e da un’ottusa violenza, che si rende particolarmente evidente nella rappresentazione del comportamento crudele verso gli animali, frequente nel mondo contadino di allora, e verso gli esseri più indifesi. Ma nella narrativa di Tozzi, la crudeltà è l’altra faccia di un’aspirazione inappagata al bene. A Tozzi può essere riferito un giudizio da lui espresso su Pirandello: «credo nessun altro scrittore come il Pirandello senta il male e la cattiveria come una condizione naturale che non può essere abolita. Egli è un grande scrittore perché riesce a tollerare questi due sentimenti. […] Egli pensa al male perché ama il bene».

Telemaco Signorini, La piazzetta di Settignano, olio su tela, 1881 (collezione privata).

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3 Il romanzo della difficile maturazione: Con gli occhi chiusi Un’opera autobiografica Il romanzo Con gli occhi chiusi, pubblicato nel 1919, ma composto probabilmente entro il 1913, è il più ricco di elementi autobiografici. Affine a un romanzo di formazione (anche se sarebbe meglio parlare di “formazione mancata”), è incentrato sul personaggio di Pietro, che la narrazione segue dai tredici ai ventuno anni, riportando molti avvenimenti realmente accaduti all’autore: la crescita tra Siena e i poderi del contado, la morte della madre, il contrastato rapporto con un padre-padrone, le difficoltà scolastiche, l’infatuazione per una contadina del podere paterno (nel libro Ghìsola, mentre nella realtà si chiamava Isola). Nel romanzo il padre, contrario alla relazione, allontana Ghìsola dal podere. Pietro la ritrova però successivamente a Firenze, comincia a frequentarla e vorrebbe sposarla, senza accorgersi che la ragazza conduce da tempo una vita licenziosa. Finisce addirittura per ritrovarla in un bordello, incinta: finalmente “apre gli occhi” su di lei e sente che l’amore è finito. Il romanzo si incentra su tre temi: il rapporto di Pietro con il padre, con Ghìsola (soprattutto nella seconda parte) e con la realtà, costantemente intrecciati tra loro alla luce della moderna psicologia del profondo: le difficoltà psicologiche di Pietro, il suo disadattamento sono infatti messi in relazione al rapporto traumatizzante con la figura paterna. Una struttura narrativa sperimentale Tra i romanzi di Tozzi, Con gli occhi chiusi è il più innovativo, a cominciare dalla particolarissima struttura: in luogo della consueta divisione in capitoli, la narrazione è scandita in paragrafi di varia lunghezza, talvolta assai brevi, separati da asterischi: una scelta che corrisponde a una visione della realtà concepita dall’autore come disgregata e caotica, in cui è impossibile istituire un ordine e una gerarchia. Il ritmo della narrazione è irregolare e dettato dalle emozioni del protagonista: il tempo narrativo si dilata in rapporto alle situazioni di maggior intensità emotiva, mentre diviene estremamente rapido, e spesso addirittura ellittico, per eventi anche oggettivamente importanti. Ne consegue che dettagli apparentemente minimi si accampano così in primo piano, per una deliberata scelta dell’autore, come rivela un suo scritto (Come leggo io), in cui Tozzi dichiara il suo disinteresse verso gli elementi della trama, che considera tutto sommato “esteriori” rispetto al senso del romanzo, mentre invece ritiene più interessante focalizzare la sua attenzione su «un qualsiasi misterioso atto nostro», che assuma una funzione rivelatrice: «Ai più interessa un omicidio o un suicidio; ma è ugualmente interessante, se non di più, anche l’intuizione e quindi il racconto di un qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe essere quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede, e poi prosegue la sua passeggiata». Leggere Tozzi implica incontrare in ogni momento gesti, situazioni, apparentemente banali e inspiegabili, ma investiti di un ruolo rivelatore che spetta al lettore scoprire, come è facile notare anche solo dai due testi tratti da Con gli occhi chiusi (➜ T4 OL e T5 ). Una narrazione interiorizzata Nel romanzo Con gli occhi chiusi Tozzi “traduce” in forma narrativa le teorie dello psicologo e filosofo William James (1842-1910), che, in particolare nei Principi di psicologia (1890), ben conosciuti da Tozzi, sottolinea come percezioni, desideri, volontà e impulsi all’azione siano solo astrattamente distinguibili, ma risultino in realtà come un tutto inestricabilmente connesso nel Federigo Tozzi 3 623

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flusso della coscienza. Se l’impulso ad agire è vivo e deciso, anche le percezioni sono “a fuoco” per consentire la massima efficacia all’azione: di contro, quando il carattere è incerto e abulico, anche le impressioni della realtà sono sfocate e indistinte, perché non orientate a iniziative pratiche. È questo il caso di Pietro, le cui percezioni frammentate, disgregate e confuse ne esprimono il disadattamento, «come un resoconto del mondo quale esso appare a chi non possiede i criteri razionali e generalmente accettati per vederlo» (Debenedetti). Un titolo simbolico Il titolo del libro, enigmatico e simbolico, esprime proprio questa interiorizzazione della narrazione, specchio dell’universo magmatico e sfocato della mente del ragazzo, con cui il lettore è messo a contatto “dall’interno”, e già di per sé segnala la distanza del romanzo di Tozzi dalla narrativa verista e naturalista: gli “occhi chiusi” non sono infatti, come potrebbe sembrare a prima vista, tanto allusivi all’incapacità di Pietro di vedere la reale identità della donna amata, che idealizza fino alla sconvolgente rivelazione finale che gli “apre gli occhi” su di lei. Il titolo ha di certo un significato più profondo: gli “occhi chiusi” di Pietro corrispondono alla sua paura di fronte a una realtà che è incapace di fronteggiare e addirittura di comprendere.

Con gli occhi chiusi GENERE

romanzo autobiografico

DATAZIONE

composizione: prima del 1913; pubblicazione: 1919

STRUTTURA NARRATIVA

assenza di divisione in capitoli e presenza di paragrafi di varia lunghezza, separati da asterischi

TEMI

difficoltà psicologiche di un giovane nelle relazioni con il padre, con la ragazza amata e con la realtà che lo circonda

Sguardo sul cinema Con gli occhi chiusi, il film Nel 1994 la regista Francesca Archibugi (n. 1960) ha tratto dal libro di Tozzi un film dallo stesso titolo: Con gli occhi chiusi. Il film, sostanzialmente fedele al libro, trova un punto di forza nella resa dei personaggi, in particolare della madre (interpretata da Stefania Sandrelli), di Pietro, il cui sguardo offuscato sulle cose è messo in luce dalle inquadrature in soggettiva, e di Ghìsola, che la regista guarda con particolare simpatia, soprattutto nelle scene in cui è ancora bambina. Molto efficace l’invenzione filmica della scena finale: quando Pietro cade svenuto per la rivelazione della vera natura di Ghìsola, a terra non si vede l’attore che interpretava Pietro giovane uomo, ma quello che lo rappresentava bambino, a significare che soltanto attraverso un trauma Pietro può varcare la soglia della vita adulta. online T4 Federigo Tozzi

Lo sguardo di Pietro Con gli occhi chiusi

Manifesto del film Con gli occhi chiusi.

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Federigo Tozzi

T5

Il contrasto tra Pietro e il padre Con gli occhi chiusi

F. Tozzi, Con gli occhi chiusi e altro, a c. di A. Cannella, Principato, Milano 1989

In modo essenziale, attraverso enunciati brevi e sintetici e il ricorso al discorso indiretto libero, riferito ad ambedue i personaggi con una focalizzazione variabile, il testo mette in luce i difficili rapporti tra padre e figlio e le conseguenze, dolorose per entrambi.

Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d’avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque! Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una 5 colpa. Ma questa docilità, che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo. Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia. Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito. 10 E intanto Pietro gli aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola tecnica! Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini1, mordendosi il labbro di sotto, piantando all’improvviso un coltello su la tavola e smettendo di mangiare. Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse 15 possibile in casa; e, quando per la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più ragguardevoli; dinanzi al quale Domenico non diceva di no. Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare. E la scuola allora gli parve più che altro un pretesto, per star lontano dalla trattoria. Trovando negli occhi del padre un’ostilità ironica, non si provava né meno a chie20 dergli un poco d’affetto. 1 belluini: bestiali, propri delle belve.

Egon Schiele, Doppio ritratto (noto anche come Ispettore capo Heinrich Benesch e suo figlio Otto), 1913.

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Ma come avrebbe potuto sottrarsi a lui? Bastava uno sguardo meno impaurito, perché gli mettesse un pugno su la faccia, un pugno capace d’alzare un barile. E siccome alcune volte Pietro sorrideva tremando e diceva: – Ma io sarò forte quanto te! – Domenico gli gridava con una voce, che nessun altro aveva: 25 – Tu? Pietro, piegando la testa, allontanava pian piano quel pugno, con ribrezzo ed ammirazione. Da ragazzo quella voce lo spaventava, gli faceva male; e allora si rincantucciava, senza piangere, per essere lasciato solo. Ora ne provava una scontentezza esaspe30 rante. E, convinto che non avrebbe dovuto soffrire a quel modo, si esaltò sempre più nelle parole di riscatto e di giustizia; come trovava scritto in certi opuscoli di propaganda prestatigli dal suo barbiere. Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile. Prima di nascosto, e poi vantandosene con tutti quelli che capitavano nella trattoria. La sua ambizione 35 doventò2, allora, quella di scrivere articoli in una Lotta di classe; che usciva tutte le settimane. E se la polizia lo avesse fatto arrestare, sarebbe stato contento. Sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione. Quando un altro lo chiamava «compagno», si sarebbe fatto a pezzi per lui; senza né meno pensarci. Domenico, invece, era preso sempre di più dal lavoro e dal podere; e non c’era 40 nessuno che l’aiutasse! 2 doventò: forma toscana per diventò.

Analisi del testo L’impossibile comunicazione tra padre e figlio Il testo si incentra sul difficile rapporto di Pietro col padre. Lo scrittore sceglie una focalizzazione interna variabile e il discorso indiretto libero, attribuito alternativamente ai due personaggi. I sentimenti di rabbia e disprezzo del padre, sottolineati dalla frequenza dei punti esclamativi, emergono attraverso un monologo interiore, dal quale appare evidente la delusione di Domenico per il figlio debole e incapace, e il fastidio per i suoi interessi intellettuali, a lui estranei, e perciò odiosi come tutto ciò che si sottrae al suo dominio. Ma tali sentimenti si manifestano all’esterno soltanto attraverso «gesti belluini», che, come di consueto nei romanzi di Tozzi, rivelano il fondo bestiale, appunto, presente negli esseri umani. Nel passo è evidente la scarsa comunicazione fra genitore e figlio. L’unico scambio di battute effettivo tra padre e figlio è estremamente significativo, perché mette in luce un vero e proprio conflitto edipico: il ragazzo prova a sfidare il padre, immaginandosi, in futuro, di poter essere forte quanto lui, ma il padre risponde con derisione, considerando impossibile che il figlio possa emularlo. L’analisi di Tozzi nella descrizione del personaggio autobiografico di Pietro appare davvero impietosa: nel cercare un’autonomia dalla figura paterna, verso cui prova sentimenti ambivalenti di ribrezzo e ammirazione, Pietro mostra un’evidente inettitudine: si dedica agli studi senza impegno, cercando soprattutto un pretesto per stare lontano dalla trattoria; incapace di affermare la propria volontà, cerca un riscatto nella politica. Ma anche in questo campo Pietro mostra di avere gli «occhi chiusi», perché sostituisce i sogni velleitari a una presa di coscienza più reale, illudendosi che tutti quelli che lo chiamano «compagno» siano davvero suoi amici, tanto che per loro, sconsideratamente, sarebbe pronto a dare tutto. Si vede così come il rapporto traumatico con il padre abbia reso Pietro incapace di affrontare la vita in modo maturo e consapevole. Ma anche Domenico soffre, e le battute finali del discorso indiretto libero lo mostrano nella sua solitudine e nel rimpianto di non avere accanto un figlio simile a lui, che lo capisca e lo aiuti.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il brano proposto evidenziando i difficili rapporti tra padre e figlio. COMPRENSIONE 2. Quali sentimenti Domenico prova verso il figlio? Quali sono le ragioni del disaccordo tra i due che emergono nel brano? TECNICA NARRATIVA 3. Individua nel testo i momenti in cui la focalizzazione è riferita a Pietro e quelli in cui lo sguardo è quello di Domenico. Allo stesso modo, distingui a quale dei due personaggi sia da riferire nei diversi passi del brano il discorso indiretto libero. LESSICO 4. Indica le parole chiave che servono a delineare i rapporti tra padre e figlio.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Credi che Domenico e il figlio in altre condizioni avrebbero potuto avere un buon rapporto? Cosa sarebbe dovuto cambiare per consentirlo? Rispondi in un intervento orale di massimo tre minuti SCRITTURA 6. La narrativa di Tozzi si presta anche a un’interpretazione sul disagio dell’uomo moderno. Alla luce di quanto hai studiato, spiega questa affermazione in un testo di massimo 15 righe.

4 Il romanzo dell’inettitudine: Il podere Il podere La contrapposizione con la figura paterna si ripropone nel romanzo Il podere, pubblicato postumo nel 1920, che costituisce una specie di continuazione di Con gli occhi chiusi ed è ugualmente fondato su spunti autobiografici. Rispetto al precedente, il romanzo presenta una struttura più tradizionale, come evidenzia già il ripristino della divisione in capitoli. Il podere come luogo simbolico del confronto tra padre e figlio Il podere a cui si riferisce il titolo è la proprietà agricola che Remigio, il protagonista, un impiegato delle Ferrovie, eredita dal padre, un uomo dispotico e immorale. Quest’ultimo esce di scena all’inizio del romanzo, quando muore di cancrena (come il padre di Tozzi), rifiutando ogni riconciliazione con il figlio ventenne, con cui aveva avuto dei contrasti. Remigio si trova a doverne gestire l’eredità, ma non è per nulla preparato né predisposto ad assumere il ruolo di proprietario terriero che era stato del padre. Il podere diventa così il luogo simbolico del confronto a distanza con la figura paterna, da cui Remigio uscirà inesorabilmente sconfitto, rivelando la sua inettitudine. Debole e irresoluto, incapace di farsi rispettare dai contadini come padrone, Remigio assiste impotente alla dissoluzione dei beni paterni (di cui forse inconsciamente vuole disfarsi, in quanto «simbolo della potenza paterna», come ha osservato il critico Debenedetti). Alla fine, economicamente rovinato e incapace di affrontare una situazione ormai insostenibile, si consegna spontaneamente all’odio cieco del contadino Berto, che lo uccide con un’accetta, sfogando così una bestiale furia vendicativa contro la secolare oppressione dei contadini. L’interesse prevalente alle dinamiche psicologiche Come negli altri romanzi di Tozzi, prevale l’interesse per l’approfondimento psicologico e il rilievo vien dato non ai fatti (all’omicidio sono dedicate poche righe), ma alle dinamiche interiori attraverso cui maturano le azioni, come ultimo online esito di una tensione accumulata per motivi T6 Federigo Tozzi T7 Federigo Tozzi L’inettitudine di Remigio La crudele lotta per la vita in apparenza futili e quasi inavvertibili, ma Il podere, cap. III Il podere, cap. XVII devastanti nelle conseguenze. Federigo Tozzi 3 627

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Il podere GENERE

romanzo

DATA DI PUBBLICAZIONE

1920 (pubblicato postumo)

TEMI

rapporto padre-figlio, inettitudine

5 Le altre opere di Tozzi Tre croci Il tema dell’inettitudine e della distruzione dell’eredità paterna ricorre anche nel terzo romanzo di Tozzi, Tre croci, che si ispira a una vicenda realmente accaduta a Siena, la fine tragica di tre fratelli proprietari di una libreria antiquaria. Non c’è una figura di padre, ma, secondo il critico Debenedetti, i fratelli appaiono animati dallo stesso impulso del protagonista del Podere a distruggere tutto quanto hanno ricevuto in eredità: trascurano il lavoro, si coprono di debiti, e anziché cercare di guadagnare, dilapidano i beni per un ossessivo interesse verso il cibo. I tre fratelli appaiono come tre facce diverse di una medesima inettitudine: l’uno, Enrico, è indifferente a tutto, e dedito soltanto ai piaceri della tavola; l’altro, Niccolò, è impulsivo e scostante, a volte di un’allegria contagiosa, a volte intrattabile; il terzo, Giulio, unico dei fratelli a dedicarsi in modo responsabile al lavoro, è di animo buono e sensibile, ma troppo debole: per salvare i fratelli appone la sua firma su una cambiale falsa, e quando è scoperto si uccide. I due fratelli, rimasti in miseria, moriranno poco dopo di lui. Il romanzo ha una costruzione più tradizionale degli altri di Tozzi, e appare più vicino ai canoni del naturalismo, anche se rimangono costanti le caratteristiche della sua narrativa, come il rilievo dato all’approfondimento psicologico dei personaggi e la tendenza espressionistica dello stile. Gli inediti e le novelle Come Il podere e Tre croci, sono stati pubblicati postumi il romanzo giovanile Adele e diverse novelle. I racconti di Tozzi sono numerosi (121) e raggiungono elevati livelli artistici, tanto che alcuni li considerano superiori agli stessi romanzi. Anche nelle novelle ricorre spesso il tema del rapporto traumatico con il padre; costanti sono l’attenzione alla psicologia e la visione pessimistica e angosciosa della vita. Ammiratore di Verga, Tozzi lo segue nel rifiutare una spiegazione deterministica del destino individuale, anzi tende spesso a mostrare come eventi apparentemente di scarso rilievo siano in grado di produrre rovinose conseguenze.

Federigo Tozzi e le sue opere Con gli occhi chiusi Il podere Tre croci

impianto narrativo in apparenza naturalistico

aperture alla cultura europea

spunti autobiografici

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giacomo Debenedetti Kafka-Tozzi: il tema psicoanalitico del rapporto con il padre G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1996

Come osserva il critico Giacomo Debenedetti (1901-1967), il primo a mettere in luce, in un importante saggio del 1963, la fecondità di una lettura psicoanalitica delle opere di Tozzi, i personaggi “inetti”, prevalenti nelle opere dell’autore senese, appaiono segnati da un trauma originario, dovuto al conflittuale rapporto con la figura paterna, trauma che riflette quello subìto dall’autore, e vanno perciò interpretati nella chiave del “complesso di Edipo”. Proprio nell’approfondimento di questo tema psicologico il critico coglie anche per la prima volta il legame fra Tozzi, apparentemente scrittore “provinciale”, e l’europeo Kafka.

In sostanza, i fatti testimoniano che il padre, con un suo tirannico affetto, pretende che Tozzi si affermi nella vita, ma si affermi sul modello stabilito da lui, di uomo energico, prepotente, tenace, che è riuscito, da contadino nullatenente, a creare una prospera bottega, la trattoria, a farsi la roba e a conservarla, a prendersi avidamente 5 e sanamente anche i piaceri fisici, sensuali della vita, senza esserne invischiato, senza mai lasciarci le penne. Senonché questo padre esercita anche l’affetto come un predominio, che afferma prima di tutto la propria persona quale un modello e lo definisce nella figura di un padrone, che non concede mai al figlio di essere sé stesso. La mutilazione si compie proprio sulle tendenze e aspirazioni più personali del 10 figlio. Il figlio sarà pigro a scuola, si dimostrerà inetto nei vari studi che intraprende e in tutte le manifestazioni della vita pratica proprio per affermarsi negativamente, se così si può dire, in opposizione al padre che non gli permetterà mai di affermarsi positivamente. […] Ma si pensi a ciò che Tozzi fa, non appena si mette ad accudire alla roba. Con una 15 specie di ottusa, cieca, indifferente ostinazione, larvata di passività, debolezza, infingardaggine, egli si adopera a dissiparla. La roba è infatti il simbolo della potenza paterna. E lui, il figlio, deve dimostrare che il padre lo ha messo in condizione di impotenza. La sua ultima vendetta, la sua ultima ritorsione, sarà quindi di distruggere quel simbolo, che è stato, insieme, il motivo e la prova [...] della sua frustra20 zione. Lui è stato mutilato dei poteri vitali, dei poteri di successo nella vita, proprio perché il padre voleva esclusivamente per sé quei poteri, che si manifestavano nella accumulazione e nel godimento della roba. E allora, da parte sua, obbedisce beffardamente, con un’inconscia beffa, al padre che l’ha mutilato: non gode, anzi patisce, di quella roba e la disperde. Il podere e poi Tre croci […] sono proprio i romanzi di 25 questa ultima conseguenza del trauma psichico, che Con gli occhi chiusi raffigura nei suoi eventi basilari determinanti e persino iniziali. Nel Podere, il protagonista Remigio Selmi lascia il suo posto di applicato alla stazione di Campiglia per andare ad amministrare l’eredità paterna, quel podere. E si mette passivamente, sornionamente ma insieme con alacrità nelle mani di tutti i lestofanti, 30 si fa impigliare in tutti i raggiri e in tutte le brighe, firma cambiali, sbaglia avvocati, finché riesce a farsi portar via quei beni. Lo fa con la demenza di quelli che la sorte vuol perdere [sconfiggere]. Ma qui la sorte è proprio un inconscio bisogno di disfarsi di quelle cose. [… Questo] padre viene offeso nel simbolo della sua intera potenza virile, la roba; viene offeso con la distruzione di quello che gli era più caro, perché 35 traduceva l’affermazione della sua personalità nel mondo: le sostanze, la roba. […] Per un’ultima volta […] constateremo come questo scrittore, in apparenza il più

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

provinciale e uno dei più incolti tra i suoi coetanei tanto più celebri di lui, è l’unico a lavorare in sincronismo involontario, inconsapevole con gli artisti, tutti stranieri, se si eccettua Pirandello, che stavano compiendo, quasi tutti senza parola d’ordine 40 e senza mutue intese, una rivoluzione nell’arte occidentale. A proposito dei Ricordi un impiegato, e di quell’impiegato della vita che è il protagonista Leopoldo, ci era già venuto in mente quell’altro impiegato della vita che è il personaggio di Kafka, segnatamente il Gregorio della Metamorfosi.

Analisi e produzione di un testo argomentativo 1. Qual è la tesi sostenuta da Debenedetti? 2. Quali aspirazione nutre il padre di Tozzi, nei confronti del futuro del figlio? 3. Quali azioni compie Tozzi, quando entra in possesso della roba del padre? Quali motivazioni si possono attribuire al suo comportamento? 4. Che cosa intende dire il critico quando afferma che Tozzi è «l’unico a lavorare in sincronismo involontario, inconsapevole con gli artisti, se si eccettua Pirandello, che stavano compiendo, quasi tutti senza parola d’ordine e senza mutue intese, una rivoluzione nell’arte occidentale»? 5. Nella prima riga del testo Debenedetti, riferendosi ai sentimenti del padre di Tozzi nei confronti del figlio, parla di tirannico affetto, utilizzando un’espressione ossimorica. Ti sembra che tirannia e affetto possano convivere nell’atteggiamento di un padre verso un figlio? Su quali basi dovrebbe poggiare il rapporto padre-figlio? Rispondi elaborando un testo che presenti le tue tesi sostenute da adeguate argomentazioni.

Comprendere e analizzare

Produzione

Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890 (Museo Van Gogh, Amsterdam).

Fissare i concetti L’ombra del padre: Kafka e Tozzi 1. Quale influenza ha avuto la psicoanalisi nella delineazione del rapporto padre-figlio agli inizi del Novecento? 2. Quali affinità si possono riscontrare tra Kafka e Tozzi? 3. Quale significato si attribuisce all’aggettivo kafkiano? 4. In che senso si può parlare di “patologia dei rapporti familiari” a proposito di uno dei temi chiave della Metamorfosi di Kafka? 5. Quali sono i temi al centro della narrativa di Kafka? 6. Come viene rappresentato il tema della Legge nel processo di Kafka? 7. Quali spunti autobiografici presentano i romanzi di Tozzi? 8. Qual è il significato del titolo del romanzo Con gli occhi chiusi di Tozzi? 9. Quali caratteristiche presentano lo stile e l’impianto narrativo di Con gli occhi chiusi di Tozzi? 10. Perché Il podere di Tozzi può essere definito “il romanzo dell’inettitudine”?

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Primo Novecento L’ombra del padre: Kafka e Tozzi

Sintesi con audiolettura con la figura paterna: 1 Ilunconflitto tema centrale nella letteratura del Novecento Centrale, nella letteratura del primo Novecento, è il tema dello scontro con la figura paterna. L’emergere del conflitto con il genitore nella cultura del tempo, dovuto probabilmente all’affermazione di un nuovo modello di famiglia (dove una singola figura maschile adulta impone le proprie regole) viene sottolineato dalla ricerca psicologica e in particolare dalla psicoanalisi freudiana che, attraverso l’ideazione del “complesso di Edipo”, sottolinea l’importanza del suo superamento per la formazione della personalità adulta nell’individuo. Il ceco Franz Kafka (1883-1924) e il senese Federigo Tozzi (1883-1920) sono stati spesso accostati proprio per la centralità che assume nelle opere di entrambi il tema del rapporto con la figura paterna. Entrambi, infatti, vivono effettivamente conflitti con i padri, genitori caratterizzati da atteggiamenti svalutanti verso i figli; inoltre, entrambi sviluppano come risposta un atteggiamento antiautoritario, sperimentalista, attento alle tematiche psicologiche e si avvicinano alle istanze dell’Espressionismo, probabilmente come modalità di rottura con il passato.

2 Franz Kafka

Un impiegato modello con la vocazione per la letteratura Franz Kafka nasce a Praga nel 1883 da una famiglia della borghesia ebraica. Sentendo una viva vocazione letteraria e non volendo proseguire le attività famigliari, lo scrittore trova lavoro come impiegato in un’impresa assicurativa: aspetti che innescano un rapporto complicato con il padre. Nel 1912 attraversa una profonda crisi interiore che lo spinge a mettere in discussione tutta la propria vita ma che, al contempo, ispira i suoi capolavori: La metamorfosi (1912) e gli incompiuti Il processo (1925), America e Il castello; l’autore, infatti, muore a causa della tubercolosi nel 1924. La patologia dei rapporti familiari: La metamorfosi La problematicità nei rapporti famigliari emerge, ad esempio, nel racconto lungo La metamorfosi: l’agente di commercio Gregor Samsa si ritrova trasformato in uno scarafaggio e ogni tentativo di dialogo o confronto con i genitori o la sorella è frainteso o respinto con orrore, fino a che il protagonista, disperando della salvezza, si lascia morire. In questa allegoria di carattere parzialmente autobiografico, Kafka tratta diversi temi: l’alienazione dalla vita anche nel contesto extraparentale; la malattia, la sofferenza e la conseguente dipendenza dagli altri; la famiglia borghese come luogo del disamore. A emergere in senso negativo è la figura paterna: terribile, violenta e incapace di comunicare con il figlio. Una chiave di lettura dell’opera si ritrova nella personale ed intima Lettera al padre: tramite una sottile analisi psicologica

Sintesi

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del rapporto con il proprio genitore, Kafka ne esamina gli errori educativi e le pesanti conseguenze prodotte su di lui, diventato un adulto insicuro e incapace di vivere. Dal padre al tribunale interiore: Il processo Il rapporto contrastato con la legge paterna è una delle principali chiavi interpretative anche di un altro capolavoro dello scrittore praghese, Il processo, in cui il senso di colpa del protagonista si traduce in un surreale procedimento giudiziario intentato da un misterioso tribunale; senza che mai sia formulata un’accusa precisa, il processo, che si svolge in luoghi dai caratteri onirici, induce gradualmente il protagonista ad accettare la propria condanna a morte. In questo lavoro, così come in America e nel Castello, acquistano sempre più rilevanza temi connessi con la problematica religiosa (quelli di Colpa, Verità, Legge): ma anch’essi si legano, oltre che al concetto di divinità, a quello di padre.

3 Federigo Tozzi

Una vita breve, dominata dall’“ombra” del padre Federigo Tozzi (1883-1920), è accomunato a Kafka dalla capacità di esprimere in modo originale il disagio nel suo rapporto con il mondo, oltre che dalla centralità assunta nelle sue opere dalla figura di un padre dispotico, che inibisce il figlio rendendolo “inetto”. Tra eredità naturalista e sperimentalismo Pur parendo ispirate al Verismo, nel loro interesse per l’ambiente rurale senese, tuttavia le opere di Tozzi mostrano evidenti tratti sperimentali, quasi espressionistici: si pensi, per esempio alla focalizzazione dei suoi racconti sul punto di vista dei protagonisti, nevrotici e inibiti. Celebrato dalla critica, lo scrittore incontra, però, scarso successo di pubblico, che poco apprezza la crudeltà e il pessimismo narrati nei suoi lavori. Il romanzo della difficile maturazione: Con gli occhi chiusi L’opera più celebre di Tozzi è Con gli occhi chiusi (1919), un romanzo di formazione “mancata”. La storia, di ispirazione autobiografica, illumina otto anni della vita di Pietro e il suo rapporto con il padre-padrone, con la ragazza di cui è innamorato (e con la quale il sentimento finirà tristemente e bruscamente) e con la realtà, che il giovane non riesce a comprendere né a vivere appieno. Molto innovativo, il libro è scandito non in capitoli, ma in paragrafi di varia lunghezza e dalle emozioni del protagonista: Tozzi dichiara di voler concentrarsi sui moti d’animo interni, più che sugli avvenimenti che compongono la trama, perché solo i primi possono mostrare compiutamente la magmaticità della mente del disadattato protagonista. Il romanzo dell’inettitudine: Il podere Pubblicato postumo nel 1920 e anch’esso autobiografico, Il podere riprende la vicenda di Con gli occhi chiusi e la tematica dello scontro con il padre, ma con una struttura più tradizionale. Il protagonista Remigio, dopo la morte dell’oppressivo padre, si dimostra incapace di amministrarne i campi e viene ucciso da uno dei contadini suoi sottoposti, venendo dunque sconfitto dal genitore anche nello scontro “a distanza”. Le altre opere di Tozzi Negli altri romanzi di Tozzi, il giovanile Adele e Tre croci, entrambi postumi, sono riprese le medesime tematiche dei precedenti due, ma ancora su un impianto tradizionale e mediante stilemi naturalisti. L’autore ha anche prodotto più di cento racconti, di elevata qualità letteraria.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Quali aspetti tematici e stilistici legano la narrativa di Tozzi all’esperienza di Kafka? Rispondi in un intervento orale di massimo 5 minuti.

Scrittura

2. Illustra il tema del problematico e contrastato rapporto con la figura paterna, riconducibile al “complesso edipico”, che caratterizza l’opera di Franz Kafka e di Federigo Tozzi (max 15 righe).

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Primo Novecento CAPITOLO

16 Il romanzo europeo del primo Novecento

Nel romanzo europeo del primo Novecento si verifica un profondo rinnovamento rispetto alla narrativa naturalista e più in generale realista. La crisi del positivismo, l’emergere di una visione più problematica della realtà, la sfiducia negli strumenti razionali, la dissoluzione dell’identità dell’io in seguito all’affermazione della psicoanalisi freudiana, la messa in discussione dei modelli borghesi di comportamento creano le premesse per un “nuovo romanzo”. Al centro di esso sta non più la rappresentazione organica di un quadro sociale, da cui derivano quasi necessariamente i comportamenti dei personaggi, ma l’analisi della dimensione interiore di un protagonista portavoce del disagio dell’uomo moderno: disadattato, inetto, “malato”, preda di una corrosiva autoanalisi. Alla registrazione dei fatti e degli eventi si sostituisce il riflesso di questi nella coscienza del personaggio, reso attraverso il monologo interiore o addirittura il “flusso di coscienza”; il tempo cronologico lascia il posto al “tempo interiore”, con il conseguente sovrapporsi di diversi piani temporali.

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Il tema della crisi e della decadenza 1 Oltre il Naturalismo-Realismo Un’epoca di grandi autori Nei primi decenni del Novecento il romanzo vive in Europa una stagione di grande livello artistico grazie a scrittori di alto profilo, che appartengono a diverse aree geografiche e 2 differenti tradizioni culturali e linguistiche. Tra i principali, ricordiamo nell’area di lingua tedesca Thomas Mann, tedesco (1875-1955), Franz Kafka, praghese (1883-1924), Robert Musil, austriaco (1880-1942); nell’area di lingua inglese James Joyce, irlandese (1882-1941) e Virginia Woolf, inglese (1882-1941); nell’area di lingua francese Marcel Proust (1871-1922). Sicuramente contribuiscono al rinnovamento del romanzo europeo con le loro opere anche due grandi scrittori italiani: Luigi Pirandello e Italo Svevo.

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Per approfondire

Parola chiave

La letteratura mitteleuropea

Le radici cognoscitive della crisi Nelle sue varie forme, il romanzo del primo Novecento riflette e insieme interpreta una crisi epocale (è spesso definito infatti “romanzo della crisi”). il tema della crisi ha una precisa matrice Negli scrittori dell’area mitteleuropea storica nella decadenza dell’impero austro-ungarico, che sarà cancellato alla fine della Grande Guerra. Ma il senso della crisi che serpeggia nei romanzi del primo Novecento ha a che fare più in generale con lo sconvolgimento dei parametri conoscitivi determinato dalla messa in discussione del modello positivistico di pensiero e dall’affermazione di nuovi indirizzi e teorie filosofiche (come la teoria del tempo-durata di Bergson), fisiche (la teoria della relatività di Einstein), dalla sconvolgente scoperta dell’inconscio ad opera della psicoanalisi freudiana, che incrina la visione tradizionale e monolitica dell’io. All’ottimismo positivistico, fondato su razionali certezze considerate indiscutibili, si contrappone il dilagare del pessimismo, il senso angoscioso della precarietà, la sfiducia negli strumenti razionali. La realtà del mondo e del soggetto stesso appare ormai enigmatica, se non addirittura inconoscibile In rapporto a quanto detto, il nuovo romanzo ha caratteristiche molto diverse rispetto al modello naturalistico e più in generale realistico del secondo Ottocento sia per quanto riguarda i temi e la tipologia dei personaggi, sia per quanto riguarda le tecniche narrative. A seguire indichiamo i principali aspetti innovativi.

Mitteleuropa La parola Mitteleuropa (di origine tedesca, letteralmente “Europa centrale o danubiana” indica una realtà geografica riferita alle regioni attraversate dal fiume Danubio, che fino alla Prima guerra mondiale erano comprese nell’impero austro-ungarico e in quello germanico. Dall’ambito geografico è passata ad indicare la cultura, le lettere, la filosofia e l’arte di

quel mondo, in particolare dell’impero austro-ungarico in un periodo storico definito: soprattutto nelle capitali di Vienna e Praga, dagli ultimi decenni dell’Ottocento al suo dissolvimento nel 1918, si affermano alcune delle forme artistiche culturali più importanti del Novecento, dalla psicoanalisi di Freud, alle opere di Kafka e Musil, Joseph Roth e Svevo.

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2 Caratteristiche del “nuovo romanzo” novecentesco La tematizzazione della crisi La crisi assume diverse connotazioni, spesso compresenti nei personaggi dei romanzi del tempo, da Svevo a Pirandello, da Kafka a Mann e Musil: senso di estraneità nei confronti della società con le sue regole e le sue spietate leggi economiche, solitudine e incomunicabilità fra esseri umani, vera e propria dissoluzione dell’identità individuale (il non sapere più chi si è, che significato ha la propria vita, avvertire la presenza di un mondo interiore sconosciuto e inquietante), fino alla scoperta angosciosa del non-senso della vita umana e addirittura della realtà. Una nuova tipologia di personaggi Ne deriva una nuova tipologia di personaggi: i protagonisti del nuovo romanzo sono degli antieroi, preda di conflitti, malati interiormente, caratterizzati da una corrosiva autoanalisi che li rende inetti all’azione e alla vita stessa: nel romanzo-saggio L’uomo senza qualità di Musil, ad esempio, il protagonista è in realtà ricco di qualità ma è incapace di usarle; non trova un senso alla propria azione perché la vita gli appare come un percorso misterioso e insensato. Vere e proprie allegorie dell’assurdità della condizione umana possono essere definiti i protagonisti, e le vicende delle opere di Franz Kafka, in particolare del celebre racconto La metamorfosi e del romanzo Il processo (➜ C15). In alcuni casi i personaggi sono artisti (in particolare in Mann), ma l’artista nei romanzi primo-novecenteschi è ben lontano dalla figura dell’esteta: la consapevolezza della vocazione artistica si coniuga spesso con il senso doloroso dell’esclusione, della solitudine a cui l’eccezionalità condanna. Luoghi-simbolo Il nuovo romanzo rinuncia alle descrizioni dettagliate degli ambienti, come era proprio della narrativa realista. Gli spazi sono delineati in relazione alle dinamiche psicologiche dei personaggi e assumono spesso valore simbolico. Spesso fa da sfondo ai romanzi primo-novecenteschi il contesto della grande città, della metropoli che con i suoi ritmi convulsi e opprimenti diventa emblema dell’alienazione dell’uomo moderno: si veda ad esempio l’Ulisse, l’incipit dell’Uomo senza qualità (➜ T9 OL), La signora Dalloway, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello, per citare solo alcuni dei molti esempi possibili. Ma altrettanto significativa è l’ambientazione del racconto lungo La morte a Venezia di Mann in una Venezia decadente, in cui si addensano immagini di morte che simboleggiano la fine di un’epoca. Dal tempo cronologico al tempo soggettivo Il romanzo del primo Novecento privilegia come oggetto della narrazione il mondo interiore del personaggio. Questa scelta inevitabilmente coinvolge e modifica le tradizionali categorie narrative: innanzitutto la trattazione del tempo. La dimensione temporale, che nel romanzo dell’Ottocento si modellava sul tempo cronologico e quindi su un elemento considerato oggettivo, nelle sperimentazioni narrative d’inizio secolo, finalizzate alla rappresentazione dei meccanismi psichici, diventa del tutto soggettiva. Nell’Ulisse di Joyce, ma anche nella Signora Dalloway della Woolf, alla linearità del tempo storico, indicato dalle varie fasi della giornata in cui si svolgono i due romanzi, si sovrappone costantemente il tempo soggettivo del fluire disordinato dei pensieri dei personaggi. Il tempo soggettivo è il vero protagonista della monumentale opera di Proust, in cui il passato, grazie alla memoria involontaria (➜ T2 ), rifluisce nel presente: non si tratta però di una semplice rievocazione, ma di una ri-creazione. Una ri-creazione possibile grazie alla concezione di un tempo fluido, di un tempodurata in cui si riconosce la lezione del filosofo Bergson (➜ SCENARI, PAG. 519). Il tema della crisi e della decadenza 1 635

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LA CRISI DEL PERSONAGGIO MASCHILE NELLA NARRATIVA TRA OTTO E NOVECENTO

La centralità della vita interiore e la dissoluzione della trama Il nuovo romanzo mette al centro la vita interiore del soggetto. Di conseguenza viene meno il ruolo egemone della trama, supporto tradizionale della narrazione romanzesca: ora si tende ad abbandonare non solo i colpi di scena, ma anche i legami causali dell’intreccio, considerati fittizi. Nell’Uomo senza qualità, Robert Musil, pur rimanendo in apparenza fedele alle strutture tradizionali del romanzo, denuncia il carattere fittizio della trama, rispondente al bisogno di un ordine che nella realtà non esiste: «Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita [...]. Agli uomini piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un ‘corso’ si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos». La nuova tipologia del romanzo-saggio La crisi e la dissoluzione della trama hanno come risultato in alcuni casi il proliferare della riflessione: l’analisi dei meccanismi psicologici è messa a confronto con elaborazioni teoriche, o tende essa stessa a diventare interpretazione non solo della specifica situazione del personaggio ma di una problematica più generale. Ad esempio, nella Montagna magica di Thomas Mann, alle parti propriamente narrative si accompagnano analisi critiche delle dinamiche psicologiche, meditazioni filosofiche, ampie riflessioni sulla politica, sulla storia, sui grandi temi culturali del tempo. Per questa modalità di narrazione è stata proposta la definizione di “romanzo-saggio”: in Italia è soprattutto Pirandello a dar vita a questa forma narrativa. Una narrazione dichiaratamente “soggettiva” La rappresentazione del mondo nei romanzi del primo Novecento non avviene più attraverso lo sguardo esterno di un narratore onnisciente, né nei modi impersonali propri del narratore naturalista, ma dal punto di vista del personaggio. L’interesse della narrazione verte ormai esclusivamente sui riflessi che la realtà produce all’interno del soggetto. Si tratta quindi di una narrazione programmaticamente soggettiva, che rinuncia a ogni pretesa di rappresentare dei fatti oggettivi e che, proprio per questo, richiede la cooperazione interpretativa del lettore. Il procedimento si verifica in modo più evidente quando il racconto è in prima persona come nella Ricerca, ma vale anche per la narrazione in terza persona: è il caso, oltre che dell’Ulisse di Joyce, della Metamorfosi di Kafka, della Morte a Venezia e della Montagna magica di Mann, dei romanzi della Woolf. Nuovi modi di rappresentare la vita psichica: il “flusso di coscienza” Alcuni romanzi di primo Novecento si pongono il problema degli strumenti narrativi che consentano di esplorare la vita interiore, i pensieri, le dinamiche psicologiche profonde dei personaggi. Così è utilizzato in modo massiccio il monologo interiore, attraverso cui il narratore accede direttamente, senza mediazioni di sorta, al mondo interiore dei personaggi. Per l’Ulisse di Joyce (ma anche, in forma meno vistosa, per La signora Dalloway e Al faro della Woolf) si parla di vero e proprio flusso di coscienza: sensazioni, pensieri improvvisi, divagazioni sono registrati senza formule introduttive e senza alcun filtro interpretativo da parte della voce narrante; nella forma più radicale (come nel celebre monologo di Molly ➜ T5 ), le libere associazioni di pensieri e ricordi sono riprodotte attraverso un periodo frantumato, privo di punteggiatura e di collegamenti logici. L’uso delle associazioni libere ha fatto pensare all’influenza della psicoanalisi (è infatti presente nel metodo di cura ideato da Freud, secondo il quale le associazioni libere traducono il linguaggio dell’inconscio). In realtà in questo, come in altri

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casi (a parte Svevo) non è documentabile un’influenza diretta della psicoanalisi sull’elaborazione letteraria del “flusso di coscienza”. Nel procedimento delle libere associazioni Joyce, per sua esplicita ammissione, si ispirò alla concezione elaborata dal filosofo americano William James nella sua opera fondamentale I princìpi di psicologia (1890): il pensiero non procede per atti successivi e isolati, ma in un fluire continuo di giudizi, intuizioni e associazioni, che non formano ancora il pensiero strutturato, cioè il pensiero consapevole, ma che sono importanti nel processo conoscitivo.

3 Thomas Mann, un testimone del Novecento Dal mondo del commercio alla vocazione letteraria Thomas Mann nasce a Lubecca nel 1875: il padre è un ricco commerciante, la madre, di origine brasiliana, è appassionata di musica. Dopo la morte del padre (1891) la famiglia si trasferisce a Monaco; Thomas, che per mantenersi lavora presso una compagnia di assicurazioni, entra in contatto con i circoli artistici della città, insieme al fratello Heinrich, anch’egli scrittore, con cui nel 1897 compie anche un viaggio in Italia. Durante questo periodo inizia il romanzo I Buddenbrook, storia dell’ascesa e del declino di una ricca famiglia (in cui si può ravvisare quella dello scrittore stesso) attraverso quattro generazioni: pubblicato nel 1901, gli dà una fama immediata. Thomas Mann a Los Angeles, durante gli anni trascorsi negli Stati Uniti.

I primi romanzi, il nazionalismo Negli anni successivi Mann scrive e pubblica racconti, tra cui Tonio Kröger. Del 1905 è il matrimonio con Katija Pringsheim. Nel 1912 esce il romanzo breve La morte a Venezia (Der tod in Venedig); dello stesso anno il soggiorno della moglie al sanatorio di Davos gli ispirerà La montagna magica (Der Zauberberg, 1924), forse il romanzo più importante della sua vasta produzione. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, a differenza del fratello Heinrich, pacifista e socialista, si schiera a favore della guerra, sostenendo nelle Considerazioni di un apolitico la causa del nazionalismo tedesco: è convinto, come altri intellettuali del tempo, di scegliere una forza vitale contro la debolezza della vita borghese. L’evoluzione ideologica. La celebrità, l’esilio Solo dopo l’assassinio del ministro degli esteri della Repubblica di Weimar Walther Rathenau, ucciso da militanti dell’estrema destra, Mann mette in atto una revisione dei suoi ideali politici in senso democratico, come documenta il discorso Della Repubblica tedesca del 1923. Il successo della Montagna magica gli propizia il premio Nobel, che gli viene assegnato nel 1929; all’ascesa del nazismo, con la conferenza Dolore e grandezza di Richard Wagner (1933) si propone di sottrarre il musicista all’uso della propaganda hitleriana, suscitando le reazioni furiose del regime. Partito per una serie di conferenze all’estero, nonostante la sua celebrità, non può rientrare in Germania: comincia così il suo esilio, prima in Svizzera e poi dal 1938 negli Stati Uniti, dove insegna letteratura tedesca all’università di Princeton. Le ultime opere Intanto, tra il 1933 e il 1943, pubblica i quattro volumi del ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli, che ripropone, attraverso la figura dell’esule, ispirato al personaggio biblico, la ricerca di una soluzione alla crisi dell’uomo contemporaneo. Dall’ottobre del 1940 fino alla fine della guerra tiene una serie di trasmissioni alla Il tema della crisi e della decadenza 1 637

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BBC di Londra per appoggiare le forze alleate. Del 1947 è la pubblicazione del Doktor Faustus, espressione della sua visione pessimistica della Germania. Annoverato tra i “comunisti” dalla campagna scatenata dal senatore McCarthy, ritorna in patria (1949) per partecipare alle celebrazioni del bicentenario della nascita di Goethe e successivamente si stabilisce in Svizzera. Muore a Zurigo nel 1955.

I temi della decadenza e della malattia I Buddenbrook e Tonio Kröger La decadenza e la malattia sono i temi fondamentali nella vasta e complessa opera di Mann, connessi a quello dominante della funzione dell’arte nella società moderna. Nei Buddenbrook, la decadenza è rappresentata dalla sensibilità artistica di Hanno, l’ultimogenito di una ricca famiglia di Lubecca, che ne fa un “diverso”: il ragazzo, fragile emotivamente e fisicamente, non assomiglia per nulla agli esponenti delle precedenti generazioni, uomini dediti al commercio, forti e sicuri del loro compito e dei loro valori; Hanno, dotato di un grande talento musicale, ma pigro e svogliato a scuola, muore ancora ragazzo di tifo. Tonio Kröger, protagonista dell’omonimo racconto, come già Hanno, riflette aspetti autobiografici: all’inizio è un adolescente di famiglia borghese, appassionato di musica e poesia; a scuola è in conflitto con gli insegnanti e si sente diverso dai compagni. Diventato uno scrittore, segue nella solitudine il suo destino di artista, scisso tra la sua origine borghese, da cui non riesce a prescindere, e la missione scelta, da lui sentite come inconciliabili. Lontano spiritualmente dalla decadenza di valori del mondo artistico contemporaneo ma anche dalla borghesia, per cui prova «un pochino di disprezzo», considera elemento imprescindibile della vera arte l’amore per la vita, che definisce «il mio amore borghese verso le cose umane, viventi e mediocri».

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Sguardo sul cinema Luchino Visconti Morte a Venezia

La morte a Venezia Il racconto La morte a Venezia porta alle estreme conseguenze il tema della crisi dell’artista alla ricerca nella sua opera di valori positivi e di un ideale di classico equilibrio. Il protagonista – Gustav von Aschenbach, un affermato scrittore di mezza età – è giunto alla maturità artistica e alla fama, contrastando le proprie debolezze psicologiche e morali così da diventare con le sue opere un modello per l’educazione dei giovani nel suo paese. Improvvisamente preda di un angoscioso sentimento di insoddisfazione, spera di rasserenarsi con un viaggio in Italia. Sullo sfondo di una Venezia carica di presagi di morte, è irresistibilmente attratto dalla bellezza apollinea di Tadzio, un ragazzo polacco che soggiorna con la sua famiglia nello stesso albergo di cui è ospite lo scrittore. Pur consapevole del pericolo che corre nella città che sta per essere invasa da un’epidemia di colera, Aschenbach non si decide a partire, preda di una passione a cui non sa opporsi, anche se la considera degradante (lo scrittore arriva persino a tingersi i capelli, a truccarsi, per apparire più giovane). Morirà, forse vittima del colera, contemplando un’ultima volta, da lontano, l’immagine del giovane sulla spiaggia. Attraverso la parabola esistenziale di Aschenbach, Mann esprime una visione negativa del ruolo dell’artista nel suo tempo, incapace di contenere le forze irrazionali e le pulsioni distruttive e di esercitare un ruolo autorevole nella società. Alla crisi dell’artista corrisponde il declino di un’epoca: la malattia che colpisce Venezia e forse Aschenbach stesso è la metafora di una condizione umana degradata e corrotta sul piano sia psicologico e morale sia storico.

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La morte a Venezia I passi antologizzati ripercorrono i momenti più significativi del racconto: dall’arrivo del protagonista a Venezia all’incontro con Tadzio, al nascere della passione per l’adolescente, che culmina nel suo inseguimento per le calli di Venezia.

Thomas Mann

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Presagi di morte La morte a Venezia

T. Mann, Romanzi brevi, a c. di R. Fertonani, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano 1977

All’inizio del racconto, il protagonista si concede una breve pausa dal lavoro creativo per una passeggiata, segnata da presagi di morte: la visione di un uomo dall’aspetto di vagabondo, che evoca un paesaggio esotico e selvaggio, genera in lui irrequietezza e una giovanile frenesia, suscitandogli il desiderio di un viaggio verso la regione mediterranea. La prima meta scelta è un’isola dell’Adriatico, ma da lì, insoddisfatto, Aschenbach opta per Venezia.

Eccolo ancora una volta davanti a lui, l’approdo indescrivibile, l’abbagliante insieme di fantastiche costruzioni che la Serenissima1 offriva allo sguardo ammirato del navigatore in arrivo: la meraviglia lieve del Palazzo2 e il Ponte dei Sospiri3, le due colonne sulla riva col leone e il santo4, il fianco splendente del tempio favoloso5, 5 la prospettiva dell’arco e dell’orologio dei Mori; e guardando riflette che giungere a Venezia col treno, dalla stazione, era come entrare in un palazzo per la porta di servizio, e che in nessun altro modo se non per nave, dall’ampio mare, come lui ora, si sarebbe dovuto porre il piede nella città inverosimile tra tutte. Gli stantuffi6 si fermarono, le gondole fecero ressa; fu abbassata la scala levatoia, i 10 funzionari della dogana salirono a bordo per sbrigare le loro mansioni. Ormai si poteva sbarcare. Aschenbach riuscì a far intendere che voleva una gondola, per essere trasportato col suo bagaglio fino all’imbarcadero dei vaporetti che fanno servizio tra la città e il Lido7 [...]. Chi nel mettere piede per la prima volta, o dopo una lunga assenza, su una gon15 dola veneziana, non ha dovuto reprimere un brivido fugace, un senso segreto di disagio o di avversione? Giunto immutato a noi dai tempi delle ballate8, nero come nere al mondo sono soltanto le bare, lo strano legno evoca alla nostra mente tacite, delittuose avventure nel sussurro notturno delle acque; e soprattutto evoca la morte stessa, il feretro9, il corteo tetro, il silenzio dell’ultimo viaggio. E chi ha notato 20 che il sedile di tale barca, quel piccolo sofà verniciato di funebre nero, provvisto di tenebrosi cuscini10, è il più molle, invitante e rilassante di tutti i sedili? Di ciò si accorse Aschenbach non appena fu seduto ai piedi del gondoliere11, dirimpetto al 1 la Serenissima: Venezia. 2 del Palazzo: Palazzo Ducale, sede del doge e del governo della Repubblica, che s’affaccia su piazza san Marco e sulla Riva degli schiavoni, di fronte all’attracco dei traghetti. 3 Ponte dei Sospiri: il ponte sopraelevato, costruito nel XIV sec., che unisce palazzo Ducale alle prigioni dei Piombi. 4 le due... santo: le colonne portate nel XII secolo dall’Oriente che sorreggono il leone di san Marco e la statua di san Teodoro, simboli di Venezia.

5 il fianco... favoloso: il lato della basilica di San Marco, costruita a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, con elementi architettonici bizantini, romanici e gotici, adorna di mosaici con un effetto luminescente. 6 stantuffi: i pistoni del motore. 7 Lido: l’isola lunga e stretta che chiude la laguna. 8 dai tempi delle ballate: dai secoli del medioevo, quando furono composte le ballate popolari.

9 il feretro: la bara. 10 tenebrosi cuscini: cuscini rivestiti di tessuto nero, dello stesso colore delle gondole. 11 ai piedi del gondoliere: il barcaiolo sulla gondola rema a poppa, con un solo remo, stando in piedi, rivolto verso prua, dove trovano posto i passeggeri seduti nello scafo.

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suo bagaglio ben ordinato presso il rostro12. Fuori continuava il litigio dei barcaioli, rauco, incomprensibile, accompagnato da gesti di minaccia; ma nel silenzio peculia25 re alla città d’acque le voci parevano ammorbidirsi, divenire incorporee, disperdersi sulle onde. Nel porto faceva caldo. Blandito13 dal soffio tiepido dello scirocco14, trasportato su cuscini sopra il cedevole elemento15, il viaggiatore chiuse gli occhi, assaporando quell’inconsueta quanto dolce distensione. “Sarà breve il tragitto” pensò: “oh, potesse durare eterno!” E in un lieve dondolio si sentì portare fuori dalla 30 ressa e dalle voci altercanti16. Come tutto diventava quieto, sempre più quieto, intorno a lui! Null’altro si udiva che lo sciacquare del remo, il cupo tonfo delle onde contro il rostro della prora, che rigido e nero ergeva sull’acqua la punta alabardata17 [...]. 12 il rostro: è il ferro di prua; serve come abbellimento ma ha anche lo scopo di proteggere la prora da eventuali collisioni. 13 Blandito: accarezzato, cullato. 14 scirocco: vento caldo che spira da sud-est.

15 trasportato... elemento: abbandonato

17 la punta alabardata: è la decorazio-

sui morbidi cuscini sul pelo dell’acqua. 16 dalla ressa... altercanti: dalla folla e dalle voci di coloro che discutevano animatamente.

ne della prua della gondola, dalla forma di pettine terminante con una specie di alabarda.

online T1b Thomas Mann

online T1d Thomas Mann

Un’apparizione di bellezza seducente La morte a Venezia

Voglia di partire La morte a Venezia

online T1c Thomas Mann Sulla spiaggia La morte a Venezia

Thomas Mann

T1e

L’inseguimento dell’amato La morte a Venezia

T. Mann, Romanzi brevi, a c. di R. Fertonani, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano 1977

Deciso a lasciare Venezia, il protagonista si fa portare alla stazione; ma durante il tragitto è tormentato dai dubbi sulla decisione presa: mentre sta per partire scopre che il suo bagaglio è stato spedito a una destinazione sbagliata; la notizia è l’alibi per rimanere e tornare all’albergo. Mentre i segni del colera che incombe sulla città si fanno sempre più evidenti egli, disgustato dal suo corpo senile, si fa convincere a tingersi i capelli e a ringiovanirsi, nell’illusione di piacere all’amato. Così acconciato, insegue Tadzio per le calli di Venezia.

Soffiava un tiepido vento di burrasca, la pioggia cadeva rara e scarsa, ma l’aria era umida, densa, greve di esalazioni putride1. Frulli2, tonfi, sibili riempivano gli orecchi, davano al febbricitante imbellettato3 l’impressione di trovarsi in balia di un perfido stormo di spiriti del vento4, di quegli uccelli marini che adunghiano5, rodono, in1 putride: marce. 2 Frulli: frullìo, battito delle ali di uccelli che si alzano in volo. 3 febbricitante imbellettato: il protagonista che, dopo essersi fatto truccare dal

barbiere per sembrare più giovane, insegue Tadzio pur rendendosi conto di essere febbricitante. 4 perfido... vento: riferimento all’espressione che nel terzo libro dell’Eneide di

Virgilio indica le arpie, mitologici uccelli infernali, dal viso di donna, e a una profezia che qui è riecheggiata. 5 adunghiano: afferrano con le unghie.

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sozzano il cibo del condannato. L’afa in realtà serrava lo stomaco; la suggestione che le vivande fossero contagiate, avvelenate, era invincibile. Sulla traccia del suo bello6, un pomeriggio Aschenbach si era addentrato nell’intrico7 della città ammalata. In mezzo ai rii, alle calli, alle piazzette e ai ponti del labirinto, così somiglianti l’uno all’altro, aveva smarrito l’orientamento, non distingueva 10 più neppure i punti cardinali; ma a nulla pensava, fuorché a non perdere di vista l’immagine8 avidamente rincorsa. Obbligato a spregevoli cautele9, strisciava lungo i muri, cercava riparo dietro le schiene dei passanti, e a lungo non si accorse della stanchezza, della spossatezza inflitta al suo corpo e allo spirito dalla permanente tensione dei sensi. Tadzio camminava dietro ai suoi, lasciando di regola il passo, 15 nei punti stretti, alla governante e alle tre squallide ragazze; e allora, attardandosi, ogni tanto si guardava indietro, si accertava di sfuggita con un volger d’occhi – dei suoi occhi dall’inconfondibile grigio antelucano10 – che il suo amante11 continuasse a seguirlo; lo vedeva e non lo tradiva. E l’innamorato, fremente di gioia a quel riconoscimento, rimorchiato da quello sguardo, invescato12 nella passione, scivolava dietro 20 la sua mostruosa speranza: finché di colpo essa gli fu rapita alla vista. I polacchi13 avevano superato un ponte dall’aguzza campata; l’arco prominente li celò all’inseguitore, e allorché questi vi giunse in cima erano scomparsi. Li cercò in tre direzioni, prima in linea retta, poi a destra e a manca lungo la fondamenta14 stretta e sudicia: invano. Prostrazione e sfinimento lo costrinsero da ultimo ad abbandonare l’impresa. 25 La testa gli ardeva, il corpo era molle di un sudore viscido; sentiva un tremito alla nuca, provava una sete tormentosa, intollerabile. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che gli procurasse un immediato ristoro; in una botteguccia di ortaggi comprò delle fragole. Erano troppo mature, spappolate; ne mangiò un poco, senza sostare. Un campiello15 gli si aprì dinanzi, deserto, in una luce di sortilegio16. Lo 30 riconobbe: proprio lì, alcune settimane prima, aveva deciso il suo fallito tentativo di fuga. Si abbandonò sui gradini del pozzo che sorgeva nel centro; appoggiò il capo al sasso del parapetto. Nessun rumore si udiva; l’erba spuntava tra le commessure del lastrico17; intorno giacevano rifiuti. Tra le case circostanti, sbiadite dal tempo, disuguali d’altezza, ve n’era una dall’aspetto di palazzo: dietro le finestre ogivali18 35 si vedeva il vuoto, i balconcini erano ornati da statue di leoni. Al pianterreno di un’altra casa c’era una farmacia. Portato dal vento caldo, giungeva a tratti odore di acido fenico19. Lì sedeva lui, il maestro, l’artista che aveva raggiunto la dignità, l’autore del Miserabile20, lo stesso che in così esemplare purezza di forma aveva ripudiato lo 40 spirito zingaresco e la tenebra degli abissi, che aveva rinnegato ogni simpatia per l’abiezione21 e vituperato il vituperevole22; lui che era asceso al sublime, che aven5

6 del suo bello: del giovane che con la sua bellezza ha suscitato la passione senile dello scrittore. 7 nell’intrico: nell’intersecarsi labirintico della città preda dell’epidemia. 8 l’immagine: la figura di Tadzio. 9 spregevoli cautele: le precauzioni per non farsi vedere, inadeguate alla sua età e al suo decoro. 10 antelucano: del colore dell’albore che precede il sorgere del sole. 11 il suo amante: l’anziano scrittore, di cui il ragazzo ha intuito la passione per lui.

12 invescato: invischiato, intrappolato. 13 I polacchi: Tadzio e la sua famiglia so-

18 ogivali: a forma di ogiva, cioè a sesto

no polacchi, come Aschenbach ha capito dalla lingua che parlano. 14 la fondamenta: la strada che costeggia il canale. 15 campiello: termine veneziano per indicare una piccola piazza. 16 di sortilegio: di un incantesimo. 17 le commessure del lastrico: le connessioni della pavimentazione.

19 acido fenico: un disinfettante di gran-

acuto, tipico dello stile gotico. de potere antisettico.

20 Miserabile: titolo di una sua opera. 21 abiezione: il vizio e la degradazione morale.

22 vituperato il vituperevole: condannato e disprezzato ciò che meritava il biasimo per comportamenti spregevoli. 23 soggiogato: sottomesso.

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do soggiogato23 il proprio sapere, superato lo stadio dell’ironia, s’era abituato agli obblighi imposti dalla generale considerazione, l’uomo dalla fama ufficiale, dal nome nobilitato, il creatore di uno stile al quale i fanciulli erano chiamati a ispirarsi. Lì 45 era seduto, con le palpebre chiuse; solo a scatti le alzava per subito riabbassarle, lasciando guizzare di straforo24 un’occhiata sconcertata e beffarda; e dalle labbra cascanti, lucide di belletto, uscivano smozzicati brandelli25 di un ragionamento che il suo cervello semiassopito andava intessendo come in sogno. 24 di straforo: furtivamente. 25 smozzicati brandelli: frammenti confusi.

Analisi del testo Un racconto strutturato per opposizioni Dai passi antologizzati emerge la struttura oppositiva del racconto, in stretta relazione con il significato simbolico della vicenda narrata, a cominciare dall’arrivo dello scrittore a Venezia (➜ T1a ): alla bellezza luminosa della città – le cui opere s’impongono alla sua vista suscitando su di lui un fascino profondo – si contrappone l’immagine funerea della gondola, evocatrice di un senso di morte. La stessa presentazione di Tadzio (➜ T1b OL) è connotata dall’ambiguità: il suo aspetto è bellissimo, ricorda la statuaria classica (la celebre scultura greca dello Spinario), ma nello stesso tempo il suo atteggiamento sembra portare in sé qualcosa di malato. La contemplazione del mare (➜ T1c OL) è segnata dalla serenità, da un apparente dominio delle passioni; anche l’apparizione di Tadzio sembra avvalorare l’armonia interiore suscitata in Aschenbach dalla vastità delle acque, ma il paesaggio contemplato nella sua pace rappresenta «l’indeterminato, l’eterno, […], il nulla» e quindi in qualche modo allude alla morte. Ben presto l’equilibrio e l’armonia intorno al protagonista svaniscono: il disfacimento di Venezia, con i miasmi che la pervadono (➜ T1d OL), è preannuncio e simbolo della malattia, fisica e morale di un’epoca, che si estende al protagonista stesso, trasformato dalla sua illusione di ringiovanimento in un’immagine deteriorata, grottesca e disgustosa. L’inseguimento di Tadzio per le calli di Venezia (➜ T1e ) riflette l’antitesi incarnata da von Aschenbach: da una parte esprime l’aspirazione alla bellezza, che sembra però ormai irraggiungibile per l’artista, dall’altra rappresenta il cedimento alla tentazione, l’infrazione delle regole morali. L’immagine ideale dell’anziano scrittore («Lì sedeva lui, il maestro, l’artista che aveva raggiunto la dignità...») si contrappone alla sua misera realtà presente; la sua immagine degradata non rappresenta però il richiamo al dovere e alla missione morale quanto la condanna dell’artista che si è illuso di sottrarsi alla crisi, cercando di ignorare una parte profonda del suo mondo interiore.

Il punto di vista Il racconto è narrato in terza persona, da un narratore esterno, ma il punto di vista dominante è quello del protagonista: nei passi antologizzati le descrizioni dell’ambiente, nei diversi momenti della vicenda, sono filtrate dallo sguardo di Aschenbach; lo stesso succede nella descrizione dei personaggi, in particolare di Tadzio, che è veicolata attraverso lo sguardo del protagonista e ne rispecchia i mutevoli stati d’animo. Se il punto di vista prevalente è quello del protagonista, non mancano però interventi diretti del narratore che in questo modo stabilisce una distanza, per sottolineare la sua non totale identificazione con il personaggio (ad es.: «A quasi ogni natura di artista è innata una tendenza procace e proditoria ad ammettere ingiustizie creatrici di bellezza, a mostrarsi comprensivo e benigno di fronte a un’aristocratica predilezione» ➜ T1b OL, rr. 23-25).

Uno stile “classico” Come le altre opere di Mann, La morte a Venezia si distingue nel panorama narrativo dell’epoca per la fedeltà a un ideale di equilibrio formale, ben distante dallo sperimentalismo e dal radicalismo di altri grandi interpreti della modernità. Lo stile “classico” di Mann è contraddistinto dalla complessa costruzione del periodo, a cui lo scrittore affida le lunghe riflessioni intellettuali e le analisi degli stati d’animo. Nei passi antologizzati è frequente l’uso dell’enumerazione con un effetto di amplificazione in funzione dell’intensità delle percezioni e degli stati d’animo del protagonista: in T1a il procedimento si nota nell’elenco prima dei monumenti, che rende l’emo-

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zione intensa provata dal protagonista al suo arrivo a Venezia, poi dei gesti che predispongono l’arrivo del traghetto (con la coordinazione per asindeto) a cui si contrappone l’incisività della conclusione «Ormai si poteva sbarcare», quasi un’anticipazione della conclusione drammatica del viaggio. Nella successiva descrizione della gondola l’accumulo («il feretro, il corteo tetro, il silenzio») si accompagna alla ripetizione (evoca... evoca), che accresce l’oppressione interiore già enunciata: «un brivido fugace», «un senso segreto di disagio». Il procedimento è ripreso nei brani successivi: ad esempio in T1c OL, con un effetto di climax: «verso l’inarticolato, l’indeterminato, l’eterno, verso il nulla»; in T1e nella requisitoria che contrappone il passato di impegno dello scrittore al suo abbandono presente alla passione, in abbinamento alla ripetizione (lui... lui).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Il T1b OL si conclude con una riflessione del narratore sul rapporto degli artisti con la bellezza fisica: quali atteggiamenti mette in rilievo? ANALISI 2. In T1e durante l’inseguimento da parte dello scrittore, Tadzio viene definito «la sua mostruosa speranza»: spiega il significato dell’espressione. 3. Esponi con le tue parole il contrasto che in T1e viene delineato tra il passato e il presente di von Aschenbach. 4. Analizza lo stato d’animo di Aschenbach mentre viene trasportato dalla gondola: a. quale sentimento è evidenziato? Sottolinea gli aggettivi che lo definiscono. b. osserva l’uso della punteggiatura: quale funzione ha il punto esclamativo? 5. Nei testi sono presenti alcune descrizioni di Venezia corrispondenti a tre momenti diversi: l’arrivo del protagonista, la decisione di rimandare la partenza, l’inseguimento di Tadzio. Delinea ogni circostanza l’immagine della città: c’è un nesso con lo stato d’animo del protagonista?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di massimo tre minuti Alla luce dei testi proposti esponi la concezione della condizione dell’artista delineata da Mann in Morte a Venezia. Quali significati assume il personaggio di Tadzio? TESTI A CONFRONTO 7. Confronta l’episodio del primo incontro di von Aschenbach con Tadzio nel racconto con la sequenza corrispondente del film qui sotto descritta: quali analogie e differenze noti? Il regista esprime l’ambiguità dell’incontro tra il protagonista e Tadzio intrecciando la descrizione oggettiva dell’ambiente alla sua percezione da parte del protagonista. Aschenbach entra nel salone del Grand Hotel mentre l’orchestra suona musica di un’operetta; una lunga panoramica lo segue mentre si aggira alla ricerca di un posto, tra grandi mazzi di fiori, paralumi colorati, ospiti in frac. Siede e si guarda attorno distrattamente. La macchina da presa inquadra, in soggettiva, la famiglia polacca e, per ultimo, Tadzio quindi Aschenbach che lo osserva. Una nuova panoramica collega l’adolescente al protagonista, riprendendo tutto il salone. Quindi il regista inquadra/riprende l’orchestra, Aschenbach e il direttore dell’albergo che si aggira tra i clienti. Quindi un primo piano di Tadzio – che sembra ancora una soggettiva – si allarga indietro fino a comprendere – per la prima volta nella stessa inquadratura – l’osservatore e l’osservato.

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Per approfondire L’influenza di Nietzsche

Illustrazione di Maurice Denis per La morte a Venezia di Thomas Mann.

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La montagna magica La conclusione del racconto La morte a Venezia avrebbe potuto comportare per lo scrittore il silenzio. Mann affronta invece di nuovo il tema della crisi, riproponendo la metafora della malattia, nel romanzo La montagna magica, frutto di una lunga gestazione durata dal 1912 al 1924. L’opera, considerata da molti il capolavoro di Mann, può essere definita un romanzo di formazione, che ha per protagonista non più un artista ma un normale borghese senza particolari doti intellettuali. La malattia, da cui casualmente scopre di essere affetto, rappresenta una condizione eccezionale che gli permette di vivere al di fuori della normalità, affinando la sua sensibilità. L’incontro con vari personaggi e concezioni del mondo diverse determinerà in lui un lungo percorso di conoscenza di sé e della vita. La montagna magica è considerata un romanzo-saggio, in quanto alla narrazione affianca riflessioni sulla crisi dell’uomo del Novecento. Il protagonista, Hans Castorp, un giovane ingegnere di Amburgo, in occasione di una visita a un cugino ricoverato nel sanatorio di Davos, è trattenuto dal primario che gli diagnostica un focolaio di tubercolosi: la sua permanenza nella casa di cura si protrarrà per sette anni. Hans si adatta a poco a poco alla sua nuova vita, si abitua ai rituali e alle consuetudini del sanatorio, sempre più coinvolto nell’atmosfera di questo mondo isolato nella natura – un universo in sé compiuto – e irresistibilmente attratto da un’affascinante signora russa, madame Chauchat, di cui si innamora. Mentre la prima parte del romanzo si svolge in una dimensione quasi incantata (in Italia, il titolo con il quale è stato a lungo indicato il romanzo è proprio La montagna incantata), vitale, a tratti festosa, la seconda è sotto il segno delle conversazioni filosofiche e politiche di due ospiti del sanatorio. Uno, l’italiano Lodovico Settembrini, portavoce della civiltà occidentale e dello spirito democratico, con la sua tradizione umanistica e illuministica, cerca di far rinascere nel protagonista l’interesse per la vita, sollecitandolo a sottrarsi al fascino della “montagna incantata”; l’altro, Leo Naphta, una strana figura di gesuita di origine ebrea, contrappone con abilità dialettica alla concezione positiva del suo antagonista nei confronti dell’umanità l’esaltazione della violenza e di un ordine politico assoluto e gerarchico, da realizzare con la rivoluzione. Sono incarnazioni del conflitto fra ragione e misticismo, tra liberalismo e irrazionalismo, le opposte filosofie dominanti nel dibattito culturale in Germania e in Europa all’inizio del secolo. Allo scoppio della prima guerra mondiale il protagonista ritrova il desiderio di abbandonare quel microcosmo ovattato e di tornare a vivere nella realtà. Lascia il sanatorio per arruolarsi come volontario, nonostante sia consapevole di poter andare, forse, incontro alla morte: con la sua scelta sente di essere partecipe del destino degli altri uomini.

Thomas Mann e le sue opere Morte a Venezia (1912) La montagna magica (1924) tradizione letteraria ottocentesca

tendenze filosofico-culturali novecentesche

descrizione della decadenza morale della borghesia attraverso la metafora della “malattia”

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4 Marcel Proust: il romanzo della memoria L’infanzia Marcel Proust nasce nel 1871 ad Auteuil, sobborgo di Parigi, in un contesto sociale e culturale elevato: la madre apparteneva alla ricca borghesia ebraica; il padre, era un medico di fama, con importanti incarichi pubblici. La fragilità fisica, dovuta a una seria forma d’asma, e un’acuta ipersensibilità assecondano un intenso legame di Marcel con la madre, che gli trasmette l’amore precoce per la lettura. Durante la sua infanzia lo scrittore trascorre le vacanze a Illiers (che nella Recherche diventa il luogo-simbolo Combray).

Ritratto fotografico di Proust nel 1895.

