Noi c'eravamo

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Flores Ticci

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Alda Merini

N O I C ’ E R AVA M O noi c ’ eravamo

«Il manicomio è senz’altro un’istituzione falsa, una di quelle istituzioni che, create sotto l’egida della fratellanza e della comprensione umana, altro non servono che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo. E noi eravamo le vittime innocenti di queste istituzioni.»

Gino Civitelli

Ha fatto parte del Servizio Sociale dell’Ospedale Psichiatrico di Siena dal 1972 al 1995. In seguito ha lavorato in vari presidi distrettuali della azienda USL concludendo poi il proprio iter professionale a fine anno 2007 in una unità operativa dei Servizio Sociale zonale. Attualmente ha l’incarico di vice delegata per l’Archivio e Documentazione Storica di Contrada.

Gino Civitelli

edizioni cantagalli

storie e personaggi del manicomio di Siena

Gino Civitelli Nato a Buonconvento nel 1947. Nel 1970 entra come infermiere all’Ospedale Psichiatrico San Niccolò. Dal 1978 insegna alla Scuola Regionale per operatori psichiatrici di Viterbo fondata da Giovanni Jervis. Fra i fondatori di Psichiatria Democratica a Siena, partecipa all’esperienza del reparto Montemaggio e della Cooperativa Riuscita Sociale. Autore di numerose pubblicazioni fra cui: Arrigo VII di Lussemburgo da Aquisgrana a Buonconvento, Quando s’era contadini, Guerra in Valdarbia, Rigosecco, un episodio di lotta partigiana, Le idee e gli anni, Quando si moriva per nasce, Tabacco e tabacchine in Val d’Arbia, Monteroni d’Arbia. Duecento anni di storia.



Gino Civitelli

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Flores Ticci

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storie e personaggi del manicomio di Siena

Storie e personaggi del manicomio di Siena

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a cura di

Gino Civitelli - Flores Ticci n o i

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storie e personaggi del manicomio di Siena

Progetto grafico e realizzazione

Elicona Società Cooperativa - Siena Impaginazione

Ippolita Lorusso Editing testi

Piero Capretti con la collaborazione di

Marina Giordano, Silvia Pratelli Testimonianze di

Eleonora Lorenzini, Anna Rubbioli Inoltre, le testimonianze riportate da pag. 197 a pag. 202 sono pubblicate in: G. Morandini, … E allora mi hanno rinchiusa, Bompiani, Milano, 1977 Le foto del Fondo Malandrini sono di proprietà della Fondazione Monte dei Paschi di Siena che ne detiene tutti i diritti. Alcuni nomi dei personaggi del libro sono stati cambiati per esigenze di riservatezza. In copertina

Ospedale San Niccolò, Reparto Conolly particolare della serratura

Stampato nel mese di Settembre 2011 Edizioni Cantagalli - Siena

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di

Gino Civitelli

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A. Bechetti, Facciata del nuovo Manicomio di Siena, anno 1875. Incisione tratta da un acquarello di A. Marchi

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Prospetto dell’edificio centrale, che guardava verso Porta Romana, del vecchio manicomio di San Niccolò, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

Prospetto dell’edificio centrale del nuovo manicomio di San Niccolò (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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UNA CHIUSURA TARDIVA

L’Ospedale Psichiatrico San Niccolò di Siena è stato chiuso il 30 settembre 1999. L’ultimo della Toscana. La sua chiusura è avvenuta solo in seguito a una scadenza irrimandabile, a un’incombenza obbligata da una legge per molti anni disattesa. Non è stato al termine di un processo che, avendo coinvolto amministratori, tecnici e cittadini, avesse portato a una presa di coscienza del suo unico ruolo: custodia e segregazione. Tutto si è svolto in modo molto "naturale": dagli 879 ricoverati del 1978, al momento dell’entrata in vigore della legge 180, si era arrivati a 283, nei primi di Gennaio del 1996. Questa diminuzione, com’è stato scritto, non era dovuta a dimissioni realmente effettuate ma, più che altro, ai decessi. Si è quindi avverata la provocatoria profezia dell’assessore provinciale alla sanità Augusto Gerola, il quale aveva previsto, negli anni ’70, la fine dell’ospedale quando la morte dell’ultimo degente sarebbe coincisa con il pensionamento dell’ultimo infermiere. Siena, quindi, contrariamente ad Arezzo e ad altre realtà in cui il processo di superamento era iniziato venti anni prima, ha "resistito" fino all’ultimo alla chiusura, incurante della legge che prevedeva la creazione di servizi territoriali e strutture alternative. Nella relazione del Convegno "Chiudere i manicomi per non aprirne di nuovi" del gennaio 1996, emergeva «[...] la mancanza da parte degli operatori del San Niccolò di qualunque progetto organico per la sua chiusura» e nel 1997, nella successiva indagine da parte della Commissione regionale, si rilevava come fosse ancora «[...] presente e attiva una cultura di tipo manicomiale che comporta l’oggettivizzazione dei degenti pur con una coscienziosa attenzione alla loro gestione materiale». Storie e personaggi del manicomio di Siena

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Lato posteriore del San Niccolò, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

Veduta posteriore del nuovo edificio centrale (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Chi legge queste parole potrebbe concludere che tutti gli operatori dell’Ospedale, ai vari livelli e allo stesso modo, abbiano condiviso e sostenuto l’istituzione manicomiale, ma così non è stato e sarebbe un grave errore non ricordare ciò che in realtà è avvenuto. A Siena, per anni, un gruppo numeroso d’infermieri, assistenti sociali e impiegati ha lottato dall’interno, con coraggio e coerenza, contro il manicomio e la sua logica. Non avendo purtroppo mai ricevuto alcun appoggio dai vari Direttori, medici, e, soprattutto, dai partiti politici, ha visto frustrati tutti i suoi sforzi di rinnovamento. L’impegno di queste persone, le loro iniziative portate avanti in modo esemplare, i pochi ma significativi successi ottenuti, sono stati "dimenticati" anche nella minuziosa relazione di chiusura del dott. Bondioli. A oltre dieci anni dalla sua chiusura, l’Ospedale di San Niccolò quasi non si riconosce più. Se a Firenze, Lucca, Volterra e altrove si è cercato di mantenere qualche testimonianza del passato, un luogo simbolo, a Siena si cerca solo di dimenticare. Ma noi c’eravamo e continueremo a tenere viva la memoria di ciò che è stato.

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Ingresso del San Niccolò (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

La Farmacia del San Niccolò, anno 1930

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DALL’OFFICINA ALL’OSPEDALE

L’assemblea era stata convocata con un unico punto all’ordine del giorno: esame della situazione aziendale. Dietro quelle parole scarne e volutamente generiche sapevamo già di cosa si sarebbe parlato. Nella sala, nonostante fossero presenti quasi tutti i dipendenti, non si sentiva volare una mosca. «La Cooperativa attraversa un brutto momento, lo vedete anche voi, il lavoro è diminuito… per cui non c’è bisogno di fare tanti discorsi… per ora nessuno vi manderà via, ma almeno quelli più giovani, che non hanno ancora una famiglia, farebbero bene a cercarsi un’altra occupazione». Le parole del vecchio capofficina, pronunciate a voce bassa e con un velo di commozione, mi rimbombarono nelle orecchie per giorni più dei colpi di martello che Giorgino, il lattoniere, sferrava sull’incudine. Io ero fra i più giovani, avevo ventuno anni ma non ero né pesce né carne. Avendo frequentato l’Istituto Tecnico Sarrocchi non potevo essere apprendista ma, al tempo stesso, non avevo ancora le capacità di un operaio. Mi rendevo conto di essere "un peso" per la Cooperativa e questo mi faceva sentire in colpa. Però mi dispiaceva moltissimo andarmene perché mi ci trovavo bene, era il lavoro per cui avevo studiato, ma capivo anche che avrei dovuto trovare un’alternativa. Perciò, quando uscì il bando di concorso per l’ammissione alla scuola di sessanta infermieri psichiatrici, feci subito la domanda di ammissione.

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Atrio d’ingresso dell’edificio centrale, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

Il teatro del San Niccolò, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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IL CONCORSO

Alla prova scritta ci presentammo in oltre trecento candidati. Il tema da svolgere era intitolato: "Parlate della recente conquista della luna: attualità e prospettive". Mi ricordo di averlo svolto in modo molto critico. Non condividevo la corsa allo spazio scatenatasi fra le due superpotenze USA e URSS. Per me altro non era che l’ennesimo capitolo della guerra fredda e un inutile spreco di risorse, così lo conclusi ironizzando sul messaggio lasciato da Neil Armstrong sul suolo lunare. Un messaggio in cui non compariva la Cina, il Paese più popoloso della terra. Comunque superai la prima selezione e fui ammesso alla prova orale che consisteva in un colloquio su temi generali. Il luogo in cui si svolgeva era situato all’ultimo piano della Sede degli Esecutori di Pie Disposizioni. La sala d’aspetto non era molto grande, o forse eravamo troppi concorrenti, per cui molti dovettero attendere per le scale, seduti sui gradini o appoggiati alla pesante balaustra di ghisa. Ogni tanto si apriva la porta dell’ufficio in cui si trovava la commissione esaminatrice. Un impiegato chiamava per nome e cognome il candidato successivo mentre quello che usciva veniva subito circondato da noi ancora in attesa. Chiedevamo con apprensione le domande che gli avevano rivolto, chi erano gli esaminatori e quanto erano severi. Qualcuno scendeva le scale in fretta, senza dare nessuna spiegazione. Si capiva che non doveva essergli andata molto bene e per chi, come me, doveva ancora attendere, crescevano l’angoscia e la paura di essere esclusi.

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Se è una cosa normale provare certe sensazioni di fronte ad un esame qualsiasi, per me che stavo per perdere il lavoro, era ancora più drammatico. Rappresentava quasi un’ultima spiaggia, perciò, quando fu il mio turno, entrai nella stanza con la classica morsa allo stomaco e con un gran vuoto dentro la testa. Mi fecero accomodare a un tavolo in cui c’erano un uomo e una donna e questa, mi chiese senza tanti preamboli: «Chi ha scoperto l’America?» «Dicono Cristoforo Colombo», risposi sorpreso. Quel "dicono" quasi certamente mi salvò, perché l’esaminatrice rivolgendosi al collega esclamò: «Vedi che c’è almeno qualcuno che non risponde a pappagallo?» Le domande successive perciò riguardarono la possibilità che altri popoli potessero essere arrivati nel nuovo mondo prima di Colombo e mi sembrò che la prova prendesse una buona piega. Ma la mia sensazione positiva fu subito smontata dalla domanda che mi rivolse l’altro esaminatore: «Lei ha detto che Colombo partì da Palos, saprebbe dirmi in che regione della Spagna si trova e quali sono le altre?» Mi sentii come un pugile che, colpito, sta per finire al tappeto: non sapevo in che regione si trovasse Palos e delle altre province spagnole riuscii a ricordarne solo due o tre. L’uomo allora mi chiese: «Lei potrebbe fare il Presidente della Repubblica?» «Per ora», risposi, «avendo solo ventidue anni, mi accontenterei di fare l’infermiere psichiatrico, quando ne avrò cinquantacinque, si vedrà». I due abbozzarono un sorrisetto e con quello mi congedarono. Erano il professor Ponticelli e la dottoressa D’Argenio.

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IL CORSO

Nell’anno 1969 iniziarono le lezioni teoriche che si tenevano presso il teatro dell’Ospedale Psichiatrico S. Niccolò. Il locale era situato al secondo piano dell’edificio centrale: ricordo che aveva delle poltroncine di legno, a file sfalsate, poste di fronte al palcoscenico e allo schermo cinematografico. I docenti, tutti primari dell’Ospedale, si presentavano in camice bianco rivelando un’immagine paludata e autoritaria. Noi dovevamo alzarci in piedi e da quel momento iniziava una lezione di circa un’ora, durante la quale non erano ammesse osservazioni, domande né tantomeno la possibilità di interloquire. Questi medici avevano tutti una visione organicistica della

Paris Morgiani, Lezione di anatomia del prof. Guido Reale. Terracotta (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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La cucina, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

La cucina, anno 1930.

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psichiatria, perciò si basavano molto sul sistema nervoso e sulla fisiologia del cervello, adducendo al mancato funzionamento di quest’organo la causa principale di tutte le malattie mentali. Il libro di testo era il Manuale per gli infermieri dell’Ospedale Psichiatrico del Prof. Dott. Umberto De Giacomo. Già nelle prime pagine, dopo aver esaltato le cosiddette cure "biologiche della follia", affermava che lo scopo supremo della psichiatria moderna era quello di restituire i malati mentali come elementi parzialmente produttivi alla società umana e concludeva che «[…] l’aspirante infermiere deve effettuare un severo esame di coscienza, perché se la sua capacità di apprendere conoscenze numerose, difficili, complesse, non gli pare sufficiente, oppure se le sue condizioni fisiche non gli sembrano caratterizzate da quelle doti, non soltanto di energia muscolare, ma anche di agilità, di destrezza, di prontezza, che sono indispensabili in questo campo di lavoro, è meglio risparmiare il tempo e il denaro che costa la frequenza di questi corsi d’istruzione. Gli infermieri devono essere persone piene di coraggio, di quel freddo, sereno coraggio che deriva dalla coscienza della propria forza morale e della necessità di dover assolvere un sacro, anche se pericoloso dovere. Quello stesso spirito, con il quale i martiri cristiani e gli eroi del nostro Risorgimento nazionale o tanti soldati sui fronti di battaglia hanno affrontato addirittura la morte e non soltanto qualche pugno o qualche schiaffo… Gli infermieri devono essere avveduti […] quelli che conoscono pienamente l’arte sanno che tutti i malati vanno sorvegliati attimo per attimo […] quelli in apparenza più calmi e più lucidi sono poi quelli che sanno architettare, magari in pochi attimi, audacissime imprese di evasione o di violenza […]. Se però la missione degli infermieri è una missione aspra, difficile e pericolosa da molti punti di vista, essa è tuttavia illuminata da una luce ideale che s’intensifica sempre di più col progredire». Cominciava così, a livello teorico, quello che in seguito sarebbe stato definito dagli esponenti di Psichiatria Democratica "il

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processo di evangelizzazione e di fascistizzazione del personale, in modo da farlo diventare obbediente e perfettamente funzionale all’istituzione manicomiale". Gli stereotipi di malattia mentale di cui ci parlavano andavano a rafforzare i luoghi comuni che specialmente a Siena erano molto diffusi e condivisi, così come la necessità dell’esistenza dei manicomi e della loro funzione. La nostra ignoranza, poi, avrebbe fatto il resto... Non era certo un progetto premeditato: il fatto che dovessimo diventare più guardiani che infermieri derivava dalla visione che ancora si aveva della follia e dell'incomprensibilità e pericolosità dei matti, per cui sembrava naturale il loro internamento e la sorveglianza in modo che non nuocessero a se stessi o agli altri. Questo doveva essere il compito principale degli infermieri. La nuova legge Mariotti cancellava finalmente l’iscrizione al casellario giudiziale dei malati ma, soprattutto, istituiva i Centri di Igiene Mentale e prevedeva il ricovero volontario delle persone

La dispensa, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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senza che queste dovessero temere di essere internate per sempre. Il dibattito sulla psichiatria e sui manicomi era già in atto in Italia, ma durante il corso nessun accenno fu fatto all’importanza della nuova legge e ai suoi contenuti di riforma. Sembrava quasi che nulla fosse successo ma soprattutto che nulla dovesse succedere. Man mano che le lezioni andavano avanti, parlando con gli altri, cominciavamo a conoscerci meglio. Così scoprivo che molte persone, nonostante la giovane età, avevano già una notevole preparazione politica, acquisita dalla militanza nei partiti e nel sindacato, ma maturata soprattutto nelle lotte che molti, come me, avevano già dovuto sostenere in fabbrica e nella società. Tutto questo però non portava ad alcuna aperta critica al tipo di formazione che ci stavano propinando. Il motivo di questa accettazione passiva non era solo la paura di essere bocciati: più semplicemente quasi tutti, anche quelli di sinistra, condividevano il concetto che "i matti c’erano e per questo doveva esserci anche il manicomio". Mi ricordo benissimo che pochi anni dopo, quando cominciò a porsi anche a Siena la questione del suo superamento, un compagno mi affrontò in modo deciso dicendomi: «Con quanto ho fatto per entrarci al manicomio, ora te me lo vuoi chiudere!»

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La chiesa del San Niccolò, anno 1891 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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IL TIROCINIO

Terminata la parte teorica iniziò il tirocinio nei reparti, a quel tempo rigidamente separati in maschili e femminili. Fummo suddivisi in gruppi di cinque-sei persone e affrontammo quella che doveva essere la prova più importante della nostra formazione. Essa ci metteva a diretto contatto con i degenti e gli operatori i quali avevano il compito di dare su di noi delle valutazioni che, passate al vaglio dei vari primari, avrebbero influito sul giudizio finale. Un lunedì, alle sei del mattino, suonammo alla porta del reparto Clinoterapia uomini. Enzo Tancredi, un infermiere molto noto a Siena, ci venne ad aprire ed entrammo. Ricordo che non sentii, come mi sarebbe capitato in seguito in altri posti, quella zaffata di odore di stalla caratteristico del manicomio. Clinoterapia era un reparto pulito che non aveva niente da invidiare a quelli dell’ospedale civile. Vi si facevano terapie da shock insulinico che a quel tempo erano di gran moda, così come l’elettroshock per "curare la schizofrenia". Quello che mi colpì, invece, fu un grande mucchio di segatura posto in mezzo alla sala-soggiorno su cui qualcuno versò del disinfettante. Poi, quattro o cinque tra infermieri e degenti, cominciarono a spanderla e a strofinarla per tutto il locale. Decidemmo di collaborare anche noi e questa fu la prima "operazione sanitaria" della nostra formazione pratica… Nel frattempo gli altri infermieri avevano acceso le luci dei

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grandi cameroni e facevano alzare i degenti. La maggior parte di loro andava in sala-soggiorno, quelli che invece dovevano essere sottoposti all’insulinoshockterapia restavano a letto, in un’ala un po’ appartata del reparto in attesa dell’arrivo del medico. Questa terapia consisteva nel provocare uno shock ipoglicemico al paziente. Praticandogli un’iniezione di circa venti unità d’insulina egli cadeva in uno stato di coma artificiale da cui veniva risvegliato, dopo un po’ di tempo, con una soluzione di acqua e zucchero, somministratagli attraverso un sondino nasale. Il primo giorno ci sentimmo tutti come mosche senza capo, ma nessuno di noi ebbe particolari problemi. In altri gruppi, invece, ci furono colleghi che rimasero scioccati a tal punto che non riuscirono a terminare neppure la mattinata e si ritirarono subito. Man mano che i giorni passavano ci rendevamo conto di come funzionava il reparto, dei "riti" che scandivano il tempo. Soprattutto però cominciavamo a conoscere i ricoverati e le loro storie e a misurarci con quella realtà fatta di miseria, ignoranza ed emarginazione. Una cosa ci colpì molto: spesso il ricovero era avvenuto a causa di episodi fortuiti, isolati. Nel viterbese, in particolare, una semplice sbornia degenerata in qualche minaccia, poteva far scattare un "allarme sociale" tale che era richiesto l’intervento della forza pubblica e il conseguente ricovero in manicomio a Siena. Un viaggio, spesso, senza ritorno. I degenti parlavano volentieri con delle persone nuove, si raccontavano senza pudori e noi, un po’ per solidarietà, un po’ per la scarsa esperienza, prendevamo per buone le loro versioni. In questo modo ci formavamo delle opinioni che spesso divergevano con quelle degli infermieri e con ciò che risultava dalle cartelle cliniche, per noi inaccessibili. «Ora lo vedete così quello, sembra una persona normale, ma quando entra in crisi, allora, ve ne accorgerete!»

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«Quell’altro è un impulsivo, è pericoloso!» «Quello invece è epilettico e non c’è da fidarsi mai degli epilettici!» C’era scritto anche nel libro del De Giacomo che gli epilettici erano i più pericolosi perché sapevano coalizzarsi con gli altri malati. Non si faceva però cenno, in quel testo, al fatto che solo in Italia l’epilessia era considerata una malattia mentale. Questa carenza d’informazioni rendeva le nostre argomentazioni poco efficaci, le nostre posizioni semplicemente solidaristiche. Molti di noi, in effetti, si erano già schierati. Questo coinvolgimento, per quanto emotivo, era però necessario per cominciare un processo in cui prendevamo personalmente coscienza del ruolo che saremmo stati chiamati a ricoprire. Le chiavi erano lo strumento principale degli infermieri. Ce n’erano di vari tipi, riunite in un grosso mazzo. Esso conteneva anche una forcella per avvitare i dadi dei polsini che servivano per la contenzione dei malati e un coltello senza punta per tagliare corde o lenzuola, nel caso qualcuno avesse tentato di impiccarsi.