La frequentazione dei salotti parigini, l’influenza di Bergson e Ruskin Durante gli anni di università (si iscrive alla facoltà di diritto), Proust frequenta i salotti parigini dove conosce scrittori e artisti famosi; del 1892 è l’amicizia con il filosofo Henri Bergson, la cui teoria del tempo (➜ SCENARI, PAG. 519) avrà grande influenza sull’ideazione della Recherche. Dopo la laurea in legge, consegue anche quella in lettere, ma la salute cagionevole e l’agiatezza economica della famiglia lo inducono a evitare il carico di un impegno di lavoro: la sua vita trascorre fra i salotti dell’aristocrazia, fonte di ispirazione per la sua vena artistica, le relazioni sentimentali e le molte amicizie. Il suo gusto estetico si forma sulla lettura dei saggi del critico inglese John Ruskin, figura di riferimento del gusto estetizzante di fine secolo, che Proust traduce in francese assimilandone profondamente la lezione. Il monumentale progetto della Recherche La morte della madre, nel 1906, lo prostra psicologicamente e determina un peggioramento dell’asma di cui soffre; dopo un ricovero in clinica, soggiorna a Cabourg in Normandia (un altro luogo simbolo dell’infanzia e dell’adolescenza). Nel 1908 Proust progetta un monumentale romanzo: À la recherche du temps perdu, Alla ricerca del tempo perduto, insieme autobiografia e affresco dell’alta società francese. Nel 1913 pubblica a sue spese il primo volume, Dalla parte di Swann. La stesura del romanzo avviene in una condizione di totale isolamento, che assume tratti quasi patologici: Proust vive chiuso nella sua camera dell’appartamento a Parigi dedicandosi totalmente alla composizione della sua opera, fino alla morte nel 1922. Tra il 1919 e il 1922 sono pubblicate la seconda, terza e quarta parte dell’opera (All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra). Le ultime tre parti – La prigioniera, Albertine scomparsa (La fuggitiva) e Il tempo ritrovato – usciranno postume. La chiave di lettura della Recherche: il tempo perduto e ritrovato Tema dell’opera sono i ricordi del narratore, ma meglio sarebbe dire le emozioni che accompagnarono le tappe della sua formazione sentimentale, oggetto di una costante e sottile analisi. Il percorso memoriale è accompagnato dalla riflessione sui meccanismi che lo caratterizzano: il narratore chiarisce che è il risultato di una vera e propria “ricerca” (come indica il titolo), volta a sottrarre il passato all’oblio trasformando il “tempo perduto” in “tempo ritrovato”. In un famoso passo (➜ T2 ) Proust spiega che non basta lo sforzo volontario a riportare alla coscienza il passato che abbiamo vissuto e dimenticato; solo la memoria involontaria, attraverso la sollecitazione casuale della sfera inconscia della Il tema della crisi e della decadenza 1 645

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psiche, riesce là dove la memoria volontaria fallisce: il passato rivive veramente attraverso quelle che il narratore chiama «le intermittenze del cuore», cioè nei momenti in cui riaffiorano le sensazioni, percezioni ed emozioni vissute in un particolare momento. Attraverso questo processo memoriale l’io che le ha vissute rivive nella sua totalità.

Il filo narrativo della Recherche I ricordi e le emozioni di una vita Attraverso i suoi ricordi il narratore ripercorre la sua vita dall’infanzia all’adolescenza all’età adulta senza tuttavia organizzarli in una trama vera e propria. La rievocazione non segue infatti un filo temporale univoco e non vuole ricostruire gli eventi: più importanti risultano le emozioni vissute, le modalità e le circostanze che hanno reso possibile il recupero memoriale di esse; intorno agli elementi evocati, si intrecciano così le analisi psicologiche, le riflessioni filosofiche ed estetiche. Dalla parte di Swann La prima sezione del primo volume, intitolata Combray, è incentrata sui ricordi d’infanzia del narratore: le vacanze trascorse a Combray (nome di fantasia) a casa della nonna con le passeggiate nelle vicinanze del castello dei Guermantes, una famiglia aristocratica che per il bambino era fonte di fantasticherie e di grande fascino proprio perché inaccessibile. Spicca la figura del signor Swann, elegante e di gusti raffinati, che frequentava la casa dei genitori, impedendo al bambino in quelle occasioni di avere il bacio della buonanotte dalla madre. Alla passione travolgente dell’amico di famiglia per una demi-mondaine, Odette de Cracy, è dedicata la seconda parte, Un amore di Swann: la gelosia apparentemente inspiegabile di Swann per una donna di facili costumi, così inferiore a lui per estrazione sociale e per cultura, è l’occasione per una profonda analisi dei meccanismi dell’amore che sfuggono al controllo e alla spiegazione razionale. Tra i personaggi di questa parte emergono i Verdurin, borghesi arricchiti con ambizioni culturali, in competizione con i salotti aristocratici della capitale. Alla fine il narratore rievoca l’amore adolescenziale per Gilberte, la figlia di Swann e Odette; il sentimento, inconfessato e non corrisposto, è fonte di una varietà di emozioni: attese, frustrazioni e delusione, ma anche brevi attimi di felicità. All’ombra delle fanciulle in fiore Proust narra la fine della relazione amorosa con Gilberte, segnata dai comportamenti contraddittori del narratore: la decisione di non vedere Gilberte nella speranza che questo la induca ad amarlo, le visite al salotto di madame Swann per sentir parlare di lei; la fine della storia è accompagnata da una riflessione sull’impossibilità di essere felici. Seguono altri incontri femminili sulla spiaggia di Balbec (anche questo nome di fantasia, che evoca i soggiorni dello scrittore nelle località di mare della Normandia), con nuovi amori e successive disillusioni. I Guermantes Nel terzo volume il narratore va ad abitare con i genitori un appartamento nello stesso palazzo dei duchi di Guermantes, mito della sua infanzia; si innamora di Oriane di Guermantes e aspira ad essere ammesso al suo famoso salotto, ma le sue aspettative restano deluse dalla mediocrità dei partecipanti. Anche Sodoma e Gomorra è incentrato sul salotto aristocratico dei Guermantes dove il narratore scopre l’esistenza degli amori omosessuali.

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Nei due volumi successivi La prigioniera e Albertine scomparsa (La fuggitiva), il tema conduttore è l’amore del narratore per Albertine, reso però ben presto infelice dai dubbi sulla fedeltà dell’amata e sulle sue amicizie femminili: il meccanismo psicologico della gelosia, acutamente analizzato come il vero fondamento del rapporto, lo porta a rendere Albertine prigioniera per poterla controllare; anche la sua fuga e la sua morte accidentale per una caduta da cavallo non pongono fine al contorto legame. Il tempo ritrovato Il capitolo racconta ciò che si svolge alcuni anni dopo: alla fine del conflitto mondiale un incontro mondano nel palazzo dei Guermantes riporta in scena molti personaggi del passato mentre diversi nel frattempo sono morti; per alcuni la vita e il tempo hanno segnato il decadimento non solo fisico ma anche sociale, per altri invece il successo. Il narratore capisce che è pronto per iniziare l’opera a cui pensa da tutta la vita e che ha sempre rimandato. Da quanto detto si comprende che nell’opera di Proust è costante l’intersezione e la dialettica passato-presente: il narratore adulto spiega le circostanze in cui si è prodotta la memoria involontaria e quindi procede a rievocare quel passato che sembrava perduto per sempre e che attraverso essa è invece riemerso alla coscienza. Un romanzo autobiografico? Numerosi sono stati i tentativi di individuare i modelli reali per i personaggi e per i luoghi della Recherche: le località descritte sono state identificate, sulla base di corrispondenze più o meno marcate, con quelle familiari a Proust, la vita del narratore è stata sovrapposta a quella dello scrittore, cercando di dare nomi storici ai diversi personaggi dell’opera. La critica moderna tende ormai a distinguere nettamente l’uomo dallo scrittore e, ancor più, dalla voce narrante, cioè dal personaggio romanzesco che racconta in prima persona, ma d’altra parte Proust stesso, pur avendo messo in guardia gli studiosi dalla tentazione di ricercare i legami tra la sua vita e la finzione romanzesca, ammetteva che «non è possibile separare la nostra vita dalle nostre opere». Nella Recherche non vi sono indicatori temporali espliciti da parte del narratore in merito alle fasi della sua vita, ma vari riferimenti (dall’affare Dreyfus che divise l’opinione pubblica francese, alle innovazioni tecnologiche come l’automobile, l’aeroplano e il telefono, alla prima guerra mondiale) collocano il racconto tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e la fine del primo conflitto in corrispondenza esatta con la vita dello scrittore. Di certo inoltre la Recherche rappresenta un grande affresco di quel mondo alto-borghese e aristocratico (l’aristocrazia del Faubourg Saint-Germain, sulla riva sinistra della Senna) che Proust ben conosceva per averlo personalmente frequentato e che nell’opera viene minuziosamente rappresentato nelle sue abitudini e nei suoi interessi: l’eleganza e la ricercatezza, i gusti letterari, gli amori. Se non ha particolare senso istituire corrispondenze precise tra la vita, gli amori, le amicizie di Proust e le figure che popolano la Recherche, di certo lo straordinario affresco dell’opera è imprescindibile dall’esperienza di vita dello scrittore. Una scrittura raffinata e complessa La caratteristica che più colpisce il lettore dalla scrittura della Recherche è la lunghezza e la complessità dei periodi: dilatati da subordinate e incisi, occupano diverse righe o anche un’intera pagina, come si può ben vedere anche nel passo antologizzato (➜ T2 ). La particolare densità e ricchezza del periodare proustiano non è fine a sé stessa: corrisponde infatti alla molteplicità delle emozioni, delle immagini del passato che lo scrittore vuole analiticamente ricostruire e fermare sulla pagina. Il tema della crisi e della decadenza 1 647

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Contraddistingue lo stile della Recherche anche l’uso insistito della metafora: anche in questo caso non si tratta semplicemente di un artificio stilistico destinato a impreziosire la scrittura. La metafora, mettendo in evidenza l’analogia tra elementi diversi, esprime uno sguardo nuovo sulle cose, rivela le corrispondenze fra il livello delle sensazioni e quello dell’interiorità più profonda, che è fuori dal dominio della pura intelligenza. Un solo esempio: il tovagliolo che il narratore usa nella serata finale dai Guermantes, gli evoca l’asciugamano usato a Balbec di fronte al mare. Per suggerire il percorso interiore che collega i due momenti Proust usa una straordinaria immagine metaforica: «dispiegava nei suoi lembi e nelle sue pieghe il piumaggio d’un oceano verde azzurro come la coda di un pavone». La figura retorica, come si vede in questo caso, dà forma al ricordo, stabilendo un legame tra ciò che il tempo e lo spazio separano.

Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto (1913-1922)

recupero del passato per ritrovare la propria natura

memoria volontaria

memoria involontaria

non può rievocare tutto

si attiva casualmente e riporta ricordi “cancellati”

Manoscritto di Marcel Proust Du côté de chez Swann del 1913.

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Marcel Proust

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L’esempio più celebre della “memoria involontaria”

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Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1993

Quello che presentiamo è certo il passo più celebre dell’intera opera di Proust. Tratto dalla parte iniziale del primo volume, che rievoca l’infanzia del narratore, esso illustra in forma emblematica la concezione della memoria sottesa alla narrazione della Ricerca del tempo perduto: mentre la memoria volontaria (definita nella parte che precede anche memoria «dell’intelligenza») non risulta in grado di far rivivere il passato, l’intensa esperienza emotiva suscitata da un fatto apparentemente banale (il sapore di un biscotto intinto nel tè) rappresenta per il narratore una sorta di rivelazione, capace di ricostituire «l’immenso edificio del ricordo».

Così è per il nostro passato1. È uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima 5 di morire, oppure che non lo incontriamo mai. Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me2, quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, 10 non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti3 che chiamano petites madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”4. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello 15 stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà5 mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, 20 colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente6, mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella 25 quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro7 sembra diminuire. È chiaro che

1 Così... passato: nelle righe che precedono è citata la leggenda celtica della trasmigrazione delle anime: prigioniere in esseri inferiori, le anime dei morti sono perdute, ma possono essere liberate se sono riconosciute dai vivi nell’oggetto che le contiene.

2 Erano... me: i ricordi del protagonista narratore, fino a questo momento, erano stati imperniati sul suo rapporto infantile con la madre e sulla fatica di separarsi da lei al momento di andare a dormire; teatro è “il luogo”, cioè la casa, dove il dramma della separazione era rivissuto tutte le sere.

3 paffuti: dalla forma rigonfia. 4 modellati... “cappasanta”: i piccoli dolci richiamano il guscio rigato di un mollusco, la capasanta. 5 voluttà: sensazione di piacere. 6 contingente: accidentale e connesso a una dimensione temporale circoscritta e come tale destinato a finire.

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la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle 30 chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stesso; quando il cercatore fa tutt’uno con il paese ignoto dove la ricerca deve aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla8. Cercare? Di più: 35 creare. Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce9. Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. Cercherò di farla riapparire. Retrocedo 40 col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione 45 dai rumori della stanza accanto. Ma quando m’accorgo che il mio spirito s’affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos’altro, a ritemprarsi10 prima di un tentativo supremo. Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, 50 che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato11 a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate. A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo con55 fusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile vortice dei colori rimescolati12; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore13, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. 60 Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell’istante remoto che l’attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so. Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui. E ogni volta la viltà che ci

7 la virtù del filtro: il tè ha assunto per il narratore la funzione e il potere di una pozione magica. 8 quando il cercatore... nulla: il narratore considera il suo spirito inadeguato alla ricerca intrapresa in quanto esso coincide con il luogo in cui questa dovrebbe avvenire; in altre parole, cercare dentro di sé

è operazione complessa, per cui gli strumenti intellettuali («tutto il suo bagaglio») si rivelano inadeguati. 9 nel raggio della sua luce: nella sua capacità di illuminare con un significato. 10 ritemprarsi: ricostituire le forze. 11 disancorato: liberato da un’ancora che lo tratteneva nel profondo.

12 l’inafferrabile... rimescolati: l’immagine che affiora dal passato è percepita solo come un vortice non identificabile di colori mescolati. 13 tradurmi... sapore: rendere chiaro il ricordo evocato dal sapore della madeleine.

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distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare14 senza troppa fatica. E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella 70 sua camera da letto, zia Léonie15 mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m’aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s’era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbando75 nati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente16 sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota17 – erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un lontano passato non 80 rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo. 85 E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito (benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice18) la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino 90 e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento19); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua 95 dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee20 della Vivonne21, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che 100 sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. 65

14 rimasticare: il verbo, usato in senso

16 grassamente: intensamente (ma c’è

19 all’unico... momento: al solo luogo di

traslato, esprime la capacità da parte del narratore di dominare e far propri fastidi e desideri, cioè i pensieri consci rispetto alla sensazione provata, sfuggente e non identificabile (appartenente al passato e per molto tempo cancellata) dalla memoria volontaria. 15 zia Léonie: la prozia del narratore, che viveva chiusa nella sua casa.

anche un’allusione alla forma bombata del pasticcino). 17 devota: nel ricordo del narratore la madeleine si associa al rito della domenica mattina, nel cui ambito non è escluso che «la pieghettatura» possa alludere a quella di sobrie cuffiette femminili. 18 benché... felice: “la scoperta” avviene nel Tempo ritrovato (➜ T3 OL).

Combray che ricordava con la memoria volontaria. 20 ninfee: piante acquatiche. 21 Vivonne: il fiume che scorre in prossimità della cittadina, nella realtà l’Illiers.

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Analisi del testo Il recupero del passato attraverso un’esperienza sensoriale Il meccanismo della memoria involontaria, attraverso cui avviene il recupero vivido del passato, è qui descritto attraverso un percorso complesso, che alterna, come è consueto nella scrittura proustiana, narrazione e analisi. Alla riflessione del narratore sull’inutilità di tentare di evocare il passato attraverso lo sforzo razionale segue il celebre resoconto dell’«intermittenza del cuore», attivata dall’assaporamento casuale di un biscotto (una madeleine) inzuppato nel tè. Ne ripercorriamo sinteticamente le tappe: 1) Il narratore prova sorpresa e una sensazione improvvisa e inspiegabile di felicità (rr. 15-17). Seguono gli sforzi per spiegarla, attraverso la ripetizione del gesto, senza che però il narratore riesca a trovar la ragione di quello stato d’animo “speciale”. 2) L’ultimo tentativo lo rende consapevole che qualcosa sta muovendosi nel profondo del suo io, che tuttavia non emerge ancora alla coscienza («dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; [...] Ma troppo lontano troppo confusamente si dibatte»). Quel “qualcosa” è troppo remoto, stenta a emergere, nonostante la forte sollecitazione, che l’autore sottolinea attraverso il climax del verbo: «quell’istante remoto che l’attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo». 3) Infine avviene l’improvvisa rivelazione («E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me») e dall’associazione tra la sensazione presente e quella vissuta nell’infanzia emerge il passato «tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè». Le associazioni mentali che ne conseguono (il narratore collega il sapore della madeleine alle domeniche trascorse a Combray con la zia Léonie) ricostituiscono nella sua pienezza «l’immenso edificio del ricordo».

Il ruolo chiave delle percezioni sensoriali È significativo che l’intero processo dell’«intermittenza del cuore» e del recupero memoriale sia attivato dal campo sensoriale (in questo caso il sapore della madeleine), che esercita dunque un ruolo fondamentale per Proust, come lo scrittore asserisce in un punto fondamentale del testo (rr. 80-85): «Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla [...] l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo».

Le figure retoriche della metafora e della metonimia Il critico Gérard Genette, uno dei più importanti studiosi dell’opera di Proust, ha individuato come ricorrente nella Recherche la stretta connessione di due procedimenti, quello metaforico e quello metonimico, basati sulla relazione di parole di campi semantici rispettivamente diversi e simili: «In Proust esiste [...] una frequentissima collusione fra la relazione metaforica e la relazione metonimica, sia che la prima venga ad aggiungersi alla seconda come una specie d’interpretazione superdeterminante, sia che la seconda, nelle esperienze della “memoria involontaria” dia il cambio alla prima per ampliarne l’effetto e la portata». Le sensazioni che attivano il ricordo sono per metafora (come) «goccioline quasi impalpabili» mentre il riconoscimento del sapore della madeleine rievoca il mondo di Combray secondo il meccanismo della metonimia, per cui un frammento (in questo caso il piccolo dolce) per contiguità rappresenta un “tutto” (secondo Genette diventa una sorta di «detonatore analogico»), cioè tutto il suo mondo memoriale infantile.

Il recupero memoriale come superamento dei limiti dell’esistenza Nel passo il narratore protagonista descrive la sensazione di felicità suscitata in lui dall’assaporamento della madeleine attraverso due fasi, di cui la prima consiste in un annullamento dei problemi dell’esistenza, la seconda dei limiti nella percezione temporale dell’io, entrambe scandite ed enfatizzate dal climax (rr. 16-20). La spiegazione del perché l’esperienza sensoriale provocata dalla madeleine l’abbia reso «tanto felice» è fornita dall’io narrante solo alla fine dell’opera; nell’ultimo volume della Recherche, Il tempo ritrovato, in occasione della matinée nel palazzo dei Guermantes analoghe «intermittenze del cuore» riportano alla luce gesti ed episodi del passato. Finalmente al narratore protagonista appare chiara la causa di quella felicità, che identifica nel carattere extratemporale delle sensazioni provate e nella possibilità di diventare lui stesso, attraverso di esse, un essere fuori della dimensione del tempo, incurante delle «vicissitudini del futuro», e quindi anche della paura della morte, e capace di cogliere l’essenza delle cose.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il brano in sequenze dando ad ognuna di esse un titolo. COMPRENSIONE 2. Che cosa prova il narratore quando assaggia la madeleine? ANALISI 3. Il passo è esemplare (e non a caso sempre antologizzato) non solo per il tema fondamentale dei processi memoriali ma anche perché testimonia con grande evidenza la profondità e sottigliezza dell’analisi psicologica che contraddistingue la Recherche: fornisci un campionario di questa caratteristica dell’opera e delle espressioni e degli aggettivi usati dal narratore in rapporto alla varietà delle emozioni vissute dal protagonista-narratore. STILE 4. Ripercorri le tappe del processo di svelamento della sensazione di felicità: a quale o quali aree semantiche appartiene il lessico usato per descriverlo? 5. Prendi in esame nel testo alcuni momenti della complessa costruzione delle frasi: c’è una corrispondenza fra la struttura sintattica e il processo psicologico descritto?

Interpretare

SCRITTURA 6. Il recupero memoriale attivato dalle percezioni sensoriali è al centro del passo. Hai mai provato sensazioni simili a quelle del narratore, sollecitate da odori o sapori? Hai mai provato le intermittenze del cuore?

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online T3 Marcel Proust

«Un essere extratemporale»: un “io” fuori dal tempo Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato

5 James Joyce: il romanzo della “quotidianità”

Ritratto fotografico di James Joyce del 1915

La formazione James Joyce nasce nel 1882 a Dublino; il padre è un acceso sostenitore dell’indipendenza dell’Irlanda dall’Inghilterra, la madre una fervente cattolica. Dopo aver frequentato scuole rette dai gesuiti, si iscrive all’università di Dublino, alla facoltà di lingue e letterature straniere, dove si laurea nel 1902, specializzandosi in francese e italiano, ma le sue conoscenze linguistiche sono varie e le sue letture spaziano dai classici greci e latini, ai filosofi medievali (da Aristotele a Tommaso d’Aquino) agli autori della tradizione letteraria inglese, italiana e francese, oltre ai contemporanei. Matura ben presto un atteggiamento critico nei confronti del moralismo e della chiusura del mondo culturale irlandese rispetto alle esperienze artistiche europee contemporanee.

I viaggi, Trieste e le prime opere Dal 1905 comincia il suo volontario esilio dall’Irlanda, interrotto solo da alcuni brevi ritorni; dopo aver viaggiato a Parigi e Londra, si trasferisce con Nora Barnacle, la compagna della sua vita, a Trieste, dove per vivere insegna inglese. Sono anni difficili, a causa dei pressanti problemi economici accresciuti dalla nascita di due figli, ma creativi: completa la raccolta di racconti Gente di Dublino (Dubliners), accomunati dal tema della “paralisi”, cioè di una sorta di chiusura intellettuale e spirituale che domina le vite dei diversi personaggi (i racconti saranno pubblicati anni dopo, nel 1914). A Trieste conosce Italo Svevo e partecipa alla vita culturale della città collaborando anche al quotidiano «Il Piccolo». Il tema della crisi e della decadenza 1 653

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Nel 1913 inizia l’amicizia con il poeta americano Ezra Pound, grazie al cui intervento l’anno successivo, comincia a pubblicare a puntate su una rivista a Londra il suo primo romanzo, scritto anni prima, Ritratto dell’artista da giovane (A portrait of the Artist as a Young man, 1904), in Italia più noto come Dedalus, incentrato sul processo di maturazione da parte del protagonista del suo destino di artista. Gli anni della lavorazione di Ulisse A partire dal 1914 Joyce mette mano ad un nuovo romanzo, Ulisse (Ulysses), a cui continuerà a lavorare fino al 1922, quando già l’opera era in fase di stampa. Negli anni della prima guerra mondiale si trasferisce con la famiglia a Zurigo e in seguito a Parigi, in quel momento punto di riferimento mondiale di letterati e artisti, dove conosce i più importanti scrittori del periodo (Thomas S. Eliot, Marcel Proust, Ernest Hemingway, Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald). Dal 1918 era cominciata la pubblicazione dell’Ulisse a puntate sulla rivista «Little Rewiew» di New York: continuerà fino al 1920 quando la rivista viene sequestrata per l’accusa di immoralità relativamente ad alcuni capitoli del romanzo. È di nuovo l’aiuto di Ezra Pound, che intesse i rapporti con il mondo editoriale parigino, a permettere la pubblicazione in volume dell’Ulisse a Parigi (1922), subito salutata da grandi riconoscimenti degli ambienti letterari d’avanguardia. Gli ultimi anni Dal 1923 lo scrittore inizia una nuova opera, La veglia di Finnegan (Finnegan’s wake), che porta alle estreme conseguenze la sperimentazione linguistica già attuata nell’Ulisse attraverso l’uso, insieme all’inglese, anche di altre lingue, di strutture inconsuete e di giochi di parole. Si aggravano intanto i disturbi agli occhi di cui soffre da alcuni anni, costringendolo a interventi e a periodi di inattività, e anche la situazione familiare diventa sempre più difficile per la malattia mentale della figlia, per lungo tempo sottovalutata, per la quale diventa necessario il ricovero in una clinica. Le vicende della seconda guerra mondiale lo inducono nel 1940 ad allontanarsi da Parigi: si trasferisce di nuovo a Zurigo, dove muore nel 1941.

L’Ulisse: un romanzo senza trama L’Ulisse: struttura La rivoluzione delle strutture narrative tradizionali operata da Joyce nell’Ulisse è evidente già dall’assenza, nel romanzo, di una trama organica, come si può capire anche da questa sommaria presentazione del contenuto. L’opera, divisa in tre parti, racconta la giornata di tre personaggi: Stephen Dedalus, un giovane insegnante che aspira a diventare poeta, l’ebreo irlandese Leopold Bloom, di professione agente di pubblicità, e sua moglie Molly, seguiti dal narratore nelle loro azioni e nella normalità della vita quotidiana. Stephen, abbandonata la torre in riva al mare dove vive con un amico, lascia anche il suo lavoro di insegnante in una scuola diretta da un irlandese filoinglese e antisemita e va a passeggiare solitario e immerso nei suoi conflitti interiori sulla spiaggia a nord di Dublino, per poi ritornare in città. Leopold Bloom, il personaggio principale, è rappresentato a partire dal suo risveglio; dopo aver indugiato a far colazione (➜ T4 OL), comincia le sue peregrinazioni per le vie di Dublino, sostando nell’arco della giornata in luoghi diversi a seconda dell’ora: i pub, il cimitero dove partecipa al funerale di un conoscente, la sede del giornale locale per un’inserzione pubblicitaria, la spiaggia, l’ospedale e infine, a tarda notte, il bordello. Qui il suo peregrinare si incrocia con quello di Stephen Dedalus, che egli difende dall’aggressione di un nazionalista; lo conduce quindi con sé, a casa, invitandolo a restare; ma il giovane, dopo una lunga conversazione, se ne va.

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Molly, la moglie di Leopold, una cantante al tramonto della carriera, durante l’assenza del marito riceve il suo amante; nell’ultimo capitolo, attraverso un lungo monologo (➜ T5 ), la donna passa in rassegna tutta la sua vita e i suoi amori. L’Odissea moderna di un Ulisse metropolitano Scandito in diciotto capitoli non numerati né titolati, il racconto procede per episodi frammentari, apparentemente accostati senza nessun ordine; l’andamento casuale della narrazione è però solo apparente: come suggeriscono il titolo dell’opera e la definizione di «Odissea moderna» data dallo stesso Joyce alla sua opera, il modello di riferimento principale è il poema omerico che narra le peregrinazioni dell’eroe Ulisse. Secondo le indicazioni fornite da Joyce stesso nello schema allestito per l’amico Carlo Linati (1878-1949), ogni capitolo è scritto sulla falsariga di episodi dell’Odissea (canti I-XII): la struttura del poema fornisce l’impalcatura della narrazione del romanzo, con una precisa simmetria anche fra le rispettive parti. La giornata di Stephen Dedalus, il giovane intellettuale che se ne è andato di casa ed è alla ricerca di un sostituto della figura paterna, dà inizio al racconto, così come nell’Odissea è Telemaco ad avviare le vicende del poema con la ricerca del padre Ulisse, dopo lunghi anni dalla fine della guerra di Troia. Il vagabondare di Leopold Bloom per Dublino richiama le peripezie dell’Ulisse omerico con puntuali rimandi: la sua partecipazione a un funerale ricalca la discesa dell’eroe nell’Ade; la sua sosta alla sede del giornale ne ripropone in chiave parodica l’approdo all’isola di Eolo, signore dei venti, mentre l’episodio del Ciclope è ripreso nell’incontro in un pub con un nazionalista che cerca la rissa. Infine nella terza parte, equivalente al ritorno di Ulisse ad Itaca, Bloom ritorna a casa portando con sé Stephen e ritrova la moglie. L’“abbassamento” ironico del modello epico I parallelismi con il poema omerico sono sviluppati nel romanzo nella forma dell’ironia, attraverso i procedimenti dell’“abbassamento” e della vera e propria parodia, che Joyce attua ricorrendo alla rappresentazione marcatamente prosaica della quotidianità. Gli episodi mitici di riferimento vengono in questo modo smitizzati per diventare emblemi della condizione antiepica della vita contemporanea: ad esempio, Leopold Bloom, al suo apparire sulla scena del romanzo, è ritratto nella poco eroica impresa di preparare la colazione per la moglie (➜ T4 OL) e in un passo successivo è molto prosaicamente intento a leggere il giornale durante le funzioni fisiologiche. Antieroica e antiepica è anche l’accettazione da parte del protagonista dei tradimenti della moglie (a sua volta più interessata alla visita dell’amante che al ritorno del marito, a differenza della Penelope omerica), così come la sua fuga al pub davanti a un nazionalista minaccioso, nell’episodio che rappresenta l’equivalente dell’incontro di Ulisse con il Ciclope: all’astuzia dell’eroe classico l’Ulisse contemporaneo contrappone una ben più modesta e realistica prudenza. L’ironia non investe solo Leopold Bloom e la moglie Molly, ma si estende ad altri personaggi, che a loro volta rimandano a figure presenti nel poema omerico. L’abbassamento ironico e la parodia, oltre alla centralità della corporeità di cui diremo, avvicinano il romanzo di Joyce al modello del romanzo inglese del Settecento, in particolare al celebre Tom Jones di Fielding (➜ VOL 2 C8), che già aveva sperimentato il rovesciamento eroicomico della tradizione epica. L’«epica del corpo umano» Joyce stesso ha definito la sua opera «un’epica del corpo umano»: lo scrittore enfatizza così la presenza nel suo romanzo della dimensione corporea, in contrapposizione a ogni concezione idealizzante e trascendente della vita umana; una prospettiva programmatica che induce lo scrittore, come risulta dagli schemi forniti da Joyce ad alcuni amici, addirittura a far corrispondere a ogni episoIl tema della crisi e della decadenza 1 655

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dio del romanzo un organo o una funzione specifica del corpo. I riferimenti a tutte le parti del corpo, alle sue funzioni fisiologiche e sessuali scandiscono la giornata di Leopold Bloom senza censure e culminano nel lungo monologo finale della moglie Molly (alcune decine di pagine), vero e proprio trionfo dei diritti del corpo: il corpo, sia nelle funzioni fisiologiche sia nelle pratiche erotiche, e il cibo sono al centro delle divagazioni della donna, riprodotte con la tecnica del flusso di coscienza, senza filtri e censure fino a rasentare, in alcuni casi, la volgarità vera e propria. Anche i sentimenti, le emozioni (come la gelosia nei confronti del marito), il piacere per gli spettacoli della natura, sono sempre collegati alla sfera istintuale e dei bisogni primari.

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Interpretazioni critiche Franco Moretti Stream of consciousness: evoluzione di una tecnica

Il flusso di coscienza La novità stilistica dell’Ulisse è generalmente identificata nel procedimento del flusso di coscienza (stream of consciousness) che è prevalente nei primi capitoli e che si esprime nel modo più radicale nel monologo di Molly Bloom (➜ T5 ). È bene precisare che, a differenza del monologo interiore di Svevo (➜ C18), il flusso di coscienza di Joyce non è funzionale a un approfondimento dell’analisi psicologica dei personaggi, quanto a riprodurre il funzionamento della loro mente attraverso la registrazione diretta delle associazioni mentali casuali e più sotterranee. Nel monologo finale il procedimento trova la sua forma più arditamente sperimentale: i pensieri, le sensazioni e gli stati d’animo del personaggio sono riversati sulla pagina nell’immediatezza del loro farsi, rivelando desideri e impulsi segreti generalmente censurati dalla coscienza (e anche dalla letteratura). Joyce è considerato il creatore della tecnica del flusso di coscienza. In realtà esempi se ne possono trovare anche in opere precedenti. Ad esempio, in Anna Karenina di Lev Tolstoj (➜ C6), nel momento in cui la protagonista medita il suicidio; e nel racconto Il sottotenente Gustl dell’austriaco Arthur Schnitzler (1862-1931), anche in questo caso nel contesto drammatico della decisione del protagonista di metter fine alla sua vita. Ma, secondo il critico Franco Moretti (che ha coordinato un’opera monumentale sul genere romanzo), mentre in queste opere il flusso di coscienza è utilizzato per rappresentare situazioni di eccezionalità, per «rendere più drammatico uno snodo del racconto», nell’Ulisse «è lo stile dell’assoluta normalità: di una persona ordinaria in una giornata ordinaria»; è la registrazione della quotidianità, «del quotidiano banale, non del quotidiano prezioso».

Pluristilismo/pluringuismo Al di là del flusso di coscienza, che ne è la manifestazione più vistosa e nota, la vocazione sperimentale del romanzo di Joyce si manifesta in varie altre scelte, funzionali a rappresentare la caotica vita metropolitana, ma soprattutto l’identità multipla dell’individuo. A livello strutturale è già indicativa la natura policentrica del romanzo, nel quale l’intreccio risulta frammentato in episodi autonomi non riconducibili a un ordine e in cui si passa, senza indicazioni di transizione, dal piano diegetico al dialogato, alle frequenti digressioni, con diverse voci narranti e un continuo variare dei punti di vista. Inoltre per ogni episodio sono impiegate tecniche narrative diverse e soprattutto registri stilistici differenti a seconda dei personaggi, delle situazioni rappresentate e dei temi a cui si fa riferimento (che evocano esemplarmente le esperienze chiave della vita umana): non solo si trascorre dal registro aulico-epico al registro più basso, ma vengono riprodotti i linguaggi settoriali, come quello filosofico, quello della pubblicità o dei rotocalchi cari al pubblico femminile. Non mancano allusioni a opere della tradizione letteraria, e anche popolare: ne online risulta un’opera poliedrica, in un certo senso “enciclopedica”, T4 James Joyce che rivoluziona i canoni della narrativa e si impone come pieLa mattina “qualunque” di Mr Bloom Ulisse tra miliare nella storia del genere romanzo.

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James Joyce

T5

Le libere associazioni di Molly Bloom Ulisse

J. Joyce, Ulisse, trad. di G. de Angelis, Mondadori, Milano 1972

Il testo è tratto dal lungo monologo di Molly Bloom, inserito nel capitolo finale del romanzo ed evidenzia al grado massimo il carattere sperimentale del lavoro di Joyce: il narratore registra qui il susseguirsi del tutto alogico di pensieri, ricordi, fantasticherie del personaggio, favorito dalla condizione di dormiveglia in cui si trova la donna, secondo il meccanismo delle libere associazioni mentali.

[...] un bel sollievo dovunque si sia non tenersi l’aria in corpo chissà se quella braciola di maiale che ho preso col tè dopo1 era proprio fresca con questo caldo non ho sentito nessun odore sono sicura che quell’uomo curioso del norcino2 è un gran furfante spero che quel lume3 non fumi mi riempirebbe il naso di sudiciume 5 meglio che rischiare che mi lasci aperto il gas tutta la notte non potevo riposar tranquilla nel mio letto a Gibilterra4 mi alzavo anche per vedere ma perché diavolo5 mi preoccupo tanto di questo per quanto la cosa mi piace d’inverno fa più compagnia6 Oh Signore poi era un freddo boia7 quell’inverno che avevo dieci anni o giù di lì sì8 avevo quella gran bambola con quei vestiti buffi addosso sempre a 10 vestirla e svestirla quel vento gelido che veniva di scivolo9 giù dalle montagne la come si dice Nevada sierra nevada10 in piedi davanti al fuoco con quello straccetto di camicia corta tirato su per scaldarmi mi piaceva ballonzolare11 vestita in quel modo e poi tornar di corsa a letto sono sicura che quel tale di faccia12 stava là tutto il tempo a guardare con le luci spente d’estate e io nuda come Dio m’ha fatta sal15 tellavo per la stanza ero innamorata di me a quel tempo poi spogliata davanti alla toilette13 mi truccavo e mi davo la crema solo che quando si arrivava alla cerimonia del vaso14 spegnevo la luce anch’io così si era in 215 Addio al sonno per stanotte però speriamo che non si metta a imbrancarsi16 con quegli studenti di medicina17 che lo traviano mettersi in testa d’essere tornato giovane tornare alle 4 di mattina 20 dovevano essere se non di più però ha avuto la delicatezza di non svegliarmi ma che hanno da chiacchierare tutta notte buttar via soldi e ubriacarsi come bestie ma perché non bevono acqua e poi attacca a ordinare uova e tè e merluzzo affumicato e crostini caldi imburrati mi dà l’idea che lo vedremo troneggiare18 come il padrone del vapore a pompare su e giù dentro l’uovo col manico del cucchiaino ma da chi 25 l’ha imparato e ci godo quando inciampa per le scale la mattina con le tazze che

1 dopo: l’avverbio qui non ha valore temporale ma è usato come intercalare. 2 norcino: il macellaio; Molly dubita che la carne che ha comperato da lui fosse fresca, per questo lo considera un furfante. 3 lume: la lampada a petrolio accesa nella stanza. 4 Gibilterra: è la città dove la protagonista ha vissuto durante l’infanzia e l’adolescenza; l’associazione è suggerita dalla presenza anche là del gas aperto che la teneva sveglia di notte per il timore di fughe. 5 diavolo: è un’interiezione, come la successiva «Oh Signore». 6 la cosa... compagnia: il commento si riferisce al lume acceso.

7 freddo boia: altra espressione colloquiale per indicare il freddo intenso 8 sì: l’avverbio affermativo ricorre per tutto il monologo, scandendo le associazioni e i ricordi di Molly. 9 di scivolo: di traverso e tagliente. 10 Nevada sierra nevada: la catena montuosa che attraversa la Spagna. 11 ballonzolare: ballare in forma spontanea, senza seguire uno schema di passi preciso. 12 di faccia: espressione colloquiale per “di fronte”. 13 toilette: mobile con specchio usato dalle signore per curare l’acconciatura e il trucco.

14 cerimonia del vaso: in mancanza delle stanze da bagno, il vaso era utilizzato per le funzioni fisiologiche, qui nobilitate ironicamente dal termine cerimonia che allude a contesti elevati. 15 si era in 2: il riferimento numerico è al vicino di casa che assisteva al buio alle esibizioni di Molly. 16 imbrancarsi: mettersi in branco, cioè in una cattiva compagnia. 17 quegli studenti di medicina: Molly pensa qui probabilmente a Stephen, con cui il marito è tornato a casa quella notte, trascorsa a parlare con lui. 18 troneggiare: seduto come su un trono.

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schiccherano19 sul vassoio e poi a giocar con la gatta ti si strofina addosso per suo piacere chissà se ha le pulci è peggio di una donna sempre a leccare e alliccare20 ma non posso soffrire le grinfie chissà se vedono cose che non vediamo noi a guardar fisso in quel modo quando se ne sta per un certo tempo in cima alle scale e 30 ad ascoltare io aspetto aspetto che ladra poi quella bella sogliola fresca che avevo comprato forse prenderò un po’ di pesce domani anzi oggi è venerdì vero sì [...]. 19 schiccherano: si urtano tra di loro facendo rumore. Il verbo, con

valore onomatopeico, deriva da chicchera, “tazza”.

20 alliccare: passare la lingua ripetutamente.

Analisi del testo La rivoluzione delle forme narrative La prima cosa che colpisce è che del personaggio non viene data nessuna descrizione fisica e neppure si fa riferimento alle sue azioni entro precise coordinate spazio-temporali: il personaggio appare esclusivamente attraverso i suoi pensieri, ma si tratta per di più di flash scollegati tra di loro e di pensieri destrutturati e incompleti (mancano i soggetti, le frasi si interrompono a metà, come avviene nel discorso interiore, che non necessita dei chiarimenti che sono invece necessari per un interlocutore esterno). Come già più volte si è detto, nel monologo di Molly il flusso di coscienza è sperimentato nella forma più radicale: i pensieri, gli stati d’animo della donna, registrati dal narratore, si snodano in un flusso ininterrotto nelle direzioni più diverse, attraverso associazioni casuali e collegamenti imprevedibili. Si frammischiano al presente episodi del passato, in apparenza insignificanti (ma che hanno lasciato una traccia nella memoria perché associati a particolari emozioni), rievocati in modo frammentario e senza ordine cronologico. In questo modo il tempo della narrazione si dilata sovrapponendosi al tempo cronologico, mentre passato e presente si intrecciano annullando i regolari rapporti temporali: il discorso si sposta dal presente (sono sicura...) al passato (non potevo... mi alzavo) per tornare di nuovo al presente. Tutti questi espedienti servono per registrare il fluire ininterrotto dei pensieri, che sembra essere inarrestabile, reso attraverso particolari scelte formali: l’uso della paratassi, l’assenza non solo di punteggiatura, ma anche di connettivi logici e sintattici che fungano da collegamento tra i vari pensieri, giustapposti l’uno all’altro senza soluzione di continuità, l’uso del verbo all’infinito.

Il linguaggio Il linguaggio appartiene al registro basso e colloquiale, adeguato ai temi e al tono delle divagazioni, che si sviluppano esclusivamente intorno alla sfera del quotidiano; alcune forme (rese nella traduzione ad esempio con forme dialettali, come alliccare, od onomatopeiche come schiccherare) rientrano nella sperimentazione linguistica che, insieme all’uso del flusso di coscienza, contraddistingue il romanzo.

Un personaggio simbolo dell’“epica del corpo” Nel monologo di Molly domina la fisicità del personaggio, che ne fa il vero emblema dell’epica del corpo umano che Joyce voleva realizzare con il suo romanzo: di Molly il lettore conosce solo i pensieri, ma la materialità che li pervade li trasforma in immagini vitali e corporee. Lo stato di dormiveglia crea una sospensione dei meccanismi di controllo della psiche, facendo affiorare pensieri e ricordi generalmente sottoposti a censura dalla coscienza: in questo caso, oltre ai riferimenti alle funzioni fisiologiche, ad esempio il compiacimento narcisistico infantile per gli sguardi del vicino di casa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in forma di elenco i ricordi, i pensieri e le considerazioni di Molly. COMPRENSIONE 2. Quali pensieri di Molly si riferiscono alla sua vita passata e quali a quella presente? ANALISI 3. Sottolinea gli elementi che contraddistinguono il flusso di coscienza: le associazioni casuali e imprevedibili, gli impliciti, i salti cronologici, i riferimenti a sensazioni e pensieri generalmente censurati dalla coscienza. Individua quindi i procedimenti sintattici e stilistici utilizzati per rendere il fluire dei pensieri.

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4. Ti sembra che il passo avvalori la definizione data da Joyce dell’Ulisse come «epica del corpo umano»? Argomenta la tua risposta con riferimenti puntuali al testo. LESSICO 5. Analizza il lessico: oltre ai termini e alle espressioni colloquiali, nota gli usi particolari (ad esempio l’asserzione sì) e spiegane la funzione.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Riscontri analogie con il passo antologizzato dalla Recherche di Proust (➜ T2 )? A tuo avviso si può parlare anche in questo caso di memoria involontaria? ESPOSIZIONE ORALE 7. Delinea le caratteristiche psicologiche di Molly Bloom a partire da quanto si intuisce dal suo monologo. Molly è stata definita “una Penelope moderna”: come ti sembra che la definizione sia da intendersi? Rispondi in un intervento di circa 3 minuti.

Il Davy Birche’s Pub a Dublino, dove Leopold Bloom consuma un panino con il gorgonzola e un biccchiere di borgogna.

6 Virginia Woolf: il romanzo dell’interiorità Una formazione raffinata e stimolante Virginia Woolf nasce a Londra nel 1882: il padre, il famoso critico letterario Leslie Stephen, cresce i numerosi figli in un ambiente colto e stimolante, a contatto con gli intellettuali più in vista dell’epoca. Nel contesto storico dell’Inghilterra vittoriana, dominato da una mentalità costrittiva, l’educazione familiare della scrittrice è invece aperta e anticonvenzionale. Dopo la morte del padre (1904), i figli vanno a vivere a Bloomsbury, nel centro di Londra, facendo della loro casa un luogo di incontro di scrittori e artisti (il “gruppo di Bloomsbury”) con il proposito di sommuovere l’immobilismo della cultura inglese contemporanea. Alle riunioni partecipano, tra gli altri, gli scrittori Giles Lytton Strachey e Edward Morgan Forster, e l’economista di fama internazionale John Maynard Keynes. Ritratto fotografico di Virginia Woolf di Gisèle Freund (1939, Estate of Gisèle Freund).

La produzione romanzesca di una grande scrittrice Con il cognome del marito, Leonard Woolf, anch’egli parte del gruppo, la scrittrice firma il suo primo romanzo La crociera (The voyage out, 1913); con lui crea una casa editrice, la Hogarth Press che pubblica molte opere significative del periodo, in particolare La terra desolata (The Waste Land, 1922) di T.S. Eliot, e tutta l’opera di Sigmund Freud. Dall’inizio degli anni Venti Virginia scrive e pubblica una serie di opere che rappresentano un fondamentale contributo ai caratteri del romanzo del Novecento: La stanza di Giobbe (1922), La signora Dalloway (1925), Al faro (To the Lighthouse, 1927; tradotto con minor aderenza anche come Gita al faro ➜ T7 OL), Orlando (1928), Le onde (1931). Alla narrativa si accompagna anche la produzione di saggi: i più famosi sono Una stanza tutta per sé (1929), dedicato alla condizione femminile e al rapporto delle donne con la scrittura; e Tre ghinee (1938) sulla guerra incombente. La morte di un nipote durante la guerra di Spagna e le tragedie del secondo conflitto Il tema della crisi e della decadenza 1 659

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mondiale, acuiscono la depressione di cui la scrittrice soffre da tempo: nel 1941 si uccide annegandosi nel fiume vicino alla sua casa di campagna. Al faro Il romanzo è diviso in tre parti. La prima parte (La finestra) è incentrata sulla casa di villeggiatura della famiglia Ramsay, su un’isola delle Ebridi. Nella grande villa, oltre ai membri della numerosa famiglia, ci sono alcuni ospiti, giovani studiosi invitati dal signor Ramsay, un famoso accademico. Una sera la signora Ramsay promette a James, il più piccolo dei suoi otto figli, che il giorno seguente faranno la gita al faro da lui tanto desiderata; ma il padre prevede brutto tempo, e questa notizia suscita nel bambino una grande delusione. In effetti, il giorno dopo la gita non si farà. Nella seconda parte (Il tempo passa), scandita in dieci brevissimi capitoli, il lettore – indirettamente – viene a sapere dei dolorosi fatti accaduti nel corso dei successivi dieci anni: la signora Ramsay e due suoi figli sono morti e la casa delle vacanze è abbandonata alla desolazione. Nella terza parte (Il faro) i sopravvissuti di quell’estate del 1914 ritornano sull’isola. Con loro c’è anche Lily Briscoe, l’amica pittrice che dieci anni prima aveva iniziato il ritratto della signora Ramsay, insieme al marito e ai figli, ma senza riuscire a terminarlo. Lily completerà il quadro, e questa volta anche la gita al faro si farà. La signora Dalloway: la “normale” giornata di una signora dell’alta società Il romanzo si svolge nell’arco di una sola giornata, un mercoledì verso la metà di giugno del 1923. La protagonista, Clarissa Dalloway, è una signora cinquantaduenne, della buona società londinese. Il racconto la segue nelle varie fasi del giorno, impegnata a organizzare il ricevimento che terrà la sera stessa: la mattina va a comperare i fiori per l’evento mondano attraversando il centro di Londra, da Westminster a Bond Street; al ritorno a casa, mentre rammenda uno strappo del vestito per la festa, riceve l’improvvisa visita del suo antico innamorato Peter Walsh, appena ritornato dall’India. Nel pomeriggio il marito le porta delle rose per la festa per dirle l’amore che non sa esprimere a parole; alla sera arrivano gli invitati: oltre a personaggi importanti, ci sono Peter Walsh e Sally, l’amica della sua giovinezza e testimone del suo contrastato amore per lui. Dagli eventi allo scavo nell’interiorità Gli scarni elementi narrativi sono in realtà il pretesto per la registrazione continua dei pensieri di Clarissa attraverso il discorso indiretto libero e il monologo interiore: le occupazioni a cui la protagonista è intenta sono lo spunto per riflessioni e divagazioni che fluttuano dal presente al passato e viceversa. Inoltre, ai soliloqui della protagonista si alternano quelli di molti altri personaggi: i familiari e gli amici, ma anche i passanti occasionali, le cui vite scorrono parallelamente a quella della donna. Tra questi emerge con particolare rilievo Septimus Warren Smith: è un reduce della guerra mondiale, traumatizzato dalla morte di un compagno, che rivede nei suoi deliri; mentre Lucrezia, la moglie italiana, cerca invano di aiutarlo a ristabilire un rapporto con la realtà, lo psichiatra che dovrebbe curarlo, lo spaventa ulteriormente con l’imposizione di un ricovero, e Septimus si uccide. La notizia del suo suicidio arriva alla festa di Clarissa portata dal medico stesso. Dopo il disagio per essere stata turbata nella sua serenità dall’evento drammatico, Clarissa sente di avere in comune con l’uomo che si è ucciso il peso di un passato indimenticabile che tende a sommergere il presente, ma insieme avverte anche che è ancora forte il suo legame con la vita.

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La ricerca del tempo perduto della signora Dalloway Nel romanzo della Woolf lo strumento per rappresentare il mondo interiore dei personaggi, in particolare quello di Clarissa, è il flusso di coscienza. Nelle sue divagazioni e riflessioni, al presente si intreccia il passato: in particolare la donna rivive mentalmente l’amore giovanile con Peter, la sua scelta di lasciarlo e la decisione di sposare Richard. Le immagini di quei momenti lontani riaffiorano alla sua memoria con l’intensità delle emozioni un tempo vissute e che rivivono in lei nel momento in cui si interroga sulle ragioni delle sue scelte di allora e cerca di valutarne il significato nella sua vita. La centralità della dimensione temporale, il recupero del passato, avvicinano il romanzo della Woolf alla Recherche di Proust. L’incontro con Peter, l’innamorato di un tempo, dà ulteriore consistenza alle immagini del passato, attraverso la condivisione dei ricordi: mentre Peter però rievoca il passato senza riuscire a riconoscere e accettare le nuove forme che sia lui che Clarissa hanno assunto nel passare degli anni, la donna ha una visione dinamica del tempo, da lei concepito come un fluire incessante; in questo processo “le illuminazioni” costituiscono i momenti in cui la protagonista riconosce il senso della propria vita. Un romanzo polifonico Al flusso di coscienza della protagonista fa da contrappunto quello dei personaggi a lei legati da rapporti diversi: oltre a Peter, il marito, la figlia Elizabeth e la signorina Kilman, la sua insegnante di storia; nel fluire di pensieri ed emozioni, oltre a manifestarsi il loro mondo interiore, si definisce anche la personalità di Clarissa, attraverso i diversi punti di vista che i vari personaggi hanno su di lei. La polifonia del romanzo non è però funzionale solo al ritratto della protagonista: attraverso le varie “voci interiori” che si affiancano a quella del personaggio principale (i deliri di Septimus, l’astio della Kilman nei confronti del mondo ma anche i pensieri dei passanti occasionali) emerge il contesto in cui la protagonista vive e si manifesta la visione critica della Woolf nei confronti della società del suo tempo.

Flusso di coscienza sul romanzo della Woolf Flusso di coscienza Stream of consciousness

indica la realtà psichica che, descritta nella sua immediatezza, “rivela” l’inconscio

non è lo scavo psicologico del personaggio, ma la “riproduzione” del funzionamento della sua mente, in cui l’autore assume direttamente la voce del personaggio

nella sua forma linguistica si caratterizza per una serie di immagini istantanee, associazioni mentali casuali, apparente disordine verbale

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Virginia Woolf

Un’“illuminazione” della signora Dalloway

T6

La signora Dalloway V. Woolf, La signora Dalloway, a c. di N. Fusini, Mondadori, Milano 1998

Sono le prime pagine del romanzo. Uscita per comperare i fiori per il ricevimento della sera, la protagonista è immersa nei propri pensieri: ricordi ed emozioni del passato, considerazioni su di sé, riflessioni sullo scorrere del tempo e sul senso della vita.

Ed ecco che anche adesso si ritrovava a litigare1 con lui2 nel parco3, a convincersi ancora una volta che aveva avuto ragione – non poteva essere altrimenti – a non sposarlo. Nel matrimonio ci vuole un po’ di libertà, di indipendenza tra persone che devono vivere insieme giorno dopo giorno nella stessa casa. Richard4 gliela 5 dava, e lei a lui. (Dov’era stamani, ad esempio? a una riunione forse, lei non chiedeva mai quale riunione.) Con Peter invece bisognava condividere tutto, andare al fondo di ogni cosa. Era intollerabile, e quando si arrivò a quella scena5 in giardino, alla fontana, fu costretta a rompere con lui o si sarebbero distrutti a vicenda, sarebbe stata una catastrofe, ne era convinta, anche se poi per anni 10 s’era portata dentro il dolore, l’angoscia, come una freccia conficcata nel cuore. E poi l’orrore di quell’attimo, quando a un concerto6 qualcuno le aveva detto che s’era sposato con una donna conosciuta sulla nave che lo portava in India! Non se lo sarebbe mai dimenticato! Fredda, senza cuore, ipocrita, la chiamava lui. Non era mai riuscita a capire perché gli importasse di lei. Ma di quelle donne 15 indiane7 gli importava evidentemente – stupide, carine, e frivole com’erano. Ma sprecava la sua pietà. Perché lui era senz’altro felice, ne stesse certa – assolutamente felice, anche se non aveva fatto nulla di quello di cui avevano parlato, e la sua vita era stata un fallimento8. Lei ancora se ne adirava. Era arrivata ai cancelli del parco. Si fermò un attimo, a guardare gli autobus a 20 Piccadilly9. Non avrebbe mai più detto che uno è così o cosà10. Si sentiva molto giovane; e al tempo stesso indicibilmente vecchia. Affondava come una lama11 nelle cose; e al tempo stesso ne rimaneva fuori, osservava. Aveva l’impressione costante, anche ora guardando i taxi, di essere lontana, lontanissima, in mare aperto, e sola. 25 Sempre aveva l’impressione che vivere, anche un solo giorno, fosse molto, molto pericoloso. Non che si sentisse particolarmente intelligente, o straordinaria. Anzi, non capiva proprio come fosse riuscita a cavarsela nella vita con quelle poche briciole di conoscenza che Fräulein Daniels12 le aveva dato. Non sapeva nulla, né un’altra lingua, né la storia; a malapena leggeva ormai, a parte alcuni libri di 30 memorie la sera, a letto; ma tutto la assorbiva, tutto, anche i taxi che passavano; e comunque non intendeva dire né di Peter, né di se stessa, io sono questo, io sono quello. 1 litigare: mentalmente, dal momento

6 a un concerto: a quella notizia l’oc-

10 così o cosà: in un modo o in un altro

che l’interlocutore non è presente. 2 lui: Peter, l’antico fidanzato, a cui Clarissa sta pensando. 3 nel parco: la protagonista attraversa il parco di St. James a Londra. 4 Richard: è il marito che Clarissa scelse subito dopo aver lasciato Peter. 5 quella scena: il litigio che aveva portato alla separazione.

casione mondana era diventata fonte di dolore. 7 di quelle donne indiane: quelle che Peter poteva aver conosciuto in India, dove era andato a vivere. 8 Perché lui... un fallimento: Clarissa ripete mentalmente le parole che Peter le ha scritto per avvertirla del suo ritorno. 9 Piccadilly: zona del centro di Londra.

(espressione colloquiale). Clarissa si dice che non avrebbe più avuto la presunzione di conoscere le persone. 11 come una lama: vale a dire, in profondità. 12 Fräulein Daniels: l’istitutrice tedesca che l’aveva educata.

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L’unico talento che aveva era di riconoscere la gente come d’istinto, pensò, riprendendo a camminare. Se la mettevano in una stanza con qualcuno, si arricciava come 35 un gatto, o faceva le fusa. Devonshire House, Bath House13, la casa con i cacatua14 di porcellana, le aveva viste tutte con le luci accese una volta; e si ricordava di Sylvia, di Fred, di Sally Seton – orde di gente, e balli che duravano tutta la notte; e poi i carri, che arrancavano verso il mercato, e il ritorno a casa in automobile attraverso il parco. Si ricordava di una volta, quando aveva gettato uno scellino nella 40 Serpentine15. Tutti hanno dei ricordi; ma quello che lei amava era qui, ora, di fronte a lei16, quella grassa signora in taxi. E allora che importava, si chiese, andando verso Bond Street17, che importava, se doveva ineluttabilmente18 cessare di esistere, e tutto sarebbe continuato senza di lei; le dispiaceva, forse? O non la consolava piuttosto credere che con la morte finisce tutto, completamente? ma in un qualche modo, 45 per le strade di Londra, nel flusso e riflusso di tutte le cose, qui, là, lei sarebbe sopravvissuta, e Peter anche, l’uno nell’altro, lei in quanto parte, ne era certa, degli alberi di casa sua; o anche di quella casa laggiù, brutta e cadente com’era; parte della gente che non aveva mai incontrato, sospesa come una nebbia tra la gente che conosceva bene, che la reggeva come aveva visto fare agli alberi con la nebbia; 50 ma la sua vita, lei, si stendevano così lontano... 13 Devonshire... House: sono due impo-

15 Serpentine: il lago dalla forma allunga-

nenti case aristocratiche di Londra. 14 cacatua: genere di pappagalli esotici di grande bellezza.

ta in Hyde Park. 16 di fronte a lei: cioè il presente. 17 Bond Street: la strada dei negozi eleganti

nel West End della città. 18 ineluttabilmente: inevitabilmente.

Analisi del testo Il tempo ritrovato della signora Dalloway Il flusso di pensieri della protagonista fa emergere innanzitutto il passato: il tempo ritrovato di Clarissa è quello della sua giovinezza, del difficile rapporto con Peter, della decisione di abbandonarlo per una storia sentimentale meno conflittuale, e per certi aspetti meno impegnativa, con il futuro marito Richard. Attraverso i ricordi si delineano i sentimenti contrastanti che Clarissa aveva vissuto: l’amore, ma anche il desiderio di libertà, la volontà di difendere la sua autonomia e la sua identità dalla personalità coinvolgente di Peter e nello stesso tempo la gelosia per le altre donne da lui amate. Come in Proust, è il tempo soggettivo della memoria ad attualizzare il passato, qui attraverso le emozioni di allora rivissute nel presente («anche adesso si ritrovava a litigare»); per Clarissa il tempo passato è però in rapporto costantemente dialettico con il presente: ripensa alla scelta fatta, si confronta con quella che era, secondo la concezione del tempo come incessante fluire propria della Woolf.

Autoritratto della protagonista A partire dai ricordi, Clarissa sviluppa una consapevolezza della propria personalità, che comporta il riconoscimento delle sue debolezze e contraddizioni ma anche delle sue potenzialità: ammette di essere superficiale ma è conscia dell’intensità del suo rapporto con la realtà («Affondava come una lama nelle cose; e al tempo stesso ne rimaneva fuori, osservava»), non si ritiene particolarmente intelligente («non che si sentisse particolarmente intelligente») né colta («non sapeva nulla») e però rivendica la sua adesione emotiva al mondo: «tutto la assorbiva, tutto, anche i taxi che passavano». Quello che la protagonista delinea di sé è dunque un ritratto problematico, contraddittorio: un ritratto estremamente moderno, sia per le caratteristiche psicologiche che tratteggia, sia perché non pretende di dare del personaggio un’immagine completa o idealizzata.

Un esempio di illuminazione Proprio la capacità intuitiva che si riconosce permette a Clarissa di cogliere l’essenza profonda delle cose; nella visione della protagonista il tempo è rappresentato come inesorabile fluire,

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ma la consapevolezza della caducità e provvisorietà delle cose umane si accompagna in lei alla capacità di cogliere l’istante, di godere della vita nell’attimo, nell’“ora e qui”: «quello che lei amava era qui, ora, di fronte a lei», perciò in un frammento di vita sottratto alla mutevolezza e allo scorrere del tempo. L’attimo di consapevolezza e di pienezza emotiva di Clarissa, rappresenta una sorta di illuminazione rivelatrice, secondo la poetica teorizzata dalla scrittrice, del significato della vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo del brano in 5 righe. ANALISI 2. Pur in modo frammentario e discontinuo, il brano delinea la personalità di Clarissa: tracciane un profilo sulla base degli indizi testuali. 3. Distingui nel testo i ricordi, le considerazioni fatte nel passato e le riflessioni del presente. STILE 4. Rintraccia le similitudini: in quali punti ricorrono? Quale funzione hanno?

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Scrivi l’introduzione di un romanzo incentrata sul flusso di coscienza della protagonista in max 15 righe.

online T7 Virginia Woolf

Fiammiferi nel buio Al faro

Sguardo sul cinema The Hours: dal romanzo al film Nel 1998 è uscito il romanzo The Hours dello scrittore statunitense Michael Cunningham (1952), vincitore dell’importante premio letterario Pulitzer, una rivisitazione originale del romanzo La signora Dalloway di Virginia Woolf (il cui titolo inizialmente pensato dalla Woolf era The Hours, appunto). La narrazione si svolge nell’arco di una giornata, alternando in questo caso le storie di tre donne che vivono in momenti diversi del ventesimo secolo, seguite in parallelo nelle loro azioni quotidiane, nel flusso dei loro pensieri, ricordi ed emozioni. Fra le tre vicende si stabiliscono richiami di situazioni, di analogie simboliche, che collegano le protagoniste tra loro e al personaggio della scrittrice inglese; come questa, alla fine del giorno, ciascuna avrà maturato una consapevolezza più profonda di sé e della sua vita. La prima protagonista è la stessa Virginia Woolf, la seconda nella successione temporale (siamo nel 1949) è Laura Brown, una giovane casalinga di Los Angeles e la terza è Clarissa Vaughan, un’editor dei nostri giorni. Dal romanzo The Hours di Michael Cunningham è stato tratto nel 2002 il film omonimo (per la regia di Stephen Daldry, con Nicole Kidman come Virginia Woolf, Meryl Streep come Clarissa Vaughan, Julianne Moore come Laura Brown). La sceneggiatura riprende con sostanziale online

Per approfondire The Hours: dal romanzo al film

fedeltà l’intreccio delle tre storie, riflettendo il gioco di rimandi, delineato nel libro, in una simmetria ben sorretta da un eccellente montaggio e da un’ottima fotografia. La regia cerca di restituire l’intensità dei mondi interiori delle tre donne protagoniste, attraverso un uso sapiente delle inquadrature e grazie alla recitazione delle interpreti; e di legare insieme visivamente le tre vicende che si svolgono a distanza di tempo e di spazio.

Una scena del film The Hours, con Nicole Kidman che interpreta Virginia Woolf.

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7 Robert Musil: il romanzo-saggio L’infanzia e la formazione Robert Musil nasce nel 1880 a Klagenfurt in Austria. Frequenta un liceo militare, rimanendo profondamente traumatizzato dal clima opprimente (da quell’esperienza trarrà ispirazione per il romanzo I turbamenti del giovane Törless). Segue quindi le orme del padre, laureandosi in ingegneria meccanica. Dopo la laurea decide però di seguire altri interessi: si trasferisce a Berlino dove si iscrive alla facoltà di psicologia sperimentale e si laurea nuovamente (1908) con una tesi sul filosofo e fisico Ernst Mach.

Ritratto fotografico di Robert Musil (1930 ca).

Le opere minori Due anni prima aveva pubblicato il suo primo romanzo I turbamenti del giovane Törless (1906), storia in parte autobiografica, di un adolescente sensibile e intelligente che, attraverso il complesso e crudele rapporto con i suoi compagni di collegio, prende coscienza dell’ambiguità dei sentimenti e delle contraddizioni del reale. Dopo questa prima esperienza letteraria, che riscuote un certo successo, decide di dedicarsi completamente alla scrittura, e per mantenersi sceglierà sempre occupazioni che gli permettano questa libertà (prima bibliotecario, poi archivista). Nel 1911 pubblica i racconti Incontri (Vereinigungen), che rivelano affinità con l’espressionismo tedesco. Partecipa quindi, come ufficiale dell’esercito austriaco, alla prima guerra mondiale. All’inizio degli anni Venti pubblica i racconti di Tre donne (1921) e compone anche testi teatrali. L’uomo senza qualità e l’esilio Dal 1923 inizia la stesura dell’Uomo senza qualità e vi lavora fino alla morte senza però concludere l’opera; il primo volume, pubblicato a Berlino nel 1931, ottiene un notevole successo di critica, il secondo esce nel 1933; alcuni brani della parte successiva usciranno postumi. All’avvento al potere di Hitler (1933) con la moglie Marta, ebrea, lascia la Germania e si trasferisce prima a Vienna e successivamente, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, in Svizzera, dove muore nel 1942. L’uomo senza qualità: un romanzo-saggio «smisurata e poliedrica enciclopedia» Claudio Magris, studioso della cultura mitteleuropea, definisce L’uomo senza qualità «una smisurata e poliedrica enciclopedia», sottolineandone così il carattere quasi saggistico. A prescindere dal fatto che il romanzo rimase incompiuto, non è facile ricostruirne la trama: i pochi fatti risultano infatti quasi dei pretesti, delle occasioni per molteplici riflessioni che fanno dell’opera di Musil il romanzo-saggio per eccellenza. L’opera, strettamente connessa al contesto storico in cui è ambientata, rappresenta la decadenza della monarchia austro-ungarica e nello stesso tempo una più generale riflessione sulla crisi dei valori del periodo successivo alla prima guerra mondiale in cui è stata scritta. La vicenda La vicenda si svolge nella Kakania: il nome allude ironicamente all’Austria e deriva dalla sigla ufficiale K.K. dell’Imperial Regio governo asburgico (Kaiserlich Königlich). Ulrich, il personaggio che funge da filo conduttore, “l’uomo senza qualità” a cui allude il titolo, è nella realtà un giovane intellettuale ricco di qualità ma di temperamento problematico: ha intrapreso varie carriere (è stato ufficiale, poi ingegnere e infine matematico) ma le ha tutte abbandonate (evidente il risvolto autobiografico) perché, a suo giudizio, erano limitanti modi di rapportarsi Il tema della crisi e della decadenza 1 665

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alla vita in maniera esteriore, senza cambiarla veramente. Indifferente al mondo di potere e di successo a cui appartiene il padre, accetta però di diventare segretario del comitato «Azione parallela», costituito per celebrare il giubileo (i settant’anni di regno) dell’imperatore Francesco Giuseppe, che cadrà nel 1918, data che coincide con la fine dell’impero austro-ungarico: l’adesione all’associazione politica rappresenta l’elemento conduttore della vicenda del protagonista e diventa lo spunto per le sue riflessioni. All’iniziativa patriottica partecipano personaggi emblematici della società viennese; Ulrich resta estraneo alle dinamiche personali che ne nascono, limitandosi con contenuta ironia a far emergere il vuoto e la confusione di idee dell’associazione. Alla storia del protagonista si intreccia quella degli amici Walter e Clarissa, con il loro difficile rapporto matrimoniale e le loro personalità disturbate: l’uomo incarna il tipo geniale che, incapace di realizzare le sue capacità, attribuisce la colpa dei suoi fallimenti al contesto storico negativo; la donna rappresenta i limiti dell’irrazionalismo in cui il protagonista non si riconosce più (non a caso le dona simbolicamente le opere di Nietzsche). Alla fine del primo volume la morte del padre induce Ulrich a lasciare Vienna e l’«Azione parallela»; dopo aver respinto l’amore di Clarissa, si reca al funerale, dove incontra la sorella Agathe, che non vede dall’infanzia. Il secondo volume è incentrato sul personaggio di Agathe e sul rapporto tra i due fratelli: la scoperta della loro affinità spirituale li convince a decidere di vivere insieme, lontani dal caos alla ricerca di una dimensione alternativa di amore che culmina in una unione spirituale mistica. I momenti più interessanti della terza e ultima parte, incompiuta, sono rappresentati dalla critica verso l’organismo statale e la civiltà europea: lo scrittore arriva a una visione della storia come complesso esistenziale indecifrabile, dominio della follia e dell’imbecillità. Il tema dell’alienazione della metropoli La visione critica, e per certi aspetti profetica, dell’autore nei confronti della società contemporanea entra in campo fin dall’inizio dell’opera con la rappresentazione dell’alienante condizione urbana: la città dove è ambientata la vicenda (Vienna) è descritta analiticamente nei suoni e nelle immagini che si sovrappongono («centinaia di suoni attorcigliati in un groviglio meccanico»); il frastuono che la domina è il segno dello spreco delle energie intellettuali e della quotidianità frenetica che porta alla dissoluzione della vita spirituale. Pur delineando un ritratto di città storicamente e geograficamente determinato, lo scrittore sostiene la scarsa importanza della distinzione tra una realtà e l’altra, perché «tutte le grandi città» si assomigliano: «Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi e, frammezzo, punti di silenzio abissali [...], da un grande battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente». La metropoli diventa l’emblema della confusione del tempo, in cui tutto si muove, senza un orientamento: «I tempi erano in movimento [...] procedevano alla velocità di un cammello. Non si sapeva però in che direzione. Ed era difficile distinguere il sopra dal sotto, e le cose in regresso da quelle in progresso». L’uomo senza qualità: significato di un titolo novecentesco Ulrich è presentato come un idealista insoddisfatto, dominato da un senso di inutilità nei confronti della vita. Nella sua prima entrata in scena il protagonista è ritratto in una situazione emblematica: dalla finestra della sua casa è intento a osservare il traffico caotico della città e a riflettere sulla quantità di energia necessaria per vivere, cercando paradossalmente di misurarla con l’orologio. L’immagine indica la volontà di Ulrich di

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indagare quel mondo da cui si è allontanato in nome della “possibilità”, che egli contrappone alla realtà: il personaggio si è assegnato la funzione di osservatore critico del proprio tempo e per adempierla rinuncia a qualsiasi attività specifica in quanto, a suo avviso, l’identificarsi in una certa condizione costituirebbe la fine di una vita autentica. Per interpretare il proprio tempo, appunto, Ulrich considera fondamentale l’esercizio del “senso della probabilità” opposto al senso della realtà, comunemente praticato e condiviso come valore. Il possibilista, «colui che vive al congiuntivo», non rappresenta ai suoi occhi (e a quelli dello scrittore) chi fugge dalla realtà, ma chi ricerca un rapporto autentico e creativo con essa. Risulta così chiaro come debba essere inteso il titolo dell’opera, ambiguo ed enigmatico come avviene in molte opere novecentesche: “senza qualità” designa per Musil un uomo di cui non si può dire che è ingegnere, musicista e così via, ma che è anzitutto uomo, che non vuole possedere quelle qualità che farebbero di lui un sostegno alle convenzioni sociali, rendendolo docile e sottomesso ai compromessi. La scelta finale di Ulrich, l’evasione mistica, esprime la convinzione dell’autore dell’impossibilità di mettere ordine nella complessità del reale.

Egon Schiele, Nudo maschile con fascia rossa, 1914, acquarello (Vienna, Albertina).

Robert Musil L’uomo senza qualità (1923-1933)

impianto tradizionale

pochi fatti, pretesti per riflessioni

la decadenza dell’impero asburgico come metafora della crisi di valori del tempo

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Robert Musil

La casa dell’uomo senza qualità

T8

L’uomo senza qualità R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. di A. Rho, Einaudi, Torino 1972

Il brano è incentrato sulla ricerca di stabilità, che il protagonista vuole perseguire attraverso il progetto di ristrutturazione della propria casa. L’esperienza si rivela difficile perché in essa Ulrich identifica la costruzione della sua stessa personalità. Frastornato dalle varietà stilistiche dell’epoca, egli cerca di elaborare una soluzione originale ma nessuna lo soddisfa, al punto che quasi impazzisce. Si affida allora alla tradizione, limitandosi a scegliere i particolari: alla fine il risultato non corrisponde alle sue aspettative e Ulrich si ritrova di nuovo estraneo al mondo in cui vive.

Egli si trovava nella piacevole situazione di dover rimettere in sesto ab ovo1 e a suo talento il piccolo edificio in rovina che aveva acquistato. Dalla ricostruzione fedele fino alla libertà assoluta si offrivano alla sua scelta tutte le soluzioni, e alla sua mente si proponevano tutti gli stili, dall’assiro2 al cubista3. Che cosa decidere? L’uomo mo5 derno viene al mondo in una clinica4 e muore in una clinica: per conseguenza deve anche abitare in una clinica! Questo era l’assioma5 di un architetto di grido, e un altro riformatore dell’ambientazione esigeva che nelle case vi fossero pareti mobili, per il motivo che l’uomo dalla vita in comune deve imparare la fiducia nell’uomo, e non gli è lecito isolarsi con spirito separatistico. Era incominciata proprio allora una 10 nuova èra6 (ne comincia una ad ogni minuto) e un’èra nuova ha bisogno di uno stile nuovo. Per fortuna di Ulrich il castelletto, così com’era, aveva già tre stili sovrapposti, cosicché non si poteva davvero farne tutto quello che la moda voleva; nondimeno egli era assai turbato dalla responsabilità di costruirsi una casa, e si sentiva pender sul capo la minacciosa massima letta sovente nelle riviste d’arte: «dimmi come abiti 15 e ti dirò chi sei». Dopo aver lungamente consultato quelle riviste venne alla conclusione che la costruzione della propria personalità era meglio intraprenderla da solo e si mise a disegnare di sua mano i futuri mobili. Ma appena ideata una linea corposa e d’effetto7, gli veniva in mente che si sarebbe potuta sostituirla benissimo con una linea funzionale e smilza8; e incominciando ad abbozzare una forma in stile cemento 20 armato scarnita dal suo stesso vigore9, pensava alle magre forme marzoline10 di una fanciulla tredicenne e si metteva a sognare invece di decidersi. Era questa – in un campo che non gli stava seriamente a cuore11 – la ben nota discontinuità delle idee con il loro pullulare12 senza un nucleo centrale, incoerenza che contraddistingue il nostro tempo e ne determina la bizzarra aritmetica, la 25 quale salta di palo in frasca13 senza unità. Alla fine non immaginava più che locali irrealizzabili, stanze girevoli, arredamenti caleidoscopici14, congegni per la traspo1 ab ovo: dall’origine, completamente (espressione lat. “dall’uovo”). 2 assiro: la prima civiltà sviluppatasi in Mesopotamia dal III millennio a.C. 3 cubista: il cubismo è il movimento artistico fondato all’inizio del Novecento dal pittore spagnolo Pablo Picasso e da collega francese Georges Braque; è caratterizzato dalla scomposizione dell’immagine tridimensionale di figure umane e oggetti, attraverso cui si vuole suggerire la presenza nel dipinto della quarta dimensione, quella temporale.

4 clinica: ambiente ospedaliero. 5 assioma: principio assoluto. 6 èra: epoca, qui anche nel significato di moda.

7 corposa e d’effetto: sinuosa e appariscente.

8 smilza: lineare. 9 scarnita... vigore: resa essenziale dalla sua stessa forza. 10 marzoline: primaverili, quindi acerbe, adolescenziali, non nella pienezza della vita.