Infermiera con un mazzo di chiavi (foto di G. Berengo Gardin)

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Lavarle era quasi "un rito di purificazione", perderle sarebbe stato un vero e proprio incubo. In ogni reparto si teneva un libro delle consegne, firmato dagli infermieri, dove venivano scritte le "novità" accadute durante i vari turni. Spesso, durante quello di notte, queste "novità" erano che «tutti i pazienti avevano dormito» mentre in quelli pomeridiani si poteva leggere che qualcuno «era cambiato d’umore». Il termine "clamoroso" era molto ricorrente, ma non significava certo qualcosa che aveva suscitato scalpore. Questa parola, come altre del gergo manicomiale, aveva origini ottocentesche quando era usata per definire pericoloso qualche ricoverato. Ora, nella maggioranza dei casi, indicava una semplice arrabbiatura o una sacrosanta protesta per qualche torto subito. Molti di quegli infermieri con cui avrei in seguito lavorato mi sembravano ormai irrimediabilmente istituzionalizzati e mi chiedevo se anch’io sarei diventato come loro, se avrei fatto uno "scatto l’anno", come si dice a Siena. Noi giovani, però, non tenevamo conto che quelle persone avevano vissuto una vita da incubo, chiusi dentro i reparti come i malati. Di notte costretti a firmare, ogni ora, un dischetto di controllo che ruotava con un orologio per dimostrare che non si erano assopiti. Di giorno, sottoposti all’autoritarismo dei medici, alcuni dei quali, più che occuparsi dei malati, andavano a controllare se i bagni erano puliti o i letti perfettamente in fila. Questa preoccupazione costringeva ogni mattina l’infermiere all’allettamento a tirare un filo fra il primo e l’ultimo letto per un allineamento perfetto ma, nonostante ciò, le osservazioni del Direttore o di alcuni primari erano continue. Nei reparti femminili, alle infermiere, con le suore andava anche peggio. Dentro di me era naturale fare un confronto con il mio vecchio capofficina. In quanto a precisione non era affatto inferiore a quei medici, ma quale diversità di rapporto, di umanità, di comprensione. Alla Cooperativa CO.ME.A., l’apprendimento era un bene

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collettivo da coltivare, in manicomio invece, meno sapevi meglio era, così non potevi contestare e il medico poteva mantenere il suo potere. Il contatto diretto con i ricoverati era la cosa più interessante e, per molti aspetti, mi riportava all’infanzia: erano quasi tutti contadini, come me. Certe situazioni le conoscevo benissimo e alcune le avevo vissute di persona. Io però dei contadini avevo assimilato la rabbia senza averne ricevuto la pazienza, mentre nei ricordi dei malati non c’era acredine. Molti avevano introiettato il senso di colpa e pochissimi esprimevano il desiderio di tornare a casa, in quella famiglia che forse era stata la causa vera del loro internamento. Nel reparto Clinoterapia, dietro una grande arcata, nella stessa ala in cui si trovavano i degenti che subivano l’insulinoterapia, c’era un ricoverato che non si alzava dal letto e non parlava mai. Me lo segnalarono perché proveniva, come me, da Buonconvento. Dicevano si trattasse di un caso particolare "affetto da sitofobia e mutacismo". Si chiamava Celido, era un omino piccolo, minuto, con i pochi capelli bianchi e radi che gli davano un’aria quasi diafana; stava tutto il giorno seduto sul letto, con tre cuscini dietro le spalle e, dopo averti scrutato da capo ai piedi con i suoi occhi puntuti, accennava a una strana smorfia, fra il disgusto e la compassione, girando poi la testa da un’altra parte con una lentezza impressionante. Celido rifiutava il normale cibo dell’ospedale ma accettava invece di buon grado il vitto speciale, quello ordinato in cucina per pazienti "particolari" e che era senz’altro molto più buono. Luigi, un infermiere grande e grosso e con un vocione profondo, lo trattava con rispetto ma con decisione. Celido si faceva imboccare senza tante storie ma, quando questo infermiere mancava, erano davvero problemi. Alcuni anni dopo, quando ero già stato assunto e lavoravo in un altro reparto, mi ero quasi dimenticato di lui. Una mattina, entrando nell’atrio centrale, mi sentii chiamare per nome e con mio grande stupore rividi Celido.

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Non credevo ai miei occhi! Indossava un perfetto completo grigio di buon taglio, camicia bianca con cravatta e mocassini neri. Magro, i capelli bianchi e il portamento disinvolto ed elegante lo facevano somigliare più a uno dei tanti rappresentanti di medicinali che a un paziente. La curiosità mi spinse a chiedere in reparto della sua guarigione. «E’ merito dei nuovi farmaci», mi dissero, «lo Psicoperidol fa i miracoli!» Dopo alcuni giorni lo incontrai di nuovo e ancora prima che mi avvicinassi esclamò: «Ho saputo che t’hanno fatto segretario della cigielle, un altro in più a fa’ di meno!» Lo Psicoperidol avrà fatto anche i miracoli, ma nessuno mi toglie dalla testa che Celido fosse anche un gran furbacchione.

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IL VECCHIO PALMERINI

Il reparto Palmerini si trovava alla fine dello stretto vialetto su cui si affacciavano le officine dei fabbri, dei calzolai e falegnami, costruite al tempo del grande direttore Carlo Livi. La vista su Siena con la torre del Mangia in primo piano che si stagliava nel cielo era stupenda. Il reparto era vecchio e fatiscente, il poco spazio esterno recintato con una rete arrugginita e, sul davanti, le gallerie scavate nel tufo, usate come rifugio durante l’ultima guerra mondiale.

Il reparto Palmerini con in primo piano la cascina (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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L'ingresso del reparto Palmerini, oggi residenza Il Tamburino

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L’ingresso era al livello della strada e, saliti pochi gradini, si entrava nello spogliatoio. Gli infermieri del turno di notte e quelli del mattino si stavano dando le consegne. Poche parole, i mazzi delle chiavi che passavano di mano, brevi presentazioni e, dopo alcuni convenevoli, un vecchio infermiere disse: «E ora andiamo a vedere i piscioli». Lì per lì non feci caso a quell’espressione e salii insieme con altri le rampe di scale che portavano ai due piani superiori, dove si trovavano i dormitori. Giunti in cima, a sinistra e a destra c’erano due enormi cameroni con tre file di letti ciascuno. Nonostante qualcuno avesse già spalancato i finestroni, l’aria era irrespirabile! Il fetore di urina e di feci misto al fumo di sigaro era davvero ributtante. Un degente tirò giù le coperte di chi aveva trascorso la notte nudo, legato mani e piedi. Ora i poveretti rilasciavano l’orina trattenuta troppo a lungo. I letti erano così vicini che coloro che si trovavano accanto erano innaffiati da quegli orribili zampilli. Quasi tutti erano sporchi di feci e altre feci, miste a urina, traboccavano dalla latrina situata in fondo al dormitorio, creando un rivolo nauseabondo che arrivava fin sotto i letti. Ora capivo perché molti miei compagni non avevano resistito e avevano abbandonato il corso alla prima mattina! In quell’ambiente, al buio, davanti ad un piccolo tavolo ricoperto da un lenzuolo, l’infermiere che avevo visto smontare aveva trascorso l’ennesima nottata. Un malato, con un secchio d’acqua e una spugna, lavava alla meglio coloro che avevano defecato a letto. Stessa acqua e stessa spugna per tutti. Altri aiutavano quelli che si potevano alzare. Gli infermieri provvedevano a distribuire quel poco di biancheria pulita che c’era, ma chiamare biancheria quei camicioni di tela rigida non stirata, pantaloni infeltriti dalle frequenti lavature e giacche sbrindellate, era un vero eufemismo. Finita quella che veniva chiamata "l’alzata", i degenti erano fatti scendere al piano terra, nella sala-soggiorno che funzionava anche da refettorio. Dalla sera precedente, erano state allineate sui Storie e personaggi del manicomio di Siena

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tavoli una fila di ciotole di latta e ora, un malato di quelli "fidati", stava disponendo i panini da inzuppare nel caffellatte. Dopo colazione era somministrata la terapia, in gocce o in compresse, poi il caposala consegnava le poche sigarette a chi aiutava nei lavori del reparto e, immediatamente, una nuvola di fumo si diffondeva nella sala. I pochi fortunati che avevano acceso erano subito circondati dagli altri che chiedevano di accendere a loro volta o di fare "un tiro". La sigaretta finiva in un attimo e veniva "stillata" fino all’ultimo millimetro. Al momento in cui la cicca era gettata, quasi non toccava terra! Riavvolta in un pezzo di carta insieme a pochi fili di tabacco, veniva riaccesa. E così via per tutta la mattinata. Sigari e sigarette in tutto l’ospedale erano elemento di compenso, di scambio e di corruzione. Erano utilizzate dagli infermieri per far eseguire ai degenti i compiti più ingrati, per "pagare" il lavoro nelle officine o nei servizi esterni, erano infine "donate" dal prete a chi andava alla messa, con un’elargizione supplementare a chi si confessava…

Veduta della villa Rettanti, poi divenuta I.M.P.P. e negli anni ‘90 sede della USL 7 Siena (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Villa uomini, Sala Rettanti, 1째 classe

Villa Uomini, Sala Rettanti, 2째 classe

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Frontespizio dell’opuscolo pubblicitario delle Ville di Salute in Siena

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VILLA UOMINI

L’ultimo reparto del tirocinio fu Villa Uomini. Era così chiamato perché era nato ai primi del ‘900 come villa di salute per i ricoverati delle famiglie più facoltose. Più che un reparto sembrava una casa di riposo ormai fatiscente. Solo qualche particolare, come il biliardo che non stava in piedi e qualche poltrona sdrucita, faceva intuire i fasti di cui un tempo aveva goduto. Restavano di quel tempo, alcune forme abbastanza ridicole di servilismo verso alcuni ricoverati, cui si dava del "lei" solo per paura che facessero qualche spiata verso il caposala o il medico. Il personale aveva un atteggiamento dimesso, più da maggiordomi che da infermieri e il caposala sembrava il Direttore del Continental. Del resto, come recitava l’antico regolamento: «I serventi della Villa sono scelti dal Medico Soprintendente fra i più istruiti, i più educati e i più accurati nel servizio che appartengono alla sezione dei ricoverati a retta comune; ma se tra questi non si trovassero adatti, possano essere presi anco al di fuori del manicomio». Anche i ricoverati, pur in modo molto minore, apparivano diversi. Alcuni indossavano vestiti personali. Restavano ancora in vigore alcune differenziazioni di trattamento in base alla retta: era prevista la Classe Distinta, la prima Classe, la seconda e la terza. Spiccava su tutti un ricoverato alto, magro, elegante, molto altezzoso, che lavorava nell’ufficio del Direttore e in biblioteca. La mattina, dopo aver fatto colazione nella propria camera, usciva

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senza dare alcuna confidenza e tornava all’ora di pranzo. Qualcuno sosteneva che durante l’ultima guerra fosse stato responsabile di un campo di concentramento e che, subito dopo, si fosse rifugiato in manicomio per salvarsi la pelle. Del resto anche Ante Pavelić, il capo degli Ustascia croati, aveva passato un periodo a Villa Certosa, poco distante da Villa Uomini, prima di trovare nella Spagna franchista un rifugio più sicuro. In questo reparto gli ispettori giravano raramente, specialmente di notte, perché tempo addietro un corvo che viveva negli anfratti di Porta Romana li aveva assaliti più volte, beccandoli e graffiandoli con i suoi artigli. Forse anche a lui davano fastidio gli ispettori e i controlli notturni…

Sala biliardo, anno 1935

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PERSONAGGI

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Il Savelli e la Ferrari

Finalmente il tirocinio finì e dopo aver superato l’esame fui assunto fra i primi del mio corso. Una domenica di settembre dell’anno 1970, di pomeriggio, feci il mio ingresso come dipendente dell’Ospedale Psichiatrico al reparto Palmerini. Tutti gli altri colleghi che trovai in servizio erano molto anziani e uno in particolare mi sembrava già avesse fatto molti "scatti". Parlava da solo e sembrava tutto immerso nel suo mondo. «Sai», mi disse un altro collega, «è mezzo matto. Una volta, di notte, gli abbiamo inventato che un branco di lupi poteva entrare nell’ospedale dalla valle degli orti, perciò gli abbiamo fatto fare la guardia per tutto il turno. La mattina, al momento di smontare, aveva scritto sul libro delle consegne: NESSUN ANIMALE È STATO AVVISTATO». Una notte, in un altro reparto, mi trovai nel turno con Loris Savelli, personaggio molto conosciuto a Siena e con un altro collega molto anziano. Di questo collega tutti dicevano ironicamente che facesse "l’orario ridotto sei-tocco, tocco-sei"… e che fosse molto tirchio. Loris con questi personaggi ci andava a nozze! Appena lo vide, facendomi occhiolino, esclamò con voce stentorea: «Finalmente mi so’ cavato la voglia, ho comprato una Ferrari! Ha dugento cavalli, ma consuma poco, meno della centoventisette che avevo prima». Il tipo cominciò subito a drizzare le orecchie, ma rimase pensoso. Durante la notte, però, dopo aver rimuginato chissà quanto, si avvicinò al Savelli e gli disse:

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Salottino per i rettanti di classe distinta, anno 1935

Camera di 1째 classe, anno 1935

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«Ma com’è possibile che una Ferrari consumi meno di una 127?» Ormai aveva abboccato ed io mi pregustavo la scena. «Te che macchina c’hai?», gli chiese Loris. «Io la 500, perché m’hanno detto che è quella che consuma meno». «Allora fai questo ragionamento. Io, lo sai, viaggio parecchio, a Roma, a Milano, poi con la Corale di chilometri ne fò tanti… da Siena a Milano con la Ferrari ci vò in due ore e mezzo! Poi, quando so’ arrivato, la parcheggio e so’ a posto. Te, invece, se ci vai con la 500, ci metterai almeno sei ore, ma anche di più e mentre la mia è spenta e ’un consuma niente, te sei sempre pe’ la strada». L’uomo si allontanò senza replicare. La mattina, alla fine del turno, stava ancora pensando ai consumi della Ferrari e della 500 e non tutto gli era chiaro.

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Villa Rettanti, lato posteriore

Villa Rettanti (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Il "Sanca"

Oggi, con la moda di abbreviare i nomi, l’avrebbero chiamato il "Sanca". Era alto e magro, con una faccia da attore western. Gli occhi, di un celeste particolare, risaltavano ancora di più ai lati del naso aquilino che si stropicciava di continuo. Con le mani lunghe e le dita affusolate sembrava un artista e, in effetti, il Sanca un po’ artista lo era: esperto di meccanica fine, aveva anch’egli dovuto abbandonare quel lavoro e fare l’infermiere come ripiego. Arguto e ironico ma molto rispettoso, era benvoluto da tutti. Da uomo saggio, ormai un po’ avanti con gli anni, sorrideva sulle miserie del manicomio e degli uomini. Non sopportava la violenza inutile e la stupidità. Questa, per lui, era rappresentata soprattutto dai controlli meccanici. Era un accanito lettore, curioso di tutto e pur non avendo mai dormito durante i turni di notte, aveva saltato qualche firma di controllo per distrazione e per questo aveva subito una punizione. Rigoroso com’era, l’aveva sempre vissuta come un’ingiustizia e per questo cercò, a modo suo, di porvi rimedio. Da un certo giorno in poi, le firme del Sanca nel disco orario furono sempre perfette, troppo perfette… La cosa insospettì gli ispettori, specialmente uno, che credeva di essere più furbo degli altri e non accettava di essere fregato. Per questo si era messo in testa di smascherarlo e gli stava alle costole. Era ormai chiaro che il Sanca aveva trovato il sistema di aprire l’orologio, di staccare il dischetto di carta, mettere tutte le firme per bene, richiudere e passare la notte tranquillo. Ma mancava la prova di tutto questo, per cui non era possibile punirlo. Una notte, però, quando il Sanca aveva appena terminato di smontare l’orologio, arrivò l’ispettore. Non poté far altro che nasconderlo in fretta, sotto la cappa.

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L’ispettore si sedette al suo tavolo, intrattenendosi a parlare del più e del meno, quasi a studiare il segreto del suo interlocutore. L’orologio intanto riposava in grembo al Sanca. Doveva scottare al povero infermiere che neanche poteva alzarsi ma, con grande sangue freddo, continuò la conversazione fino a quando l’ispettore non se ne andò per continuare il suo giro. A quel punto il Sanca prese il cartoncino, mise tutte le firme, rimontò l’orologio e, terminato il turno, se ne tornò a casa tranquillamente. Ma a causa della visita inattesa o, come egli raccontava, degli occhi che non gli funzionavano più come una volta, mise sì le firme all’orario preciso, ma in senso contrario, perciò quando l’ispettore esaminò il suo cartoncino credeva di aver trovato finalmente "la prova" della manipolazione. Egli già pregustava il momento in cui avrebbe interrogato il Sanca, sperando anche in una sua completa confessione. Mandatolo a chiamare, lo fece accomodare con studiata lentezza per metterlo ancora più in angoscia poi, con voce melliflua, sfilò

L’orologio per il controllo meccanico degli infermieri

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dal cassetto il cartoncino e glielo sventolò sotto il naso. «Caro Sanca, io non le faccio niente se mi dice come ha fatto a firmare al contrario tutti i controlli». L’ispettore era ormai sicuro di averlo messo con le spalle al muro ma non aveva fatto i conti con la prontezza del Sanca. «Caro ispettorino, io sono una persona particolare come lei sa. M’era venuto a noia di firmarlo come tutti, allora sono salito su una sedia e l’ho firmato a capo di sotto» e, afferrando la sedia su cui era seduto, diede immediata dimostrazione di come aveva fatto, lasciando l’ispettore di sasso. La cosa fece il giro dell’Ospedale e il Sanca diventò una specie di eroe contro la stupidità. Negli ultimi anni di servizio, ironia della sorte, fu impiegato a sostituire da ispettore, un ruolo che non aveva mai amato. Si rifiutò sempre di fare i controlli notturni, limitandosi a telefonare per chiedere "se tutto fosse a posto", non dimenticandosi mai, da persona gentile e ironica qual era, di augurare la "buona notte".

Il cartoncino interno dell’orologio da firmare ogni ora

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L’ingresso del reparto infermeria uomini

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IL LAVORO NEI REPARTI

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L’infermeria

Appena assunti si doveva andare "alla riserva". Significava trascorrere un certo periodo di tempo a sostituire i colleghi in modo da coprire ferie, permessi e malattie. Dopo alcuni anni si veniva assegnati a un reparto fisso. Si girava da un posto all’altro, con grandi borsoni pieni di abiti da lavoro, scarpe e tutto il resto, in barba a tutte le norme igieniche ma felici quando capitava un rimpiazzo lungo. Una mattina il capo ispettore Galli mi chiamò e dopo una sviolinata sulla mia preparazione, volontà e dedizione, mi disse: «L’ho assegnata all’infermeria, vada e senz’altro dimostrerà tutto quello che sa fare».

Il cortile interno dell’infermeria

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L’infermeria era l’ospedale nell’ospedale: vi erano ricoverati i degenti degli altri reparti che si ammalavano o tornavano dopo un’operazione dall’ospedale civile, dove venivano comunque "piantonati" da infermieri psichiatrici. C’era inoltre un certo numero di ricoverati fissi e in un’ala, detta brutalmente "dei cronici", una trentina di persone allettate aspettavano di passare a miglior vita. Il reparto, addossato alla chiesa dei Servi, era stato ricavato in un’ala dell’antico convento e in alcune parti erano ancora visibili tracce di affreschi ormai irrimediabilmente danneggiati. Le condizioni igienico-sanitarie erano, a dir poco, terribili. I muri, ormai impregnati di muffa, si scrostavano in continuazione, non c’erano spazi verdi e il piazzale interno, che conteneva la grande cisterna d’acqua, d’estate diventava un forno e d’inverno era una lastra di ghiaccio impraticabile. Nella sala-refettorio in cui mangiavano i ricoverati, c’erano ancora i vecchi scranni di legno addossati alle pareti, dietro i quali trovavano riparo bachere e altri insetti di ogni tipo.

Il refettorio dell’ infermeria come si presentava ai primi del Novecento

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Di notte uscivano dai loro nascondigli e migravano a frotte per tutti gli ambienti, producendo un rumore e un puzzo orrendo quando erano calpestate. Per cercare di ucciderne il più possibile, le attiravamo al centro del refettorio su cui avevamo sbriciolato del pane e quando si erano concentrate a centinaia, le circondavamo cospargendo d’alcool il pavimento e dandogli fuoco. Ogni notte, l’operazione era ripetuta anche più volte, con un grande consumo di alcool. Il caposala, convinto che qualcuno di noi lo rubasse, quando finiva il suo turno segnava sul flacone il livello a cui l’aveva lasciato e il giorno successivo chiedeva spiegazioni sull’avvenuta diminuzione. D’inverno, al piano terra, il freddo molto spesso faceva gelare l’urina nella latrina e noi, durante il turno di notte, eravamo costretti a metterci due paia di pantaloni e una coperta per riscaldarci. Muscolone, un degente buono come il pane, ogni sera preparava dei grandi bidoni ricavati dai contenitori di pomodoro, li riempiva di carbonella e, dopo averli accesi, li copriva con la cenere. Quando entravano gli infermieri del turno di notte li consegnava uno a testa, in modo che potessero

Il refettorio dell’ infermeria nei primi anni Settanta

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scaldarsi. Una notte ero di turno al terzo piano, dove c’erano "i cronici". Passata mezzanotte, dopo aver fatto il rituale cambio delle lenzuola, avevo messo il mio bidone di brace sotto il tavolo, me l’ero stretto fra le gambe e con quel tepore mi ero messo a leggere. A un certo punto cominciai a sentirmi girare la testa: avrei voluto alzarmi, ma non ce la facevo, sentivo che stavo bruciando ma ero incapace di muovermi. I miei colleghi, che si trovavano al piano sottostante, sentendo l’odore di bruciato avevano acceso tutte le luci. Temevano che qualche degente, fumando, avesse appiccato il fuoco alle coperte e ora stavano passando in rassegna letto per letto, suscitando le proteste dei malcapitati che venivano svegliati all’improvviso. Nessuno pensava che fossi io che stavo bruciando, incapace di reagire, intossicato com’ero dall’ossido di carbonio. Per mia fortuna, non so dopo quanto tempo, un malato che dormiva accanto al mio tavolo, un ragazzone giovane che noi chiamavamo la Pippina, si alzò per andare al gabinetto. Resosi conto di cosa stava succedendo, mi sollevò di peso e mi portò in bagno,

Le stanze anatomiche (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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mettendomi sotto il getto dell’acqua. Quando arrivarono i miei colleghi, la Pippina mi stava togliendo i pantaloni ancora fumanti, che si sbriciolavano come carta bruciata. Avevo le gambe tutte gialle e i polpacci ustionati, ma quel malato mi aveva salvato da ben più gravi conseguenze. In quel reparto c’era veramente da fare. I colleghi erano molto seri e preparati, ma avevamo sempre problemi di biancheria e per questo, dopo un po’ di tempo, ci mandarono una suora per occuparsi del guardaroba. Suor Paolina era una donna simpaticissima, diversa dalle altre: vivace, aperta, con lei s’ingaggiavano lotte furibonde nella stanza dei materassi e non era facile batterla, perché aveva una forza e un’agilità notevoli. Fuori dell’infermeria uomini, addossata alla Chiesa dei Servi, c’erano le stanze anatomiche. All’interno troneggiavano due lugubri banconi di marmo grigio, in cui venivano deposti i corpi dei defunti, prima di essere sottoposti all’autopsia.

La sala autopsie, anno 1930

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Alle pareti, allineati su una mensola, una serie di caraffe di vetro contenevano cervelli umani sotto tormalina, una triste collezione lasciata in eredità dall’epoca lombrosiana. Quando moriva qualcuno, e capitava spesso, il corpo era avvolto in un lenzuolo cui venivano arrotolati i quattro pinzi, poi era trasportato a mano nella stanza mortuaria e deposto sopra uno dei due banconi di marmo. A quel punto il lenzuolo veniva sciolto e all’alluce di un piede del cadavere era legata una catenella collegata a un campanello. Se questo suonava, un infermiere doveva andare a controllare se si fosse trattato di un caso di morte apparente. Qualche volta il campanello aveva suonato, ma credo che nessuno abbia avuto il coraggio di andare a vedere cosa era successo. La mattina arrivava un degente che faceva anche il sacrestano a don Marcello, cui era demandato il compito di vestire i morti. Costui, nonostante il lavoro che svolgeva, era sempre allegro e vivace: vestito di nero, con un cappello a tesa larga e un panciotto da cui spuntava la catenella di un vecchio orologio a cipolla. Era una persona affidabilissima ma soffriva di crisi epilettiche. Una volta accadde che una crisi lo colpisse proprio all’interno della stanza mortuaria e quando si risvegliò, ancora confuso, colto da un raptus, mangiò uno dei cervelli sotto tormalina. All’Infermeria, fra gli oltre 130 ricoverati, ce n’erano alcuni davvero particolari: un pescivendolo napoletano che non volendosi piegare alla camorra era stato fatto passare per matto e rinchiuso in manicomio. Un manovale che lavorava alle fornaci di San Quirico ed essendo stato licenziato, aveva invertito il segnale stradale sulla Cassia, creando un ingorgo pauroso nel grande cortile della fabbrica. Un siciliano di Portella delle Ginestre che forse aveva visto troppo e andava dicendo in giro che erano stati gli americani e la

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CIA a sparare insieme alla banda Giuliano. Noi per questa inedita versione lo prendevamo in giro, ma di recente si è scoperto che un po’ di ragione l’aveva. Deriù era di una frazione vicino ad Ales. Era il tipico sardo: piccolo, con i capelli neri e lisci e una tosse stizzosa lasciatagli in eredità dalla tubercolosi che aveva contratto in giovane età e che ora lo costringeva spesso a letto. Parlava poco e sottovoce, leggeva ogni giorno l’Unità e teneva sotto il materasso una mini biblioteca fatta di libri di storia, una monografia su Togliatti e L'albero del riccio del suo paesano Antonio Gramsci. Aveva conosciuto la sua famiglia, "il padre era un poco di buono", la moglie Giuseppina aveva mandato avanti i figli facendo lavori umilissimi, una figlia le era morta durante i lavori di costruzione della diga sul Tirso. Di "Toninu" aveva solo sentito parlare, ma mi disse che tutti quelli che avevano avuto contatti diretti con lui erano stati rinchiusi in manicomio "in su continente". Di questo fatto ebbi riscontro al manicomio di Volterra in cui venivano ricoverati i pazienti della Sardegna. Un giovane medico di Sassari, parlando loro in dialetto, riuscì a dimetterli quasi tutti. Tutta quest’umanità, insieme a persone traumatizzate dalla guerra, vecchi contadini poveri, ragazze madri, costituiva la popolazione del manicomio. Costoro erano ritenuti pericolosi per sé e per gli altri o di pubblico scandalo, anche se si trattava di bambini o persone molto anziane ormai allettate.

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Il reparto Chiarugi visto dall’alto

Il piazzale del Chiarugi

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Il Chiarugi

Testimonianza di Eleonora Lorenzini

«Tutti i reparti del Manicomio avevano un odore, ma il Chiarugi ne aveva uno particolare. Era un misto di orina, muffa e di saliva fermentata, dato che molte pazienti soffrivano di scialorrea e nonostante la pulizia fosse costante, i muri si erano impregnati di quel tanfo. D’inverno ti si attaccava addosso e te lo portavi dietro anche quando smontavi. La mattina, appena entrate in servizio, poco dopo le sei, si faceva la levata. A metà degli anni ‘60 c’erano ricoverate 170 donne, la metà delle quali stavano in celle a uno o due posti, con i letti murati in terra, altre in celle di sicurezza con le pareti rivestite di materassi di crine. Quasi tutte queste poverette erano costrette a dormire nude, con mani e piedi legati. Alcune con il traversone, un lenzuolo arrotolato che ne immobilizzava il torace e le faceva respirare con difficoltà. A causa di queste contenzioni, durante la notte non potevano cambiare posizione, né tantomeno andare al gabinetto, perciò la mattina erano tutte ricoperte di feci e urina. Bisognava scioglierle una a una, stando attente a non prendere graffi e manate che giustamente queste ti rifilavano, ma gli sputi non li potevi evitare, così come le irripetibili ingiurie di tutti i tipi. Una volta liberate, venivano avviate al bagno in fila indiana. Là, in una piccola stanza, una suora con gli stivali e una sistola le lavava alla meglio, poi un’infermiera, anch’essa con gli stivali e una spugna, rifiniva il lavoro. Dopo questo "lavaggio" a catena passavano in un’altra stanza, dove venivano asciugate con delle lenzuola. La vestizione era molto laboriosa: nel lungo corridoio

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Paris Morgiani, Le docce al Chiarugi. Terracotta smaltata (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

Paris Morgiani, Le docce al Chiarugi. Terracotta smaltata (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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venivano portate tre o quattro balle di biancheria tutta mescolata e non stirata. Un’infermiera anziana le apriva e cominciava a fare una selezione sommaria secondo le taglie. Operazione quasi impossibile dato il numero delle ricoverate, a cui spesso capitavano vesti, troppo piccole o troppo grandi, che le rendevano ancor più goffe e ridicole. Non esistevano assorbenti e quelle che avevano le mestruazioni perdevano sangue. Si cercava di ovviare alla meglio prendendo una camicia a mezze maniche, attraverso le quali facevamo passare un trecciolo, poi la camicia veniva passata fra le gambe della donna legando i due capi del trecciolo davanti, sull’addome. Terminata la vestizione, tutte le ricoverate erano mandate in un’unica sala. Mentre alcune si sdraiavano subito in terra o si appoggiavano raggomitolate al muro, la maggioranza cominciava a girare incessantemente intorno alle colonne. Coloro che non rispettavano il senso di marcia si scontravano con una vera e propria muraglia umana che le respingeva a schiaffi, graffi e sputi. Qualche altra, in mezzo a quell’orribile processione che faceva girare la testa anche a noi, cercava un minimo d’umanità, un contatto, qualcosa cui aggrapparsi, magari prendendo sottobraccio quella accanto, ricevendo in cambio spintoni e botte». Un’altra testimonianza della situazione dei reparti femminili ce la fornisce Giuliana Morandini, giornalista e scrittrice che nel 1976 visitò il San Niccolò. «Al Tanzi e al Chiarugi ci stanno delle donne, a livelli di regressione e di confusione impressionanti, immerse in un flusso di violenza ininterrotto. Queste donne non hanno nessuno spazio, nulla di proprio. Mentre salgo la scala interna del Tanzi, una ragazza insiste per prendersi dai miei capelli un piccolo fermaglio colorato a forma di meletta: sorride, questa piccola cosa è forse l’unica che potrà avere ancora dalla vita». Mi viene in associazione il ricordo di donne che, sempre in Toscana, nel primo novecento, risultavano ricoverate perché "andavano cantando per i prati raccogliendo fiorellini".

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La lavanderia, anno 1920

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La lavanderia

Testimonianza di Eleonora Lorenzini

«Sono entrata nel 1969, dopo un breve corso e un tirocinio al reparto Chiarugi. Come accadeva da molto tempo, pur essendo state assunte come infermiere, nei primi mesi si veniva mandate in lavanderia. Ma definire quello un lavoro era un puro eufemismo, era l’inferno! Appena si arrivava, ci venivano consegnati un paio di guanti di gomma che duravano molto poco e per tutta la settimana bisognava maneggiare quella roba sporca pressoché a mani nude. La prima settimana si doveva fare lo sciacquo: in una corte all’aperto arrivavano i fardelli di biancheria sporca dai vari reparti che erano buttati in uno stanzone buio. Questi fardelli non erano altro che lenzuola legate per i pinzi, che contenevano all’interno altre lenzuola sporche e biancheria tutta mescolata. Dopo averli slegati, le lenzuola, con tutto quello che contenevano, venivano gettate in due grossi fontini dove c’era acqua corrente. Ben presto mucchi di feci salivano a galla e pur essendo trasportate dall’acqua si ammucchiavano davanti alla condotta di scarico e noi, per non farla ostruire, bisognava sminuzzarle e ficcarle dentro a forza fino a che l’acqua non riusciva a portarle via. Quando terminava questa "emersione", due di noi afferravano i lenzuoli e li strofinavano con del sapone secco. Dopo questa prima sgrossatura, si torcevano e si mettevano in una carretta a ruote: tante lenzuola, tante carrette. A ogni fontino erano addette quattro persone che lavoravano in coppia poggiando i piedi sopra una pedana di legno che ben presto s’infradiciava e diventava scivolosa. Un operaio (ma spesso toccava anche a noi) trasportava le carrette in uno stanzone dove c’erano le macchine.

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I lenzuoli erano messi dentro, veniva aggiunto il detersivo e iniziava il ciclo di lavaggio che arrivava a temperature molto alte. Finita la fase di centrifugazione, un altro operaio rimuoveva il pesante coperchio e si toglievano le lenzuola che erano ancora bollite e si maneggiavano con difficoltà. Nonostante la centrifugazione contenevano ancora troppa acqua, per cui bisognava passarli a un apparecchio che noi chiamavamo il macinino per strizzarli per bene prima di essere tesi al tenditoio che si trovava in un’area all’aperto, dietro la lavanderia. Quando i panni erano asciutti si stendevano, si piegavano e si mandavano in guardaroba, da dove erano distribuiti ai vari reparti. Le camicie, i corpetti, i calzini e la biancheria più minuta erano lavati separatamente, così come facevamo per tutta la roba che arrivava dalle Ville. In un altro settore, invece, veniva lavata la biancheria del reparto Forlanini, in cui erano ricoverate persone affette da TBC. Chi era addetto a questa operazione, come "privilegio", poteva poi fare la doccia in un bugigattolo orribile, in cui l’acqua spesso arrivava poca e fredda. D’inverno era una tortura: il freddo e il vento facevano battere i denti, l’acqua era diaccia e l’umidità faceva il resto, dopo poche ore ti entrava il "dolo" nelle mani e ti dolevano le reni, un "ricordino" che mi porto addosso anche oggi. La lavanderia era diretta da suor Elena, una donna di "stozzo" molto brava e, al contrario di altre sue consorelle, molto umana nei nostri confronti. Molti anni dopo la vecchia lavanderia fu completamente smantellata, al suo posto cominciò la costruzione di quello che, con grande enfasi, veniva definito il più moderno impianto di lavaggio d’Europa, ma quest’opera mirabolante non fu mai inaugurata. Una notte il cantiere prese fuoco e, com’era prevedibile, la colpa fu data a un "matto". Il fatto "strano" è che a quel tempo i reparti erano chiusi, specialmente la notte e i "matti" non potevano uscire».

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Istituto Medico Psico-Pedagogico, ingresso dal giardino

Istituto Medico Psico-Pedagogico, veduta del giardino

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Opuscolo di propaganda, anno 1920

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L’istituto medico psico-pedagogico

«L’Istituto medico psico-pedagogico, creato nell’anno 1911, ha sede in un’ampia Villa circondata da vasti giardini e posta in amena posizione dalla quale si domina lo spazioso orizzonte offerto dalle ridenti colline senesi». L’ elegante opuscolo che ne illustrava le varie attività concludeva con questa suggestiva descrizione: «è attiguo all’Ospedale psichiatrico di San Niccolò, ma è da questo separato non solo materialmente, ma anche per quanto riguarda il trattamento scientifico e l’ordinamento dei servizi». La costruzione di questo edificio era stata fortissimamente voluta dal prof. D’Ormea, cui sarebbe stato in seguito intitolato l’Istituto. Vittorio Mariani, succeduto all’architetto Azzurri, realizzò il progetto e ne seguì la costruzione effettuata nell’area in cui sorgeva un antico pensionario.

Girotondo di piccoli ricoverati

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Lezione all’aperto

Corso di cucito

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Era senz’altro una struttura all’avanguardia, in cui i bambini ricoverati frequentavano scuole e corsi di formazione di vario genere e, in estate, potevano usufruire delle colonie marine organizzate nella costa grossetana. Negli anni ‘70 vi erano ricoverati i minori che erano suddivisi in base al grado di patologia, ma c’erano anche bambini normali, orfani o abbandonati. Il compito di sorveglianza era demandato alle suore, quello di assistenza alle infermiere, c’erano poi le insegnanti di scuola e quelle per le varie attività. Al compimento della maggiore età alcuni passavano in manicomio, le ragazze in Clinoterapia donne, i ragazzi dove capitava. Molti di loro venivano violentati. Per fortuna tra coloro che riuscivano a stare fuori, c’era chi riusciva a trovarsi un lavoro e a crearsi una famiglia. Un’infermiera racconta: «Mi ricordo che una mattina arrivarono tre sorelle di Siena, stavano in Fontebranda, erano tre belle citte con degli occhioni che ormai avevano già visto tutto.

Sulla spiaggia

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La mamma era una che faceva la vita, se n’era andata e le aveva abbandonate. Le bambine crebbero aiutandosi l’una con l’altra e, quando furono grandi, nessuna di loro finì in manicomio. Questa fu per me una grande soddisfazione». Dagli anni ´80, fino alla sua chiusura, l’Istituto fu teatro di strani fenomeni notturni che alimentarono la leggenda di un fantasma. Le donne che vi lavoravano raccontavano di strani fatti: porte che si aprivano o si chiudevano incomprensibilmente, passi nel giardino, luci che si accendevano all’improvviso in locali in cui non c’era nessuno. Dopo un po’ di tempo, aumentando le segnalazioni, fu richiesto alla polizia un servizio di vigilanza notturno. Ogni notte, a diverse ore, una pattuglia in auto entrava e percorreva il giardino interno, ma il mistero del "fantasma" non fu mai risolto.

Ginnastica all’aperto

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Il bagno

Vacanze al mare

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AttivitĂ in giardino

Corso di cucito

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Il Conolly

Reprimere fisicamente i pazienti trattenendoli per i piedi e per le mani, non fa assolutamente parte del nostro sistema; Il secondo fraintendimento è quello che, pur non legando il malato di mente per le mani e per i piedi, lo si confina in una stanza isolata John Conolly

Così scriveva John Conolly nel 1839, appena nominato direttore dell’ospedale di Hanwell, dove aveva dato inizio a un’esperienza rivoluzionaria per il trattamento dei malati di mente senza metodi costrittivi. Chissà se, in seguito, si rivoltò nella tomba quando seppe che, a Siena, un reparto costruito con criteri di massima sorveglianza e isolamento fu intitolato proprio a lui. Era stato il prof. Ugo Palmerini a sostenere l’idea di avere un ambiente separato dal corpo centrale per accogliere "gli agitati clamorosi" di ambo i sessi. La Direzione Amministrativa, comprendendone l’esigenza, aveva affidato l’incarico del disegno all’architetto Azzurri. Questi progettò un edificio a un piano, con camere d’isolamento a raggera, secondo i principi del panopticon, un’idea di Jeremy Bentham del 1794, secondo la quale si potevano progettare delle prigioni che fossero economicamente convenienti ed efficacemente sorvegliate. Nel 1877 il Conolly cominciò a funzionare, accogliendo nel padiglione a sinistra le donne e in quello a destra gli uomini. All’ingresso alcune stanze furono riservate come alloggio per il personale di assistenza che viveva, di fatto, come le persone che

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vi erano rinchiuse. Nell’anno 1927 le degenti furono trasferite al reparto Chiarugi, da poco inaugurato, e sopra l’abitazione del personale fu edificato un secondo piano adibito a dormitorio per altri ricoverati. Serviva spazio perché da quell’anno, a Siena, cominciarono ad arrivare pazienti dalla provincia di Viterbo, da poco istituita. Io avevo compiuto solo saltuarie sostituzioni al Conolly, perché al momento dell’assegnazione al reparto non fui ritenuto abbastanza robusto e "deciso", per cui fui mandato all’Infermeria. A quei tempi il reparto conservava ancora le celle con il bugliolo, i letti con le gambe murate per terra, la materassata, cioè una stanza imbottita e con il pavimento ricoperto di crine. Il lato semicircolare sinistro era detto "il criminale", dove erano rinchiusi per giorni, a volte per settimane, persone ritenute pericolose. Ogni tanto volava qualche cazzotto, ma non era un reparto più violento degli altri.

Pianta del reparto Conolly 1880 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Gli infermieri, conoscendo i vari ricoverati, erano in grado di prevenire con la loro esperienza possibili conseguenze delle crisi che accadevano. Avevano comunque la possibilitĂ di ricorrere alla terapia farmacologica, "al bisogno" prescritta dal medico, ma le voci di iniezioni fatte senza togliere i pantaloni al paziente erano una delle tante leggende metropolitane. La sera, al momento di andare a letto, ai degenti venivano tolti tutti i vestiti affinchĂŠ non potessero "evadere" poi, riposti in sacchi e chiusi in un armadio, la mattina erano riconsegnati uno per uno da un ricoverato che, infallibilmente, li riconosceva dall’odore. Il Conolly era soprattutto famoso per le colazioni che vi si facevano: gli infermieri del turno di mattina si alzavano prima delle cinque, perciò verso le nove l’appetito non mancava. Uno di essi veniva incaricato della preparazione: si mangiavano gli affettati, la ribollita oppure la pastasciutta.

Veduta prospettica del reparto Conolly ancora ad un solo piano, anno 1886

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A. Bonamore, Il reparto Conolly, 1876. Disegno

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Particolare delle celle lato uomini, anno 1887 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Le celle del lato criminale

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Ingresso del reparto Conolly

Spesso partecipavano il caposala e l’assistente sociale, ma anche qualche medico non disdegnava quei cibi plebei. C’erano dei ricoverati simpaticissimi: Mariolino, detto Giuggiolone, aveva fatto il pugile e ogni tanto provava ancora qualche colpo con gli infermieri. Memore delle esperienze fatte al manicomio criminale si metteva la pastasciutta nelle tasche della giacca affinché non gliela rubassero, ma in quelle tasche c’erano anche carte, tabacco e chissà quali altre cose. Un altro, Palma, scriveva continuamente a ministri e al Presidente della Repubblica per denunciare ogni tipo di efferatezza riuscendo a ricevere, qualche volta, generiche risposte. Non dimenticherò mai un tipo che smontò il letto e ingoiò tutti i bulloni. Fu portato in ospedale. Il chirurgo esaminando la radiografia, non credeva ai propri occhi.

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Il salone-soggiorno

Le celle e il cortile del reparto Conolly (lato destro)

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LE PAROLE DEL MANICOMIO

La psichiatria manicomiale era anche una fucina di nuove parole che andavano a formare un linguaggio incomprensibile usato dai medici nell’aggiornamento delle cartelle, ma spesso gli infermieri se ne appropriavano per usarlo nelle consegne scritte. Se per il ricovero i certificati facevano sempre riferimento alla "pericolosità " o al "pubblico scandalo", nelle cartelle aggiornate in reparto si potevano leggere aggettivi spesso associate in assurde iperboli. Clamoroso, irrequieto, eccitato, euforico, scomposto, fatuo, manierato, pantoclasta. Anche per le donne non era molto diverso. Sudicia, reticente, mutacica, laceratrice, sitofoba, fatua, incoerente, sconnessa, delirante. Le rare annotazioni di miglioramento erano cosÏ definite: docile, plasmabile, mansueto, servizievole, quieta, tranquilla, operosa, attiva, socievole, ben governabile. In altri casi si scriveva: incongruente, scucita, stuporosa, difettuale. Il manicomio annullava la comunicazione e gli scambi emotivi. Era la morte di ogni discorso.

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Paziente sottoposto a elettroshock

Paris Morgiani, L’elettroshock. Terracotta (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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L’elettroshock

Inventato negli anni ‘30 da Ugo Cerletti per stordire i maiali prima che venissero uccisi, fu successivamente usato come strumento di tortura durante la seconda guerra mondiale, in quelle coloniali e dalle dittature sudamericane. Nonostante Cerletti ne avesse sconsigliato l’utilizzo sull’uomo, fu largamente usato nei manicomi per "curare" la depressione e quei disturbi che oggi sono definiti bipolari. A Siena, tale pratica cessò nel 1971, in alcune cliniche private si esegue ancora oggi.

«... la stanza già mi metteva paura, con quel letto con tutte le cinghie… poi il morso che mi mettevano in bocca come ai cavalli, per proteggere i denti dicevano, ma io li ho tutti rotti lo stesso». «... mi facevano stendere sul lettino poi mi facevano l’iniezione e poi la scossa… era come morire… non so quante volte sono morta…». «… l’iniezione non ti fa addormentare, sentivi tutto ma non potevi far niente, sentivi i movimenti, come se fossero gli ultimi movimenti della tua vita». «… era come se tutto il sangue andasse improvvisamente alla testa… e poi solo confusione». «… la notte mi svegliai ed ero tutta pisciosa. Io non mi ero mai pisciata addosso, erano le scosse!» «… dopo non si ricorda più niente, non si conosce più nessuno… chissà quanti pensieri ho lasciato là».