11 in un campo... cuore: in un ambito del sapere (l’architettura) che non lo appassionava particolarmente. 12 pullulare: proliferare. 13 di palo in frasca: da un argomento a un altro, senza una logica apparente. 14 caleidoscopici: scintillanti e colorati come in un caleidoscopio (strumento a forma di cannocchiale, attraverso cui, per mezzo di un sistema di specchi e frammenti di vetro colorati, si creano infinite e mutevoli strutture simmetriche visibili controluce).

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sizione dell’anima15, e le sue idee divennero sempre più vuote di contenuto. Così giunse infine al punto verso il quale si sentiva attratto. Suo padre l’avrebbe espresso all’incirca così: «Se si lascia che uno faccia tutto quel che vuole, dalla confusione 30 finirà per dar del capo nei muri16». Oppure: «Chi può concedersi tutto ciò che gli piace, presto non saprà più che cosa desiderare». Ulrich si ripeteva queste frasi con grande soddisfazione. Quell’antica saggezza tramandata gli sembrava un pensiero straordinariamente nuovo. Nelle sue possibilità17, progetti e sentimenti, l’uomo dev’essere prima costretto da pregiudizi, tradizioni e ostacoli di ogni sorta, come 35 un pazzo nella camicia di forza, e solo allora ciò che egli produce acquista forse valore, solidità e durevolezza... in verità è quasi impossibile misurare tutta la portata di questo pensiero! Ebbene, l’uomo senza qualità dopo esser ritornato in patria fece anche il secondo passo per lasciarsi foggiare18 dal di fuori, dalle circostanze esterne: a questo punto delle sue riflessioni abbandonò senz’altro l’arredamento della sua 40 casa al talento dei fornitori, fermamente convinto che alle tradizioni, ai pregiudizi e ai limiti avrebbero provveduto loro. Per conto suo si accontentò di rinfrescare i vecchi motivi che c’eran già da prima, gli scuri palchi di cervi19 sotto le volte bianche del piccolo atrio e il rigido soffitto del salotto, e inoltre aggiunse tutto quel che gli pareva comodo o rispondente a uno scopo. 45 Quando tutto fu pronto, poté crollare il capo e chiedersi: questa dunque è la vita che dovrà esser la mia? Era ormai in possesso di un piccolo delizioso palazzo; non si poteva quasi chiamarlo altrimenti perché corrispondeva esattamente all’idea che la parola suggerisce: la residenza lussuosa di un personaggio ufficiale, come l’avevano concepita i mobilieri, i tappezzieri, i decoratori più in voga. Peccato che a quel 50 magnifico meccanismo d’orologeria mancasse la carica20; perché allora si sarebbero vedute salire su per la rampa carrozze con alti dignitari21 e nobili dame, i lacchè22 sarebbero saltati giù dalle predelle23 e avrebbero chiesto ad Ulrich con diffidenza: «Buon uomo, dov’è il vostro padrone?» Ulrich era tornato dalla luna24 e immediatamente s’era ristabilito sulla luna. 15 congegni... anima: strumenti complessi attraverso cui fare della casa l’espressione della sua personalità e del suo mondo interiore. 16 per... nei muri: per prendere a testate il muro. Espressione metaforica per indicare gli effetti paradossali di uno stato confusionale. 17 possibilità: nelle scelte e azioni che gli sono permesse.

18 foggiare: dare forma. 19 palchi di cervi: le ramificazioni delle corna dei cervi maschio dipinte o appese come trofei. 20 mancasse la carica: letteralmente è il congegno che faceva funzionare gli orologi; la metafora indica in questo caso la mancanza di un’impronta rivelatrice della personalità del protagonista.

21 dignitari: personaggi con cariche di prestigio. 22 lacchè: nel XVII e XVIII secolo, domestici o valletti in livrea che seguivano o precedevano a piedi i padroni o la loro carrozza. 23 predelle: i gradini per salire sul veicolo. 24 era tornato dalla luna: l’espressione metaforica allude alla diversità mentale di Ulrich rispetto all’ambiente.

Analisi del testo La costruzione dell’identità: un progetto di impossibile realizzazione Il brano esemplifica le modalità narrative del romanzo: il progetto di Ulrich per la casa in cui abitare si sviluppa nella forma dell’analisi più che del racconto. Subito emerge l’approccio problematico con cui l’autore tratteggia il personaggio: la sua ricerca dello stile ideale per la casa si muove nell’incertezza e tra gli opposti stili, dalla linea sinuosa a quella più essenziale («appena ideata una linea corposa e d’effetto» pensa a quella «funzionale e smilza»). Dal momento che la casa dovrebbe rispecchiare la personalità del suo occupante, Ulrich ricerca le soluzioni più strane per trovare quella più simile alla sua intima essenza (rr. 25-26), ma nessuna tipologia lo soddisfa; la decisione di affidarsi alla tradizione, alle mode affermate (i pregiudizi), ai vincoli pratici della costruzione, limitandosi a definire i dettagli, è il segno del

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suo disorientamento e della sua resa. Alla fine la casa, compreso l’arredamento, risulta progettata da altri e il protagonista si interroga se possa corrispondere veramente a lui: il gesto di scrollare il capo indica la risposta negativa che egli stesso si dà.

Ironia e metafora Il progetto del protagonista di costruirsi una casa nel suo luogo d’origine è contraddistinto dall’ironia dominante nel romanzo, che ridicolizza la pluralità delle mode e degli stili architettonici («dall’assiro al cubista») insieme alle esagerazioni intellettualistiche (la casa-clinica, coerente con il luogo della nascita e della morte cioè progettata sul modello di un ospedale) e alle utopie (l’abitazione con «le pareti mobili» sempre aperta «per il motivo che l’uomo dalla vita in comune deve imparare la fiducia nell’uomo, e non gli è lecito isolarsi con spirito separatistico»). Dagli stili estetici la visione critica dell’autore si estende a tutto il pensiero del mondo contemporaneo: l’indecisione di Ulrich nella scelta è interpretata come «la ben nota discontinuità delle idee con il loro pullulare senza un nucleo centrale, incoerenza che contraddistingue il nostro tempo [...]». Lo stesso protagonista è a sua volta sottoposto al procedimento ironico: segue prima la moda e poi la tradizione per conformismo perché non riesce a elaborare una soluzione originale, frastornato dalla varietà degli stili, al punto quasi di impazzire («dalla confusione finirà per dare nel capo ai muri»), e si consola con la scelta dei particolari. L’altra figura retorica è la metafora: il progetto della casa rappresenta quello della costruzione della personalità, come evoca la massima «dimmi come abiti e ti dirò chi sei». Nonostante la volontà di autodeterminazione («venne alla conclusione che la costruzione della propria personalità era meglio intraprenderla da solo»), il tentativo fallisce dimostrando l’impossibilità di scegliere un’identità propria e originale nella confusione del mondo contemporaneo. Il finale è a sua volta la metafora del fallimento del progetto di Ulrich di trovare una realtà in cui riconoscersi: viene dalla luna, cioè metaforicamente da una condizione di estraneità rispetto alla realtà da tutti accettata e si ritrova nella stessa situazione («s’era ristabilito sulla luna»), confermando la propria diversità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A quali criteri si ispira il protagonista per restaurare la casa? Indicali nell’ordine temporale. 2. Quale soluzione viene scelta alla fine e perché? Qual è il significato della domanda che Ulrich si pone quando la casa è pronta? ANALISI 3. Rintraccia gli elementi che confermano la condizione di “uomo senza qualità” del protagonista. 4. Individua nel passo i riferimenti alla società e alla cultura contemporanee: quale giudizio esprimono?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. L’impossibilità di Ulrich di progettare la propria casa si contrappone ai progetti raffinati degli eroi decadenti (Des Esseintes e Andrea Sperelli) che incarnano nelle loro dimore il loro culto della bellezza, facendone un’opera d’arte e identificando la vita con l’arte. Istituisci un confronto.

online T9 Robert Musil

Un’introduzione molto diversa dalle solite L’uomo senza qualità, I

Fissare i concetti Il romanzo europeo del primo Novecento 1. In che senso si può parlare di una sorta di rivoluzione per il romanzo del primo Novecento? 2. Quali sono le principali tecniche con cui nel romanzo del primo Novecento sono rappresentati i processi psichici dei personaggi? Quali sono gli autori che li adottano? 3. Quali sono le principali opere di Thomas Mann? Di quali temi trattano? 4. Che cosa distingue, secondo Proust, la memoria involontaria da quella volontaria? 5. In che consiste l’abbassamento epico dell’Ulisse di Joyce? 6. Per quale motivo La signora Dalloway di Virginia Woolf può essere definito un romanzo polifonico? 7. Quale significato si può attribuire al titolo del romanzo di Musil, L’uomo senza qualità?

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Primo Novecento Duecento e Trecento Laromanzo Il letteratura europeo cortese del primo nella Francia feudale Novecento

Zona Competenze Sintesi con audiolettura

1 Il tema della crisi e della decadenza

Caratteristiche del “nuovo romanzo” novecentesco Il romanzo del primo Novecento attua un profondo rinnovamento – e in alcuni casi una vera rivoluzione – dei canoni narrativi ottocenteschi. Al centro della narrazione è la vita interiore dei personaggi, indagata nei suoi meccanismi profondi, grazie a procedimenti come la memoria involontaria (Proust), il flusso di coscienza (Joyce), le illuminazioni (Woolf). La struttura tradizionale del romanzo, incentrata sulla trama, è messa in discussione perché ritenuta inadeguata a rappresentare la complessità del reale; al racconto dei fatti si sostituisce la percezione che di essi, e della realtà, ha l’io; al tempo esteriore, degli avvenimenti, si sostituisce il tempo interiore della soggettività, che può dilatarsi e sviluppare la narrazione ben oltre il tempo cronologico. Sono sperimentate nuove forme narrative, dal romanzo memoriale nella Recherche di Proust, in cui il processo di ricostruzione del passato diventa oggetto di analisi, al modello mitico elaborato da Joyce nell’Ulisse, ai romanzi-saggio di Mann (La montagna incantata) e di Musil (L’uomo senza qualità), in cui la narrazione è funzionale alla riflessione sulla contemporaneità. Nella varietà dei temi, si possono individuare due tendenze: nella prima hanno rilievo la quotidianità frantumata, occasione per il fluire spontaneo dei pensieri; nella seconda all’opposto prevale la riflessione filosofica intorno alla crisi, la “malattia”, dell’individuo e della società. Thomas Mann, un testimone del Novecento Lo scrittore tedesco Thomas Mann (18751955) ha fuso nella sua opera monumentale la tradizione letteraria tedesca dell’Ottocento con le tendenze culturali e filosofiche affermatesi all’inizio del nuovo secolo. Interprete della cultura e dei valori della borghesia, ne ha raccontato la decadenza spirituale, attraverso la metafora della “malattia” che accomuna società e artista. Nel racconto La morte a Venezia (1912) la crisi dello scrittore von Aschenbach, diviso a metà tra il compito educativo che si era assegnato e la scoperta della sfera istintuale prima inesplorata, prefigura quella dell’Europa e della sua cultura alla vigilia della Prima guerra mondiale, allusa metaforicamente dal colera che colpisce la città lagunare. La montagna magica (1924) è un esempio significativo del romanzo-saggio novecentesco: la “malattia” in questo caso è l’espressione del disagio dell’individuo rispetto a una realtà vissuta come indecifrabile e ostile, a cui il protagonista cerca di sfuggire nella dimensione privilegiata del sanatorio.

Sintesi

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Nell’impossibilità di trovare nelle ideologie politiche dell’epoca – ampiamente dibattute con gli altri ospiti – una risposta soddisfacente ai suoi interrogativi esistenziali, alla fine preferisce alla vita artificiale della “montagna magica” la vita vera, in mezzo agli altri uomini, in guerra (nel primo conflitto mondiale), anche se la sua scelta potrà comportare la morte. Marcel Proust: il romanzo della memoria Nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto (1913-1922) del francese Marcel Proust (1871-1922) l’io narrante compie un viaggio interiore rivolto al recupero del passato per ritrovare la propria autentica natura; il percorso memoriale è accompagnato dalla riflessione sui meccanismi che lo caratterizzano, con la fondamentale distinzione tra “memoria volontaria” e “memoria involontaria”: lo sforzo della volontà non è in grado di rievocare il passato nella sua interezza e complessità, solo la memoria involontaria, attivata casualmente da sensazioni già vissute, riesce a riportare alla coscienza i ricordi cancellati dal tempo, dando vita all’«immenso edificio del ricordo». La rievocazione del passato nell’opera monumentale è scandita secondo la dimensione del tempo interiore: lo scrittore passa sotto silenzio anni interi della vita del protagonista e descrive invece al rallentatore gli episodi che risultano presenti alla memoria nella loro intensità come se fossero attuali. James Joyce: il romanzo della “quotidianità” Il romanzo Ulisse (1922) dello scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) attua una vera e propria rivoluzione delle strutture narrative tradizionali: i molteplici linguaggi, stili e tecniche che lo contraddistinguono rappresentano la complessità e frammentarietà del reale e della vita psichica, resa attraverso il flusso di coscienza. Il romanzo si svolge in un unico giorno (16 giugno 1904) a Dublino; protagonista è un Ulisse contemporaneo, Leopold Bloom, emblema dell’uomo comune, mentre la moglie Molly incarna Penelope. Definita dal suo autore un’«Odissea moderna», l’opera ricalca i temi e i personaggi dell’Odissea omerica in chiave ironica, attraverso la rappresentazione prosaica della quotidianità. Gli episodi del poema epico, smitizzati grazie all’abbassamento ironico e alla parodia, diventano esemplari della condizione antieroica e antiepica della vita contemporanea. Virginia Woolf: il romanzo dell’interiorità La scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941) rinnova il romanzo privilegiando le tecniche narrative volte a rappresentare la complessità della vita moderna; nei suoi romanzi la realtà tende a coincidere con quella soggettiva della coscienza dei personaggi che, come Joyce, la scrittrice rappresenta con il “flusso di coscienza”.

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Nel romanzo La signora Dalloway (1925) le vicende parallele di una signora dell’alta società e di un reduce di guerra, nell’arco di una giornata, diventano l’occasione per scavare nell’interiorità dei personaggi; mentre il tempo esteriore scandisce lo scorrere delle ore, il tempo interiore segue il fluire dei pensieri e delle emozioni. Nel romanzo Al faro (1927) la Woolf sviluppa la concezione della vita come flusso inarrestabile: solo illuminazioni improvvise possono dare un significato all’esistenza. Robert Musil: il romanzo-saggio Lo scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942), a differenza di Joyce, mantiene inalterato l’impianto tradizionale del romanzo, in cui il racconto è gestito da un narratore onnisciente, ma lo corrode dall’interno: la frammentarietà e la disgregazione sono fondamenti della realtà e diventano elementi costitutivi della narrazione; la stessa incompiutezza dell’opera è la prova dell’impossibilità di dare una visione unitaria del mondo. L’uomo senza qualità (1923-1933) si inserisce nella letteratura mitteleuropea: le mancanze dell’impero asburgico (la Kakania), indagate con lucidità e ironia, sono assunte a metafora della crisi generale della civiltà occidentale. Ulrich, il protagonista, è in realtà dotato di caratteristiche eccezionali ma, in un mondo in cui le “qualità” positive non possono esplicarsi perché manca una gerarchia di valori, rinuncia a scegliere e ad agire: la sua incapacità di metterle a frutto rappresenta la condizione dell’individuo che non trova un senso alla propria azione nel mondo; la vita gli appare come un percorso misterioso e insensato in cui le idee e le decisioni non hanno alcuna possibilità di incidere positivamente.

Zona Competenze Esposizione orale

1. L’Ulisse di Joyce costituisce programmaticamente un rovesciamento della grande tradizione epica, proponendone un abbassamento parodico e antieroico. Giustifica oralmente questa affermazione in massimo 5 minuti.

Scrittura

2. In un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe confronta le modalità e i significati con cui è rappresentato il meccanismo memoriale nella Ricerca, nell’Ulisse e nella Signora Dalloway. 3. In un testo espositivo-argomentativo di circa 20 righe delinea i termini del conflitto, dominante nella narrativa di Mann, tra arte e vita, tra dignità borghese e liberazione degli istinti nella condizione dell’artista.

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Primo Novecento CAPITOLO

17 Luigi Pirandello CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo Pirandello visto da Pirandello... In una brevissima autobiografia, scritta attorno al 1910, Pirandello così

sintetizza la sua arte e la sua visione del mondo. Come vede, nella mia vita non c’è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri che […] non sono lieti. Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno. Questa, in succinto, la ragione dell’amarezza della mia arte, e anche della mia vita. L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, a c. di Manlio Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1977

In un passo di una lettera alla fidanzata Antonietta (1894), Pirandello

diagnostica con lucidità la compresenza dentro di sé di due personalità contrastanti. Il tema del “doppio”, ricorrente nell’opera di Pirandello, ha dunque una radice autobiografica. In me son quasi due persone: Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso. Soglio dire, ch’io consto d’un gran me e d’un piccolo me: questi due signori sono quasi sempre in guerra tra di loro; l’uno è spesso all’altro sommamente antipatico. Il primo è taciturno e assorto continuamente in pensieri, il secondo parla facilmente, scherza e non è alieno dal ridere e dal far ridere. [...] Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone. Ora impera l’una, ora l’altra. Io tengo naturalmente moltissimo di più alla prima, voglio dire al mio gran me; mi adatto e compatisco la seconda, che è in fondo un essere come tutti gli altri, coi suoi pregi comuni e coi comuni difetti. J.M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, Abete, Roma 1977

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Narratore e drammaturgo, Luigi Pirandello testimonia a un alto livello artistico la crisi valoriale e conoscitiva del suo tempo. Siciliano di origine, Pirandello, come Svevo, è in realtà un grande autore europeo. I temi più noti della sua opera sono il relativismo della conoscenza, la dissoluzione dell’unità dell’io e la tendenza dell’uomo a fissarsi in maschere inautentiche, “parti” di quella recita senza senso che è la vita. Critico implacabile dei vincoli familiari, delle convenzioni sociali che regolano i rapporti fra gli uomini condannandoli all’incomunicabilità, lo scrittore rifiuta ogni forma d’arte idealizzante: vi contrappone la poetica dell’umorismo, che smonta le costruzioni fittizie per rappresentare la “vita nuda”, tragedia e insieme commedia. Nell’ambito del suo teatro maggiore Pirandello scardina le convenzioni teatrali, inserendo d’autorità il teatro italiano, modesto e provinciale, nel grande circuito non solo europeo.

1 Ritratto d’autore narratore: 2 Pirandello le novelle e i romanzi 3 Leggere Il fu Mattia Pascal nude: un teatro 4 Maschere antitradizionale 675 675

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1 Ritratto d’autore 1 «Un personaggio disajutato» La famiglia d’origine L’«involontario soggiorno sulla terra» di Luigi Pirandello (l’espressione è sua) ha inizio il 28 giugno 1867. Il futuro scrittore nasce in Sicilia, in una villa di campagna di famiglia nella zona chiamata Caos, presso Agrigento (allora Girgenti), dove la famiglia si era rifugiata per sfuggire a un’epidemia di colera. Anni dopo, Pirandello si definirà “figlio del Caos”, ironizzando sul nome del suo luogo di nascita, sentito come segno di un destino in balia dell’imprevedibilità e del disordine. Il padre, Stefano Pirandello, è un agiato produttore e commerciante di zolfo, la madre è Caterina Ricci-Gramito. Entrambi i genitori appartengono a famiglie di sentimenti patriottici antiborbonici. Dopo aver completato gli studi liceali a Palermo, per alcuni mesi il ragazzo vive da vicino la realtà lavorativa del padre, a Porto Empedocle, allo scopo di essere avviato alla sua stessa attività, ma si sente subito estraneo al lavoro paterno. In occasione del suo apprendistato di certo Luigi vide da vicino le terribili condizioni di vita dei carusi, poi descritte in novelle come Ciàula scopre la luna (➜ T3 OL) o Il fumo. Con il padre, uomo autoritario e violento, infedele alla moglie, Luigi avrà sempre poche affinità e un rapporto difficile (nella ricostruzione romanzata della vita di Pirandello elaborata da Camilleri emerge come centrale il difficile rapporto dello scrittore con il padre, nei confronti del quale egli si sentiva così diverso da immaginarsi come un «figlio scambiato», ➜ D1 OL). Anche Pirandello, come Kafka e Tozzi, appartiene

Cronologia interattiva 1892

Nascita del Partito socialista italiano. 1887

Primo ministero Crispi.

1870

1867

Nasce ad Agrigento (allora Girgenti) da una famiglia benestante.

1880

1890

1900

1887-1891 Gli anni degli studi universitari: prima alla facoltà di Lettere di Roma, in seguito in Germania all’Università di Bonn, dove si laurea in filologia romanza.

1903

1894

Si stabilisce a Roma e sposa Antonietta Portulano, figlia di un socio del padre.

L’azienda di famiglia subisce un grave tracollo. La moglie inizia a manifestare gravi disturbi psichici. Sedici anni dopo (1919) sarà internata in una casa di cura dove rimane fino alla morte (1959).

1904

Pubblica a puntate sulla «Nuova Antologia» Il fu Mattia Pascal, il suo più celebre romanzo, seguito a L’Esclusa (scritto nel 1893) e Il Turno (scritto nel 1895).

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alla categoria di scrittori sui quali si proietta il ruolo negativo della figura paterna. Assai forte è invece il legame affettivo con la madre Caterina, la cui figura è evocata teneramente dopo la sua morte nella novella Colloqui coi personaggi (1915). Dalla Sicilia a Bonn Pirandello lascia la Sicilia non ancora ventenne. Nel 1887, dopo aver inizialmente frequentato l’università a Palermo, si trasferisce alla facoltà di Lettere a Roma, che tre anni dopo abbandonerà, per un contrasto con il professore di latino Onorato Occioni, proseguendo gli studi a Bonn, in Germania. Nella città tedesca Pirandello si laurea nel 1891 in filologia romanza con una tesi sul dialetto della sua Girgenti. In Germania legge in originale testi di filosofi, da Nietzsche a Bergson, e letterari, come le opere di Goethe o i classici della letteratura fantastica (Hoffmann e Chamisso). Le prime esperienze letterarie e il matrimonio Già prima di partire Pirandello aveva iniziato a comporre versi (nel 1889 era stata pubblicata la sua prima raccolta poetica, con il titolo, già prettamente pirandelliano, di Mal giocondo). Rientrato in Italia, continuerà a pubblicare diverse raccolte di versi (l’ultima è Fuori di chiave nel 1912), ma sarà la vocazione di narratore e poi quella di drammaturgo a prevalere. Nel 1894 Luigi sposa Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre, e si stabilisce con lei definitivamente a Roma, la città dove, quando non sarà in viaggio, vivrà fino alla morte. Della capitale ritrarrà nella sua opera ambienti e personaggi, con particolare attenzione alla piccola borghesia impiegatizia della società umbertina e giolittiana: una Roma, quella pirandelliana, agli antipodi della Roma sontuosa, estetizzante, evocata nel Piacere di D’Annunzio. Nello stesso anno, stimolato dal conterraneo Luigi Capuana, che aveva iniziato a frequentare, pubblica la prima raccolta di novelle (Amori senza amore), iniziando quell’attività di novelliere che considererà sempre come quella a lui più congeniale e all’interno della quale si possono trovare i suoi capolavori. Ad esse vanno aggiunti, a completare l’attività di narratore, i sette romanzi, composti dal 1893 (Marta Ajala, poi ribattezzata L’esclusa) al 1926 (Uno, nessuno e centomila).

1933 1915-1918

Hitler diventa cancelliere del Terzo Reich.

1922

Prima guerra mondiale.

Marcia su Roma. 1924

Assassinio Matteotti. 1925

Inizio della dittatura fascista.

1910

1920

Pubblica in volume I vecchi e i giovani.

1924

Si afferma come drammaturgo innovativo: Il piacere dell’onestà, Così è (se vi pare), Il gioco delle parti. 1915

1908

Pubblica il saggio L’umorismo, il suo più importante scritto teorico.

Esce a puntate il romanzo Si gira, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.

Campagna italiana in Etiopia.

1930

1916-1919 1913

1935

1921

Si iscrive al Partito fascista. Nel 1929 firma il Manifesto degli intellettuali fascisti e viene nominato Accademico d’Italia.

1940 1925

Pubblica i Quaderni di Serafino Gubbio operatore e fonda la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma: ispiratrice di alcuni drammi e prima attrice ne sarà Marta Abba, con cui Pirandello avrà un intenso rapporto.

Vanno in scena con grande scalpore i Sei personaggi in cerca d’autore, che avviano la sua fortuna internazionale come autore di teatro.

1934

Riceve il premio Nobel per la letteratura.

1936

Muore per una polmonite a Roma.

1926

Pubblica l’ultimo romanzo Uno, nessuno e centomila.

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Il tracollo economico, la follia di Antonietta Il 1903 è una data chiave nella biografia pirandelliana: la miniera di zolfo di cui il padre è proprietario si allaga e la famiglia è rovinata: Stefano Pirandello perde non solo il proprio patrimonio ma anche la dote della nuora Antonietta, che era stata interamente investita nello sfruttamento della miniera. Per Luigi ne derivano gravi conseguenze, destinate a incidere non poco sulla sua esistenza e sulla sua attività di scrittore: inizia in quello stesso anno a manifestarsi in Antonietta un disturbo psichico (certo anche in rapporto allo choc per quanto era successo) che nel tempo si aggraverà sempre più rendendo penosa la vita familiare (nel 1916 la figlia adolescente Lietta tenterà addirittura il suicidio). Nel 1919 Pirandello prenderà la dolorosa decisione di internare Antonietta in una casa di cura per malati mentali, da cui non uscirà più. Morirà molti anni dopo il marito, nel 1959. Da benestante a scrittore in cerca di sistemazione Dopo il tracollo economico del padre, Luigi si trova a dover provvedere alla sua famiglia (dal matrimonio nascono due figli maschi, Stefano e Fausto, e l’adorata figlia Lietta). Si dedica così a traduzioni e lezioni private, e la stessa attività letteraria viene subordinata alla possibilità di ricavarne dei guadagni: è il caso del suo più celebre romanzo, Il fu Mattia Pascal (1904), scritto su commissione in tempi brevissimi per la «Nuova Antologia», dove viene pubblicato a puntate. Iniziato in un momento di sconforto così profondo da far meditare allo scrittore il suicidio, il romanzo ha un inaspettato successo, che apre a Pirandello le porte del più importante editore del tempo, Treves, presso il quale pubblicherà fino al 1920 le sue opere (in seguito suoi editori saranno prima Bemporad e quindi Mondadori). Inoltre Pirandello cerca lavoro nell’ambito dell’istruzione pubblica: nel 1908 dà alle stampe il saggio L’umorismo, con cui partecipa a un concorso a cattedre presso l’Istituto superiore di Magistero. Otterrà la cattedra, ma l’insegnamento sarà sempre per lui un lavoro faticoso, non amato, che abbandonerà del tutto appena gli sarà possibile. Con maggiore soddisfazione Pirandello diventa, a partire dal 1909, una delle firme del «Corriere della Sera» su cui pubblica molte sue novelle, fino all’ultima.

PER APPROFONDIRE

Il drammaturgo di successo, l’«uomo con la valigia» A partire dal 1915 emerge nella vita artistica di Pirandello l’interesse preminente per il teatro, che gli darà una fama internazionale. Quasi subito infatti Pirandello suscita interesse con le sue commedie, che fin dall’inizio sovvertono gli schemi del teatro borghese, portando in primo piano le convenzioni, le maschere e facendo esplodere le contraddizioni, deflagrare le ipocrisie. Anche la produzione teatrale, come quella novellistica, è molto ampia e sarà sistemata dall’autore stesso in più di trenta volumi dal titolo complessivo di Maschere nude. Nel 1921 si colloca il suo dramma forse più noto, Sei personaggi in cerca d’autore, che avvia la fama internazionale dello scrittore: i Sei personaggi vengono rappresentati a Parigi, Londra, New York, ma anche ad Atene,

Pirandello e la Sicilia Come altri suoi illustri conterranei (tra gli altri Verga, Capuana, Vittorini, Quasimodo, Consolo e molti altri), Pirandello abbandona la Sicilia assai presto. Il volto della terra natale riemergerà più volte nel suo immaginario artistico (basti pensare alle non poche novelle ambientate in Sicilia). Tuttavia sarebbe riduttivo e addirittura fuorviante considerare Pirandello uno scrittore “siciliano”: a differenza di Verga, impegnato in una descrizione realistica di luoghi, comportamenti e figure della

sua terra d’origine, in Pirandello la Sicilia vive soprattutto come luogo metaforico, che rimanda simbolicamente al tema, caro allo scrittore, della rigidità dei ruoli, dei pregiudizi. Se non è realistico documento sociologico, la Sicilia in Pirandello non è d’altra parte neppure “mito nostalgico”: non c’è in lui un atteggiamento di abbandono al ricordo di una terra natale idoleggiata, ma piuttosto uno sguardo critico verso un mondo immobile, prigioniero di riti e costumi arcaici.

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Praga, Varsavia. Da quel momento Pirandello inizia a viaggiare molto, anche fuori d’Europa, rilascia interviste, diventa “un personaggio”. Nel 1924 chiede l’iscrizione al Partito fascista (➜ PER APPROFONDIRE, Pirandello e il fascismo) e quello stesso anno fonda il Teatro d’Arte di Roma e ne diviene il direttore. Per i quattro anni successivi la compagnia da lui diretta (verrà sciolta nel 1928) sarà in tournée per tutto il mondo, diffondendo la conoscenza delle sue opere all’estero. Il legame con Marta Abba In quello stesso anno conosce la giovane attrice milanese Marta Abba, a cui affida il ruolo di protagonista in molti suoi testi teatrali (a volte da lei stessa ispirati) e con la quale ha un rapporto molto intenso e complesso, documentato da un fittissimo epistolario. Dal 1926 al 1936, anno della morte di Pirandello, Marta sarà per Luigi la compagna ideale, con la quale poter avere un rapporto intellettuale alla pari e soprattutto a cui confidare i tormenti esistenziali che non lo abbandonarono mai.

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Per approfondire

PER APPROFONDIRE

Pirandello e il cinema

Pirandello premio Nobel Verso gli anni Trenta Pirandello lascia, deluso, l’Italia per cercare nuovi stimoli, ma anche contatti in campo teatrale e anche cinematografico. Soggiorna a Berlino, poi a Parigi; rimane tre mesi a New York per cercare di stabilire solide collaborazioni con l’industria del cinema di Hollywood. Da tempo Pirandello, prima diffidente, aveva intuito le potenzialità della nuova arte. Il suo testo teatrale Come tu mi vuoi ha grande successo negli Stati Uniti e la Metro Goldwyn Mayer compra il soggetto per una cifra altissima per quegli anni, 40.000 dollari. Gli ultimi anni della sua vita vedono un Pirandello sempre più famoso all’estero, ma anche in Italia le sue opere sono continuamente ristampate. Una fama internazionale consacrata dall’assegnazione nel 1934 del premio Nobel, che gli viene conferito «per il rinnovamento ardito e ingegnoso dell’arte drammatica e della scena». Nello stesso anno aveva ripreso a vivere a Roma, in una palazzina di via Bosio, sopra l’appartamento del figlio Stefano, anch’egli commediografo. Mentre segue le riprese a Cinecittà di una versione cinematografica del Fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite e muore, nella sua casa romana il 10 dicembre 1936. Lascia incompiuto il testo dei Giganti della montagna, a cui stava da tempo lavorando e che considerava la sua maggiore opera teatrale.

Pirandello e il fascismo Nel 1924, due mesi dopo il delitto Matteotti, in una lettera aperta a Mussolini, Pirandello chiede l’iscrizione al Partito fascista. Una scelta che ha fatto molto discutere gli studiosi, alla base della quale, forse, c’era una ragione pragmatica e utilitaristica: Pirandello sperava di ottenere finanziamenti per la sua attività teatrale (ma le sovvenzioni del governo non bastarono a risolvere il problema di far quadrare il bilancio). Inoltre, come tanti altri intellettuali del Sud, Pirandello è un deluso dal processo risorgimentale (come ben dimostra il romanzo I vecchi e i giovani) e dallo Stato giolittiano, e vede nel fascismo un movimento nuovo, capace di portare linfa vitale al paese e di dissolvere le “forme” ormai consunte di una politica gretta e corrotta. Pirandello non rinnegherà mai ufficialmente la sua adesione al fascismo, diventando nel 1929 anche Accademico d’Italia, dopo aver firmato il Manifesto degli intellettuali fascisti; ma certo si manterrà sempre in disparte, rifiutando di partecipare

alle cerimonie ufficiali e comunque non produrrà mai testi letterari che esaltassero il regime o fossero anche solo “allineati” con le direttive fasciste in campo culturale. Una parte della critica ha voluto vedere nella tarda novella C’è qualcuno che ride (1934) la satira di un’adunanza fascista, che viene interrotta da una dissacrante, anarchica risata. Anche al di sotto delle brutali figure dei giganti della montagna e dei loro servi, incapaci di comprendere l’arte (I giganti della montagna è l’ultima opera teatrale, lasciata incompiuta, di Pirandello), è forse possibile cogliere, almeno secondo alcune interpretazioni, un’allusione al regime fascista. Del resto le autorità del regime diffidarono sempre di fatto di uno scrittore le cui tematiche smentivano sotto ogni punto di vista l’ottimismo del regime, e più in generale inducevano a una lettura critica e demistificante dei comportamenti e della stessa ideologia fascista.

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Un’uscita di scena “pirandelliana” Nonostante fosse un personaggio pubblico, Pirandello non volle essere un “illustre estinto” (è il titolo di una sua novella): un foglietto di appunti ritrovato in casa appena dopo la sua morte conteneva precise disposizioni per le sue esequie (➜ D2 OL). Le ultime volontà dello scrittore vennero rispettate e Pirandello se ne andò dal palcoscenico del mondo come uno dei suoi personaggi, solo, sul carro dei poveri, senza alcuna cerimonia ufficiale. Le sue ceneri rimasero per cinque anni nel cimitero del Verano a Roma, finché cinque studenti online universitari, tra i quali lo scrittore Camilleri, le riportarono a D1 Andrea Camilleri Girgenti, esaudendo una sua volontà. Le ceneri furono conLuigino «figlio cambiato» Biografia del figlio cambiato servate in un’urna greca al museo di Agrigento, per essere poi D2 Luigi Pirandello murate, come egli desiderava, in una pietra al di sotto di un Le ultime volontà di Pirandello pino, poco distante dalla casa di famiglia (ora casa museo) in Saggi, poesie, scritti varii contrada Càvusu, il Caos.

2 La “filosofia” pirandelliana Uno scrittore “filosofico” Nella prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore (1921), uno dei suoi testi teatrali più celebri, Pirandello dichiara di far parte della categoria degli scrittori “filosofici”, intendendo alludere al fatto che la sua opera rimanda a una concezione profonda e originale della vita, di tipo appunto “filosofico”. Pirandello ha affidato la definizione della sua concezione a vari scritti critici, che costituiscono, nel loro insieme, il “pensiero pirandelliano”. La coscienza della crisi e il “pessimismo storico” I fondamenti del pensiero pirandelliano vengono elaborati già negli ultimi anni dell’Ottocento e trovano in seguito la più compiuta definizione nel celebre saggio sull’Umorismo del 1908. Le prime riflessioni pirandelliane tendono a concentrarsi su una “storicizzazione” del negativo, attribuito a precise circostanze storico-culturali. Il suo si può definire inizialmente una sorta di “pessimismo storico”, espressione usata abitualmente per la prima fase del pensiero leopardiano. Già nel saggio Arte e coscienza d’oggi (1893) Pirandello diagnostica con grande acutezza la crisi del suo tempo: la filosofia positivistica, il progredire delle conoscenze scientifiche, hanno tolto all’uomo la fede rassicurante in Dio, la fiducia di occupare un posto privilegiato nell’universo, ma non hanno poi saputo dare adeguate risposte alle domande fondamentali che da sempre l’uomo si pone: “A quale scopo vivo? Da dove vengo? Dove andrò a finire?”. La critica al modello positivistico In questo senso Pirandello partecipa pienamente alla critica al positivismo e ai limiti del sapere scientifico che caratterizza la cultura di fine secolo. D’altra parte, pur condannando i limiti dello scientismo positivistico, è consapevole che in questo processo storico indietro non si torna. È impossibile ripristinare infatti nella collettività la fede ingenua nei valori religiosi: nella sua opera essa è patrimonio ormai solo del popolino (ne sono esempio le novelle La fede o Lo storno e l’angelo centuno) in cui l’intellettuale non può più identificarsi; oppure appartiene a figure di emarginati, devianti, folli (come Nazzaro della novella Fuoco alla paglia o Marco di Dio di Uno, nessuno e centomila). All’intellettuale restano l’ansiosa riflessione sul mistero della vita umana che non riesce più a essere appagata dalla fede, e le domande sull’enigma inquietante della morte, che indusse lo scrittore alla lettura di testi spiritistici e teosofici.

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Pirandello resta in dubbio sulla trascendenza, ma d’altra parte non aderisce a una visione materialistica, è aperto costantemente al senso dell’“oltre” che si può percepire anche nell’abbraccio consolatorio della natura.

Umberto Boccioni, Dinamismo di una testa d’uomo, 1914 (collezione privata).

La radicalizzazione del pessimismo Ben presto però Pirandello elabora una teoria del soggetto e della conoscenza radicalmente pessimistica. Influenza tale visione, già a partire dal 1900, soprattutto la lettura del saggio Le alterazioni della personalità (1892) di Alfred Binet, psicologo sperimentale pre-freudiano della scuola di Charcot: Pirandello ne trae la convinzione della possibilità di personalità multiple che convivono all’interno di noi. Perviene all’idea che l’unità della coscienza sia qualcosa di volontaristico, di fittizio, di artificioso: noi applichiamo continuamente a noi stessi delle interpretazioni fittizie e arbitrarie, che non corrispondono alla nostra identità profonda: ci vediamo quali vorremmo essere e non quali siamo.

La “maschera”: l’unitarietà fittizia della personalità Per Pirandello la vita psichica è “flusso” continuo, dinamico, che noi cerchiamo di arrestare in forme coerenti che corrispondono a concetti e ideali del mondo e di noi stessi con i quali ci sforziamo di costruire un ritratto coerente, aiutati in questo dalla «macchinetta infernale» (così la definisce Pirandello) della Logica: essa tende a dare valore assoluto a ciò che è invece relativo (della vita e di noi stessi possiamo avere solo un senso soggettivo che quindi ha un valore del tutto relativo). Anche se Pirandello non conobbe quasi certamente in modo diretto l’opera di Freud (che in Italia comincia a essere nota solo alla fine degli anni Venti del Novecento), la sua riflessione mostra sorprendenti analogie con essa, arrivando ad ammettere l’esistenza di una vita del profondo inconscia, da cui provengono tendenze e pulsioni istintuali che possono risultare conflittuali con la stessa “moralità” e il “volto” ufficiale da noi assunto. Alla costruzione di questa “maschera” che non corrisponde al nostro io profondo, e che Pirandello chiama forma (PAROLA CHIAVE PAG. 682) (➜ D3 OL), contribuiscono anche i rapporti sociali che Pirandello considera convenzioni inautentiche che ci condannano a un “ruolo fisso” (ne è un esempio la novella La carriola ➜ T1 ). I momenti “epifanici”: vedersi vivere A volte, improvvisamente, «in certi momenti di silenzio interiore», come scrive Pirandello nell’Umorismo (➜ D4 ), questa maschera inautentica si infrange, magari per motivi del tutto banali, o per l’attivarsi inaspettato di uno sguardo diverso con cui si vede, come se fosse la prima volta, qualcosa di noto, come ad esempio la propria targa professionale sulla porta, che in una drammatica presa di coscienza rivela al protagonista della Carriola l’inautenticità della propria vita, la propria alienazione. In questi “barlumi” improvvisi e rivelatori, assai ricorrenti nell’opera di Pirandello, i personaggi si sdoppiano, “si vedono vivere” scoprendosi maschere inautentiche. La visione pessimistica pirandelliana (PAROLA CHIAVE PAG. 682) impedisce che questi bilanci esistenziali online aprano la strada a metamorfosi positive: al contrario, il “veD3 Luigi Pirandello dersi vivere” porta immancabilmente a scelte drammatiche: la «Ogni forma è la morte» Novelle per un anno, L’uomo solo, follia, il suicidio, l’evasione in una dimensione alternativa alla La trappola realtà, contigua alla follia. Ritratto d’autore 1 681

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3 La poetica umoristica

Lessico umorismo La capacità di cogliere e raffigurare della realtà gli aspetti curiosi e divertenti, dimostrando comprensione e simpatia, senza il proposito di esprimere giudizi morali.

Il saggio sull’umorismo Il supporto teorico fondamentale di tutta la produzione letteraria e teatrale di Pirandello è il saggio L’umorismo pubblicato nel 1908. In esso l’autore codifica i capisaldi della sua ideologia, in stretta connessione con la visione “umoristica” dell’arte che già si era manifestata nelle prime raccolte di novelle e nel Fu Mattia Pascal (1904; non è un caso che il saggio sia dedicato «alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario»). Nella prima parte del saggio Pirandello esamina le definizioni di umorismo e l’opera di autori umoristi italiani e stranieri, alcuni dei quali sente particolarmente vicini (come ad esempio Laurence Sterne ➜ VOL 2 C8). Nella seconda parte dà la propria definizione di arte umoristica, collegandola alla specifica visione della realtà e del soggetto che era andato elaborando. Una forma d’arte per la “modernità” Nella visione pirandelliana, l’umorismo è una forma d’arte antidealistica, volta a demistificare le finzioni, a ritrarre «la vita nuda», smontando le costruzioni illusorie. L’umorismo si distingue dalla comicità pura e semplice grazie al ruolo esercitato dalla riflessione: per spiegarlo Pirandello ricorre a un celebre esempio che focalizza la differenza tra «avvertimento del contrario» (propria della comicità) e «sentimento del contrario» (propria dell’umorismo ➜ D5 ). Quello che più ci interessa però è che per Pirandello l’umorismo è la forma d’arte tipica della “modernità”, che implica la disarmonia, la scompostezza: quella umoristica è un’arte costituzionalmente doppia, è come un’erma bifronte, in cui una faccia ride del pianto della faccia opposta. L’umorista – e qui Pirandello usa una metafora musicale – è sempre «fuori di chiave», «violino e insieme contrabbasso».

Parola chiave

Una “poetica dell’oltre” per una narrativa anti-verista L’arte umorista, già solo per il fatto che svela le contraddizioni e abbatte le apparenze “mascherate”, è per sua natura un’arte anti-verista, ovvero un’arte contraria a quella verista fondata sul rispecchiamento fedele della realtà così come si presenta. Sebbene ammiri Verga, Pirandello è fin dall’inizio estraneo al verismo, anche quando utilizza soggetti, temi, situazioni proprie della narrativa verista: lo sguardo “umoristico” coglie infatti la problematicità del reale, quella umoristica è una “poetica dell’oltre”, che assegna, in particolare alla narrativa, il compito di prospettare una realtà diversa da quella che appare, stimolando la presa di coscienza del lettore, che spesso viene arringato, apostrofato in modo polemico proprio perché possa acquisire tale innovativa consapevolezza.

forma

pirandelliano

Pirandello usa il termine forma in senso filosofico, in stretto rapporto con la sua concezione della vita umana e del soggetto, e lo connota negativamente (a differenza di filosofi precedenti come Platone e Kant): per lui forma equivale a “parte” inautentica e provvisoria con cui la società, ma anche l’individuo stesso, “fissano” arbitrariamente il soggetto, una parte che non corrisponde per nulla alla sua reale natura, che peraltro rimane indistinta perché costantemente in divenire. L’accezione pirandelliana sembra derivare, più che da suggestioni filosofiche, da espressioni come “mettere in forma, modellare”, proprie dell’artigianato (forma come stampo per modellare i manufatti), ma anche dalla contrapposizione, propria della lingua comune, tra sostanza e forma, che assegna a quest’ultima il valore negativo di labile apparenza.

Pirandello è autore molto noto anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Si spiega così la relativa diffusione di un aggettivo come “pirandelliano” che fa riferimento alle tematiche più tipiche dello scrittore siciliano e ne estrae un significato globale rispecchiato dal termine, con quel tanto di semplificazione che sempre le etichette di questo tipo comportano. “Pirandelliano”, in particolare associato al termine “situazione” (“una situazione pirandelliana”), allude espressamente a un’esperienza paradossale, equivoca, grottesca (ad esempio come quella ritratta nella commedia Il giuoco delle parti), vista in genere in modo angoscioso da chi la vive, perché mette in discussione il suo ruolo, la sua stessa identità personale.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Romano Luperini L’intellettuale moderno come coscienza critica In questo breve passo il critico Romano Luperini sottolinea la nuova funzione dell’intellettuale prospettata da Pirandello sulla base della poetica umoristica, in netta antitesi alla figura dell’intellettuale letterato e ideologo alla D’Annunzio.

R. Luperini, Il Novecento, vol. I, Loescher, Torino 1981

[Siamo] di fronte alla presa di coscienza della crisi della funzione ideologica dell’intellettuale [...] cui non è più possibile svolgere un ruolo positivo d’ordine morale e civile, ma cui spetta ormai, secondo Pirandello, solo un compito di coscienza critica, negativa ed estraniata. Di qui la polemica contro D’Annunzio, ancora legato a una 5 concezione dell’intellettuale come letterato e ideologo, come uomo di stile e propagatore di miti, che profondamente ripugnava a Pirandello. Invece l’intellettuale diventa per lui l’umorista, colui che coglie e sottolinea le contraddizioni della realtà, non già per comporle, ma per denunciare una disarmonia e un nonsenso. Ridotto dall’industria moderna e dal dominio delle macchine a un ruolo puramente tecnico, meccanico, 10 ripetitivo (la figura e il lavoro dell’operatore cinematografico Serafino Gubbio hanno evidentemente un senso emblematico), l’intellettuale può solo registrare il caos che lo circonda, non già attribuirgli un significato, dargli un valore. All’estraneità e all’impotenza dell’artista non è possibile alcun tipo di risarcimento. Alla fine il silenzio (Serafino Gubbio diventa muto) diventa tangibile metafora di questa nuova condizione 15 dell’intellettuale. L’«autore» sparisce: i «personaggi» si muovono senza di lui, senza la sua mediazione ideologica: questo è il non casuale punto d’arrivo del famosissimo Sei personaggi in cerca d’autore. [...] La figura d’intellettuale che emerge dal saggio L’umorismo ha indubbiamente il fascino di una straordinaria modernità. L’intellettuale di Pirandello è «l’uomo fuori di chiave», «sospeso», «perplesso», «che non può 20 abbandonarsi a un sentimento, senza avvertire subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia lo sconcerta e lo indispettisce»; è l’umorista, il quale sa che la vita non ha «un fine chiaro e determinato», mentre gli uomini di questo fine non possono fare a meno e allora di continuo se ne inventano uno, illusorio, fittizio. La sua funzione è quella di svelare illusioni e finzioni, di togliere le maschere, riducendo l’esistenza alla 25 sua nudità (Maschere nude è il titolo che Pirandello volle dare alla sua produzione teatrale). Smontare il congegno su cui si fonda la vita sociale, «smontarlo per vedere com’è fatto», «scaricare la molla» e osservare «tutto il congegno striderne, convulso» [...], svelare menzogne psicologiche e sociali, mostrare come la «compagine della esistenza quotidiana» sia «priva di senso, priva di scopo»: questo il compito critico e 30 demistificante che viene indicato agli scrittori.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Perché, secondo Luperini, Pirandello è un intellettuale “moderno”? Da quale modello si distanzia? 2. Quali circostanze storiche e sociali hanno favorito la nascita di questa nuova figura di intellettuale? 3. Trova e commenta tutte le metafore con cui l’autore descrive le caratteristiche o le funzioni dell’intellettuale Pirandello. 4. Sulla base delle tue conoscenze elabora un testo sul tema dell’intellettuale oggi. Chi è l’intellettuale oggi, secondo te? Che funzione svolge nella società civile? In che cosa somiglia e in che cosa differisce dall’intellettuale Pirandello? Argomenta in modo che gli snodi del tuo pensiero siano organizzati in un testo coerente e coeso.

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Luigi Pirandello

Vedersi vivere: l’esperienza della spersonalizzazione

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L’umorismo Nell’ultima parte del principale saggio di Pirandello, L’umorismo, lo scrittore illustra un concetto chiave della sua visione filosofica: l’esperienza angosciosa dello “sdoppiamento”, che consente all’improvviso all’uomo di osservare come “dal di fuori” la propria vita, di “vedersi vivere”.

L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a c. di E. Ghidetti, Giunti, Firenze 1994

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà 5 vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini sono scisse e disgregate in essa. [...] 10 Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere, e che sotto c’è qualcos’altro, 15 a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o di impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze.

Concetti chiave Le occasioni epifaniche

Il breve passo proposto da L’umorismo, di grande suggestione, è molto importante per illuminare un aspetto chiave della visione pirandelliana della vita, che lo scrittore siciliano traspone in molte situazioni della sua opera narrativa. Nella visione fortemente pessimistica di Pirandello, l’uomo vive invischiato in ruoli inautentici che lo condannano a un’esistenza infelice e soprattutto non corrispondente alla sua intima natura. In alcuni momenti in cui il frastuono della vita quotidiana tace, si verificano talvolta, in modo inaspettato, vere e proprie occasioni “epifaniche”, cioè rivelatrici: accade all’uomo di prendere improvvisamente coscienza della sua condizione, di cogliere cioè gli inganni di cui si nutre la nostra esistenza e di percepire intuitivamente l’esistenza di un’altra possibile dimensione di vita. Ma essa ci appare misteriosa, paurosa e cerchiamo allora di “rientrare” nei ruoli codificati, nelle “misere apparenze” di cui è fatta la vita “normale”. Una volta provata però la vertigine della scoperta, è difficile continuare a vivere come nulla fosse. Sono molti i personaggi pirandelliani, soprattutto delle novelle, che vivono l’esperienza sconvolgente del “vedersi vivere” qui descritta, un’esperienza che non apre mai la strada a una positiva trasformazione esistenziale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale pensiero filosofico di Pirandello emerge in questo passo? ANALISI 2. Spiega che cosa significa l’espressione silenzio interiore più volte presente nel brano

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STILE 3. Lo stile di questo brano non è sempre quello oggettivo e prosaico di un saggio, ma si apre talvolta al poetico. Trova esempi significativi di questo aspetto.

Interpretare

SCRITTURA 4. Scrivi un testo in cui spieghi quali conseguenze ha il vedersi vivere, e perché dopo l’illuminazione rivelatrice è impossibile tornare come prima. Puoi arricchire il tuo elaborato, indicando se mai nella tua vita ti è capitato di vivere un momento simile.

Luigi Pirandello

La differenza tra comicità e umorismo

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L’umorismo L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a c. di E. Ghidetti, Giunti, Firenze 1994

In una celebre pagina del saggio sull’umorismo, Pirandello si sofferma sull’importanza che ha la riflessione nelle opere umoristiche. Dopo aver chiarito che la riflessione è presente anche in altre tipologie di testi, ma rimane in un certo modo implicita e non ha una visibilità né un ruolo determinante come nell’arte umoristica, Pirandello ricorre a un esempio, divenuto celeberrimo, per spiegare, in particolare, la differenza tra comicità e umorismo. Eccolo.

Ebbene, noi vedremo che nella concezione1 di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene2; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, 5 da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira3: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario. Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca4, e poi tutta goffamente imbellettata5 e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia 10 rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario6. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto 15 perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie7, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo 20 sentimento del contrario8. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.

1 concezione: ideazione. 2 spassionandosene: sottraendosi al coinvolgimento, distaccandosene.

3 spira: si origina. 4 manteca: unguento, pomata. 5 imbellettata: truccata. 6 Il comico... del contrario: per Piran-

dello il comico è frutto della percezione immediata, irriflessa (un avvertimento) di qualcosa che “stona” rispetto a ciò che ci aspettiamo. 7 canizie: capelli bianchi, canuti. 8 sentimento del contrario: rispetto alla dimensione della comicità, l’arte umo-

ristica approfondisce, scava, analizza: quello che a prima vista è uno spettacolo comico, diventa patetico grazie all’apporto della riflessione, che induce a scoprire, dietro l’apparenza, il caso umano che vi si cela, come appunto nell’esempio della vecchia signora.

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Concetti chiave Il ruolo chiave della riflessione

Per Pirandello, carattere specifico delle opere catalogabili come “umoristiche” è il ruolo critico esercitato dalla riflessione, la presenza di una componente razionale attiva nell’autore, che analizza comportamenti, passioni, distanziandosi da essi per osservarli in un certo qual modo dall’esterno, in una sorta di sdoppiamento. Ne deriva l’adozione di un punto di vista costituzionalmente “diverso”, più profondo. Alcune situazioni e comportamenti a volte ci sembrano comici, come nel caso citato nel passo: percepiamo che la vecchia signora parata goffamente da giovane, con i capelli tinti è il contrario di quella che dovrebbe essere una rispettabile, vecchia signora e magai ridiamo di lei (la comicità è “avvertimento” e cioè percezione del “contrario”). Ma, andando oltre questa prima superficiale impressione, l’intervento della riflessione prospetta una possibile verità profonda dietro il suo comportamento e cioè il patetico tentativo di trattenere l’amore di un marito più giovane. Ne deriva la scoperta di una dolorosa condizione umana, che produce quello che Pirandello chiama “sentimento del contrario”, contrapponendolo all’“avvertimento del contrario” che è proprio del comico. L’umorismo è sempre una commistione di comico e tragico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché l’esempio della vecchia signora camuffata da giovane aiuta a capire l’essenza dell’arte umoristica? STILE 2. Trova e commenta tutte le similitudini presenti nel passo. 3. L’esempio della vecchia imbellettata procede con uno stile paratattico, caratterizzato da verbi all’indicativo presente come vedo, mi metto a ridere, avverto ecc. Spiega il perché di questa scelta. LESSICO 4. Rifletti su tutti i significati del termine riflessione presenti anche in questo brano.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Scrivi un breve testo in cui anche tu descrivi in un primo momento una persona dal comportamento ridicolo. Offri, quindi, al lettore un’occasione di riflessione sulla sua situazione, rivelando il tragico che si nasconde dietro l’impressione comica. TESTI A CONFRONTO 6. Trova personaggi di altre opere letterarie presentati in chiave umoristica dai rispettivi autori, sottolineando il loro profilo tragicomico.

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L’anti-idealismo dell’arte umoristica L’umorismo

L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a c. di E. Ghidetti, Giunti, Firenze 1994

Nella parte finale del saggio sull’umorismo, Pirandello sintetizza i caratteri dell’arte umoristica a cui la sua stessa opera si ispira. È evidente nel testo la contrapposizione a ogni forma di idealismo. In particolare, il principale bersaglio polemico di Pirandello in ambito critico era l’estetica di Benedetto Croce, i cui precetti si configuravano ai suoi occhi come una riproposta di quelle norme retoriche che egli contestava. Non a caso Croce stroncò il saggio pirandelliano nel 1909.

L’arte in generale astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica1. Ora pare all’umorista che tutto 1 l’idealità essenziale e caratteristica: l’essenza.

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ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso 5 questa povera anima umana agli atti più inconsulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, 10 cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi della vita. 15 Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti2; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze. 2 repugnanti: contraddittori.

Concetti chiave L’umorismo, arte della modernità e della disarmonia

Pirandello scrive in un momento storico di grave crisi, in cui sono stati sconvolti i parametri etici e gli stessi paradigmi conoscitivi. Di conseguenza la rappresentazione artistica moderna non può più rimanere artificiosamente legata a principi artistici di unità e armonia, ma deve necessariamente ospitare l’incoerenza e la disarmonia, creando personaggi contraddittori, irrisolti: non a caso, nel Fu Mattia Pascal, in un celebre passo (➜ T13a ), si ritiene ormai impossibile l’esistenza dell’eroe tragico (incarnato nel passo da Oreste), guidato nelle sue azioni da indiscutibili princìpi; i personaggi moderni assomigliano piuttosto ad Amleto, l’emblema per eccellenza del dubbio. Per Pirandello i comportamenti umani sono «assolutamente imprevedibili», enigmatici perché hanno le loro radici nel magma indistinto di quello che Freud in quegli stessi anni chiamava “inconscio”. I princìpi sostenuti da Pirandello nel saggio sull’umorismo sono attuati nella prassi della sua opera: soprattutto nella misura breve della novella, Pirandello contesta ogni idealizzazione e nel tratteggiare la psicologia dei suoi personaggi infrange il principio stesso della coerenza. Una scelta programmatica, quella della disarmonia, che investe poi anche il piano espressivo, così che opzioni stilistico-linguistiche dissonanti coesistono non solo in una stessa novella, ma persino all’interno di passi contigui o addirittura di uno stesso passo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENDERE 1. In che senso, secondo Pirandello, l’arte in generale “idealizza”? 2. In che senso l’autore umorista “scompone” i suoi caratteri? Perché lo fa? STILE 3. Perché ogni tanto l’autore scrive in corsivo alcuni vocaboli?

Interpretare

SCRITTURA 4. Nel brano, Pirandello afferma che «noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale». A che cosa allude, secondo te? Condividi questa idea? Sapresti fare esempi di vita quotidiana in cui una di queste “anime” prevale sulle altre?

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Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 1 Le novelle: dalla rivisitazione del Verismo al Surrealismo Un monumentale corpus narrativo La fama internazionale di Pirandello è affidata essenzialmente al suo teatro, che mostrava in modo più vistoso le novità della sua concezione artistica e della sua visione della vita. Oggi però appare sempre più importante (e viene perciò sempre più indagata dalla critica moderna) l’opera del narratore, e in particolare l’inesauribile fucina della novellistica, nella quale si ritrovano per la maggior parte i materiali a cui Pirandello attinge per costruire i suoi stessi testi teatrali. A questo imponente corpus narrativo, circa duecentocinquanta novelle, che dalla rivisitazione del Verismo approda, negli ultimi testi, a forme di narrazione surrealista, vanno aggiunti i sette romanzi, i più noti dei quali sono Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila. Pirandello inizia a comporre novelle molto presto, verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento: la scena letteraria è occupata dal Verismo, ma già si comincia ad avvertire la stanchezza del pubblico verso la narrativa di gusto realista e l’emergere di un nuovo gusto che privilegerà i fascinosi personaggi dannunziani e le complicazioni psicologiche dei romanzi di Fogazzaro (➜ C5). La strada presa da Pirandello come narratore sarà del tutto originale: si distanzia dal Verismo e rifiuta l’evasione estetizzante di D’Annunzio, per fare del racconto una coraggiosa testimonianza della condizione umana. Storia delle Novelle per un anno La stragrande maggioranza delle novelle esce prima su rivista (da «Il Marzocco» a «La Riviera Ligure» e, dal 1909, al «Corriere della Sera»). Inizialmente la scrittura novellistica non mostrava ambizioni organiche; a un certo punto Pirandello inizia a raccogliere i testi già pubblicati in raccolte titolate. Dal 1922 infine riorganizza per la casa editrice fiorentina Bemporad tutte le novelle edite e ne inserisce di nuove in un corpus dal titolo complessivo Novelle per un anno (pensava infatti di arrivare a scriverne 365 come i giorni dell’anno, ma arriverà a comporne circa 250, comprese quelle rimaste escluse): si tratta di ben 15 volumetti l’ultimo dei quali pubblicato postumo. Tranne l’ultima raccolta (Una giornata), tutte le altre prendono il nome dalla novella posta in apertura. Il titolo complessivo di Novelle per un anno costituisce un omaggio alla tradizione novellistica, nella quale era consueto far riferimento alle notti o alle giornate (l’esempio più celebre è il Decameron di Boccaccio, titolo che allude appunto alle dieci giornate entro cui si svolge la narrazione delle cento novelle). Il distanziamento dal Verismo Non è corretto parlare, come spesso si fa, di una progressiva presa di distanza di Pirandello dal Verismo, perché in realtà questo allontanamento avviene fin dall’inizio: sono certo presenti, soprattutto nei primi anni, situazioni e motivi che rimandano al Verismo, ma si tratta di puri e semplici “canovacci”, di materiali che Pirandello rende funzionali alla poetica umoristica (adottata già molto prima del saggio L’umorismo del 1908) e nei quali Pirandello immette le “sue” tematiche fin dall’inizio della sua attività di narratore. (➜ PER APPROFONDIRE La distanza della narrativa pirandelliana da quella naturalista e verista, PAG. 690)

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I temi e i personaggi delle Novelle per un anno Nelle novelle ricorrono alcuni temi principali, riconducibili ai nuclei-chiave della visione pirandelliana: l’inautenticità del vivere e il fallimento esistenziale. I personaggi delle novelle sono segnati per lo più dalla solitudine, dalla pena di vivere, dovuta alla smentita di ogni loro aspirazione alla realizzazione personale: spesso per contesti sociali e/o familiari opprimenti (Il treno ha fischiato ➜ T2 , L’eresia catara), o per il peso del destino che rovescia la loro condizione esponendoli all’irrisione e al disprezzo (Se..., Fuoco alla paglia, Il tabernacolo, Da sé), o per la costrizione dei ruoli sociali (La carriola, ➜ T1 ) e per i pregiudizi feroci della collettività (La patente, Canta l’Epistola), o ancora per l’irrompere di una malattia che stronca ogni illusione di una vita felice (Piuma, L’uccello impagliato, L’illustre estinto). Nella casistica variegata dell’umanità ritratta da Pirandello nelle novelle spicca il numero consistente di figure femminili, ai cui drammi lo scrittore si accosta con dolente partecipazione, adottando un punto di vista “al femminile” di sorprendente modernità. Il “vedersi vivere” Pirandello coglie quasi sempre i suoi personaggi in un momento della loro vita che costituisce una sorta di “spartiacque” esistenziale, nel quale essi prendono coscienza, spesso in modo improvviso e fortuito, della propria alienazione: le occasioni rivelatrici dell’inautentica condizione in cui si è vissuti possono essere anche banali, come il fischio di un treno nella notte (Il treno ha fischiato) o l’incontro con una persona che non si vedeva da molto.

Renè Magritte, Il tempo pugnalato, 1938 (Chicago, Art Institute).

La funzione maieutica della novella e la dissoluzione delle strutture narrative realistiche Al racconto breve Pirandello non attribuisce il compito di un fedele rispecchiamento realistico dei fatti come Verga, ma un compito “maieutico”: egli si propone di indurre il lettore a scoprire, al di sotto della superficie dei “fatti”, una verità più profonda e non convenzionale, così da accrescere la sua conoscenza della realtà. Proprio per questo, nella costruzione dell’intreccio enfatizza (ai limiti dell’inverosimiglianza) coincidenze strane, “raddoppiamenti” di situazioni per ritrarre esemplarmente il grottesco paradosso della vita, che o non ha un senso o ha un senso per lo più tragico. Non poche novelle poi sono programmaticamente costruite secondo un procedimento di “rovesciamento” umoristico o comunque di “svelamento”, che contesta la lezione dei “fatti” («un fatto è un sacco vuoto» osserva Pirandello). Si tratta in un certo senso di “controracconti” perché ricostruiscono (attraverso il “racconto nel racconto” del personaggio stesso o attraverso un flash back) una versione più autentica dei fatti: costruita secondo questo schema è ad esempio la celebre novella Il treno ha fischiato. Nelle situazioni evocate è sempre evidente l’ideologia dell’autore, intenzionato a convincere il lettore (da qui il tono a volte enfatico) delle amare verità che il caso scelto esemplifica. Proprio per il fine quasi “didattico” imposto dall’adesione alla poetica umoristica, Pirandello rinuncia all’impassibilità del narratore verista, rendendo ambigui i confini tra personaggio, voce narrante e autore. Tipico strumento con cui dà espressione all’interiorità profonda dei suoi personaggi è il discorso indiretto libero, che egli impiega con una funzione ben diversa da Verga (➜ PER APPROFONDIRE Il discorso indiretto libero nella narrativa pirandelliana, PAG. 690). Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 2 689

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PER APPROFONDIRE

La distanza della narrativa pirandelliana da quella naturalista e verista Centralità dei temi esistenziali A Pirandello non interessa tanto focalizzare le dinamiche sociali: anche se, soprattutto nelle novelle “siciliane”, evidenzia i nessi tra personaggio e ambiente, tende comunque a incentrare la sua riflessione sulla condizione umana in sé e per sé. Svalutazione dei “fatti” Pirandello utilizza i fatti per costruire una “tesi”, non ha intenti realistici ma anzi spesso esaspera le vicende in modo volutamente grottesco per mettere in risalto l’assurdità irrazionale della vita e della condizione umana: non si preoccupa neppure di cadere nell’inverosimiglianza pur di conferire all’intreccio un valore esemplare della sua amara visione della vita. Inoltre spesso riformula gli stessi temi e vicende narrative nell’idea che «un fatto è un sacco vuoto». Invasione degli elementi riflessivi Lo spazio narrativo viene costantemente invaso da elementi “discorsivi” (pensieri o riflessioni) che introducono una dimensione problematica. Ci sono vere e proprie novelle di pensieri come Il coppo o Da sé. Infrazione dell’impersonalità La narrazione è condotta per lo più in terza persona, ma siamo lontanissimi dall’impersonalità propria del Naturalismo e del Verismo. Pirandello fa un uso molto marcato della focalizzazione interna: la voce nar-

rante entra nella psicologia del personaggio per riprodurne, anche attraverso l’indiretto libero, i pensieri e le emozioni, ma sempre in rapporto alla sua visione della vita, che crea in tutta la sua opera un “clima” ideologico facilmente riconoscibile. In alcuni casi lo scrittore adotta la formula dell’“io narrante”, quasi sempre per personaggi concepiti espressamente come portavoce dell’autore e della sua ideologia (La trappola ➜ D3 OL). Uso di titoli umoristici antireferenziali Ai titoli referenziali e prevedibili, propri del Naturalismo e del Verismo, egli sostituisce titoli “umoristici”, che sorprendono il lettore (come Il fu Mattia Pascal, Da sé, Fuoco alla paglia, Sole e ombra, Il treno ha fischiato, Volare ecc.) e che vogliono avere un valore “segnaletico”, costituendo spesso vere e proprie “piste di lettura” (come ad esempio Uno, nessuno e centomila). Prospettiva metaletteraria Pirandello tende spesso a usare lo spazio narrativo (e poi anche quello teatrale) per dibattere problemi di natura estetica e per affermare con forza polemica la sua visione del mondo e dell’arte. Esistono addirittura novelle esclusivamente finalizzate alla discussione, seppur “narrativizzata”, come La tragedia d’un personaggio.

Il discorso indiretto libero nella narrativa pirandelliana Il discorso indiretto libero ricorre con particolare frequenza nell’opera narrativa di Pirandello. Ricordiamo che il discorso indiretto libero è un resoconto di parole e pensieri attribuiti a un personaggio (ma la “voce” rimane quella del narratore) che non viene introdotto da verbi di dire e verbi di pensare. Nell’indiretto libero, il personaggio a cui sono attribuite le parole o i pensieri fa riferimento a sé in terza persona, il tempo verbale per lo più usato è l’imperfetto, vengono impiegate forme, a livello sintattico e lessicale, volte a mimare il pensiero diretto o il parlato, si utilizzano frequentemente forme interrogative o esclamative.

Pirandello usa il discorso indiretto libero per una funzione ben diversa da Verga che, soprattutto nei Malavoglia, vi ricorre frequentemente. Mentre Verga utilizza l’indiretto libero come strumento del “narratore regredito” per riprodurre il parlato/pensato del mondo popolare, Pirandello lo usa per penetrare “dentro” la coscienza dei personaggi, di solito dopo aver adottato una marcata focalizzazione interna al personaggio. La tecnica risulta evidente dal seguente esempio, tratto dalla celebre novella Il treno ha fischiato, narrata in terza persona: il protagonista, Belluca, ha improvvisamente scoperto, grazie al fischio di un treno in corsa, la miseria, l’angustia della sua vita.

S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte. C’era, ah! C’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante 5 città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra... Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! Oltre l’umorismo: le ultime novelle e una nuova poetica narrativa La produzione di novelle si va rarefacendo durante gli anni della preponderante attività teatrale. Negli ultimi anni della sua vita, però, Pirandello riprende con grande creatività a scrivere novelle, ma sembra ormai abbandonare la prospettiva umoristica per adottare – forse anche in relazione al mutato clima letterario degli anni Trenta – un modo di narrare che è stato variamente definito dagli studiosi: «fantastico», «metafisico», «surreale». Non mancano nelle ultime novelle elementi tematici e d’altro genere che le ricollegano alle più generali caratteristiche dell’opera pirandelliana, è però indubbio che si verifica una svolta: i racconti assumono, come nel caso di

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Una giornata (➜ T4 OL), un carattere più decisamente simbolico. Di conseguenza tendono a scomparire la rappresentazione socio-ambientale realistica, la descrizione fisica del personaggio, e persino la sua caratterizzazione psicologica. Pirandello non sembra più interessato a ricostruire la storia del personaggio attraverso i flash back: domina in queste tarde novelle un “presente immobile”, la solitudine del personaggio, mentre scompaiono le figure di contorno e il dialogo con esse. Alla volontà polemica, tipica di un Pirandello che protesta in modo vibrante contro l’assurdità della vita umana, si sostituisce un tono distaccato, attonito. Da qui la prevalenza di un lessico lirico, di una sintassi coordinativa, rallentata, in cui dominano i costrutti nominali, che registrano sensazioni disarticolate più che pensieri e idee. Nelle ultime novelle esiste anche un altro aspetto che alcuni interpreti hanno individuato e collegato alla coeva letteratura surrealista: l’emergere dell’inconscio, che si traduce spesso nel riferimento all’aggressività, alla violenza (anche sessuale), alla dimensione onirica (Il chiodo, Cinci, Soffio, Lucilla, Visita, Effetti di un sogno interrotto).

Analisi passo dopo passo

T1

Luigi Pirandello

LEGGERE LE EMOZIONI

La carriola Novelle per un anno, La carriola

L. Pirandello, Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo, Mondadori, Milano 1986

La carriola, pubblicata nel 1917, è una delle novelle più note di Pirandello. Rappresenta in modo quasi didascalico il tema della “forma” in cui l’individuo è costretto e la situazione del “vedersi vivere”.

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso. Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è 5 nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, 10 la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto1. Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno 15 che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti. Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio 20 atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima. 1 Quand’ho qualcuno... mi vendica di tutto: l’esordio della novella crea un clima inquietante e misterioso: il lettore non sa

nulla di chi sta narrando né della misteriosa figura femminile che viene evocata e che si intuisce spaventata, né dell’atto

Pirandello utilizza qui la formula dell’io narranteprotagonista: una scelta che segnala quasi sempre un forte investimento teorico da parte dell’autore.

L’associazione tra due termini antitetici, follia e cosciente, suscita nel lettore perplessità e curiosità per una vicenda che si profila fin dall’inizio enigmatica. Quale figura retorica individui?

che compie e che gli dà gioia perché è il frutto di una “cosciente follia”.

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Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la 25 mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia ob30 bedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno più serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato. Guaj, dunque, se il mio segreto si scoprisse! La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, 35 da qualche giorno, non mi sento più sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere 40 indotto a cercarne la ragione. Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me2. 45 Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.

L’autoritratto del protagonista ne delinea il ruolo sociale e ne traccia un illuminante profilo etico-psicologico. Quale immagine complessiva della personalità del narratore-protagonista se ne ricava?

Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione. Uno degli obblighi miei più gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m’opprime, il peso enorme 50 di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto reclama. L’unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo 55 da tempo, è quella di volgermi a un’altra nuova. M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo 60 fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà. Veramente non potrei dire che non vedessi nulla Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò 65 che gli occhi vedevano. 2 Il valore dell’atto... s’è rivelata a me: il lettore è disorientato da questa dichiarazione: come può un atto segreto che sembra presupporre una violenza essere «stimato e apprezzato»?

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Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi s’avvistasse di più lo spettacolo della campagna, che pur mi passava 70 sotto gli occhi limpido, lieve, riposante. Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, 75 in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio3 d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che 80 forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto 85 sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere 90 soltanto, ma di sofferenze veramente sue. Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, 95 acre e arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita4, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come vôtati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, 100 d’una gravezza crudele, insopportabile. Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa. Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul piane105 rottolo innanzi alla mia porta. Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è

3 il brulichio: l’immagine indistinta e confusa.

4 atroce afa della vita: la pregnante espressione, che sintetizza lo stato d’animo del personaggio quando si risveglia, è

Gli aggettivi alludono alla serenità, alla leggerezza dell’essere.

Quale significato riveste l’insistita contrapposizione qua/là, vicino/lontano?

Aggettivi e sostantivi sono qui invece connotati dal grigiore e dalla “pesantezza”, corrispettivi della vita del protagonista.

La targa professionale funge da specchio in cui il protagonista si “vede vivere”: è una delle occasioni “epifaniche” (cioè rivelatrici) assai comuni nella narrativa pirandelliana.

ripresa dalla novella La veste lunga: anche lì è un viaggio in treno a favorire la presa di coscienza della protagonista.

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inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un 110 tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia. Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che abitava 115 là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; 120 in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e 125 combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva 130 fatto così, quell’uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva imposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dell’altro? Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che 135 tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro — ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m’importava 140 di tutte le brighe in cui quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso adempimento di 145 tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione? Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non 150 potevo tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo

Quali risultati produce il “vedersi vivere”?

Analizza il significato dell’incalzante susseguirsi di proposizioni interrogative e della ripetizione del pronome interrogativo.