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L’insegna del laboratorio di sartoria

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L’ergoterapia Il lavoro ben ordinato, bene distribuito a seconda del periodo del male, ben adattato alle varie intelligenze, è uno dei migliori agenti di cura morale

Paolo Funaioli

direttore del manicomio di Siena

Il lavoro come terapia era stata una delle innovazioni più importanti introdotte al San Niccolò da Carlo Livi, chiamato a dirigere questo ospedale nell’anno 1858. Ben presto questa terapia era diventata una pratica talmente diffusa da essere fondamentale per la gestione del manicomio, che così diventava autosufficiente a bassissimo costo. In una pubblicazione della Direzione Sanitaria del 1933 si dichiarava che «[...] nessuna idea di carattere utilitario dal lato economico [...] solo un’occupazione data razionalmente al folle cui, a poco a poco, l’intelligenza cominciava a snebbiarsi e a riprendere il regolare funzionamento». Questa precisazione, peraltro strana per una "terapia", era però necessaria per tacitare i sospetti di sfruttamento che potevano nascere. Infatti, i dati delle persone occupate erano in continua ascesa: se nei primi anni del 1900, il 60% degli uomini e il 67% delle donne erano addetti alle varie lavorazioni, nel 1933 le percentuali erano salite all’80% per i primi e al 76% per le seconde. C’è da notare che in queste attività non erano conteggiate le persone che lavoravano all’interno dei reparti e che svolgevano i lavori più umili. All’inizio, le attività principali cui venivano addetti i degenti

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Il villaggio delle officine lavoratori visto dall’edificio centrale (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Lavori di splateamento sotto la collina dei Servi

Lavori di splateamento sotto la collina dei Servi

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erano quelle agricole e dello sparto, cioè dell’intreccio della schiancia, di vimini e del vinco per realizzare stuoie, ceste e rivestiture di ogni genere. Era un’attività quasi esclusivamente maschile, mentre le donne venivano occupate soprattutto ai telai, alla filatura e cucitura, ma tutti i servizi generali avevano il loro contingente di malati necessario per svolgere le varie attività. Dalle relazioni del 1933, minuziosamente stilate dall’Ospedale, si legge che ogni giorno oltre 600 ricoverati e altrettante ricoverate venivano prelevati dai vari reparti dai "maestri operai" per essere condotti al lavoro agli orti o nelle varie officine. Questi reparti furono ultimati nel 1889 dal Direttore Funaioli che aveva continuato l’opera del Livi, allontanato dal San Niccolò perché voleva sostituire il personale religioso con dipendenti laici. Fu proprio con il lavoro di centinaia di ricoverati che furono realizzate le opere di sbancamento della collina dei Servi dove sorse un vero e proprio villaggio che, per la sua lontananza, fu chiamato La Colonia. Questa, pur essendo collegata con l’edificio centrale tramite un corridoio e un ponte, aveva una via di accesso autonoma, da cui si poteva risalire verso le infermerie fino alla basilica dei Servi. La Colonia maschile era divisa in due settori: quello dei lavoratori agricoli e quello degli addetti alle cinque officine e dei vari servizi. Le donne invece, erano tutte riunite nella Colonia Lombroso, dove erano stati installati oltre sessanta telai e si eseguivano attività di cucitura, filatura e guardaroba. Altri ricoverati lavoravano quotidianamente al trasporto della legna, del vitto e della biancheria, utilizzando carrette a mano e calessi trainati da cavalli. Infine, un altro discreto numero era addetto alla lavanderia, alla dispensa, al forno e alla cucina. E’ interessante notare come in tutte queste attività, non solo a quel tempo ma anche fino agli anni ‘80, i ricoverati usassero tranquillamente zappe, vanghe, trincetti senza che ciò destasse

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Lavori di splateamento sotto la collina dei Servi

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alcun timore, mentre la sera, quando rientravano in reparto diventavano nuovamente "pericolosi" ed era loro concesso solo il cucchiaio per mangiare. Parlando con i colleghi piÚ anziani, i cui ricordi potevano risalire anche a prima della guerra, non avevano memoria di incidenti, tentativi d’aggressione nei confronti del personale di assistenza o ad altri ricoverati. L’unico caso grave si era verificato al reparto Livi, oggi sede della Corte dei Miracoli. Una notte, un ricoverato alzatosi per andare al gabinetto, aveva colpito con uno zoccolo l’infermiere fracassandogli la testa. Gruppo di degenti-calzolai davanti alla loro officina

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Il reparto Livi e l’officina falegnami (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

L’insegna dell’officina falegnami

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Questo degente era trattato con la ioscina, un farmaco che, a detta di chi lo prendeva, provocava orribili allucinazioni. «Dopo vedevo solo mostri che mi venivano incontro e mi volevano assalire. Era tremendo!» Alle donne veniva dato il Cloralio per dormire, prodotti più forti per gli uomini «… ma noi che si vangava tutto il giorno si sarebbe dormito lo stesso». Se ai tempi del Livi il lavoro poteva essere una terapia contro l’isolamento e l’inedia della vita in reparto, negli anni ‘70 era solo sfruttamento. La "retribuzione" settimanale era di tre sigarini! Solo in seguito furono riconosciute poche lire di compenso. Eppure queste persone lavoravano duramente: portavano ancora pesanti sacchi di biancheria, carrelli di carbone, lavavano i piatti e spazzavano, oppure facevano lavori ancora peggiori che avrebbero dovuto svolgere gli infermieri. Non è assurdo pensare che, se avessero deciso di far sciopero, l’Ospedale si sarebbe bloccato.

L’insegna dell’officina fabbri

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L’officina dello sparto (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

Bambini che intrecciano la paglia al laboratorio sparto

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L’officina dei fabbri (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fondo Malandrini)

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Il laboratorio di rilegatoria

Piccoli degenti rilegatori

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Degenti lavoratori all’Orto de’ Pecci, anno 1886

L’Orto de’ Pecci, anno 1975

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Laboratori di tessitura

Laboratorio di maglieria

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Gruppo di degenti cucitrici

Degenti con le carriole cariche di legna davanti al reparto Conolly

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Reparto “Belleme�, la stalla

Il reparto Morselli dove erano ricoverati i lavoratori

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Finalmente sposi

Testimonianza di Anna Rubbioli

Prima del fascismo le infermiere del manicomio non si potevano sposare. Durante il ventennio potevano farlo rivolgendo domanda al Rettore e, se questo dava il benestare, la richiesta doveva essere recepita da una delibera del Consiglio esecutivo. Furono pochissime le richieste accettate. Si creavano quindi situazioni di convivenza nelle quali potevano nascere figli illegittimi i quali avevano buone possibilità di finire in Istituti. Nel dopoguerra le infermiere potevano sposarsi solo con il rito religioso, pena le dimissioni immediate. Solo nel 1963 entrò in vigore la legge che vietava il licenziamento, nonostante l’art. 37 della Costituzione fosse in vigore da quindici anni. «Ero stata assunta all’Ospedale Psichiatrico nel 1956 e, come capitava a tutte le donne, fui mandata alle fonti. A quel tempo l’orario di lavoro era di dodici ore consecutive ma era solo indicativo perché, se c’era carenza di personale, erano continui ritornelli. Noi donne ci facevano entrare mezz’ora dopo gli uomini, una cosa assurda, voluta soprattutto dalle suore affinché non ci fosse alcun modo d’incontrarsi, ma soprattutto non ci si poteva sposare civilmente, per cui si perdeva non solo i diritti nei confronti dei figli se il padre non li riconosceva, ma si passava anche male in quanto ragazze madri. Una mia collega, che era rimasta incinta, aveva abortito per paura di essere licenziata perché altre due erano state mandate via per lo stesso motivo. Nella primavera del 1958, quando ero già fidanzata con quello che poi sarebbe diventato mio

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marito, rimasi in stato interessante e decisi di portare avanti la gravidanza. Andavo al lavoro con il pancione ed ero abbastanza preoccupata. Alcune mie colleghe, con cattiveria, andavano a dire alla suora che presto sarei stata licenziata, ma la suora mi difendeva dicendo che era meglio partorire che abortire e così non dava loro soddisfazione. Finalmente, verso il settimo mese, mi tolsero dalle fonti e mi assegnarono al reparto Villa donne. Una notte ero di servizio con Palmira Lambardi, una di quelle persone sempre informate di tutto. Parlando della mia situazione mi disse che forse c’era una legge che permetteva di sposarsi, era stata emanata al tempo del fascio, ma il regolamento interno delle Opere Pie non ne faceva cenno. Appena finito il turno non andai nemmeno a letto, mi diressi subito alla Camera del lavoro, dal segretario della CGIL, Muzzi, al quale esposi la mia situazione e gli chiesi di fare subito una lettera al Presidente delle Opere Pie affinché potessi sposarmi. Il Muzzi si arrabbiò, mi disse che non sapeva niente di questa legge e che non era il caso di scrivere nessuna lettera. Ma, vedendo la mia determinazione e la minaccia di rivolgermi a un avvocato, finalmente si decise a scrivere al Prof. Cinughi de’ Pazzi, il Presidente delle Pie Disposizioni. Passarono alcuni giorni e una mattina il direttore dell’Ospedale, Guido Reale, mi mandò a chiamare. Era stato informato della lettera che era pervenuta dalla CGIL: era incazzatissimo! Mi fece una lunga predica, con qualche accenno vagamente minaccioso e volle ancora sondare le mie intenzioni. Mi congedò dicendomi che ne avrebbe parlato al Consiglio Generale e mi avrebbero dato risposta. La risposta arrivò quando stavo per entrare nell’ultimo mese. Mi mandarono a casa dicendomi che, dopo il parto, sarei dovuta rientrare dopo sessanta giorni. Così fui la prima donna a potermi sposare all’Ospedale Psichiatrico e non era il medioevo».

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LE ELEZIONI

All’interno del San Niccolò, da sempre, veniva allestito un seggio elettorale. All’inizio vi votava il personale religioso e qualche ospite delle ville di salute. Dall’entrata in vigore della legge che restituiva i diritti civili e politici ai ricoverati, il numero dei votanti era aumentato ma, per la scarsa informazione, solo in pochi si recavano alle urne. Le opinioni politiche fra i degenti erano comunque abbastanza chiare, frutto quasi sempre di scelte avvenute prima del ricovero: si andava dai fascisti ai comunisti passando per la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. In realtà i ricoverati avevano maggiori mezzi per farsi un’idea politica rispetto alle suore. Costoro potevano vedere solo il primo canale della RAI, il secondo aveva il pulsante "sigillato" da diversi strati di nastro isolante, in casa arrivava un solo giornale e le notizie più "scabrose" venivano "spiegate" dalla madre superiora. Una volta, alle elezioni politiche, a un seggio in cui votavano quasi unicamente le suore, era saltato fuori un voto al Partito Comunista, una cosa inaccettabile. Fu condotta una vera e propria indagine interna, la persona venne individuata, dovette ammettere di essersi sbagliata ma da allora fu considerata alla stregua dei malati e, in seguito, trasferita. Il 20 giugno 1976 si dovevano tenere le elezioni politiche e per la prima volta le sezioni aziendali dei partiti più importanti decisero, di comune accordo, di fare una vera e propria campagna elettorale anche all’interno del manicomio.

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Fu una cosa di grande significato civile perché riconosceva, almeno formalmente, che un voto di un "matto" era uguale a quello di un sano. Inoltre costringeva i vari rappresentanti dei partiti a venire "dentro", a trovare un linguaggio semplice e chiaro per quelli strani elettori, a dire loro cosa pensavano dei manicomi. Fu stabilito che i vari incontri avvenissero alla presenza di tutti i rappresentanti dei partiti. Ciò generò un clima più disteso di quello esterno. Non mancarono interventi e domande precise da parte degli interessati. Fra il personale, tuttavia, serpeggiava un certo scetticismo. Molti ci accusarono di velleitarismo e di strumentalizzazione. Per costoro i matti dovevano essere trattati come i bambini cui vanno nascoste le cose spiacevoli. Prevedevano, o forse speravano, in una marea di schede bianche e nulle per convincersi delle loro tesi. Invece, con grande sorpresa, al momento dello spoglio furono pochi i voti nulli contenenti il nome del Re o di Mussolini. Il numero di coloro che si recarono a votare aumentò considerevolmente e le percentuali che riscossero i vari partiti dentro l’Ospedale Psichiatrico rispecchiarono a grandi linee quelle a livello nazionale.

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L’ARTE DI ARRANGIARSI

In tutte le situazioni difficili solo chi è in grado di arrangiarsi può farcela e il manicomio era, in questo senso, un grande banco di prova. Banana si era costruito una solida fama di indovinare i risultati con le schedine del totocalcio e ogni settimana vendeva sistemi (quasi) infallibili per far tredici. Girava con un grande borsone offrendo i suoi pronostici a tutto il personale e, alle naturali rimostranze di chi non aveva vinto, rispondeva che gli avevano dato le goccioline e queste gli avevano "sciacquigliato il cervello". Lo Spiridioni aveva trovato chissà dove un vecchio cappello da infermiere. Si piazzava davanti all’ingresso dell’Ospedale e, improvvisandosi posteggiatore, racimolava un po’ di lire per le sigarette. All’inizio andò bene, ma anche quando fu scoperto c’era sempre qualcuno che stava al gioco, magari abbassando le tariffe. Marino faceva lo spesiere all’Infermeria e d’estate comperava i chinotti a due non vedenti. Giunto in reparto li annacquava, qualche volta esagerava e i poveretti si lamentavano perché le bibite "erano sempre più sciape". Il vino era un prodotto ricercatissimo. I malati lavoratori che andavano agli orti se lo procuravano con una certa facilità e anche chi non lavorava, ma godeva di una certa libertà, poteva uscire in città per comprarlo. Per questi ultimi la difficoltà era costituita dai controlli al cancello principale. Per evitarli era stato creato un percorso che risalendo la collina dall’orto de’ Pecci arrivava fin sotto il Sanatorio.

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Fu chiamato il sentiero di Ho Ci Minh, in omaggio alla storica via attraverso la quale il famoso capo vietnamita riceveva i rifornimenti. Il fumo, come il vino, era l’altro "vizio" principale, ma il tabacco era raro, si doveva riutilizzare quel poco delle cicche, mescolarlo e fumarlo a pipa. Ma anche queste mancavano. Bisognava costruirsele lavorando accuratamente un nocciolo di pesca, strusciandolo sul muro o su una panchina. Una volta fatto il fornello veniva bucato e vi si inseriva il cannello per l’aspirazione. Questo era ricavato dall’osso della zampa del pollo, cui veniva tolto il midollo interno. Per questo motivo le cosce di pollo erano molto ricercate a tavola. I fiammiferi non erano ammessi e per accendere bisognava rivolgersi agli infermieri. Quando un malato veniva rinchiuso nelle cellette del lato criminale le sigarette venivano sequestrate. Nonostante tutto alcune riuscivano a passare ugualmente, poi però, si presentava il problema di come accenderle. Una volta un ricoverato mi fece vedere come faceva. Egli conservava in tasca, per l’evenienza, un po’ di cenere di carta, che non veniva notata o non destava sospetto. Giunto dentro la cella, staccava un bottone di metallo e, passandovi un filo fra i fori, lo faceva girare come una trottola. A quel punto disponeva la cenere in prossimità delle sbarre, o vicino al letto, poi con il bottone cercava con cura di far scaturire qualche scintilla con cui incendiava la cenere. Soffiandoci sopra il gioco era fatto. C’era chi, al posto della cenere, usava piccoli batuffoli di lana o di cotone strappati dalle vesti. Una cosa incredibile! Celso, un anziano malato del viterbese, era famoso per allevare uccelli. Al San Niccolò c’erano merli, passeri e tantissimi usignoli. Era una persona che godeva di una certa libertà e per questo era 100

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riuscito a ricavarsi uno spazio fuori dal reparto dove passava ore e ore con i suoi piccoli amici. Molti non li teneva neppure in gabbia e quelli in libertà, quando lo vedevano, accorrevano per essere governati. «Il segreto», mi diceva, «è dargli le uova di formica da piccoli, loro sono golosissimi di queste, se gliele dai verranno sempre a cercarti». Un vero e proprio imprinting! Ho assistito Celso quando, ormai vecchio e cieco, era ricoverato in infermeria. Alcuni uccelli lo venivano a trovare posandosi sul davanzale, sembravano cercarlo, poi ripartivano attraversando le sbarre delle finestre.

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Il ponte che collega l’edificio centrale alle officine

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UN "MATTO" TROPPO COMPETENTE

Fuori dal manicomio si sarebbe potuto scambiare benissimo per uno di quei proprietari di negozi d’antiquariato che ricercano nei mercati di mezzo mondo oggetti particolari di cui finiscono per innamorarsi, ne conoscono tutti i minimi particolari, se li coccolano e se ne distaccano malvolentieri. Vestiva sempre con eleganza e in modo molto formale: giacca, camicia con fiocchino, panciotto attillato da cui spuntava una catenella d’orologio a cipolla. E proprio gli orologi erano stati in qualche modo la causa del suo ricovero in manicomio. Erano la sua grande passione, il suo mondo: da polso, da tasca, a pendolo, in qualsiasi modo, ma rigorosamente di marca, preferibilmente svizzeri, con movimento meccanico. Jaeger-Le Coultre, Eberhard, Paul Picot, Girard-Perregaux, Vacheron Constantin, Baume&Mercier non avevano segreti per lui. Per quest’ultima marca aveva una predilezione particolare che spiegava in termini molto tecnici e in modo colto e raffinato, frutto di letture approfondite nei testi e nelle riviste del settore che studiava continuamente per carpire i segreti di quelle macchine perfette. Era capace di stare per ore davanti alle vetrine dei migliori negozi di Siena dove ormai era conosciuto da tutti: comprava, rivendeva, spesso qualcuno si approfittava della sua grande passione ed era successo, più di una volta, di dover riportare l’oggetto all’oreficeria e farsi restituire i soldi. Quando si era messo in testa di avere l’ultimo modello di una certa marca, diventava Storie e personaggi del manicomio di Siena

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petulante e aggressivo nei confronti dei familiari, i quali, quando proprio non ne potevano più, erano costretti a farlo ricoverare in manicomio. Nella fase acuta l’unico mezzo per calmarlo e poterci instaurare un minimo rapporto era il sequestro di tutti gli orologi che aveva dietro, spesso oltre una decina, per chiuderli nella cassaforte del reparto. Ciò lo riconduceva temporaneamente alla ragione ma, dopo alcuni giorni, cominciava un’estenuante trattativa per riavere "i suoi cari", com'era solito chiamarli. A tenerli chiusi in quel modo si sciupavano, diceva, e poi avevano bisogno di essere caricati, spolverati, accarezzati. La trattativa poteva evolversi consegnando la sola cipolla da taschino, poi, in base al suo comportamento poteva essere estesa a un solo esemplare da polso, ma, fino a che non era rientrato in possesso di tutta la collezione, non c’era pace per nessuno. In camera aveva degli esemplari a muro, alcuni col cucù, che teneva sempre puliti e rigorosamente controllati. Se sgarravano di qualche minuto li smontava per registrarli, cospargendo tutto il letto e il comodino di viti e ingranaggi. Gli infermieri si divertivano a raccontargli di avere a casa modelli particolari ereditati da fantomatici parenti e a quel punto scattava il desiderio morboso: gli occhi si dilatavano, la bocca entrava in salivazione, poi cominciavano a partire domande a raffica su com'erano fatti, se poteva vederli e così via. Durante quei momenti era in estasi: chiudeva gli occhi e, passandosi la lingua sulle labbra, quasi s'immedesimava nell’oggetto. Parlava di corone, bilancieri e movimenti particolari, stropicciandosi le mani con un godimento quasi sensuale e queste conversazioni duravano finché, all’ennesima domanda, l’infermiere non sapeva rispondere o si tradiva su qualche particolare. Un bel giorno, il primario del reparto, tornato da un viaggio in Spagna, lo chiamò per mostrargli il suo grande acquisto fatto in Andorra, un Baume&Mercier modello classico a doppia corona, il suo sogno ricorrente.

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Man mano che il medico, con studiata lentezza, faceva scorrere il polsino della camicia scoprendo il prezioso oggetto, l’eccitazione cresceva. Dopo essersi assicurato che era veramente "un Bomme", come lo chiamava, chiese al primario di poterlo avere in mano per osservarlo meglio. Il medico, con una certa riluttanza, si slacciò il cinturino e lo consegnò all’esperto, raccomandandogli di trattarlo con tutti i riguardi perché l’aveva pagato un occhio della testa. La visita fu accuratissima, una vera e propria perizia: aperta la cassa, apparvero i meccanismi interni che egli osservava come ipnotizzato. Richiuso l’orologio e riconsegnatolo al proprietario, con una voce perfettamente professionale esclamò: «Caro dottore, mi dispiace dirglielo, il suo Bomme è falso! Quello vero ha una minuscola punzonatura rossa sull’asse del bilanciere e questo non ce l’ha. Ha preso una bella sola!» Il medico lì per lì ci rise sopra, ma il "matto" gli aveva messo la pulce nell’orecchio, perciò alcuni giorni dopo andò in un famoso negozio del corso e lo fece esaminare. Risultò falso, non solo l’orologio ma anche la garanzia.

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Il corridoio interno del reparto Livi, oggi Corte dei Miracoli

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IL BERSAGLIERE

Il bersagliere era un personaggio popolarissimo a Siena. Lo vedevi salire in tram regolarmente senza biglietto, il vecchio tascapane a tracolla e in testa il cappello con le piume sempre più rade e spelacchiate. Lo trovavi davanti ai vinai, impegnato in risse verbali e non solo, perché qualcuno lo provocava dicendogli che i bersaglieri avevano venduto l’Italia per un bicchiere di vino. Non era affatto una persona pericolosa né destava certamente scandalo, ma prendeva delle sbornie che a volte lo portavano a un temporaneo "soggiorno" al San Niccolò. Era uno spasso sentirlo raccontare le sue vicissitudini, quando riemergeva dai fumi dell’alcool. Aveva combattuto durante la grande guerra e ne aveva vissuto gli orrori. Parlava delle decimazioni e dei graduati che, dopo averli riempiti di grappa, li mandavano all’assalto. «Loro però stavano sempre dietro, perché avevano paura che gli si sparasse alle spalle! Uno, un sergente, era particolarmente stronzo! Capitò d’inverno che noi si doveva portare su, in quota, dei pezzi pesanti d’artiglieria. Era un freddo boia, le corde erano gelate, noi dovevamo salire come se si fosse alpini, ma io ero un uomo di terra… fui costretto ad arrampicarmi, sotto di me c’era questo sergente, a un certo punto, quando si fu quasi in cima, gli pestai la mano di retta e non lo sentii più…». Arrivati a destinazione il comandante mi chiese: «E il sergente dov’è?» «Boh, sarà sguillato!»

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Paris Morgiani, Sesso in manicomio, particolare. Terracotta (proprietá Cooperativa “Riuscita Sociale”)

Paris Morgiani, Sesso in manicomio, particolare. Terracotta (proprietá Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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ALVARO E L’ ELASTICO

Alvaro si può dire che fosse nato in manicomio. Era un bambino quando, da uno sperduto paesino del viterbese, lo avevano portato, insieme al fratello, all’Istituto Medico Psico-Pedagogico. Al compimento della maggiore età, nonostante avesse recuperato molto dell’iniziale deficit mentale e fosse di "indole mansueta", come si leggeva nella cartella, fu passato dall’altra parte della strada, direttamente in manicomio. Era poco più di un ragazzo, ma aveva maturato la furbizia necessaria per muoversi in quel nuovo ambiente, una furbizia che però non lo avrebbe salvato dalle grinfie di chi, non avendo niente da perdere, gli aveva messo gli occhi addosso. Fu mandato al lavoro in dispensa. Alvaro aveva voglia di darsi da fare, era simpatico e benvoluto da tutti, ma un giorno fu sorpreso a pisciare nell’insalata e per punizione fu mandato al reparto Conolly o, come diceva lui, al Colonnino. Al Conolly trovò un gruppo d'infermieri giovani che erano molto più matti di coloro che dovevano assistere. Ben presto Alvaro divenne il loro beniamino: gli fornivano vestiti borghesi, lo portavano alle partite del Siena, lo responsabilizzavano affidandogli tranquillamente le chiavi del reparto. Alvaro cresceva, in tutti i sensi. Non era più il ragazzino che si masturbava facendo urlare la suora. Ormai certi giornali, la televisione, la condizione di reclusione nel reparto, gli infermieri che lo sfottevano perché era ancora vergine, tutto andava in una certa direzione.

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Alvaro non resisteva più! Non saliva sull’albero del Conolly come il matto nel film Amarcord di Fellini, ma, quando gli prendeva la smania, urlava per tutto il reparto il suo naturale bisogno. La sua voglia era contagiosa: anche altri volevano andare a donne, alcuni ricordavano i bei tempi del casino e volevano riprovare. Questo risveglio però faceva rinascere anche antiche paure e qualche paziente, inizialmente molto deciso, cominciò a ripensarci. C’era una notevole differenza fra chi aveva già avuto esperienze sessuali e chi invece era ancora vergine, privo di qualsiasi conoscenza in materia. Ma ormai la strada era imboccata. Gli infermieri più decisi incominciarono così una nuova "terapia", che li rese protagonisti di un improbabile corso di educazione sessuale fatto di risposte irripetibili, mimiche e simulazioni così paradossali che facevano sbellicare dalle risate. Dopo questa "fase propedeutica", giunse finalmente il momento di andare a contattare le donne, parlarci, sentire se erano disponibili. Questo, in realtà, non fu difficile: sulla Siena-Grosseto, a quel tempo, ce n’erano in abbondanza. I due infermieri, molto conosciuti a Siena, condussero la trattativa. Dopo vari colloqui trovarono una ragazza romana, a cui raccontarono la favola di un loro zio anzianotto, rimasto vedovo, una persona, comunque, pulita e rispettosa. La ragazza accettò con una battuta rimasta memorabile: "Siamo qui per questo". Da quel momento, in reparto, cominciarono le lezioni sulla pulizia personale: quelli che volevano andare a donne (ma l’espressione non era questa) dovevano farsi il bagno, cambiarsi, radersi, tenersi in ordine, essere educati e chiamare la ragazza "signorina". Il primo che volle andare fu un paziente di Viterbo; si era dimostrato il più convinto. Non era giovanissimo e aveva avuto già esperienze in merito. Era stato al casino e lo rammentava spesso, perciò non si sarebbero dovuti presentare particolari problemi. 110

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Un pomeriggio d’estate, il portone del Conolly si aprì, i due infermieri lo fecero salire sulla loro auto e partirono per il grande incontro. Appena ebbero imboccato la superstrada Siena-Grosseto, il paziente chiese di tornare in reparto. Gli infermieri non riuscirono a convincerlo a proseguire e, pensando a una crisi di panico, tornarono indietro. Subito gli chiesero perché avesse improvvisamente cambiato idea. Egli, in modo serafico, rispose che sulle mutande che indossava c’era il timbro "OSPEDALE PSICHIATRICO" e che la "signorina", vedendolo, lo avrebbe preso per un matto. Pretendeva perciò un paio di slip "civili" e, solo dopo aver eseguito il cambio, ripartirono. Tutto andò tranquillamente. Al ritorno il paziente era "gasato" e diventò l’esempio migliore per chi erano ancora titubante. Con il passare del tempo si affezionò a una certa "morettuzza" e non volle più cambiare. La donna, ben presto, nonostante le mutande "civili", capì chi era la persona che la cercava con insistenza ma non ne fece alcun problema. In seguito, quando l’Ospedale fu aperto, andava a trovarlo al Conolly e lo seguiva tranquillamente in camera. Da quel momento, questo degente, gran lavoratore e utilissimo in reparto, cominciò a richiedere l’aumento per i servizi che prestava perché, diceva, doveva andare con la sua "morettuzza". Finalmente fu la volta di Alvaro. Dopo molte "lezioni teoriche" e "simulazioni" in reparto, anche lui fu portato sulla Siena-Grosseto. Durante il tragitto, così come raccontarono i colleghi, sembrava che filasse tutto liscio. Per stemperare la tensione gli davano gli ultimi consigli. Egli non doveva preoccuparsi di nulla, una volta condotto nel bosco avrebbe pensato a tutto la ragazza. Arrivati sul posto, presentarono Alvaro come un loro cugino un po’ inesperto. La ragazza, dopo avergli dato un buffetto, lo prese per mano. I due si allontanarono nel bosco, mentre i "parenti"

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tornarono alla macchina in attesa. A un certo punto si udì un urlo terribile! «Infermieri! Infermieri!» I "parenti" si precipitarono nel bosco. Alvaro si stava rimettendo i pantaloni dicendo alla povera ragazza: «Questa sciocchina mi voleva mette l’elastico, avete capito? Mi voleva mette' l’elastico!» La ragazza, che doveva averne viste tante di quelle scene, un po’ ridendo, un po’ a mo’ di rimprovero, disse loro: «Ahó, ma chi m’avete portato?» Tornati in reparto non mancò ad Alvaro la classica "canata" per quanto era accaduto. Si dovette però ammettere che l’educazione sessuale, almeno sul preservativo, era stata un po’ carente.

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MOSTRI SACRI

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Giovanni Jervis Il San Lazzaro di Reggio Emilia somigliava più a una grande tenuta che a un ospedale. I reparti, sparsi nella campagna, erano molto distanti fra loro e occorreva l’auto per spostarsi da uno all’altro.

Con Anna Dell’Unto e Valerio Bonucci eravamo andati a trovare Giovanni Jervis, un grande della psichiatria, stretto collaboratore di Basaglia a Gorizia fin dal 1966, dove aveva dato inizio alla prima esperienza di comunità terapeutica in Italia. Ben presto, in quel gruppo quasi completamente composto di psichiatri che si richiamavano al marxismo leninismo, erano nate delle divergenze di linea e personalismi. Basaglia era un tipo abbastanza autoritario e viveva le critiche come attacchi personali, per cui le loro strade si erano separate. La nostra non era una visita di cortesia. Reggio aveva, come Siena, un ospedale psichiatrico, retto dalle Opere Pie, che era stato da poco provincializzato. Jervis stava organizzando i servizi esterni all’ospedale attraverso gli ambulatori e i Centri di Igiene Mentale. Un progetto simile era in discussione da lungo tempo anche a Siena. L’edificio centrale del San Lazzaro era modesto, la stanza del direttore abbastanza spoglia e disadorna ma, nonostante questo, provai una certa emozione pensando che era stato l’ufficio di Carlo Livi dopo il suo allontanamento dall’Ospedale Psichiatrico di Siena. Attaccati al muro, con dei cerotti, c’erano ancora alcuni

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disegni di Ligabue, che di quel posto era stato "ospite". Opere su carta, minori ma pur sempre di grande valore, cui non era stato dato alcun risalto. Jervis arrivò in ritardo, pallido, con gli occhi gonfi, i capelli lunghi lisci e nerissimi, un paio di baffetti secchi ormai fuori moda. Aveva appena attraversato una profonda crisi personale e familiare, si era separato dalla moglie e aveva perduto un figlio. Non era vestito falsamente casual come molti di sinistra in quel tempo o, come dicono i francesi, alla maudit. Era proprio trasandato! E questo sarebbe il grande Jervis? Pensai fra me e me. Era il grande Jervis! Lo avvertivi quando esponeva, con incredibile lucidità, la sua teoria di "psichiatria sociale", un’intuizione che si sarebbe rivelata profetica. Le analisi stringenti sul piano teorico erano sostanziate da una grande capacità pratica di misurarsi con la realtà e, contrariamente a Basaglia, di confrontarsi con medici e infermieri in modo pienamente democratico. Non accettava di essere un "mostro sacro", anzi, sosteneva la necessità di sapersi distaccare dalla venerazione dei "maestri". Alcuni anni dopo, ci saremmo incontrati di nuovo quando mi trovai a insegnare alla scuola per operatori psichiatrici che egli aveva fondato a Viterbo. Riteneva fondamentale la formazione del personale, soprattutto quella degli infermieri, cui aveva dedicato due importanti lavori: Il buon rieducatore e Il manuale critico di psichiatria. Jonny, come lo chiamavano gli amici, aveva avuto un’infanzia difficile: da bambino aveva partecipato alla resistenza portando messaggi ai partigiani. Fu preso e interrogato dai nazisti e rischiò la deportazione. A dieci anni aveva perso il padre Guglielmo, "Willy", ingegnere meccanico all'Olivetti. Questi, diventato uno dei capi militari del Partito d’Azione, fu arrestato, torturato per cinque mesi e poi fucilato dai fascisti a Villar Pellice. Per il suo eroico comportamento fu insignito con la medaglia d’oro al valor militare e alla memoria. Jonny è scomparso di recente, quando ai suoi occhi molte cose erano precocemente cambiate e molti miti tramontati.

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Mario Tobino

Mi capitava spesso di andare a Firenze o ad Arezzo, non solo agli incontri di Psichiatria Democratica, ma anche ai numerosi appuntamenti sul tema del superamento degli Ospedali Psichiatrici. Nel corso di questi dibattiti, in cui spesso l’ideologia scorreva a fiumi, una delle peggiori offese che potesse essere rivolta all’interlocutore era l’accusa di "tobinismo". Si trattava di uno dei tanti neologismi coniati per bollare chi, come Tobino, non credeva in dimissioni selvagge dai manicomi e per questo erano considerati "di destra" o, per l’appunto, "tobinisti". Io avevo l’abitudine di sedermi sempre in fondo alla sala, quasi per mimetizzarmi. Mi sentivo piccolo di fronte a platee con nomi tanto importanti. Ero anche uno dei pochi infermieri che facevano parte del coordinamento di Psichiatria Democratica e della segreteria della CGIL ospedalieri. In alcune di queste occasioni, un signore elegante, stempiato, con i capelli già bianchi si sedeva vicino a me. Non sapevo chi fosse. Contrariamente agli altri non interveniva mai e non prendeva appunti. Aveva uno sguardo dolce e un sorriso accattivante, parlava un toscano antico ed elegante, non lo psichiatrese, com'era allora di moda. Una sera, l’ennesimo oratore, bollò di "tobinismo" chi lo aveva preceduto, sostenendo che il manicomio non poteva essere riformato, andava distrutto e i malati reimmessi nella Società. Il signore che mi stava accanto, scuotendo il capo, esclamò: «Ma perché non li lasciano morire in pace questi poveri disgraziati!» Quel signore era Mario Tobino.

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Franco Basaglia

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UNA GIORNATA STORICA

La mattina del 27 aprile 1978 mi trovavo all’Ospedale Psichiatrico di Arezzo per partecipare alla riunione del Coordinamento di Psichiatria Democratica. L’incontro era stato fissato per discutere la bozza della proposta di una nuova legge sulla psichiatria e sui manicomi. Una commissione la stava elaborando da tempo, al fine di evitare il referendum promosso dal Partito Radicale. Di questa commissione facevano parte Basaglia e Pirella, i migliori esponenti di Psichiatria Democratica ed esperti dei vari partiti, fra cui Sergio Scarpa del PCI e Bruno Orsini per la Democrazia Cristiana. Eravamo ancora nel pieno del sequestro Moro, una fase molto delicata per la tenuta delle nostre istituzioni. Da un punto di vista politico il rapporto fra il PCI e la Democrazia Cristiana si era saldato per sconfiggere il terrorismo e in questo clima di non sfiducia, come fu definito, stava maturando una legge sulla psichiatria che tanto avrebbe fatto discutere in Italia e all’estero. Non era certo la prima volta che il Coordinamento di Psichiatria Democratica si riuniva su questo tema. Durante gli incontri precedenti si erano palesate perplessità e divergenze sulla reale chiusura dei manicomi, nonché sulla mancanza di alternative al ricovero. Anche quel giorno non era possibile trovare una sintesi unitaria fra le varie anime del movimento. A un certo momento, verso mezzogiorno, Vieri Marzi, che presiedeva la riunione, si allontanò per rispondere a una telefonata che Pirella e Basaglia gli facevano da Roma. Storie e personaggi del manicomio di Siena

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Rientrato in sala, espose per sommi capi i punti di mediazione cui era arrivata la commissione e terminò dicendo che, in brevissimo tempo, quell’accordo sarebbe stato portato in votazione in parlamento. C’erano pochissimi margini per ulteriori correzioni, perciò chiedevano il nostro parere prima di dare il loro assenso. Immediatamente la platea, fino a quel punto animata e rumorosa, si gelò. Tutti gli interventi furono sospesi. Non trovando un accordo, i convenuti dovettero rinunciare a qualsiasi votazione e, in modo assai pilatesco, lasciarono a Basaglia e Pirella la responsabilità della scelta definitiva. Il giorno dopo la legge andò per la prima volta al voto in Parlamento e, il 2 maggio, fu approvata definitivamente. Venne presentata dal senatore democristiano Bruno Orsini, psichiatra e docente universitario e fu promulgata il 13 maggio. Era la numero 180, ma tutti la chiamarono "legge Basaglia". Ancora una volta egli aveva "pagato il conto" per tutti, forse il più importante della sua vita. Due anni dopo sarebbe morto.

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UNA LOTTA DIFFICILE

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Il San Niccolò

Le lotte e le contestazioni del 1968 avevano coinvolto solo marginalmente Siena e non avevano assolutamente toccato l’Ospedale psichiatrico, il luogo tradizionalmente più "chiuso" di una città che si era guadagnata da tempo l’appellativo di "bella addormentata". Nel 1970 il San Niccolò si presentava ancora come una città nella città, molto ben inserito nella realtà senese dove il pensiero comune era che "i matti vanno rinchiusi, però bisogna trattarli bene". A questo compito pensava la Società di esecutori di pie disposizioni «[…] alla cui onestà, probità e all’amor patrio di egregi cittadini, era demandata la garanzia della più sicura saviezza e prosperità». La "funzione sociale" che svolgeva il manicomio era direttamente collegata alla realtà politico-economica, che vedeva grandi masse di persone emarginate dai nuovi processi produttivi. Il ricovero e la permanenza in O.P. erano la risposta al meccanismo di emarginazione che si andava diffondendo sempre più nella società. Soprattutto gli ex contadini anziani e le donne, non più utili al "miracolo italiano", venivano ricoverati in manicomio, che finiva così per rappresentare una forma sostitutiva di assistenza, in un momento di mancata tutela sociale ed economica. La Legge Mariotti del 1968, aveva superato finalmente quella di Giolitti che risaliva addirittura al 1904. Questa nuova legge riformava profondamente il sistema degli ospedali psichiatrici

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gestiti fino allora dalle Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficenza e li trasformava in Enti Ospedalieri. Erano istituiti i Centri di Igiene Mentale, ripristinati i diritti civili e politici ai degenti e la possibilità di ricoverarsi volontariamente in O.P. I successivi decreti delegati prevedevano inoltre regolari concorsi per le assunzioni, un orario di lavoro uguale per tutti di quaranta ore settimanali, il rapporto minimo di un infermiere ogni tre pazienti e di un assistente sociale ogni cento. L’applicazione della legge comportò un numero notevole di assunzioni, ma l’immissione di questo "nuovo" personale non portò, almeno all’inizio, a una critica al manicomio e alla gestione dei ricoverati. Era comunque finita un’epoca e l’istituzione fu costretta ad adeguarsi alla nuova situazione con forme organizzative che, in qualche modo, rompevano schemi di potere consolidati. Cessarono i controlli meccanici che avevano perseguitato il personale infermieristico, furono aboliti i giudizi personali, utilizzati in modo discriminatorio per creare odiose differenziazioni salariali, non fu più consegnata la medaglietta d’argento a chi lasciava definitivamente il servizio, una cerimonia paternalistica e piagnucolosa, degna del miglior Fantozzi. Anche il meccanismo clientelare, che aveva determinato le assunzioni fino a quel momento, entrò in crisi, pur rimanendo perfettamente oliato ed efficiente nei concorsi interni, nelle carriere di concetto e in quelle direttive. Il monopolio della Democrazia Cristiana-CISL, che fino allora aveva dominato in tutti i settori, dovette fare i conti con una rappresentanza sindacale più equilibrata: la UIL vide crescere le proprie adesioni e la CGIL, ben presto, diventò il sindacato maggioritario. Cambiò perfino il vestiario: le tristi gabbanelle marroni e il cappello nero di foggia militaresca, furono sostituite con delle cappe bianche, lunghe, che si abbottonavano di dietro. La

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lunghezza della cappa, dicevano, era motivo di sicurezza nel caso venisse sferrato qualche calcio nelle zone basse del corpo. Un residuato del concetto di pericolosità che non era stato ancora intaccato. Rimaneva in piedi un’organizzazione gerarchica di tipo autoritario-efficientistico, ma finivano i ricatti e la paura che avevano contrassegnato gli anni precedenti e miglioravano anche i rapporti fra il personale subordinato, i medici e i responsabili dei vari settori. Non fu più praticato l’elettroshock, molto ridotta l’insulinoterapia e alcuni medici cominciarono a sperimentare i primi psicofarmaci, ma i reparti restavano chiusi e separati in maschili e femminili. Il San Niccolò, con la sua capacità di 1770 posti letto, ricoverava persone della provincia di Siena, Grosseto, Viterbo e Massa Carrara e in più aveva anche un piccolo numero di ricoverati di Firenze, trasferiti a causa dell’alluvione del 1966. Vi lavoravano oltre 900 dipendenti ed era diventata la seconda o la terza "industria" del senese. Le varie province continuavano a pagare una retta pro capite per i loro ricoverati e avevano nominato ciascuna un rappresentante nel Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale. Pur essendo gli ufficiali pagatori non avevano, o non volevano avere, peso sufficiente per prendere decisioni alternative. La gestione dell’Ospedale e le conseguenti scelte assistenziali rimasero perciò sempre saldamente in mano della Direzione sanitaria e ai vari primari, i quali si attestarono su una gestione puramente custodialistica.

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Paris Morgiani, Allegoria sul pagamento dello stipendio ai dipendenti. Terracotta dipinta a freddo (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

Paris Morgiani, Allegoria sul pagamento dello stipendio ai dipendenti, particolare. Terracotta (proprietà Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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I PRIMI PASSI

A due anni dall’entrata in vigore della legge Mariotti e dalla pubblicazione de L’istituzione negata di Franco Basaglia, all’interno del San Niccolò per i ricoverati era cambiato ben poco. La provincia di Siena non aveva ancora costituito il Centro di Igiene Mentale e aveva ben 484 ricoverati in O.P., la maggioranza dei quali si trovava lì da oltre venticinque anni. Le nuove ammissioni erano per la grande maggioranza coatte e quelle volontarie erano fra le più basse della Toscana. Una battaglia personale in favore dei malati era stata fatta da Livio Burroni, per concedere loro la carta igienica. Una bella questione di principio su un problema, in realtà, di secondaria importanza. L’ospedale aveva aspetti contraddittori: alcuni reparti erano stati restaurati e si presentavano migliori, dal punto di vista ambientale, di quelli dell’Ospedale civile, che a quel tempo si trovava ancora al Santa Maria della Scala. Altri invece, come il Conolly, il Chiarugi, le infermerie, erano dei veri e propri lager. A differenza di altre città, a Siena non si erano verificati scandali tali da portare il nosocomio all’attenzione dell’opinione pubblica. Il regime di custodia funzionava perfettamente per tranquillizzare la città. I pochissimi degenti che potevano uscire si limitavano soltanto a fare qualche capatina ai bar del ponte di Romana. Era perciò molto difficile che in una situazione del genere si sviluppassero all’interno teorie alternative o di contestazione, anche perché tutti i medici erano su posizioni organiciste e di estrema

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chiusura alle nuove idee che stavano avanzando. In un articolo del 1970, il prof. Reale, direttore dell’Ospedale riaffermava «il preciso e insostituibile ruolo assistenziale dell’Ospedale Psichiatrico, valido centro di studio, di ricerca scientifica e di formazione del personale», riaffermando così il primato dell’Ospedale nei confronti del territorio e la centralità del potere medico. Nonostante ciò, all’esterno si respirava un clima di grandi cambiamenti e nei primi anni ‘70, al vecchio cinema Smeraldo, cominciarono i primi timidi accenni di dibattito sugli ospedali psichiatrici e la loro funzione. Questi incontri furono un momento importante di confronto esterno, soprattutto con studenti universitari e insegnanti; crearono interesse attorno al problema generale ma non portarono, come in altre città, a una saldatura fra operatori e opinione pubblica né a un conseguente movimento di contestazione del manicomio. Anche il Sindacato Ospedaliero, la FLO, che pure si era rafforzato in quegli anni, era rimasto su posizioni conservatrici: non aveva maturato un’analisi sulla funzione dei manicomi, né un progetto unitario d'intervento per il loro superamento. Si andava da una generica "richiesta di umanizzazione" a iniziative di "risocializzazione" che altro non erano se non forme piuttosto palesi di nuovo paternalismo. Sarebbe perciò più corretto parlare, anziché del ruolo svolto dal sindacato, di persone che, all’interno delle singole sigle, presero coscienza del fatto che il manicomio non poteva curare. Furono essi a dare vita a un movimento di contestazione e di apertura. Le loro prime iniziative furono all’insegna di una pseudolibertà con feste e attività ricreative cui poterono partecipare, per la prima volta, degenti di ambo i sessi. Queste, se non altro, contribuirono a stemperare il clima di chiusura dell’ospedale e a porre il problema dell’apertura dei reparti. Nel 1972 cominciò a uscire "Fogli d’informazione", che sarebbe diventato in seguito l’organo ufficiale di Psichiatria Democratica. Questa prestigiosa rivista, diretta da Paolo Tranchina, aveva una 124

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veste apparentemente povera, con la copertina dimessa e in carta da pacchi, ma era stata progettata da Vittorio Gregotti. Noi della sezione aziendale della CGIL sottoscrivemmo una ventina di abbonamenti e fu data una copia a ogni membro del Comitato direttivo. Nello stesso tempo la sezione Borri del PCI, diretta da Anna Cigni, diventò un altro centro di dibattito e di approfondimento per tutti coloro che lavoravano al San Niccolò nonché per studiosi come Florio Carnesecchi, Enzo Nassi e molti altri. Furono organizzati dibattiti con Sergio Scarpa, Mario Tronti, Bruno Benigni, le menti migliori del PCI nel settore della psichiatria. Lo studio di altre esperienze ci spingeva a trovare soluzioni per Siena. Che cosa fare in una situazione come la nostra? Il Partito Comunista senese non aveva scelto la linea del superamento del manicomio, l’Amministrazione Provinciale era solo preoccupata che le rette non aumentassero troppo. Le case famiglia e le altre strutture protette che Arezzo e Trieste avevano realizzato erano solo un miraggio, perciò tutta la nostra elaborazione culturale, non avendo sbocchi operativi, finiva per essere abbastanza sterile e frustrante. Sul piano teorico c’erano inoltre visioni diverse su come affrontare il rapporto ospedale-territorio: il pericolo di psichiatrizzazione di quest’ultimo era un rischio serio, soprattutto in mancanza di un controllo dal basso, come si diceva allora, di prassi e operatori. Negli incontri con le altre categorie di lavoratori, soprattutto della Val d’Elsa, cominciava a crescere l’attenzione verso i problemi della salute, dell’alienazione in fabbrica, dell’emarginazione. Questioni già mature nella società italiana, che avevano portato il gruppo per la gestione sociale dell’igiene mentale di Modena a pubblicare una "Lettera a un metalmeccanico". In essa si poneva la necessità di un confronto fra operatori psichiatrici e operai, per affrontare insieme i problemi della salute mentale. Pochi mesi dopo, a Bologna, un gruppo di psichiatri vicini