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insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe 160 preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors’anche la moglie... Ma i ragazzi? 165 Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte. No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio 170 consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta. Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rien175 trai anche in quella casa e nella vita di prima. 155

Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti! Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive 180 più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte. Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver 185 conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a 190 veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, 195 senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire. Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di 200 me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo

La crisi d’identità vissuta dal protagonista tocca qui l’acme.

Il personaggio si fa evidente portavoce dell’autore in un ampio squarcio filosofico incentrato sui nodi più tipici del pensiero pirandelliano: in particolare il tema della forma-maschera e dell’inautenticità dei ruoli.

La prosa assume qui spiccati caratteri argomentativi.

L’asserzione apodittica sovverte il motto sapienziale antico (“Conosci te stesso”): la consapevolezza razionale non porta mai in Pirandello a esiti positivi, ma rende ancor più tragica la condizione umana.

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la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, 205 muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: «Ma come? 210 io, questo? io, così? ma quando mai?». E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da 215 brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e 220 non mi fanno più respirare. Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene. Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, an225 che senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle 230 azioni e le conseguenze di esse non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quale tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e 235 muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla 240 società, cioè ai signori studenti universitarii della facoltà di legge, ai signori clienti che m’hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo 245 solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.

Osserva nell’enumerazione delle parole l’uso della figura retorica del climax.

Concetto assai ricorrente in Pirandello: i fatti ci inchiodano alle nostre responsabilità, creando una catena deterministica a cui è impossibile sfuggire.

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Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con 250 gli occhi già appannati dalla vecchiaja. Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vec255 chiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare5 con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito6 di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante 260 carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire: «Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà 265 qui a disturbare il mio sonno.» Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così. 270 Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di 275 diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone7; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga, chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli 280 occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, 285 questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette 290 davanti, reggendola per quelle di dietro. Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cric5 ruzzare: correre e rotolarsi. 6 il partito: la scelta, la decisione.

Si apre la parte conclusiva della novella, destinata a svelare le enigmatiche allusioni iniziali.

Si ripetono le espressioni già impiegate all’inizio, che qui si precisano e chiariscono: per infrangere la prigionia della forma il protagonista si concede una piccola dose di follia quotidiana. Viene finalmente svelato il senso del titolo enigmatico La carriola che fino a ora era rimasto incomprensibile per il lettore. Nelle novelle pirandelliane l’epilogo ha carattere ben diverso da quelle verghiane: assai spesso non chiude il testo, ma anzi lo apre a dimensioni “altre”, prospetta possibili continuazioni della vicenda.

7 seggiolone: poltrona o grossa sedia imbottita munita di braccioli.

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chio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di 295 prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile. Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita8 a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non 300 è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così. Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio. Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scher305 zare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.

8 basita: stupita, stupefatta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente il contenuto della novella. 2. Dai un titolo a ognuna delle sequenze in cui la novella è stata divisa dall’autore attraverso gli spazi bianchi COMPRENSIONE 3. Che cosa rappresenta per il protagonista il gesto puerile di “far fare la carriola” al suo cane? Cosa recupera della dimensione infantile? Perché il cane è atterrito da quel gesto? ANALISI 4. Attraverso quali espedienti l’autore riesce a creare all’inizio del testo una forte suspence? 5. Individua le scelte narrative che fanno di questa novella un esempio di poetica umoristica.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Il termine “forma” (➜ PAROLA CHIAVE PAG. 682) ricorre spesso nella novella tanto da risultare la parola dominante. Spiega in che cosa consiste la “forma” per Pirandello e come tale tema trovi espressione nella Carriola. Rileva la stretta contiguità fra la novella e il passo dell’Umorismo.

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 7. Riscrivi la novella adottando il punto di vista della cagnolina. SCRITTURA 8. Hai mai sentito il bisogno di compiere anche tu un gesto liberatorio di “cosciente follia”? A che scopo? Raccontalo.

Luigi Pirandello

T2

Il treno ha fischiato

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

Novelle per un anno, IV (L’uomo solo) Pubblicata sul «Corriere della Sera» il 22 febbraio 1914 quindi in L’uomo solo, Firenze, Bemporad, 1922 (vol. IV delle Novelle per un anno)

Il treno ha fischiato è una delle novelle più note di Pirandello. Il senso dell’enigmatico titolo si chiarisce nel corso del racconto, incentrato su un’occasione “epifanica” che sconvolge la soffocante esistenza del protagonista, un umile impiegato.

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, ap-

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presi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: – Frenesia, frenesia. – Encefalite. – Infiammazione della membrana. – Febbre cerebrale.1 E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere 10 compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.2 – Morrà? Impazzirà? – Mah! – Morire, pare di no... 15 – Ma che dice? che dice? – Sempre la stessa cosa. Farnetica... – Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo3; e che tutto 20 ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.4 5

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente5 ribellato al suo capoufficio, e che poi, all’aspra riprensione6 di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e 25 propria alienazione mentale.7 Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto8... sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista9, 30 senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni10; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo11. Casellario ambulante12: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi13. 35 Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare 1 Frenesia… Febbre cerebrale: i termini medici dovrebbero etichettare la malattia mentale del protagonista. Il successivo andamento del racconto metterà in discussione il sapere “ufficiale” della medicina. 2 E volevan sembrare… invernale: la riflessione della “voce narrante” (che per ora sembra “esterna”), smonta “umoristicamente” l’atteggiamento psicologico dei colleghi d’ufficio (si veda, per un analogo contrappunto umoristico, L’illustre estinto). 3 naturalissimo: il termine ricorre più volte nel testo, in rapporto “umoristico” con le specialissime (cioè particolarissime) condizioni in cui viveva Belluca. 4 E a nessuno… quel suo naturalissimo

caso: secondo intervento del narratore, che già si presenta nel ruolo che sempre più assumerà nel corso della novella, di unico, legittimo interprete della malattia di Belluca. 5 fieramente: duramente. 6 riprensione: rimprovero. 7 Veramente... alienazione mentale: il narratore inizia la ricostruzione della vicenda di Belluca, con un riferimento al passato recente (la sera avanti). 8 Circoscritto: limitato, chiuso. 9 computista: impiegato che si occupa di tenere la contabilità. 10 partite aperte... impostazioni: sono appunto tipiche operazioni di computisteria amministrativa.

11 note, libri mastri… e via dicendo: sono gli strumenti di cui Belluca si serve, che maneggia quotidianamente per il suo lavoro. 12 Casellario ambulante: l’efficace metafora sottolinea la completa spersonalizzazione di Belluca, ridotto, dopo tanti anni di lavoro d’ufficio, quasi a uno “schedario” vivente. 13 Circoscritto... paraocchi: veniamo a conoscenza, attraverso la breve retrospezione, del tipo di lavoro svolto da Belluca; il narratore insiste sull’aridità spersonalizzante di questo lavoro d’ufficio.

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un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, 40 come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il di45 ritto di fargliela, il capoufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova, e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo14. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che 50 gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capoufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: 55 – E come mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani. – Che significa? – aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca! – Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’im60 becillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere. – Il treno? Che treno? – Ha fischiato. – Ma che diavolo dici? – Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare... 65 – Il treno? – Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. 70 Allora il capo ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, 75 e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato15 e trascinato all’ospizio dei matti16. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: 14 era venuto con più di mezz’ora di ritardo: dato il suo atteggiamento di “impiegato-modello”, era un fatto del tutto eccezionale. 15 imbracato: legato strettamente (evi-

dentemente perché lo si riteneva capace di gesti inconsulti). 16 Lo avevano… matti: il comportamento ribelle, assolutamente singolare trattandosi di Belluca, e la motivazione, apparente-

mente del tutto assurda (ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno) che egli fornisce del suo nuovo atteggiamento, inducono tutti a considerarlo pazzo.

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– Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro17, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche18, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva 85 in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava19 di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola20. Cose, ripeto, inaudite. 90 Chi venne a riferirmele21 insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca 95 contratti in giù, amaramente, e dissi: – Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui22. 80

Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la 105 vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima23». 100

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. 115 Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le 110

17 senza lustro: opachi, spenti. 18 bislacche: strambe. 19 uno che finora... ora parlava: la contrapposizione non potrebbe essere più netta, visto che la follia rivela un Belluca completamente diverso dalla macchinetta di computisteria che tutti erano abituati a vedere in lui, portando alla luce il fanciullo-poeta che non era ancora del tutto morto dentro di lui. 20 azzurre fronti… facevan la virgola: le

espressioni sono poste in corsivo dall’autore non solo in quanto citazioni delle parole di Belluca, ma anche, e soprattutto, per segnalarne la natura poetica, quasi che Belluca avesse appreso (o ricordato?) un nuovo lessico. 21 Chi venne a riferirmele: inaspettatamente il narratore si qualifica come interno alla storia. 22 Belluca signori… con lui: rivolgendosi presumibilmente a qualcuno degli impie-

gati (signori) che gli ha riferito la notizia relativa a Belluca, il narratore si assume fin da ora il compito di spiegare la vera natura della pazzia di Belluca. 23 Cammin... una coda naturalissima: la quarta sezione della novella, assai breve, è tutta occupata dalle riflessioni riportate in “discorso diretto”, del narratore, che mostra la sua vicinanza all’autore stesso (di cui è uno dei tanti portavoce.

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serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto24. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da 120 mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, per125 ché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché 130 la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai25. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. 135 Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. – Magari! – diceva – Magari! Signori, Belluca s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che 140 il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria26 o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. 145 Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria 150 di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno27. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte. 155 C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il 24 Aveva con sé... alla madre soltanto: il cumulo di disgrazie che opprime la casa di Belluca sembra veramente eccessivo, poco verosimile. Pirandello si preoccupava di rendere le vicende, più che verosimili, “esemplari”, e proprio per questo portava al limite certe situazioni.

25 Non avevo veduto mai... più intontito che mai: nella quinta parte della novella il narratore che si dà anche una precisa identità di testimone (ero suo vicino di casa), compie un excursus retrospettivo sulla vita privata, ancor più squallida di quella pubblica, di Belluca.

26 nòria: macchina per sollevare acqua o materiali minuti. 27 Due sere... tutt’intorno: la retrospezione nel passato recente (che si immagina contenuta nel racconto che Belluca fa al narratore) illustra finalmente quanto è successo.

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mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre se160 guitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immagi165 nazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo 170 notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste28... E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. 175 Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avreb180 be ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato... 28 C’era... le foreste...: nella parte fondamentale della novella la voce rimane

quella del narratore, che penetra però, attraverso l’indiretto libero, nei pensieri,

nei sentimenti e nelle percezioni stesse di Belluca.

Analisi del testo La struttura La novella, nell’insieme piuttosto breve, presenta una struttura complessa: è divisa dall’autore stesso, attraverso gli spazi bianchi, in sei sezioni di diversa estensione, che scandiscono le tappe progressive di una ricerca “investigativa”. Alla prima brevissima sezione, in cui domina il massimo dell’enigmaticità (per un certo tempo non si sa neppure di chi si sta parlando), si contrappone l’ultima, la più ampia e importante, che contiene la spiegazione di quanto realmente è accaduto al protagonista e chiude così il “caso” (si tratta però pur sempre di una chiusa aperta, problematica, come avviene frequentemente nel mondo delle novelle pirandelliane).

Il rapporto fabula-intreccio L’articolazione della narrazione è molto destrutturata rispetto allo svolgimento logico-cronologico dei fatti: infatti la narrazione non solo parte dagli “effetti” per risalire alle “cause”, ma ha un andamento sinuoso tra passato remoto, passato recente e presente. La prima retrospezione si apre all’inizio della seconda sezione della novella (r. 22): prende le mosse dal

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comportamento strano di Belluca, che la sera avanti si era ribellato al capoufficio (dopo essere stato aspramente rimproverato da lui per la sua inefficienza) e compie poi un’incursione nel passato di Belluca. La funzione di questo primo ragguaglio retrospettivo compiuto dal narratore è quella di illuminare il Belluca “pubblico”, il suo ruolo passivo e rassegnato di “travet”, cioè di monotono impiegato di basso livello. La seconda, fondamentale, retrospezione («Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca») occupa per intero la quinta sezione della novella (rr. 110-133) e ha la funzione di completare il ritratto del protagonista, illuminando la sua vita privata, ancor più miserevole di quella pubblica di impiegato. La terza retrospezione riguarda i fatti (o meglio la rivelazione-rivoluzione interiore) che hanno causato la “pazzia” di Belluca (due sere avanti) ed è contenuta nel racconto di Belluca al narratore.

La voce narrante Nelle prime due sezioni, raccontate in terza persona, la voce narrante rimane anonima: si tratta di un narratore onnisciente, che dimostra subito di possedere un maggiore bagaglio di informazioni su di lui («le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni», rr. 18-19) che gli consente di interpretare come naturalissimo quanto gli è capitato e di prendere le distanze dall’interpretazione “ufficiale” (quella medica) del caso di Belluca. Nella terza sezione il narratore esce allo scoperto, qualificandosi come testimone interno alla storia (in seguito la sua identità si precisa ulteriormente) e ribadendo il proprio diritto-dovere di spiegare la vicenda di Belluca grazie alle “privilegiate” conoscenze di cui dispone. E nella quarta, brevissima, sezione, che questo ruolo commentativoesplicativo del narratore si manifesta pienamente: egli usa, in riferimento alla presunta “follia” di Belluca, un termine che ricorre costantemente nella novella: naturalissima (cfr. rr. 19, 21, 97, 99, 109, 134, 136). Probabilmente Pirandello, attraverso il narratore (qui particolarmente vicino all’autore), che considera appunto “naturale”, spiegabilissimo dunque, e quasi inevitabile, il comportamento di Belluca, date le condizioni impossibili in cui è sempre vissuto, vuole alludere ai procedimenti e alle premesse tecniche del Naturalismo-Verismo (procedimenti e premesse che in realtà tutta la sua narrativa, e certo anche una novella come questa, mettono in discussione). Infatti, “naturalissima”, date le premesse, sarebbe stata una vera e propria esplosione di follia in Belluca, mentre è “originale”, prettamente pirandelliana, nell’amara consapevolezza del suo carattere di finzione, la “fuga” immaginaria di Belluca. È proprio lo “straordinario” inoltre, nel mondo pirandelliano, a diventare “ordinario”.

La tematica della novella Il fischio del treno lontano, che sveglia la coscienza assopita di Belluca, ha il valore di uno strumento “epifanico”: simbolo per eccellenza del viaggio, il fischio del treno fa infatti scattare l’evasione di Belluca dalla realtà angusta e opprimente in cui non si accorgeva nemmeno più di vivere, realtà sociale-familiare che, come spesso avviene in Pirandello, il narratore porta al limite (quasi all’inverosimiglianza) proprio per rendere “esemplare” la vicenda di Belluca. Il fischio del treno, aprendo improvvisamente, in modo del tutto gratuito, gli orizzonti mentali, spirituali, visivi di Belluca, apre la strada alla sua fuga-riscatto. Non si tratta, come nella più tarda novella Fuga (➜ T4 OL), di una fuga reale, fisica, verso uno spazio diverso, aperto e lontano, ma ha comunque tutti i caratteri di un’irrazionale protesta, di un riscatto della vita sulle mortificanti costrizioni della “forma”. Allo stesso modo esiste un rapporto di continuità tra l’evasione fantastica di Belluca e il gesto trasgressivo del protagonista de La carriola: come quest’ultimo può continuare una vita “normale” solo concedendosi saltuariamente lo sfogo di “far fare la carriola” alla sua cagnetta, così Belluca potrà tornare, una volta che il treno ha fischiato, alla sua computisteria, ma con la coscienza che in ogni momento potrà fuggire attraverso l’immaginazione.

Il lessico dell’evasione Nel racconto della vicenda di Belluca sono vistosamente contrapposti due tipi di lessico. Il primo ha a che fare con l’arida mansione di computista di Belluca: è un lessico tecnico, su cui il narratore insiste, all’inizio della seconda sezione, con voluta precisione («partite aperte [...] partite semplici e doppie o di storno [...] defalchi e prelevamenti e impostazioni...», rr. 30-31). Nella terza sezione del testo, in relazione alla “follia” di Belluca, il narratore contrappone alla macchinetta di computisteria che egli era stato finora, un Belluca bambino-poeta che ora par-

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Per approfondire Pirandello e il viaggio in treno

lava di «azzurre fronti di montagne nevose [...] di viscidi cetacei che... con la coda facevan la virgola» (rr. 87-89). Il riferimento, sottolineato e intensificato nel testo dal corsivo, al lessico “nuovo” di Belluca, è assai importante e ribadisce che il fischio del treno non ha prodotto in lui solo una momentanea evasione, ma una vera e propria rivoluzione interiore, attivando una nuova percezione del reale che coincide con una “pascoliana” regressione alla condizione poetica dell’infanzia (significativo il riferimento agli occhi di Belluca, che «gli ridevano lucidissimi come quelli d’un bambino»). Questo tipico lessico “poetico” ritorna nell’indiretto libero fortemente emotivo, della sesta sezione, con cui la voce narrante entra nei pensieri di Belluca, identificandosi pienamente con il personaggio («sfavillavano di luci [...] scorreva come un brivido elettrico [...] questo stesso palpito del tempo [...] levavano al cielo notturno le azzurre fronti», rr. 158-170).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente il contenuto della novella. ANALISI 2. Seleziona tutte le informazioni sull’ambiente professionale e familiare di Belluca e commenta i giudizi che affiorano su di essi nella novella. 3. Trova e commenta le frasi che pronuncia Belluca dopo aver sentito il fischio del treno. COMPRENSIONE 4. Spiega perché Belluca può essere un ottimo esempio di personaggio umoristico pirandelliano. STILE 5. Trova esempi significativi di discorso indiretto libero. A chi sono riconducibili?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il rapporto fabula-intreccio di questo testo con quello della novella La carriola, specificando soprattutto le analogie. SCRITTURA 7. Nella vita di Belluca, a un certo punto, un evento improvviso e apparentemente insignificante si è rivelato un momento epifanico che gli ha aperto gli occhi su sé stesso e la sua vita. Ti è mai capitato di vivere un’esperienza simile, cogliendo improvvisamente qualcosa di te che prima non riconoscevi? Racconta in un breve testo la tua esperienza. LETTERATURA E NOI 8. Belluca si rifugia nell’immaginazione per sfuggire alla realtà quotidiana altrimenti insostenibile, dando quindi all’evasione fantastica un’enorme importanza. Che cosa ne pensi? Che importanza ha l’immaginazione nella tua vita?

EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 9. Pur non essendo di stampo verista, anche in questa novella il mondo del lavoro emerge come un contesto stressante e alienante. Pensi esistano ancora situazioni professionali di questo tipo? Dopo aver riflettuto in classe con i tuoi compagni su queste condizioni, fai una ricerca su alcune significative normative già in atto a tutela dei diritti dei lavoratori. Leggi e rifletti quindi sull’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 (lavoro dignitoso e crescita economica), che si prefigge di incentivare una crescita economica inclusiva e sostenibile, garantendo a tutti un lavoro dignitoso. DIDATTICA ORIENTATIVA 10. Q uale mestiere ti piacerebbe svolgere dopo i tuoi studi? Come vorresti che fosse il tuo futuro contesto lavorativo? Perché? Scrivi un testo o produci un video.

online T3 Luigi Pirandello

Ciaula scopre la luna Novelle per un anno, Ciaula scopre la luna

T5 Luigi Pirandello Una giornata: un racconto fantastico-simbolico Novelle per un anno, Una giornata

T4 Luigi Pirandello Fuga Novelle per un anno, Fuga

T6 Luigi Pirandello La patente: dalla novella alla trasposizione teatrale La patente

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2 I romanzi: un cammino sperimentale Pirandello romanziere Oltre alle novelle, l’esperienza narrativa di Pirandello riguarda ben sette romanzi, composti in un ampio arco di tempo, dalla fine dell’Ottocento alla prima metà degli anni Venti. Per i romanzi si potrebbe ripetere quanto già detto per le novelle: anche se ha grande ammirazione per Verga e ne assimila la lezione, fin dal primo romanzo, L’esclusa (composto nel 1893, ma pubblicato nel 1901), Pirandello imbocca una strada autonoma rispetto al maestro. Le tematiche esplorate e le soluzioni narrative adottate derivano essenzialmente dalla scelta dell’ottica umorista: non è un caso che il saggio L’umorismo (1908), in cui Pirandello definisce a livello teorico la sua poetica, sia dedicato a Mattia Pascal, protagonista del romanzo più importante e noto – e di cui tratteremo più avanti –, Il fu Mattia Pascal (1904), quasi Pirandello avesse voluto sottolineare in questo modo; esso stesso di per sé umoristico, la stretta interdipendenza fra la sua produzione romanzesca e le riflessioni consegnate al saggio.

I romanzi di Pirandello 1901

L’esclusa (composto nel 1893)

1902

Il turno

1904

Il fu Mattia Pascal

1911

Suo marito poi riveduto e ripubblicato postumo con il titolo di Giustino Roncella nato Boggiòlo

1913

I vecchi e i giovani

1915

Si gira... ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore

1925-1926

Uno, nessuno e centomila

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I romanzi “siciliani”: da L’esclusa a I vecchi e i giovani L’esclusa Nel 1893 Pirandello scrive il suo primo romanzo, Marta Ajala, poi pubblicato con il nuovo titolo L’esclusa (1901). Il modello a cui ispirarsi – per il siciliano Pirandello, al suo esordio come romanziere – non poteva essere che il grande conterraneo Verga, il quale solo quattro anni prima aveva pubblicato il Mastro-don Gesualdo (1889). Fin dall’inizio Pirandello rifiuta invece l’estetismo di D’Annunzio che, nello stesso anno, aveva dato alle stampe, con notevole successo, Il Piacere. Come il romanzo di poco successivo, Il turno, composto nel 1895 (una vicenda grottesca, in cui domina il gioco del caso), L’esclusa è ambientato in Sicilia. Il soggetto potrebbe sembrare a prima vista un soggetto verista: nell’intreccio è infatti in primo piano il cosiddetto codice d’onore, radicato nel costume siciliano, che impone a Rocco Pentagora di scacciare dalla propria casa la moglie Marta (è la protagonista), in quanto colpevole di adulterio. In realtà, quasi subito la vicenda vira in una direzione diversa, contrapponendo alla tirannia naturalistica dei “fatti” (Marta è accusata e inchiodata al ruolo di adultera soltanto per una lettera d’amore che le era stata spedita da un potente uomo politico) la “verità”: la donna è del tutto innocente ed è accusata a torto, sulla base di retrivi pregiudizi, di cui si fanno interpreti il marito e il padre, e che sono fatti propri e amplificati dalla collettività del paese. Nella vicenda irrompe poi la dimensione paradossale, che rimanda all’ottica pirandelliana e alla poetica umoristica, distante dalla prospettiva verista: Marta, ormai lontana dal paesino dove viveva, incontra a Palermo l’uomo di cui è accusata di essere stata l’amante e consuma davvero l’adulterio, ma, appunto, proprio quando è colpevole, viene riammessa in casa dal marito, che si è nel frattempo convinto della sua innocenza e che comunque non può vivere senza di lei. I vecchi e i giovani: una ripresa del romanzo storico? Composto dopo Il fu Mattia Pascal (e pubblicato nel 1909 in appendice alla «Rassegna contemporanea» e quindi in volume nel 1913), anche I vecchi e i giovani è, almeno in parte, un “romanzo siciliano”. Si tratta di un romanzo di impianto storico, ambientato tra la Sicilia e Roma in tempi recenti (1893-1894). Esso costituisce un’amara testimonianza del fallimento degli ideali patriottici risorgimentali in cui hanno creduto i “vecchi”, ideali travolti dalla corruzione subentrata agli anni eroici del Risorgimento: si fa riferimento in particolare allo scandalo della Banca Romana, in cui risultò implicata la classe dirigente alla guida del paese. D’altra parte il romanzo testimonia anche il crollo degli ideali di libertà e giustizia sociale dei “giovani” e delle loro illusioni sulla possibilità di un mutamento politico attraverso l’adesione al socialismo (nel 1894 veniva stroncato il movimento dei fasci siciliani). Ne deriva una sconsolata rappresentazione della politica come illusione destinata in ogni caso allo scacco e al fallimento: al personaggio di don Cosmo Laurentano lo scrittore affida il compito di farsi portavoce del proprio amaro scetticismo nei confronti di ogni azione politica, uno scetticismo peraltro assai diffuso negli scrittori siciliani, da De Roberto (I Viceré ➜ C5) a Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo ➜ VOL 3B C9). A prima vista l’impianto dell’opera I vecchi e i giovani può apparire abbastanza tradizionale, ma di fatto la struttura del romanzo storico ottocentesco è scardinata, innanzitutto perché la narrazione degli avvenimenti storici è filtrata dalle impressioni soggettive (e perciò relative) di una molteplicità di personaggi e poi perché le vicende esistenziali dei personaggi risultano preminenti rispetto ai fatti storici. Il romanzo non rappresenta, come si potrebbe pensare a prima vista, il ritorno a un modello superato di narrazione, ma al contrario si rivela collegato al saggio Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 2 707

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sull’umorismo composto nel 1908. In questo caso però lo “sguardo umoristico”, anziché essere rivolto al caso di un singolo individuo, è applicato a un intero momento storico-sociale.

Il fu Mattia Pascal: il manifesto della poetica umoristica Il fu Mattia Pascal Nel 1904 Pirandello, assillato da gravi difficoltà economiche e occupato ad assistere la moglie ammalata, compone Il fu Mattia Pascal, il suo più celebre romanzo, ispirato in modo deciso a quella poetica umoristica che l’autore definirà quattro anni dopo nel saggio L’umorismo. Il romanzo è ambientato in un paesino siciliano per la prima parte, mentre nella parte centrale si svolge a Roma, dove il protagonista, Mattia Pascal, sfuggito alla trappola di una sciagurata famiglia grazie a una doppia fortunata circostanza casuale, cerca di costruirsi (senza riuscirvi) una nuova identità, per chiudersi nuovamente, alla fine del romanzo, nello scenario iniziale (PAG. 719 SS.). Nel nuovo romanzo Pirandello rinuncia alla narrazione in terza persona, affidata a un narratore-autore autorevole, e lascia la parola al protagonista stesso, un “inetto” (come Serafino Gubbio dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore e Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila): egli ricostruisce a posteriori la sua paradossale vicenda attraverso una prospettiva del tutto soggettiva e programmaticamente inattendibile.

I Quaderni di Serafino Gubbio operatore: il cinema come metafora della civiltà delle macchine

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Per approfondire Pirandello e il cinema

Letteratura sul cinema Nel 1915 Pirandello pubblica sulla «Nuova Antologia» un nuovo romanzo: Si gira..., poi edito in volume l’anno successivo e, dopo una revisione, ripubblicato nel 1925 con un nuovo titolo: Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Il romanzo ha per sfondo il mondo del cinema, a cui Pirandello iniziò prestissimo a interessarsi e con cui intratterrà rapporti diretti in occasione della riduzione cinematografica di alcuni suoi testi. Un romanzo sperimentale Dopo la svolta del Fu Mattia Pascal, i Quaderni di Serafino Gubbio continuano la sperimentazione pirandelliana nell’ambito del genere romanzo. La destrutturazione delle forme narrative tradizionali è qui più radicale: concepito come un diario del protagonista (da qui il titolo Quaderni), il romanzo rinuncia a un andamento lineare per una narrazione frantumata, che si muove liberamente fra passato e presente, alternando a sequenze narrative più ampi interventi riflessivi, secondo il ritmo tutto interiore dei pensieri di chi scrive. Continua inoltre anche in questo romanzo, e anzi si radicalizza, l’abbassamento della figura del narratore già evidente nel Fu Mattia Pascal: anche in questo caso la voce narrante è quella di un antieroe, un inetto, che si è autoescluso dalla vita prima ancora di aver tentato di viverla: «Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno» (I, 1). Il suo ruolo di operatore impassibile richiama metaforicamente quella condizione di osservatore della vita altrui a cui Mattia era approdato alla fine del suo itinerario: una condizione che qui viene assunta fin dall’inizio e ulteriormente esasperata: Serafino non vive, è solo uno “sguardo”, che prolunga quello della sua macchina.

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Il tema della macchina e la critica della civiltà moderna Il tema dell’impossibilità per il soggetto di un’identità autentica, che accomuna i tre principali romanzi pirandelliani, nei Quaderni si intreccia strettamente a una riflessione sulla civiltà moderna, vista come mondo delle macchine e della mercificazione dell’arte (qui simboleggiato dalla nascente industria cinematografica ➜ T8 OL). All’esaltazione trionfalistica della moderna civiltà tecnologica, propria del movimento futurista, e al tentativo di D’Annunzio di farsene cantore attraverso una trasfigurazione mitologica della modernità, Pirandello contrappone la lucida diagnosi della negatività della civiltà meccanizzata, che riduce gli uomini a strumenti, se non addirittura a “cose” in nome del progresso e del profitto. Del mondo moderno (dominato dal mito della velocità e dal “rumore”) Serafino, personaggio-portavoce dell’autore, coglie, fin dalle prime pagine dei Quaderni, anche il potenziale distruttivo: «mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo» (I, 1). Il romanzo esce la prima volta nel 1915, quando si apriva il tragico periodo della Prima guerra mondiale e le parole di Serafino-Pirandello appaiono quasi un’anticipazione profetica del ruolo distruttivo che le macchine belliche avrebbero avuto nel primo conflitto (➜ C14 OL) e prefigurano l’immagine della catastrofe cosmica che annienterà la civiltà umana che chiude La coscienza di Zeno (1923 ➜ C18). Un’allusione all’alienazione dell’artista? È probabile che attraverso la vicenda narrata nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore Pirandello volesse anche alludere all’alienante condizione dell’intellettuale e dell’artista nella società tecnologica e in un contesto economico-sociale che riduceva sempre più l’arte a prodotto commerciale (e il cinema è appunto visto da Pirandello come esempio di questo processo degenerativo). Sono significative a tal proposito le parole con cui Serafino Gubbio sintetizza la sua attività all’inizio del romanzo: «Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla» (I, 1). Il mutismo finale di Serafino che lo rende una pura appendice della macchina («Ho perduto la voce; non ho più la parola; sono rimasto muto per sempre. Operatore perfetto... Non potrei meglio di così impostarmi servitore di una macchina») potrebbe simboleggiare lo spegnersi dell’autonomia e della creatività dell’artista, minacciate e addirittura fagocitate dalla tecnica; in questa prospettiva non è certo casuale l’insistenza con cui ricorrono nel romanzo metafore alimentari e animalesche, in riferimento alle macchine. La macchina da presa, in particolare, è rappresentata come un mostro che “mangia” la vita: «Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima a me non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro» (I, 2). La tigre che alla fine infrange drammaticamente la finzione cinematografica sbranando davvero l’attore potrebbe allora alludere a una rivolta della vita, della naturalità, contro il processo di riduzione della realtà a “cose”, imposto dalla civiltà delle macchine. Quaderni di Serafino Gubbio operatore Serafino Gubbio è un giovane napoletano approdato a Roma in cerca di una sistemazione. Viene ingaggiato come operatore cinematografico dalla casa cinematografica Kosmograph, la cui attrice

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di spicco è Varia Nestoroff (una “donna fatale”, memore della verghiana Nata di Tigre reale e insieme prototipo delle prime dive del cinema). Serafino diventa tutt’uno con la sua macchina da presa (tanto da essere soprannominato «Si gira»), dal cui occhio impassibile osserva la realtà. Si sta girando un nuovo film commerciale, nella cui scena madre la protagonista, in viaggio nella giungla, dovrà essere assalita da una tigre, che sarà però uccisa dai suoi accompagnatori. Il nobile Aldo Nuti, geloso di Carlo Ferro, l’attore che recita accanto a Varia con cui la donna ha una relazione, pretende una parte nel film. Per volere di Varia, Aldo Nuti sostituisce Carlo Ferro. Accecato dalla gelosia e dalla passione, Aldo uccide con un colpo di pistola Varia, e subito dopo, per rimorso, si lascia divorare dalla tigre sotto gli occhi atterriti della troupe. Serafino, seppur inorridito, riesce a filmare tutta la scena. Ma per lo shock perde la parola: ridotto ormai ad un’appendice muta della macchina, decide allora di raccontare la sua storia.

Luigi Pirandello

Contro la civiltà delle macchine

T7

EDUCAZIONE CIVICA

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno I, cap. II L. Pirandello, Tutti i romanzi, a c. di G. Macchia, voll. 2, Mondadori, Milano 1973, vol. II

Dopo essersi presentato ai lettori, il protagonista-narratore fa riferimento all’atto della scrittura, rappresentato come una sorta di risarcimento, che gli consente di sfogare le frustrazioni accumulate in rapporto alla spersonalizzazione propria della civiltà delle macchine.

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella. Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto! 5 L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita! 10 Vi resta ancora, o signori1, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare. Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto? 15 È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in pro20 duzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. 1 o signori: come avviene frequentemente nelle novelle, il narratore si rivolge a una sorta di pubblico quasi teatrale più che a un lettore convenzionalmente inteso.

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Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa che – Dio, vedete quante scatole, 25 scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita! Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta2, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla 30 macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io. Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica. 35 Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare. 40 Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata. C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile? quello dell’ap45 parecchio cinematografico? Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente. 50 Si spezzerà? Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire. In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo3 vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio 55 d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà4. 2 la mia macchinetta: è la macchina da presa. Serafino è infatti un operatore cinematografico.

3 tramenìo: andirivieni. 4 fino al punto... cesserà: il ronzìo delle

ripetitiva e frastornante, non vissuta secondo i ritmi naturali.

macchine diventa espressione di una vita

Analisi del testo La polemica contro la civiltà tecnologica Il capitolo prende le mosse dalla visione negativa con cui il narratore-protagonista, Serafino Gubbio, giudica la propria attività lavorativa di cineoperatore, tanto che la scrittura dei “quaderni” si configura come forma di vendetta, come risarcimento delle frustrazioni accumulate giorno per giorno. Un’attività che presuppone l’impassibilità e l’abdicazione a ogni originalità di pensiero, a ogni sentimento, addirittura a ogni iniziativa personale (ricordiamo ancora ciò che Serafino ha dichiarato nel capitolo I: «Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla»); e quando il regista grida «Si gira!», si limita a girare la manovella della macchina, è solo il braccio che ne attiva il movimento. Fin dall’inizio del romanzo la macchina da presa assume il valore di

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emblema della tecnologia che snatura, meccanizzandola, la vita dell’uomo e lo riduce a un ruolo passivo. Nel brano qui proposto, in particolare, la polemica contro le macchine, «nuove divinità... di ferro e d’acciaio», simbolo della modernità, è condotta da Pirandello sia apertamente («questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni»), sia attraverso l’uso, ricorrente nel romanzo, di metafore animali e alimentari: voraci, saziarle, ingojarsi la nostra anima, divorare la nostra vita, in pezzetti e bocconcini, mangiare. Della civiltà dominata dalle macchine, oltre all’asservimento dell’uomo, Pirandello coglie acutamente anche l’appiattimento del pensiero critico, lo svilimento della ricchezza interiore connesso alla società tecnologica, ai miti della velocità e dell’efficienza: «Si va, si vola. [...] Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza». Con questo romanzo (ma anche con vari spunti disseminati nelle novelle) Pirandello si pone così in una posizione di netta antitesi, di critica aperta ai miti moderni della velocità e della tecnologia che attraversano tanti ambiti della cultura primo-novecentesca: la celebrazione della velocità e del suo simbolo, l’automobile in corsa, si ritrova in particolare nei futuristi. Ma anche D’Annunzio esalta l’ebbrezza della velocità e i simboli di essa (l’automobile, l’aereo) nel romanzo Forse che sì forse che no (1910), di pochi anni precedente il romanzo pirandelliano (➜ C11).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del brano in massimo 5 righe. ANALISI 2. Individua le metafore utilizzate dall’autore: a quali aree semantiche appartengono? 3. Individua le espressioni che contengono una valutazione negativa esplicita e implicita della civiltà delle macchine. Quindi scrivi un breve commento. STILE 4. Analizza il passo dal punto di vista sintattico: quali considerazioni è possibile fare?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

TESTI A CONFRONTO 5. All’esaltazione trionfalistica della moderna civiltà tecnologica, propria del movimento futurista, esplicitata quanto mai nel “Manifesto del Futurismo” del 1909, Pirandello contrappone una decisa critica ai miti moderni della macchina e della tecnologia. Argomenta in merito in un breve testo (max 15 righe). OPERE A CONFRONTO 6. Cerca online il film Tempi moderni di Charlie Chaplin e cogli tutte le analogie tematiche con questo romanzo di Pirandello. LETTERATURA E NOI 7. Le nuove “macchine” della nostra era digitale sono gli strumenti di “Intelligenza artificiale”. Cerca in internet informazioni circa le numerose, talvolta rischiose, novità che l’IA sta portando nel mondo del lavoro e discutine in classe. SCRITTURA 8. Rifletti su quanto ancora oggi la meccanizzazione del lavoro produca criticità significative, intervistando persone a te note che lavorano nell’industria. Leggi quindi l’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 (lavoro dignitoso e crescita economica) e in un breve testo di 15 righe argomenta se la meccanizzazione del lavoro può in qualche caso rappresentare una negazione della dignità della persona che lavora.

Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911 (Museo Von Der Heydt, Wuppertal).

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Il finale «silenzio di cosa» di Serafino Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno VII, cap. IV

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VERSO IL NOVECENTO

La sfida del lavoro P. Volponi, Memoriale, Garzanti, Milano 1962

Leggi il seguente brano di Paolo Volponi, tratto dal romanzo Memoriale. Paolo Volponi, nato a Urbino nel 1924 e morto ad Ancona nel 1994, esordì come poeta (Il ramarro, 1948), ma è noto soprattutto per aver affrontato nei suoi romanzi (Memoriale, 1962; La macchina mondiale, 1965; Corporale, 1974) il tema dell’uomo nella civiltà industriale, sperimentando anche nuove soluzioni espressive. Nel romanzo da cui è tratto il brano proposto, il protagonista è l’operaio Albino Saluggia, tormentato dall’infanzia dalla “malattia” della solitudine; Assunto da una fabbrica del Nord si aspetta di guarire con il lavoro tutti i suoi mali.

Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone, odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine s’inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio m’aiutava a lavorare e mi dava l’ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. […] Ancora non lavoravo a cottimo ma certamente in 5 quei giorni superavo il cento per cento. Ad un certo punto m’accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un attimo prima d’essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, 10 necessaria per finire il pezzo, era diventata per me come l’ultimo tratto di una strada, diversa da quella vera, tra il lago e casa mia: di una strada diversa e più facile, dove sarebbe dovuto capitarmi qualcosa, la rivelazione, il segno del mio nuovo destino. Intanto la mia macchina funzionava bene, aveva solo il motore della tavola un poco più rumoroso del normale. Mentre i motori andavano, m’im15 maginavo qualche volta che si stesse effettuando una corsa automobilistica, nella quale ero in gara con una macchina di mia costruzione. Immaginavo sempre di essere in testa, con il numero 17, il numero che mi era stato attribuito da Pinna e che io mantenevo perché la mia corsa era proprio una sfida lanciata contro il destino avverso e contro la congiura ordita a mio danno da tutti gli altri concorrenti. 20 Nel culmine della corsa la mia macchina subiva un guasto e solo la mia abilità le impediva di fermarsi. Continuavo la gara con il fiato sospeso per gli ultimi giri, guardando i miei compagni di lavoro come se veramente stessero per superarmi con le loro fresatrici e poi, con un ultimo sforzo di volontà, riuscivo a vincere. Un altro giro e la mia macchina si sarebbe incendiata. Seguendo questi pensieri 25 potevo ugualmente controllare bene il mio lavoro e procedere senza la noia di dover numerare uno ad uno i pezzi finiti.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Produzione

TESTI A CONFRONTO 1. Paragona il rapporto che ha Albino Saluggia con la macchina a quello di Serafino Gubbio operatore, sottolineando analogie e differenze. 2. A quale altro personaggio pirandelliano è possibile paragonare Albino Saluggia per la sua attività immaginifica usata come via di fuga da un contesto altrimenti alienante?

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La tigre e Serafino Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno III, cap. IV

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Uno, nessuno e centomila: dal romanzo all’antiromanzo Un’opera-manifesto Dopo una lunga elaborazione (l’ideazione del romanzo risale addirittura al 1910-1912) esce a puntate sulla «Fiera letteraria» (dicembre 1925-giugno 1926) l’ultimo romanzo di Pirandello. La stesura di Uno, nessuno e centomila fu molto accidentata perché continuamente interrotta prima dalle novelle, che Pirandello andava componendo di getto e in rapida successione, poi dal lavoro teatrale, sempre più pressante. D’altra parte Pirandello attribuiva a quest’ultimo romanzo, dato il suo carattere prettamente “filosofico”, il valore di un manifesto della sua poetica che, a suo dire, avrebbe consentito di chiarire anche le prospettive e le scelte fondamentali del suo teatro. In un’intervista del 1919, mentre il romanzo era ancora lontano dal compimento, dichiara: «In questo romanzo c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e la sorgente di quello che farò». Sintesi icastica è già il titolo stesso, che anticipa il contenuto del romanzo, ovvero il tema centrale nella riflessione pirandelliana della dissoluzione dell’unità dell’io. La dissoluzione della forma-romanzo La novità radicale di Uno, nessuno e centomila si coglie anche solo sfogliando le pagine del romanzo. Gli otto libri in cui è diviso sono scanditi da capitoletti con titoli dichiaratamente umoristici, provocatorii, che sfidano le convenzioni narrative (a cominciare dal primo: «Mia moglie e il mio naso» e, a seguire, «Inseguimento dell’estraneo», «E dunque?»). Già i titoli rimandano al carattere saggistico, più che narrativo, del romanzo: il modello a cui Pirandello si richiama è il romanzo settecentesco inglese Tristram Shandy (1760-1767) di Sterne VOL 2 C8, di cui parla anche nel saggio L’umorismo. Nel romanzo campeggia – così da relegare gli altri personaggi al ruolo di semplici comparse – il protagonista-narratore, cioè Vitangelo Moscarda. Come Mattia Pascal, anche Vitangelo racconta la propria storia: ma in Uno, nessuno e centomila il narratore narra non perché ci siano eventi singolari degni di essere raccontati (come nel Fu Mattia Pascal), anzi si può dire che non ci siano quasi eventi in questo romanzo, dove le digressioni riflessive (espressione anche troppo diretta delle idee pirandelliane) hanno netta preponderanza sul tessuto narrativo. In questo senso Uno, nessuno e centomila è il più innovativo dei romanzi pirandelliani: è quasi un antiromanzo, dove si compie la distruzione delle strutture naturaliste. Estremamente innovativo è anche il particolare rapporto con il lettore, rappresentato nel libro come interlocutore, risucchiato a volte dentro lo spazio narrativo, a cui si rivolge (in particolare nella prima parte dell’opera), il monologo assillante del narratore. Dalla destrutturazione dell’io alla dissoluzione liberatrice nella natura Le riflessioni di Vitangelo Moscarda scandiscono le tappe di un’inesorabile presa di coscienza portata avanti attraverso sottili e serrate argomentazioni che approdano alla distruzione del soggetto. Se già Il fu Mattia Pascal si può considerare un antiromanzo di formazione, qui la formazione che Vitangelo persegue approda all’autoannullamento della “persona”: dissolte le maschere, ridottosi volutamente al “grado zero” dell’umanità, assumendo i panni di un povero pazzo, ospite di un ospizio, Vitangelo può finalmente compiere il passo più radicale: liberarsi finalmente dalla costrizione di tutte le forme, annullandosi nel flusso vitale della natura. Uno, nessuno e centomila La vicenda narrata si svolge nell’immaginaria cittadina di Richieri (sotto la quale si cela Girgenti, patria di Pirandello). Il protagonista,

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Vitangelo Moscarda, è l’inetto figlio di un ricco banchiere usuraio: i cospicui beni ereditati dal padre consentono a Vitangelo di vivere comodamente di rendita. Un giorno la moglie Dida gli fa casualmente notare un piccolo difetto fisico di cui Vitangelo non si era mai accorto: osservandosi allo specchio si accorge che in effetti il difetto esiste (il suo naso pende leggermente verso destra). Questa constatazione, di per sé banale, assume il carattere di una sconvolgente rivelazione: «Mi si fissò... il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato di essere». Proseguendo nelle sue riflessioni, Vitangelo comincia a pensare che esistano “centomila” Moscarda, quanti sono gli sguardi parziali in cui l’io si riflette. Guardandosi, in un rito quasi ossessivo, allo specchio, il personaggio assiste inorridito alla propria spersonalizzazione, non si riconosce nel corpo che gli è stato dato, la prima delle tante “forme” costrittive e inautentiche che imprigionano gli esseri. Da quel momento decide di distruggere ogni immagine di se stesso, compiendo programmaticamente delle pazzie: comincia col donare una bella casa a un povero squilibrato (Marco di Dio). Decide poi addirittura di liquidare la banca del padre e di ritirare i propri denari, per cambiare vita. Ovviamente viene da tutti considerato pazzo e la moglie, il suocero e gli amministratori meditano di farlo interdire; ma un’amica della moglie, Anna Rosa, gli suggerisce di devolvere i beni in beneficenza, rivolgendosi al vescovo. Tra Vitangelo e Anna Rosa si instaura uno strano rapporto, la donna è attratta dal bizzarro personaggio e dal suo filosofare, ma ne ha poi paura: con un gesto inspiegabile gli spara ferendolo gravemente. Al processo che deve giudicare la donna, Vitangelo, intenzionato a scagionarla, si presenta indossando la divisa degli assistiti dell’ospizio costruito coi suoi denari, nel quale ha deciso di vivere, libero ormai da ogni forma inautentica, immerso nel contatto con la natura.

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T10

LEGGERE LE EMOZIONI

La scoperta dell’estraneo

EDUCAZIONE CIVICA

Uno, nessuno e centomila, libro I, cap. IV L. Pirandello, Tutti i romanzi, a c. di G. Macchia, voll. 2, Mondadori, Milano 1973

È l’inizio del romanzo: la vita tranquilla di Vitangelo Moscarda è stata sconvolta dalla banale osservazione della moglie Dida sul suo naso, che «pende verso destra»: un dettaglio del proprio aspetto fisico che il protagonista non aveva mai notato. In seguito a questa constatazione si avvia in lui un processo di riflessione che va ben oltre la circostanza occasionale: Vitangelo Moscarda inizia a chiedersi angosciosamente quale sia la sua reale identità.

Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io? Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte; cose 5 inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare. Ma ora pensavo: «E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un paio d’occhi, i miei Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 2 715

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occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere1.» 15 Così, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia2: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto. 20 Io non potevo vedermi vivere3. Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui per così dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio4 per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare più d’un attimo quell’impressione, ché subito seguì quel 25 tale arresto e finì la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò: – Che hai? – Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, 30 pensavo: «Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco; quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non 35 posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no». E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva 40 per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano. Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, 45 tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà. Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie. 10

1 Per gli altri... a ridere: da quanto accaduto Moscarda è dunque indotto a pensare che il nostro aspetto fisico può condizionare il giudizio che gli altri si fanno di noi. 2 ambascia: tormento.

3 Io non potevo vedermi vivere: la dicotomia tra il vivere, che è spontaneità, abbandono inconsapevole al flusso vitale e il “vedersi vivere” è tema portante dell’opera pirandelliana. 4 mi accadde... uno specchio: lo specchio è oggetto chiave nell’immaginario

pirandelliano: guardarsi nello specchio non è mai nell’opera di Pirandello (➜ PER

APPROFONDIRE L’IMMAGINE NELLO SPECCHIO, P. 837) un atto innocuo, privo di conseguenze. Qui, come già all’inizio dell’opera, il personaggio non si riconosce nell’immagine riflessa allo specchio.

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Analisi del testo La riflessione sull’estraneità al proprio corpo Il brano presenta il carattere prettamente filosofico del romanzo, col protagonista-narratore Vitangelo che riflette a livello esistenziale su episodi apparentemente occasionali, ma che nella sua mente si caricano di un altissimo potenziale speculativo. Nell’incipit troviamo, infatti, una delle più sostanziali domande esistenziali: «chi ero io?». L’occasione che ha generato in Vitangelo il dilemma è stata descritta nelle pagine precedenti, ovvero la banale percezione del suo naso che «pende a destra» favorita dalla moglie Dida. Egli ammette di non aver mai riflettuto sulla forma del suo naso, così come su altri dettagli del suo viso “inseparabili” da lui eppure così inesplorati, come il colore degli occhi o l’ampiezza della fronte. Ciò nonostante, quei dettagli hanno sempre avuto un’importanza enorme, perché «gli altri» percepiscono prima di lui quei particolari e li mettono in relazione con le sue idee e le sue emozioni. Egli, infatti, afferma: «Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere». Vitangelo comprende, quindi, che il nostro corpo esiste a prescindere da noi, dalla nostra consapevolezza o volontà, è una delle nostre “forme” più evidenti e non sempre coincidenti con l’immagine che pensiamo di offrire agli altri. Quindi condiziona fortemente il giudizio che gli altri hanno di noi.

La ricerca dell’estraneo Vitangelo comincia, perciò, episodicamente a guardarsi allo specchio per veder vivere il suo corpo, così come potevano vederlo gli altri, ma fallisce, perché ogni volta che si specchia perde «ogni spontaneità», ogni gesto diviene artefatto, e quindi la percezione del suo vero «io esteriore» svanisce. Un giorno, però, passeggiando per strada con l’amico Firbo, si sorprende all’improvviso in uno specchio e, con sgomento, ha l’impressione di vedere per un istante l’«estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri». Da quel momento matura il «proposito disperato» di inseguire «quell’uno che viveva per gli altri».

La scoperta dei «centomila Moscarda» Proprio la ricerca di «quell’uno» estraneo a sé, però, porta Vitangelo alla scoperta più sconvolgente, attorno a cui ruota tutto il romanzo e il pensiero di Pirandello: il riconoscimento dei “centomila” alter-ego che esistevano per gli altri sotto l’unico nome e dentro l’unico corpo di Moscarda. A quel punto hanno inizio il “dramma” (o la farsa) e la serie delle lucidissime “follie” del protagonista, atte a distruggere i centomila “estranei”.

Tecniche narrative In Uno, nessuno e centomila Pirandello porta all’estremo le tecniche già sperimentate nei precedenti romanzi, come l’ampio spazio riservato al monologo interiore di un protagonista incline all’autoanalisi, con la giustapposizione di riflessioni che costituiscono il centro privilegiato del racconto, come dimostra mirabilmente questo brano. I fatti sono il contorno. E con ciò il modello di romanzo ottocentesco è totalmente superato. È, inoltre, sotteso, e talvolta apostrofato, un lettore col quale queste riflessioni sono condivise, chiamato in causa come testimone o giudice. In questo brano è riconoscibile nel passo «Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo», dove il protagonista sembra voler ribadire al lettore l’ingenuità della sua prima convinzione (l’esistenza di un solo “estraneo” da scoprire), ripeterla a lui per ripeterla a sé stesso, prima della cocente smentita delle centomila “forme” in cui si scoprirà imprigionato.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo (max 5 righe) identificando le parole chiave. COMPRENSIONE 2. Spiega e commenta l’espressione: «Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso?» (r. 10). ANALISI 3. Evidenzia nel testo il frequente ricorso alle ripetizioni e spiegane il motivo e l’efficacia narrativa. 4. Perché possiamo definire questo brano “umoristico” nel senso pirandelliano del termine? Offri passaggi del testo a supporto.

Interpretare

SCRITTURA 5. Spesso non è facile guardarsi allo specchio, perché, come accade a Vitangelo, talvolta non vediamo riflessa l’immagine ideale che di noi stessi ci siamo costruiti, la “forma” a noi più cara. Che rapporto hai tu con lo specchio? Hai uno sguardo giudicante o accogliente verso il tuo corpo? Quali conseguenze possono produrre sguardi diversi? Scrivi un elaborato.

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 6. Mettiti nei panni di un tuo conoscente (familiare, amico, insegnante, vicino di casa ecc.) e scrivi in un testo come immagini ti descriverebbe dettagliatamente questa persona sia a livello fisico che caratteriale. Chiedi poi a quella persona di scrivere un tuo ritratto particolareggiato e confronta le due versioni. Che cosa ti ha colpito di più? Hai vissuto la stessa sorpresa di Vitangelo?

EDUCAZIONE CIVICA

ESPOSIZIONE ORALE 7. Nel ventunesimo secolo alle “centomila” identità che abbiamo nella vita reale si è aggiunta l’identità virtuale (o più propriamente le identità virtuali) del mondo dei social. Siamo tutti nascosti dietro schermi, intenti a gestire una seconda realtà di noi stessi. Che cosa alimenta questo bisogno? Quali vantaggi comporta e, viceversa, quali rischi nasconde? Esistono tutele a salvaguardia della nostra identità virtuale? Rifletti sul tema, ricerca dati e prepara una presentazione multimediale da esporre in classe.

online T11 Luigi Pirandello

PER APPROFONDIRE

La dissoluzione di ogni forma nel flusso vitale della natura Uno, nessuno e centomila, libro VIII, cap. IV

L’immagine dello specchio In Uno, nessuno e centomila lo specchio riveste un ruolo fondamentale: è proprio l’atto di guardarsi allo specchio infatti che, all’inizio del romanzo, avvia il percorso conoscitivo di Vitangelo Moscarda. Tutta l’opera di Pirandello, del resto, è percorsa da riferimenti allo specchio o a immagini e oggetti che svolgono un’analoga funzione. Il motivo dello specchio è presente fin dall’antichità e la sua simbologia si lega essenzialmente a due significati: da un lato esso è riproduzione esatta e veritiera del reale, dall’altro lo specchio è anche sinonimo di “illusione” non veritiera. L’archetipo di tale concezione è il mito di Narciso, il giovane che si innamora della propria immagine riflessa nell’acqua, credendola un’altra persona. Realtà e illusione si confondono dunque nell’immagine simbolica dello specchio. Pirandello deriva questa immagine soprattutto dagli scrittori romantici tedeschi, nei quali essa ricorre con particolare frequenza (da Hoffmann a Chamisso). L’utilizzazione del motivo dello specchio in Pirandello non comporta mai l’identificazione di sé, ma al contrario attiva la percezione di un “io diverso” (ad esempio nella novella Una

giornata ➜ T5 OL) lo specchio rivela all’incredulo protagonista la sua vecchiaia e gli annuncia la fine imminente della vita), diviso, e addirittura, come nel testo proposto, estraneo. Il limite estremo di questa tematica dell’“assenza da sé” che lo specchio rivela si ritrova nella tarda novella Soffio (lo specchio rimanda al nulla, rivelando la totale nullificazione dell’io). Una funzione simile allo specchio è svolta dal ritratto: nella novella La mosca, un medico, in una sorta di improvvisa rivelazione, guardando un suo ritratto da giovane, vi “legge” la fine delle sue illusioni in un futuro felice. Analoga funzione assolve la targa sulla porta di casa, con il suo nome e le sue importanti qualifiche professionali, nella quale il protagonista della Carriola (➜ T1 ) si sdoppia, si “vede vivere” improvvisamente per non riconoscere l’immagine di sé che lo “specchio” gli rimanda. Similare è il ruolo dello sguardo di qualcuno, in cui ci si “vede” in modo diverso da come ci si pensa: nella struggente novella Da sé, il protagonista vede riflesso nello sguardo incredulo di un amico che non l’aveva riconosciuto il proprio fallimento esistenziale.

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3 Il fu Mattia Pascal 1 La genesi e le vicende editoriali del romanzo Il romanzo a puntate Il fu Mattia Pascal, considerato il capolavoro narrativo di Pirandello, si iscrive in un periodo molto creativo della vita dello scrittore siciliano: tra il 1901 e il 1908 Pirandello pubblica infatti ben cinque raccolte di novelle, tre romanzi (L’esclusa, Il turno e appunto Il fu Mattia Pascal) e due importanti saggi (Arte e scienza e L’umorismo). Con il secondo saggio, pubblicato quattro anni dopo, il romanzo ha evidenti legami, sottolineati dall’autore stesso, che lo dedicherà «alla buon’anima del fu Mattia Pascal bibliotecario», sottolineando così indirettamente il carattere “umoristico” del romanzo. Quando compone Il fu Mattia Pascal, nel 1904, Luigi Pirandello si trova in un momento drammatico della sua vita, per la malattia della moglie e per le gravi difficoltà economiche: così accetta di scrivere, dietro un compenso pattuito, un romanzo a puntate per la rivista «Nuova Antologia». Pare che lo scrittore non ne avesse in mente il disegno complessivo e lo venisse stendendo puntata per puntata sollecitato dalle scadenze editoriali. Un’opera coinvolgente Forse proprio questa particolare modalità di composizione e la prima destinazione del romanzo (concepito come romanzo d’appendice) indussero Pirandello a ideare un intreccio avventuroso e avvincente, che potesse coinvolgere a ogni puntata il pubblico, stimolandone le aspettative nei confronti del seguito. Ed effettivamente le avventure del Fu Mattia Pascal suscitarono nei lettori interesse e curiosità. Nel 1910 il romanzo viene pubblicato in volume in 18 capitoli. Anni dopo (a partire dall’edizione Bemporad del 1921) Pirandello annette al romanzo un’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, una specie di autodifesa di fronte all’accusa di inverosimiglianza rivolta all’intreccio del Fu Mattia Pascal: Pirandello ricorda un caso realmente accaduto e riportato nella cronaca dei giornali assai simile a quello narrato nel suo romanzo.

2 Il titolo, l’intreccio, il protagonista-narratore Un titolo umoristico Nei lettori suscitò immediata curiosità già il titolo del romanzo, di carattere prettamente umoristico, che identificava il protagonista in un morto: un titolo originale e spiazzante, che si contrapponeva alla narrativa naturalista e verista. Anche i vari capitoli hanno titoli per lo più enigmatici, lontanissimi dalla referenzialità verista, ad esempio «Cambio treno» (cap. VII) o «La casa e la talpa» (cap. III), «Acquasantiera e portacenere» (cap. X). Le due Premesse del romanzo: un’ironica guida alla lettura Il romanzo è costituito da diciotto capitoli titolati. Fanno parte integrale di esso (sono infatti designate come capitolo I e II) due Premesse: esse costituiscono una sorta di guida d’autore Il fu Mattia Pascal 3 719

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alla lettura del romanzo ispirata alla poetica umoristica, una poetica poi messa in atto nelle scelte narrative e stilistiche dell’opera. • La prima Premessa: presentazione del narratore-protagonista e della vicenda. Il narratore-protagonista si presenta ai lettori e già prospetta il tema del suo disadattamento: «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal». L’esordio del romanzo mette inequivocabilmente in scena un narratore “inattendibile”, come lo saranno anche Serafino Gubbio e Vitangelo Moscarda: un narratore di cui viene messa in dubbio la credibilità, dato che è presentato come portatore di un sapere “al grado zero”. Della vicenda, al narratore preme mettere in luce la straordinaria anomalia: la storia di Mattia Pascal non è l’esito della “corruzione di costumi” o della “tristezza dei tempi”, ma è uno strano caso: Pirandello polemizza implicitamente con la scuola naturalistica che faceva sempre derivare da precise cause sociali le vicende e i comportamenti dei personaggi, rivendicando di fronte ai suoi lettori l’originalità e la modernità della sua opera. • La seconda Premessa: quale romanzo per un’epoca di crisi? Definita espressamente filosofica, la seconda Premessa estende il discorso dal personaggio a un contesto più generale, caratterizzato dal “disagio della civiltà” (l’espressione è di Freud). Innanzitutto però Pirandello delinea lo spazio in cui è immaginato l’atto della scrittura del romanzo («Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata»): Mattia scrive la sua storia nella polverosa biblioteca del paese, di cui è custode. In essa i libri giacciono in totale, squallido abbandono: in netta antitesi alla visione di D’Annunzio, che la nobilita e sublima, Pirandello dissacra l’operazione dello scrivere, collocandola in uno scenario che allude metaforicamente alla crisi della cultura tradizionale. Segue il celebre passo in cui Pirandello, attraverso l’esclamazione «Maledetto sia Copernico!» (l’astronomo polacco che sancì la fine del sistema geocentrico mettendo in crisi il sapere astronomico, e non solo quello) sottolinea la fine della visione antropocentrica e, indirettamente, allude alla crisi conoscitiva e valoriale del suo tempo. Da quando l’uomo (da Copernico in poi) ha scoperto di essere «su un granellino di sabbia impazzito (la terra) che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a un destino» è impossibile secondo Pirandello continuare a scrivere romanzi tradizionali, «pieni d’oziosi particolari». Il fu Mattia Pascal sarà allora un romanzo adeguato ai tempi: non solo un romanzo “filosofico”, ma inevitabilmente un romanzo anti-idealistico, in cui la vicenda del protagonista diventa emblema della crisi di identità dell’uomo moderno. Il protagonista: un inetto novecentesco Mattia Pascal inaugura nella letteratura novecentesca una tipologia di personaggio che avrà larga fortuna: l’inetto alla vita, un modello umano di antieroe che si ritrova nel Filippo Rubè di Borgese (➜ C14 T2 ), nei protagonisti dei tre romanzi sveviani (➜ C18), nei personaggi di Tozzi (➜ C15), nel Michele degli Indifferenti di Moravia (➜ VOL 3B C5), e in molti altri ancora. Si tratta di una figura agli antipodi degli eroi dei romanzi dannunziani (che sono pubblicati più o meno negli stessi anni di quelli pirandelliani): agli atteggiamenti estetizzanti e all’attivismo superomistico, Pirandello contrappone il fallimento esistenziale, la rinuncia al vivere, l’esasperata attitudine critico-riflessiva che induce il protagonista a una sorta di sdoppiamento, al “vedersi vivere” di cui Pirandello parla nel saggio sull’umorismo e che mette tante volte al centro della sua opera narrativa. Mattia Pascal è caratterizzato da un rapporto problematico con la realtà. Oltre alla costituzionale tendenza alla riflessione raziocinante, che gli impedisce di aderire

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con immediatezza alla vita, il disadattamento di Mattia Pascal deriva da ragioni diverse a seconda che si considerino i diversi momenti della vicenda narrata: nella prima parte del romanzo Mattia è soprattutto vittima del rapporto soffocante con una terribile famiglia, che ben incarna la “trappola” di cui Pirandello parla in una celebre novella (➜ D3 OL). Nella parte centrale del romanzo la situazione si rovescia: assunta una nuova identità, quella di Adriano Meis, Mattia vive inizialmente l’ebbrezza della libertà da ogni vincolo, ma poi subentra in lui il desiderio di sposarsi, di vivere una vera vita. Non può però farlo perché la sua identità è fittizia e sul piano legale non può documentare la sua esistenza. Impossibilitato a certificare la sua nuova identità, ma anche a rientrare nella vita di prima, per quanto squallida fosse, nell’ultima parte del romanzo, Mattia è costretto a rifugiarsi nella triste condizione di spettatore della vita altrui, assumendo il volto di “dimissionario” dalla vita. Appunto perché non può viverla, può allora scrivere la propria vita: per Pirandello «la vita o si vive o si scrive». Il fu Mattia Pascal: l’intreccio Il testo può essere diviso nelle parti seguenti. Capp. III-V Il romanzo inizia al terzo capitolo, dopo le due premesse (capp. I-II). La prima parte del romanzo è ambientata a Miragno, nome fittizio di un paesino dell’entroterra ligure. Dopo la morte improvvisa del capofamiglia, la madre di Mattia affida la gestione dei beni della famiglia a un tal Malagna (è «la talpa» del titolo del cap. III), che si affretta a dilapidare il patrimonio. Mattia seduce la nipote del Malagna, Romilda, ed è costretto a sposarla, pur non amandola. Scapestrato e inetto, resta imprigionato, suo malgrado, in un vero e proprio inferno familiare, il cui Cerbero è la terribile madre di Romilda, la vedova Pescatore. Con l’aiuto dell’amico Gerolamo Pomino, Mattia trova un posto da bibliotecario presso la biblioteca Boccamazza, un luogo polveroso e dimenticato da tutti. Capp. VI-VII La scena si sposta fuori da Miragno: Mattia lascia il paese e la famiglia, angustiato dalle solite beghe familiari, pensando di raggiungere l’America. Ma, giunto a Nizza, decide di tentare la fortuna al casinò di Montecarlo dove, inaspettatamente, vince una grossa somma. Mentre con il treno fa ritorno al paese, la sorte si prepara a cambiare la sua vita: su un giornale legge infatti casualmente la notizia... del suo suicidio: uno sconosciuto, annegato in un canale al suo paese, era stato riconosciuto dalla moglie e dalla suocera come Mattia Pascal. A questo punto Mattia pensa con gioia di poter davvero rinascere a una nuova vita: «Cambio treno» è il titolo appunto del cap. VII. Capp. VIII-XVI Con il cap. VIII inizia quello che è stato definito «il secondo romanzo»: ne sarà protagonista Adriano Meis (è questo il nome che Mattia sceglie per la sua nuova vita). Mattia-Adriano sperimenta finalmente l’ebbrezza della libertà. Il primo atto compiuto da Adriano, di evidente valore simbolico, è quello di liberarsi della fede nuziale; la ricerca di una nuova identità si concretizza anche nel tentativo di mutare aspetto esteriore, così da rendersi irriconoscibile: si fa crescere i capelli, inforca un paio di occhiali. Dopo una serie di viaggi in varie città italiane e della Germania, Adriano si ferma a Roma. A Roma Adriano soggiorna in una pensione gestita dal bizzarro Anselmo Paleari, cultore di scienze occulte e di spiritismo, e dalla figlia, la gentile Adriana, di cui presto Mattia-Adriano si innamora, corrisposto. Tra i due si frappone però il losco Terenzio Papiano, cognato di Adriana, che deruba il Meis di una grossa somma di

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Per approfondire Mattia Pascal: solo un nome bizzarro?

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Interpretazioni critiche Renato Barilli L’inettitudine di Mattia

denaro. Adriano vorrebbe sposare Adriana e denunciare Papiano ma, non avendo alcun documento, per la società non è nessuno, non esiste: non è più Mattia Pascal ma non è neppure Adriano Meis. Decide allora di far scomparire Adriano Meis e ne simula il suicidio. Capp. XVII-XVIII Mattia ritorna a casa, a Miragno, dove trova però Romilda, la sua “vedova”, ormai felicemente sposata con Pomino, da cui ha avuto da poco una bambina. Nella vita del paese Mattia è ormai un forestiere. Non gli resta dunque che sopravvivere come «fu Mattia Pascal», trascinando una non-esistenza in compagnia di un prete, che ha preso il suo posto nella biblioteca, e scrivendo le sue memorie. La fine del cap. XVIII si ricongiunge all’inizio, conferendo al romanzo una struttura circolare.

3 Le caratteristiche narrative e le scelte stilistiche

PER APPROFONDIRE

Il rovesciamento del romanzo di formazione La struttura del romanzo è sostanzialmente quella di un’autobiografia, narrata dal protagonista anni dopo gli eventi vissuti. Siamo ben lontani però dai caratteri propri del “romanzo di formazione”, rappresentato ad esempio in Italia dalle ottocentesche Confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo, in cui il narratore, Carlo Altoviti, racconta un cammino di formazione etica e intellettuale (non solo sua ma di un’intera generazione). Al contrario, l’io narrante del Mattia Pascal scrive in una condizione di totale disillusione, ormai “fuori” dalla vita e dalla storia e certo non trova nelle sue singolari esperienze un significato progressivo e costruttivo. Mentre il romanzo di formazione ottocentesco è incentrato sulla progressiva crescita morale e culturale del protagonista, realizzata attraverso una serie di prove che ne costruiscono o rinsaldano la personalità, il memoriale di Mattia Pascal registra invece, attraverso le varie tappe della vicenda fino alla paradossale conclusione, il fallimento del tentativo del personaggio di costruire una vita più autentica. In questo senso Il fu Mattia Pascal si può considerare una sorta di romanzo di formazione rovesciato: in consonanza con tempi di crisi ideologica, etica e di valori, il romanzo di Pirandello racconta, se se ne considera l’esito, non un’educazione alla vita, ma «un’educazione alla non-vita» (Luperini).

L’ossessione del doppio Il fu Mattia Pascal è una vera e propria summa della figurazione del doppio che percorre tutta l’opera pirandelliana. Una figurazione che in questo romanzo è vistosamente evidente sul piano tematico, ma che investe, più sottilmente, anche il piano strutturale. Per quanto riguarda l’intreccio e i temi, oltre agli esempi macroscopici (già nominati nel tema del suicidio: Mattia-l’annegato anonimo della Stìa; Mattia-Adriano Meis; ecc.) esistono nel testo molti altri richiami al doppio: la fortuna al gioco del padre di Mattia (cap. III) anticipa quella del figlio; due donne rendono contemporaneamente Mattia padre e, nel caso di Romilda, si tratta di due gemelle; Adriana Paleari si presenta, anche nel nome, come una sorta di doppio di Mattia, Terenzio Papiano, che deruberà Mattia-Adriano, è chiaramente un doppio del disonesto amministratore Malagna. Ma le figurazioni del doppio sono presenti, come si è detto, nella struttura stessa del romanzo: la premessa si sdoppia in due premesse, il romanzo stesso si sdoppia in un “secondo romanzo”.

Il critico Jean-Michel Gardair ha condotto una stimolante analisi di taglio psicanalitico (poi ripresa da Elio Gioanola) dell’intera opera pirandelliana sotto il segno del doppio. Gardair interpreta questa tipicità pirandelliana come derivante da una matrice psicologica fondamentale: attraverso l’oggettivazione letteraria Pirandello metterebbe in atto meccanismi di difesa volti a esorcizzare la percezione lacerante della disarmonia interiore, della “frattura” originaria che lo scrittore avvertì fin dall’adolescenza e a cui dà voce esemplarmente nei Dialoghi fra il Gran Me e il piccolo me (dove il piccolo me, secondo Gardair, è una metafora dell’inconscio). Della propria personalità scissa Pirandello stesso parla in una lettera alla fidanzata alla vigilia delle nozze (➜ P. 784). Testi di riferimento: J.-M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, Edizioni Abete, Roma 1977; E. Gioanola, Pirandello. La follia, Jaca Book, Milano 1997.

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Interpretazioni critiche Mario Ricciardi, Un romanzo sperimentale

Le tecniche narrative Anche sotto il profilo delle tecniche narrative Il fu Mattia Pascal si presenta come un romanzo assai innovativo. Si è già parlato della scelta inusuale di un narratore in prima persona programmaticamente poco autorevole: il che implica non soltanto la presenza di un punto di vista soggettivo in ciò che viene narrato, ma qualcosa di più, ovvero la presenza di una prospettiva soggetta, per definizione, al dubbio. In secondo luogo il tempo non si configura nel romanzo come un’ordinata successione di un prima e di un poi: come in tanti altri romanzi novecenteschi, nel Fu Mattia Pascal è la coscienza del protagonista che fa da filtro alle vicende rappresentate e questo, tra l’altro, comporta la contaminazione fra presente e passato. Inoltre, caratteristica è la dissoluzione dell’impianto narrativo ottocentesco, in particolare per la presenza di digressioni di taglio filosofico o comunque riflessivo, che conferiscono all’opera il carattere di un romanzo-saggio. Quella del Mattia Pascal è una struttura narrativa molto composita, a cui si accompagnano anche precise scelte stilistiche, che segnano consapevolmente un netto stacco dal “bello stile” dannunziano.

Uno stile disarmonico Coerentemente con la poetica umoristica, Pirandello utilizza uno stile volutamente disarmonico, in genere lontano da stilemi letterari e a volte vicino alla vivacità del parlato («Io butto giù come vien viene» dichiara il protagonista): in questa prospettiva si spiega la predilezione per la paratassi, la propensione a un periodo franto, spezzettato. Le scelte lessicali sono meno innovative di quelle sintattiche, ma appaiono spesso caratterizzate dalla ricerca di espressività attraveronline so diminutivi, accrescitivi, dispregiativi. Non mancano forme T12 Luigi Pirandello rare o letterarie, introdotte non certo per gusto erudito, ma per Mattia Pascal “cambia treno”: la fine del “primo romanzo” ribadire con efficacia un concetto, per rafforzare un’immagine, Il fu Mattia Pascal, cap. VII per dare voce a un personaggio.

Il fu Mattia Pascal DATA

1904

AMBIENTAZIONE

Miragno, Milano, Roma

PROTAGONISTA

Mattia Pascal - Adriano Meis (pseudonimo di Mattia Pascal)

TEMI

• la trappola della famiglia • il ruolo del caso nella vita umana • il doppio e la crisi dell’unità dell’io • gli autoinganni della coscienza • il relativismo conoscitivo

TECNICHE NARRATIVE

• io narrante protagonista • intersezioni di elementi riflessivi • uso del soliloquio

STILE

• disarmonia • ricerca di espressività

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Nascita e morte di Adriano Meis: il “secondo romanzo”

T13

La "nuova" vita di Mattia-Adriano inizia pregustando tutta la liberazione della "vecchia". Ma questo stato di euforia non dura: vivere la vita necessita di una identità che Mattia-Adriano non ha più.

Luigi Pirandello

Mattia Pascal diventa Adriano Meis

T13a L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a c. di G. Turchetta, Principato, Milano 1993

Il fu Mattia Pascal, cap. VIII Mattia Pascal, dato per morto, conosce l’ebbrezza di una totale libertà da ogni vincolo. Si adopera allora per darsi una nuova identità prima di lanciarsi nell’avventura di una nuova vita.

Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevano voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d’encomio1, quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr’uomo2. 5 Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire miseramente nella gora d’un molino3. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse sorte migliore. Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell’intimo, non rimanesse più in me alcuna traccia di lui. 10 Ero solo ormai, e più solo di com’ero io non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d’ogni legame e d’ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l’avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio. Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero! 15 Il sentimento4 che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai, ragion d’essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal5. Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi. 20 «E innanzi tutto,» dicevo a me stesso, «avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate6, e andrò in cerca di belle vedute7, di ameni luoghi 25 tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione8; mi trasformerò con amo1 encomio: lode. 2 mi posi... un altr’uomo: si coglie nelle parole del personaggio l’intenzionalità precisa di costruirsi una nuova identità. 3 Poco o nulla... gora d’un molino: poco o nulla avevo da vantarmi di quel disgraziato che aveva per forza voluto finire miseramente nella gora di un mulino (il canale che porta l’acqua a un mulino). Mattia inizia a guardare dall’esterno e con

un occhio giudicante (da qui l’espressione negativa quel disgraziato) colui che era stato fino a quel momento, come si si trattasse già di un’altra persona. 4 sentimento: visione. 5 fu Mattia Pascal: per la prima volta il narratore usa per sé stesso la denominazione che dà il titolo al romanzo e che ricomparirà con maggiore pregnanza alla fine del romanzo.

6 Procurerò... inanimate: mi sforzerò piuttosto di stare in contatto con la natura (le cose inanimate). 7 belle vedute: bei paesaggi. 8 Mi darò... educazione: il “secondo romanzo” che si apre con questo capitolo (intitolato «Adriano Meis») si configura proprio come Bildungsroman, “romanzo di formazione”.

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roso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’esser stato due uomini.» Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciare la barba: avrei voluto levarmela tutta, lì stesso, insieme 30 coi baffi: ma il timor di far nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore9, vecchio, con le reni quasi ingommate10 dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio 35 su quella barbaccia che non m’apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana11, che avevan bisogno d’esser sorretti in punta con l’altra mano. Non m’arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano. Il brav’uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto12 perché gli sapessi dire se 40 era stato bravo. Mi parve troppo! – No, grazie, – mi schermii. – Lo riponga. Non vorrei fargli paura. Sbarrò tanto d’occhi, e: – A chi? – domandò. 45 – Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev’essere antico... Era tondo, col manico d’osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dare dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi. Se era stato bravo! 50 Intravidi da quel primo scempio qual mostro13 fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato 55 in eredità! E quell’occhio! «Ah, quest’occhio,» pensai, «così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia14! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto 60 raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera15 e cappellaccio a larghe tese.» Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d’una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi un po’ ridicola e meschina.

9 sartore: sarto. 10 ingommate: irrigidite. 11 da maestro di lana: come se fosse a capo di una corporazione di artigiani della lana. 12 uno specchietto: come sempre in Pirandello lo specchio compare in momenti chiave della vicenda e con funzioni

sempre importanti: qui Mattia si trova nel momento in cui lo specchio (che quasi ha paura di guardare), dovrebbe rivelargli la morte del suo sé passato e la nascita di un nuovo individuo. 13 mostro: qui vale “prodigio, miracolo” (dal latino monstrum). 14 Ah, quest’occhio... nuova faccia: Mat-

tia Pascal ha un occhio strabico, il tratto più caratterizzante della sua fisionomia, che ora ritrova, quasi enfatizzato, nel nuovo volto che l’eliminazione della folta barba ha creato. 15 Finanziera: giacca molto lunga e a doppio petto, in origine indossata da banchieri e magnati della finanza.

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Il nome16 mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino. [...] Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione17 di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso18 e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine19 e trasparente 70 la coscienza, e lo spirito vigile del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità20 deliziosa 75 dell’anima; serena ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all’improvviso, mi aveva sceverato21 dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: «Vedrai, vedrai com’essa t’apparirà curiosa, ora, a guardarla così da fuori! [...]» Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi della cam80 pagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi piaceva d’immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano, spaventati da quel coso nero22 che correva per la 85 campagna, fragoroso; all’ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa; alle povere mogli dei cantonieri23 che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide e col cappello del marito in capo. Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi 90 stringeva ancora l’anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l’altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d’oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch’esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne? 95 Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano. Tutto, attorno, mi s’era rifatto nero. Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell’ultimo anello! 100 Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell’aperta campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei due nomi incisi internamente 65

16 Il nome: Mattia ricava il nuovo nome di Adriano Meis da frammenti della dotta conversazione sentita tra due passeggeri nel suo stesso scompartimento: Adriano è il nome dell’imperatore romano (117-138 d.C.), protettore delle arti, amante della letteratura; Meis è da Camillo De Meis (1817-1891), filosofo antipositivista e antimaterialista.

17 fermato… deliberazione: determinato dentro di me a mettere in atto la decisione. 18 era invaso: ero invaso. La desinenza in -a della prima persona dell’imperfetto (derivata dalla desinenza latina) perdurò, soprattutto nell’uso letterario, fino ai primi decenni del Novecento.

19 rifatta vergine: ritornata pura. 20 levità: leggerezza. 21 sceverato: separato, allontanato. 22 quel coso nero: il treno, su cui si trova Mattia Pascal, ora Adriano Meis. 23 cantonieri: custodi dei passaggi a livello.

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e la data, facesse scoprir la verità, che l’annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal. «No, no,» pensai, «in luogo più sicuro... Ma dove?» Il treno, in quella24, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto25, gente poco riflessiva, alla quale piace 110 di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso26 da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella... Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne; e lì intombai27 il mio anellino di fede. 105

24 in quella: in quel momento. 25 coloro che amano il bel gesto: probabile riferimento a D’Annunzio (con il quale Pirandello polemizza spesso) e indirettamente con l’idea che l’arte debba per

forza avere a che fare con la dimensione del “sublime”. 26 compreso: tutto preso. 27 intombai: seppellii, quindi gettai come in una tomba. Efficace verbo iperespres-

sivo: la fine ingloriosa della fede nuziale segna la morte del primo personaggio, Mattia Pascal.

Analisi del testo Un antiromanzo di formazione Con il capitolo VIII inizia la seconda parte del romanzo a cui corrisponde il nuovo volto del protagonista. Un volto che nasce dalla svalutazione netta dell’individuo che egli era stato in quella che considera la sua “prima vita”: Mattia Pascal è definito da espressioni svilenti come «quel disgraziato» che aveva commesso «tante sciocchezze» e, più avanti, addirittura è «quell’imbecille». Se nel modello narrativo del romanzo di formazione ogni esperienza (comprese quelle negative) si colloca in un percorso costruttivo e graduale, Il fu Mattia Pascal si fonda invece su una frattura con il passato, per lo meno nelle intenzioni del protagonista, che rinnega deliberatamente, facendo tabula rasa del proprio passato, il precedente “sé stesso”. Il nuovo Mattia intende essere artefice di una nuova identità, ri-educandosi. Ma, come si vede dal seguito del romanzo, si tratterà di un’operazione fallimentare.

La negazione del corpo-forma Per prima cosa il personaggio comincia con il rinnegare l’aspetto fisico di Mattia facendosi tagliare la folta barba, ma paradossalmente il taglio della barba gli fa scoprire dettagli fisici che non ricordava di avere: «Il mento piccolissimo... mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso... E quell’occhio!» Nello stesso capitolo, più avanti, il personaggio si compiace della sua trasformazione: «Se non fosse per quest’occhio di lui, di quell’imbecille...». Il personaggio pirandelliano ha quasi sempre un rapporto negativo con il proprio corpo: il corpo che riceviamo in sorte è la prima, spesso odiosa, maschera, la prima, e fondamentale “forma” costrittiva, che per lo più non ci corrisponde, come dichiara il protagonista della Carriola: «Anche il mio stesso corpo, la mia figura... mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata quella figura, per farmi muovere in una vita non mia». In modo ancora più marcato il tema del proprio corpo ricompare nel libro primo (cap. VII) di Uno, nessuno e centomila, in cui il protagonista guarda allo specchio, irritato e perplesso, un aspetto fisico in cui non si riconosce: «Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri […]. Ecco: era così: lo avevano fatto così, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un’altra statura […]. Chi era? Ero io? […] Perché dovevo esser io, questo, così?». Il motivo pirandelliano dell’antipatia nei confronti del corpo (non in sintonia con la dimensione spirituale e intellettuale del personaggio) produce il tema opposto e complementare della dissoluzione del corpo, esemplarmente rappresentato nella novella Di sera, un geranio: «Ma dopotutto ora s’è liberato, e prova per quel suo corpo là, più che antipatia, rancore... Lui

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non era quel corpo; c’era anzi così poco...». Soprattutto nelle ultime novelle ricorre frequentemente il motivo della “smaterializzazione”, dell’unione cosmica con il tutto, nell’immedesimazione con la natura (si veda anche la conclusione di Uno, nessuno e centomila).

La fine umoristica di un anello nuziale Liberatosi anche del nome, rinato sulla spinta dell’occasionalità di una conversazione in treno come Adriano Meis, Mattia prova l’ebbrezza di guardare la vita, le cose, il mondo “con occhi nuovi”, freschi e ingenui come quelli di un bambino (rr. 68-71). Si accorge però all’improvviso che qualcosa di tangibile lo lega ancora a Mattia Pascal e alla vita passata («tutto, attorno, mi s’era rifatto nero»): si tratta della fede nuziale che porta al dito. Alla «levità deliziosa» in cui si era immerso, alla «serena ineffabile ebbrezza» della libertà, si sostituisce l’angosciosa consapevolezza del legame matrimoniale che lo condanna all’aborrito passato, oggettivato dall’anello. Dopo una breve esitazione, l’anello finisce nel gabinetto del treno (intombai...). La grottesca situazione offre lo spunto a Pirandello per un attacco a «coloro che amano il bel gesto» e che potrebbero rimanere scandalizzati dal gesto dissacrante, se non addirittura sacrilego di Mattia. Probabilmente Pirandello si riferisce a D’Annunzio e coglie così l’occasione per attaccare una concezione sublime dell’arte che idealizza e mitizza la vita in modo menzognero. Ad essa si contrappone l’arte umoristica, di cui Pirandello offre qui, nella scena nell’anello nuziale gettato nel gabinetto della stazione, un’eloquente testimonianza: un’arte che spesso ricerca espressamente particolari dissonanti e “bassi”.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo. ANALISI 2. Quale significato riveste l’immagine metaforica «Ah, un pajo d’ali!» (r. 16) in rapporto al contesto? COMPRENSIONE 3. Il nuovo aspetto fisico di Mattia lo induce a pensare di camuffarsi da filosofo: si tratta di una scelta casuale? STILE 4. Compiuti i primi passi verso la sua nuova vita, recidendo i legami fisici e anagrafici con Mattia, il personaggio vive una sorta di rinascita, che gli dà una straordinaria ebbrezza. Analizza sotto il profilo stilistico il passo «Recisa di netto... ebbrezza!» (rr. 68-76) e: • analizza l’andamento sintattico: prevale la coordinazione o la subordinazione? Con quali effetti? • osserva le particolari scelte lessicali, soprattutto nell’ambito dell’aggettivazione. 5. Riconosci tutti i passaggi più umoristici del brano.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il desiderio di cambiare identità di Mattia Pascal con quello di altri personaggi pirandelliani a te noti e soprattutto i loro diversi approcci. SCRITTURA CREATIVA 7. Scrivi un testo in cui immagini un tuo significativo cambio di identità, alla maniera di Mattia Pascal: puoi cambiare connotati fisici, il nome, la tua storia passata ecc. Prova anche a spiegare il perché delle tue scelte.

online T13b Luigi Pirandello

Il “suicidio” di Adriano Meis Il fu Mattia Pascal, cap. XVI

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Per approfondire Il tema del doppio nel cinema

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Un «filosofo in pantofole», portavoce dell’autore Non mancano nel Fu Mattia Pascal interventi di taglio riflessivo o propriamente filosofico, che si insinuano, come è proprio del narrare pirandelliano, nella narrazione. Queste due celebri digressioni sono attribuite non al protagonista, ma al suo padrone di casa: Anselmo Paleari, un bizzarro personaggio che gli si era presentato la prima volta in ciabatte e con una nuvola di schiuma sul capo, uno dei tanti esempi di “filosofi” anticonformisti, strambi, se non addirittura folli, di cui abbonda l’opera di Pirandello.

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«Lo strappo nel cielo di carta» Il fu Mattia Pascal, cap. XII

L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a c. di G. Turchetta, Principato, Milano 1993

Prendendo spunto da uno spettacolo di marionette meccaniche, Anselmo Paleari, portavoce dell’autore, enuncia l’impossibilità della tragedia nel mondo moderno. L’arte moderna (in particolare drammatica) può dar vita non più a “eroi”, che fanno riferimento a uno stabile sistema di indiscutibili certezze, ma soltanto a personaggi problematici.

– La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari1. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. 5 – La tragedia d’Oreste? – Già! D’après Sophocle2, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. 10 – Non saprei, – risposi, stringendomi ne le spalle. – Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. – E perché? – Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli 15 con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto3, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali4 influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto5. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. 20 E se ne andò, ciabattando. Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi 1 La tragedia d’Oreste... Anselmo Paleari: Anselmo Paleari, il bizzarro padrone di casa di Adriano Meis, gli annuncia una recita di marionette meccaniche (ossia non mosse da fili manovrati da un uomo) che ha per soggetto una tragedia classica, l’Elettra di Sofocle. Nella tragedia Oreste, fratello di Elettra, uccide la madre Cli-

temnestra ed Egisto, vendicando così il padre Agamennone, assassinato per mano della moglie e del suo amante. 2 D’après Sophocle: secondo Sofocle (in francese). 3 sul punto: in quel momento. 4 mali: maligni.

5 Oreste... diventerebbe Amleto: Oreste rappresenta il monolitico eroe classico, certo delle sue azioni; Amleto, protagonista dell’omonimo dramma shakespeariano, è invece l’eroe del dubbio, dell’angosciosa, problematica conflittualità, è l’eroe della modernità.

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rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa6. 25 L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette», sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in 30 pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato. 6 Dalle vette nuvolose... qualche cosa: sebbene Anselmo Paleari si sia appena

reso portavoce dell’autore, Pirandello, attraverso il narratore, ne ridimensiona

ironicamente la figura, come se il Paleari fosse uno svampito, sempre tra le nuvole.

Analisi del testo Anselmo Paleari, un bizzarro portavoce dell’autore Pirandello fa di Anselmo Paleari il portavoce di alcune sue importanti considerazioni che vanno ben al di là dello spettacolo di marionette di cui si parla. Non per questo però lo scrittore si preoccupa di dare credibilità al personaggio; anzi, Paleari è presentato come uno strambo individuo, assorto in elucubrazioni poco realistiche, che si stenta a capire. Non è raro che Pirandello affidi le sue scomode verità a personaggi inaffidabili, “fuori di chiave”, estrosi se non addirittura squilibrati (almeno agli occhi degli altri).

La modernità e il tema del relativismo Per bocca di Anselmo Paleari Pirandello ripropone nel testo i temi già enunciati nelle Premesse al romanzo (in particolare nella seconda) e, anni prima, nel saggio Arte e coscienza d’oggi (1893): in quest’ultimo scritto si ritrova un’immagine abbastanza simile, considerato anche il riferimento al teatro shakespeariano: «Che è divenuto l’uomo? Che è diventato questo microcosmo, questo re dell’universo? Ahi povero re! Non si vede saltar dinanzi re Lear armato di una scopa in tutta la sua tragica comicità?». Lo «strappo nel cielo di carta» simboleggia la lacerazione delle certezze conoscitive ed etiche nel mondo moderno, metaforicamente rappresentato da un teatrino dove si muovono marionette meccaniche. È una crisi immedicabile: dopo averne preso coscienza, all’uomo non resta che continuare a recitare una parte provvisoria e relativa nella tragica consapevolezza che quel cielo, che garante di un sistema stabile di valori indiscussi (assicurava la certezza di “ciò che è giusto” e “ciò che è ingiusto”) si è “strappato”, e che i valori in cui credeva erano solo illusioni. Attraverso le parole di Paleari, apparentemente frutto di una stravagante trovata, enunciata con leggerezza, Pirandello dichiara così la fine dell’età “mitica” ed “eroica”, alla quale si è sostituito ormai un mondo problematico e relativistico. Dalla presa di coscienza di questo passaggio derivano anche inevitabili conseguenze sul piano estetico e letterario, come già detto nella seconda Premessa del Fu Mattia Pascal.

La necessità di un nuovo teatro Il discorso che Pirandello fa attraverso la metafora dello «strappo nel cielo di carta» potrebbe riferirsi soprattutto al teatro. Nel mondo moderno la tragedia è ormai impossibile (già di per sé è significativa la scelta di far recitare il testo di Sofocle in un teatrino di burattini meccanici): dopo la fine dei miti religiosi è inevitabile che la tragedia lasci il posto alla commedia grottesca o umoristica (l’immagine di re Lear armato di scopa…), è inevitabile che gli eroi del teatro classico si trasformino in problematici antieroi, di cui qui Amleto è considerato l’emblema; anche Amleto deve vendicare sulla madre e sul suo amante la morte violenta del padre, ma, a differenza di Oreste, egli è preda del dubbio. Proprio su questa base di convinzioni Pirandello attacca impietosamente il tentativo dannunziano di una restaurazione dell’“aura tragica” nei suoi drammi (non a caso nel 1898 sulla rivista «Ariel» Pirandello aveva recensito con durezza La città morta di D’Annunzio, definendola farsa senza mezzi termini).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Spiega il significato della metafora «uno strappo nel cielo di carta», sottolineando anche il momento preciso in cui avviene sulla scena. 3. Chi rappresenta Oreste? E Amleto? Perché Oreste diventerebbe Amleto se improvvisamente vedesse lo «strappo nel cielo di carta»? 4. Perché Adriano Meis invidia le marionette?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Per bocca di Anselmo Paleari Pirandello ripropone nel testo i temi già enunciati nelle Premesse al romanzo (in particolare nella seconda): rintracciali e commentali. LETTERATURA E NOI 6. A tuo avviso, anche nella società odierna viviamo lo stesso disagio profondo di una modernità senza certezze e orizzonti trascendenti a cui affidare il senso della nostra vita? Elabora un testo. OPERE A CONFRONTO 7. Guarda il film The Truman show del regista Peter Weir e riconosci la scena che metaforicamente somiglia allo «strappo nel cielo di carta». Spiega poi perché questo possa essere assolutamente considerato un film “pirandelliano”.

Luigi Pirandello

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La “filosofia del lanternino” Il fu Mattia Pascal, cap. XIII

L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a c. di G. Turchetta, Principato, Milano 1993

Mattia Pascal-Adriano Meis è stato operato a un occhio per eliminare lo strabismo che gli sembrava un retaggio del passato, un’eredità fisica dell’uomo che si era proposto di cancellare per diventare un altro (➜ T13b OL). Mentre giace bendato, Anselmo Paleari gli dà un nuovo saggio della sua propensione filosofica. Anche in questo caso, e ancor più, le parole di Paleari riflettono il pensiero di Pirandello. La nuova, ampia digressione filosofica si collega alla precedente nel momento in cui delinea con maggior precisione il quadro della crisi storica e conoscitiva dell’uomo moderno. Nel passo che segue si ritrovano inoltre spunti di un panteismo misticheggiante che Pirandello enuncia in altri suoi testi, come ad esempio nel finale di Uno, nessuno e centomila (➜ T11 OL).

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario. – Immaginario? Questo? – gli gridai. – Abbia pazienza; mi spiego. 5 E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima1, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia2. Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi: 10 – Dorme, signor Meis? 1 speciosissima: particolarissima.

2 lanterninosofia: la filosofia del lanternino (il senso dell’espressione sarà chiarito subito dopo).

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E io ero tentato di rispondergli: – Sì, grazie, dormo, signor Anselmo. Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. 15 E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere3, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro 20 interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa 25 che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione4? 30 – Dorme, signor Meis? – Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino. – Ah, bene... Ma poiché lei ha l’occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso5 le lucciole sperdute, che 35 sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire 40 tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni6 che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lan45 terna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti ì periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va dì qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna 50 più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non

3 un tristo privilegio... sentirci vivere: caratteristica propria dell’essere umano è la coscienza che l’induce a riflettere sulla vita mentre vive, che ci induce a giudicare e interpretare ciò che ci accade: è ad essa assimilato il lanternino di cui si parla subito dopo, che guida la nostra esistenza,

cercando di illuminarla, di darle un senso. 4 Spento... ragione: Paleari si chiede se dopo la nostra morte ci attenda il nulla eterno oppure se continueremo a vivere nella Vita Universale, una volta infranti gli schermi illusori della ragione.

5 per ispasso: per divertimento, per passatempo. 6 lanternoni: continua l’immagine metaforica. I lanternoni sono le comuni concezioni della vita, che nel loro insieme, configurano i tratti salienti dell’ideologia di una data epoca.

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possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa7: come le formiche che non trovino più la bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. 7 Nell’improvviso... angosciosa: lo spegnersi dei lanternoni (cioè il tramonto dei valori collettivi) crea negli esseri umani un grande smarrimento.

Analisi del testo Lanternini e lanternoni La prima parte di questo celebre passo (rr. 1-32) mette soprattutto in luce il carattere relativo della conoscenza, parcellizzata, frazionata nella visione che ognuno di noi ha (qui rappresentata dal lanternino). L’uomo, che ha bisogno di certezze, di valori assoluti, per lo meno riguardo ai grandi misteri della vita e della morte, a tutti i costi vuole credere che la propria percezione, il “lanternino” della propria coscienza (che «ci fa vedere il male e il bene», che ci fa immaginare il buio oltre la nostra morte) corrisponda alla realtà oggettiva delle cose. Per bocca del Paleari Pirandello enuncia dunque una visione relativistica della conoscenza e dell’etica, ma esprime anche tra le righe una critica al materialismo (che immagina dopo la morte solo il “nulla eterno”, la “notte perpetua”); non certo per aderire alla visione cristiana della sopravvivenza dell’anima, bensì piuttosto per una sorta di panteismo misticheggiante che vede la dissoluzione dell’io nella vita del cosmo, dopo la rottura delle “vane forme” create dalla ragione. La seconda parte (rr. 33-54) fa invece allusione a una precisa crisi storica, quella in cui Pirandello vive e in cui scrive, che, sempre attraverso il Paleari, Pirandello definisce apertamente epoca di crisi conoscitiva e, soprattutto, di valori. I lanternini individuali concorrono nel loro insieme a delineare caratteri comuni che contraddistinguono le diverse epoche (qui simboleggiati dai lanternoni) a cui siamo soliti dare denominazioni astratte come Verità, Virtù, Bellezza, Onore. Quando questi lanternoni si spengono, in epoche di crisi storica, i lanternini individuali vagano smarriti e confusi, senza trovare la strada: «Mi pare [conclude il Paleari], signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti». Attraverso il giudizio del Paleari Pirandello sostiene che nell’epoca in cui egli si trova a vivere, con la crisi dei grandi sistemi filosofici che davano una spiegazione unitaria del mondo, sia venuta meno la possibilità individuale e collettiva di attingere a una verità assoluta, sia di tipo conoscitivo sia di carattere etico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Ricostruisci sinteticamente lo schema argomentativo del passo: individua e poi rappresenta in uno schema i principali nuclei concettuali. COMPRENSIONE 2. Spiega a parole tue il significato del termine “lanterninosofia” e che cosa rappresentano metaforicamente i “lanternini” e i “lanternoni” 3. Onore, Verità, Bellezza, Virtù sono valori assoluti per Pirandello? 4. Per alcuni “lanternoni” Anselmo Paleari immagina un colore: quale significato ha il colore rosso attribuito alla Virtù nei tempi del paganesimo? E quale il violetto per la Virtù cristiana? Puoi dedurne indirettamente un giudizio da parte dello scrittore? 5. Rintraccia nel testo esempi di linguaggio filosofico.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta questa pagina di Pirandello con altre di autori a lui coevi che, come lo scrittore agrigentino, sottolineano il relativismo e la fine di ogni certezza del Primo Novecento. 7. Perché è possibile dire che il seguente passo: «E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere» richiama la riflessione del pastore nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi? Pensi anche tu che il “sentirsi vivere” sia un triste privilegio per gli uomini?

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Luigi Pirandello

La conclusione del romanzo

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Il fu Mattia Pascal, cap. XVIII Il romanzo si chiude sulla vita di Mattia a Miragno, una volta conclusasi la sua bislacca vicenda e dopo che ne ha scritto. La chiusa paradossale del romanzo è di sapore umoristico e riprende circolarmente l’inizio.

L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a c. di G. Turchetta, Principato, Milano 1993

Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica1 che mi ha voluto fornir ricetto2 in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio3, che è ancora ben 5 lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi. Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare. – Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e 10 fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta4: COLPITO DA AVVERSI FATI MATTIA PASCAL BIBLIOTECARIO CVOR GENEROSO ANIMA APERTA QVI VOLONTARIO RIPOSA

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LA PIETÀ DEI CONCITTADINI QVESTA LAPIDE POSE Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con 25 me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: – Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: – Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal. 1 zia Scolastica: la sorella della madre di Mattia.

2 ricetto: ospitalità. 3 don Eligio: il sacerdote che ora gestisce

la biblioteca di Miragno.

4 Lodoletta: un giornalista locale.

Analisi del testo La conclusione del romanzo La conclusione del romanzo focalizza la condizione del protagonista alla fine del suo percorso. Anziché trovare una nuova, più autentica identità, si potrebbe dire che egli ha perso quella che aveva, per quanto insoddisfacente essa fosse. L’unico appiglio rassicurante per lui è una sorta di regressione alla condizione precedente il suo matrimonio, quasi infantile: vive dalla vecchia zia, addirittura dorme nel letto di sua madre. Passa la giornata in quel “non luogo” dimenticato da tutti che è la biblioteca polverosa dove, assistito da don Eligio, ha scritto le sue memorie. È ormai “fuori dalla vita”, condannato a essere spettatore di quella altrui.

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C’è il “sugo della storia”? Mattia (e dietro il personaggio si profila il narratore e l’autore stesso), a conclusione della sua vicenda, si chiede se esista una “morale” ricavabile da essa, un senso da trasmettere ai lettori oltre che a sé stesso: è abbastanza probabile che Pirandello pensasse alle celebri riflessioni conclusive del romanzo manzoniano a proposito del “sugo” della storia. Don Eligio dà una sua versione, interpretando (come anche i lettori del romanzo sono chiamati a fare) in chiave simbolica gli eventi narrati: la storia di Mattia dimostra, secondo lui, l’impossibilità di sottrarsi alle norme che ci vincolano e a quelle particolarità che ci inchiodano a una determinata “forma”. Ma Mattia va oltre questa già non confortante “morale della storia”, sottolineando piuttosto l’assurdo del suo caso, che non gli ha neppure consentito alla fine di rientrare nei ruoli di un tempo («Mia moglie è la moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia»). La “morale della storia” per Mattia è quindi che non c’è alcun senso nella vita, e un giovanissimo Pirandello già aveva scritto: «osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai».

«Io sono il fu Mattia Pascal» L’epilogo del romanzo, dopo l’umoristico riferimento al protagonista che porta i fiori sulla propria tomba, riprende in modo evidente l’inizio: un percorso si è compiuto, ma esso ha comportato non una crescita ma una decrescita: dal suo minimo sapere su sé stesso («Una delle poche cose, anzi la sola ch’io sapessi era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal») il protagonista è passato alla presa di coscienza della propria nullificazione («– Ma voi, insomma, si può sapere che siete? [...] – Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il brano. COMPRENSIONE 2. Spiega perché questo brano illumina sulla scelta del titolo. STILE 3. Le parole scritte sulla lapide risultano enfatiche e un po’ false. Fai di esse la parafrasi e individua tutti i termini che rendono il testo piuttosto retorico. Quali vocaboli, invece, risultano umoristici nell’ottica di Mattia Pascal? Perché? 4. Quali elementi di questo brano si collegano alla poetica dell’umorismo?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Confronta questa conclusione con quella del romanzo Uno, nessuno e centomila indicando il diverso bilancio sulla propria identità che fanno i due protagonisti.

René Magritte, Luogo comune, 1964 (collezione privata).

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Maschere nude: un teatro antitradizionale 1 Pirandello e il teatro La “vocazione” teatrale La grande fama di Pirandello, anche fuori d’Italia, si deve soprattutto alla sua opera teatrale, a cui si dedica essenzialmente dal 1916 in poi e che da quel momento assorbirà la maggior parte delle sue energie creative. Il teatro, da cui lo scrittore siciliano era stato attratto fin da ragazzo, costituì lo sbocco naturale per una concezione della vita considerata come pupazzata, come recita, e del resto l’opera narrativa di Pirandello mostra una spiccata teatralità nell’uso ricorrente di dialoghi e nel carattere degli stessi soliloqui. Tra la produzione teatrale e quella narrativa e saggistica c’è uno stretto legame. Molti testi teatrali sono direttamente tratti da una precedente novella (tra gli altri La patente, Il giuoco delle parti, L’uomo dal fiore in bocca) o risentono comunque di molteplici imprestiti dalle novelle. Ma soprattutto il teatro presuppone un cammino ideologico già percorso attraverso le novelle e i romanzi, di cui costituisce l’esito. Un titolo umoristico per un nuovo teatro: Maschere nude I temi che Pirandello mette in scena anche nel suo teatro sono gli stessi testimoniati dalla produzione narrativa, e in particolare dal campionario di casi umani offerto dalle novelle: la scoperta della crisi dell’uomo moderno, la scomposizione del soggetto in parti relative e provvisorie. Il teatro pirandelliano prende le mosse dalla stessa poetica umoristica che presiede all’universo narrativo: il titolo di Maschere nude, scelto dallo stesso Pirandello per designare la sua opera teatrale, allude appunto alla funzione di “svelamento” umoristico delle parti, delle maschere che lo scrittore assegna al suo teatro e che ne costituisce la cifra distintiva e innovativa.

2 Dalla scelta naturalistica del dialetto alle commedie umoristiche L’iniziale interesse per il teatro dialettale Dopo una prima anticipazione (L’epilogo, poi divenuto La morsa, 1898), l’esordio vero e proprio di Pirandello nel teatro si colloca nei primi anni della Prima guerra mondiale. Inizialmente Pirandello è scambiato per un drammaturgo naturalistico (magari un po’ bizzarro) anche perché porta in scena testi dialettali, alcuni dei quali derivati da precedenti novelle: da Pensaci, Giacominu! (1916) a Liolà, ’A birritta cu i ciancianeddi (1917, poi in versione italiana, Il berretto a sonagli), ’A giarra (1916, poi La giara) a cui seguirà due anni dopo ’A patenti (poi La patente). La ragione della scelta del dialetto siciliano è l’incontro di Pirandello con un grande attore dialettale, Angelo Musco, e con l’impresario e drammaturgo Nino Martoglio. Per le ambientazioni e soprattutto l’uso del dialetto, le prime prove di Pirandello vennero scambiate per testi veristi, mentre in realtà le situazioni rappresentate erano già prettamente “pirandelliane” e presupponevano l’adozione di quella poetica umoristica che costituisce il vero centro dell’arte di Pirandello in ogni sua manifestazione.

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Lessico grottesco Nel contesto teatrale, si indica un genere di rappresentazioni intese a ironizzare certi aspetti o situazioni della vita borghese e del teatro che ad essa fino allora si era ispirato.

Il teatro “grottesco” Ben presto però Pirandello si rende conto dei limiti di un teatro dialettale e si muove in un’altra direzione, che prevede il consapevole superamento del teatro naturalistico, ma anche e soprattutto il confronto critico con il teatro borghese attraverso la grottesca deformazione dei temi e delle convenzioni in esso operanti. Con Così è (se vi pare) del 1917 si apre la fase del teatro pirandelliano definita abitualmente “teatro del grottesco” per la consonanza di alcuni testi pirandelliani – in particolare Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà (entrambi del 1917) e Il giuoco delle parti (1918) – con il filone teatrale grottesco che proprio negli stessi anni si diffonde con un certo successo in Italia. Lo rappresentano soprattutto autori quali Luigi Chiarelli (La maschera e il volto, 1916), Luigi Antonelli (L’uomo che incontrò se stesso, 1918), Pier Maria Rosso di San Secondo (Marionette, che passione!, 1918). Si tratta di un teatro che fa riferimento alle tipiche situazioni, ambienti e temi del teatro borghese tardo-ottocentesco (la famiglia, l’adulterio e il cosiddetto “triangolo borghese”), ma per smascherare ipocrisie e convenzioni sociali. “Grottesco” e “umorismo” Il teatro “grottesco” pirandelliano si muove su questa stessa linea, ma con ben altra incisività, soprattutto perché alla base sta una poetica originale, quella umoristica, già sperimentata da Pirandello in ambito narrativo e che ora egli mette al servizio di un nuovo teatro. Innanzitutto la poetica umoristica orienta lo scrittore siciliano a prospettare, anche sulla scena, quel relativismo conoscitivo che sta a fondamento della sua visione del mondo: a esso allude, quasi programmaticamente, il titolo stesso di Così è (se vi pare). Il tema più generale che a Pirandello sta a cuore illuminare attraverso la vicenda è l’impossibilità di raggiungere la verità, lo sfaccettarsi dell’identità stessa nella percezione soggettiva degli altri. Inoltre Pirandello è indotto, proprio dall’ottica umoristica, a dare particolare spazio, anche in ambito teatrale, al tema dei ruoli inautentici, delle “parti”: un aspetto particolarmente evidente in Il piacere dell’onestà e Il giuoco delle parti. In questi due drammi, e in altri di questo periodo (come Ma non è una cosa seria o Tutto per bene) Pirandello rivisita in chiave umoristica i motivi topici del teatro borghese (come l’adulterio), forzandoli fino al paradosso e tracciando così un ritratto impietoso del perbenismo e dell’ipocrisia borghese, in particolare in rapporto all’istituto del matrimonio. Nel Piacere dell’onestà (1917) Baldovino, il protagonista, accetta di diventare, dietro pagamento, il marito “ufficiale” di Agata. Si tratta di un matrimonio di facciata, finalizzato a coprire la relazione della giovane con il marchese Fabio Colli, che è sposato e dal quale la ragazza aspetta un figlio. Baldovino infrange però il copione previsto e, sperimentando per la prima volta il “piacere dell’onestà”, richiede al marchese che venga rispettata la sua formale identità di «onesto marito d’una signora perbene». Alla fine Agata, conquistata dal rigore morale di Baldovino, sceglierà di diventarne la moglie effettiva. Con qualche analogia, nel Giuoco delle parti (1918), Leone Gala, tradito dalla moglie e marito solo di nome, rovescia sull’amante della moglie il dovere di fungere da marito reale quando si tratterà di affrontare un duello per difendere l’onore della donna (➜ T16 OL).

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Un teatro-processo che provoca lo spettatore Pirandello ambienta le sue commedie per lo più nello spazio canonico del salotto borghese, ma quest’ultimo tende a trasformarsi in un’“aula giudiziaria”, nella quale si svolge un dibattito serrato che mette in crisi le convinzioni degli spettatori. Nel teatro pirandelliano, sull’azione prevale la parola, ma non è certo una parola lirico-poetica come quella del teatro dannunziano, bensì è una parola raziocinante e insieme incalzante (a complessi periodi di taglio argomentativo si alternano interrogazioni, esclamazioni, frasi interrotte). Questa sorta di teatro-processo dovette sconcertare il pubblico, anche perché non prevede sbocchi liberatori, catartici: lo spettatore, terminato lo spettacolo, sicuramente non ne ricava delle certezze, ma anzi ulteriori motivi di dubbio e inquietudine. Proprio per questo lo studioso Giovanni Macchia (1912-2001), in un suo saggio del 1969, ha coniato per il teatro pirandelliano la suggestiva definizione di «stanza della tortura»: «Lo spettatore sente che non tutto si è concluso sulla scena. Che forse quel dramma non è finito. Ch’egli non ha capito tutto quel che ha visto. Dopo la rappresentazione resta sempre qualcosa ch’egli non riesce a chiarire. E noi spettatori, abbandonato il teatro, continuiamo a discutere dentro di noi per sapere qual è la verità, lo scioglimento del dramma». Così è (se vi pare) Tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, Così è (se vi pare) mette in scena il prediletto tema pirandelliano della relatività della verità, come evidenzia il titolo stesso. Nella commedia il tema è sviluppato in rapporto all’identità della misteriosa signora Ponza, moglie del segretario della Prefettura venuto a vivere da poco in una cittadina di provincia insieme alla moglie e alla suocera, la signora Frola, che però non abita nella stessa casa. Il paese da cui provengono è stato distrutto da un terremoto e sono andati persi i documenti anagrafici. Secondo la signora Frola, la donna è sua figlia, e prima moglie del signor Ponza, che egli, impazzito, non aveva più riconosciuto dopo che essa aveva trascorso un periodo in una casa di cura. La vecchia signora pensa che il genero tenga segregata in casa la figlia impedendole di frequentare la madre. Secondo il signor Ponza è invece la suocera a essere impazzita dopo la morte della figlia, così che si rifiuta di ammettere che la signora Ponza è la sua nuova moglie, che ha sposato due anni dopo essere rimasto vedovo. Il nome stesso della donna varia: è Giulia per il signor Ponza, è Lina per la signora Frola. Intorno alla famiglia Ponza si istituisce un vero e proprio processo inquisitorio da parte dei notabili del luogo, che però non approda a nulla: la signora Ponza, che compare, rimanendo velata, soltanto nella chiusa del dramma, ribadirà il mistero anziché svelarlo, dichiarando: «Per me, io sono colei che mi si crede». Il giuoco delle parti Anche questa commedia è tratta da una novella precedente: Quando s’è capito il giuoco (1913). Leone Gala è separato da anni dalla moglie Silia che ha una relazione ormai stabile con Guido Venanzi. Tuttavia continua a mantenere formalmente il legame con la moglie e a esercitare i doveri sociali che competono a un marito nella buona società, pur perfettamente consapevole che il suo matrimonio è solo una facciata per salvare le apparenze. Egli è di fatto un “dimissionario della vita”, vive ormai distaccato dai sentimenti, vedendo come dall’esterno la propria vita e quella degli altri. Una sera Silia viene pesantemente offesa da un gruppo di ubriachi penetrati in casa, tra cui il marchese Miglioriti. A questo punto Silia chiede a Leone di sfidare a duello il marchese per vendicare il suo onore. Sebbene del tutto inesperto di armi,

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Interpretazioni critiche Giovanni Macchia, Il teatro inquisizione

mentre il marchese è uno dei migliori spadaccini di Roma, Leone accetta, consapevole che «il marito sono io, e tu la moglie», come dice a Silia e, provocatoriamente, si rivolge ironicamente a Guido dicendo: «lui naturalmente sarà il padrino». Al momento del duello, Leone, sorprendendo tutti, si rifiuta però di scendere in campo: ritiene infatti di aver già fatto la sua parte ufficiale di marito sfidando il marchese: tocca a Guido, secondo il “gioco delle parti”, battersi per la sua donna. Costretto dalla logica stringente di Leone, Guido affronta il duello e muore. La notizia arriva a Leone mentre si prepara tranquillamente a fare colazione.

3 Il teatro “nel teatro” / Il teatro “sul teatro” Un teatro d’avanguardia A partire dagli anni Venti, Pirandello inizia un’esperienza teatrale d’avanguardia che brucia senza esitazione le ultime tracce del teatro naturalistico. In particolare per tre testi (Sei personaggi in cerca d’autore, 1921; Ciascuno a suo modo, 1924; Questa sera si recita a soggetto, 1930) si parla (ed è stato lo stesso Pirandello a usare questa formula) di teatro “nel teatro”. Nei Sei personaggi e in Questa sera si recita a soggetto in particolare, lo spettatore si trova davanti a uno “spettacolo nello spettacolo”: il sipario si apre non sul tradizionale scenario di un interno borghese ma sul palcoscenico stesso, in cui una compagnia sta preparando una recita nella quale se ne inserisce un’altra. Ma la novità e originalità di questi testi non sta solo in questa idea, che certo destò grande scalpore, ma soprattutto nel loro carattere metateatrale, per cui si può parlare di metateatro, cioè di teatro “sul teatro”: in questi testi il soggetto teatrale è infatti occasione per un dibattito polemico sul teatro e le sue funzioni. Attraverso lo svolgersi del dramma Pirandello sviluppa temi importanti, come il rapporto arte-vita, verità-finzione, e mette arditamente in discussione le stesse convenzioni teatrali.

Sei personaggi in cerca d’autore Un dramma sperimentale: dall’insuccesso al trionfo La prima rappresentazione dei Sei personaggi si svolse al teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921 e rimase celebre per la violenza con cui il pubblico contestò l’autore alla fine dello spettacolo. I Sei personaggi sconvolsero il pubblico, e non solo per la scabrosità del soggetto, ma soprattutto per l’ardita contaminazione fra “realtà” e “finzione” che, in modi vicini all’avanguardia, scardinava le convenzioni teatrali. Pochi mesi dopo però, la medesima compagnia teatrale ripropose il testo pirandelliano al teatro Manzoni di Milano: il successo, altrettanto clamoroso dell’insuccesso della prima romana, fu la prima tappa del trionfale viaggio dei Sei personaggi sui palcoscenici di tutto il mondo. Il titolo Il titolo del dramma rimanda a un tema, quello del “personaggio in cerca d’autore” appunto, radicato nell’immaginario pirandelliano: se ne ritrova una prima testimonianza in una lettera del 1887 in cui un Pirandello ventenne parla di persone che vivono nella sua mente e che aspirano prepotentemente a salire sul palcoscenico. Il soggetto Il dramma si apre su un palcoscenico vuoto dove una compagnia di attori, guidata dal capocomico (che allora svolgeva le funzioni attuali del regista), Maschere nude: un teatro antitradizionale 4 739

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Lessico personaggio Il termine indica ciascuna delle figure che prendono parte a una rappresentazione teatrale o a un film; esso si differenzia dalla persona, che nel linguaggio comune segnala l’individuo ma in latino indicava la “maschera teatrale”: con questo termine si segnalava e ancora oggi si segnala un oggetto che copre il volto e che esprime uno stato d’animo oppure, in senso più moderno, un personaggio tipico che compare in più rappresentazioni diverse con le medesime caratteristiche.

sta per provare una commedia di Pirandello, Il giuoco delle parti. Un usciere annuncia al capocomico che un gruppo di persone chiede di essere ricevuto. Si tratta dei sei personaggi, designati nel dramma non con il nome proprio, ma con il loro ruolo all’interno della famiglia di cui tutti fanno parte: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina. Il Figlio è nato dal matrimonio tra il Padre e la Madre, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina sono invece nati da un’unione adulterina della Madre, che è stata spinta dal Padre a formarsi una nuova famiglia con il suo amante. Morto questo, la Figliastra è costretta dal bisogno a prostituirsi in una equivoca sartoria gestita da Madama Pace. I personaggi dichiarano di essere stati rifiutati dal loro autore e chiedono di poter raccontare la loro storia al capocomico e agli attori perché venga rappresentata. Nella compagnia si crea grande sconcerto, ma alla fine si inizia ad allestire la scena principale: essa dovrà rappresentare il drammatico momento in cui il Padre, recatosi nella casa di appuntamenti di Madama Pace, sta per unirsi sessualmente, senza averla riconosciuta, alla Figliastra (➜ T17 ). Nel momento in cui le battute sono affidate agli attori, però, i personaggi non si riconoscono più e vorrebbero, tra le proteste degli attori, recitare personalmente le loro parti. La scena dell’incontro equivoco tra il Padre e la Figliastra è interrotta dall’urlo della Madre che irrompe nella stanza. L’ultima parte del dramma è ambientata nel giardino della casa del Padre, dove la famiglia si è riunita. Mentre in casa scoppiano delle discussioni, il Figlio esce precipitosamente e vede annegata nella vasca la Bambina, quindi il Giovinetto che osserva inorridito la scena da dietro gli alberi. Il dramma si chiude con il colpo di pistola con cui il Giovinetto si uccide. Accorre la Madre con un grido straziante. Sulla scena si crea una drammatica confusione: non si sa se il ragazzo è davvero morto o se si tratta di finzione scenica. Alla fine il capocomico grida: «Luce! Luce! Luce!» e invita tutti ad andarsene. Sullo sfondo appariranno le ombre dei personaggi (tranne quelle dei due morti). La Figliastra, con una stridula risata, scenderà tra il pubblico e correrà fuori dal teatro. Il “dramma rifiutato” e i diversi livelli del testo Sei personaggi in cerca d’autore è un testo problematico e complesso e gran parte del suo fascino ancora attuale è proprio da attribuirsi a questa enigmaticità, che lo rende aperto a sempre nuove prospettive di lettura. Nell’interpretazione dell’opera la critica ha insistito sulla centralità del tema del “rifiuto”: innanzitutto il rifiuto dell’autore, esplicitato nella Prefazione, di dare vita universale, attraverso la rappresentazione artistica, ai personaggi e alla loro storia. • Il rifiuto del copione borghese Di che storia si tratta? E perché Pirandello ostenta il suo rifiuto? La storia dei Sei personaggi, che lo spettatore arriva a ricostruire per frammenti, è un’oscura storia familiare, che rimanda direttamente ai copioni del teatro borghese, con un che in più di pathos a forti tinte (muore affogata la Bambina, muore suicida il Giovinetto). La vicenda rimanda all’onnipresente tema dell’adulterio (la Madre si è innamorata di un altro, da cui ha avuto tre figli e ha abbandonato il Figlio avuto dal Padre). Il rifiuto dell’autore è dunque innanzitutto da vedersi come rifiuto del copione borghese, che al suo centro ha la famiglia e l’adulterio (non per caso i personaggi sono designati dal ruolo che occupano nell’istituto familiare, non da un nome proprio). All’interno del “copione borghese” rifiutato emerge il rapporto antagonistico tra il Padre e la Figliastra: il primo simboleggia, pur nei suoi tormenti interiori e nei suoi sensi di colpa, la morale borghese; la seconda inchioda il Padre alle sue responsabilità, rinfacciandogli la sua reale

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Per approfondire Spiriti e personaggi: la lunga storia del “personaggio in cerca d’autore”

miseria morale. Se già le commedie precedenti corrodevano attraverso l’umorismo la rispettabilità della visione borghese della famiglia, qui il bisturi dell’analisi pirandelliana scava nel «retrobottega» (Angelini), nei meandri oscuri della famiglia, affrontando (e insieme eludendo) persino un tema scandaloso come l’incesto (seppur non veramente consumato e relativo comunque a un patrigno e la sua figliastra). • Il rifiuto delle convenzioni teatrali Il secondo livello di lettura del testo, in rapporto al tema del “rifiuto”, riguarda la polemica metateatrale che lo ispira. Nel dramma i personaggi rifiutano l’interpretazione che gli attori danno della loro vicenda dolorosa perché la sentono irrimediabilmente falsata, lontana dalla verità. Ma la polemica di Pirandello va oltre il ruolo (pur importante) della recitazione degli attori, per investire in modo radicale le modalità e le convenzioni fondamentali del teatro borghese, rappresentato nel testo dalla voce del capocomico: si tratta di un modello di teatro che accetta di porre sulla scena certe tematiche (come l’allusione al sesso) solo neutralizzandone la portata scandalosa così da non sconvolgere le convenzioni teatrali e non offendere la sensibilità del pubblico borghese. A questa visione del teatro la Figliastra contrappone la contestazione di tutto ciò che allontana la rappresentazione teatrale dalla verità scomoda e dolorosa della vita. Le convenzioni teatrali vengono poi di fatto infrante nell’ambiguità voluta “verità-finzione” che serpeggia per tutto il dramma e che trova la sua consacrazione eclatante nella scena finale del suicidio (vero? finto?) del Giovinetto. A ribadire l’inquietante infrazione dei confini rigidi tra finzione teatrale e la realtà della vita, Pirandello ha una trovata veramente geniale: la discesa finale della Figliastra fuori dal palcoscenico, tra gli spettatori (una soluzione teatrale poi ripetuta tantissime volte dalle regie novecentesche). L’infrazione della “quarta parete” che separa il palcoscenico, e quindi la finzione teatrale, dalla platea, cancella arditamente, più di ogni altro elemento del dramma, le leggi del teatro naturalistico.

4 La follia in scena: Enrico IV Una “recita dentro la recita” Per vari aspetti all’esperienza del “teatro nel teatro” si collega anche un altro celeberrimo dramma degli anni Venti: Enrico IV (rappresentato con grande successo nel 1922), incentrato, a livello tematico, su uno dei soggetti più ricorrenti in Pirandello, cioè la follia. Il tema della follia è qui incarnato in uno dei personaggi più grandi creati dallo scrittore siciliano, e forse quello in assoluto più “pirandelliano”. Il dramma ripresenta con modalità diverse rispetto ai Sei personaggi la situazione di una “recita dentro la recita”: lo spettacolo prende le mosse da una situazione in cui un personaggio, in abiti medievali, recita la parte dell’imperatore Enrico IV, ruolo in cui il protagonista si è rinchiuso e chi gli sta intorno (a cominciare dal personale di servizio) recita a sua volta una parte congruente a quella del protagonista (➜ T18 ). Ma, nel caso del protagonista, si tratta ormai di una finzione: egli sta solo recitando la parte del folle, perché non lo è più da anni; la maschera, ormai consapevolmente fatta propria, della follia, gli consente di assumere un ruolo di lucido e distaccato osservatore delle follie e meschinità degli altri. La componente metateatrale Anche in questo dramma potrebbe forse essere presente una componente metateatrale, in rapporto alla polemica di Pirandello verso il teatro del suo tempo: in questo caso il bersaglio potrebbero essere i drammi storici

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in costume (anche D’Annunzio fece una Francesca da Rimini), qui ironicamente citati. Ma più rilevante è ancora una volta la dissoluzione del teatro naturalista che anche questo dramma realizza: il principio della verosimiglianza è infranto fin dalla prima scena del dramma, in cui uno dei valletti di Enrico IV fuma una sigaretta, avvertendo lo spettatore che ci troviamo in una corte finta entro la quale si svolge uno strano dramma. Il tema della maschera Per quanto riguarda la tematica, ritorna qui il tema prediletto da Pirandello della maschera-forma, a cui allude simbolicamente la vicenda del protagonista, chiuso nella maschera di Enrico IV, ma anche del folle, mentre la vita andava avanti senza che lui potesse più parteciparvi. Quando gli ricompare davanti la possibilità di rientrarvi, e le passioni tornano ad agitarsi dentro di lui, è troppo tardi e non gli resta che un gesto da “vero” folle (l’uccisione del rivale di un tempo) che consacri per sempre la sua lucida estraneazione dalla vita nei recinti protettivi della follia. Enrico IV All’apertura del dramma è rievocato l’antefatto: vent’anni prima il protagonista (di cui fino alla fine si ignora il vero nome) durante una cavalcata in costume cade e impazzisce: è convinto di essere l’imperatore Enrico IV, il personaggio storico da cui si era mascherato per partecipare a una festa dell’alta società. Tra gli invitati si trovava Matilde Spina, la donna da lui amata, e corteggiata anche dal barone Belcredi: è stato quest’ultimo (come si viene a sapere in seguito) a pungolare a tradimento il cavallo del protagonista facendolo imbizzarrire e causando così l’incidente. Da quel momento il protagonista era vissuto in una sorta di finta reggia, circondato da persone, compresi i servi, travestite in abiti medievali e obbligate dai familiari ad assecondarne la fissazione. Dopo alcuni anni di malattia vera, il protagonista aveva riacquistato la ragione, ma, ormai estraniato dalla vita, aveva scelto di continuare nei panni di Enrico IV nella finzione della follia. Dopo vent’anni, un nipote del protagonista tenta di farlo rinsavire: si reca alla villa dove vive Enrico IV, accompagnato da Belcredi, da Matilde Spina e dalla figlia di lei, Frida, oltre che da uno psichiatra, tutti vestiti da personaggi dell’epoca. Lo psichiatra progetta di suscitare nel folle uno shock che potrebbe farlo tornare alla ragione: Frida, che ha la stessa età della madre al tempo dell’incidente, comparirà davanti a Enrico IV nei panni di Matilde di Canossa (gli stessi indossati dalla madre al tempo della fatale cavalcata). La comparsa della fanciulla, in cui rivede la donna amata, rischia di precipitare Enrico IV nuovamente nella follia. Nella scena conclusiva, preda del rimpianto per gli anni di vita che, insieme all’amore, gli sono stati tolti, Enrico IV uccide con un colpo di spada l’antico rivale ed è costretto a nascondersi sotto la maschera della follia, per sempre.

5 Dal pirandellismo al “teatro dei miti” Pirandello imitatore di Pirandello Negli anni che seguono i due capolavori Sei personaggi in cerca d’autore e Enrico IV, la produzione pirandelliana conosce una sorta di manierismo (è ciò che è stato definito “pirandellismo”): ormai famoso, Pirandello tende a imitare sé stesso, riproducendo le situazioni e le tematiche che lo avevano reso celebre e adeguandosi, nell’ideazione di nuovi testi, all’interpretazione

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del critico e filosofo Adriano Tilgher, che in un suo saggio del 1922 aveva codificato come centrale nell’immaginario artistico di Pirandello il conflitto Vita-Forma. Ne derivano, tra gli altri, drammi come La vita che ti diedi (1923), Diana e la Tuda (1926), Come tu mi vuoi (1930), Quando si è qualcuno (1933). Una nuova stagione teatrale Ma al contempo affioravano, seppur meno evidenti, altre direzioni nel teatro pirandelliano, in cui si manifestava una nuova volontà sperimentale. Di essa sono testimonianza tre drammi singolari: La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929) e I giganti della montagna, quest’ultimo lasciato incompleto per la morte dell’autore. I tre drammi sono comunemente noti come “drammi del mito” (è Pirandello stesso a porre come sottotitolo della Nuova colonia il termine mito). Si tratta di testi che, analogamente a quanto si verifica nell’ultima produzione novellistica, abbandonano ambientazioni spazio-temporali definite con realistica precisione per dimensioni astratte, favolose, simboliche (una villa isolata nei Giganti della montagna, un’isola sperduta nella Nuova colonia, una campagna primitiva e arcaica in Lazzaro). In queste ultime opere è ormai abbandonata la poetica umoristica e viene meno la stessa volontà polemica di Pirandello nei confronti delle forme tradizionali del teatro che ispira la trilogia del “teatro nel teatro”. Irrazionalismo e spiritualismo Anche in questi testi ricorrono i temi cari a Pirandello, ma questa fase del teatro pirandelliano presuppone di certo una svolta: dopo tanto disperato ragionare, il mito irrompe come una luce abbagliante nelle pagine di Pirandello a risolvere ciò che la ragione non ha saputo risolvere. Lo scrittore sembra imboccare la via dell’irrazionalismo e di uno spiritualismo misticheggiante (➜ T19 OL).

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Interpretazioni critiche Romano Luperini, L’ultimo Pirandello

Un nuovo stile Anche lo stile cambia considerevolmente: abbandonate le forme argomentative, il dibattito inquisitorio, Pirandello indulge talvolta al lirismo, con squarci addirittura estetizzanti alla D’Annunzio. Nel complesso, a parte alcuni momenti straordinari dei Giganti della montagna, si tratta di un teatro meno “pirandelliano” e di minor qualità artistica, che si iscrive nel generale clima culturale degli anni Trenta, in cui le provocazioni dell’avanguardia tendevano a spegnersi. • Nella Nuova colonia all’inizio sembra in primo piano l’utopia sociale: su un’isola un gruppo di sbandati cerca di costruire una nuova, più giusta, società. Tra di loro vi è anche la Spera, una prostituta, con il suo bambino neonato, che vuole cercarvi una nuova, pura, identità di madre. Ma presto anche sull’isola rinascono i “ruoli”, rinasce la violenza; la Spera torna a essere per tutti “la prostituta”. Alla fine, per una specie di castigo divino, un terremoto fa inabissare l’isola; si salva solo la donna con il suo bambino, immagine simbolica del mito salvifico della maternità. • In Lazzaro, come il titolo fa immaginare, è in primo piano il tema religioso, che non si configura però in un’adesione di Pirandello alla religione positiva, anzi. Da un lato vi è il personaggio di Diego, il padre: dedito a un cattolicesimo repressivo e bigotto, in seguito a un grave incidente è considerato morto, ma è riportato miracolosamente in vita da un’iniezione del medico. In seguito a questa straordinaria esperienza, però, perde la fede, perché dichiara che nell’aldilà non c’è nulla. A Diego si contrappone il giovane figlio Lucio: se prima dell’incidente del padre era deciso a non farsi più sacerdote, in seguito riscopre la fede, ma in forme misticheggianti, in cui Dio si ritrova nella natura o nell’ascolto della sua voce dentro di noi. Alla fine la forza della fede del giovane Lucio fa camminare (ed è un vero e proprio miracolo) la sorellina paralizzata.

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I giganti della montagna All’interno del “teatro dei miti” il testo più affascinante è l’ultimo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore. Tema fondamentale dell’opera è il difficile ruolo dell’arte e addirittura la sua stessa sopravvivenza nella società contemporanea. La vicenda è ambientata in una villa signorile, “La Scalogna”, abbandonata dai proprietari perché abitata dai fantasmi. Ci vive un gruppo di strani esseri, il cui capo è il mago Cotrone, lontani dal mondo e dagli altri uomini in una dimensione magica, fabbricano lampi, danno vita ai fantasmi della mente. Un giorno arriva alla villa una compagnia di attori girovaghi. La prima attrice, Ilse, viveva con suo marito, un conte, in un ricco palazzo; di lei però s’era innamorato un giovane poeta che aveva scritto per lei La favola del figlio cambiato (è un testo pirandelliano) e poi si era ucciso. Insieme al marito e a un gruppo di teatranti, per espiare, Ilse sceglie di recitare per sempre quella favola. Ridotta in miseria, la compagnia arriva alla villa: là, in una dimensione onirica e allucinata, vedono sogni diventare realtà, fantocci animarsi, crearsi dal nulla le comparse che mancano alla compagnia, mentre “voci” misteriose recitano alcune battute del dramma. Cotrone suggerisce di recitare il dramma a una festa di nozze dei giganti che vivono sulla montagna, dediti a opere ciclopiche. Il dramma, incompiuto, si chiude con la cavalcata dei giganti che discendono la montagna suscitando il terrore della compagnia. Il finale dell’opera non fu mai scritto, ma, dalle parole di Pirandello al figlio prima di morire, se ne possono ricostruire le tracce: Ilse riesce a rappresentare il dramma alla presenza dei servi dei giganti, esseri bestiali che, incapaci di comprenderne il significato, uccidono Ilse. Presumibilmente i giganti, e ancor più i loro servi, rappresentano l’ottusa brutalità della società di massa, che non può che rifiutare e distruggere la poesia e l’arte; ma, nell’allegoria del testo, si è intravista anche un’allusione forse alla violenza e alla barbarie del regime fascista, da cui Pirandello andava prendendo sempre più le distanze. online T16 Luigi Pirandello

Una conclusione paradossale e umoristica Il giuoco delle parti, atto III, scena III

Le fasi del teatro di Pirandello GROTTESCO

Così è (se vi pare) (1917) Il piacere dell’onestà (1917) Il giuoco delle parti (1918)

IL TEATRO “NEL TEATRO”

Sei personaggi in cerca d’autore (1921) Enrico IV (1922) Ciascuno a suo modo (1923) Questa sera si recita a soggetto (1930)

IL “TEATRO DEI MITI”

La nuova colonia (1928) Lazzaro (1929) I giganti della montagna (1930, incompiuta)

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Luigi Pirandello

Una scena irrappresentabile

T17

EDUCAZIONE CIVICA

Sei personaggi in cerca d’autore Del dramma che i sei personaggi vorrebbero recitare – senza la mediazione degli attori, che ritengono inautentica – l’unica scena realizzata e recitata, anche se solo parzialmente, è quella qui riportata, e che risulta centrale nel testo pirandelliano: nel retrobottega dell’atelier di Madama Pace, adibito a bordello, il Padre si ritrova davanti, senza riconoscerla, la Figliastra, che è stata costretta a prostituirsi dalla miseria in cui la famiglia è precipitata dopo la morte dell’amante della madre (padre della ragazza). Solo l’urlo della Madre, capitata per caso, aveva impedito l’unione sessuale tra i due. Si tratta di una scena assai scabrosa, non solo per la morale del tempo ma anche per le stesse convenzioni del teatro borghese.

L. Pirandello, Maschere nude, a c. di A. d’Amico, vol. II, Mondadori, Milano 1993

LA SCENA IL PADRE (avanzandosi con voce nuova). Buon giorno, signorina. LA FIGLIASTRA (a capo chino, con contenuto ribrezzo). Buon giorno. IL PADRE (la spierà un po’, di sotto al cappellino che quasi le nasconde 5 il viso, e scorgendo ch’ella è giovanissima, esclamerà quasi tra sé, un po’ per compiacenza, un po’ anche per timore di compromettersi in un’avventura rischiosa): Ah... – Ma... dico, non sarà la prima volta, è vero? che lei viene qua. LA FIGLIASTRA (c. s.)1. No, signore. 10 IL PADRE C’è venuta qualche altra volta? E poiché la Figliastra farà cenno di sì col capo: Più d’una? Aspetterà un po’ la risposta; tornerà a spiarla di sotto al cappellino: sorriderà; poi dirà:

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E dunque, via... non dovrebbe più essere così... Permette che le levi io codesto cappellino? LA FIGLIASTRA (subito, per prevenirlo, non contenendo il ribrezzo). No, signore: me lo levo da me!

Eseguirà in fretta, convulsa. La Madre, assistendo alla scena, col Figlio e con gli altri due più piccoli e più 20 suoi2, i quali se ne staranno sempre accanto a lei, appartati nel lato opposto a quello degli Attori, sarà come sulle spine, e seguirà con varia espressione, di dolore, di sdegno, d’ansia, d’orrore, le parole e gli atti di quei due; e ora si nasconderà il volto, ora metterà qualche gemito.

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LA MADRE Oh Dio! Dio mio! IL PADRE (resterà, al gemito, come impietrato per un lungo momento; poi riprenderà col tono di prima). Ecco, mi dia: lo poso io.

1 (c.s.): come sopra; indicazione dell’autore che implica il man-

2 più suoi: sia la Figliastra sia i due bambini sono nati dall’unione

tenimento per l’attore dello stesso atteggiamento già assunto (in questo caso il capo chino).

adulterina della madre.

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Le toglierà dalle mani il cappellino. Ma su una bella, cara testolina come la sua, vorrei che figurasse un più degno cappellino. Vorrà aiutarmi a sceglierne 30 qualcuno, poi, qua tra questi di Madama3? – No? L’ATTRICE GIOVANE (interrompendo). Oh, badiamo bene! Quelli là sono i nostri cappelli! IL CAPOCOMICO (subito arrabbiatissimo). Silenzio, perdio! Non faccia la spiritosa! – Questa è la scena! 35

Rivolgendosi alla Figliastra:

Riattacchi, prego, signorina! LA FIGLIASTRA (riattaccando). No, grazie, signore. IL PADRE Eh via, non mi dica di no! Vorrà accettarmelo. Me n’avrei a male... Ce n’è di belli, guardi! E poi faremmo contenta Ma40 dama. Li mette apposta qua in mostra! LA FIGLIASTRA Ma no, signore, guardi: non potrei neanche portarlo. IL PADRE Dice forse per ciò che ne penserebbero a casa, vedendola rientrare con un cappellino nuovo? Eh via! Sa come si fa? Come si dice a casa? 45 LA FIGLIASTRA (smaniosa, non potendone più) Ma non per questo, signore! Non potrei portarlo, perché sono... come mi vede: avrebbe già potuto accorgersene! Mostrerà l’abito nero4. IL PADRE A lutto, già! Mi scusi. È vero: vedo. Le chiedo perdono. Creda che sono veramente mortificato. LA FIGLIASTRA (facendosi forza e pigliando ardire anche per vincere lo sdegno e la nausea) Basta, basta, signore! Tocca a me di ringraziarla; e non a lei di mortificarsi o d’affliggersi. Non badi più, la 55 prego, a quel che le ho detto. Anche per me, capirà... 50

Si sforzerà di sorridere e aggiungerà: Bisogna proprio ch’io non pensi, che sono vestita così. IL CAPOCOMICO (interrompendo, rivolto al Suggeritore nella buca e risalendo sul palcoscenico) Aspetti, aspetti! Non scriva, tralasci, tralasci 60 quest’ultima battuta! [...] [Nel passo omesso il primo attore e la prima attrice cercheranno di impostare la scena, ma la Figliastra e il Padre non si riconosceranno nella recitazione degli 3 Madama: Madama Pace, presso cui lavorava la Madre, ignara

4 l’abito nero: la ragazza è in lutto per la morte del suo vero pa-

che la donna sfruttasse la ragazza.

dre, che l’ha costretta a prostituirsi per sopperire ai bisogni della Madre e dei due fratellini.

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attori. Spazientito, il capocomico riprenderà a far rappresentare la scena al Padre e alla Figliastra.] 65

Dunque: quando lei dice: «Non badi più, la prego, a quello che ho detto... Anche per me – capirà!» – rivolgendosi al Padre:

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bisogna che lei attacchi subito: «Capisco, ah capisco... » e che immediatamente domandi –

LA FIGLIASTRA (interrompendo) – come! che cosa? IL CAPOCOMICO – la ragione del suo lutto! LA FIGLIASTRA Ma no, signore! Guardi: quand’io gli dissi che bisognava che 75 non pensassi d’esser vestita così, sa come mi rispose lui? «Ah, va bene! E togliamolo, togliamolo via subito, allora, codesto vestitino!» IL CAPOCOMICO Bello! Benissimo! Per far saltare così tutto il teatro5? LA FIGLIASTRA Ma è la verità! 80 IL CAPOCOMICO Ma che verità, mi faccia il piacere! Qua siamo a teatro! La verità, fino a un certo punto! LA FIGLIASTRA E che vuol fare lei allora, scusi? IL CAPOCOMICO Lo vedrà, lo vedrà! Lasci fare a me adesso! LA FIGLIASTRA No, signore! Della mia nausea, di tutte le ragioni, una più 85 crudele e più vile dell’altra, per cui io sono «questa», «così», vorrebbe forse cavarne un pasticcetto romantico sentimentale6, con lui che mi chiede le ragioni del lutto, e io che gli rispondo lacrimando che da due mesi m’è morto papà? No, no, caro signore! Bisogna che lui mi dica come m’ha detto: 90 «Togliamo via subito, allora, codesto vestitino!». E io, con tutto il mio lutto nel cuore, di appena due mesi, me ne sono andata là, vede? là, dietro quel paravento, e con queste dita che mi ballano dall’onta, dal ribrezzo, mi sono sganciato il busto, la veste... 95 IL CAPOCOMICO (ponendosi le mani tra i capelli). Per carità! Che dice? LA FIGLIASTRA (gridando, frenetica). La verità! la verità, signore! IL CAPOCOMICO Ma sì, non nego, sarà la verità... e comprendo, comprendo tutto il suo orrore, signorina; ma comprenda anche lei che tutto questo sulla scena non è possibile! 100 LA FIGLIASTRA Non è possibile? E allora, grazie tante, io non ci sto! IL CAPOCOMICO Ma no, veda.. LA FIGLIASTRA Non ci sto! non ci sto! Quello che è possibile sulla scena ve lo siete combinato insieme tutti e due, di là, grazie! Lo capisco 5 Per far saltare così tutto il teatro: per il capocomico è inimmaginabile rappresentare una situazione (e delle parole) così scandalose a teatro. Alla protesta che se-

gue della ragazza, ribadisce che «la verità» può essere rappresentata a teatro solo «fino a un certo punto».

6 vorrebbe… sentimentale: la figliastra si oppone alla trasformazione del suo dramma in soggetto lacrimevole e melodrammatico.

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bene! Egli vuol subito arrivare alla rappresentazione caricando dei suoi travagli spirituali; ma io voglio rappresentare il mio dramma! il mio! IL CAPOCOMICO (seccato, scrollandosi fieramente). Oh, infine,il suo! Non c’è soltanto il suo, scusi! C’è anche quello degli altri! Quello di lui, indicherà il Padre

quello di sua madre! Non può stare che un personaggio venga, così, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! Lo so bene anch’io che 115 ciascuno ha tutta una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile è appunto questo: farne venir fuori quel tanto che è necessario, in rapporto con gli altri; e pure in quel poco fare intendere tutta l’altra vita che resta dentro! Ah, comodo, se ogni personaggio potesse in un bel monologo, o... 120 senz’altro... in una conferenza venire a scodellare davanti al pubblico tutto quel che gli bolle in pentola! Con tono bonario, conciliativo: Bisogna che lei si contenga, signorina. E creda, nel suo stes125 so interesse; perché può anche fare una cattiva impressione, glielo avverto, tutta codesta furia dilaniatrice, codesto disgusto esasperato, quando lei stessa, mi scusi, ha confessato di essere stata con altri, prima che con lui, da Madama Pace, più di una volta! 130 LA FIGLIASTRA (abbassando il capo, con profonda voce, dopo una pausa di raccoglimento). È vero! Ma pensi che quegli altri sono egualmente lui, per me. IL CAPOCOMICO (non comprendendo). Come, gli altri? Che vuol dire? LA FIGLIASTRA Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le 135 colpe che seguono, non è sempre chi, primo, determinò la caduta? E per me è lui, anche da prima ch’io nascessi. Lo guardi; e veda se non è vero! IL CAPOCOMICO Benissimo! E le par poco il peso di tanto rimorso su lui? Gli dia modo di rappresentarlo! 140 LA FIGLIASTRA E come, scusi? dico, come potrebbe rappresentare tutti i suoi «nobili» rimorsi, tutti i suoi tormenti «morali», se lei vuol risparmiargli l’orrore d’essersi un bel giorno trovata tra le braccia, dopo averla invitata a togliersi l’abito del suo lutto recente, donna e già caduta, quella bambina, signore, quella 145 bambina ch’egli si recava a vedere uscire dalla scuola? Dirà queste ultime parole con voce tremante di commozione.

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La Madre, nel sentirle dire così, sopraffatta da un émpito d’incontenibile ambascia, che s’esprimerà prima in alcuni gemiti soffocati, romperà alla fine in un pianto perduto. La commozione vincerà tutti. Lunga pausa. LA FIGLIASTRA (appena la Madre accennerà di quietarsi, soggiungerà, cupa e risoluta): Noi siamo qua tra noi, adesso, ignorati ancora dal pubblico. Lei darà domani di noi quello spettacolo che crederà, concertandolo a suo modo. Ma lo vuol vedere davvero, il dramma? scoppiare davvero, com’è stato? 155 IL CAPOCOMICO Ma sì, non chiedo di meglio, per prenderne fin d’ora quanto sarà possibile! LA FIGLIASTRA Ebbene, faccia uscire quella madre. LA MADRE (levandosi dal suo pianto, con un urlo). No, no! Non lo permetta, signore! Non lo permetta! 160 IL CAPOCOMICO Ma è solo per vedere, signora! LA MADRE Io non posso! non posso! IL CAPOCOMICO Ma se è già tutto avvenuto, scusi! Non capisco! LA MADRE No, avviene ora, avviene sempre! Il mio strazio non è finto, signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento 165 del mio strazio, che si rinnova, vivo e presente sempre. Ma quei due piccini là, li ha lei sentiti parlare? Non possono più parlare, signore! Se ne stanno aggrappati a me, ancora, per tenermi vivo e presente lo strazio: ma essi, per sé, non sono, non sono più! E questa, 150

indicherà la Figliastra signore, se n’è fuggita, è scappata via da me e s’è perduta, perduta... Se ora io me la vedo qua è ancora per questo, solo per questo, sempre, sempre, per rinnovarmi sempre, vivo e presente, lo strazio che ho sofferto anche per lei! 175 IL PADRE (solenne). Il momento eterno, com’io le ho detto, signore! Lei 170

indicherà la Figliastra è qui per cogliermi, fissarmi, tenermi agganciato e sospeso in eterno, alla gogna, in quel solo momento fuggevole e ver180 gognoso della mia vita. Non può rinunziarvi, e lei, signore, non può veramente risparmiarmelo. IL CAPOCOMICO Ma sì, io non dico di non rappresentarlo: formerà appunto il nucleo di tutto il primo atto, fino ad arrivare alla sorpresa di lei – 185

indicherà la Madre. IL PADRE. Ecco, sì. Perché è la mia condanna, signore: tutta la nostra passione, che deve culminare nel grido finale di lei! Maschere nude: un teatro antitradizionale 4 749

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indicherà anche lui la Madre. LA FIGLIASTRA L’ho ancora qui negli orecchi! M’ha reso folle quel grido! – 190 Lei può rappresentarmi come vuole, signore: non importa! Anche vestita; purché abbia almeno le braccia – solo le braccia – nude, perché, guardi, stando così, si accosterà al Padre e gli appoggerà la testa sul petto

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con la testa appoggiata così, e le braccia così al suo collo, mi vedevo pulsare qui, nel braccio qui, una vena; e allora, come se soltanto quella vena viva mi facesse ribrezzo, strizzai gli occhi, così, così, ed affondai la testa nel suo petto! Voltandosi verso la Madre: Grida, grida, mamma!

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Affonderà la testa nel petto del Padre, e con le spalle alzate come per non sentire il grido, soggiungerà con voce di strazio soffocato:

LA MADRE

Grida, come hai gridato allora! (avventandosi per separarli). No! Figlia, figlia mia!

E dopo averla staccata da lui: 210

Bruto, bruto, è mia figlia! Non vedi che è mia figlia? IL CAPOCOMICO (arretrando, al grido, fino alla ribalta, tra lo sgomento degli Attori). Benissimo: sì, benissimo! E allora, sipario, sipario! IL PADRE (accorrendo a lui, convulso). Ecco, sì: perché è stato veramen215 te così, signore! IL CAPOCOMICO (ammirato e convinto). Ma sì, qua, senz’altro! Sipario! Sipario! Alle grida reiterate del Capocomico, il Macchinista butterà giù il sipario, lasciando fuori, davanti alla ribalta, il Capocomico e il Padre. 220

IL CAPOCOMICO (guardando in alto, con le braccia alzate). Ma che bestia! Dico sipario per intendere che l’Atto deve finir così, e m’abbassano il sipario davvero! Al Padre, sollevando un lembo della tenda per rientrare nel palcoscenico:

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Sì, sì, benissimo! benissimo! Effetto sicuro! Bisogna finir così. Garantisco, garantisco, per questo Primo Atto! Rientrerà col Padre.