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a Franco Basaglia fondava Psichiatria Democratica e il primo segretario eletto fu Gianfranco Minguzzi. Trieste, dove operava Basaglia, veniva designata dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità zona pilota per l’Italia e l’anno successivo, il 22 e il 23 di Giugno, veniva organizzato a Gorizia il primo convegno nazionale di Psichiatria Democratica su "La pratica della follia". Con Gianfranco Palma (un medico di Roma che sarebbe diventato in futuro consulente per la psichiatria della Regione Lazio) partecipammo ai lavori. Per la prima volta i personaggi mitici che avevo solo sentito nominare si trovavano davanti ai miei occhi: Basaglia, Jervis, Slavich, Pirella e tanti altri, si alternavano sul palco portando resoconti di esperienze già in atto ed io non potevo far altro che pensare alla nostra situazione, ancora terribilmente arretrata. Basaglia aveva un volto giovanile, sorridente, una voce caratteristica, con un forte accento veneto. Si esprimeva in modo molto chiaro, quasi didascalico, usava spesso parole come persona, diritti, liberazione, non entrava mai in questioni ideologiche, non faceva citazioni, sembrava quasi si scusasse per le "banalità" di cui parlava. La violenza istituzionale l’aveva provata sulla propria pelle durante il periodo fascista, quando era stato arrestato e rinchiuso in carcere per alcuni mesi. Godeva di grande prestigio anche in chi non condivideva le sue idee: i baroni universitari che vedevano attaccato il loro potere si rammaricavano «che un grande neurologo come lui, di famiglia agiata e borghese, fosse diventato comunista», mentre altri ne banalizzavano il pensiero dicendo che negava la malattia mentale ed era un "antipsichiatra". In realtà Basaglia non era affatto comunista e non vedeva di buon occhio i partiti e i movimenti di sinistra, ma il fatto di esprimere istanze libertarie era sufficiente per etichettarlo in quel senso. Quanto all’apertura totale dei manicomi e alla liberazione dei malati ci fu un momento di ripensamento e di cautela a

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seguito di un tragico episodio. Un primario del suo ospedale a lui ostile, aveva fatto uscire un vecchio ricoverato per una visita in famiglia. Costui, dopo una violenta lite, aveva ucciso la moglie con un’accetta. Il fatto era stato amplificato dalla stampa nazionale e rischiava di far fallire tutto il progetto di liberalizzazione. Basaglia, nonostante non avesse alcuna responsabilità, fu processato, ma soprattutto furono processate le sue idee. Durante il convegno di Gorizia si tenne anche una seduta del Tribunale Russell II sul tema psichiatria e tortura. Il Presidente Lelio Basso non aveva potuto essere presente e aveva inviato il suo vice, Vladimir Dedijer, il quale lesse un commovente saluto di Jean Paul Sartre, Presidente onorario, sul rapporto tra l’intellettuale e la società. Durante la sessione furono portate testimonianze terribili provenienti dalle carceri sovietiche, cilene e dell’Irlanda del nord, dove la psichiatria e gli psichiatri erano finiti per diventare strumento di oppressione e di tortura. In seguito a ciò, fu proposto di espellere i rappresentanti della psichiatria sovietica dagli organismi internazionali. C’era nell’aria un gran fermento di idee, una voglia di fare che contagiava e ti dava coraggio. Durante una pausa del convegno andammo a pranzo con un gruppo in un ristorante. Al momento del conto, mentre stavamo facendo la divisione per pagare "alla romana", il cameriere, che evidentemente lo conosceva bene, esclamò: «è tutto a posto, gh’a pensa’ Basaglia».

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Vista dall’alto dell’ingresso all’edificio centrale

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IL BISOGNO DI CAMBIARE

Le nuove idee in campo psichiatrico e gli incontri avuti con i colleghi di altri ospedali cominciavano a far maturare la necessità di un lavoro diverso e quindi di un rapporto diverso con il malato. Questo però poteva essere realizzato solo attraverso una severa analisi del potere e di come esso fosse usato. Si trattava, in alcuni casi, di una reazione naturale verso una gerarchia assurda, specialmente nei reparti femminili, ove incombeva la presenza delle suore. Per i più politicizzati, d’altra parte, era un primo spazio di democrazia da conquistare, dato che il potere del medico era pressoché assoluto. In un paio di reparti i primari un po’ più aperti avevano iniziato a tenere incontri con il personale. Momenti informali, la mattina, dopo la colazione e le pulizie. Erano cose elementari, non certamente quel lavoro di gruppo tanto auspicato, però servivano a smorzare le tensioni e a migliorare il rapporto fra operatori e degenti. Ben presto fu chiaro che un approccio diverso verso il malato passava per una nuova professionalità e conoscenza dei problemi e quindi attraverso una diversa preparazione. Con uno di questi primari ero in buoni rapporti. Nei nostri colloqui emergeva chiaramente il suo disagio per essere considerato, alla stregua degli altri, un conservatore che aveva scelto la psichiatria come ripiego. Nonostante fosse molto influente non se la sentiva di mettersi contro il fronte medico, soprattutto in mancanza di un appoggio esterno e di una precisa volontà di Storie e personaggi del manicomio di Siena

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lotta al manicomio. Volontà che non c’era neppure nel Partito Comunista. Nonostante condividessi i suoi timori, gli organizzai un incontro in Federazione con il segretario e il responsabile della sanità, sperando che prendesse coraggio e quel tenue filo non si rompesse. Non ci aspettavamo impegni precisi, ma fu chiaro che il PCI senese non intendeva impegnarsi direttamente in politiche alternative come aveva fatto ad Arezzo e Trieste. Con togliattiana doppiezza e molta ipocrisia, si limitarono a dire che avrebbero seguito con "grande interesse" i fermenti e i progetti di cui avevamo parlato e con quello ci congedarono. Ovviamente il primario si rafforzò nelle sue convinzioni ma, nonostante tutto, si dichiarò disponibile a organizzare un corso di riqualificazione fuori dell’Ospedale. L’iniziativa, però, doveva scaturire da una richiesta del sindacato, in modo da non farlo esporre in prima persona. Il corso, della durata di una settimana, si svolse presso il Circolo ARCI della Coroncina e vide una grande partecipazione del personale che, fuori dall’orario di lavoro, seguì i vari incontri con interesse e passione. Vi parteciparono anche molti insegnanti e studenti universitari. Il superamento dei manicomi veniva visto come un momento in cui la società poteva fare i conti con i vecchi e i nuovi problemi che si stavano presentando: la miseria, le disuguaglianze sociali, l’emarginazione, nuove forme di alienazione. Insieme alle altre nasceva un’altra utopia in noi, ma che era solo un’utopia, lo capimmo molto tempo dopo.

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PSICHIATRIA E STREGONERIA

Nel viterbese era un’usanza consolidata consegnare alle guardie municipali o ai carabinieri che trasportavano il "goio" a Siena, venti coppie d’uova. Nessuno ha mai saputo dirmi perché proprio venti, ma quello era storicamente il compenso per il disturbo. L’uovo, fin dall’epoca etrusca, era simbolo di vita e perfezione, ma in epoca moderna aveva finito per assumere forme più "terrene" di ricompensa e di medicina dei poveri. Durante le rare visite dei familiari ai loro congiunti ricoverati glielo facevano ingoiare crudo, dentro il parlatorio, per rinvigorire il corpo spossato dalla malattia. Oppure lo utilizzavano per una chiarata in testa, per "sfiammare il cervello". Anche se non era dimostrato il suo effetto terapeutico, «male non faceva, almeno rinforzava i capelli». Cospargere il capo con cenere e un po’ di miele era un’altra pratica dal vago significato penitenziale che era eseguita frequentemente. I "matti", più prosaicamente, avrebbero preferito una bottiglia di cannaiola o di aleatico, ma quelle erano cose proibite e facevano male. Si portavano semmai al "caporale" perché avesse un occhio di riguardo per il loro congiunto. Un pomeriggio di Settembre arrivai con un collega in un paesino del viterbese per una visita domiciliare. Non sapendo esattamente la strada ci fermammo a chiedere informazioni a una persona del posto. Costui, saputo che venivamo dal manicomio di Siena, ci disse che il fratello di quel "goio" (matto) ricoverato, era quel tipo che stava parlando in mezzo a un gruppo poco distante. Ci avvicinammo e ci rendemmo subito conto che costui era una specie d’autorità in paese, uno che sapeva

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di scienza! Infatti stava facendo una dotta lezione sul perché gli uomini parlano e le bestie no. Tutti ascoltavano in silenzio: «Noi, al contrario delle bestie, parliamo perché abbiamo le corde vocali e le corde vocali, che si trovano nell’ugola, funzionano perché sono alimentate dal sangue. Dunque il sangue è tutto. Perciò, se io mi metto il sangue del gatto, faccio miao, e se metto il mio sangue al gatto, esso parlerà». Tutti assentivano, finché qualcuno chiese se avesse provato e come fosse andata a finire l’operazione. «L’esperimento è parzialmente riuscito perché io miagolare miagolo, ma la mecia, col cazzo che parla!» C’era uno psichiatra molto conosciuto a Siena per la sua attività privata, che credeva fermamente nelle pratiche esoteriche per curare le forme di delirio mistico e le donne che dicevano di essere possedute dal demonio. Una sera mi propose di assistere a un esorcismo tenuto da un suo amico, don Luigi Rosadini. Io conoscevo bene questo sacerdote perché era stato per molto tempo a Buonconvento. Sapevo del suo contributo alla resistenza in cui, con il nome di battaglia "Senza paura", si era guadagnata la medaglia d’argento. Aveva anche salvato alcuni ebrei senesi e per questo lo Stato d’Israele lo aveva insignito dell’onorificenza di Giusto tra le Nazioni. La persona in preda al demonio era una donna di età difficilmente definibile, sulla cinquantina. Si era già rivolta allo psichiatra ma, non trovando nessun miglioramento, era stata da questi indirizzata a don Rosadini. Il luogo era un locale spoglio e disadorno all’interno di una famosa chiesa senese. Io rimasi in una piccola stanza adiacente dove, attraverso un finestrino coperto da una tenda, potevo intravedere ciò che succedeva nella stanza accanto. Dopo aver presentato la donna al sacerdote, lo psichiatra mi raggiunse. L’esorcismo durò molto a lungo, inframmezzato da bestemmie, minacce e urla terrificanti. Finì solo quando la donna, 132

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stremata, cadde in una specie di sonno. Anche il sacerdote era provato. Mi colpirono la dinamica, la veemenza e la trasfigurazione della donna, capace di sprigionare un’energia insospettata per la sua età. Anche il sacerdote era stato messo a dura prova: sembrava davvero aver ingaggiato una lotta contro il maligno, ma essendo io un convinto non credente e avendo lavorato in vari manicomi ne avevo visti di casi del genere, per cui non rimasi molto impressionato. Qualche tempo dopo ebbi modo di riparlarne con lo psichiatra. Egli continuava a sostenere che in certi casi era più efficace l’esorcista del medico. «Se non altro costa meno», aggiunsi. Non la prese bene.

B. Schoen, Il diavolo suona Lutero come una cornamusa, 1535. Gotha, Landesmuseum

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Reparto Montemaggio, Dall’esclusione sociale alla segregazione, particolare. Murales

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DA GUARDIANI A PROTAGONISTI

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Il Montemaggio

La possibilità di aprire l’Ospedale all’esterno e di stabilire un legame con il territorio si presentò nel momento in cui fu restaurato un reparto al terzo piano dell’edificio centrale. Si doveva procedere alla sua riapertura. Era la primavera del 1977. Fino a quel tempo i malati delle varie province e regioni si trovavano mescolati un po’ in tutti i reparti. Ciò significava non solo la perdita di contatti ma soprattutto impediva uno studio preciso per zone di provenienza, in modo da quantificare, comune per comune, il numero dei ricoverati e formulare eventuali prospettive di dimissione. Questa esigenza fu messa alla base dell’apertura del nuovo reparto, in cui furono riuniti tutti i degenti che provenivano dalla Val d’Elsa. La zona non fu scelta a caso: c’erano già stati contatti con gli amministratori di alcuni comuni, soprattutto quelli di Poggibonsi e San Gimignano. Lì operava un servizio sociale efficiente e, soprattutto, era una zona ricca, in grado di poter mettere a disposizione strutture per eventuali dimissioni. Riuniti i degenti, doveva essere scelto il personale. Non poteva essere quello legato alla tradizionale linea custodialistica, perciò le tre organizzazioni sindacali pubblicarono un concorso interno per chi era disponibile al nuovo tipo di lavoro. La risposta andò oltre le aspettative e fu necessario procedere a una selezione, confermando che Siena, contrariamente ad altri luoghi, aveva negli infermieri un potenziale colpevolmente

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sottoutilizzato. Dopo oltre due mesi d'incontri e discussioni preliminari, in cui fu approfondito il senso e gli obiettivi del nuovo lavoro, fu effettuata una votazione a scrutinio segreto. Il criterio di scelta poté riguardare solo il personale infermieristico, perché i capisala, i medici e il primario erano già stati designati dalla Direzione. Il Primario designato era la dr.ssa Marzotti, un medico non certamente della linea di Psichiatria Democratica ma persona seria e corretta. Lasciava spazio alle idee nuove che stavano nascendo e credo che, in cuor suo, avesse voglia di scrollarsi di dosso quell’alone di autoritarismo e di freddezza che molti le avevano affibbiato. Dalle votazioni finali uscì un gruppo giovane e preparato e molto convinto di intraprendere questa nuova esperienza. Il nuovo reparto fu inaugurato il 9 maggio 1977. Si trovava al terzo piano dell’edificio centrale.

Reparto Montemaggio, Dall’esclusione sociale alla segregazione, particolare. Murales

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Nel restauro erano state tolte le sbarre alle finestre ma era stato mantenuto un meccanismo di parziale chiusura delle imposte, in modo da impedire eventuali tentativi di suicidio. Tenerle aperte o chiuse? Fu il primo banco di prova delle nostre motivazioni. Eravamo ben coscienti che se fosse accaduto qualcosa, l’esperienza sarebbe finita ancora prima di partire. Non conoscevamo neppure tutti i ricoverati e questo rappresentava un rischio ulteriore. Fu deciso a maggioranza di tenerle aperte e di fare molta attenzione. Per fortuna non successe nulla e, con il tempo, ci dimenticammo del pericolo. A questo punto bisognava assegnare il nome a questo reparto. Gli altri erano quasi tutti intitolati a psichiatri del passato. Io proposi di chiamarlo Montemaggio, pensando alla guerra partigiana che aveva visto quella località teatro di azioni coraggiose e di un terribile eccidio. Ora eravamo noi i nuovi renitenti-partigiani della psichiatria, che volevano combattere contro il fascismo manicomiale e per la libertà dei malati. Forse la mia era una visione troppo romantica, ma all’assemblea di reparto il nome fu approvato e si decise anche di invitare Vittorio Meoni, unico superstite dell’eccidio di Casa Giubileo, per parlarci dei fatti del Montemaggio. Nei primi giorni il reparto sembrava più un cantiere che una sezione ospedaliera: avevamo preferito non far trovare ai degenti tutto già pronto. Si voleva coinvolgerli da subito nell’organizzazione. C’era grande eccitazione e voglia di fare, tanto che spesso restavamo al lavoro anche dopo la fine del turno. Una volta sistemati gli arredi e le camere, cominciò il lungo lavoro di storicizzazione di ogni singola persona. Si trattava di ricostruire, per ogni ricoverato, una nuova storia, una fotografia nitida, attraverso il vissuto familiare, sociale e istituzionale, riallacciando i contatti con la famiglia e il comune di provenienza. Così si otteneva un profilo molto più complesso e prezioso di quello, unicamente comportamentale, che eravamo abituati a leggere nelle cartelle dell’Ospedale. Questo lavoro ci rafforzò nella convinzione che il manicomio non

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solo non curava, ma aggiungeva patologia a quella eventualmente esistente. I guasti del lungo internamento emergevano con chiarezza dalle cartelle cliniche, dalle testimonianze, dai colloqui con i diretti interessati. Una discesa verso il basso inarrestabile: annotazioni burocratiche, fredde, ripetitive. Poi i vari trattamenti subiti, i giorni di contenzione, gli anni chiusi in cella, i tentativi di fuga. Poi c’era il non scritto: le botte, i "cappucci" con le camicie bagnate e arrotolate alla gola, ritorsioni e violenze psicologiche di ogni tipo. Molte di queste persone, quando ci avvicinavamo troppo, si coprivano ancora istintivamente la testa per proteggersi. Ma ora la violenza era sparita, la presa di coscienza, magari tardiva, era la base del nuovo lavoro e venne affermata in una pubblica lettera d'intenti firmata da tutti. Il reparto era diventato un luogo aperto: altri ricoverati, giornalisti, studenti, venivano alle riunioni, si fermavano a cena. Con Paris Morgiani dipingemmo un grande murales intitolato Dall’esclusione sociale alla segregazione: perché e per chi. Ognuno poteva autorappresentarsi e firmare. Il risultato fu un’opera collettiva, forse molto ideologica, ma di grande significato umano. Era, per noi, quello che Marco Cavallo era stato per Trieste: un simbolo in cui ci si riconosceva tutti. In una stanza fu creato uno spazio di espressività frequentato anche da pazienti di altri reparti, cominciavano nuove forme di comunicazione e nascevano opere dense di significato. Ma non c’era solo il lavoro e l’impegno. Il Montemaggio era diventato anche un luogo dove si mangiava benissimo: alcune infermiere erano cuoche insuperabili e anche le ricoverate si mostravano molto interessate a questa attività. Giulia, un donnone alto che era stata in isolamento per molti anni, sapeva fare sfoglie di pasta finissime che erano stese sui tavoli. Quando i tavoli erano tutti occupati, le mettevamo ad asciugare sopra i letti. Nel libro delle consegne cominciarono a comparire nuove "indicazioni terapeutiche", come "continuare a impastare le frittelle" o la pasta per la pizza. In Giugno, per la prima volta, i ricoverati del

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Montemaggio andarono in vacanza al mare a Rimini, insieme agli anziani della Val d’Elsa. Vicino alla pensione in cui eravamo alloggiati c’era l’albergo Stella Polare. Il marito della proprietaria era un certo Vincenzo Muccioli, cui gli affari non andavano molto bene. Egli non se ne preoccupava più di tanto, perché, come diceva spesso, «qualche soldo ce l’ho e questa vita non mi piace affatto». Quando seppe che provenivamo dal manicomio di Siena si mostrò molto interessato e avemmo diverse occasioni d’incontro. Aveva idee molto particolari sulla psichiatria e la malattia mentale. Per molti aspetti la riconduceva a concetti settecenteschi: debolezza di volontà e perversione della personalità. Per curarla pensava occorressero persone forti e decise, con qualità particolari che egli sosteneva di possedere e di saper mettere in pratica. In quel momento si stava occupando della figlia di una sua amica che soffriva problema di droga e l'aveva "in cura" nella sua casa di campagna di San Patrignano. L’anno successivo, nel 1978, tornammo a Rimini. A San Patrignano c’erano già oltre trenta persone, il suo "trattamento morale" era iniziato ed io, scherzando, dicevo a Muccioli: «Noi il manicomio cerchiamo di distruggerlo. Non è, per caso, che tu lo stai rimettendo in piedi?»

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Degenti del Montemaggio al campeggio a San Gimignano

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Il campeggio

In quel periodo soggiorni al mare o in montagna e gite fuori dell’Ospedale furono effettuati un po’ ovunque, ma sempre con gruppi scelti e in ambienti in qualche modo "protetti". L’ipotesi che si voleva sperimentare era quella di andare oltre il momento ludico e di dimostrare che queste persone potevano vivere in luoghi normali, senza che questo portasse a situazioni ansiogene o di rigetto da parte della gente. Al tempo stesso si trattava di verificare il grado di autonomia di ognuno in vista di eventuali dimissioni. L’idea del campeggio nacque una sera d’Agosto del 1977 in un incontro al festival de l’Unità di San Gimignano, dove eravamo stati invitati a un dibattito sulla sanità insieme all’On. Ciacci e ai rappresentanti del Consorzio Socio-Sanitario. Arrivammo nel tardo pomeriggio. Eravamo in ventidue persone fra operatori e degenti. Cenammo fra lo sguardo incuriosito dei presenti. Finito di mangiare ci spostammo nell’area dibattiti, sparpagliandoci fra la gente che cominciava ad arrivare. Io occupai il posto accanto al sindaco Marrucci, impegnato a convincere la figlia che faceva le bizze e non voleva andare a letto. Sembrava che nessuno avesse fatto caso a noi, perciò quando il sindaco annunciò che erano presenti anche "quelli del manicomio di Siena", per un attimo ebbi timore che ognuno guardasse il proprio vicino di sedia. Comunque sia il dibattito proseguì tranquillamente. Alla fine si formarono i soliti capannelli e parlando del reparto Montemaggio e delle iniziative che avevamo in mente, fra cui un soggiorno in Val d’Elsa, il Sindaco ci disse che il Comune aveva un campeggio e che potevamo approfittarne. Era il 6 agosto, il tempo a disposizione per l’organizzazione era poco e i problemi che ci si ponevano di fronte ci sembravano quasi insormontabili. Tornati in reparto, cominciammo subito una serie di riunioni con i degenti, per vedere se erano interessati. All’inizio sembrarono molto perplessi. Solo Maria, Maria di Nannone come la chiamavano a San Gimignano, era entusiasta dell’idea di tornare Storie e personaggi del manicomio di Siena

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nella sua città e diceva a tutti: «Quando si parte? Un mi par vero!» Piano piano anche altri degenti si convinsero a partecipare. Nel frattempo l’ARCI, che gestiva il campeggio, ci fece sapere di averci riservato due piazzole e il Comune assicurò i pranzi tramite la mensa del distretto Socio-Sanitario. A noi restava il compito di organizzare tutto il resto. Il 16 Agosto andammo a montare le tende e il giorno successivo i campeggiatori del Boschetto di Piemma, fra cui molti stranieri, si trovarono di fronte a una strana comitiva di persone indaffarate a scaricare materassi, biancheria e medicinali. Eravamo due infermieri e cinque degenti. Ci sentivamo addosso lo sguardo di tutti, segno che i gestori avevano avvertito del nostro arrivo, ma dai sorrisi che ci rivolgevano prendemmo coraggio e ci sistemammo in una splendida posizione da cui si godeva di un magnifico panorama sulla città e sulle torri. Nel pomeriggio ricevemmo la prima visita da parte dell’assessore alla sanità, Alvaro Bracali, persona davvero positiva, di poche parole e molta sostanza. Alvaro riconobbe alcuni suoi ex concittadini fra cui Franco e Amato e iniziò così, sul filo dei ricordi, un feeling che non si sarebbe più interrotto. I giorni seguenti li impiegammo a riscoprire San Gimignano. Maria di Nannone lo aveva lasciato da bambina, aveva otto anni quando fu ricoverata. Ci portò dove la presero i carabinieri «perché io scappai, ‘un mi garbavano i carabinieri…». Al mercato, nei bar, per la strada, le persone riconoscevano i loro concittadini ed erano baci, Alvaro Bracali, all’epoca assessore alla sanità del Comune di San Gimignano

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abbracci e tanta commozione. Non solo non c’era più paura, ma non c’era neppure l’atteggiamento protettivo o compassionevole che molto spesso scatta in questi casi. Cominciava a emergere il grande significato di un contatto diretto fra persone in un clima non più viziato dai pregiudizi sui matti e sul manicomio. Ricevemmo molte visite da parte di altri gruppi del Manicomio di Volterra, della Tinaia di Firenze, con cui rimanemmo in contatto per altre iniziative. Venne a trovarci Michele Zappella che scrisse un bell’articolo sulla nostra esperienza, poi molti studenti e familiari. I nostri vicini di tenda erano Ilaria e Claudio Lombardi, il figlio di Riccardo, padre nobile del PSI. Un giorno lo vedemmo arrivare con la tradizionale pipa e un bel sorriso sulla faccia affilata. Alla fine furono oltre venti i degenti che vennero al campeggio, «un’esperienza», come disse l’assessore Gerola, «che non è stata un’avventura! Questi operatori hanno saputo lavorare con serietà ed entusiasmo». Sul diario che tenevamo, fra le tante annotazioni scritte dai campeggiatori, ce n’era una particolarmente espressiva:

domani domani ancora su in montagna con gli occhi asciutti per le lacrime versate per i compagni ammazzati con i fucili o le camicie di forza domani domani chiamateci ancora matti ci faremo un’altra poesia.

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Degenti e infermieri vendemmiano nelle vigne del Bigazzino a San Gimignano

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La vendemmia

Il campeggio aveva suscitato grande interesse in Val d’Elsa. Ora si trattava di mantenere vivo il rapporto che si era creato con i familiari e gli amministratori della zona. I contatti con il Sindaco di San Gimignano, Marrucci, e l’assessore Bracali, portarono alla organizzazione in una nuova iniziativa: la vendemmia in un'azienda agricola. Un’occasione per fare un’esperienza di lavoro accanto agli operai, ai lavoratori stagionali, ai pensionati. L’azienda agricola Il Bigazzino si dichiarò disponibile. Noi pretendemmo che i degenti avessero parità di salario e che il "minor rendimento" fosse compensato dal lavoro degli infermieri che avrebbero partecipato. Quell’anno, il 1977, la vendemmia cominciava tardi a causa del tempo inclemente. Anche quel giorno scendeva un’acquolina fitta che inzuppava il terreno. Tutto ciò complicava molto il nostro lavoro ed eravamo abbastanza preoccupati. Partimmo ugualmente e ci sistemammo nell’ostello del comune vicino all’ospedale di Santa Fina, dove c’erano delle brandine lasciate libere dagli studenti e ci tenemmo pronti. Finalmente il tempo migliorò e la vendemmia poté iniziare nelle vigne di Montegonfoli e Larnino. Ogni mattina sveglia alle sette, colazione e poi al lavoro. Vedere persone come Giulia, ritenuta tanto pericolosa da essere tenuta in isolamento per due anni, maneggiare con perizia le forbici da viti e deporre delicatamente i grappoli nel paniere era un’emozione che ripagava di tutto. Lavorando fianco a fianco con gli altri operai riemergeva una gestualità che essi non avevano dimenticato. E poi i modi di dire, i racconti, le storie, mi facevano pensare con rabbia alle potenzialità che quelle persone avevano in sé e che in manicomio venivano mortificate. Storie e personaggi del manicomio di Siena

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Nella vigna nacquero una nuova solidarietà e nuove amicizie. Spesso, dopo cena, ci trovavamo con gli altri lavoratori al bar come a finire naturalmente la giornata e fra una chiacchera e l’altra la vernaccia sostituiva sempre più gli psicofarmaci.

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La raccolta delle foglie

Nel tardo autunno di quell’anno ci fu offerta un’altra esperienza di lavoro a San Gimignano: la raccolta delle foglie lungo i viali che costeggiano i bastioni di quella bellissima città. Al contrario della vendemmia era un lavoro poco gratificante. Si svolgeva in un periodo in cui il freddo cominciava a farsi sentire ma, proprio per questo motivo, fu utile per sperimentare possibilità di lavoro che si sarebbero potute presentare a degenti più giovani. Noi potevamo accontentarci di semplici dimissioni in ambienti protetti, dove anche chi era in grado di svolgere un minimo di attività lavorativa finiva per adagiarsi in una nuova routine assistenzialistica. Il recupero, anche sotto il profilo lavorativo, era fondamentale per acquisire una nuova dignità e coscienza di se stessi. L’esperienza coinvolse in tutto sette pazienti, uomini e donne che erano accompagnati sul posto al mattino dagli infermieri, i quali lavoravano insieme a loro. Ai margini della strada venivano fatti dei grandi mucchi di foglie. Un automezzo del Comune le caricava e le portava al piantumaro, dove venivano trasformate in terriccio. In una settimana, con il tempo favorevole, il lungo viale fu perfettamente ripulito, compresi i tratti erbosi a ridosso delle mura.

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La lezione del Montemaggio

… noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo Franco Basaglia

L’esperienza del Montemaggio fu l’occasione per dimostrare il grande patrimonio di capacità individuali, di conoscenza e di progettualità degli infermieri impegnati in una linea di deistituzionalizzazione e di reinserimento. Il loro ruolo, da sempre subordinato e puramente esecutivo, fu del tutto ribaltato. Riuscirono, grazie all’autonomia conquistata, ad attuare una propositiva visione di politica generale del territorio e a stabilire, con le istituzioni in esso presenti, un corretto e proficuo rapporto. Ciò non avvenne tanto per l’aiuto delle forze sindacali interne all’O.P. com'è stato scritto, quanto per l’opera di Sindaci come Pierluigi Marrucci ed Enzo Sammicheli, "conquistati" dal progetto di reinserimento sociale dei pazienti e da una nuova gestione della psichiatria. Le varie iniziative condotte avevano inciso profondamente sui modelli culturali e sulla percezione della pericolosità dei "matti". Si dimostrò che si potevano far vivere fuori persone a lungo istituzionalizzate e che alcune di queste potevano essere recuperate in attività lavorative semiprotette. Nello stesso tempo, però, bisognava approntare servizi di zona in grado di bloccare i ricoveri in Ospedale e affrontare le nuove emergenze, istituire case-famiglia e laboratori.

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Un lavoro tutt’altro che semplice

A Siena e San Gimignano c’erano stati alcuni importanti convegni di studio per costituire i distretti socio-sanitari, organizzarli e farli partire operativamente. Nei primi di Maggio del 1977 fu identificato un progetto di partenza che prevedeva l’inserimento di tutte le forze in campo (amministratori, operatori sociali e sanitari, sindacalisti, ecc.), che attraverso un lavoro comune, articolato per commissioni specifiche, potesse partire come primo modello di sperimentazione. La Val d’Elsa si dimostrò, come in altri settori, una realtà molto più dinamica di Siena e fu un modello di riferimento per l’articolazione dei Consorzi Socio-Sanitari e l’istituzione dei servizi di base. Contemporaneamente dal reparto Montemaggio furono distaccati all’esterno cinque infermieri con il compito di ricercare e rafforzare, per quanto riguardava la psichiatria, un raccordo continuo e stabile con la zona. Questo piccolo gruppo di pionieri sviluppò una notevole mole di lavoro con le famiglie e con le comunità di provenienza dei vari ricoverati. Apparve subito chiaro che se nel lavoro interno, l’umanità e la disponibilità verso i malati erano essenziali per il loro recupero, nel lavoro esterno, in una realtà come quella della Val d’Elsa, erano importantissime le tecniche, i farmaci, il rapporto con la popolazione. Per questo però sarebbe stato indispensabile avere medici preparati e motivati, ma il loro supporto fu limitato a qualche visita domiciliare nelle case dei pazienti. Il servizio sociale di Poggibonsi, Colle e San Gimignano, grazie a Giacinto Barneschi e Luana Pecchi, fu parte essenziale di questo lavoro e costituì un punto di riferimento e di stimolo progettuale. Negli anni 1980 e 1981, nacquero a Poggibonsi la S.C.P. e la Cooperativa Progetto Lavoro, in cui furono inserite

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numerose persone con problemi psichici. A Colle di Val d’Elsa il sindaco Sammicheli adottò la prima delibera per l’assegnazione di una casa popolare a una paziente che non era in graduatoria, giustificandola come persona che viveva in "ambiente improprio". Dopo due anni, quando le difficoltà maggiori erano state superate, noi cinque infermieri fummo richiamati in reparto e alcuni medici decisero che era finalmente giunto il momento di uscire. Iniziò così un servizio psichiatrico di zona. Il reparto Montemaggio fu chiuso il 15 marzo 1989, dieci anni prima della chiusura dell’Ospedale psichiatrico. Un’esperienza presa a modello a livello nazionale ma che a Siena è stata del tutto dimenticata. Simonetta Abati, nel suo saggio intitolato Da guardiani ad attori della riabilitazione in Storia di un villaggio manicomiale, l'ha definito un reparto "basagliano". Forse la Abati non ha conosciuto il clima che si viveva in un reparto basagliano. A Gorizia, infatti, gli infermieri non contavano niente e fra il gruppo dei medici, come ha scritto Jervis, si parlava più di Marx e Mao che dei problemi dei degenti. Al Montemaggio, invece, noi infermieri eravamo la forza propulsiva, il nostro era un progetto partecipato. Non avevamo nessun modello di riferimento. Solo Pirella si rese conto dell’importanza della nostra capacità di costituire una comunità terapeutica che, basandosi sulla fiducia nelle capacità delle persone con disagio psichico, coltivava in loro la speranza di cogliere l’opportunità di tornare a una vita autonoma, a contatto con le famiglie, fuori dal manicomio. Da questo punto di vista ci avvicinavamo alle idee di Basaglia solo per la volontà di far maturare i problemi dal basso. Allo stesso tempo la sua lezione fu imprescindibile in quanto, pur non negando l’esistenza della malattia mentale, ne proponeva una gestione diversa rispetto a quella dei manicomi o dei modelli tecnicistici e separati. Per questo ci impegnammo a ricercare fuori, nel territorio, insieme alle amministrazioni locali, le alternative al ricovero e le strutture per le dimissioni.

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E questo fu il lavoro fondamentale: conquistare a questa "utopia" i ricoverati, facendo rinascere in loro il desiderio del "fuori" e di una vita normale, dopo che per tanti anni avevano imparato a considerare il manicomio come la loro unica casa. A molta distanza da quegli anni ruggenti, passata l’utopia e avendo sotto gli occhi la "psichiatria attuale", mi sono tornate in mente le paure di Basaglia: Temo il potere dei partiti, le baronie e le mafie universitarie, i nuovi tecnicismi.

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Arte e follia

I luoghi comuni sui matti si estendono spesso anche alle loro manifestazioni creative. Molti credono che siano, come la loro mente, "incomprensibili" e per questo da considerare "artistiche". Non vorrei addentrarmi in una disquisizione approfondita su

Carlo Vincenti, "Via Crucis". Tavola N.1, "La condanna a morte del Cristo", 1976

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arte e follia, un binomio di cui non ho mai condiviso l’inscindibilità, perché se il concetto di arte è molto vasto e riguarda comunque abilità, studio ed esperienza, la follia è soprattutto sofferenza. In lunghi anni di manicomio, più che della follia degli artisti, mi sono dovuto occupare delle attività creative dei ricoverati. Queste sarebbero state molto utili per intraprendere nuove forme di comunicazione e seri programmi di risocializzazione, ma non furono mai tenute in gran conto. In realtà quella che mancava era, molto semplicemente, la volontà di recuperare le persone. Porte, pavimenti e mura portano ancora oggi le testimonianze di un bisogno insopprimibile di esprimersi, di comunicare, di denunciare. Pezzi di carbone, chiodi, materiali organici furono i primi strumenti adoperati. Poi, a livello spontaneo, per merito di alcuni infermieri e assistenti sociali, cominciarono in alcuni reparti delle timide attività che incontrarono subito molte difficoltà e ben presto si persero. Nei primi anni ‘70 furono organizzati dei corsi di disegno e pittura presso il reparto Palmerini, da poco ristrutturato. Gli insegnanti, "artisti" senesi più o meno noti, pur con tutta la loro buona volontà, si limitavano ad assecondare ciò che facevano i pochi partecipanti, accontentandosi più della "tranquillità" degli stessi che dei risultati ottenuti. I materiali messi a disposizione, del tutto inadeguati e deperibili, erano la testimonianza dello scarso interesse verso quel tipo di attività. Essa veniva però ammantata di "scientificità" attraverso relazioni in cui dovevano essere annotate le reazioni dei vari soggetti, le condizioni metereologiche del giorno e tanti altri insignificanti dettagli. Sarebbe stato apprezzabile se tali iniziative avessero portato, anche in modo sperimentale, a un accenno di terapia dell’arte capace di aiutare a capire, attraverso l’espressività, certi tipi di patologie. Era invece una cosa molto paternalistica, scollegata con ciò che facevano gli altri operatori, senza incidenza sulle pratiche manicomiali all’interno dei vari reparti.

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Di questa attività, in cui furono realizzate opere di grande interesse come le crocifissioni incredibili e modernissime di Gori, non è rimasta nessuna traccia e nessuna documentazione. Solo per un breve periodo di tempo, all’epoca della presidenza di Vittorio Meoni, alcune opere furono valorizzate per arredare la sala riunioni del Consiglio dell’USL 7 ma, ben presto, furono rimosse e dovettero cedere il posto a manifesti o altre immagini del tutto insignificanti. Prima di parlare però di "arte" e di "artisti" delle epoche recenti del San Niccolò, sarebbe bene ricordare che fra le centinaia di ricoverate addette ai telai, alcune di esse semplici tessitrici o cucitrici seppero creare orditi raffinatissimi al punto di meritare nel 1881, all’Esposizione di Milano, il Premio della "Menzione onorevole per i lavori di ricamo". Per non dire, poi, delle decine di ricoverati addetti allo sparto, abilissimi a intrecciare ceste e cestini, ma che rivestirono anche sedie e divani di alto valore antiquario. Nel 1885 all’Esposizione internazionale di Parigi, il San Niccolò vinse la medaglia di Bronzo con i suoi lavori di sparto. Ci furono anche i rilegatori che recuperarono tomi preziosi e, per ultimo, l’ignoto ricoverato che dipinse alla pompeiana gli interni della farmacia del San Niccolò. Queste persone all’epoca non furono certo considerate degli artisti. L’etichetta sociale che gli avevano affibbiato sminuiva il valore delle loro opere, era solo una "terapia del lavoro": l’ergoterapia. Oltre seicento ricoverati, ogni giorno, venivano addetti a queste attività, agli orti, alle officine, ai lavori più umili senza alcuna retribuzione. Poi arrivò l’"Arte" e con questa un nuovo tipo di sfruttamento: opere di alcuni degenti ritoccate ed esposte, sotto altri nomi, da "artisti" poco seri in mostre lontano da Siena; disegni di Doblè utilizzati da case farmaceutiche per le loro campagne pubblicitarie senza alcuna citazione né ricompensa, opere su tela comprate per poche lire da dipendenti con pochi scrupoli.

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Paris Morgiani, Le belve. Acrilico su masonite. Collezione privata

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Doblè non sapeva leggere né scrivere, non era in grado di articolare un ragionamento anche minimo, non conosceva i colori né il loro nome, ma sapeva accostarli con grande gusto, secondo una sequenza che privilegiava sempre quelli caldi perché, secondo lui, "davano forza". I suoi soggetti preferiti erano le donne, il loro sesso, la masturbazione, ma pur rappresentandoli con grande forza espressiva non scadeva mai nel banale o nell’osceno. Viveva rapporti con varie donne e i loro fidanzati senza che questo costituisse un problema. Amava quelle formose ed era ritenuto un grande amatore. Sebastian Matta si era interessato a lui e aveva dichiarato la propria disponibilità a organizzare una sua mostra personale. Quando arrivammo a un punto avanzato di definizione, tutto finì per l’opposizione del medico e dell’assistente sociale del reparto in cui era ricoverato. Spartaco Bargelli amava tanto scrivere e pubblicò a sue spese un volume di poesie. Di Paris hanno detto e scritto in molti (anche a sproposito). Le sue opere, ormai molto conosciute se non addirittura famose, pur essendo lodevolmente custodite dalla "Cooperativa Riuscita Sociale", non sono mai state catalogate con precisione, non sono mai stati studiati i vari personaggi né è stato dato loro un nome. Eppure non sono figure anonime quelle rappresentate, sono tutti ritratti riconoscibilissimi di ricoverati, infermieri e medici, ma è stato dato risalto solo al tema rappresentato. Ben presto si perderà memoria dei personaggi e dei contesti, per cui diminuirà la loro forza espressiva. Quando fui chiamato a lavorare e dirigere la "Cooperativa Riuscita Sociale" pensavo a un luogo dove potessero incontrarsi tutte le forme di espressività interne ed esterne all’O.P., "sani",

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Paris Morgiani, Ritratto di G. Doblè. Terracotta. Collezione privata

G. Doblè mentre dipinge

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Paris Morgiani, Sfere spaziali. Tempera su masonite. Collezione privata

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G. Doblè, L’ indovina. Acquarello su carta. Collezione privata

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"malati", bambini delle scuole, artisti e persone che avevano hobby da sviluppare. Fu un periodo fecondo, in cui furono realizzate opere che scaturivano dal nostro stare insieme, dalle discussioni di ciò che avveniva "fuori", nel mondo. Ne sono testimonianza La tragedia del popolo cileno e il Ritratto di Isabella Parra di Doblè (oggi in una galleria privata) così come Il massacro di Sabra e Chatila di Paris. Altre opere notevoli furono la sua serie di trenta (non tredici com'è stato scritto) scene sul manicomio e il Cristo del giorno dopo, sulla guerra nucleare collocato nella cappella interna dell’Ospedale Le Scotte. Purtroppo non fu possibile portare avanti il progetto di una via Crucis sul viaggio delle persone fuori e dentro il manicomio: era un soggetto non "gradito" e per questo fu ostacolato fino a renderlo impossibile. Noi portammo avanti il nostro impegno senza avere mai la presunzione di essere artisti né tantomeno cercammo di ingraziarci qualche potente senese come altri fecero in seguito. Tutto ciò, però, ci servì per capire meglio il senso del nostro lavoro se non della vita, quando dovemmo scontrarci con chi voleva far dipingere fiorellini o altre banalità ai ricoverati "per non turbare quelle povere menti distrutte dalla malattia".

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Mario Puccini

Era nato a Livorno nel 1869 da una famiglia poverissima e, come spesso accade, aveva dimostrato fin da piccolo una grande capacità di disegnare e di dipingere. Giovanni Fattori il grande macchiaiolo, vedendo alcune sue opere, lo convinse a iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui era Direttore, ma i genitori si opposero. Finalmente Mario riuscì a spuntarla, raggiunse Firenze dove frequentò i corsi insieme a Pellizza da Volpedo e Plinio Lomellini. Si diplomò a pieni voti nel 1890. Nello stesso anno vinse un concorso internazionale per un nuovo metodo di proiezione geometrica. In seguito a una depressione, etichettata come melancolia, fu ricoverato nel 1893 al Manicomio di Siena. Al momento del ricovero, la sua pittura, che si rifaceva ai temi di Silvestro Lega, subì una svolta traumatica: i colori poetici della macchia, lasciarono il posto a un violento cromatismo, fino alla cessazione totale dell’attività pittorica. Nel 1898 fu dimesso e tornò a Livorno, ma non riprese a dipingere, preferendo aiutare il padre nella gestione di una piccola trattoria. Dovranno passare quasi dieci anni per veder tornare Puccini a un minimo di attività: costruì giochi per ragazzi, dipinse insegne per negozi e disegnò per le ricamatrici. Alcuni galleristi lo convinsero e lo aiutarono a riprendere i suoi temi e ben presto cominciò a essere apprezzato dalla critica e dal mercato. Raffaele de Grada scrisse di lui: «Mario Puccini è un grande pittore che se si fosse portato su un piano culturale più vasto, poteva diventare non inferiore al suo conterraneo, Amedeo Modigliani».