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Analisi del testo Il “teatro nel teatro” Da questa scena ci si può rendere facilmente conto della grande modernità del testo pirandelliano, che non mancò, in un primo tempo, di sconcertare il pubblico, come si è detto. Innanzitutto ci troviamo di fronte a una scena, o meglio frammenti di una scena, recitata, come l’intero dramma, all’interno di uno scenario teatrale: la dolorosa storia dei Sei personaggi si inserisce, senza alcun preavviso, sconvolgendole, nelle prove di una compagnia teatrale che sta preparando la rappresentazione di una commedia dello stesso Pirandello, Il giuoco delle parti. Ma il gioco di scatole cinesi non si limita a questa trovata: come evidenzia in parte la scena riprodotta, sono presenti anche ulteriori incastri e duplicazioni, con scambi di ruoli tra il primo e il secondo spettacolo: quando gli attori della compagnia cercano di recitare il loro dramma i personaggi fungono da spettatori; a un certo punto sono i personaggi stessi a diventare attori, recitando personalmente la loro parte, mentre gli attori a loro volta diventano spettatori.

Il metateatro Nella scena dell’incontro tra la Figliastra e il Padre si inseriscono poi spunti della polemica di Pirandello nei confronti del teatro borghese e delle stesse convenzioni teatrali. Tale polemica è affidata essenzialmente al personaggio della Figliastra, la figura più forte e significativa del dramma, che ha come antagonista il capocomico, il quale rappresenta le convenzioni teatrali. È soprattutto lei che, nella parte omessa della scena, irride alla recitazione “falsificante” e convenzionale degli attori che dovrebbero impersonare lei e il Padre, dando voce alla diffidenza di Pirandello stesso nei confronti delle tecniche di recitazione. In un saggio di molti anni prima Pirandello osservava che, per quanto l’attore possa essere dotato e per quanto si sforzi di Interpretare la volontà dello scrittore, non sarà mai in grado di «vedere come questi ha veduto... sentire il personaggio come l’autore l’ha sentito... renderlo sulla scena come l’autore l’ha voluto».

Teatro e verità Ma la rivendicazione della “verità” da parte della Figliastra va ben oltre: essa vorrebbe che il copione teatrale rispecchiasse la cruda verità dei fatti: vorrebbe infatti che il Padre dicesse di fronte al pubblico le sconce parole che le aveva rivolto. La replica indignata del capocomico, che rappresenta il rispetto delle convenzioni teatrali, contrappone alla “verità” il “teatro”. Ma è proprio questo scollamento fra “teatro” e “verità” che Pirandello arditamente rifiuta, e lo fa con una vicenda dai tratti decisamente scabrosi, tenuto conto appunto anche del fatto che essa non è inserita in un romanzo, ma in un testo teatrale, destinato alla recitazione davanti a un pubblico. La protesta della Figliastra e il timore che la sua drammatica vicenda possa essere ridotta a un innocuo «pasticcetto romantico sentimentale» esplicita la critica di Pirandello al teatro borghese, di cui recupera i copioni e certe tematiche (come l’adulterio), ma facendoli deflagrare attraverso una prospettiva originale e straniante come in questo caso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il dialogo letto. COMPRENSIONE 2. Perché Pirandello non ha usato dei nomi propri ma dei ruoli per designare i sei personaggi? 3. Che cosa pensa Pirandello del dramma borghese che di solito veniva messo in scena a teatro? E del pubblico tradizionale? In quali passaggi possiamo riconoscere questi spunti polemici? ANALISI 4. Delinea la figura della Figliastra, analizzando le sue reazioni, i suoi atteggiamenti in rapporto alla Madre, al Padre (in realtà patrigno), al capocomico. 5. Delinea la figura del capocomico, analizzando le sue reazioni e i suoi atteggiamenti. 6. Individua nel testo tutti i passaggi che confermano che i Sei personaggi sono un testo metateatrale: che cosa smascherano del teatro?

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STILE 7. R ifletti sulla funzione delle didascalie che accompagnano l’azione scenica: ti sembra che forniscano solo indicazioni tecniche? Fai esempi a sostegno del tuo punto di vista. 8. Esistono delle differenze di registro stilistico tra i personaggi e il capocomico?

Interpretare

INTERPRETAZIONE 9. Perché, secondo te, i membri della compagnia fanno tanto fatica a comprendere i personaggi? SCRITTURA CREATIVA 10. S crivi un testo teatrale, o un racconto, dove immagini un dialogo tra te e il personaggio di una famosa opera letteraria alla ricerca di qualcuno disposto a cambiare il finale della sua storia. Fai emergere i motivi di tale richiesta, proponi il nuovo finale al personaggio e descrivi la sua reazione. SCRITTURA 11. G ramsci ha scritto quando faceva il critico teatrale per l’«Avanti»: «Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie, sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero». Che cosa voleva dire, secondo te? ESPOSIZIONE ORALE 12. L a difficoltà di comunicazione tra individui che questa commedia mette in scena, con la facile deriva della violenza verbale, si è oggi particolarmente aggravata nella Rete. Cerca online Il Manifesto della comunicazione non ostile (https://paroleostili.it/manifesto/), scegli il punto del Decalogo che più ti ha colpito e presentalo alla classe attraverso riflessioni e commenti supportati da esempi concreti.

EDUCAZIONE CIVICA

Luigi Pirandello

Follia e chiaroveggenza

T18

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

Enrico IV, atto II Siamo al secondo atto del dramma. Enrico IV ha appena rivelato ai suoi consiglieri (giovani in realtà pagati per recitare la parte, a loro volta mascherati da personaggi medievali) di non essere pazzo, ma essi restano turbati e sono increduli riguardo al suo rinsavimento. Il monologo, inizialmente incentrato sul tema della pazzia, diventa poi una lucida (e prettamente pirandelliana) riflessione sull’incomunicabilità tra gli esseri umani.

L. Pirandello, Maschere nude, a c. di A. d’Amico, vol. II, Mondadori, Milano 1993

ENRICO IV Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – È vero o no? Li guarda un po’, li vede atterriti. Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! che volete? 10 Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi cosí e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono piú. Volubili! Volubili! – Voi dite: «questo non può essere!» – e 5

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per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te, a te, 15

indica tre di loro,

e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose 20 mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete piú forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste1 come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi2 25 – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca... Pausa lungamente tenuta. L’ombra, nella sala, comincia ad addensarsi, accrescendo quel senso di smarrimento e di piú profonda costernazione da cui quei quattro masche30 rati3 sono compresi e sempre piú allontanati dal grande Mascherato4, rimasto assorto a contemplare una spaventosa miseria che non è di lui solo, ma di tutti. Poi egli si riscuote, fa come per cercare i quattro che non sente più attorno a sé e dice: S’è fatto bujo, qua. 1 affondaste: sprofondaste. 2 certi occhi: Enrico IV allude alla donna da lui amata un tempo, la marchesa Matilde.

3 quei quattro mascherati: i valletti che circondano nella sua vita quotidiana Enrico IV.

4 dal grande Mascherato: appunto il protagonista che è rimasto fissato nella maschera di Enrico IV.

Analisi del testo Enrico IV, “folle” ragionatore È un passaggio centrale nel dramma. Si tratta di un monologo in cui il protagonista da ex pazzo dà un’illuminante definizione della follia e spiega perché i pazzi facciano così paura ai “sani”: perché sconvolgono i normali parametri, perché sono fuori dalla logica, e questo li rende liberi e mutevoli. È interessante che, a breve distanza dalla stesura dell’Enrico IV, Pirandello dichiarasse a un giornalista in una intervista che «i pazzi erano più vicini alla vita» perché non imprigionati in una forma fissa, alla cui definizione concorre in modo preminente la logica. È quanto anche qui è asserito. Anche in una novella di molti anni precedente (1901), Quand’ero matto, Pirandello abbozza un’immagine analoga della pazzia, come consuetudine all’ebbrezza che deriva da intuizioni fuori della logica, una felice libertà di pensiero che i savi provano molto raramente. Proprio per questa libertà dagli schemi obbligati i pazzi possono “leggere” la realtà con maggiore penetrazione, scoprendo scomode o addirittura atroci verità, e peraltro Pirandello relativizza il concetto stesso di “verità”: «Ma voi dite che non è vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te, a te... e centomila altri. Bisognerebbe vedere poi che cosa paia vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi». Le verità relative e provvisorie sono assolutizzate dai “sani”, mentre il “pazzo” Enrico IV affonda il suo sguardo implacabile e lucido “oltre”, e quello che una volta ha visto e che continua a vedere non è per niente rassicurante: gli esseri umani credono di conoscersi, di amarsi, di incontrarsi, mentre ognuno è solo «nel suo mondo impenetrabile» agli altri.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il monologo di Enrico IV. COMPRENSIONE 2. Perché Enrico IV a un certo punto afferma «Beati loro, i pazzi!»? ANALISI 3. Trova sia nel monologo sia nelle didascalie tutte le affermazioni paradossali, e quindi umoristiche, tipicamente pirandelliane. COMPRENSIONE 4. Spiega il senso profondo dell’ultima battuta «S’è fatto bujo, qua», anche alla luce della precedente didascalia.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

RIDURRE LE DISUGUAGLIANZE

TESTI A CONFRONTO 5. Cerca online la canzone Mica Van Gogh di Caparezza e trova tutte le affinità tematiche con questo brano. LEGGERE LE EMOZIONI 6. Enrico IV sottolinea più volte lo sgomento, quasi terrore, provato dai “consiglieri” davanti a lui apparentemente sempre più pazzo. Hai mai provato queste emozioni a contatto con un “pazzo”? O spontaneamente hai avuto altre sensazioni? Hai mai provato a metterti nei suoi panni? Come pensi meriti di essere trattato? ESPOSIZIONE ORALE 7. La maggiore inclusività dei malati di mente nella società, come quella di tutti i portatori d’handicap, rientra nell’obiettivo 10 dell’Agenda 2030 che mira a ridurre le “ineguaglianze”. A questo proposito, fai una ricerca sulle terribili condizioni di vita dei “folli” nei manicomi nel Novecento e sullo psichiatra Franco Basaglia che nel 1978 ne ha legalmente promosso la chiusura, generando un epocale cambiamento di trattamento dei malati di mente da internati a pazienti, o, meglio ancora, da reietti a uomini bisognosi di cure e attenzioni. Approfondisci, quindi, la questione leggendo uno dei seguenti testi: a. Le libere donne di Magliano di Mario Tobino, psichiatra e scrittore vissuto per anni da medico in diversi manicomi, di cui ha descritto magistralmente la vita; b. diverse poesie della poetessa Alda Merini, per anni rinchiusa in un manicomio, come ad esempio Il dottore agguerrito nella notte o Toeletta; c. Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli, che ha romanzato l’esperienza di un TSO in un reparto psichiatrico oggi; d. Grande meraviglia di Viola Ardone, che descrive la vita di una ragazza dentro e fuori un manicomio. Prepara, infine, un monologo da leggere o recitare in classe, nel quale, scegliendo un punto di vista interno, affronti la condizione dei “folli” nella società di ieri e di oggi.

Giorgio Albertazzi fotografato prima della rappresentazione dell’Enrico IV di Pirandello diretto da Antonio Calenda nel 1982.

online T19 Luigi Pirandello

«Non bisogna più ragionare»: l’approdo del teatro pirandelliano alla dimensione dell’irrazionale e del surreale I giganti della montagna, atto II

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Fissare i concetti Luigi Pirandello Ritratto d’autore 1. Che importanza hanno avuto nella vita di Pirandello l’ambiente siciliano e quello romano? 2. Perché il 1903 fu un anno di svolta nella vita di Pirandello? 3. Con quali opere letterarie guadagnò maggior successo? 4. In che anno aderì al fascismo e perché? Come mutò il suo rapporto con il regime? 5. P erché Pirandello si definì uno scrittore “filosofo”? In quali testi argomentò più dettagliatamente i suoi pensieri filosofici? 6. P erché possiamo considerare Pirandello una delle voci più significative della crisi di certezze del Primo Novecento? 7. I n che cosa consiste il contrasto vita-forma che è alla base del suo pensiero, della sua poetica e della sua produzione letteraria? 8. In che cosa consiste la poetica dell’umorismo? 9. Che differenza c’è per Pirandello tra comico e umoristico? 10. Perché il saggio L’umorismo fu dedicato al protagonista di Il fu Mattia Pascal? Pirandello narratore: le novelle e i romanzi 11. Quante novelle scrisse Pirandello? 12. Come si intitola la raccolta delle novelle? Perché? 13. Per quali aspetti la narrativa di Pirandello prende le distanze da quella verista? 14. Quali temi ricorrono spesso nelle sue novelle? 15. P erché le ultime novelle sono state definite dai critici “fantastico-surrealiste”? uali romanzi scrisse Pirandello? 16. Q 17. I n che cosa L’esclusa del 1893 si differenzia da un tipico romanzo verista? erché I vecchi e i giovani del 1913 offre un’amara riflessione politica? 18. P 19. F acendo opportuni riferimenti al romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore del 1915, spiega come Pirandello giudica il mondo moderno e che posizione abbia, secondo lui, in esso l’artista. erché Quaderni di Serafino Gubbio operatore è considerato un romanzo sperimentale? 20. P erché Pirandello stesso ha detto che in Uno, nessuno e centomila c’è «la sintesi completa di 21. P tutto ciò che ho fatto e la sorgente di quello che farò»? Rispondi con opportuni riferimenti alla produzione letteraria precedente e successiva. Leggere Il fu Mattia Pascal 22. I n quale particolare momento della sua vita Pirandello scrisse Il fu Mattia Pascal? erché il titolo Il fu Mattia Pascal è da considerarsi umoristico? 23. P erché Mattia è un narratore inattendibile? 24. P he cosa dice Mattia nella seconda Premessa definita espressamente filosofica? Come si collega 25. C la riflessione filosofica in essa contenuta alla vicenda del protagonista? 26. C he cosa hanno in comune e che cosa di diverso l’inetto Mattia e i tipici inetti di tanta letteratura novecentesca? 27. P erché Il fu Mattia Pascal, pur essendo un racconto a posteriori di eventi significativi vissuti dal protagonista, non può essere considerato un romanzo di formazione? Maschere nude: un teatro antitradizionale 28. P erché il teatro fu un’evoluzione naturale del percorso creativo di Pirandello? Cosa del suo pensiero e del suo modo di scrivere era già rispondente alla dimensione teatrale? erché Pirandello intitolò la raccolta dei suoi testi teatrali Maschere nude? 29. P he caratteristiche hanno le commedie cosiddette “grottesche”? Rispondi aiutandoti con esempi 30. C tratti dai testi a te noti. 31. P erché con Pirandello si parla di “teatro-processo”? 32. C he cos’è il metateatro? In quali drammi di Pirandello esso è particolarmente presente? erché Enrico IV, protagonista dell’omonimo dramma, è considerato uno dei personaggi in 33. P assoluto più pirandelliani? erché La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929) e I giganti della montagna (1930) definiscono 34. P una nuova stagione teatrale pirandelliana?

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Luigi Pirandello

L’umorista vede il mondo «per così dire, in camicia» L. Pirandello, L’umorismo, intr. di S. Guglielmino, Mondadori, Milano 1992

L’umorismo, VI L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si 5 diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole. Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia: in camicia il re, che vi fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino. 10 [...] La vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contradizioni, pare all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. 15 Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni. Ebbene, gli scrittori, in genere, non se n’avvalgono, o poco se ne curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa tesoro invece l’umorista. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla 20 terra? Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma l’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita in somma, così varia e complessa, contradicono poi aspramente quelle semplificazioni ideali, costringono 25 ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreveduto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima diversa 30 da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorismo, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contradizioni, su cui l’opera sua si fonda, in opposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di 35 scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere.

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Comprensione e analisi

Produzione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Indica il tema centrale del brano. 2. Che cosa distingue l’arte umoristica dalle altre forme d’arte? 3. Di che cosa non sembrano curarsi gli scrittori? 4. Il testo è ricco di immagini ed espressioni metaforiche. Spiega il senso delle seguenti: a. «il mondo... in camicia»; c. «la terra»; b. «la vita nuda»; d. «l’oro in zecchini nuovi». 5. Il testo è strutturato attraverso frequenti antitesi. Individua le principali e spiegane il senso in rapporto al contesto. 6. Perché Pirandello ritiene legittimo ricorrere a particolari che possono risultare «volgari e triviali»? 7. A che cosa fa riferimento quando parla di «digressioni»? Ricollega il passo alla più generale concezione pirandelliana della vita, anche in rapporto alla crisi ideologica e valoriale da cui l’autore prende le mosse. Identifica aspetti dei testi pirandelliani a te noti che esemplifichino la poetica enunciata nel brano.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da C. Magris, Se il relativismo teme la verità, «Corriere della Sera», 23 febbraio 2012

Nel coro retorico e mediatico, il relativismo – al pari dei concetti a esso contigui o opposti, quali tolleranza e verità – viene spesso radicalmente svisato nel suo significato più alto e profondo. Il relativismo, correttamente inteso, non è la negazione della verità e men che meno del significato e della necessità della 5 sua ricerca. Esso è un indispensabile sale, non una pietanza; è un correttivo irrinunciabile nella ricerca della verità, che impedisce di credersene possessori definitivi, pervenuti a una piena e indiscutibile conoscenza della verità e autorizzati a imporla agli altri. Questo relativismo – rivolto a tutti i dogmatismi, a tutte le parole d’ordine e a tutte le opinioni dominanti del momento, soprattutto 10 alle proprie convinzioni – è la base della tolleranza e della libertà. Ma c’è un altro relativismo che oggi detta legge come un dogma pacchiano, rinunciando a priori a cercare – certo a tentoni, perché nell’esistenza umana non è possibile altrimenti – una qualsiasi verità; rinunciando ad affermare qualsiasi valore, ponendo tutte le scelte morali sullo stesso piano, come in un 15 menu in cui ognuno sceglie secondo i suoi gusti e le reazioni delle sue papille gustative. Chi si rifiuta di considerare l’etica come un supermarket è bollato, con intolleranza, quale retrogrado e reazionario. […]

Come afferma Claudio Magris all’inizio del suo articolo, oggi si parla spesso di “relativismo”. Benedetto XVI ne aveva fatto il centro ideologico e la missione principale del suo pontificato, ma il tema è dibattuto anche negli ambienti culturali di ispirazione laica e aconfessionale, in relazione a fenomeni del nostro tempo quali la fine delle ideologie, il “pensiero debole”, la crisi dei valori. Rifletti sulle tematiche che si evincono dal brano, traendo spunto dalle considerazioni in esso contenute e dalle tue letture, dalle tue conoscenze, dalle tue esperienze personali. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Duecento e Trecento Umberto Saba

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

«Un personaggio disajutato» Nato vicino ad Agrigento nel 1867 in una famiglia agiata e di sentimenti antiborbonici, Luigi Pirandello studia nella natia Sicilia e si laurea a Bonn, in Germania; nel 1894 si trasferisce a Roma, dove pubblica la prima raccolta di novelle, Amori senza amore. All’attività di novelliere, la preferita, si affianca quella di romanziere, che consiste di sette opere scritte tra il 1894 e il 1926. Dal 1903, però, a causa del tracollo economico paterno e della malattia della moglie, l’attività letteraria viene subordinata al guadagno: Pirandello scrive su commissione e trova lavoro come insegnante nella scuola pubblica. Nasce in queste condizioni Il fu Mattia Pascal (1904) che, tuttavia, gli garantisce inaspettatamente un grande successo. La fama si allarga all’ambito internazionale grazie al teatro: dal 1915 i suoi lavori sovvertono gli schemi dell’arte borghese e Sei personaggi in cerca d’autore (1921) viene rappresentato in tutto il mondo. Negli anni Trenta, Pirandello si interessa anche di cinema e cerca ispirazione e contatti in Francia e in America, con successo: il soggetto dell’opera teatrale Come tu mi vuoi viene infatti comprato dalla Metro Goldwin Mayer per una cifra altissima. La parabola dello scrittore arriva al culmine nel 1934, quando gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. Ma proprio mentre lavora alla versione cinematografica di un’opera, si ammala di polmonite e muore a Roma nel 1936. La “filosofia” pirandelliana In Pirandello, la poetica e la riflessione filosofica sono strettamente interdipendenti. I nuclei principali del suo pensiero e della sua visione estetica sono esposti nel saggio L’umorismo (1908), il più importante dei suoi scritti teorici. La visione pirandelliana della vita prende le mosse dalla constatazione di una crisi epocale, portatrice di negatività, le cui cause sono attribuite al Positivismo, che distrugge le certezze religiose umane senza, però, essere in grado di sostituirle con verità altrettanto solide. Opporcisi è inutile: il processo è inarrestabile, non reversibile e ciò che rimane all’intellettuale è l’ansiosa ricerca del senso della vita. Anche la teoria del soggetto e della conoscenza è radicalmente pessimistica: ognuno può sviluppare personalità multiple, mosse dal flusso psichico interiore, che si cerca di unificare, attraverso la logica, dietro una maschera, un ruolo fisso nella società, in grado di cementarsi progressivamente grazie all’abitudine e ai rapporti interpersonali. Talvolta questo “volto” crolla e il soggetto scopre la verità: un avvenimento che Pirandello ritiene profondamente destabilizzante e foriero di metamorfosi individuali negative. La poetica umoristica La poetica che traduce in ambito artistico questa concezione della realtà e dell’individuo viene enunciata in particolare nel saggio L’umorismo, in cui Pirandello delinea i caratteri dell’arte umoristica, da lui considerata l’unica forma d’arte adeguata a un’età di crisi come quella coeva. La sua visione estetica è al contempo antipositivistica, antidealistica e antiverista: compito dell’umorista, la cui visione scaturisce dal «sentimento del contrario», consiste infatti nel cogliere e rivelare la disarmonia, “smascherare” tutto ciò che le apparenze celano, andare oltre i fatti per illuminare la «vita nuda», inducendo il lettore a prendere coscienza della tragica realtà della condizione umana.

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2 Pirandello narratore: le novelle e i romanzi

Le novelle: dalla rivisitazione del Verismo al Surrealismo Pirandello scrisse circa duecentocinquanta novelle, raccolte per la maggior parte dal 1922 sotto il titolo complessivo Novelle per un anno (nelle sue intenzioni avrebbero dovuto essere trecentosessantacinque, come i giorni dell’anno, in omaggio alla tradizione novellistica). Nel campionario umano degli scritti si riflette, con esiti artistici spesso molto alti, l’amara visione autoriale. Pirandello si distacca, infatti, dall’impianto narrativo verista per esplorare, con forte partecipazione, le dinamiche psicologiche di personaggi per lo più falliti, colti preferibilmente nel momento della presa di coscienza dell’inautenticità della loro vita. Lo scopo è quello di stimolare nel lettore una riflessione sulla natura profonda della realtà: ragion per cui il narratore non mantiene l’impassibilità del corrispettivo verista ma interviene con il discorso indiretto libero per farsi portavoce dell’ideologia autoriale. Si allontanano dalla poetica umoristica e tagliano del tutto i ponti con ogni forma di realismo rappresentativo le novelle dell’ultimo periodo: analogamente all’ultima fase della produzione teatrale, esse danno spazio a tematiche irrazionalistiche e vedono la prevalenza di ambienti e personaggi di carattere surreale e simbolico, delineati come figure solitarie mediante un lessico lirico e un tono distaccato. I romanzi: un cammino sperimentale Pirandello è autore di sette romanzi, pubblicati in un arco di tempo che va dal 1901 (L’Esclusa) al 1926 (Uno, nessuno e centomila). Le tematiche che in essi ricorrono sono le stesse esplorate nelle novelle: è centrale il tema dell’assurdità della vita umana, dell’alienazione dell’uomo all’interno della famiglia e della società, oltre che l’impossibilità di sfuggire alla trappola delle convenzioni e dei ruoli. Nei romanzi più significativi (Il fu Mattia Pascal del 1904 e Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pubblicato nell’edizione definitiva nel 1925, ma composto nel 1915) Pirandello opta per soluzioni narrative decisamente antiveristiche: in particolare, la narrazione è affidata al punto di vista soggettivo degli inattendibili protagonisti e l’intreccio tende a perdere importanza rispetto all’invasione delle digressioni riflessive, che diventano la dimensione addirittura dominante in Uno, nessuno e centomila. Nel più celebre dei romanzi, Il fu Mattia Pascal, attraverso la paradossale vicenda del protagonista, primo anti-eroe novecentesco, Pirandello esemplifica l’impossibilità per l’individuo di trovare una vera identità al di fuori dei ruoli. Il tema della crisi dell’identità viene portato alle estreme conseguenze in Uno, nessuno e centomila, opera-manifesto pirandelliana e monologo di carattere quasi saggistico: il protagonista, Vitangelo Moscarda, rapportandosi con un lettore-interlocutore, racconta il proprio percorso di distruzione delle maschere individuali che impediscono di raggiungere la vera umanità, da lui trovata isolandosi volontariamente dalla società e rinunciando a ogni soggettività per vivere, in una consapevole follia, nel contatto salvifico con la natura. I Quaderni di Serafino Gubbio operatore prendono spunto dal mondo emergente del cinema per una critica severa della modernità tecnologica e per riflettere sulla mercificazione dell’arte e sulla reificazione dell’essere umano, condotta attraverso lo “sguardo” distaccato dell’operatore cinematografico Serafino e una narrazione diaristica e “frantumata”, che ondeggia continuamente tra passato e presente del soggetto.

3 Leggere Il fu Mattia Pascal

La genesi e le vicende editoriali del romanzo Scritto dietro compenso nel 1904, in un momento di difficoltà economica e famigliare dell’autore, Il fu Mattia Pascal compare come romanzo a puntate su una rivista. Da ciò deriva, probabilmente, il carattere

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particolarmente avventuroso della trama e il curioso titolo (peraltro già nettamente antiverista), finalizzati a coinvolgere e fidelizzare il pubblico ogni uscita. Il titolo, l’intreccio, il protagonista-narratore Nei diciotto capitoli dell’opera (dichiaratamente anche filosofica e anti-idealistica), il protagonista, un inetto alla vita, scrive la propria storia: intrappolato in un rapporto soffocante con la propria famiglia, egli coglie per caso l’occasione di scappare e assume una nuova identità: quella di Adriano Meis. In seguito, desiderando sposarsi con una donna che ne ignora il passato, l’uomo prende coscienza del fatto che non potrà farlo, non essendo in grado né di documentare la sua stessa esistenza né di tornare nella precedente: l’unica possibilità che gli rimane è quella di diventare uno spettatore della vita altrui mentre racconta la propria. Le caratteristiche narrative e le scelte stilistiche Il lavoro pirandelliano costituisce un’autobiografia che si articola come un romanzo di anti-formazione: il narratore in prima persona è poco autorevole e si racconta alternando continuamente avvenimenti presenti e passati, intervallati da numerose digressioni filosofiche; ma ciò che vive non lo migliora, anzi ne certifica il totale fallimento esistenziale. La rottura con il romanzo ottocentesco si consuma anche dal punto di vista stilistico: prevale la paratassi e il lessico è ricco di scelte che puntano all’espressività.

4 Maschere nude: un teatro antitradizionale

Pirandello e il teatro Ancora più radicale è la novità del teatro di Pirandello, a cui l’autore si dedica a partire dal 1916 e in modo via via sempre più intenso negli anni successivi. Anche nell’attività teatrale, strettamente legata a quella saggistica e narrativa dalla stessa poetica umoristica, Pirandello ripropone le tematiche a lui care: il contrasto tra apparenza e realtà, la vita come “recita” di “parti” provvisorie e relative scambiate per essenziali. Il titolo Maschere nude, che raccoglie tutta la produzione per la scena, allude appunto allo scopo del lavoro pirandelliano di “svelamento” delle parti associate a ciascun individuo. Dalla scelta naturalistica del dialetto alle commedie umoristiche Sebbene scambiato inizialmente per verista, considerati l’uso del dialetto siciliano e l’ambientazione dei lavori, il teatro pirandelliano è umoristico anche nelle primissime fasi. Successivamente l’ambientazione e i soggetti diventano quelli tipici del teatro “borghese” di impianto realistico, ma l’applicazione della poetica umoristica implica la scomparsa dell’elemento catartico dopo la rappresentazione di casi volutamente “grotteschi”, finalizzati a svelare impietosamente la crisi della famiglia, del matrimonio, dell’individuo nella società contemporanea, preda del relativismo conoscitivo. Ne sono esempio palese testi come Così è (se vi pare), Il giuoco delle parti e Il piacere dell’onestà.

Il teatro “nel teatro” / Il teatro “sul teatro” Particolarmente importante è la rivoluzione delle forme teatrali portata avanti dagli anni Venti nel gruppo di testi noto come “teatro nel teatro”, il più famoso dei quali è il celeberrimo testo di rottura e dai numerosi livelli di lettura Sei personaggi in cerca d’autore (1921). Pirandello infrange qui le convenzioni teatrali, svelando i meccanismi del teatro e mescolando realtà e finzione, e usa lo spazio teatrale per un dibattito metateatrale, cioè sul teatro stesso (riguardante la recitazione degli attori, il ruolo del regista e altri suoi aspetti). La follia in scena: Enrico IV All’esperienza del “teatro nel teatro” si collega anche un altro dramma degli anni Venti, punto di totale allontanamento dal teatro naturalista: Enrico IV. Il tema pirandelliano della follia è qui incarnato in un personaggio che, dopo un incidente, crede di essere l’imperatore Enrico IV, ruolo in cui si è rinchiuso, obbligando chi gli sta

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intorno ad assecondarlo. Ma il protagonista, dopo un periodo di reale malattia, sta solo fingendo di essere un folle ormai da anni: la maschera, infatti, gli consente di essere un distaccato osservatore delle pazzie degli altri e di rimanere estraneo alla vita, nella quale, a causa degli anni persi per le conseguenze dell’incidente, sente di non poter più rientrare. Dal pirandellismo al “teatro dei miti” Gli ultimi drammi (noti come «teatro dei miti») degli anni Trenta tendono a riprendere le consuete tematiche e situazioni oppure ad abbandonare del tutto la prospettiva umoristica e a indulgere in forme irrazionalistiche e misticheggianti, prediligendo ambientazioni surreali; anche lo stile muta, e da argomentativo diviene più lirico. Il dramma più significativo di questa fase è I giganti della montagna, rimasto incompiuto per la morte dello scrittore (1936), nel quale si pone in primo piano la tematica del ruolo dell’arte nella società contemporanea e della brutalità della società di massa.

Zona Competenze Competenze digitali

1. Elabora una linea del tempo multimediale sulla vita e la produzione letteraria di Pirandello, ricca di citazioni e immagini, attraverso lo strumento open source Timeline JS (https://timeline.knightlab.com) che consente di creare in modo rapido e semplice timeline interattive. 2. Inserisci nel programma opensource Voyant Tools (https://voyant-tools.org) alcuni brani di Pirandello e osserva le Word Clouds delle parole a tutto schermo. Offriranno a te e ai tuoi compagni importanti spunti di riflessione sulle parole chiave della produzione pirandelliana.

Scrittura creativa

3. Elabora un’intervista fittizia a Pirandello, nella quale far emergere gli aspetti più innovativi della sua produzione letteraria. Si raccomanda l’uso dell’umorismo nelle risposte dello scrittore.

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Primo Novecento CAPITOLO

18 Italo Svevo CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

L’uomo Svevo Visto da Giorgio Voghera... Così descrive Svevo lo scrittore triestino Giorgio Voghera (1908-1999) che, da ragazzo, aveva avuto occasione di vederlo al Caffè Municipio di Trieste, mentre conversava con il padre dello stesso Voghera e con altri intellettuali della città.

[... Ricordo] esattamente che gli occhi di Svevo mi colpirono subito moltissimo: degli occhi neri, sporgenti, un po’ storti, che davano l’impressione di una pacata ma veramente straordinaria intelligenza [...]: era uno sguardo “avvolgente” (così lo definivo fra me e me già a quel tempo) che pareva considerare le persone e le cose da tutte le parti, e che, pur essendo sorridente e appena lievemente ironico, esprimeva non forse un’acuta, presente sofferenza, quanto una profonda, irrimediabile amarezza. G. Voghera, Gli anni della psicanalisi, Studio Tesi, Pordenone 1995

... e da Giani Stuparich Il collega e concittadino Giani Stuparich (1891-1961) ricorda Svevo come brillante animatore delle compagnie di intellettuali presso un altro Caffè di Trieste, il Garibaldi, anch’esso un luogo di riunione per letterati e artisti.

Italo Svevo sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza la compagine del Caffè Garibaldi. Nasceva un calore comune, che senza di lui era come disgiunto fra i piccoli gruppi a sé e le presenze silenziose. Egli apriva con la sua larghezza di uomo di mondo la conversazione e la conchiudeva con il suo bonario sorriso particolare. Parlasse di Londra, di Firenze, il suo tono era sempre triestino; in lui ci riconoscevamo tutti. Si discorresse di poesia, di narrativa, d’arti figurative, egli non lesinava mai la sua pensosa partecipazione; ma gli piaceva soprattutto parlare di uomini, anatomizzare stati psicologici, cominciando sempre da se stesso, ponendo a nudo la sua propria natura umana con spontaneità garrula e profonda, tra il fanciullo terribile senza riguardi per nessuno e il vecchio sapiente pieno di socratica finezza. L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Dall’Oglio, Milano 1976

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L’opera di Italo Svevo, il più “europeo” dei nostri scrittori, anche perché nato e vissuto a Trieste, città di confine aperta ai più diversi influssi culturali, si inserisce a pieno titolo nella grande narrativa europea del primo Novecento. Con essa ha in comune la diagnosi della crisi conoscitiva e valoriale che investe la cultura europea di inizio secolo, la profonda analisi dell’io, il tema del disagio esistenziale e la dissoluzione delle strutture narrative tradizionali. Appartenente a tutti gli effetti alla classe borghese, Svevo al contempo ne demistifica impietosamente le meschinità e debolezze, incarnate nei protagonisti dei suoi tre romanzi, tutti in varia misura autobiografici. Strumento chiave dell’analisi sveviana dei comportamenti umani è la psicoanalisi, la cui utilizzazione critico-ironica è evidente nella Coscienza di Zeno, uno dei romanzi chiave della letteratura primo-novecentesca.

1 Ritratto d’autore I romanzi di Svevo: nella malattia 2 viaggio dell’uomo moderno coscienza 3 Ladi Zeno 763 763

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1 Ritratto d’autore 1 Uno scrittore “europeo” Italo Svevo: significato di uno pseudonimo Italo Svevo, il cui vero nome è Aron Hector (Ettore) Schmitz, è sicuramente l’autore più europeo della letteratura italiana, per diverse ragioni. Di famiglia ebraica, nasce nel 1861 e vive a Trieste, città cosmopolita, fino al 1918 appartenente all’impero austro-ungarico, dove, oltre al triestino, si parlava correntemente il tedesco, la cui padronanza permise a Svevo di leggere in lingua originale Schopenhauer, Nietzsche, Freud, autori fondamentali per la sua cultura filosofica. La formazione italo-tedesca dello scrittore è testimoniata dallo pseudonimo da lui scelto per firmare le proprie opere: Italo perché si era sempre sentito italiano, ma anche Svevo, cioè tedesco per cultura. Le peculiarità dell’ambiente triestino Trieste era una città dalla singolare fisionomia: nodo commerciale dell’impero asburgico, di cui costituiva il più importante porto sul Mediterraneo, si era arricchita nel tempo di industrie, infrastrutture, imprese commerciali, banche, istituti assicurativi. Nella città convivevano etnie (e lingue) diverse: italiani, sloveni, tedeschi e anche una numerosa comunità ebraica. La mentalità triestina era caratterizzata da senso pratico, intraprendenza, apertura, rifiuto del formalismo e della retorica, diffusi invece nel resto d’Italia. Autori come Goethe e Schopenhauer erano familiari come, e forse ancora più, di Dante

Cronologia interattiva 1861

1892

Proclamazione del Regno d’Italia.

1860

Primo ministero Giolitti.

1870

1880

1874-1878

Studia in Germania, presso il collegio di Segnitz.

1890

1880

A settembre inizia il lavoro alla Banca Union. 1892

Muore il padre. Pubblicazione di Una vita con lo pseudonimo, utilizzato per la prima volta, di Italo Svevo. 1861

Aron Hector Schmitz nasce a Trieste.

1896

Matrimonio con Livia Veneziani con rito civile, perché i Veneziani, anche se di origine ebrea come Svevo, professano la religione cattolica.

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e Petrarca; era invece scarsa l’influenza di autori italiani recenti e di fama, come D’Annunzio, o di critici come Benedetto Croce, che esercitava allora in Italia una vera e propria dittatura culturale. Le caratteristiche della cultura triestina prima del 1918 – fra cui l’interesse allo scavo analitico nella psicologia favorito dall’opera di Freud che, non a caso, fu divulgata a Trieste molto prima che nelle altre città della penisola) – sono da ricondurre all’ambito mitteleuropeo più che a quello italiano. La formazione giovanile di Svevo I genitori dello scrittore sono entrambi ebrei “assimilati” (cioè non rigorosamente osservanti, come sarà per tutta la vita Svevo); il padre, di origini ungheresi, commerciava in vetrami; la madre, Allegra Moravia, era di una famiglia di ebrei italiani. L’intenso legame dello scrittore con la madre è rivelato da un particolare curioso: come lei, tutti i principali personaggi femminili delle opere di Svevo hanno nomi in A (Annetta in Una vita, Angiolina e Amalia in Senilità, le quattro ragazze Malfenti, Ada, Augusta, Alberta e Anna nella Coscienza di Zeno). La famiglia dello scrittore è numerosa (otto tra fratelli e sorelle, quattro femmine e quattro maschi, comprendendo lo scrittore) e inizialmente agiata. Quando Ettore ha dodici anni, il padre lo manda insieme a due fratelli in un collegio in Germania, a Segnitz, perché impari perfettamente il tedesco in vista di una futura attività commerciale; in realtà il ragazzo si dedica soprattutto a studiare i classici tedeschi della letteratura e della filosofia (in particolare, Goethe, Schiller e Schopenhauer). Un impiegato di banca-scrittore Quando torna a Trieste, è iscritto dal padre all’istituto superiore commerciale Revoltella (equivalente a una facoltà universitaria di economia). In un suo Profilo autobiografico scrive, con l’ironia che gli era propria: «Furono due anni di lavoro intenso che intanto servirono a chiarire ad Italo il suo proprio animo e a fargli intendere ch’egli per il commercio non era nato».

1923 1898

1914-1918

A Milano il generale Bava Beccaris spara sulla folla inerme.

Prima guerra mondiale. 1922

Marcia fascista su Roma.

1899

Freud pubblica L’interpretazione dei sogni.

1900

1899

Lascia l’impiego in banca ed entra come dirigente nella ditta Veneziani. 1898

1910

1907

In Spagna si instaura la dittatura militare di Miguel Primo de Rivera..

Lezioni con Joyce, probabilmente iniziate già uno o due anni prima.

1930

1922

1928

Termina La coscienza di Zeno.

1923

Conversione di Svevo al cattolicesimo, battesimo e matrimonio religioso. In settembre nasce l’unica figlia, Letizia.

Gramsci è incarcerato.

1920

Pubblicazione di Senilità. 1897

1928

Pubblica La coscienza.

Muore per i postumi di un incidente automobilistico avvenuto il giorno prima, presso Motta di Livenza. 1925

Grazie a Joyce e ai critici francesi, diviene famoso; Montale pubblica Omaggio a Italo Svevo.

1914-1918

Durante la guerra Svevo rimane con la moglie a Trieste, per sorvegliare la fabbrica.

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PER APPROFONDIRE

In seguito a una serie di rovesci finanziari l’impresa del padre fallisce e il futuro scrittore è costretto nel 1880, diciannovenne, a interrompere gli studi e ad accettare un impiego presso la Banca Union, dove resterà, assai malvolentieri, per diciannove anni; nel frattempo, non rinuncia agli interessi letterari, e al sogno di diventare scrittore, da sempre coltivato. Svevo scrive racconti, commedie e articoli per i giornali locali, sperando di poter giungere alla fama letteraria per abbandonare il lavoro in banca: nel 1890, con lo pseudonimo di Ettore Samigli, esce su «L’Indipendente» il racconto L’assassinio di via Belpoggio, in cui già viene anticipata la figura dell’“inetto”. Due anni dopo, non a caso a seguito della morte del padre da sempre ostile alle velleità letterarie del figlio, avviene la pubblicazione del primo romanzo, Una vita (1892), che con sua grande delusione, passa inosservato, e non riscuote alcun successo, né di pubblico né di critica, ma lo aiuta a diventare docente presso la scuola Revoltella di Trieste. Seguono anni tristi e difficili, per il lavoro mal sopportato, per il declino economico della famiglia prima abituata a un tenore di vita alto-borghese, e per i lutti famigliari, fra i quali, particolarmente grave per lo scrittore, la morte del fratello Elio (1886), appena ventiduenne, al quale era legatissimo. In questo periodo Svevo si lega in una stretta amicizia con il pittore Umberto Veruda, anticonformista ed eccentrico (a cui si ispirerà per la figura dello scultore Balli

La Mitteleuropa Per riferirsi alle manifestazioni della civiltà e della cultura in lingua prevalentemente tedesca (ma non solo, e l’italiano Svevo ne è un esempio) dell’ultimo periodo dell’impero asburgico, tramontato nel 1918 con la sconfitta nella Grande Guerra, si è ormai imposta la categoria storico-culturale di Mitteleuropa (letteralmente “Europa centrale”). La peculiarità della Mitteleuropa Le peculiarità del mondo mitteleuropeo hanno le loro radici nella struttura multinazionale e multietnica dell’Impero, un vero crogiolo di culture diverse, con la monarchia asburgica come principio unificante; gli apporti di diverse componenti, in particolare quella ebraica pienamente integrata nella vita civile e predominante in ambito culturale, si fondono in un insieme unico e affascinante. Ciò che soprattutto caratterizza l’Impero è una visione che sarebbe stata poi spesso ricordata con nostalgia, in contrasto con la barbarie nazionalista e totalitaria che ne sarebbe seguita: spirito di tolleranza, di rispetto per le varie tradizioni culturali; senso del dovere, della misura, per cui lo stesso imperatore si considerava come un funzionario, e non come la suprema incarnazione del potere; rispetto dell’ordine, dell’educazione, delle regole formali. Come ricorda lo scrittore Stefan Zweig (1881-1942) nel libro Il mondo di ieri (pubblicato postumo nel 1944), «era dolce vivere in quell’atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino senza averne coscienza veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita». Le spinte disgregatrici dell’Impero e la letteratura della crisi In realtà sotto a tale superficie apparentemente regolata e pacifica, crescevano le forze disgregatrici dei nazionalismi, mentre l’ordine e la razionalità mascheravano un sostanziale immobilismo, che inutilmente tentava di esorcizzare le forze vive della storia.

Al di là di espressioni improntate a un illusorio senso di sicurezza e stabilità – le operette e i valzer viennesi di Johann Strauss padre (1804-1849) e figlio (1825-1899) –, la cultura mitteleuropea, come appare anche in Svevo, è soprattutto una cultura della crisi. La sua natura problematica è estremamente moderna, come si constata nelle opere di scrittori come Schnitzler, Hofmannsthal, Kraus, Zweig, Musil, Rilke, Canetti, Kafka, di musicisti come Bruckner, Mahler, Berg, Schönberg, di filosofi come Mach e Wittgenstein, e degli psicoanalisti, a partire da Freud. I temi della letteratura mitteleuropea La cultura mitteleuropea nel suo insieme rimanda a un mondo di magmatica complessità e di crisi, esplorata in tutti i suoi elementi: • la perdita del senso della totalità, che dava un ordine e un significato alle cose; • il carattere inafferrabile e problematico della realtà; • la difficile conciliazione fra individuo e società; • il carattere illusorio dell’unità dell’io; • la natura complessa del linguaggio. Una delle manifestazioni evidenti di tale visione è, nel romanzo, la dissoluzione del personaggio – dai protagonisti delle opere di Schnitzler, all’“uomo senza qualità” di Musil, allo Zeno sveviano – che caratterizza la letteratura mitteleuropea, quasi rispecchiando le tendenze disgregatrici dell’impero, come ha osservato Claudio Magris. Fra i vari saggi dedicati dallo scrittore triestino Claudio Magris (n. 1939) all’argomento è di fondamentale importanza: Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963; la cit. è da S. Zweig, Il mondo di ieri, trad. di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano 1994.

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nel suo secondo romanzo, Senilità), con cui frequenta gli ambienti intellettuali e artistici cittadini, e ha una relazione con una sarta di nome Giuseppina (l’Angiolina dello stesso romanzo). Il matrimonio Nel 1896, a trentaquattro anni, nella vita dello scrittore si verifica una svolta: il matrimonio con Livia Veneziani, sua cugina di secondo grado, allora soltanto ventunenne e quindi molto più giovane dello scrittore, da cui sarebbe nata l’unica figlia, Letizia. La figura di Livia, con il suo dolce ed equilibrato carattere, il suo amore profondo per lo scrittore, sostegno per il suo carattere malinconico e pessimista, ma allo stesso tempo con le sue certezze piccolo-borghesi e il suo disinteresse per la letteratura, ispirerà allo scrittore alcuni tratti del personaggio di Augusta della Coscienza. L’industriale Schmitz Nel 1899, dopo aver pubblicato il suo secondo romanzo, Senilità (anche questa volta senza successo), lo scrittore passa a lavorare come dirigente nella ditta dei suoceri, una fiorente industria di vernici sottomarine per le chiglie delle navi. È un notevole salto sociale: dall’avvilente condizione di impiegato di banca, Svevo passa alla sfera dell’alta borghesia industriale, esercitando un’attività a lui molto più gradita e in cui, forse contro le sue stesse aspettative, si rivela capace e intraprendente. E abbandona temporaneamente le ambizioni letterarie: per lungo tempo, a Trieste, sarà soltanto l’industriale Ettore Schmitz. I nuovi orizzonti culturali e il ritorno alla scrittura Ma nuovi stimoli sarebbero subentrati a ricondurlo, quasi suo malgrado, dopo molti anni, alla letteratura: il risultato sarà La coscienza di Zeno, un’opera di importanza fondamentale per la cultura europea. Il primo stimolo fu per Svevo l’incontro con James Joyce (1882-1941), che allora insegnava inglese alla Berlitz School a Trieste. A Joyce, allora giovanissimo, Svevo si rivolge per migliorare la sua conoscenza dell’inglese, essenziale per il suo lavoro di dirigente industriale (il colorificio Veneziani stava aprendo una succursale a Londra). Joyce era ancora all’inizio della sua carriera di scrittore e confida a Svevo le proprie ambizioni letterarie, leggendo a lui e alla moglie passi di Gente di Dublino [Dubliners] che stava allora componendo. A sua volta, Svevo gli fa leggere i suoi primi romanzi, Una vita e Senilità: non soltanto lo scrittore irlandese li apprezza, in particolare Senilità, ma si indigna perché gli italiani non sono stati in grado di riconoscere uno dei loro migliori autori. Tra i due scrittori nasce un’amicizia destinata a durare tutta la vita, documentata da molte lettere quando Joyce lascerà Trieste. Il “ciclone” psicoanalisi A questo inatteso incoraggiamento, si aggiunge – a riportare Svevo alle sue ormai accantonate ambizioni letterarie – lo stimolo del dibattito sulla psicoanalisi, allora in pieno fervore a Trieste. Nel resto dell’Italia la nuova disciplina è ancora sconosciuta, ma a Trieste, dove si parlava il tedesco e operava il dottor Edoardo Weiss (1889-1970), allora il maggior allievo di Freud in Italia, la psicoanalisi è una specie di “ciclone”, che travolge la città, alimentando accesi dibattiti. È naturale che anche Svevo, con il suo interesse per l’esplorazione profonda dell’animo umano, si appassioni alla psicoanalisi, tanto più che un suo parente, il cognato Bruno Veneziani, aveva fatto ricorso alle cure di Weiss e dello stesso Freud (pur senza riportarne alcun miglioramento). La guerra, rivelatrice della “malattia universale” Ciò che soprattutto spinge Svevo a tornare a impegnarsi a tempo pieno nella letteratura (da vent’anni praticata in modo soltanto occasionale e privato) e all’ambizioso progetto di un nuovo romanzo, tuttavia, è la Prima guerra mondiale, sia perché lo esenta dalle responsabilità Ritratto d’autore 1 767

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Per approfondire Un inedito “curriculum vitae” di Italo Svevo

verso la ditta di famiglia, essendo la fabbrica stata chiusa dalle autorità, sia perché la terribile realtà del conflitto mondiale lo induce a riflettere «con la penna in mano», per usare un’espressione sveviana, sulla “malattia” a cui era andata incontro l’intera umanità. La coscienza di Zeno: un tardivo riconoscimento Il romanzo, concluso nel 1922, è pubblicato nel 1923, ma anche questa volta senza riscuotere l’apprezzamento dei critici italiani. Ora però Svevo non accetta più passivamente l’insuccesso. Scrive a Joyce, in quegli anni a Parigi, e l’amico scrittore non lo delude: gli manda parole di incoraggiamento («Perché si dispera? Deve sapere che è di gran lunga il suo migliore libro») e fa conoscere l’opera a importanti italianisti francesi, che dedicano alla Coscienza traduzioni e interventi critici entusiastici. Lo scrittore, tra il serio e il faceto, parla di un “miracolo di Lazzaro”: una resurrezione, letteraria ma anche esistenziale, che lo porta a una seconda, imprevista giovinezza. L’eco del successo francese divide il mondo letterario italiano: molti critici continuano a disconoscere il valore di Svevo, sostenendo che “scrive male”, ma altri, soprattutto i più giovani, ne ammirano la grandezza; fra di essi il poeta Eugenio Montale che, avendo conosciuto l’opera sveviana grazie al triestino Roberto Bazlen (singolare figura di consulente editoriale di grande cultura), scrive nel 1925 un Omaggio a Italo Svevo. Nel febbraio del 1928 lo scrittore viene invitato a Firenze come ospite dello “Svevo’s Club”, creato da Montale e dalla sua futura moglie Drusilla Tanzi Marangoni, dove viene omaggiato da giovani autori gravitanti attorno alla rivista «Solaria» come Elio Vittorini; il mese dopo lo festeggiano a Parigi, presso il Pen Club, autori come Shaw, Prezzolini, Comisso e naturalmente Joyce. Sebbene ormai anziano (ha 64 anni) Svevo ha finalmente realizzato lo scopo della sua vita: essere riconosciuto come un “vero” scrittore. Purtroppo però, nel 1928 non regge alle conseguenze di un incidente automobilistico avvenuto a Motta di Livenza, al ritorno dalle vacanze, in cui s’era fratturato una gamba. Muore in ospedale; chiede di fumare ma, alla proibizione, risponde senza perdere il suo umorismo: «Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta», alludendo ai propositi sempre falliti del suo personaggio, Zeno, e di lui stesso, di abbandonare il vizio del fumo.

2 La visione della letteratura e i modelli culturali La scrittura come conoscenza di sé Per Svevo, come per il suo concittadino Umberto Saba, la scrittura è prima di tutto scandaglio in profondo dell’animo umano. Più volte Svevo sottolinea come scrivere serva a conoscersi: da un lato – come mette in luce nella prefazione al suo quarto, incompiuto romanzo, Il vegliardo del 1928 – perché la scrittura “fissa” la vita evitando che si disperda nel nulla (arriva addirittura a dire che è viva solo la parte di vita che raccontiamo in forma scritta, che diventa per questo la più importante. «Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi.»); dall’altro, perché l’atto stesso di scrivere induce non solo a ricordare, ma anche a riflettere e a prendere coscienza di stati d’animo di cui altrimenti rimarremmo inconsapevoli. Il problematico rapporto tra letteratura e vita Se da un lato dunque, come scrive Svevo, «fuori della penna non c’è salvezza» (➜ D1a OL), d’altra parte la scrittura, che egli concepisce come autobiografia del profondo, non è rassicurante: rivela infatti lati nascosti che si preferirebbe ignorare e, gettando luce sul fondo

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oscuro e spesso rimosso dell’animo umano, crea insicurezze e inquietudini, ignote a chi si concentra solo sull’azione. Si comprende dunque come Svevo ritenesse inconciliabile la pratica della scrittura con l’attività di industriale, tanto da arrivare a proporsi, una volta assunte responsabilità di imprenditore, di rinunciare «a quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura» (➜ D1b OL) Lo scrittore mette così in luce un importante problema: l’incompatibilità fra letteratura e vita nella società moderna, spesso evidenziato dagli scrittori decadenti; a differenza di questi ultimi, tuttavia – forse caso unico – Svevo opta per la vita borghese, e non per la letteratura. Questa scelta non deve però essere vista come un totale abbandono dell’attività letteraria: se rinuncia a un lavoro sistematico, finalizzato a un’affermazione di sé come autore, Svevo continua a scrivere annotazioni diaristiche, testi teatrali e racconti. I modelli letterari Anche in rapporto alla specificità dell’ambiente triestino, l’opera di Svevo non è per nulla influenzata dalla tradizione letteraria italiana. I suoi modelli appartengono tutti alla letteratura europea: in particolare, i maestri del naturalismo francese (Flaubert, Maupassant, Zola), i grandi narratori russi (specie Dostoevskij) e il drammaturgo Ibsen. Una lettura personale e critica dei filosofi L’interesse dominante di Svevo per l’analisi e la chiarificazione della vita interiore dell’uomo e delle dinamiche che ne determinano i comportamenti orienta anche gli interessi filosofici dello scrittore triestino. Svevo ha una cultura filosofica vasta ed eterogenea, frutto di appassionate letture personali (da Darwin a Marx, da Schopenhauer a Nietzsche, a Freud): egli utilizza le pagine dei filosofi con estrema libertà, rivendicando il diritto a svilupparne le idee in una direzione personale, in modo creativo e originale, e perciò programmaticamente “infedele”, come egli stesso chiarisce in un passo del Soggiorno londinese (un saggio autobiografico del 1926): «Noi romanzieri usiamo baloccarci con le grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle. Le falsifichiamo ma le umanizziamo». L’influenza di Darwin e di Marx Ne è un esempio la lettura di Darwin: già nel primo romanzo, Una vita, l’idea darwiniana della lotta per la vita ispira la concezione di un personaggio “inetto” come Alfonso Nitti (➜ T1 ) e la formulazione delle questioni centrali del romanzo: come, nell’attuale società, avviene la darwiniana “lotta per l’esistenza”? Chi è destinato a essere vincente, e chi perdente? Quali sono le doti necessarie per essere “adatti” al mondo e avere successo nella vita? Ma Darwin rimane presente, anche se criticamente ripensato, ancora al tempo della Coscienza di Zeno (➜ PER APPROFONDIRE, La teoria dell’"abbozzo" di uomo: un’interpretazione originale della teoria darwiniana, PAG. 791). È importante anche la lettura di Marx: al di là dell’influenza che l’opera di Marx può aver avuto sull’ideologia politico-sociale di Svevo, la frequentazione del pensiero di Marx induce Svevo a collocare l’indagine psicologica del personaggio all’interno di precise coordinate sociali, con particolare attenzione alla classe borghese, a cui lui stesso apparteneva e che sottopone a una critica corrosiva. La filosofia di Schopenhauer Il filosofo più caro a Svevo resta comunque Schopenhauer: lo legge in tedesco e se ne entusiasma già fin dal periodo del collegio in Germania, a sedici-diciassette anni; come testimonia la moglie, ne citava spesso a memoria interi brani, ed è lo stesso scrittore a precisare di aver adottato lo pseudonimo di Svevo soprattutto in omaggio al filosofo tedesco. Dalla filosofia di Schopenhauer (la cui influenza accomuna molti grandi autori Ritratto d’autore 1 769

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europei, da Tolstoj a Thomas Mann, da Maupassant a Kafka) Svevo trae l’idea che l’uomo sia diretto da una volontà cieca e irrazionale; la ragione, secondo il filosofo, interverrebbe soltanto quando la volontà “ha già deciso”, come strumento per adempierne i desideri o per illuminare retrospettivamente i moventi delle azioni compiute; ma in questa azione chiarificatrice la ragione è per lo più ostacolata dal timore che gli uomini hanno di guardarsi dentro, dato che essi tendono costantemente a ritenersi migliori di quanto non siano in realtà. È questo il punto di partenza dei romanzi di Svevo: in Una vita e Senilità il narratore, analizzando i personaggi, ne mette infatti implacabilmente in luce gli autoinganni, le illusioni, il costante mascheramento e occultamento delle verità spiacevoli su sé stessi. La psicoanalisi Anche nella Coscienza di Zeno permane l’influenza di Schopenhauer ma, nell’indagine sveviana sull’interiorità, assume un ruolo di primo piano la psicoanalisi, definita da Svevo nel Soggiorno londinese, la «scienza per aiutare a studiare sé stesso». In due lettere a Valerio Jahier (1891-1939), un intellettuale italiano che viveva a Parigi, Svevo sostiene che la psicoanalisi sia utile per comprendere la realtà psichica, ma si dimostra scettico sulla sua efficacia terapeutica; ritiene infatti Freud un grande uomo «più per i romanzieri che per gli ammalati» (➜ D2a OL). online D1 Il significato della scrittura

per Svevo

D1a Livia Veneziani Svevo Fuori della penna non c’è salvezza Vita di mio marito D1b Livia Veneziani Svevo

Si scrive per comprendersi meglio Vita di mio marito

online D2 Psicoanalisi e letteratura D2a Italo Svevo

Freud serve più ai romanzieri che agli ammalati Lettere

D2b Italo Svevo Perché curare la malattia che ci rende più umani? Lettere

Sigmund Freud (primo da sinistra, seduto) insieme ad altri celebri psicoanalisti e psicologi presso la Clark University (USA), 1909.

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I romanzi di Svevo: viaggio nella malattia dell’uomo moderno 1 Una vita Da Un inetto a Una vita In tutte le sue opere Italo Svevo si interroga sulla crisi storica ed esistenziale dell’uomo moderno. Tale prospettiva critica emerge già nel suo primo romanzo, Una vita, un libro in parte autobiografico, scritto dall’autore nei ritagli di tempo del suo lavoro presso la Banca Union e pubblicato nel 1892. In un primo tempo Svevo aveva intitolato il romanzo Un inetto, ma, in seguito al rifiuto dell’editore di pubblicare un libro con un titolo così “negativo”, lo modifica. Pubblica a sue spese presso Vram, un tipografo-editore triestino, il romanzo che ha scarsissimo successo. «L’edizione di mille copie – scriverà Svevo nel Profilo autobiografico – fu pian piano smaltita in doni che l’autore fece ad amici e conoscenti». Il modello del romanzo naturalistico A prima vista Una vita riprende il modello del romanzo naturalistico, come si può notare nella ricostruzione accurata degli ambienti che ritraggono la borghesia triestina nelle sue stratificazioni sociali: dalla Banca Maller, in cui sono messi in luce i rapporti di lavoro conflittuali e alienanti, all’ambiente fatuo e mondano del salotto alto-borghese di Annetta, alla famiglia modesta, piccolo-borghese dei Lanucci, presso cui Alfonso affitta una camera. Derivato dal romanzo naturalistico è anche l’inserimento di documenti, come le due lettere che incorniciano il romanzo, mettendo in evidenza l’alienazione e spersonalizzazione dell’individuo nel mondo della città: alla lettera iniziale, scritta da Alfonso alla madre, in cui rimpiange il piccolo paese, fa da controaltare la secca, laconica lettera finale in cui la banca, con freddo e impersonale linguaggio burocratico, informa l’esecutore testamentario della morte di Alfonso. Anche il motivo del giovane inesperto, che dalla campagna si reca in città, dove tenta di salire la scala sociale, è ricorrente nella narrativa realistica ottocentesca (ad esempio, Le illusioni perdute di Balzac o Il rosso e il nero di Stendhal). Il tema novecentesco dell’inettitudine Il romanzo di Svevo si differenzia però dal modello naturalistico per la presenza del tema moderno dell’inettitudine. Del protagonista il narratore sottolinea la costante inadeguatezza, e il comportamento incerto e impacciato. Ma è soprattutto nel rapporto fallimentare con Annetta che Alfonso rivela la propria incapacità di vivere, facendosi sfuggire ciò che aveva già ottenuto senza alcuno sforzo: per il suo atteggiamento abulico e irresoluto, perde infatti l’amore proprio quando la giovane si era decisa a sposarlo. L’influsso della filosofia di Schopenhauer Svevo stesso dichiara di essersi ispirato nell’ideazione del personaggio di Alfonso, votato alla sconfitta e all’autodistruzione, a Schopenhauer, il filosofo tedesco da lui molto amato. Con la sua fallimentare esperienza di vita, il giovane riconosce infatti l’inconsistenza della volontà e dei desideri, che, una volta realizzati (come nel caso del possesso di Annetta), provocano solo delusione, secondo i principi teorizzati da Schopenhauer. Alfonso è incarnazione della figura del “contemplatore” individuato dal filosofo tedesco, incapace, per natura, di divenire “un lottatore” e quindi di risultare vincente nella lotta per I romanzi di Svevo: viaggio nella malattia dell’uomo moderno 1 771

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la vita (➜ T1 ). La figura del “contemplatore” abbozzata nel primo romanzo di Svevo richiama una tipologia umana diffusa nel romanzo europeo: l’inetto, l’”uomo senza qualità” ritratto da Musil, incapace di trovare una sua collocazione in una società già dominata dal mito del successo e da valori prosaici.

Lessico razionalizzazione Nelle scienze psicologiche il termine indica il procedimento con cui un soggetto cerca di dare una spiegazione logica o moralmente accettabile di un atto o un’idea o un sentimento di cui non sono percepiti i veri motivi inconsci, talvolta inconfessabili.

Il narratore giudicante Contrariamente all’impersonalità del romanzo naturalista, in cui il narratore, raccontando oggettivamente i fatti, non esprime alcuna opinione personale, in Una vita la voce narrante, in terza persona, abbonda di giudizi sul protagonista, quasi sempre negativi. Rifacendosi all’idea di Schopenhauer, secondo cui spesso l’uomo fraintende le reali motivazioni del suo agire, temendo di vedersi per quello che è in realtà, il narratore interviene di continuo per correggere l’opinione errata che il protagonista ha di sé, svelandone gli autoinganni, le “razionalizzazioni” che nascondono la spinta delle pulsioni inconsce, le velleità, i propositi incerti e inconsistenti. Si stabilisce perciò un continuo confronto tra due punti di vista contrapposti: quello del personaggio, su cui è quasi costantemente incentrata la focalizzazione, e quello del narratore. Il romanzo psicanalitico prima di Freud Leggendo questo romanzo si percepisce l’importanza che Svevo dà allo scavo nella coscienza dei suoi personaggi, prima ancora di aver conosciuto e letto Freud. Al centro di quest’opera c’è infatti l’analisi della complessa psicologia del protagonista, piena di irresolute contraddizioni. I suoi sentimenti sono un groviglio che lui stesso non sa sciogliere; mente spesso a sé stesso, si autoassolve costantemente, ma lo fa senza consapevolezza, perché non sa individuare con certezza le cause delle sue azioni. Ad esempio, fin dalla lettera posta all’inizio del romanzo scritta da Alfonso alla madre, si evince quasi un’adorazione nei suoi confronti, un’impossibilità di vivere lontano da lei. In realtà, corteggiando Annetta, tenta di emanciparsi da lei, da una sorta di dipendenza inconscia; tuttavia, dopo la prima relazione con Annetta, vissuta inconsciamente come un tradimento della mamma, torna da lei con la scusa della sua malattia. Ben prima di Freud, Svevo descriveva il blocco della maturazione sessuale di un uomo dovuto a un rapporto morboso con la madre Una vita Alfonso Nitti è un giovane che da un piccolo paese della provincia si è trasferito a Trieste trovando lavoro come impiegato presso la Banca Maller. Colto e riflessivo, ma inconcludente e sognatore, il giovane si mostra poco adatto a svolgere il lavoro impiegatizio, monotono e ripetitivo, e si immagina un brillante avvenire come scrittore. Si sente diverso, quasi superiore alla gente meschina che frequenta, perché conosce il latino e ama la poesia, ma vive un tempo in cui è decaduta la figura dell’intellettuale dalla sensibilità letteraria. Proprio la sua attività letteraria, però, suscita l’interesse di Annetta Maller, la figlia del proprietario della banca, che, volendo scrivere un romanzo, gli chiede di collaborare all’opera. Durante uno dei loro incontri, Alfonso seduce la ragazza. Per Alfonso si palesa l’occasione d’oro di contrarre un matrimonio vantaggioso. Dato il suo carattere debole e irresoluto, non resta accanto alla ragazza ad affrontare il padre di lei e convincerlo a dare l’assenso al matrimonio, ma torna al suo paese, dove assiste la madre, gravemente ammalata, fino alla sua morte. Si ammala anche lui e non scrive mai ad Annetta, pur sapendo che la sua fuga e il suo silenzio saranno interpretati come segni di viltà, che gli costeranno la perdita della ragazza. Al suo ritorno, infatti, trova Annetta fidanzata con il ricco cugino Macario, un giovane brillante agli antipodi dell’inetto Alfonso. Pure declassato sul lavoro, Alfonso è emarginato. Alla richiesta di un appuntamento con Annetta trova al posto della giovane il fratello di lei, che lo sfida a duello. Avendo rivelato in tutti i campi la propria inettitudine, Alfonso si uccide.

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Analisi passo dopo passo

T1

Italo Svevo

LEGGERE LE EMOZIONI

Alfonso e Macario a confronto: l’inetto e il “lottatore” Una vita, VIII

Durante una gita in barca a vela sul mare di Trieste, Macario, cugino di Annetta, impartisce ad Alfonso una dura lezione sulla vita che sarà confermata dagli eventi del romanzo, di cui l’episodio costituisce una prefigurazione.

La sua compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso1; qualche sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all’ufficio. I. Svevo, Una vita, Mondadori, Milano Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest’affetto 1985 5 improvviso. Lo doveva alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene. Non si compiacque meno di tale amicizia. Le cortesie, anche se comperate a caro prezzo, 10 piacciono. Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava quel giovine tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva. Macario possedeva un piccolo cutter2 e frequen15 temente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora 20 sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvî marini dovevano aiutarlo a trovarla. Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla 25 punta del molo, ove si trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere. 30 Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si

1 di spesso: di frequente.

Il rapporto fra Alfonso e Macario, apparentemente fondato sull’amicizia, è in realtà antagonistico e competitivo, e tale da mettere in rilievo l’ambigua complessità dell’animo umano. Macario, disinvolto e sicuro di sé, ricerca la compagnia del giovane impiegato («piccolo e insignificante») per compiacersi del proprio predominio; a sua volta Alfonso si sente superiore culturalmente a Macario, a cui in fondo attribuisce una preparazione superficiale e dilettantesca («intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva»). La vittoria psicologica di Macario, sostenuto da Ferdinando, è ormai schiacciante, e il giovane si diverte alle spalle di Alfonso, già terrorizzato, prospettandogli un naufragio. L’ambiguità dei rapporti umani, intrisi di aggressività anche quando sono apparentemente del tutto amichevoli, è un’intuizione di Svevo che sarà pienamente confermata dalla psicoanalisi freudiana e troverà perciò pieno riscontro anche nella Coscienza di Zeno. La superiorità di Macario ha però anche un risvolto sociale, messo in evidenza da un dettaglio: la «mano aristocratica» del nobile frequentatore dei salotti dell’aristocrazia cittadina sancisce la superiorità sul giovane provinciale. La descrizione è fortemente soggettiva, focalizzata sullo sguardo di Alfonso: quali espressioni lo mettono in rilievo?

2 cutter: barca a vela a un albero.

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hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo. Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Ma40 cario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a grandi fatiche: – Ora fuoco alla macchina, – gridò a Ferdinando. Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; 45 poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo. Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare. 50 – Che agile! – disse a Ferdinando. Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo3. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e 55 ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia4 a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente 60 il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso. S’era proposto di far mostra5 di grande sangue freddo, ma i propositi non bastarono all’improvvi65 so spavento6. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò7 alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina8. 70 Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. 75 Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi. 35

3 amicarselo: farselo amico. 4 poscia: poi. 5 far mostra: mostrare.

6 all’improvviso spavento: di fronte all’improvviso spavento.

Le escursioni in barca a vela offerte da Macario sono un piacevole diversivo per Alfonso. Non lo interessa però la compagnia dell’altro (il narratore osserva ironicamente che in barca per lo più non ne ascolta i lunghi discorsi), ma la vita all’aria aperta, che ritiene giovare alla sua salute, qui nel senso dell’energia necessaria per affrontare le difficoltà del lavoro in banca e di quello letterario.

7 si tranquillò: si tranquillizzò. 8 banchina: sedile del rematore.

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Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi 80 sui sassi che la contornavano. – Sa nuotare? – gli chiese Macario con tranquillità. – Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma – e finse grande preoccupazione – anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me 85 perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. N’è vero, Nando? Ridendo sgangheratamente, costui lo promise. Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci 90 parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura. – Muore maggior numero di persone per paura 95 che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, – e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla 100 banchina. E passarono accanto al verde Sant’Andrea9 senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva. La città, quando al ritorno la rivide, gli parve tri105 ste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo. 110 – Con questo mare! Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe striscie increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superfi115 cie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente. Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.

La gita si presenta diversa dalle altre: non piacevole diversivo, ma impegnativa prova di coraggio e di carattere, in cui Alfonso è perdente, mentre Macario si diverte in modo quasi sadico ad accrescerne il timore. Quali momenti della narrazione lo mettono in luce?

Alla fine dell’avventurosa gita in barca, Macario, vedendo uno stormo di gabbiani presso la riva, impartisce ad Alfonso una “lezione” di darwinismo, coniugato con Schopenhauer. Il tema della “lotta per la vita”, che premia i più adatti (i gabbiani predatori contro cui nulla possono i pesci), prefigura il destino del protagonista, le cui mani si riveleranno «inabili a tenere» Annetta, dopo averla conquistata senza sforzo. Macario propone un modello di comportamento fondato sull’individualismo (i gabbiani sono solitarii), sull’aggressività e sull’assenza di scrupoli nel perseguire i propri obiettivi (sanno «piombare a tempo debito sulla preda», con «appetito formidabile»). L’individuo è ormai solo nella moderna società competitiva, che punisce senza pietà i deboli e gli inetti.

9 verde Sant’Andrea: zona con viali e giardini lungo la costa di Trieste.

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Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte. Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la 125 salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere. 130 – Fatti proprio per pescare e per mangiare, – filosofeggiò Macario. – Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi10! Quello ch’è la sventura del pesce 135 che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello 140 col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giam145 mai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere. Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si 150 sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza. – Ed io ho le ali? – chiese abbozzando un sorriso. – Per fare dei voli poetici sì! – rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase 155 non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso. 120

Il paragone evidenzia la preponderanza dell’istinto sulla razionalità. L’inettitudine – sostiene in sostanza Macario – è un dato di natura che non può in nessun modo essere corretto dalla cultura; chi non ha le ali per piombare a tempo debito sulla preda, non imparerà mai a farlo, men che meno glielo potranno insegnare lo studio e la cultura. I vincenti nella vita sarebbero dunque come i gabbiani che nascono già forniti di ali robuste per slanciarsi sulla preda, mentre il loro cervello è pochissimo sviluppato.

Le potenti ali del gabbiano sono contrapposte a quelle che servono per «fare dei voli poetici». L’immagine ricorda una famosa poesia (➜ C4 T2 ) di Baudelaire, in cui l’albatro era simbolo del poeta, che sapeva elevarsi al di sopra della mediocre società borghese; sebbene evidenziasse il disadattamento dell’intellettuale nel mondo moderno, Baudelaire ne ribadiva al contempo la superiorità. Una mitizzazione assente nel romanzo di Svevo, espressione di un mondo dominato dagli affari e dal successo economico, in cui non appare più possibile alcuno slancio ideale.

10 negligersi: trascurarsi.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in poche righe gli eventi narrati. COMPRENSIONE 2. Quali notizie sulla vita di Alfonso si ricavano dal brano? 3. Quali significati simbolici assumono nel testo la prova del mare? ANALISI 4. Svevo non aveva una piena padronanza della lingua italiana. Trova espressioni grammaticalmente inappropriate che lo dimostrino.

Interpretare

LA LETTERATURA E NOI 5. Nel brano Macario, parlando dei gabbiani, ma alludendo anche agli uomini, ad un certo punto afferma: «Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile!». Condividi la sua sfiducia nei confronti del cervello, ovvero delle attività intellettuali, per ottenere beni materiali? Pensi sia una sfiducia ancora diffusa nella società odierna o ormai superata? SCRITTURA 6. Come specificato nell’analisi guidata, il rapporto tra Alfonso e Macario, apparentemente amichevole, in realtà è pieno di tensioni sottese. Ti è mai capitato di vivere una simile relazione? Nelle vesti di Macario o di Alfonso? Cosa alimentava tali tensioni?

LEGGERE LE EMOZIONI

2 Senilità I caratteri del romanzo Senilità, il secondo romanzo di Svevo, anch’esso con tratti autobiografici, è pubblicato nel 1898; dopo il successo della Coscienza di Zeno, l’autore lo sottopone a revisione linguistica e lo ripubblica nel 1927 nella versione che leggiamo attualmente. Più breve e sintetico di Una vita, Senilità si allontana dal naturalismo in modo più netto: Svevo rinuncia infatti alle ricostruzioni dettagliate di ambienti e quadri sociali (come, nel primo romanzo, la Banca Maller e le figure di contorno dei vari impiegati) e privilegia nettamente rispetto all’intreccio l’esplorazione delle dinamiche psicologiche, in particolare relativamente al protagonista, il punto di vista del quale è adottato quasi costantemente. Sono quattro i personaggi principali, delineati a tutto tondo: il protagonista, Emilio Brentani, un impiegato con velleità letterarie; Angiolina, una bella popolana, immagine della seduzione femminile; Amalia, sorella di Emilio, donna sensibile e colta, ma spenta e priva di fascino; lo scultore Balli, disinvolto e sicuro di sé, fortunato con le donne, che rappresenta il modello maschile a cui il protagonista vorrebbe assomigliare. Emilio, come e più di Alfonso Nitti, è un personaggio negativo: infatti, non è soltanto un inetto. La sua condizione psicologica (a cui allude il suggestivo titolo del romanzo) è il timore senile di affrontare la vita, nonostante non sia ancora vecchio (ha 35 anni); egli si avvolge in una rete di alibi psicologici e, per evitare ogni delusione, praticamente non vive; compie scelte dettate dall’egoismo, ma non se ne accorge, perché non ha veramente il coraggio di guardarsi dentro. Emilio attraversa così la vita senza comprenderla, incapace di assumersi responsabilità, di godere e di soffrire. I romanzi di Svevo: viaggio nella malattia dell’uomo moderno 1 777

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Il tema morale e l’etica di Schopenhauer L’attenzione rivolta a un protagonista negativo evidenzia l’intento morale del romanzo. I severi giudizi del narratore inducono il lettore a considerare gli errori di Emilio e a trarne una lezione morale: la necessità di essere sinceri con sé stessi, di riconoscere i propri difetti e limiti con obiettività di giudizio, senza illudersi e senza autoassolversi, evitando autoinganni e vane fantasticherie. Svevo sottopone a una minuziosa e implacabile analisi le zone più oscure dell’animo umano: la visione etica a cui si ispira è quella del filosofo prediletto, Schopenhauer, il quale così ritrae il «carattere cattivo»: «va in cerca del solo suo benessere, senza punto curarsi dell’altrui. Le altre persone gli rimangono estranee, come se fra la loro essenza e la sua ci fosse un abisso incolmabile, come se le altre non fossero che larve senz’ombra di realtà», ammonendo che «alcuni hanno di buono soltanto l’apparenza, dovuta alla debolezza della volontà che si manifesta in loro; ma presto si scopre chi siano, e cosa valgano: incapaci di riportare sopra se stessi una vittoria un po’ ardua, non appena si tratti di compiere un atto di bontà o di giustizia»: un ritratto in cui si può senza fatica riconoscere il personaggio di Emilio. I giudizi del narratore Come Una vita, anche Senilità è narrato in terza persona da un narratore esterno. In rapporto però alla prospettiva morale che ispira il romanzo, il ruolo giudicante del narratore è qui più accentuato che in Una vita. Sin dalla prima pagina, giudizi acri e implacabili investono il modo di Emilio di vedere le cose, lo smentiscono, ne svelano gli autoinganni, le reticenze, le menzogne, cosicché il libro appare come una costante requisitoria contro il protagonista. Sono molteplici le modalità attraverso cui il narratore rivela il suo giudizio critico: a volte formula giudizi negativi espliciti; altre impiega mezzi più sottili, come l’uso di un aggettivo, un avverbio, un diminutivo volto a immiserire e sminuire, e tutta la costruzione psicologica autodifensiva di Emilio crolla come un castello di carte; altre ancora basta la stessa realtà dei fatti a smentire le opinioni velleitarie di Emilio. Il sistema dei personaggi In Senilità è il sistema stesso dei personaggi, strutturato su quattro figure (due femminili, due maschili) a mettere in evidenza l’inettitudine del protagonista. Tutti, salvo Emilio, possiedono qualche qualità positiva: Angiolina è una ragazza volgare e corrotta, ma vitale e spontanea, capace, con il suo istinto di popolana, di dominare completamente la debole volontà dell’amante; Amalia è l’immagine della remissività e della bontà: si sacrifica per il fratello, con uno spirito di abnegazione che da lui non è nemmeno compreso, tanto meno ricompensato; il Balli sembra a volte troppo sicuro di sé e vanitoso, ma in realtà per Emilio è un amico leale, come dimostra respingendo le profferte di Angiolina; inoltre, a differenza di Emilio, non ha nessuna colpa nella sorte di Amalia, che alla fine assiste generosamente negli ultimi giorni di vita. Emilio appare dunque il personaggio più negativo del romanzo ma, per la sua propensione all’autoinganno, non sembra mai acquisire consapevolezza della propria bassezza morale e del proprio egoismo. La coscienza di Emilio Il centro del romanzo, il vero fuoco dell’interesse, appare dunque la coscienza di Emilio. Diversamente da Una vita, la questione in gioco non è se il protagonista sia vincente o perdente nel gioco della vita, ma come lo si debba giudicare dal punto di vista morale. In Una vita Alfonso è contrapposto a personaggi sicuri di sé e vincenti, come Macario. In Senilità, invece, non ci sono personaggi vincenti: Angiolina non è in fondo che una povera popolana, corrot-

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ta dalla miseria, e anche il Balli è fortunato con le donne, ma sfortunato nel suo lavoro artistico, in cui ottiene ben pochi riconoscimenti. Nella “lotta per la vita” Amalia è sconfitta in modo ancora più tragico del fratello, ma gli è immensamente superiore sul piano morale e per la profondità d’animo. Nella Coscienza di Zeno, i due temi, quello dell’inettitudine di Una vita e quello morale di Senilità, si intrecceranno. Diversamente da Alfonso Nitti, Zeno si rivelerà un “inetto vincente”, ma il tono sorridente e ironico del libro, in cui il giudizio morale, per la diversa struttura narrativa con il protagonista-narratore, è lasciato al lettore, non implica un’assoluzione del protagonista, significativamente definito da Svevo «fratello di Emilio e di Alfonso»: il narratore giudicante di Senilità può dunque illuminare il lettore anche nel giudizio morale su Zeno. Senilità Emilio Brentani, un impiegato con velleità letterarie, vive un’esistenza scialba e monotona. Scapolo, precocemente invecchiato, vive con la sorella Amalia, anch’essa nubile e a lui legata da una dedizione quasi materna. Giunto a trentacinque anni, Emilio decide per la prima volta di vivere un’avventura amorosa, simile a quelle a cui è disinvoltamente dedito l’amico Balli, uno scultore dalla vivace e volitiva personalità (che riflette quella di Umberto Veruda, pittore triestino amico di Svevo), molto fortunato con le donne. Per evitare la responsabilità di un rapporto serio e impegnativo con una giovane della stessa classe sociale, Emilio intraprende una relazione con una bella ragazza del popolo, Angiolina, convinto di dominarla per la sua superiore età e cultura. In realtà accade l’opposto: Emilio è sempre più irretito dalla passione, mentre Angiolina, che si rivela scaltra, insincera e opportunista, lo tradisce concedendosi per interesse a vari uomini. Ossessionato dalla gelosia, Emilio coinvolge nella rovina la sorella, che si era a sua volta invaghita del Balli, frequentatore abituale della loro casa. Quando la donna rivela inconsapevolmente il suo segreto attraverso alcune parole pronunciate durante un sogno, il fratello, con sciocca e impulsiva crudeltà, geloso del Balli per la sua fortuna con le donne (la stessa Angiolina aveva tentato di sedurlo), invita l’amico a non frequentare più casa sua, per non illudere Amalia. La donna non regge alla delusione e all’umiliazione e si procura l’oblio con l’etere profumato, finché, indebolita, muore di polmonite. Durante l’agonia della sorella, Emilio è così egoista da abbandonarla a una vicina e allo stesso Balli, per recarsi a un ultimo colloquio con Angiolina. Amalia muore, mentre Angiolina fugge con un altro uomo. Emilio rimane così solo, ma non ha imparato nulla: continua a cullarsi nei sogni e nelle illusioni, unendo nel ricordo le due opposte figure di Amalia e di Angiolina, in un’immaginazione da «letterato ozioso» priva di agganci con la realtà.

Giovanni Boldini, La marchesa Luisa Casati con penne di pavone, 1913 (Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma).

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Italo Svevo

Il ritratto di Emilio Brentani

T2

EDUCAZIONE CIVICA

Senilità, I Nelle prime pagine del romanzo è delineato il ritratto del protagonista, Emilio Brentani, e della donna con cui ha un’avventura amorosa, Angiolina. Il narratore analizza la contorta personalità di Emilio, di cui mette in luce fin dall’inizio l’inettitudine, la tendenza a mistificare le motivazioni delle proprie scelte e la sostanziale meschinità.

I. Svevo, Senilità, Dall’Oglio, Milano 1971

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso cosí: – T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. – La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ 5 piú franca avrebbe dovuto suonare così: – Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia. La sua famiglia? Una sola sorella, non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per 10 carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovine; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e cosí, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A 15 trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza. La carriera di Emilio Brentani era piú complicata perché intanto si componeva di 20 due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una reputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo 25 dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia, non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era 30 stata riformata, s’era evoluta. Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita cosí anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in 35 attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

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Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da 40 una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: – Strano – timidamente guardandolo sottecchi. – Nessuno mi ha mai parlato così. – Non 45 aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio1 che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce2. Fatte quelle premesse, l’altro si sentí tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei 50 lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, 55 indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventú e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso. Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di 60 quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio facile e breve. L’ombrellino era caduto in tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi – sembrava malizia! – impigliatosi nella vita trinata della fanciulla, non se n’era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel 65 profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute – ai rétori, corruzione e salute sembrano inconciliabili – aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s’incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice. Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del pro70 prio sentimento, egli non udí neppure quel poco. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento – lo aveva dichiarato con una certa quale superbia – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l’avventura anche piú gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuol divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue 75 conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l’occhio mentivano, tanto meglio. C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare3 in nessuno dei due.

1 ufficio: compito. 2 L’affetto... dolce: l’affetto (non troppo

compromettente) che Emilio offre ad Angiolina acquista ai suoi occhi la dolcezza

di un rapporto quasi fraterno (ma nelle intenzioni di Emilio non è certo così). 3 pericolare: rischiare.

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Analisi del testo Il ritratto psicologico del protagonista Distanziandosi dalle convenzioni ottocentesche, la narrazione inizia in medias res, senza neppure premettere il nome dei personaggi. L’inettitudine del protagonista si rivela da subito: Emilio è alla ricerca di piaceri, ma vuole evitare rischi e sofferenze; rimpiange di non aver abbastanza goduto della vita, e perciò aspira a una facile avventura, dalle conseguenze indolori, e tale da esentarlo da ogni responsabilità. Appare subito evidente anche il suo egoismo verso la donna (nel pretendere che sia per lui soltanto «un giocattolo») e verso la sorella. Sebbene infatti questa sia amorevolmente dedita al fratello, per cui si sacrifica come una madre, Emilio non pensa a lei con affetto e gratitudine, anzi pare avvertire con fastidio la propria responsabilità verso di lei («destino... legato al suo», «pesava sul suo», «le spalle gravate», «tanta responsabilità»).

Il giudizio sul personaggio Fin dall’inizio del romanzo il narratore mette in luce il contrasto fra l’immagine narcisistica, consolante e gratificante, che Emilio ha di sé, e la sua meschina realtà psicologica. Emilio si crede forte, ma è debole; si crede “padre” ed è “figlio”; si crede spregiudicato, ma è un sentimentale; crede di essere all’inizio di una brillante carriera letteraria, ma, come ben simboleggiano le pagine ormai ingiallite del suo libro, le cui copie invendute giacciono nei magazzini del libraio, è ormai una promessa mancata. Il narratore in tutto il romanzo assume una prospettiva superiore, più lucida di quella del personaggio, e nel testo interviene criticamente in vari modi: interpreta le parole di Emilio ad Angiolina, svelandone il fondo egoistico; smaschera le menzogne del protagonista (a se stesso, prima di tutto) come quella di avere una responsabilità familiare, che in realtà egli non sente affatto; ne contesta le illusorie aspettative di una futura affermazione letteraria, correggendola con un’acre puntualizzazione: «come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata».

La plurivocità della voce narrante Il giudizio del narratore sul personaggio è affidato anche a elementi linguistici più sfumati, rilievi indiretti, ma altrettanto significativi: ad esempio, la serie dei diminutivi (impieguccio, reputazioncella, famigliuola) mette in rilievo la mediocrità dell’esistenza di Emilio. Sempre a sottili elementi linguistici, avvertibili da parte di un lettore attento, è affidata in questa pagina la percezione del contrasto fra i pensieri illusori di Emilio e l’effettiva realtà. Nel passo si alternano infatti costantemente due prospettive, a cui corrispondono diverse modalità linguistiche, quella del narratore e quella del personaggio (in questo caso si parla di discorso indiretto libero): alcune espressioni, infatti, non possono essere attribuite che al protagonista (ad es. «Questa [l’avventura] s’era annunziata proprio facile e breve»). Il discorso indiretto libero di Emilio è connotato da espressioni enfatiche e libresche, che riflettono la sua attitudine mentale di «letterato ozioso»: frasi sdolcinate quando cede alle illusioni amorose e ai sogni a occhi aperti («La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta»), o espressioni che riecheggiano il linguaggio machiavellico («C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare in nessuno dei due») quando si illude di poter controllare facilmente la situazione.

La figura di Angiolina Angiolina appare nel passo soprattutto nella prospettiva idealizzata del protagonista – per cui rappresenta tutte le positività della vita che gli erano sempre sfuggite: la salute, la bellezza, la gioventù («Raggiante di gioventù e bellezza»), la «gioia per l’avvenire» – sebbene il lettore avvertito si renda subito conto che la ragazza non è ingenua come la crede Emilio (ne è una spia il gesto calcolato con cui lascia cadere l’ombrellino, rivelatore della sua consumata esperienza nell’arte della seduzione). D’altra parte la figura della donna si impone fin dal principio del romanzo, riempiendo di sé tutta l’atmosfera del libro con la sua bellezza luminosa e vitale. Come osserva il critico Bruno Maier, la sua figura è «resa in note di luce e di colore, in effetti pittorici e atmosferici» che la mostrano come simbolo della «bella natura», in opposizione alle scialbe figure di Emilio e della sorella; mentre la luminosità dei suoi colori, i capelli biondi e i luminosi occhi celesti, ricordano «un’impressionistica atmosfera di plein air», che secondo il critico può essere legata all’amicizia di Svevo con Umberto Veruda, pittore che portò a Trieste «il nuovo verbo dell’impressionismo».

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Il testo può essere diviso in due parti: riconoscile, dai a ciascuna un titolo e riassumile. ANALISI 2. Attraverso quale espediente il narratore ci spinge subito a diffidare del protagonista? COMPRENSIONE 3. Come avviene l’incontro tra Emilio e Angiolina? In quale parte del testo lo intuiamo? 4. Che ruolo gioca nella vita di Emilio la letteratura? Lo aiuta o lo ostacola a vivere più pienamente?

Interpretare

SCRITTURA 5. Riconosci tutto ciò che di autobiografico presenta il personaggio di Emilio

EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA CREATIVA 6. Riscrivi questo incontro adottando come narratore interno il personaggio di Angiolina. SCRITTURA 7. Il narratore a un certo punto, interpretando il pensiero di Emilio, dice che per il protagonista Angiolina non poteva essere «più importante di un giocattolo». Quale visione della donna comunica l’espressione “giocattolo” se usata in una relazione di coppia? Perché è da ritenersi un’espressione ancora drammaticamente attuale e offensiva? Come pensi si possa eliminare dall’immaginario amoroso?

online T3 Italo Svevo

L’epilogo del romanzo Senilità, XIV

Svevo”: i racconti, le commedie, 3 L’“altro l’abbozzo di un nuovo romanzo Una produzione varia Oltre ai tre romanzi, in vari momenti della sua vita, Svevo scrisse articoli, lettere, testi autobiografici e anche vari racconti e commedie. Una produzione che è stata abbastanza trascurata, anche perché non pochi testi rimasero incompiuti o frammentari. Ma certamente si tratta di un materiale potenzialmente interessante per ricostruire compiutamente la fisionomia di scrittore di Italo Svevo. I racconti Svevo inizia a scrivere racconti molto presto: il primo (Una lotta) è pubblicato sull’«Indipendente» nel 1888, nello stesso anno in cui inizia a scrivere Una vita. Due anni dopo, sullo stesso giornale, pubblica L’assassinio di via Belpoggio, di cui già si è parlato. I racconti più significativi sono scritti negli ultimi anni di vita, quando Svevo ritorna alla scrittura con rinnovato fervore creativo: Vino generoso, Una burla riuscita, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale. Domina, a livello tematico, la riflessione sulla condizione della vecchiaia, che accomuna i vari protagonisti, nei quali si riflette l’autore stesso. Le Commedie Le Commedie di Svevo che ci sono pervenute sono tredici, ma solo pochissime sono state rappresentate. I due testi più noti sono Un marito, del 1903, e La rigenerazione, scritto tra il 1927 e il 1928, nello stesso periodo in cui Svevo abbozza quello che avrebbe dovuto diventare il seguito della Coscienza di Zeno. Con il “quarto romanzo”, La rigenerazione ha in comune una amara riflessione sulla vecchiaia, anche se stemperata dall’abituale umorismo di Svevo. Protagonista è un vecchio che decide di affrontare una cura sperimentale per ringiovanire e poter così riconquistare un ruolo nella famiglia. I romanzi di Svevo: viaggio nella malattia dell’uomo moderno 1 783

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Il “quarto romanzo”: Il vegliardo Quando, nel 1926, per una conferenza, Svevo venne invitato a parlare di quello che sapeva meglio, scrisse nel proprio intervento: «Ora io credo di sapere qualche cosa a questo mondo: Su me stesso». Attraverso i suoi personaggi Svevo compie infatti un incessante studio dell’animo umano, ulteriormente approfondito nel quarto romanzo, elaborato nel 1928, l’anno stesso della sua morte, e lasciato incompiuto: Il vegliardo (o Il vecchione, com’è anche intitolato), di cui rimangono vari capitoli ancora non definitivi né completamente organizzati nella loro successione, e in cui si pone l’attenzione sul tema della vecchiaia. Il personaggio centrale del Vegliardo è ancora Zeno, invecchiato come il suo autore (ha passato i settant’anni) e anche qui voce narrante in prima persona.

Jean Metzinger, Donna allo specchio, 1916 (collezione privata).

Il tema della vecchiaia Il romanzo costituisce una sorta di continuazione della Coscienza di Zeno. Messe da parte le illusioni che lo avevano fatto accostare alla psicoanalisi, Zeno esplora fino in fondo la sua condizione di “vegliardo” (una condizione per nulla gratificante), che lo ha reso osservatore ai margini della vita e non più protagonista, ma anzi oggetto dell’«inclemente irrisione dei giovani». Appare infatti ormai estraniato dagli affari (ha dovuto cedere la conduzione della ditta al figlio dell’Olivi), mal sopportato nella sua condizione di “patriarca” (dato che la società moderna, ben diversa da quella in cui era cresciuto, tende a emarginare i più anziani), e poco compreso dai figli; in particolare, ha un rapporto conflittuale con Alfio, fallito negli studi e pittore poco apprezzato dal padre, con cui si sono accumulate incomprensioni che ricordano quelle tra Zeno e la figura paterna. Accanto ad Alfio, sono analizzati i rapporti con altri personaggi della famiglia di Zeno: la sempre serafica Augusta, la figlia Antonia, il brillante nipote Carlo, medico, figlio di Ada e di Guido. Accanto all’analisi di ciò che significa essere vecchio, nelle pagine dell’incompleto romanzo trovano spazio e attenzione, per contrasto, anche figure di bambini (ad esempio, il nipote di Zeno, Umbertino, a cui è dedicato un intenso capitolo del Vegliardo), marginali nelle opere precedenti, ed ora invece considerate con sensibilità e penetrazione psicologica. Un giudizio Alcuni dei racconti sono di qualità narrativa paragonabile ai romanzi, mentre le sue 13 commedie non sono tutte considerate ugualmente adatte alla rappresentazione. Quelle più spesso riprese in teatro sono Terzetto spezzato (l’unica messa in scena quando Svevo era vivo), tra le più riuscite per l’atmosfera surreale e l’ironia con cui è affrontato il tema del tradimento, Un marito, incentrata sulla figura di un marito geloso, assassino della prima moglie per motivi d’onore, assolto dal tribunale, ma non dalla propria coscienza, e La rigenerazione. Il teatro di Svevo verte spesso sul tema dei rapporti coniugali e della famiglia; spesso i personaggi sono colti in un momento di crisi, in cui svelano aspetti del loro carattere prima celati: il momento della verità però è per Svevo sempre positivo e per lo più non conduce alla dissoluzione, ma alla ricomposizione dei rapporti coniugali su una base più sincera e matura.

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3 La coscienza di Zeno 1 La genesi dell’opera La composizione del romanzo La composizione della Coscienza di Zeno segue di molti anni i primi due romanzi, Una vita e Senilità. Dopo il loro insuccesso Svevo aveva ormai deciso di rinunciare a «quella ridicola e dannosa cosa che è la letteratura». Ma nel 1919, appena dopo la fine della Grande Guerra, mette mano a un nuovo romanzo (che terminerà nel 1922), sotto la spinta di una «forte, travolgente, ispirazione», come lo scrittore stesso ricorda nel suo profilo autobiografico, steso alcuni anni dopo (1928): «Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo». La coscienza di Zeno sarà pubblicata a spese dell’autore nel 1923. Una serie di circostanze favorevoli Alla creazione di quello che è considerato uno dei maggiori romanzi del Novecento concorse una serie di fattori: • Nella genesi del capolavoro di Svevo è sicuramente importante l’amicizia con Joyce, esule a Trieste, iniziata nel 1906: lo scrittore irlandese contribuisce a restituire a Svevo la fiducia nelle sue capacità di scrittore e lo avvia alla conoscenza degli umoristi inglesi settecenteschi (da Sterne a Swift), la lezione dei quali si avverte nel tono ironico e a volte anche umoristico della Coscienza. • È poi rilevante il mutato clima psicologico in cui Svevo si viene a trovare rispetto a quando compone i primi due romanzi: non è più un impiegato di banca frustrato, dilettante di letteratura, ma un dirigente affermato nell’industria del suocero: a livello sociale ed economico è ormai un uomo di successo, un “vincente” (in una società in cui, come egli stesso scrive, ha senso solo “vincere”). • Fondamentale per comprendere la genesi del nuovo romanzo è però soprattutto l’incontro di Svevo con la psicoanalisi, avvenuto forse verso il 1908, quando in altre zone d’Italia l’opera di Freud era ancora del tutto sconosciuta. Nel 1918, un anno prima di iniziare la stesura della Coscienza, Svevo aveva tradotto dal tedesco un suo volumetto che sintetizzava le fondamentali acquisizioni contenute nella monumentale Interpretazione dei sogni (1900). Di fatto, senza la conoscenza della psicoanalisi da parte di Svevo La coscienza di Zeno non sarebbe stata concepita.

2 Il romanzo della psicoanalisi Svevo e la psicoanalisi: un rapporto complesso La psicoanalisi costituisce per Svevo (come per Saba) essenzialmente uno strumento conoscitivo, mentre egli tende a svalutare la scientificità e la validità terapeutica del metodo psicoanalitico, come sottolinea in una lettera del 1927 all’amico Valerio Jahier. Intuisce d’altra parte che la psicoanalisi può essere molto utile per la letteratura e infatti ne utilizza ampiamente gli strumenti per comporre la Coscienza. È evidente infatti che la psicoanalisi ha fornito alla Coscienza un insieme di situazioni e “temi”, a cominciare dalla “cornice” in cui si iscrive la narrazione: il testo è presentato come memoriale che il narratore-protagonista, Zeno Cosini, ha steso per sollecitazione dell’analista con cui ha intrapreso una terapia (➜ T4 ). La coscienza di Zeno 3 785

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Indubbiamente poi l’ideazione del personaggio Zeno e delle situazioni in cui si viene a trovare implica l’assimilazione critica del linguaggio della psicoanalisi e delle teorie freudiane del comportamento: Zeno è infatti costruito con i tratti emblematici del nevrotico e quasi “da manuale” sono i suoi comportamenti e atteggiamenti, dalla somatizzazione dei conflitti psichici (senso di soffocamento, zoppicamento, attenzione maniacale al funzionamento dei propri organi), alla tendenza costituzionale all’“autoinganno” mistificante-sublimante (si pensi alla scena dello schiaffo del padre e in generale a tutto il capitolo sulla morte del padre ➜ T7 ), ai sensi di colpa, agli alibi e così via. Per ammissione dello scrittore stesso è tratta da Freud (e in particolare probabilmente dalla Psicopatologia della vita quotidiana, 1901) la celebre scena che vede Zeno sbagliare il funerale del cognato (un canonico «atto mancato» freudiano ➜ T10 OL). Assai significativa infine è la presenza di sogni, la forte rilevanza che viene data a essi in momenti chiave della vicenda e l’interpretazione che ne viene fornita. Ma, soprattutto, la psicoanalisi determina la particolare struttura del romanzo, costituendo il supporto teorico per l’adozione di una logica ben diversa da quella razionale, ovvero la logica dell’inconscio.

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Per approfondire Cinema e psicoanalisi

Una parodia della psicoanalisi? D’altra parte i riferimenti alla psicoanalisi nel romanzo sono sempre investiti dalla corrosiva ironia del narratore, a cominciare dall’equivoca figura dell’analista tratteggiata nella Prefazione: non costituisce certo un comportamento ortodosso quello di un analista che vuole “vendicarsi” del suo paziente e per di più vuole guadagnare dalla pubblicazione delle sue memorie senza il consenso del paziente stesso! Un altro esempio può essere nel Preambolo (cap. II) l’irrisione della regressione all’infanzia, che costituisce nell’analisi freudiana una tappa obbligata. Ma soprattutto, nel capitolo finale, il protagonista si dichiara guarito, «non grazie, ma malgrado la psicoanalisi», e rinuncia alla cura. Il titolo Psico-analisi, posto in chiusura, risulta quindi quasi ironico, e l’intera opera potrebbe persino essere letta come una parodia della psicoanalisi.

3 Il titolo, la struttura, il «tempo misto» Un titolo enigmatico Intrigante ed enigmatico, il titolo del romanzo è prettamente novecentesco. Esso prospetta come protagonista dell’opera non un individuo, ma la sua interiorità, o meglio i suoi processi psichici, esplorati e portati alla luce attraverso i vari episodi di cui si compone il romanzo. Il termine “coscienza” può essere inteso nel romanzo in un duplice senso: da un lato è la consapevolezza razionale, dall’altro (e forse soprattutto) è la dinamica psichica del soggetto, vista come ancora fluida, in divenire e soggetta a pulsioni irrazionali. Del resto, lo Zeno che racconta di fatto non ha raggiunto una consapevolezza del suo agire davvero superiore a quella dello Zeno personaggio («Ricordo tutto ma non intendo niente»). Inoltre nel romanzo lo sforzo di chiarificazione razionale è continuamente contraddetto dal dubbio, e l’attitudine a svelare le mistificazioni coesiste con l’opposta volontà di mistificare o celare. La struttura La scelta singolare di presentare il contenuto del romanzo come materiale preparatorio per una cura psicoanalitica ne determina l’originale struttura, arditamente innovativa per i tempi, che colloca il romanzo sveviano a fianco dei grandi romanzi europei del primo Novecento. Il romanzo è scandito in sei capitoli titolati, di diversa ampiezza (a cui vanno aggiunti il I capitolo, costituito dalla

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Prefazione affidata alla “voce” dell’analista e il II, denominato Preambolo): Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi. Nel romanzo non vengono narrati degli “eventi” di rilievo, in sé interessanti e iscritti in una “storia” che ha uno sviluppo nel tempo, come accade in ogni romanzo tradizionale: nella Coscienza di Zeno è dissolto l’intreccio stesso, per lasciare il posto all’affiorare di memorie relative a “nodi esistenziali”, ai quali corrispondono i vari capitoli, riconosciuti come particolarmente significativi nella storia interiore di Zeno: essi riguardano le relazioni chiave del protagonista (il rapporto con il padre, con la moglie, con l’amante, con il rivale, ma anche con la psicoanalisi). La concezione del tempo Uno degli elementi chiave e più innovativi del romanzo è il “trattamento” del tempo nella Coscienza di Zeno. I sei capitoli visti nel loro insieme (ma anche i singoli episodi in essi rievocati) non seguono l’andamento lineare del tempo, ma il filo della memoria del protagonista. Essendo la narrazione organizzata per grandi nuclei tematici, eventi avvenuti nello stesso arco di tempo sono presentati in capitoli diversi (perché afferiscono a temi differenti) e, al contrario, un solo capitolo può riferirsi a momenti diversi della vita del protagonista. La particolare scelta strutturale determina così uno scardinamento dei piani temporali. Nella Coscienza di Zeno il passato si insinua continuamente nel presente e viceversa: è quello che Svevo stesso ebbe a definire «tempo misto», segnalato dalla costante alternanza fra il presente e i tempi storici. Inoltre l’adozione della “logica dell’inconscio” fa sì che alcune esperienze siano enormemente dilatate, nonostante la loro breve durata nel tempo “oggettivo”, e altre invece siano, al contrario, contratte. Anche solo per questa marcata soggettivizzazione-interiorizzazione del tempo la Coscienza di Zeno si pone a pieno titolo fra i testi chiave della cultura primo-novecentesca. La trama • Prefazione del Dottor S.: il dottor s, lo psicanalista che aveva in cura Zeno, spiega che ha deciso di pubblicare le memorie che aveva chiesto di scrivere al suo paziente, per vendetta, perché il paziente a un certo punto aveva deciso di interrompere la terapia. • Preambolo: Zeno Cosini, su indicazione del terapeuta, cerca di raccogliere i suoi ricordi e scriverli. Disobbedisce, però, subito comprando un trattato di psicoanalisi e cominciando ad “autoanalizzarsi”, e puntando subito a “vedere l’infanzia”, nonostante il dottore gli avesse detto di iniziare da ricordi più recenti. Recupera l’immagine di un “bambino in fasce”, in cui stenta a riconoscersi, che Zeno mette in guardia sul suo futuro, perché già destinato ad ammalarsi, vista la continua repressione che attuerà dei suoi istinti. • Capitolo 1: Il fumo: Zeno ha iniziato a fumare rubando i sigari del padre, sotto l’occhio complice della madre; voleva rivaleggiare con lui, quasi appropriarsi della sua forza, sentirsi uomo. Ad un certo punto si convince, però, che il fumo potrebbe seriamente danneggiare la sua salute, e decide di smettere, ma “passerà il resto della sua vita a fumare l’ultima sigaretta”. Accanto all’incapacità di smettere di fumare, descrive il suo passare da una facoltà universitaria all’altra, l’incapacità di portare a termine un proposito. • Capitolo 2: La morte di mio padre: forte delle sue certezze e dei suoi saldi principi il padre rimproverava al figlio l’inconcludenza, il prendere tutto alla leggera; e il figlio sceglieva inconsciamente l’inconcludenza per simbolicamente ferire il padre. A un certo punto il padre si ammala, e Zeno sembra prendersi cura di lui; in realtà La coscienza di Zeno 3 787

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PER APPROFONDIRE

“dimentica” di dargli delle medicine, non gli porta soccorso al momento giusto. Il padre, al momento della morte, alza la mano “alta alta” e gli dà uno schiaffo. Forse un riflesso meccanico, ma Zeno non dimenticherà mai quella “punizione”. • Capitolo 3: La storia del mio matrimonio: Zeno, per affari, conosce il sig. Malfenti, del quale vuol diventare il genero per avere un nuovo antagonista. Invitato in casa sua, conosce le sue quattro figlie. Zeno si dichiara ad Ada, la più bella, che lo rifiuta; fa quindi una proposta ad Alberta, che declina a sua volta. Quindi, quasi involontariamente, fa innamorare Augusta, la più brutta delle sorelle (è anche strabica), e la chiede in sposa per un lapsus: durante una seduta spiritica fa la dichiarazione di nozze ad Augusta, pensando sia Ada. Per non ammettere la gaffe, la sposa. • Capitolo 4: La moglie e l’amante: dopo i primi tempi di matrimonio, Zeno si accorge, inaspettatamente, di amare Augusta, e la considera un po’ colei che potrebbe condurlo alla salute. Zeno rivede un suo vecchio compagno di università, Copler, il quale lo invita ad aiutare economicamente Carla, una giovane cantante. Conosciutala, Zeno comincia subito a desiderarla, fino a quando Carla diventa la sua amante. Zeno si convince altresì che una relazione adultera possa rivitalizzare il suo matrimonio. Assume per Carla un maestro di canto, del quale però lei si innamora, fino a lasciare Zeno, che cade in una profonda desolazione. Alla fine decide di troncare questa relazione extraconiugale. • Capitolo 5: Storia di un’associazione commerciale: Guido, marito di Ada, decide di mettersi in affari, coinvolgendo Zeno. Guido sbaglia un affare e contrae una grave perdita. Intanto Ada viene colta da una malattia che la fa imbruttire. Non sapendo più cosa fare, Guido attua una subdola strategia: per far pena alla moglie che avrebbe potuto così cedergli la dote, finge un suicidio, ingerendo un sonnifero, il Veronal, in dosi elevate. Ma muore. Zeno comincia a lavorare tantissimo e proprio per questo “si dimentica” del funerale del collega-amico. In 48 ore di lavoro insonne e febbrile egli riesce a recuperare più dei due terzi della perdita del cognato. Zeno, diventato agli occhi degli altri «il miglior uomo della famiglia�, si accorge ironicamente che «la vita non è né brutta né bella, ma è originale!�. • Capitolo 6: Psico-analisi: nel 1915, nel bel mezzo della Prima guerra mondiale, Zeno riesce a fare buoni affari. Abbandona la terapia psicanalitica, considerandola inutile e pensando che la sua “malattia” sia una condizione privilegiata, perché implica attitudine all’autoanalisi e desiderio di consapevolezza del proprio stato. Tutta la società del suo tempo è invece più malata, perché ignara della propria condizione e perché, da quando l’uomo ha inventato gli “ordigni”, ha inibito la legge della selezione naturale dei più forti, lasciando che anche i più deboli, dotati di ordigni, diventassero potenti. Zeno ipotizza una salute solo dopo una catastrofe.

Un riassunto “d’autore”: Montale sintetizza La coscienza di Zeno Eugenio Montale fu tra i primi in Italia a cogliere la grandezza del romanzo sveviano. Nel suo Omaggio a Italo Svevo, pubblicato su «L’Esame» nel dicembre 1925, riassume in modo suggestivo il contenuto del romanzo: «Zeno Cosini, ricco, abulico, alquanto nevrastenico e malato immaginario di moltissime malattie, giunto alla vecchiaia, scrive la propria autobiografia per compiacere ai desideri di un dottore che lo cura col metodo psicoanalitico. Risaliamo anche noi la sua vita, penetriamo in casa Malfenti, dove son tre ragazze da marito, due delle quali rifiutano in mezz’ora la mano di Zeno, al quale non resta che fidanzarsi, pochi istanti dopo, con la

terza sorella, Augusta, nella tema [nel timore] che le ripulse precedenti gli procurino una notte insonne. Il felice ménage di Zeno e Augusta; l’avventura di Zeno con la bella Carla che s’avvia alla carriera del bel canto e ch’egli sussidia [aiuta economicamente] e ne fa la sua amante; le disastrose intraprese commerciali di Zeno e di suo cognato Guido, che terminano col suicidio di quest’ultimo [...]. Il libro si arresta allo scoppio della guerra, allora che [quando] Zeno comincia, per la prima volta in vita sua, a far quattrini, ciò lo induce a preoccuparsi meno dei propri mali e a piantare in asso analisi, scandagli ed autobiografie».

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4 Zeno: il personaggio e il narratore Zeno: una proiezione autobiografica? Zeno ha evidenti rapporti con l’autore, a cominciare dall’età che gli viene attribuita nel romanzo: 57 anni, la stessa di Svevo quando, nel 1919, inizia a stendere la Coscienza. Solo per citare alcuni dei molti elementi autobiografici dell’opera, Zeno suona il violino, come il suo autore e, soprattutto, come Svevo ha il vizio del fumo: nell’epistolario di Svevo e nel suo Diario per la fidanzata ricorre costantemente il proposito di rinunciare al fumo e il rito dell’“ultima sigaretta”. Naturalmente non si deve cadere nella tentazione fuorviante di sovrapporre semplicisticamente l’autore al personaggio: Zeno è pur sempre un personaggio letterario, anche se in forte rapporto simpatetico con il suo autore. Un narratore potenzialmente menzognero La narrazione, in prima persona, è affidata al protagonista, Zeno Cosini. Già questa scelta toglie alla narrazione ogni statuto oggettivo, ma è dalla prospettiva psicoanalitica (centrale nel romanzo) che deriva la natura specifica del narratore della Coscienza; si tratta di un narratore programmaticamente inattendibile: Zeno infatti, quando scrive le sue memorie – a quanto dichiara l’analista nelle polemiche dichiarazioni presenti nella Prefazione – è un individuo malato (presumibilmente di nevrosi), perciò la veridicità delle sue asserzioni e interpretazioni non è certo garantita. La storia raccontata, a detta dell’analista (che stimola così un atteggiamento pregiudiziale di diffidenza in chi si accinge a leggerla), è un misto di verità e bugie. Mentre nei primi due romanzi la voce narrante esterna smascherava le contraddizioni e il velleitarismo dei due protagonisti, nella Coscienza il lettore deve affidarsi unicamente alla voce dell’io narrante, le cui ambiguità, reticenze, contraddizioni, rendono particolarmente impegnativo l’atto stesso della lettura e richiedono al lettore un ruolo particolarmente critico. La dimensione ironica e il rapporto tra io narrante e io narrato La componente che più distingue la Coscienza di Zeno rispetto ai due precedenti romanzi sveviani è l’ironia. Essa ha a che fare con lo sdoppiamento del personaggio in un ”io narrante” ormai vecchio (per lo meno per l’epoca) e in un “io narrato” protagonista degli avvenimenti raccontati nell’opera. Il narratore assume il ruolo di interprete dei comportamenti del personaggio, di cui svela, o cerca di svelare, le motivazioni nascoste, gli alibi, come nel caso del fumo, e che continua anche da vecchio ad analizzarsi e giudicarsi («Adesso che son qui, ad analizzarmi...»). Non di rado il narratore, alla luce della consapevolezza acquistata, commenta ironicamente situazioni e comportamenti del personaggio («Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo»; «È un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente»). D’altra parte, se è vero che il secondo Zeno è più sorridente, ironico e indulgente verso sé stesso («da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto»), tuttavia non c’è una netta cesura tra Zeno vecchio e Zeno giovane, anzi la narrazione, che oscilla tra passato e presente, tende a rendere fluidi i confini tra personaggio e narratore: Zeno vecchio continua a formulare buoni propositi (che poi non realizzerà) e a fumare “ultime” sigarette (➜ T11 OL) proprio come Zeno ragazzo. La coscienza di Zeno 3 789

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5 I temi Il tema dell’inettitudine Per più di un aspetto Zeno è lo sviluppo ulteriore della tipologia umana raffigurata dallo scrittore triestino nei due precedenti romanzi (Svevo stesso dice che Alfonso Nitti ed Emilio Brentani sono “fratelli” di Zeno). Anche Zeno, infatti, è espressione di quella “inettitudine”, di quel disadattamento a vivere la vita che caratterizza i due precedenti personaggi. Un’inettitudine che si configura come passività, «impotenza sul piano della realtà» e per contro «ipertrofia dell’immaginario, onnipotenza fantasmatica» (Gioanola). La riflessione sul rapporto malattia-salute Nel terzo romanzo però Svevo collega in modo più diretto l’inettitudine al grande tema primo-novecentesco della “malattia” (centrale in particolare nell’opera di Thomas Mann): in fondo l’intera Coscienza di Zeno potrebbe essere soprattutto considerata una riflessione sul rapporto malattia-salute e non a caso “salute” e “malattia” sono le parole chiave dell’opera. Zeno si autorappresenta come “malato”, ma d’altra parte nella Coscienza di Zeno i confini tra malattia e salute diventano ambigui e soprattutto non necessariamente la “malattia”, intesa come disadattamento (con il suo corollario di disturbi, oggi diremmo psicosomatici), fa di Zeno un emarginato e un perdente come avviene negli altri due romanzi. Al contrario, Zeno è un “inetto vincente”, sia perché è favorito inaspettatamente dalla sorte (ottiene dal caso risultati migliori di quelli che si era prefissato), sia perché è consapevole di essere inetto e “malato” («solo noi malati» egli dichiara «sappiamo qualcosa di noi stessi») ed è capace di ironizzare sulla propria condizione. Nella prima parte del romanzo il narratore connette la sua malattia (tentando così di “oggettivarla”) al vizio assai precoce del fumo (➜ T5 ), indice di una costituzionale debolezza della volontà, dell’incapacità di portare a compimento dei buoni propositi. Ma si tratta chiaramente di un alibi .

Parola chiave

Gli “antagonisti” di Zeno L’inettitudine di Zeno ha le sue radici soprattutto nell’antagonismo con la figura paterna, e quindi con una situazione “edipica” (tema a cui è dedicato il cap. IV, centrale nel romanzo), analogamente a quanto avviene nell’opera di Tozzi (➜ C15). Zeno, che ha perso la madre ancora ragazzo, è costituzionalmente diverso dal padre («fra me e lui, intellettualmente, non c’era nulla in comune [...]. Guardandoci, avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento») ed è considerato da lui un inetto irresponsabile, incapace persino di scegliere la facoltà universitaria. Il senso di colpa che affligge Zeno per la delusione che suscita al padre con il suo scapestra-

salute

alibi

Salute è un termine chiave dei romanzi di Svevo. Prendendo spunto dalle teorie evoluzionistiche, Svevo focalizza il tema della “salute” appunto come adattamento, un adattamento di cui gli inetti protagonisti dei suoi romanzi (in particolare Alfonso ed Emilio) sono incapaci. Essi aspirano alla salute senza riuscire mai a ottenerla, mentre un personaggio come Angiolina in Senilità ne appare in possesso per naturale predisposizione. Più complesso e sostanzialmente ambiguo è il rapporto salute/malattia nella Coscienza di Zeno.

Il termine alibi (dall’avverbio latino alibi, “altrove, in altro luogo”) si riferisce innanzitutto all’ambito giuridico: è un mezzo di difesa per chi, accusato in particolare di un delitto, può dimostrare la sua estraneità al fatto se riesce a provare di essersi trovato in un luogo diverso nel momento in cui il reato è stato commesso. Per estensione (in particolare in ambito psicologico) il termine acquista il significato di “scusa, attenuante, pretesto” in relazione al fatto di mascherare le proprie debolezze e così non assumersi delle responsabilità. È appunto il caso del vizio del fumo dietro cui Zeno cela la propria costituzionale inettitudine.

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to comportamento lo porta a interpretare come un’estrema punizione lo schiaffo che il padre gli dà in punto di morte, ormai privo di coscienza (➜ T7 ). Eppure, a ben vedere, il debole, il “malato” non è Zeno: vecchio e solo, chiuso nelle sue solide certezze, lettore di pochi libri «insulsi e morali», il padre è il vero debole, mentre il forte, per la sua capacità di adattamento, per la sua originalità, è Zeno. Il discorso è analogo per un personaggio, il principale dei cosiddetti sostituti paterni presenti nella Coscienza di Zeno, ovvero il vecchio Malfenti, padre della moglie Augusta (➜ T8 OL) («era tanto differente da me», scrive Zeno: «ordinario, ignorante, feroce lottatore... dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza»). Eppure anche il vecchio suocero, che prende in giro Zeno in quanto inetto sognatore, conosce, senza poterlesi opporre, il degrado della malattia e muore. Allo stesso modo anche Guido Speier, antagonista di Zeno in amore (Guido sposa Ada Malfenti, che Zeno avrebbe voluto in moglie), brillante violinista, sicuro di sé, sembra destinato al successo, sembra il ritratto dell’efficienza e della salute. Eppure Guido, il “lottatore”, travolto dalla rovina economica, si mostrerà incapace di fronteggiarla e morirà mentre sta simulando un suicidio. Al contrario Zeno, l’inetto sognatore, si mostrerà inaspettatamente abile negli affari. Vittorioso sul rivale, “punirà” inconsciamente Guido che un tempo l’ha umiliato, «sbagliando funerale» (un «atto mancato» davvero rivelatore ➜ T10 OL).

PER APPROFONDIRE

La “salute malata” di Augusta Particolarmente significativo all’interno del tema centrale del romanzo (la relazione salute-malattia) è il rapporto di Zeno con la moglie Augusta (➜ T9 ): Zeno si sposa, in un certo senso, solo per conquistare la salute, o per lo meno per ottenere, grazie al matrimonio, uno statuto di “sano”. Augusta è il ritratto della salute: mentre Zeno è affetto dall’angoscia dell’invecchiamento e della morte, Augusta vive nel presente: «Compresi finalmente cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi». Augusta vive in un mondo dominato da immutabili certezze e saldi rituali borghesi (come quello della partecipazione alla messa), circondata da presenze rassicuranti come quelle dei medici. All’inizio Zeno, nello sforzo di conquistare l’agognata salute, tenta di assomigliare ad Augusta e di diventare «il patriarca che avevo odiato e che ora m’appariva il segnacolo [l’emblema] della salute». In realtà la sua inquietudine interiore non gli permette questa immedesimazione in un ruolo che incarna sì la stabilità e la normalità, ma che dentro di sé aborrisce. A distanza di anni, con ironico distanziamento critico giudica ottusa “quella salute” chiedendosi «se quella salute non avesse bisogno di cura o d’istruzione per guarire».

La teoria dell’“abbozzo” di uomo: un’interpretazione originale della teoria darwiniana Rispetto ai suoi predecessori, Alfonso Nitti e Emilio Brentani, Zeno è un inetto vincente, non solo per l’accettazione un po’ cinica dei valori borghesi a suo vantaggio che lo caratterizza, ma soprattutto per la sua disponibilità alla metamorfosi, che lo rende più adatto a sopravvivere in una realtà costantemente mutevole e imprevedibile: Zeno è un personaggio che non si fissa, ma la sua instabilità è in realtà la sua forza. Nel saggio L’uomo e la teoria darwiniana Svevo adatta alla realtà psichica la teoria evoluzionistica e, anche per suggestione di Nietzsche, elabora l’idea che l’uomo vincente nella selezione naturale

sia proprio l’“uomo abbozzo”, in cui una parte è in continuo conflitto con l’altra, perennemente in divenire, e proprio per questo capace di evolversi, adattandosi «a quanto gli verrà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze». Svevo stesso – di cui Zeno è una proiezione autobiografica – si riconosce in questa tipologia umana: «Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che [...] me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo».

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Interpretazioni critiche Bruno Maier Un antieroe borghese e Giovanna Benvenuti Zeno “cattiva coscienza” della borghesia

Zeno coscienza critica della borghesia La salute dei “sani” quindi, alla prova dei fatti, e nello sguardo critico di Zeno-Svevo, non è reale, ma è solo inconsapevolezza della “malattia”, rimozione di essa. Il modello rappresentato da Giovanni Malfenti, saldo borghese (“feroce lottatore”), o dal padre di Zeno non è più praticabile da chi conosce ormai il freudiano “disagio della civiltà”: Zeno, “coscienza critica” della borghesia, non può identificarsi in un orizzonte angusto di valori e di modelli conoscitivi, ma al contempo non sa uscire da questo mondo perché ne condivide le ipocrisie, il culto del denaro, la doppia morale (in questo senso la sua è anche la “falsa coscienza” della borghesia). La diagnosi della malattia del mondo moderno Alla fine dell’opera però il tema della malattia e della salute conosce un’ulteriore evoluzione: Zeno scopre che non è lui a essere malato ma è la vita stessa attuale a essere «inquinata alle radici». Il romanzo si chiude con una profetica diagnosi della malattia stessa della civiltà moderna, di cui è accusato il dissennato progresso tecnologico che, producendo il proliferare di ordigni artificiali, ha allontanato l’uomo dalla sua natura e ha sconvolto le leggi della selezione naturale. Solo una catastrofe cosmica, prodotta da quello stesso progresso, potrà liberare dalle malattie la terra, tornata allo stato di nebulosa.

6 Le scelte stilistiche e linguistiche Una lingua antiletteraria A lungo Svevo è stato accusato dalla critica italiana di “scrivere male”. Oggi non si ritiene più opportuno valutare la lingua usata da Svevo ricorrendo come metro di paragone al modello linguistico della tradizione letteraria italiana, innanzitutto per la collocazione eccentrica di Svevo che vive e opera nella Trieste asburgica, nella quale la lingua nazionale non è l’italiano. Peraltro, mentre all’inizio della sua carriera letteraria Svevo avverte una sorta di complesso di inferiorità linguistica, quando scrive La coscienza di Zeno, rovescia le sue iniziali posizioni: percepisce la sua condizione di alloglotta (cioè parlante un’altra lingua rispetto a quella della prosa della tradizione) non più come una minorazione, ma al contrario come una sorta di privilegio che gli consente di crearsi la propria lingua e di esercitare una maggiore libertà rispetto alla tradizione letteraria e linguistica. In ogni caso, rispetto soprattutto al primo romanzo, Svevo tende a ridurre (anche se non a eliminare del tutto) le voci dialettali e i germanismi modellando il suo lessico sull’italiano, ma si tratta di un italiano dell’uso che tende a privilegiare le forme della lingua parlata, scartando le voci prettamente letterarie e gli arcaismi. La lingua colloquiale antiletteraria della Coscienza trova una corrispondenza sul piano della sintassi, in genere caratterizzata da frasi brevi, un uso assai libero della punteggiatura, la presenza di numerose interrogative ed esclamative che rendono particolarmente mosso il periodare. Una scelta finalizzata a riprodurre vivacemente la dinamica interna alla “coscienza”, i dubbi, le perplessità del narratore nel momento in cui rievoca il proprio vissuto e cerca di interpretarlo. La tecnica narrativa Lo stile colloquiale scelto dall’autore è coerente con la finzione letteraria che presiede all’ideazione della Coscienza: nelle intenzioni dell’autore il romanzo assume il carattere di un memoriale privato, quasi come degli appunti propedeutici all’analisi.

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Nella Coscienza non siamo dunque di fronte a una classica narrazione “in prima persona”, ma all’autoanalisi, protratta per tutto il romanzo, del personaggio che dice “io” in una specie di monologo. Il monologo del protagonista della Coscienza è stato spesso accomunato al “flusso di coscienza” dell’Ulisse di Joyce (➜ C16), ma si tratta di un accostamento non fondato, perché ben diverse sono le modalità narrativo-espositive, come si può notare dall’esempio sotto riportato.

I romanzi di Svevo

PER APPROFONDIRE

UNA VITA

SENILITÀ

LA COSCIENZA DI ZENO

NARRATORE

esterno

esterno

interno (protagonista)

FOCALIZZAZIONE

interna, con interventi del narratore

interna, con interventi del narratore

interna, con interventi del narratore

FORME DEL DISCORSO

discorso diretto, indiretto, indiretto libero

discorso diretto, indiretto, indiretto libero

monologo del narratore che utilizza discorso diretto, indiretto, indiretto libero

TEMPO

lineare

lineare

misto: l’intreccio non corrisponde alla sequenza cronologica degli eventi

AMBIENTE

ambiente borghese della banca, analiticamente rappresentato

ambiente solo sullo sfondo

ambiente presentato dal punto di vista del protagonista, che aspira a integrarvisi, ma allo stesso tempo mette in dubbio le sue regole

PERSONAGGI

Alfonso Nitti, protagonista; Annetta, oggetto del desiderio; Macario, antagonista

Emilio Brentani, protagonista; Angiolina, oggetto del desiderio; Stefano Balli, antagonista

Zeno Cosini, protagonista; Augusta, moglie del protagonista, con le sorelle Ada e Alberta; Guido Speier, il padre di Zeno, Giovanni Malfenti, il dottor S., antagonisti

Il flusso di coscienza di Joyce e il monologo di Zeno Il “flusso di coscienza” Il “flusso di coscienza” di Joyce consiste nel fluire incontrollato di immagini e pensieri affioranti (nella finzione letteraria naturalmente) direttamente dall’inconscio secondo associazioni libere irrelate, che vengono registrate direttamente nel loro manifestarsi, senza alcun filtro razionale e alcun ordine cronologico. La struttura sintattica è scardinata e persino la punteggiatura è in alcuni casi abolita.

Il monologo di Zeno Al contrario, il monologo di Zeno è (sempre nella finzione letteraria) la ricostruzione scritta del proprio vissuto, concepita per un preciso destinatario (l’analista) e per un preciso scopo, sempre razionalmente controllata (i ricordi sono addirittura organizzati in grandi capitoli che scandiscono le tappe fondamentali dell’esistenza). La narrazione rispetta sintassi, strutture grammaticali e punteggiatura.

«[...] il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotto all’anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora [...]». Ulisse, trad. G. De Angelis

«Adesso che sono qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente». La coscienza di Zeno

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Italo Svevo

La “cornice”

T4

La coscienza di Zeno, I, Prefazione Il romanzo si apre, in modo del tutto originale, con una dichiarazione dello psicoanalista a cui Zeno, protagonista del libro, si era rivolto per curarsi. Essa costituisce il primo capitolo dell’opera.

I. Svevo, La coscienza di Zeno, a c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Io sono il dottore di cui in questa novella1 si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica2. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficenza3. Debbo 5 scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità4. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse5, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più 10 bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii6 che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese 15 potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!... Dottor S.7 1 questa novella: il memoriale di Zeno (più che ipotizzare che Svevo usi novel all’inglese per “romanzo”, molti pensano che sia il residuo di un precedente stadio redazionale). 2 Chi di psico-analisi... mi dedica: l’antipatia che nel suo memoriale Zeno riserva all’analista è da questi ricondotta, anche se non lo specifica, al meccanismo psicolo-

gico del transfert, secondo il quale, nella terapia psicoanalitica, il paziente trasferisce (da qui il termine) i propri sentimenti, le proprie pulsioni, anche aggressive, come in questo caso, sull’analista. 3 sufficenza: sufficienza (così in originale: rispecchia oscillazioni grafiche del tempo). 4 Debbo scusarmi... tanta novità: non è certo usuale, e anzi ben poco ortodosso

per gli psicoanalisti, indurre il paziente a scrivere le sue riflessioni e poi usarle per la cura psicoanalitica. 5 si rinverdisse: tornasse alla luce. 6 lauti onorarii: cospicui ricavi. 7 Dottor S.: dello psicoterapeuta non si dice il nome. Egli si firma con la sola lettera iniziale del nome: S. È facile pensare a una possibile allusione al padre della psicoanalisi Sigmund Freud.

Analisi del testo Un analista anomalo, un paziente-scrittore La Prefazione della Coscienza di Zeno costruisce le coordinate di lettura fondamentali del romanzo in modo assai innovativo. Il romanzo infatti è presentato non come un’invenzione letteraria, ma come il memoriale di un paziente scritto prima di iniziare una terapia psicoanalitica poi abbandonata. Ne deriva, di per sé, una costituzionale limitazione della oggettività e veridicità del testo, che peraltro l’analista stesso sottolinea quando parla di un misto di «verità e bugie». Ma anche la figura dell’analista che presenta il “romanzo” è dipinta in una luce equivoca e ben poco credibile: parla della rinuncia del paziente alla terapia come di una “truffa”, decide «per vendetta» di pubblicare (cosa nient’affatto deontologica!) le memorie del suo paziente, peraltro ripromettendosi di dividere con lui i «lauti onorarii» della stampa se deciderà di riprendere la terapia.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali informazioni sul personaggio Zeno possiamo acquisire da questa prefazione? Perché potrebbero non essere attendibili? ANALISI 2. Trova e commenta i tre termini con cui viene indicato il memoriale di Zeno. STILE 3. Come definiresti lo stile di questo medico? Professionale e distaccato o confidenziale e accorato? Offri esempi.

Interpretare

LA LETTERATURA E NOI 4. Il dottor S., pubblicando il memoriale di Zeno, viene meno all’obbligo del cosiddetto “segreto professionale”. Dopo aver fatto una ricerca sulle figure professionali che, oggi come oggi, sono tenute a mantenere questo tipo di segreto, esprimi una tua opinione circa l’importanza di questa regola.

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LEGGERE LE EMOZIONI

Il fumo come alibi

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La coscienza di Zeno, III I. Svevo, La coscienza di Zeno, a c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Il capitolo da cui è tratto il passo copre un arco temporale ampio, poiché affonda nell’infanzia del protagonista per arrivare fino al 1913. Nel suo sforzo per comprendere le radici della sua “malattia”, Zeno attribuisce in questo capitolo un ruolo centrale al vizio del fumo, contratto quando era addirittura bambino e che lo accompagnerà per tutta la vita. Lo sforzo per liberarsi da questa dipendenza non è portato avanti con reale convinzione: Zeno affida la sua guarigione al rito ossessivo dell’“ultima sigaretta”, che sarà replicato negli anni.

Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio1. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fu5 mo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: Un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto. Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, 10 mi disse: – Non fumare, veh! Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacchè mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che2 la febbre forse aumentasse e che ad ogni 15 tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone

1 Quando seppi... fu peggio: la consapevolezza di odiare la sigaretta e lo stato in

cui lo mette il vizio del fumo induce Zeno a cercare di smettere, ma sarà del tutto

impotente a farlo. 2 ad onta che: sebbene.

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ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto3. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: – Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito! 20 Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima. Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non 25 fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda4 delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia5. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime. 30 Sul frontespizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompa35 gnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benchè ridotta in un matraccio6. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai 40 alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo7 coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come 45 avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco8? Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vive50 re quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta.

3 Finii... voto: la prima delle “ultime siga-

5 si muove tuttavia: continua tuttora a

7 complicazioni del mio, del tuo e del

rette” che costelleranno la vita di Zeno acquista un valore rituale, paragonabile a un voto fatto (ma nel caso di Zeno destinato a essere costantemente infranto). 4 La ridda: il susseguirsi contraddittorio (propriamente “danza frenetica”).

muoversi. 6 matraccio: recipiente di vetro usato dai chimici. La proposizione concessiva «benchè ridotta in un matraccio», proietta sulla scienza (che dovrebbe “essere la vita stessa”) un’ombra ironica.

suo: il narratore allude, qui ironicamente, alle definizioni del diritto. 8 M’ero dimostrato... come un turco: in modo paradossale Zeno attribuisce la sua scarsa abilità manuale al vizio del fumo.

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Analisi del testo Fumo e inettitudine Nel capitolo sul fumo, tra i più autobiografici del romanzo, Svevo dà il primo eloquente saggio dello scavo analitico nella psicologia problematica del suo personaggio che caratterizzerà l’intera opera. Zeno avverte fin da ragazzo la propria inettitudine a vivere una vita piena e attiva, la propria malattia interiore e ne attribuisce la causa al vizio del fumo, che egli pensa abbia inquinato il suo organismo togliendogli forza e determinazione. In realtà il fumo è solo un alibi (➜ PAROLA CHIAVE P.917) che consente a Zeno di non affrontare realmente i suoi problemi, differendone all’infinito la presa di coscienza (e l’eventuale risoluzione) grazie al rito nevrotico dell’“ultima sigaretta”, associata a buoni propositi sempre rinnovati e destinati a essere smentiti. Zeno può così continuare a cullarsi nell’illusione che, una volta smesso il vizio, sarebbe potuto diventare finalmente «l’uomo ideale e forte» che si riprometteva di essere. Di fatto, indirettamente, Zeno rimprovera il padre di non avergli proibito di fumare. Zeno ha infatti bisogno di figure autorevoli che gli proibiscano qualcosa, tanto è vero che ricorre poi a un medico per liberarsi, ma inutilmente, dal vizio del fumo («correvo a quelle sedute nella speranza di convincere il dottore a proibirmi il fumo»). L’inettitudine di Zeno, vero “filo rosso” dell’intera opera, si manifesta in questo passo nell’oscillazione del protagonista tra una facoltà universitaria e l’altra (per poi abbandonarle entrambe): studiando alla facoltà di legge Zeno se la prende in particolare con il diritto canonico per la sua astrattezza e si rivolge allora – rimarcando la sua scelta con una simbolica “ultima sigaretta” – all’ambito scientifico (in particolare la chimica). L’intenzione del protagonista era a suo dire quella di avvicinarsi alla vita, per cercare un «sereno pensiero sobrio e sodo» e un campo che implicasse anche la manualità, allontanandolo così dalla pericolosa tendenza sognatrice e divagante. Ma le «combinazioni del carbonio» si rivelano vere e proprie catene (Svevo utilizza il termine chimico in senso ironicamente metaforico) e Zeno ritorna così alla legge «coi migliori propositi», constatando però a posteriori che «fu un errore».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano. COMPRENSIONE 2. Spiega in che modo nella vita di Zeno il vizio del fumo si lega al difficile rapporto col padre. 3. Spiega il significato della seguente affermazione di Zeno: «Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo». LESSICO 4. Nella frase «La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia», Svevo usa la parola “ridda” che significa propriamente “danza frenetica”. Cosa vuole comunicare con questo termine usato metaforicamente? STILE 5. Individua i punti del testo dove è presente l’ironia e l’autoironia.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

LA LETTERATURA E NOI 6. Zeno è un fumatore accanito. Al tempo di Svevo non si conoscevano i rischi del fumo, ben noti invece a noi da qualche decennio. Fai una ricerca sulle conseguenze più dannose per l’organismo umano dell’uso prolungato di tabacco e inseriscile in un cartellone pubblicitario contro il tabagismo. SCRITTURA 7. Zeno afferma che è «un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente». Allude ovviamente a un meccanismo psicologico per il quale qualcuno si considera potenzialmente dotato di speciali qualità, ma impossibilitato a mostrarle. Perché, secondo te, Zeno lo definisce “comodo”? Quali rischi comporta questo atteggiamento mentale nella vita di qualcuno? Ti è mai capitato di sperimentarlo? Se sì, come lo hai gestito?

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Zeno e il padre: un rapporto antagonistico La coscienza di Zeno, IV

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La scena dello schiaffo

T7

La coscienza di Zeno, IV Il passo è tratto dal capitolo IV, uno degli snodi fondamentali del romanzo, interamente dedicato al rapporto di Zeno con suo padre (vedi anche➜ T8 OL). Il titolo scelto dall’autore per il capitolo, «La morte di mio padre», enfatizza l’importanza dell’evento che Zeno definisce «l’avvenimento più importante della mia vita, una vera, grande catastrofe». Ci troviamo qui nella parte conclusiva del capitolo.

I. Svevo, La coscienza di Zeno, a c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perchè e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera1. 5 Quando mi levai, Maria2 andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all’infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai. Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo3 che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni. 10 L’infermiere mi disse: – Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza! Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei 15 costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere? Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non muoversi. Per un breve istante, 20 terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò: – Muoio! E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento 25 solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! 30 Non lo sapevo morto4, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo5 lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio: – Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato! 1 Guardavo... sua camera: l’imminente morte del padre proietta un’ombra minacciosa sul futuro di Zeno che, insicuro e immaturo, non sa immaginare un’altra

figura autorevole con cui confrontarsi, né d’altra parte riesce a pensarsi capace di una vita autonoma. 2 Maria: la domestica.

3 fu d’uopo: fu necessario. 4 Non lo sapevo morto: non sapevo che fosse morto.

5 Carlo: l’infermiere che assisteva il padre.

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Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più: – Ti lascerò muovere come vorrai. L’infermiere disse: – È morto. Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! 40 Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere6 di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich7. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi 45 qualche cosa sulle capacità di risolvere8 e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre! 50 Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo. Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già 55 irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più9 rivederlo. Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato 60 inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono, e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo ormai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte. 35

6 risolvere: decidere, scegliere deliberatamente. 7 dirigere a Coprosich: rivolgermi al me-

dico del padre, con il quale Zeno ha un rapporto assai difficile. Il medico l’aveva rimproverato di non aver seguito il padre

dopo che l’aveva fatto da lui visitare. 8 risolvere: prendere decisioni. 9 non seppi più: non fui più in grado.

Analisi del testo Sensi di colpa e mistificazioni Il passo antologizzato racconta le terribili (per Zeno) modalità della morte del padre e analizza i riflessi psicologici che essa ha suscitato nel protagonista, riflessi che egli nel tempo ingigantisce, giudicandoli catastrofici: la «scena terribile» dello schiaffo ricevuto dal padre moribondo, egli dice, «offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia», per lo meno se dobbiamo credere a un narratore che programmaticamente mescola le carte, amplifica, sminuisce la portata degli eventi, alternando menzogne e verità. Il passo, con le sue complesse dinamiche psicologiche, si comprende all’interno del rapporto antagonistico di Zeno con il padre, rapporto che è alla radice della sua inettitudine. Zeno è sempre stato un “diverso”: inetto e sognatore, incapace di qualunque attività costruttiva e di progettare in qualche modo il suo futuro, come figlio ha sempre rappresentato per il padre una

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delusione. I due sono sempre stati intimamente estranei, incapaci di confrontarsi sui temi seri della vita, da una parte per la rigida, tradizionalistica, mentalità del padre, e dall’altra per la tendenza di Zeno a non prendere nulla sul serio, a ridere di ogni cosa (➜ T6 OL). La malattia del padre si rivela subito gravissima e induce Zeno, preda di profondi sensi di colpa verso il genitore, ad avvicinarsi a lui, ad assisterlo più affettuosamente che può con filiale sollecitudine, anche perché Zeno si rende conto con angoscia che la presenza in vita del padre gli è necessaria per continuare a non fare scelte adulte. Ma ancora più angoscioso è pensare che il padre possa riprendere conoscenza e rendersi conto di star morendo. Zeno dentro di sé si augura quindi che il padre muoia, ma i debiti affettivi e morali che ha contratto con lui a causa della sua vita scapestrata caricano di profondi sensi di colpa questo suo intimo desiderio. Lo schiaffo con cui il padre, ormai incosciente, lo colpisce, appare dunque a Zeno una punizione, il giusto congedo di un padre deluso dal figlio, e alimenta i suoi già pesanti sensi di colpa e i suoi rimorsi verso il genitore; sono significativi il suo grido: «Non è colpa mia!» e il suo pianto di «bambino punito» davanti al morto. Nella morte il padre appare al figlio «superbo e minaccioso», le sue mani «grandi, potenti [...] pronte ad afferrare e punire», proprio come appaiono nell’immaginario infantile. Ma scatta allora in Zeno il desiderio di autodifesa, per cui, già al funerale, egli sottopone il padre a una mistificante idealizzazione: egli censura l’immagine del padre onnipotente e minaccioso per ridurlo a debole e buono. La dichiarazione finale però (rr. 62-63) nuovamente rovescia la situazione: ora che il padre è morto da tempo e non può più esercitare su di lui la propria autorità, Zeno è disposto a riconoscerne la forza e la superiorità. In ultima analisi egli plasma l’immagine del padre secondo le proprie esigenze psicologiche.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi brevemente la “scena terribile”. COMPRENSIONE 2. Zeno vorrebbe assicurarsi sulla natura inconsulta (e non intenzionale) del gesto del padre, ma l’unico che potrebbe farlo, come lui stesso ammette, è il dottor Coprosich. Perché Zeno non gli parla di ciò che lo tormenta? 3. Che rapporto aveva Zeno col dottor Coprosich? Attraverso quali riflessioni di Zeno lo possiamo intuire? STILE 4. Nel brano si alternano periodi brevi che segnano momenti salienti dell’episodio e periodi più lunghi che presentano le riflessioni di Zeno. Trova di essi esempi significativi.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 5. Il rapporto conflittuale padre-figlio è stato descritto magistralmente in Lettera al padre da Franz Kafka nel 1919. Leggi il seguente estratto e prova a riconoscere le analogie con il rapporto che Zeno aveva con suo padre: «Caro papà, recentemente mi è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari più di quanti riuscirei a riunire in qualche modo in un discorso. Se ora tento di risponderti per lettera, anche questa sarà una risposta incompleta, perché anche quando scrivo mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze, e perché la vastità del tema oltrepassa di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza. […] Riassumendo il tuo giudizio su di me, se ne ricava che tu non mi rinfacci atteggiamenti poco dignitosi o malvagi (escludendo forse il mio ultimo progetto matrimoniale), ma freddezza, estraneità, ingratitudine. E me le rinfacci come se la colpa fosse solo mia, come se con una sterzata io avessi potuto sistemare tutto in un altro modo, mentre tu non avresti nessuna colpa, se non quella di essere stato troppo buono con me».

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Un sostituto paterno per Zeno: ritratto di Giovanni Malfenti La coscienza di Zeno, V

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Collabora all’analisi

Salute e malattia: Zeno e Augusta

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La coscienza di Zeno, VI Nel capitolo VI del romanzo, Svevo traccia un ritratto dei primi tempi della sua vita matrimoniale con Augusta che, sorprendentemente, scopre di amare, forse anche perché incarna quella serenità, quella “salute”, che da sempre gli sono precluse. Ma la seconda parte del passo antologizzato denuncia impietosamente, con corrosiva ironia, i limiti della visione del mondo di Augusta, rispetto alla quale Zeno è irrimediabilmente “diverso”.

I. Svevo, La coscienza di Zeno, a c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità. Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupì: io amavo Augusta com’essa amava 5 me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e mi aspettavo che la seguente fosse tutt’altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all’altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche – ciò ch’era la sorpresa – mia. Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando 10 avevo zoppicato da Ada ad Alberta1 per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo2. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva: – Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto così? Lo sapevo pur io che sono tanto più ignorante di te! 15 Non so più se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di 20 Augusta3. Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta battè sicura la via per cui erano passate le sue sorelle4 su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi 25 mal fondata perchè basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo5. Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.

1 avevo zoppicato... Alberta: Zeno si riferisce al suo maldestro (e fallito) tentativo di chiedere in moglie prima Ada e poi Alberta, le due sorelle di Augusta. Ma lo “zoppicamento” è, oltre a tutto, uno dei molti disturbi psicosomatici di Zeno. 2 Scoprivo... abilissimo: Zeno si accorge con stupore che quella che poteva sembrare una scelta indotta (sposare Augusta, come la suocera avrebbe voluto) si rivela

una decisione inaspettatamente felice e tutto sommato accorta. 3 La lampada a petrolio... Augusta: Zeno allude qui alle serate a quattro (lui, Augusta e la coppia Ada-Guido) trascorse in casa Malfenti durante il fidanzamento con Augusta. L’immagine della lampada è usata per alludere al fatto che durante quelle serate Zeno era stato troppo occupato a riflettere in modo cervellotico su di sé, su

Ada e Guido per accorgersi di Augusta. 4 le sue sorelle: le altre donne e mogli che nella storia si sono succedute e che come lei si affidano alla legge e all’ordine. 5 con la modestia... spiritismo: con il rispetto con cui Zeno, pur non aderendo ingenuamente alle credenze spiritistiche, guarda a esse (nel capitolo precedente si era narrata una seduta spiritica).

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Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna6. Non che la dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui 30 gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macchè! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi 35 del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perchè questo conato7 non poteva essere altro che 40 la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall’infettare chi a me s’era confidato8. Anche perciò9, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano. Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! 45 Tutt’altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, nè quando io non m’adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano 50 tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto. Di domenica essa andava a Messa ed io ve l’accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l’immagine del dolore e della morte. Per lei non c’era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi 55 ch’essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno. C’erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v’erano i medici, 60 quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando – Dio non voglia – ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell’autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m’avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. 65 Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco, perchè m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.

6 essa credeva la vita eterna: credeva che la vita terrena durasse in eterno. 7 conato: qui nel senso di “tentazione” (di incrinare le salde certezze di Augusta).

8 confidato: affidato. 9 Anche perciò: anche per questa ragione.

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Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il passo che apre il capitolo sesto, il più lungo del romanzo, è dedicato a tratteggiare i primi tempi del matrimonio di Zeno e la personalità della moglie Augusta. 1. Che cosa sorprende e rende felice Zeno al ritorno dal viaggio di nozze? 2. Quale evento precedente rilegge in una luce nuova? Perché? Nell’ottica di Zeno, che si considera “malato”, la felicità coincide con la salute di cui va ansiosamente alla ricerca e che gli sembra ora a portata di mano: per diventare anche lui “sano” avrebbe dovuto semplicemente imparare a somigliare ad Augusta «ch’era la salute personificata». 3. In quale accezione è usato il termine “salute”? 4. Dalla lettura del testo deduci che Zeno è riuscito a somigliare ad Augusta? E soprattutto, che abbia veramente voluto farlo? La «perfetta salute» di Augusta deriva dalla sicurezza riposta in poche certezze, dall’adesione spontanea alla vita e al presente, che diventa quasi qualcosa di concreto nella sua mente, un luogo protettivo dove “stare caldi”. La felicità e la salute di Augusta consistono nell’ordine della sua tranquilla esistenza, scandita da precisi orari e rituali: la sua esistenza coincide con la vita borghese. È una vita, quella di Augusta, regolata da precisi automatismi, che esclude ogni pericolosa metamorfosi, in cui il “sapere” coincide con il “credere” e non con il pensare, nella deliberata rinuncia a ogni inquietudine spirituale, a ogni domanda fondamentale (e scomoda), a cominciare da quelle relative al senso della vita, alla brevità di essa. È estremamente indicativa nel passo l’insistenza su verbi come “sapere”, “credere”, “ignorare” per caratterizzare il mondo interiore di Augusta a confronto con quello di Zeno. Il sapere di Augusta è “ignorante” come quello del padre, di cui lei costituisce una sorta di “doppio” femminile, nel senso che si fonda sulla rimozione, sull’“ignoranza” appunto, di tutto quello che nella condizione umana può inquietare e turbare: come la malattia e la morte. 5. Da quali oggetti e abitudini è simboleggiato l’ordine rassicurante della vita borghese? 6. In quali passaggi della descrizione della “salute” di Augusta possiamo riconoscere dell’ironia dissacrante, volta a smascherarne i limiti? 7. Nel delineare la diversità tra Zeno e Augusta quale significato riveste, a tuo parere, l’associazione fra la triplice ripetizione «insieme, insieme, insieme» attribuita ad Augusta e la successiva «breve, breve, breve» pronunciata invece dal narratore?

Interpretare

Zeno non può veramente condividere la visione del mondo e il modello di vita incarnati da Augusta, anche a costo di rinunciare alla “salute”: se il capitolo si apre con la speranza di poter somigliare ad Augusta, la chiusa ironica e paradossale del passo proposto contiene la smentita di quella speranza: dopo aver pronunciato l’elogio della salute di Augusta, Zeno narratore anziano, mentre scrive a distanza di anni, comincia a «dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire» e ne prende così ironicamente le distanze. Al “credo” fideistico e acritico di Augusta, Zeno contrappone un sapere inquieto, che prende le mosse dall’autoanalisi e dall’autocoscienza, un sapere di cui solo i “malati” sono depositari: più avanti nel corso del capitolo il narratore, infatti, asserisce: «La salute non analizza sé stessa. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi». 8. Nel passo è centrale la dialettica “salute-malattia” che è anche il nucleo tematico fondamentale dell’intero romanzo. Interpreta il passo proposto alla luce di questa tematica. Commenta quindi il capoverso a conclusione del passo (rr. 65-68). 9. Rileggi la lettera a Valerio Jahier del 1927, soprattutto il passo in cui dice «spesso ci avviene di ridere dei sani� e sottolinea tutte le affinità con questa pagina del romanzo.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Sandro Maxia L’ironia come strumento necessario alla critica delle strutture e dei valori della società borghese di inizio Novecento S. Maxia, Lettura di I. Svevo, Liviana, Padova 1965, cit. da Il caso Svevo. Guida storica e critica, a cura di E. Ghidetti, Laterza, Bari 1984

Il critico Sandro Maxia, citando puntualmente passi della Coscienza di Zeno, ci aiuta a capire quanto la scelta di una prosa ironica adottata da Svevo anche per questo romanzo non sia solo una “felicissima invenzione stilistica”, ma abbia una precisa e imprescindibile funzione semantica.

L’ironia ha [...] una funzione essenziale nel romanzo, perché sopporta, per così dire, tutto il peso del piano del giudizio. Essa è lo strumento retorico del quale lo scrittore si serve per afferrare in un giudizio complessivo di condanna il protagonista e il mondo nel quale è invischiato. La scelta del piano unico 5 di narrazione si rivela così, non solo una felicissima invenzione stilistica, ma una necessità strutturale. Grazie ad essa l’ironia-giudizio non si accampa fuori e al di sopra del romanzo, irrisolta come tutti i propositi parenetici, ma è calata e fusa con la narrazione, sicuro possesso della coscienza imparziale, che attraverso di essa misura e colma nello stesso istante il dislivello tra il mondo 10 scombinato e dilettantesco nel quale Zeno ha vissuto stupefatto, ma forse ancora capace di reazioni morali, e la “saggezza” dello Zeno che racconta, la quale ha indubbiamente eliminato la stupefazione, per sostituire ad essa il più limpido e disincantato cinismo. Del resto Svevo ebbe perfetta coscienza dei risultati conseguibili attraverso il suo 15 linguaggio ironico. In un passo della Coscienza il protagonista parla dei suoi rapporti con la moglie e cerca di mettere ordine nelle proprie idee circa la sua vita coniugale. Ne viene fuori un ritratto di Augusta che è di estremo interesse per l’intelligenza complessiva del romanzo, in particolare del nesso salute-malattia sul quale esso è tutto fondato. Zeno comincia con lo scoprire che Augusta era 20 la “salute personificata”. […] A tutta prima questo ritratto sorprende non poco. Sembra che esso risulti da un cumulo di confuse impressioni sul modo di vedere le cose proprio di Augusta che Zeno ha registrato in passato e che ora tornano alla memoria alla rinfusa, giustapponendosi l’una all’altra senza un ordine preciso. […] In realtà, ad una 25 più attenta lettura ci si accorge che le cose non stanno proprio così, e che lo scrittore ha seguito nello stendere questo ritratto interiore di Augusta un piano ben preciso, per raggiungere scopi precisi. Lo schema del discorso è pressapoco questo: 1) Augusta possiede una fede sorprendente in un determinato sistema di certezze etico-giuridiche (quelle che regolano la società borghese), che ella 30 accetta senza discutere perché per lei si identificano con la vita stessa (non saprebbe concepire la vita senza la protezione di quel sistema di certezze); 2) la vita, per lei che è sana, è eterna, perché la salute ignora il senso del passato e del futuro e vive segregata nel presente (ignora cioè il divenire delle cose, e quindi il loro assiduo disfarsi e perire); 3) il presente d’altra parte è reso più 35 sicuro dagli ordinamenti stabiliti: l’amore garantito dalla legge, l’etichetta, il rituale della vita quotidiana con le sue ore fisse, “sempre al loro posto”, e la religione, che infonde serenità; 4) a garanzia ulteriore del tutto c’è l’autorità costituita, che provvede alla nostra sicurezza, e l’autorità medica, provvista di

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

regolare diploma, che veglia sulla nostra salute. Infine si fa riferimento alla fede 40 di Augusta nella salvezza eterna. Questo schema rende di per sé visibile l’abilità con la quale lo scrittore ha perseguito e raggiunto il suo scopo, calandolo e dissolvendolo dentro le strutture narrative che si è costruito. Non c’è dubbio che qui egli si mantenga fedele alla tecnica del monologo interiore: il processo associativo del pensiero procede 45 proprio così, attraverso un’espansione capillare che porta alla luce sempre nuovi elementi, i quali, in quanto scoperte della coscienza, giacciono tutti sullo stesso piano ed hanno tutti allo stesso titolo il carattere di successive illuminazioni interiori. Tuttavia ci si accorge subito che lo scopo dello scrittore non è affatto la resa “naturalistica” di un processo mentale passivo: in realtà ciò che gli sta a 50 cuore è rendere evidente la banalità e l’insulsaggine di un modo di pensare e di un intero sistema etico-giuridico, ed egli lo raggiunge proprio col mettere sullo stesso piano religione e galateo borghese, abiti da pomeriggio e da sera e autorità pubbliche, e considerando il tutto da un unico punto di vista: stupefazione di Zeno. Il lettore è cosi aggredito da un procedimento che spaccia come ovvi 55 degli accostamenti che per la gente comune non lo sono affatto, e viceversa dallo stupore per cose da tutti considerate ovvie. Per esempio, si fa riferimento al rossore di Augusta; Zeno ne ha già parlato poche pagine prima («La mia sposa [qui fidanzata] era molto meno brutta di quanto avessi creduto, e la sua più grande bellezza la scopersi baciandola: il suo rossore! Là dove baciavo sorgeva una 60 fiamma in mio onore ed io la baciavo più con la curiosità dello sperimentatore che col fervore dell’amantes»), ed ora, dopo il matrimonio, rileva stupito che esso è scomparso «con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole». Per Augusta dunque talune espansioni amorose di Zeno sono da giudicarsi illecite prima e lecite solo dopo il matrimonio: ciò è tutto ovvio 65 per lei, ma è stupefacente per Zeno. Non si potrebbe dissimulare con maggiore raffinatezza un giudizio sulla futilità di un intero sistema di certezze. […] Zeno invece ha, diciamo così, il sospetto (è la sua malattia) che «quell’ordine non sia così saldo come finge di essere» (basta pensare ad Augusta: la sua è una sicurezza fondata sull’insicurezza); l’ha sempre avuto questo sospetto, ma mai come 70 adesso che può confrontarlo con la salute di Augusta. Ora capisce finalmente che la «perfetta salute umana» consiste nel «segregarsi nel presente e starci caldi», vale a dire nel sottrarsi al flusso della coscienza, al suo angoscioso sentimento del tempo che scorre inesorabile, che erode i monumenti degli uomini al pari dei loro istituti e che ci priva via via di ogni punto di riferimento, di ogni ap75 piglio, di ogni certezza. Augusta così, con crudele pietà, è ricacciata in quella grammatica dei tempi puri che Svevo definì una volta adatta agli animali e non agli uomini. Il suo tempo è il tempo oggettivo della sicurezza borghese e Zeno, finché visse accanto a lei, si guardò bene dal deridere questa sua fede nel presente, ed ora sa che la tentazione che talvolta ne ebbe «non poteva essere altro 80 che la sua malattia». Egli doveva guardarsi dal comunicare la sua disperazione per l’instabilità delle cose a chi fondava gran parte della sua sicurezza su di lui. Agli occhi di Augusta egli era il patriarca, è detto poche righe più sotto, uno dei pilastri del sistema di certezze da lei posseduto con tanta cieca fede. [...] Zeno in realtà ha già giudicato quella salute semplicemente col portarla a livel-

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85 lo espressivo, e lo sa perfettamente («analizzandola la converto in malattia»).

Ora che è vecchio, comincia a dubitare se non sarebbe stato il caso di guarire Augusta da quella salute, ma per tanti anni, fino a quando la psicanalisi non lo indusse a ridiscutere il passato, mai ebbe tale dubbio. La scaltrezza dello scrittore ha veramente raggiunto uno dei suoi vertici. Con un solo ironico, paradossale 90 accoppiamento (guarire dalla salute!) egli riesce a stringere contemporaneamente il fatto e il suo giudizio ed a comunicarci il senso di una realtà che è perfettamente ambivalente. E in effetti il romanzo svolge il nesso salute-malattia verso la perfetta ambivalenza dei due termini.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Interpretazione

1. Spiega perché, secondo Maxia, l’ironia nella Coscienza non è solo una «felicissima invenzione stilistica� e perché sceglie proprio il brano sul rapporto tra Zeno e la moglie per dimostrarlo. 2. Spiega la differenza tra la “stupefazione” dello Zeno narrato e la “saggezza” cinica dello Zeno narratore, di cui parla Maxia. 3. Come riesce Svevo a far emergere l’insulsaggine del sistema di certezze di Augusta? 4. Quali vocaboli Svevo carica soprattutto di ironica e necessaria ambivalenza? Perché? 5. Maxia sottolinea la funzione essenziale che l’ironia ha nella Coscienza di Zeno. Ripercorrendo la storia della letteratura non solo del primo Novecento, sulla base delle tue letture e delle tue conoscenze di studio, elabora una riflessione sul perché tanti autori hanno scelto di adottare per le loro opere in prosa e in versi uno stile ironico, sviluppandola in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

online T10 Italo Svevo

Un «atto mancato»: Zeno sbaglia funerale La coscienza di Zeno, VII

online T11 Italo Svevo

La rinuncia alla psicoanalisi La coscienza di Zeno, VIII

online

online

Psicoanalisi e umorismo ebraico: Zeno e Woody Allen

Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick

Per approfondire

Italo Svevo

T12

«La vita attuale è inquinata alle radici»: un finale inquietante

Sguardo sul cinema

EDUCAZIONE CIVICA

La coscienza di Zeno, VIII I. Svevo, La coscienza di Zeno, a c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Quella che segue è la celebre conclusione del romanzo. In essa, la riflessione sul tema del rapporto salute-malattia, che costituisce il filo conduttore della Coscienza di Zeno, si estende dal singolo individuo all’intera specie umana, che appare al narratore inguaribilmente “malata” a causa di uno snaturante progresso tecnologico. Solo «una catastrofe inaudita» potrebbe guarirla.

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... 5 nel numero degli uomini. Ogni quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto.

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Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorchè la ron10 dinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso1, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. 15 Ma l’occhialuto uomo2, invece, inventa gli ordigni3 fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni4 del suo braccio e non potevano essere efficaci 20 che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice5. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. 25 Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri 30 un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. 1 il progresso: l’evoluzione. Gli animali si evolvono nel rispetto della legge naturale, conformando il proprio organismo al bisogno che si manifesta e che necessita di un adattamento della specie. Il progredire delle specie animali non lede dunque mai

la loro salute, a differenza di quanto avviene nell’uomo. 2 l’occhialuto uomo: l’immagine sottolinea l’artificiosità della civiltà. 3 ordigni: strumenti artificiali, tecnologici.

4 prolungazioni: prolungamenti. 5 l’abbandono... la creatrice: Svevo allude alla legge della selezione naturale che ha permesso alle diverse specie viventi di rafforzarsi. Lo sviluppo tecnologico ha snaturato questo processo naturale indebolendo l’umanità.

Analisi del testo Un nuovo Zeno Per comprendere l’ultima pagina della Coscienza di Zeno occorre specificare che chi enuncia le apocalittiche considerazioni finali è un “nuovo Zeno”, almeno in parte diverso dal narratore dei sette capitoli precedenti. Il brano si iscrive nell’ultima annotazione (datata 24 marzo 1916) del diario che occupa l’VIII capitolo, laddove Zeno si dichiara ormai guarito, ma precisa che non è certo stata la psicoanalisi a guarirlo (alla cura psicoanalitica ha anzi ormai rinunciato), bensì l’inaspettato successo trovato nel commercio. È divenuto «pescecane di guerra», arricchendosi nella generale catastrofe: da una compravendita d’incenso, che poteva sembrare inizialmente una sciocchezza, aveva ricavato un primo guadagno dal quale aveva immediatamente avuto la percezione della propria guarigione («Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute»). La “guarigione” di Zeno rimane comunque sospetta e passibile di dubbio, data l’abituale tendenza del personaggio alla mistificazione, ma in ogni caso la nuova condizione in cui si trova (è ormai un ex inetto o, se si preferisce, un inetto vincente) consente a Svevo-Zeno di spostare l’oggetto della sua riflessione (che ha sempre al centro il tema della “malattia”) da se stesso all’umanità intera.

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La diagnosi del “disagio della civiltà” Non Zeno dunque è malato, non il singolo uomo, ma la vita stessa, e soprattutto, «la vita attuale», che il narratore considera «inquinata alle radici». La coscienza di Zeno si chiude con un’analisi della civiltà moderna estremamente suggestiva, su cui è stato scritto molto e di cui si sono date varie interpretazioni. Il brano trae spunto da pagine saggistiche dello stesso Svevo, in particolare La corruzione dell’anima, che a sua volta riprende il discorso sul tema dell’evoluzione impostato nello studio L’uomo e la teoria darwiniana. Rispetto a questi due scritti (anteriori al romanzo), il finale della Coscienza testimonia una valutazione radicalmente pessimistica riguardo all’evoluzione della specie umana. A differenza dell’evoluzione delle altre specie, il progresso della specie umana, il suo perfezionarsi, avviene fuori dalle leggi di natura: l’uomo crea ordigni, congegni artificiali di cui diventa schiavo e che lo condannano a un’intrinseca debolezza esponendolo sempre più alla “malattia”. Anziché adeguarsi all’ambiente armonicamente, l’«occhialuto uomo» continuerà il cammino della civilizzazione e del potenziamento della tecnologia, continuerà a produrre strumenti sempre più sofisticati finalizzati alla difesa e all’offesa (ma anche idee intese alla coercizione e al dominio). La selezione naturale («La legge del più forte») scomparirà perché il più forte sarà chi possiede un maggior numero di ordigni e in questo modo prolifereranno sempre più «malattie e ammalati».

Una profezia apocalittica Svevo diagnostica, alcuni anni prima del freudiano Il disagio della civiltà (1930) – opera con la quale la conclusione della Coscienza mostra singolari coincidenze – la malattia del mondo moderno; ma Svevo non ne accetta le inesorabili conseguenze, profetizzando invece una catastrofe a suo modo “risolutiva”: la civiltà stessa sarà forse annientata e non dal più forte, da un uomo superiore agli altri (un “superuomo” nietzschiano), ma un «uomo fatto anche lui come tutti gli altri» (presumibilmente uno scienziato) che inventerà un ordigno più potente di ogni altro, che un «uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato» (cioè un pericoloso squilibrato sfuggito a ogni controllo) farà deflagrare al centro della terra. «Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute», ma la salute coinciderà con la scomparsa del genere umano e la dissoluzione del pianeta, tornato «alla forma di nebulosa»: un’immagine apocalittica forse memore del finale del leopardiano Cantico del gallo silvestre, una delle Operette morali più pessimistiche del grande poeta recanatese. La terribile profezia trae spunto e suggestioni anche dalle distruzioni che l’impiego di nuove tecnologie belliche aveva prodotto nel primo conflitto mondiale (la Coscienza è composta nel 1918), ma al contempo il testo sveviano anticipa le ben più tragiche conseguenze prodotte nella seconda guerra a Hiroshima e Nagasaki (Giappone, 1945) dall’uso dell’energia atomica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze e dai a ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Spiega il significato del primo periodo del brano. Quale figura retorica riconosci? 3. Perché la salute appartiene solo agli animali, secondo Zeno? STILE 4. Trova i passaggi ironici del brano.

Interpretare

INTERPRETAZIONE 5. Spiega come si collega questo finale apocalittico alla storia di Zeno. TESTI A CONFRONTO 6. L’Operetta morale di Leopardi intitolata Cantico del gallo silvestre sviluppa il tema dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere la felicità, ma soprattutto la considerazione che la vita umana e l’intero universo sono destinati ad estinguersi prima o poi senza che il mistero dell’esistenza sia stato compreso. Leggi la conclusione e mettila a confronto con il finale del romanzo di Svevo:

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Tempo verrà1, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta2. E nel modo che3 di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti4, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio5; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano6 mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso7, si dileguerà e perderassi8. 1 Tempo verrà: verrà un giorno. L’espressione conferisce un tono profetico alla conclusione dell’operetta. 2 sarà spenta: perirà. 3 E nel modo che...: introduce una comparazione (è da colleEDUCAZIONE CIVICA

LOTTA PER IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

garsi a parimente “allo stesso modo”). 4 maravigliosi moti: imprese che suscitano meraviglia. 5 non... un vestigio: neanche una traccia.

6 arcano: mistero. 7 innanzi... inteso: prima di essere chiarito e compreso.

8 perderassi: scomparirà (con enclisi pronominale, dopo il riflessivo si dileguerà).

SCRITTURA 7. Il finale apocalittico del brano evoca scottanti attualizzazioni, non solo per il pericolo ancora reale di una distruzione del pianeta a causa di ordigni nucleari, ma per la seria minaccia di una catastrofe climatica sempre provocata dall’uomo e dai suoi ordigni. Il segretario dell’ONU António Guterres in occasione della cerimonia di apertura della Cop 27 di Sharm el-Sheikh, la ventisettesima conferenza della Nazioni Unite sul clima tenutasi il 7 novembre 2022, ha pronunciato queste parole: «Il tempo stringe. Stiamo lottando per la nostra vita. E stiamo perdendo. Le emissioni di gas a effetto serra continuano ad aumentare. La temperatura globale continua a salire. E il nostro Pianeta si sta avvicinando rapidamente a dei tipping point che renderanno la catastrofe climatica irreversibile. Siamo su un’autostrada diretti verso l’inferno climatico con il piede sull’acceleratore. La guerra in Ucraina, il conflitto nel Sahel, la violenza e i disordini in tanti altri luoghi sono crisi terribili che affliggono il mondo di oggi. Ma i cambiamenti climatici hanno una tempistica diversa, una scala diversa. È il tema che contraddistingue la nostra epoca. È la sfida fondamentale del nostro secolo. È inaccettabile, vergognoso e autolesionista metterlo in secondo piano. […] Eccellenze, l’attività umana è la causa del problema climatico. L’azione umana deve essere la soluzione». Quali azioni umane possono davvero diventare la soluzione al problema climatico? Fai una ricerca ed elabora un podcast nel quale, riassumendo i risultati raccolti, fai un appello accorato affinché tali soluzioni siano condivise dai tuoi ascoltatori.

Fissare i concetti Italo Svevo 1. Perché Aron Hector Schmitz scelse lo pseudonimo di Italo Svevo per firmare le sue opere? 2. Quanto la città di Trieste influenzò la formazione e la mentalità di Svevo? 3. Quando Svevo pubblicò i suoi primi due romanzi, quale accoglienza ebbero? 4. Come si conobbero Svevo e Joyce e che stimoli portò questa amicizia nella vita di Svevo? 5. Che rapporto ebbe Svevo con la letteratura e più in generale con la scrittura? 6. Quali letterati e quali filosofi influenzarono di più la sua formazione? 7. Come conobbe la psicoanalisi e che opinione maturò di essa nel tempo? 8. Perché il primo romanzo ebbe come primo titolo Un inetto? 9. Che cosa il romanzo Una vita mantiene dell’impianto del romanzo naturalista ottocentesco? Quali sono invece gli elementi di novità? 10. Perché il secondo romanzo si intitola Senilità? 11. Descrivi la fisionomia dei quattro protagonisti di Senilità e le relazioni che intrecciano tra loro. 12. Che ruolo svolge il narratore nei primi due romanzi? 13. Quali circostanze favorirono la composizione della Coscienza di Zeno? 14. Quale visione problematica della psicoanalisi emerge dalla Coscienza di Zeno? 15. Perché La coscienza di Zeno è considerato un titolo enigmatico? 16. Perché si parla di “tempo misto” nella Coscienza di Zeno? 17. In che cosa il narratore del terzo romanzo è diverso da quello dei primi due? 18. Perché Zeno è un inetto nuovo rispetto ad Alfonso ed Emilio, protagonisti dei primi due romanzi? 19. Perché Zeno ha sempre bisogno di antagonisti? Quali personaggi lo diventano? 20. Quali riflessioni sul tema “salute-malattia” alimenta la lettura della Coscienza di Zeno? 21. Qual è il tema principale del quarto romanzo incompiuto di Svevo, ovvero Il vegliardo e come viene sviluppato?

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Novecento e oltre Italo Svevo

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Italo Svevo (1861-1928), pseudonimo di Aron Hector Schmitz, è uno dei più grandi scrittori del primo Novecento. La sua formazione linguistico-culturale e l’identità sociale sono anomale rispetto alla maggioranza degli scrittori italiani. Si forma e vive a Trieste, città di confine aperta ai più diversi influssi culturali, conosce le letterature e le filosofie straniere più che quelle italiane, non vive da letterato ma lavora prima come impiegato in una banca e poi diventa un imprenditore di successo. Per questo complesso di ragioni e per la novità della sua opera, rimase a lungo incompreso, accusato dalla critica ufficiale soprattutto di “scrivere male”. La scoperta della grandezza di Svevo in Italia si deve a Eugenio Montale che recensì positivamente La coscienza di Zeno nel 1925; ma fu solo negli anni Sessanta, in un contesto culturale più favorevole, che Svevo poté finalmente essere compreso e apprezzato. La visione del mondo Nelle sue opere, a partire dal primo romanzo, Una vita (1892), Svevo utilizza spunti e suggestioni tratti da molteplici letture, anche d’ambito filosofico. Da un lato assimila la lezione del positivismo e di Marx. Ne ricava non tanto un’adesione ideologica, ma un’attenzione ai condizionamenti sociali ed economici cui l’uomo è sottoposto, una visione antidealista e antispiritualista. Dalla lettura di Darwin deriva in Svevo il marcato interesse al tema dell’evoluzione dell’umanità, della lotta per la sopravvivenza e la centralità nella sua opera del rapporto tra forza e debolezza o, in altri termini, del rapporto tra “sani” e “malati”. D’altra parte Svevo legge Nietzsche e Schopenhauer, ma anche in questo caso per trarne suggestioni, strumenti di lettura dei comportamenti umani. Di Nietzsche assume non le tematiche superomistiche ma la demistificazione dei valori borghesi e delle ideologie. Allo stesso modo accoglie da Schopenhauer molteplici spunti, fra cui la distinzione tra lottatori e contemplatori. Importantissimo infine il contributo della psicoanalisi, assunta non per il suo valore di terapia (che viene decisamente svalutato), ma come strumento di indagine profonda dell’interiorità del soggetto, rivelazione della complessità contraddittoria, delle pulsioni inconscie. Nel complesso, la visione sveviana della vita si articola in rapporto alla figura dell’inetto e al tema dell’inettitudine a vivere, della “malattia”, centrali in tutti e tre i romanzi. Una tematica che già di per sé rivela una concezione pessimistica della vita, destinata in parte ad attenuarsi nell’ultimo romanzo, con l’emergere di una prospettiva ironica e la valorizzazione dell’inetto come personaggio “inconcluso”, aperto alle trasformazioni e quindi più vitale degli apparentemente “sani” e “forti”. La poetica Come scrittore Svevo prende le mosse da modelli letterari di tipo realista e naturalista: da Balzac a Flaubert a Zola; ma d’altra parte una componente autobiografica contraddistingue fin dall’inizio la sua produzione narrativa. Per lui, acuto testimone della grave crisi del suo tempo, la letteratura non ha la funzione di trasmettere valori assoluti né di offrire compensazioni estetizzanti alla banalità del vivere, bensì quella di analizzare in profondità le dinamiche psicologiche (in questa direzione è importante per lui la lezione di Dostoevskij). Recuperando i momenti salienti dell’esistenza, la letteratura può avere un valore terapeutico per chi scrive. Tuttavia la scelta di questa prospettiva di analisi conduce Svevo

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inevitabilmente fuori dalla poetica naturalistica (a cui ancora si richiama il primo romanzo): non a caso dalla terza persona, usata nei primi due romanzi, Svevo passa alla narrazione in prima persona nella Coscienza di Zeno, romanzo in cui si realizza una dissoluzione delle strutture narrative ottocentesche. Una svolta in cui influisce la conoscenza dell’opera di Joyce, ma soprattutto la scoperta della psicoanalisi che apre allo scrittore inedite prospettive nello scandaglio della psiche umana.

romanzi di Svevo: viaggio 2 Inella malattia dell’uomo moderno Una vita Il primo romanzo di Svevo è pubblicato nel 1892: inizialmente intitolato Un inetto, ha come protagonista Alfonso Nitti, un giovane provinciale approdato a Trieste per affermarsi. Intellettuale con velleità letterarie, Alfonso si innamora di Annetta, la figlia del direttore della banca in cui è impiegato, e ne è ricambiato. Per le sue tortuosità psicologiche è però incapace di realizzarsi nel rapporto con Annetta così come nella vita sociale, in cui il culto della produttività non può che emarginare i sognatori come lui. Sconfitto dalla vita, Alfonso si uccide. Anche se il romanzo, narrato in terza persona, ma con prevalente focalizzazione sul protagonista, dà spazio alla rappresentazione degli ambienti sociali nella loro relazione con la storia del protagonista, l’interesse di Svevo è già concentrato sull’analisi psicologica dell’inettitudine di Alfonso che va ben oltre i condizionamenti sociali di marca naturalista. Senilità Il tema dell’inettitudine è ripreso nel secondo romanzo, Senilità, del 1898, in cui il titolo stesso segnala il progressivo distanziamento dai modelli narrativi naturalisti anche se la narrazione è sempre condotta in terza persona e viene rispettato l’ordine cronologico. Il secondo romanzo configura più apertamente l’inettitudine come “malattia spirituale”, inerzia precocemente senile. Anche Emilio Brentani, il protagonista, ha un rapporto complicato e fallimentare con la figura femminile, qui impersonificata dalla sensuale Angiolina, una ragazza di facili costumi che egli idealizza, a cui si contrappone la materna sorella Amalia, quasi un “doppio” femminile di Emilio, come lui malata di inettitudine. Entrambe sono attratte dal pittore Balli, un amico di Emilio dalla prorompente vitalità, personaggio evidentemente contrapposto all’amico. Quando Amalia muore e Angelina scompare dalla sua vita, Emilio si rifugia nella sua malinconica, ma tranquilla “senilità”, al riparo dal pericolo delle passioni. Le altre opere La produzione di Svevo comprende anche pagine saggistiche e autobiografiche e vari racconti: tra i primi, L’assassinio di via Belpoggio (1890); successivi alla Coscienza di Zeno sono, tra gli altri, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale. Svevo fu anche commediografo (scrisse tredici commedie): si ricordano Un marito del 1903 e La rigenerazione del 1927-28, che mostra affinità tematica con Il vegliardo (o Il vecchione), il quarto romanzo, di cui rimangono poche pagine e che avrebbe dovuto essere una continuazione della Coscienza di Zeno.

3 La coscienza di Zeno

Il capolavoro di Svevo, La coscienza di Zeno, è pubblicato nel 1923. Entra qui radicalmente in crisi, per l’approfondirsi dell’analisi psicologica, la figura del narratore esterno e la struttura stessa del romanzo ottocentesco (protagonista non è Zeno, ma la sua “coscienza”, come enuncia il titolo stesso). Il romanzo, per la maggior parte, è costituito dalla memoria del protagonista per una terapia psicoanalitica che sarà poi interrotta: ne deriva la presenza costante del monologo di un io narrante-paziente (quindi programmaticamente inattendibile). L’ordine cronologico è sovvertito, passato e presente coesistono nel cosidetto

Sintesi

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“tempo misto”. Ritornano i temi cari a Svevo: l’inettitudine e la malattia, il complicato rapporto con la figura femminile (la moglie e l’amante), ma nuova è l’attitudine ironica del narratore e soprattutto la nuova visione di un inetto “vincente”, favorito dalla sorte e dalla sua disponibilità alla metamorfosi. Celebre la chiusa del romanzo in cui la malattia diventa malattia dell’intero genere umano, vittima del progresso tecnologico.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Scegli una delle figure femminili dei romanzi sveviani e scrivi il ritratto immaginario che essa potrebbe fare del rispettivo protagonista maschile. 2. Immagina un dialogo tra Joyce e Svevo a proposito del valore del romanzo La Coscienza di Zeno nel quale far emergere tutte le novità a livello letterario presenti in quest’opera

Allestimento scenico

3. Scrivi, in compagnia di un compagno di classe, il copione di una scena teatrale in cui dialogano Zeno, protagonista della Coscienza e suo padre, dalla quale emergano il loro rapporto conflittuale e le ragioni di tale conflittualità. Organizza poi una messa in scena da realizzare in classe.

Competenze digitali

4. Elabora una presentazione multimediale della città di Trieste nel Primo Novecento, nella quale: - descriverne il contesto storico-culturale anche attraverso immagini e documenti; - descriverne la multietnicità e la presenza di comunità religiose diverse anche attraverso l’indicazione di luoghi di culto come sinagoghe, moschee, chiese già presenti al tempo; - collocare autori come Italo Svevo e Umberto Saba, profondamente influenzati dalla loro origine triestina.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario

Italo Svevo

Preambolo La coscienza di Zeno I. Svevo, La coscienza di Zeno, a.c. di G. Benvenuti, Principato, Milano 1985

Nel Preambolo, secondo capitolo della Coscienza di Zeno, il protagonista racconta i propri tentativi di risalire con la memoria alla prima infanzia.

Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri1 me ne separano e i miei occhi presbiti2 forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata 5 da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi3 e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo4, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo 10 tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psicoanalisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso. Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, 15 s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato. Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più pro20 fondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre. Mercé la matita5 che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: 25 una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui! Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia 30 invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi.

1 dieci lustri: cinquant’anni (lustro: spazio di cinque anni). 2 presbiti: coloro che non vedono bene da vicino (voce che deriva dal greco presbytes “vecchio” perché la presbiopia è un difetto che

si verifica solitamente nelle persone anziane, per cui si vedono meglio gli oggetti lontani rispetto ai vicini). 3 per essi: per gli psicanalisti.

4 ab ovo: espressione latina usata per indicare un fatto narrato dalle sue origini. 5 Mercé la matita: per merito della matita.

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Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio 35 della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio6, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È 40 impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino!7– si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono. Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani. 6 inconscio: non consapevole.

7 Nel tuo seno – fantolino!: Nel tuo animo bambino!

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del testo. 2. Facendo cosa, Zeno disubbidisce alle consegne del suo psicoanalista e procede autonomamente nell’autoanalisi? Quali espressioni dimostrano il suo scetticismo verso la psicanalisi? 3. Con quale metafora Zeno indica la difficoltà di recuperare i ricordi più lontani? 4. Quali riflessioni elabora Zeno quando vede il bambino in fasce? Perché pensa che sia «impossibile tutelare la culla»? 5. La sintassi di questo romanzo, caratterizzata da frasi brevi e numerose interrogative o esclamative, riproduce vivacemente la dinamica interna alla coscienza, nel momento in cui rievoca il proprio vissuto e riflette su di esso. Trova esempi di ciò nel brano. 6. Indica le parti in cui emerge l’ironia sveviana.

Produzione

In questo Preambolo viene introdotto uno dei temi centrali del romanzo, ovvero il binomio complesso salute-malattia. Prova a collegare questo brano con altri di Svevo dove emerge fortemente questa tematica. In alternativa, esponi le tue considerazioni sul tema della malattia facendo ricorso ad altri autori ed opere a te noti nell’ambito letterario e/o artistico.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da: M. Lavagetto, Confessarsi è mentire. L’incredulità ricostruita, in La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992

Tutti gli episodi della Coscienza di Zeno e i relativi temi filtrano attraverso l’autentico oggetto del discorso narrativo: un vecchio bugiardo, che prende la parola e scrive a un destinatario preciso con l’intento di circuirlo e di ingannarlo. È stato proprio quel destinatario, lo psicoanalista, a consigliargli di scrivere per 5 prepararsi alla cura e per vedersi “più intero”: consiglio arrischiato e tuttavia ligio ai consigli impartiti da Freud, che diffidava della forma scritta, ma esortava i suoi pazienti a dire tutto quanto passava loro per la testa, a dirlo senza censure e preoccupazioni retoriche. Zeno ha preso il suggerimento alla lettera: ha recitato con abilità la sua parte, arrivando a tremare e piangere di commo10 zione man mano che procedeva nel suo racconto e che, a forza di produrlo, finiva col crederci. Gli aneddoti che ha raccontato, veri o falsi che siano, si sono trasformati in fatti incontestabili della sua vita, a cui sarebbe singolare che lui, per primo, si rifiutasse di prestare fede. […] Le difficoltà poste dalla creazione di un simile narratore rientrano all’in15 terno di un problema letterario più generale: la messa in scena della bugia nel romanzo. Nulla di più facile, se il narratore è onnisciente e se può contrapporre la sua parola vera a quella falsa di uno dei suoi personaggi. La menzogna in tal caso è precisamente localizzata e circoscritta da ciò che la contraddice e la denuncia. Il bugiardo in questo modo non ha difese. 20 Le cose vanno diversamente, e non si lasciano risolvere facilmente, se il narratore si serve di una prospettiva ristretta: il suo punto di vista è allora quello di un personaggio costretto a scoprire con dubbi, ipotesi e congetture la menzogna di un altro personaggio. In tal caso la bugia non è identificabile con altrettanta certezza e può apparire come la conseguenza di una falsa conclusione o inter25 pretazione. Anche il protagonista è costretto a misurarsi con le dovute strategie del bugiardo: il quale può dire per quanto possibile la verità oppure può mentire a oltranza. In ogni caso ogni enunciato è sotto cauzione: può essere vero, ma anche falso. Il narratore deve perciò far inciampare il bugiardo, costringerlo ad arrendersi stringendolo in una rete di contraddizioni. 30 Il problema è ancora più spinoso se chi mente è colui che racconta. Se il narratore non assume atteggiamenti provocatori e parla per essere creduto, non rivendita l’onniscienza ma la buona fede, il nodo non può essere risolto: va sciolto con molta pazienza, attenzione, cautela, ricorrendo a un sistema di accorgimenti e costruendo scredito intorno alle parole del narratore. Il compito 35 di chi decide di dare vita a un narratore bugiardo è molto più arduo: deve sbarazzarsi della credulità dei lettori che hanno fede incontrollabile. Liberarsene richiede astuzia; l’incredulità deve essere conquistata scalzando il controllo che il narratore esercita sulla propria storia. Ed è proprio qui che va collocato il tornaconto narrativo della psicanalisi, che ha 40 consentito a Svevo di aprire uno spazio buio e insondabile sotto le parole di Zeno e di costruire il suo inconscio come un meccanismo a orologeria. La grande invenzione consiste nell’avere immaginato e registrato, tra ognuna delle sue sillabe, un

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discorso nascosto sotto il discorso di chi ufficialmente parla, si confessa, si giustifica, si difende, accusa, costruisce con frammenti a volte sconnessi e incompatibili 45 la propria difesa. Non c’è una parola, non un gesto compiuto da Zeno narratore e da Zeno personaggio che non sia rappresentato come un sintomo dell’inconscio e su cui non gravi l’ipoteca della coscienza di Zeno. Zeno incespica continuamente nella sua storia: cerca di fornirle un impianto solido, si accanisce nella propria versione, ma il testo che costruisce è raggrinzito, 50 troppo stretto per impedire alla realtà e alle contraddizioni di venire alla luce o provocare interferenze continue. Il romanzo contiene al suo interno una intera psicopatologia della vita quotidiana. Sono decine i lapsus e gli atti mancati che attraversano l’universo di Zeno e che rendono inaffidabili le sue parole: la psicanalisi è servita per sfrattarlo dal suo 55 discorso ed egli non è più padrone in casa propria. Ma nessuno di fronte alle sue memorie, nemmeno la psicanalisi, ha le chiavi per entrane in casa. Pagina dopo pagina, ci si trova costretti a non sapere niente altro che quanto Zeno ha raccontato; magari a sospettare e a sapere con quasi certezza che Zeno ha mentito, senza avere nulla da sostituire a quella menzogna, senza conservare dentro 60 di sé nemmeno un grammo dell’ingenuità indispensabile per interrogarsi sulla vera identità di Zeno.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Come viene descritto all’inizio del brano il paziente Zeno alle prese con la scrittura delle sue memorie? 2. Lavagetto presenta tre tipologie di narratori alle prese con un personaggio bugiardo? Quali sono? Che difficoltà hanno? Quale dei tre è il narratore della Coscienza di Zeno? 3. Come può la psicoanalisi, secondo l’autore, aiutare in parte a smascherare l’inaffidabilità del narratore Zeno? 4. Trova alcune metafore significative usate dal critico nel brano.

Produzione

Il critico Lavagetto sottolinea quanto sia significativa e innovativa la scelta di un narratore bugiardo, quindi del tutto inattendibile, nella Coscienza di Zeno. Alla luce delle tue conoscenze acquisite attraverso il percorso di studi e/o le tue letture personali, elabora una riflessione sull’importanza della scelta del tipo di narratore nell’economia di un romanzo. Scrivi un testo in cui la tua tesi e i tuoi argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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Indice dei nomi A Abate, Antonino, 202 Abba, Marta, 679 Albertini, Luigi, 75 Alceo, 364 Aleardi, Aleardo, 203 Aleramo, Sibilla (pseudonimo di Rina Faccio), 55, 56, 57, 592 Alessandro II, zar, 186 Alfieri, Vittorio, 112, 559 Alighieri, Dante, 112, 114, 116, 301, 370, 401, 476, 565, 568, 588, 764 Allen, Woody, 193, 806 Angelini, Franca, 741 Antoine, André, 315 Antonelli, Luigi, 331, 737 Apollinaire, Guillaume (pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicki), 547 Aquino, Tommaso d’, 653 Aragon, Louis, 554 Archibugi, Francesca, 624 Archiloco, 116 Aristotele, 653 Arrighi, Cletto (psudonimo di Carlo Righetti), 94, 98, 101, 108, 159 Artaud, Antonin, 554 Ascoli, Graziadio Isaia, 72 Asor Rosa, Alberto, 83, 84, 591

B Baccara, Luisa, 430 Bachtin, Michail, 192, 193 Bahr, Hermann, 551 Baldacci, Luigi, 622 Baldini, Antonio, 588 Balla, Giacomo, 517, 536 Balzac, Honoré de, 50, 146, 160, 209, 771 Bàrberi Squarotti, Giorgio, 262, 377, 378, 400, 500, 502, 599 Barnacle, Nora, 653 Baudelaire, Charles, 43, 48, 49, 54, 55, 56, 58, 59, 60, 67, 68, 69, 97, 98, 115, 131-144, 335, 336, 338, 339, 343, 346, 348, 350, 355, 532, 592, 597 Bauer, Felice, 608, 616 Bava Beccaris (generale), 40, 206 Bazlen, Roberto, 768 Benn, Gottfried, 551, 552 Berg, Alban, 551, 766 Bergson, Henri, 66, 518, 519, 523, 524, 526, 534, 634, 635, 645, 677 Bernhardt, Sarah (nome d’arte di Rosine Bernardt), 354, 430, 468 Bers, Sof’ja Andreevna, 186 Bersezio, Vittorio, 331 Bertolazzi, Carlo, 331 Binet, Alfred, 681 Bixio, Nino, 264, 271 Bo, Carlo, 586 Boccaccio, Giovanni, 688 Boccioni, Umberto, 57, 517, 533, 536, 681, 712

Boine, Giovanni, 57, 584, 585 Boito, Arrigo, 94, 96, 97, 98, 101, 102, 168, 205 Boito, Camillo, 54, 57, 67, 94, 98, 102, 103 Borgese, Giuseppe Antonio, 523, 558, 564, 604, 621, 622, 720 Brando, Marlon, 53 Brecht, Bertolt, 551 Breton, André, 554, Brod, Max, 608, 616 Broglio, Emilio, 72 Buñuel, Luis, 554 Buzzi, Paolo, 535, 536 Byron, George Gordon, 170

C Cagna, Achille Giovanni, 107 Calvino, Italo, 301 Camerana, Giovanni, 94, 95 Camilleri, Andrea, 247, 676, 680 Campana, Dino, 50, 57, 243, 499, 524, 525, 584, 585, 591, 592, 593, 595, 596, 597 Caproni, Giorgio, 139, 417 Capuana, Luigi, 50, 55, 70, 159, 160,161,162,176, 203, 204, 205, 206, 208, 211, 240, 242, 245, 442, 677, 678 Cardarelli, Vincenzo, 57 Carducci, Giosue, 44, 46, 60, 67, 97, 101, 110-130, 363, 364, 365, 376, 413, 471, 558, 560 Cavacchioli, Enrico, 536 Cavour, Camillo Benso, conte di, 72, 115, 565 Čechov, Anton, 315, 328, 329, 330, 526 Cena, Giovanni, 56 Chamisso, Adelbert von, 358, 677, 718 Champfleury (pseudonimo di Jules Fleury-Husson), 96 Charcot, Jean-Martin, 520, 681 Chiarelli, Luigi, 331, 737 Chiaves, Carlo, 558 Clair, René, 554 Collodi, Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini), 60, 67, 82, 87, 88, 528 Comte, Auguste, 62, 65, 68, 70 Conrad, Joseph, 51, 52, 53, 358, 515 Consolo, Vincenzo, 678 Contini, Gianfranco, 107, 380, 401, 414, 415, 585, 591 Copernico, Niccolò, 720 Coppola, Francis Ford, 53 Corazzini, Sergio, 416, 546, 558, 559, 560, 561 Corradini, Enrico, 523 Costa, Andrea, 364 Courbet, Gustave, 76, 96, 240 Crialese, Emanuele, 410 Crispi, Francesco, 40, 108, 115 Croce, Benedetto, 206, 415, 522, 523, 524, 686, 765

D D’Annunzio, Gabriele, 48, 59, 60, 64, 69, 70, 71, 75,168, 277, 331, 336, 348, 426-506, 507, 515, 516, 560, 565, 568, 596, 707, 709, 742 Daguerre, Louis, 43 Dalí, Salvador, 521, 554 Darwin, Charles, 62, 63, 70, 769 De Amicis, Edmondo, 51, 60, 67, 75, 82, 83, 84, 87, 90, 411,426, 528 De Carolis, Adolfo, 465, 467 De Marchi, Emilio, 160 De Robertis, Giuseppe, 524, 584 De Roberto, Federico, 42, 55, 70, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 204, 205, 604, 707 De Sanctis, Francesco, 153, 208, 211 Debenedetti, Giacomo, 209, 262, 621, 624, 627, 628, 629 Debussy, Claude, 343, 346 Deledda, Grazia, 75, 160, 176, 177, 178 di Giacomo, Salvatore, 331 Di Silvestro, Antonio, 246 Diderot, Denis, 114 Dix, Otto, 551 Döblin, Alfred, 551 Dossi, Carlo, 67, 94, 97, 102, 107, 108 Dostoevskij, Fëdor, 70, 186, 192, 193, 194, 455,769 Douglas, Alfred, 354, Dreyfus, Alfred, 150, 211, 647 Duchamp, Marcel, 552 Duse, Eleonora, 205, 318, 430, 462, 468, 481, 484 Duval, Jeanne, 132

E Edschmid, Kasimir, 551 Einstein, Albert, 518, 634 Eliot, Thomas Stearns, 50, 134, 137, 654, 659 Engels, Friedrich, 65, 198, 532 Enrico IV (imperatore), 741 Enzo (re), 376 Eschilo, 432, 468

F Faldella, Giovanni, 102, 107 Farina, Salvatore, 102, 208, 212 Federico II (imperatore), 376 Fenoglio, Giuseppe (Beppe), 301 Fielding, Henry, 655 Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo), 550 Fitzgerald, Francis Scott, 654 Flaubert, Gustave, 68,133, 146, 158, 160, 769 Fogazzaro, Antonio, 71, 75, 160, 161, 168, 169, 170, 171, 206, 277, 336, 688 Fojanesi, Giselda, 204

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Fòlgore, Luciano (pseudonimo di Omero Vecchi), 535, 536 Fontane, Theodor, 54 Foscolo, Ugo, 69, 97, 102, 112 Francesco Giuseppe (imperatore), 666 Francesco, san, 484 Franchetti, Leopoldo, 204, 244 Freud, Sigmund, 49, 66, 518, 519, 520, 521, 554, 606, 607, 616, 617, 620, 636, 659, 681, 720, 764, 765, 766, 767, 769, 770,772, 785, 786 Fucini, Renato, 160

G Gadda, Carlo Emilio, 67, 95, 97, 107, 521, 552 Gallina, Giacinto, 331 Gandhi, Mohandas Karamchand, 187, 188 Gardair, Jean-Michel, 674, 722 Garibaldi, Giuseppe, 202, 376 Gesù Cristo, 134, 192, 366, 446 Giacosa, Giuseppe, 94, 96, 168, 205, 331 Gibellini, Pietro, 492, 499 Gioanola, Elio, 97, 364, 722, 790 Gioberti, Vincenzo, 115 Goethe, Johann Wolfgang von, 54, 638, 677, 764, 765 Gogol’, Nikolaj, 186 Goldoni, Carlo, 314, 526 Goloubeff, Nathalie de, 431 Goncourt, Edmond de, 146, 147, 148, 354 Goncourt, Jules de, 146, 147, 148, 354 Gorkij, Maksim, 316 Govoni, Corrado, 536, 546, 558 Gozzano, Guido, 416, 499, 525, 558, 559, 560, 565, 566, 567, 568, 569, 580, 583 Graf, Arturo, 565 Grosz, George, 551, Guglielminetti, Amalia, 565, 568

H Hardouin, Maria, duchessa di Gallese, 429, 444, Hauptmann, Gerhart J.R., 316 Haussmann, George, 49 Hemingway, Ernest, 654 Hérelle, Georges, 430 Heym, Georg, 551 Hitler, Adolf, 665, Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 355, 358, 677, 718 Huysmans, Joris-Karl, 59, 68, 71, 146, 336, 348, 349, 350, 351, 353, 354, 434, 443

I Ibsen, Henrik, 57, 315, 316, 317, 318, 319, 327, 328, 330, 526, 769 Illica, Luigi, 96 Imbriani, Vittorio, 107

Invernizio, Carolina, 528 Isella, Dante, 97, 107

J Jacopone da Todi, 587 Jahier, Piero, 584, 585, 604 Jahier, Valerio, 770, 785 James, William, 523, 607, 623, 637 Jammes, Francis, 560, 565 Jesenka, Milena, 608 Jiménez, Juan Ramón, 347 Jovine, Francesco, 301 Joyce, James, 50, 193, 518, 525, 634, 635, 636, 637, 653, 654, 655, 656, 657, 767, 768, 785, 793

K Kafka, Franz, 193, 521, 525, 526, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 611, 613, 616, 617, 618, 620, 629, 634, 635, 636, 676, 766, 770 Kant, Immanuel, 682 Keats, John, 55 Kierkegaard, Søren, 616 Klimt, Gustav, 49 Kokoschka, Oskar, 49 Kubin, Alfred, 551

Marconi, Guglielmo, 43 Marenco, Romualdo, 205 Marinetti, Filippo Tommaso, 49, 498, 514, 525, 532, 534, 535, 536, 537, 540, 543, 547, 550 Martini, Fausto Maria, 558 Martoglio, Nino, 736 Marx, Karl, 39, 65, 554, 769 Mascagni, Pietro, 206, 332 Matteotti, Giacomo, 679 Maupassant, Guy de, 44, 54, 146, 157, 158, 224, 358, 769, 770 Mazzini, Giuseppe, 114, 115, 376 McCarthy, Joseph, 638 Mengaldo, Pier Vincenzo, 499, 587, 591 Michelet, Jules, 114 Miró, Joan, 554 Modigliani, Amedeo, 49 Montale, Eugenio, 137, 416, 417, 499, 559, 560, 564, 568, 583, 585, 597, 768, 788 Morandini, Morando, 53 Moravia, Alberto (pseudonimo di Alberto Pincherle), 720 Moravia, Allegra, 765 Moréas, Jean, 338, 346 Moreau, Gustave, 349 Moretti, Marino, 547, 558, 559, 560, 564 Moretti, Franco, 656 Morse, Samuel, 43 Munch, Edvard, 529, 551 Murger, Henri, 96 Musco, Angelo, 736 Musil, Robert, 193, 634, 635, 636, 665, 667, 668, 670, 766, 772 Mussolini, Benito, 40, 432, 513, 524, 679

L Laforgue, Jules, 560 Leoncavallo, Ruggero, 332 Leoni, Barbara, 444, 456, 471 Leopardi, Giacomo, 69, 112, 136, 367, 370, 395, 401, 417, 565, 568, 597 Lombroso, Cesare, 55, 63, 64 London, Jack, 205 Lumière, fratelli, 43 Luperini, Romano, 225, 242, 245, 262, 263, 418, 683, 722, 743 Lussu, Emilio, 707

M Macchia, Giovanni, 738, 739 Mach, Ernst, 518, 665, 766 Machado, Antonio, 347 Machiavelli, Niccolò, 301 Maeterlinck, Maurice, 472, 560 Magris, Claudio, 665, 766 Magritte, René, 521, 554 Mahler, Gustav, 49, 766 Majakovskij, Vladimir, 536, 545, 604 Mallarmé, Stéphane, 69, 134, 136, 336, 338, 339, 340, 346, 347 Manet, Edouard, 346 Mann, Thomas, 337, 456, 525, 634, 635, 636, 637, 638, 639, 640, 644, 770, 790 Manzoni, Alessandro, 72, 73, 95, 97, 108, 168, 187, 203, 209, 739 Manzotti, Luigi, 205

N Nadar (pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon), 43, 77 Nemirovič-Dančenko, Vladimir Ivanovič, 315 Nicola I, zar, 186 Nietzsche, Friedrich, 56, 66, 71, 430, 436, 442, 456, 457, 460, 471, 479, 492, 519, 523, 534, 565, 568, 643, 666, 677, 764, 769, 791 Nievo, Ippolito, 722 Novalis (pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg), 54, 135, 339, 341

O Occioni, Onorato, 677 Ojetti, Ugo, 75, 435 Orazio, 116, 414 Ovidio, 129, 479, 490

P Palagi, Emma, 621 Palazzeschi, Aldo (pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani), 536, 546, 547, 548, 558, 564

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Paola Verdura, Salvatore, 204, 208, 214, 240 Papini, Giovanni, 57, 498, 523, 524, 536, 546, 547, 592, 604 Pascoli, Giovanni, 60, 69, 110, 336, 360421, 422, 464, 521, 558, 560 Pasolini, Pier Paolo, 415, 416, 417 Pater, Walter, 349, 353, 413 Perrault, Charles, 87 Petrarca, Francesco, 401, 565, 566, 568, 765 Picasso, Pablo, 547 Pindaro, 432 Pirandello, Luigi, 44, 50, 55, 70, 73, 193, 200, 206, 277, 301, 317, 331, 337, 358, 521, 526, 527, 552, 604, 622, 634, 635, 636, 674-761 Platone, 370 Poe, Edgar Allan, 56, 132, 170, 346, 355, 358 Portulano, Antonietta, 677 Pound, Ezra, 654 Praga, Emilio, 44, 45, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 102 Pratesi, Mario, 160 Prati, Giovanni, 203 Prezzolini, Giuseppe, 523, 524, 584, 592, 596, 768 Pringsheim, Katija, 637 Proudhon, Pierre-Joseph, 114 Proust, Marcel, 518, 525, 634, 635, 645, 646, 647, 648, 649, 653, 654, 661 Puccini, Giacomo, 96, 332 Puškin, Aleksandr, 186

Q Quasimodo, Salvatore, 678

R Rapisardi, Mario, 204 Rathenau, W. Walther, 637 Rebora, Clemente, 50, 524, 525, 552, 584, 585, 586, 587, 588, 597, 604 Remarque, Erich Maria (pseudonimo di Erich Paul Remark), 604 Ricci-Gramito, Caterina, 676 Rilke, Rainer Maria, 50, 187, 766 Rimbaud, Arthur, 59, 69, 135, 136, 336, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 347, 560, 585, 591, 592, 593 Roda, Vittorio, 444 Rodenbach, Georges, 560 Rodin, Auguste, 346 Rosso di San Secondo, Pier Maria, 737 Roth, Joseph, 49, 634 Rousseau, Jean-Jacques, 114 Rovani, Giuseppe, 94, 95 Rudinì, Alessandra, marchesa di, 430 Ruskin, John, 353, 370, 645 Russo, Luigi, 245, 262, 265, 301

S Saba, Umberto (pseudonimo di Umberto Poli), 416, 417, 524, 768, 785 Sacchetti, Roberto, 94, 98, 161, 200 Salvemini, Gaetano, 523, 524 Sandrelli, Stefania, 624 Sanguineti, Edoardo, 568, 591 Sanzio, Ippolita, 457, 459 Sartorio, Giulio Aristide, 435 Savinio, Alberto (pseudonimo di Andrea de Chirico), 49, 554 Sbarbaro, Camillo, 50, 416, 524, 525, 584, 585, 596, 597, 598, 602 Schiele, Egon, 49 Schiller, Friedrich, 765 Schmitz, Aron Hector/Ettore: vedi Italo Svevo Schönberg, Arnold, 49, 551, 766 Schopenhauer, Arthur, 66, 565, 764, 765, 769, 770, 771, 772, 778 Senardi, Fulvio, 429, 444, 498, 499 Serao, Matilde, 160, 168 Serra, Renato, 524, 699 Shakespeare, William, 330 Shaw, George Bernard, 330, 515, 768 Silone, Ignazio (pseudonimo di Secondo Tranquilli), 301 Slataper, Scipio, 585 Soffici, Ardengo, 498, 523, 536, 547, 592 Sofocle, 468, 520, 606 Soldati, Mario, 169 Sonnino, Sidney, 204, 244 Spencer, Herbert, 64 Spinazzola, Vittorio, 528 Stanislavskij, Konstantin Sergeevič, 315, 316, 329 Stein, Gertrude, 654 Stendhal (pseudonimo di Marie-Henri Beyle), 771 Stephen, Leslie, 659 Sterne, Laurence, 682, 714, 785 Stramm, August, 551 Strauss, Johann figlio, 49 Strauss, Johann padre, 766 Strindberg, August, 56, 205, 315, 327, 328, 526 Stuparich, Giani, 762 Svevo, Italo (pseudonimo di Aron Hector/Ettore Schmitz), 70, 193, 337, 518, 521, 526, 634, 635, 637, 653, 656, 762-812, 813 Swift, Jonathan, 785

T Taine, Hippolyte, 146, 147, 148 Tarchetti, Iginio Ugo, 55, 67, 94, 97, 101, 102, 103, 105, 168 Testori, Giovanni, 587 Tilgher, Adriano, 743 Tolstoj, Lev, 44, 54, 57, 70, 186, 187, 188, 455, 656, 770 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 164, 456, 707

Tozzi, Federigo, 301, 521, 526, 552, 606, 607, 621, 622, 623, 624, 625, 627, 628, 629, 676, 720, 790 Traina, Alfonso, 414 Trakl, Georg, 551 Tzara, Tristan, 552, 553, 554

U Umberto I, re, 376 Ungaretti, Giuseppe, 49, 416, 417, 499, 524, 604

V Valéry, Paul, 134, 346, 347 Valgimigli, Manara, 360 Van Gogh, Vincent, 551 Veneziani, Bruno, 767 Veneziani, Livia, 767, 770 Verdi, Giuseppe, 332, 476 Verga, Giovanni, 43, 44, 50, 59, 63, 70, 71, 159, 160, 161, 162, 163, 170, 200307, 308, 331, 376, 442, 456, 527, 628, 678, 682, 689, 690, 706, 707, Verlaine, Paul, 59, 69, 136, 336, 338, 339, 340, 341, 343, 344, 346, 354, 433, 472, 560, 564, 592 Veruda, Umberto, 766, 779 Virgilio, 382, 401, 414 Visconti, Luchino, 98, 102, 301, 456, 638 Vittorini, Elio, 678, 768 Voghera, Giorgio, 762 Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet), 114

W Wagner, Wilhelm Richard, 332, 456, 462 Weiss, Edoardo, 767 Wilde, Oscar, 56, 59, 71, 330, 336, 348, 349, 350, 353, 354, 355, 434 Winckelmann, Johann Joachim, 66 Woolf, Leonard, 659 Woolf, Virginia, 518, 525, 634, 635, 636, 659, 661, 662, 664

Y Yeats, Willliam, 347

Z Zena, Remigio, 160 Zola, Émile, 44, 50, 54, 70, 75, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 153, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 204, 205, 207, 208, 210, 211, 276, 316, 318, 349, 514, 769 Zucconi, Giselda (Lalla), 428

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Glossario A Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine. Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”) La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri). Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”. Agnizione Riconoscimento (specialmente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio. Alessandrino Verso della tradizione poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese). Allegoria Figura retorica tramite la quale il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive.

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Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII). Allocuzione ➜ Apostrofe Anacoluto Costrutto in cui la seconda parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI). Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi). Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica. Anadiplòsi Figura retorica che consiste nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66). Anàfora Ripetizione di una o più parole all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3). Analessi (anche ➜ flashback) In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi. Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura retorica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11). Anfibologìa Espressione che può prestarsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semanti-

co o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola). Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia intendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra). Antonimìa Figura retorica che consiste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134). Antonomàsia Sostituzione del nome proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne. Antropomorfismo Tendenza ad assegnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie. Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”. Apografo Manoscritto che è copia diretta di un testo originale. Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi direttamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76). Asindeto Forma di coordinazione realizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci im-

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prese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso). Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco. Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica) Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.

B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedute da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari. Bestiario Trattato medievale in cui venivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici. Bildungsroman ➜ Romanzo di formazione Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappresenta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana. Bucolica ➜ Egloga

C Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base. Canone L’insieme degli autori e delle opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Per-

tanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via. Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epicocavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV. Canzone Forma metrica caratterizzata dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici. Catarsi Secondo Aristotele, la liberazione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni. Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso. Chiasmo Figura retorica che consiste nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134).

Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico. Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo. Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva. Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente. Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione. Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono. Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato secondario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo.

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Consonanza Sorta di rima in cui si ripetono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa. Contaminazione Nella critica testuale l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria. Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva. Coppia sinonimica (o dittologia sinonimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo. Corpus L’insieme delle opere di un singolo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema. Correlativo oggettivo Concetto poetico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta. Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spaziotemporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto. Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).

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D Dedicatoria Lettera o epigrafe anteposta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata. Deittico Elemento linguistico che indica la collocazione spaziotemporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani). Denotazione Indica il significato primario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione. Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”. Diacronia Indica la valutazione dei fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia). Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74). Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi). Dieresi In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13). Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica

E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si propone di presentare un testo nella forma più possibi-

le conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa. Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale. Elegia Nella letteratura classica componimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico. Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo). Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura. Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami. Endecasillabo È il verso di undici sillabe, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati. Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77).

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Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito). Entrelacement È la tecnica di costruzione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enumerazione Figura retorica che consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141). Epanadiplòsi Figura retorica che consiste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria). Epanalèssi (o geminatio) Figura retorica che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10). Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143). Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale.

Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce. Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico. Esegesi Interpretazione critica di un testo. Etimologia Disciplina che studia l’origine e la storia delle parole. Eufemismo Figura retorica che consiste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”. Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale. Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.

F Fabula La successione logico-temporale degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio. Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della parola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale. Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stre-

am of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore. Fonema La più piccola unità di suono che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”. Fonetica Indica sia la branca della linguistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua. Fonosimbolismo Espediente stilistico-retorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera. Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.

G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi Glossa Annotazione esplicativa o interpretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe. Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.

H Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola

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che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore. Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).

I Iato Fenomeno per cui due vocali contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe. Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri. Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua. Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro. Inquadramento ➜ Epanadiplosi Intreccio La successione degli eventi così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logicotemporale (come la ➜ fabula). Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iper-

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bato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro). Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero eccessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro. Ipòmetro ➜ Ipermetro Ipostasi ➜ Personificazione Ipotassi Costruzione del periodo fondata sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi. Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66). Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.

K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.

L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo. Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera. Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia.

Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni. Lezione (lat. lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile. Litote Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”. Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.

M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”. Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa. Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.

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Metaromanzo Romanzo che riflette sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo. Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”. Metàtesi Spostamento di fonemi all’interno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”. Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”. Mimesi Secondo la concezione estetica classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi. Monologo interiore Rappresentazione dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.

N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova

accezione di un vocabolo già esistente. Nominale (stile nominale) Particolare organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.

O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti. Onomatopea Figura d’imitazione volta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera). Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.

P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza. Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc. Paratassi Costruzione del periodo fondata sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi.

Parodia Imitazione di un autore, di un testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico. Paronomàsia (o bisticcio o annominazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata). Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia. Perifrasi Figura retorica che consiste nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte. Personificazione (o prosopopea) Figura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata). Piede Nella metrica classica la più piccola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone. Pleonasmo Elemento linguistico superfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi). Plurilinguismo L’uso in un testo letterario di diversi registri linguisti-

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ci ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda. Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile. Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25). Polisemia La compresenza di due o più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.). Polisindeto: forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso). Prolessi Anticipazione di un elemento del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze). Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in cui l’autore espone l’argomento dell’opera.

Q Quartina È la strofa composta di quattro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.

R Rapportatio Tecnica compositiva artificiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali. Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere, il livello espressivo proprio

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di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere. Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio). Ritornello o refrain Verso o gruppo di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa. Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.

S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fittizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca.

Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il significante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno. Sillogismo Tipo di ragionamento, codificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione). Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia. Similitudine Figura retorica che consiste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”, “tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie). Sinalèfe In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca). Sincope Caduta di una vocale all’interno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”.

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Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia). Sinèddoche Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”. Sinèresi In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46). Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera). Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc. Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo

schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Spannung (ted. “tensione”) termine che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione. Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa. Strofa (o strofe o stanza) All’interno di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine. Summa Termine con cui nel medioevo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).

T Tenzone Termine derivante dal provenzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso. Terza rima ➜ Terzina a rime incatenate. Terzina a rime incatenate È il metro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”.

Testimone In filologia ogni libro antico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale. Tmesi Divisione di una parola composta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio). Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica. Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ovvero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature). Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc. Tropo ➜ Traslato

V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc. Variatio (o variazione) Artificio retorico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi. Variazione ➜ Variatio

Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.

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LESSICO

Spleen 133 modernismo 169 Le parole chiave della poetica verghiana 209 panismo 480 avanguardia 532 kafkiano 617 Mitteleuropa 634

PER APPROFONDIRE

umorismo 682 grottesco 737 personaggio 740 razionalizzazione 772

PAROLA CHIAVE

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Belle Époque 42 online Le rivoluzionarie scoperte

in campo medico-biologico online I grandi magazzini: dalla civiltà del “risparmio” alla civiltà dei consumi I romanzi di avventura nei nuovi mondi 52 online La fortuna del personaggio di Salomè online I volti nuovi del femminile Una teoria scandalosa: l’inquietante parentela tra l’uomo e la scimmia 63 L’antropologia criminale di Lombroso 64 Milano, capitale dell’editoria 75 La bohème 96 online Dossi e la «linea lombarda» online Baudelaire e il Quarantotto online I «paradisi artificiali» e gli artisti Leopardi e Baudelaire 136 Il caso Dreyfus e il coraggioso articolo di Zola 150 online Il romanzo parlamentare online Tolstoj e Gandhi online La tecnica dello straniamento: Cholstomer online Il Ballo Excelsior: una rappresentazione allegorica del mondo moderno Verga e la fotografia 205 Verismo vs Naturalismo: Verga e Zola a confronto 211 online Metamorfosi di una novella: Cavalleria rusticana a teatro La conclusione problematica del romanzo 262 online Il racconto di Verga e i fatti storici della rivolta di Bronte online IIl metodo Stanislavskij: verso la moderna recitazione online L’immagine del “giardino dei ciliegi” nell’interpretazione di Strehler

forma 682 pirandelliano 682 salute 790 alibi 790

online I «paradisi artificiali» e gli artisti online Il Simbolismo e la poesia italiana

tra Ottocento e Novecento online Dai preraffaelliti a Walter Pater:

verso l’Estetismo Un processo scandaloso 354 Il tema del “doppio” 358 online Il doppio e il cinema Un’interpretazione psicoanalitica 364 Alle radici del “fanciullino” pascoliano: possibili fonti e consonanze 370 Pascoli poeta “vate” 376 online Una lettera di Pasolini al suo docente di letteratura italiana Carlo Calcaterra Un brillante cronista mondano 429 D’Annunzio e le donne 430 D’Annunzio eroe di guerra 432 online Il Vittoriale D’Annunzio imprenditore di sé stesso 435 La “strofa lunga” 476 Il “francescanesimo” di D’Annunzio 484 D’Annunzio e il mito 492 Da teoria contestata a codice culturale 521 chiave del Novecento online Cinema e psicoanalisi La cucina futurista 550 L’espressionismo di Rebora 558 online Sebastiano Vassalli Ricercando Dino Campana online Da Il più lungo giorno ai Canti orfici online Immagini dal fronte: la Grande Guerra al cinema Il declino del Padre-normativo nella società moderna 606 online La cultura yiddish Praga mitteleuropea, città dell’ebraismo e della magia 610

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La metamorfosi come “antifiaba” Il chassidismo La letteratura mitteleuropea L’influenza di Nietzsche The Hours: dal romanzo al film Pirandello e la Sicilia 678 online Pirandello e il cinema Pirandello e il fascismo 679 La distanza della narrativa pirandelliana 690 da quella naturalista e verista Il discorso indiretto libero nella narrativa pirandelliana 690 online Pirandello e il viaggio in treno online Pirandello e il cinema L’immagine dello specchio 718 online Mattia Pascal: solo un nome bizzarro? online online online online online

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del “personaggio in cerca d’autore La Mitteleuropa 766 online Un inedito “curriculum vitae” di Italo Svevo online Cinema e psicoanalisi Un riassunto “d’autore”: Montale sintetizza La coscienza di Zeno 788 La teoria dell’“abbozzo” di uomo: un’interpretazione originale della teoria darwiniana 791 Il flusso di coscienza di Joyce e il monologo di Zeno 793 online Psicoanalisi e umorismo ebraico: Zeno e Woody Allen Giovanni Pascoli Il poeta “fanciullino” Il fanciullino I, III, XI

online Luigi Capuana

EDUCAZIONE CIVICA

L’ossessione del doppio online Il tema del doppio nel cinema online Spiriti e personaggi: la lunga storia

Un tempio per la civiltà moderna: la Galleria di Milano Milano 1881 La battaglia per i diritti delle donne 56 Sibilla Aleramo La presa di coscienza di una donna Una donna, cap. XXII

57

Giosue Carducci Dinanzi alle Terme di Caracalla Odi barbare, IV

120

Émile Zola Nanà, protagonista di un mondo degradato L’Assommoir 153 online Michela Murgia

Le maledizioni dell’accabadora Accabadora online Charles Dickens

La “città del carbone” Tempi difficili Giovanni Verga La presentazione del Ciclo dei vinti e il tema del progresso I Malavoglia, Prefazione 221 Giovanni Verga Rosso Malpelo Vita dei campi 227 online Giovanni Verga

Cavalleria rusticana Vita dei campi Giovanni Verga Il dramma interiore di un “vinto” Mastro-don Gesualdo I, IV

282

Henrik Ibsen La ribellione di Nora Casa di bambola, atto III

319

371

online Giovanni Pascoli

«La grande Proletaria si è mossa» Discorso a Barga Giovanni Pascoli Italy Primi poemetti 406 La difficile condizione dell’emigrante 411 Gabriele D’Annunzio Il compito dei poeti Le vergini delle rocce 439 online Gabriele D’Annunzio

Il parricidio La figlia di Iorio atto II, scene VII-VIII

536

Gabriele D’Annunzio «Alba delle città terribili» Laudi, Maia, vv. 295-315

477

Valentine de Saint-Point Ogni donna deve possedere «delle qualità virili» Manifesto della donna futurista 544 online Guido Gozzano

Alle soglie I colloqui, strofe I e III Franz Kafka Il labirinto della giustizia Il processo, cap. II (Primo interrogatorio)

618

Luigi Pirandello Il treno ha fischiato Novelle per un anno, IV (L’uomo solo) 698 Luigi Pirandello Contro la civiltà delle macchine Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno I, cap. II

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Luigi Pirandello La scoperta dell’estraneo Uno, nessuno e centomila, libro I, cap. IV

715

Luigi Pirandello Una scena irrappresentabile Sei personaggi in cerca d’autore 745

LEGGERE LE EMOZIONI

Luigi Pirandello Follia e chiaroveggenza Enrico IV, atto II

138

142

251

Franz Kafka La trasformazione di Gregor La metamorfosi 613

288

Marcel Proust L’esempio più celebre della “memoria involontaria” Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann 649

Giovanni Verga Addio alla casa del nespolo Giovanni Verga La morte di Gesualdo Giovanni Pascoli Lavandare Myricae 384 X agosto Myricae 385 Giovanni Pascoli Digitale purpurea Primi poemetti 402 Gabriele D’Annunzio Tra Elena e Maria: l’immagine della «terza Amante ideale»

Luigi Pirandello La scoperta dell’estraneo Uno, nessuno e centomila, libro I, cap. IV

715

Luigi Pirandello Follia e chiaroveggenza Enrico IV, atto II

752

online Italo Svevo

452

Gabriele D’Annunzio Le prime parole tracciate nelle tenebre Notturno 465 Gabriele D’Annunzio La pioggia nel pineto Alcyone 485 Aldo Palazzeschi Lasciatemi divertire L’incendiario 548

830

Luigi Pirandello La carriola Novelle per un anno, La carriola 691 Luigi Pirandello Il treno ha fischiato Novelle per un anno, IV (L’uomo solo) 698

Giovanni Pascoli

Il piacere, III, III

A Cesena Il giardino dei frutti «Mentre essi continuavano a scrivere e parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi» Niente di nuovo sul fronte occidentale, 10

Spleen

Mastro-don Gesualdo IV, V

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online Erich Maria Remarque

Charles Baudelaire

I Malavoglia, IX

Italo Svevo «La vita attuale è inquinata alle radici»: un finale inquietante La coscienza di Zeno, VIII

online Marino Moretti

L’albatro

I fiori del male, Spleen e ideale, LXXVIII

780

752

Charles Baudelaire I fiori del male, Spleen e ideale, II

Italo Svevo Il ritratto di Emilio Brentani Senilità, I

Psicoanalisi e letteratura Lettere Italo Svevo Alfonso e Macario a confronto: l’inetto e il “lottatore” Una vita, VIII 773 online Italo Svevo

L’epilogo del romanzo Senilità, XIV Italo Svevo Il fumo come alibi La coscienza di Zeno, III

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SGUARDI

Verso l’esame di Stato

Sul cinema Apocalypse now Pinocchio tra letteratura e cinema L’ufficiale e la spia Mario Soldati interprete di Fogazzaro I temi dostoevskijani nei film di Woody Allen: Crimini e misfatti e Match Point La terra trema, di Visconti Nuovomondo, il film online «Un erede moderno di Andrea Sperelli» L’innocente, di Luchino Visconti online Il cinema espressionista online La Grande Guerra al cinema online Il film Delitti e segreti (1991), di Steven Soderbergh, è una libera rievocazione della vita e delle opere di Kafka online Il processo di Orson Welles Con gli occhi chiusi, il film online Luchino Visconti, Morte a Venezia The Hours: dal romanzo al film online Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick

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online online online online online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 80 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 86

410 456

624 664

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 423 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 425

online Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 507

online Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 507

letterario italiano letterario

online Tipologia C Riflessione critica di carattere

espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

online Tipologia B Analisi e interpretazione di un testo argomentativo Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 308 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 311 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 312 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 327 Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo 422 letterario italiano

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 508 Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 602 online Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo

letterario italiano

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 756 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 757 Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 813 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 815

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Conoscere gli obiettivi dell’Agenda 2030 per un futuro sostenibile Il 2030 è la data che l’ONU ha indicato come traguardo per il raggiungimento dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame nel mondo, il contrasto al cambiamento climatico, la parità di genere, l’istruzione di qualità – per citarne solo alcuni. ‘Obiettivi comuni’ significa che essi riguardano tutti i Paesi e tutti gli individui: nessuno ne è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino necessario per portare il mondo sulla strada della sostenibilità. Nei volumi del Gruppo Editoriale ELi le tematiche legate all’Agenda 2030 vengono affrontate in modo coinvolgente e costruttivo, attraverso testi, attività, video e immagini volti a sensibilizzare la classe a una comprensione più attenta e critica di ciò che succede nel mondo. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa il nostro impegno nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili di uno sviluppo sostenibile.

equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere

La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI

attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;

IMMAGINI

valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;

LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.

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