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Carlo Vincenti, Ritratto, particolare da “I superstiti�, 1975. Acrilico su tavola. Viterbo, Galleria Alberto Miralli

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Carlo Vincenti Addento l’aria gelida di settembre condannato ad essere solo un giocattolo in mano al tempo mentre s’avvolge d’argento l’alone del buio

Questi versi di Carlo Vincenti, come ricorda suo fratello Fabio nell’introduzione del catalogo O.P. Siena 1975, sono una premonizione e una sintesi del suo percorso esistenziale. Carlo nasce a Viterbo nel 1946 e fin dall’età di due anni disegna e dipinge con capacità tali che i giornali locali s’interessano a lui, descrivendolo come un bambino prodigio. La sua infanzia è segnata dalla lunga malattia del padre, un discreto musicista, che muore prematuramente nel 1959. Frequenta il Liceo Scientifico Paolo Ruffini di Viterbo ove conosce una ragazza cui si lega affettivamente. Purtroppo questo rapporto finisce in modo drammatico: la giovane muore in un tragico incidente e Carlo ne rimarrà segnato per tutta la vita. Conseguita la maturità, s’iscrive alla Facoltà di Architettura a Roma e ne segue i corsi per due anni. Questa esperienza lo fa maturare ma è soprattutto la scoperta del Museo d’Arte Orientale a influenzarlo e a farlo crescere dal punto di vista artistico. «Mi ricordo che quando andavo al museo di Arte Orientale, nel

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‘66, attratto da quel silenzioso fascino cromatico e grafico, facevo dei bozzetti, spesso rasentando un’interpretazione inconscia delle pitture, delle ceramiche e delle sculture». Nel 1969 cominciano a manifestarsi i primi sintomi del male di vivere e, dopo un tentativo di suicidio, viene ricoverato in una clinica psichiatrica. Nel 1974, l’amico gallerista Alberto Miralli, convinto delle sue potenzialità, lo incoraggia assicurandogli un contratto di lavoro, ma l’anno successivo sarà nuovamente ricoverato in Ospedale Psichiatrico a Siena. Qui, nonostante il pesante trattamento farmacologico, continua a dipingere e a sperimentare nuove tecniche. «Nonostante tutto ho voglia di lavorare e soprattutto di fermare in almeno venti pezzi il senso di questa libertà repressa», scrive dall’Ospedale al suo amico Alberto Miralli, titolare dell’omonima galleria d’arte a Viterbo. Nel reparto Clinoterapia Uomini, in cui si trova, è costretto a dipingere nel parlatorio, un ambiente deprimente, sfruttando le poche ore che gli sono concesse. Quando lo conobbi, dopo avermi mostrato alcune opere su tavola, mi parlò delle difficoltà dovute alla carenza di utensili e alla rigidità degli infermieri che gli rimproveravano di sporcare i tavoli e di rigarli, mandandolo a rifinire le opere in giardino. In queste condizioni di ostilità e di semi-reclusione nacque il ciclo che Carlo chiamò I superstiti, venti tavole con i ritratti di quelli che, come lui, reduci dal fallimento, non accettano la propria resa. Conclude la serie il dipinto Ospedale, il ritratto della camera dove egli ha vissuto l’estrema solitudine, aggravata dall’isolamento e amplificata dalla calma ossessionante che scaturisce dalla rappresentazione della stanza vuota. Le sue condizioni appaiono migliorate e viene dimesso. Tornato a casa, nel 1976 dipinge, nella chiesa dei SS. Valentino e Ilario a Viterbo, una Via Crucis raggiungendo, secondo i critici, il punto più alto di sintesi fra parola e immagine: il suo binomio espressivo. «I colori sembrano uscire fuori dai pannelli, lasciando ai simboli crudi e alle parole il messaggio che tocca direttamente

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la nostra umanità». Dolore, passione, fede sono il suo testamento morale, ma anche una drammatica sorta di addio: «Si comincia a vivere quando si comincia a morire», scrive nella tavola della prima stazione, quella della condanna a morte di Gesù. I consensi e la stima che lo circondano non bastano però a farlo uscire dalla depressione che lo sta divorando «… l’essere vuoti e non credere più a nulla rende la vita noiosa», e ancora: «… andare in una nuvola e non trovarvi nulla. Il moto mi ha annientato». Viene nuovamente ricoverato in Ospedale Psichiatrico a Siena. In una lettera all’amico Alberto Miralli, scrive: «… la mia cartella clinica porta scritta la diagnosi "sindrome dissociativa" con i vari sottotitoli delle recenti calamità che mi rendono particolarmente oggetto di curiosità». Nell’aprile del 1978 viene dimesso. In una nota del suo diario, in data 13 maggio, si può leggere: «Ma la libertà è quella che voglio assolutamente, quella libertà che permette di essere uomini anche se sbagliati». Sono le sue ultime parole: il 6 giugno si toglie la vita. In soli trentadue anni di vita, Carlo Vincenti ha lasciato oltre 60.000 opere fra dipinti, collage, poesie e scritti. L’hanno recensito i più famosi critici italiani, alcuni dei quali, come gli psichiatri, separando l’opera dall’uomo, non ne hanno colto la complessità e il drammatico bisogno di comunicare. Forse, come ha scritto uno di loro: «la luce dell’amore non lo aiutava e la luce dell’arte era troppa».

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Carlo Vincenti, Ospedale, particolare da “I superstiti�, 1975. Acrilico su tavola. Viterbo, Galleria Alberto Miralli

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Spartaco Bargelli

Era l’intellettuale dell’O.P. e la prima cosa che ti colpiva in lui era la fissità dello sguardo, con i grandi occhi neri ad aspettare un tuo cenno, una domanda. Era gentilissimo, molto riservato e curioso di tutto. Sognava sempre la Maremma in cui era nato e sarebbe voluto tornare, ma ormai, morti i genitori, nessuno si era fatto più vivo. Egli ricambiava la "dimenticanza" dei parenti, con aforismi aspri come la sua terra. Scriveva poesie che aveva raccolto e pubblicato a sue spese, in un volume che mostrava con orgoglio e regalava agli amici più intimi.

…Noi siamo come la pianta Che in principio è bella e vegeta, Però anche lei ha il suo triste periodo invernale; Infine viene tagliata per finire in cenere. MIO PADRE Triste ricordo di una vita infantile Che svanì prima di vivere. MIA MADRE Immensa fiamma che nel cuor mio Divampa! I PARENTI Tutti i parenti fuorché i genitori Bussano a picche e non giocano a cuori I MIEI NONNI Stanno meglio di me state sicuri Nessun li può serrar tra quattro muri Storie e personaggi del manicomio di Siena

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LE MIE SORELLE "Nei miei riguardi" (che m’importa se vive o se more) Lontano dagli occhi lontano dal cuore… I MIEI ZII Un amore che si è perduto Irrecuperabilmente Con il passar del tempo. I MIEI NIPOTI Come se fossi di un’altra genia Vanno ignorando la persona mia… I MIEI CUGINI Il menefreghismo fatto uomo… I MIEI BISCUGINI A bisca ci giocavamo Ai tempi dei nostri antenati, Oggi è un gioco superato…

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Paris Morgiani

Le cartelle cliniche non sono la registrazione della storia degli internati, ma il semplice inventario delle scorrettezze sociali che essi hanno commesso … Franca Ongaro Basaglia

«E’ un frenastenico con spiccata povertà di critica e di giudizio». «Il paziente ha continuato a tenere un contegno pessimo, non ha imparato nessun mestiere ed è fuggito cinque volte». «Cerca di formare in reparto dei gruppi di malati per eventuali proteste collettive, sobilla i ricoverati a non collaborare con il personale infermieristico». «L’affettività è tendenzialmente piatta, il patrimonio etico deficitario, la volontà fiacca». Così veniva descritto Paris Morgiani in cartella clinica. Sarà stato così? Ma si può descrivere un uomo e il suo vissuto solo così? Se l’estensore di queste sentenze inappellabili avesse fatto un minimo di sforzo per ricostruire la vita di Paris, magari avrebbe poi scritto le stesse cose, ma lo avrebbe fatto dopo aver capito il perché e a me sono sempre interessati i "perché". Uscendo da Sorano e percorrendo i tortuosi tornanti che portano a Sovana, fatti pochi chilometri in una delle tante grotte oggi adibite a cantine era nato, nel 1942, Paris Morgiani. «Se ci fosse stato anche il bue, sarei nato come Gesù», mi diceva ridendo, «perché il miccio (l’asino) c’era sul serio». Il padre non

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Paris Morgiani, Bambina-farfalla. Olio su tela. Collezione privata

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l’aveva conosciuto, della mamma non parlava mai, era come se non l’avesse avuta, lo picchiava spesso e lui scappava da casa. A quattordici anni per aver "rubato" una bicicletta, poi ritrovata lungo la strada, fu rinchiuso nell’Istituto Minorile di Bologna. In ambienti come quelli, o ti pieghi a ogni forma di violenza fisica e psicologica o ti ribelli, ma allora vieni punito. «… nell’Istituto, quelli più anziani che erano lì da alcuni anni, spadroneggiavano e violentavano i più giovani. Gli infermieri facevano finta di non vedere. Io, che ero l’ultimo arrivato, fui subito preso di mira e allora feci sparire un cucchiaio, lo affilai, e quando si presentò il capo di quella banda, lo impugnai tenendolo con un fazzoletto e gli dissi: se mi metti le mani addosso ti sbudello! Quello lì andò a dire che io nascondevo un coltello e allora mi buttarono all’aria il letto, mi spogliarono e mi frugarono dappertutto, ma non lo trovarono. L’avevo messo dentro il libro delle preghiere che ci consegnavano quando s’entrava e lo tenevo sopra il comodino a portata di mano». Per questo Paris fu considerato pericoloso e trasferito da Bologna al manicomio criminale di Volterra da cui, com'è scritto nelle cartelle, cerca di fuggire per ben cinque volte. «Le vedi queste cicatrici?», mi diceva, «sono il calendario delle mie "uscite"! Quando mi riprendevano erano botte». Nel 1960, a diciotto anni, arriva a Siena, accompagnato da tutta una serie di note negative e, ben presto, il suo curriculum si arricchisce. Viene rinchiuso al Conolly, un reparto che ha anche una sezione criminale (non si sa mai), ma Paris non crea, almeno all’inizio, particolari problemi. Non è certamente tenero con il personale, vede tutto ciò che succede e per questo cerca di convincere altri a ribellarsi. Per questo fu accusato di "sobillare" i ricoverati e di convincerli a non collaborare con gli infermieri e questo viene puntualmente annotato dal medico nella cartella clinica. A quel tempo, i reparti erano chiusi e gli ispettori serravano dentro

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infermieri e malati con una chiave "spaccata", con un taglio in mezzo che permettendo una mandata in più, rendeva impossibile uscire. Paris, però, usciva e rientrava! Era chiaro che aveva una chiave, ma come ne era entrato in possesso? E soprattutto, dove la nascondeva? La perquisizione personale si ripeté più volte e fu estesa a tutta la camerata: furono interrogati e "pagati" quei malati che vedevano tutto e facevano la spia, ma la chiave non fu trovata. Fu trasferito in vari reparti e quando l’ospedale cominciò a essere più aperto, ne approfittò per crearsi uno spazio personale dove dipingeva e teneva i materiali che gli occorrevano. I suoi primi soggetti erano giovani bambine che ritraeva in modo molto romantico, circondate da fiori con colori tenui. Poi attraversò un periodo in cui prendeva spunto dalle copertine di Urania, con mondi fantastici e asteroidi. Era bravissimo nel ritratto, che per lui, come per gli Apache, significava "catturare la persona". Quando cominciò a frequentare il laboratorio di ceramica, si cimentò con la scultura, dimostrando un certo talento ma, soprattutto, una carica polemica incredibile. La decorazione ceramica non lo interessava più di tanto: abituato all’effetto immediato dell’olio e della tempera, non riusciva a immaginarsi i cambiamenti dei colori ceramici dopo la cottura. Riportava sui piatti soggetti astrali e geometrici, oppure rappresentava temi di attualità e di impegno sociale. Dipinse una serie di piatti sulla lotta del popolo palestinese e la strage di Sabra e Chatila, opere andate forse perdute, ma documentate sulla pellicola di una televisione di Siena con il titolo: Ceramiche per riflettere. In un’altra serie di piatti aveva rappresentato un serpente che mangia il sole. Il serpente, per lui, era Israele che voleva togliere la luce ai palestinesi. Ma le opere che l'hanno reso più noto sono una serie di sculture dove rappresentò "cerimonie istituzionali" ed episodi di cui era stato testimone in manicomio.

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Mostrandomi la prima, un’allegoria sullo sfruttamento dei malati da parte dei dipendenti, intuii che quella era la strada per dare sfogo al suo bisogno di libertà e di denuncia dei meccanismi istituzionali, perciò lo lasciai libero di continuare senza alcun tipo di consiglio. Vedevo così nascere dalle sue mani scene orribili cui aveva assistito o che aveva patito in prima persona. La foto segnaletica, l’elettroshock, il suicidio e una serie di allegorie contro il personale dell’O.P. che veniva al lavoro solo per i soldi, calpestando i diritti dei malati. Si creava, piano piano, un piccolo esercito di terracotta, in cui, al posto di anonimi guerrieri, erano raffigurate persone vere, facilmente riconoscibili, colte in atteggiamenti espressivi e curate fin nei minimi particolari. Quando le mostrai a Sebastian Matta, uno fra i più grandi artisti al mondo, esclamò: «los locos no tienes la cabeza gorda», i matti non hanno il cervello grasso, e continuando il discorso, chiarì che per "creare" bisogna avere fame nello stomaco e nel cervello, fame di libertà, di giustizia, fame di normalità. Pochi anni fa alcune di queste opere furono mostrate a Vittorio Sgarbi, organizzatore al Santa Maria della Scala, di una grande mostra su arte e follia. Egli ne rimase impressionato, per cui le volle esporre e inserire nel catalogo. Durante il periodo passato alla Cooperativa, Paris divenne molto più sereno, conobbe molti artisti a livello nazionale che lo incoraggiavano e lo apprezzavano. Una famosa insegnante di musica, molto bella, s’innamorò di lui a tal punto che lo voleva portare con sé, via dall’Ospedale. Egli, più di una volta, schernendosi, le disse, in modo molto crudo ma realistico, che lui rimaneva un matto e lei una professoressa. Alla faccia dell’affettività piatta e del patrimonio etico deficitario! Nel periodo in cui mi ero separato, Paris visse per un certo periodo di tempo a casa mia. Era libero di andare e venire e gli avevo dato le chiavi dell’abitazione. Storie e personaggi del manicomio di Siena

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Quando era solo in casa aveva paura che entrasse qualcuno, per cui si chiudeva dentro e alcune volte mi lasciò anche fuori. Scherzando su questo fatto, fu naturale chiedergli come avesse fatto a uscire ed entrare dai reparti e dove avesse nascosto la chiave. «Avevo preso un libro dalla biblioteca, lo avevo scavato dentro e ci avevo nascosto la chiave» poi, in modo provocatorio, aggiunse: «Voi infermieri credete di essere furbi, ma siete abbastanza stupidi». Ormai si poteva permettere anche di prendere in giro! Se lo avesse saputo il solito medico, cos’altro avrebbe aggiunto in cartella? Paris aveva combinato anche molte sciocchezze. Non era affatto uno stinco di santo e se era sopravvissuto alla sequela degli istituti di correzione, manicomi giudiziari, reparti criminali lo aveva potuto fare anche attraverso sotterfugi, strategie e soprusi determinati dall’istinto di sopravvivenza. Aveva minacciato di morte le assistenti sociali con lettere anonime firmate brigate rosse e cercato perfino di dar fuoco a una di esse. Tutti questi fatti sarebbe stato doveroso interpretarli all’interno della sua esistenza tormentata, del suo percorso attraverso le principali Istituzioni totali. Magari doveva essere sanzionato e invece prevalsero il moralismo e il pietismo, se non qualcosa di peggio. Durante il periodo passato insieme parlavamo delle prospettive future. Era lucido nelle analisi ma molto pessimista, aveva paura che quella parentesi di normalità in realtà non gli facesse bene perché si rendeva conto che in futuro non gli sarebbe stata garantita. Per questo non volle mai dormire in un letto. Si raggomitolava sul pavimento, con una coperta addosso, dicendomi che non doveva abituarsi alle comodità, perché lui sarebbe sempre stato un randagio e non avrebbe mai avuto una camera come tutti. Per fortuna non fu così, non conobbe più il manicomio e passò gli ultimi anni in un appartamento insieme a un altro ex degente. Morì nel 1992, quando ancora non aveva compiuto

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cinquant’anni. Lo scorso anno una studentessa del DAMS di Bologna ha dato una tesi di laurea sulla vita e le opere di due artisti che hanno vissuto in manicomio: Paris Morgiani e Alda Merini. Ho contattato più volte esponenti del Comune di Sorano, informandoli del loro concittadino e invitandoli a ricordarlo con una mostra. Non ho ricevuto alcuna risposta. Paris resta scomodo anche da morto.

Paris Morgiani, L’elettroshock, particolare. Terracotta (proprietá Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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Il giornale “La Nazione” con la foto dell’opera “Il Cristo del giorno dopo” di G. Civitelli

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di

Flores Ticci

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Paris Morgiani, L’impiccata. Terracotta (proprietá Cooperativa “Riuscita Sociale”)

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Le "ragazzette"

E’ come se i ricordi arrivassero tutti insieme ma da luoghi diversi e allora ho bisogno di afferrare saldamente quei fili che rischiano di sfuggirmi dalle mani, così come si fa quando si cerca, la mattina, di riacchiappare la coda dell’ultimo sogno… Luglio 1972. Ultimi giorni del mese al S. Niccolò con altre quattro colleghe, fresche di vittoria di concorso e ora, guidate dalle tre assistenti sociali che già lavorano qui dal 1968, cominciamo a conoscere l’ambiente: i reparti, i servizi, il personale, ma, soprattutto, "i matti". Mi hanno dato un camice bianco, almeno una taglia più grande, è di tela ruvida, mi pizzica al collo. Ho caldo e le mani, un po’ sudate per l’emozione, fanno fatica a nascondersi nelle tasche troppo basse per me. Disagio di fronte a occhi che ci fissano o guardano oltre a noi, al niente o a un’illusoria fantasia che qui in O.P. si chiama allucinazione. Voglia di scansare mani che toccano e afferrano alla ricerca forse di un contatto umano o forse solo per un riflesso istintivo e abitudinario. Mi sento indifesa di fronte a tutte le emozioni che mi stanno venendo addosso e che hanno solo un nesso teorico con le lezioni nelle aule dell’Università e con i libri che ho studiato. Dubito di avere le capacità necessarie per dare un significato alla mia professione, lavorando per le persone che vivono in questa specie di cittadella. Mi arrabbio di fronte all’atteggiamento di molti vecchi infermieri, assunti forse solo in ragione di peso e altezza, che considerano i ricoverati come l’ultimo gradino della specie umana e vedono ogni segno di apertura e novità come qualcosa che può scalzarli dal loro piccolo, miserabile angolino di potere. Qualcuno di loro ci chiama… "le ragazzette".

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Degenti del reparto Chiarugi

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Reparto Chiarugi

Cammino alle spalle della suora, in un corridoio con le pareti scrostate su cui si affacciano porte che hanno piccole finestre dietro le quali s’intravedono facce e si sentono voci. Giù per una rampa di scale arriva un brusio, come se da qualche parte ci fosse uno sciame immenso di api. Le chiavi alla cintura della suora sono grandi e tintinnano ad ogni passo, la suora è alta, ha piedi e mani enormi, la faccia dura e stolida e uno sgradevole sentore di abiti poco puliti. Quelle chiavi che, qualcuno mi ha detto, vengono date in testa alle ricoverate meno "mansuete", scrocchiano nella serratura e aprono la porta su un girone dantesco: in un salone rischiarato da grandi porte-finestre, ci sono una cinquantina di donne sedute su panche di formica grigia, sdraiate per terra, accucciate sui talloni. Molte camminano ininterrottamente in un perpetuo allucinante girotondo di bambine che bisbigliano fra sé, mugolano o parlano ma ognuna per proprio conto, in mondi separati. Visi vecchi, grassi, rugosi, giovani, brutti, belli, spenti o irosi, qualcuna dondola avanti e indietro cullandosi, nella parodia, forse, di un abbraccio affettuoso. Due infermiere ai lati del salone controllano "il circo", prigioniere anche loro di un sistema custodialistico e arretrato. Cerco di venire nel reparto in orari strani e sempre diversi per scoraggiare certi comportamenti dettati dall’ignoranza e dalla violenza. Quando esco, se tendo bene l’orecchio, fra i saluti vari che mi accompagnano alla porta, sento il bisbiglio della suora (alla quale chiaramente non piacciono le mie idee). «Speriamo tu muoia, speriamo ti venga un…» e allora si fa forte il contrasto fra Storie e personaggi del manicomio di Siena

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il desiderio di fuga e quello di combattere contro un’istituzione che lascia spazio alla stupidità e alla cattiveria, facendo finta di ignorare angherie e sopraffazioni. Poi il tempo cuce addosso la consapevolezza che è nel continuare a dedicarsi agli "sporchi, brutti e cattivi" che si trova il significato dei libri studiati e delle lezioni ascoltate. E allora si resta, si ricostruiscono storie, rapporti familiari, si rivendicano diritti. Si cerca con gli infermieri e qualche medico di creare gruppi di lavoro che riescano a dare dignità e una vita "normale" a persone trattate come oggetti smarriti che nessuno reclama e restano in deposito tutta la vita. Qua dentro ci sono storie di uomini e di donne accumunati dal disagio di una condizione avuta in sorte dalla vita. Annientati dalle strutture e dalle istituzioni, oramai faticano anche ad accettare la possibilità di una nuova dimensione esistenziale. Riti, regole e dogmi, pur limitanti ed escludenti, li hanno tenuti finora lontani dal mondo e dalle sue implicazioni. Se non lo conosco non provo dolore a non farne parte e se non conosco l’amore non ne sentirò la mancanza. Si va avanti sperimentando piccoli successi e frustrazioni, cercando di entrare a far parte della cittadella, aggregandosi ad altri per aggirare gli ostacoli o buttarli giù a spallate. Si scoprono e si mettono in discussione non solo pregiudizi e diffidenze ma anche privilegi, posizioni particolari, piccole convenienze e interessi più o meno corretti ma considerati come facenti parte, quasi fisiologicamente, dell’istituzione.

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Ernestina

Viene dalla Provincia di Massa Carrara, è giovane, incinta e ha una diagnosi di nevrosi gravidica che è andata a innestarsi in una personalità già di per sé borderline. Orfana, è stata cresciuta, insieme al fratello, da parenti anziani. Da anni è fidanzata con G. i cui familiari non approvano la relazione con questa ragazza un po’ incosciente ed estrosa, sempre sopra le righe, abituata ad avere poche regole e a vivere alla giornata senza chiedersi da dove vengono i soldi che lei spende in manicure, bigiotteria, sigarette e abiti. E’ al reparto Osservazione, non può assumere tranquillanti né tantomeno psicofarmaci, parla, parla di continuo, intervallando lo stretto dialetto carrarino con piccoli urli strozzati. Ha la voce un po’ rauca e le labbra screpolate, rifiuta il cibo, ogni tanto si addormenta come se venisse spenta da un interruttore. Le mettono una flebo per idratarla, e dopo un po’, la bottiglia della flebo vola in aria attraverso la camerata, mancando di un soffio la piccola e vecchia suor Margherita che è riuscita a scansarsi con l’agilità di un pugile sul ring. Trasferimento di Ernestina al Chiarugi in una stanzetta solo per lei dove, a turno, le infermiere ed io stiamo con lei a parlare, tenendola per mano per evitare che dia pugni sulla pancia nei momenti in cui è agitata e rifiuta l’idea di avere un bambino. Ogni tanto si acciambella sul letto in una regressione infantile che reclama affetto e attenzioni esclusive, poi inveisce contro G. e la sua famiglia e grida terrorizzata all’idea che le portino via il suo bambino. Con il passare del tempo, un po’ protetta, un po’ viziata, Ernestina si tranquillizza un poco. Continua a parlare come un

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fiume in piena, ma è abbastanza consapevole che ha davanti una vita da programmare non più solo per se stessa ma anche per il figlio. Ernestina si raccomanda a tutti noi per poterlo tenere, perché nessuno glielo tolga. A. nasce durante la notte, velocemente. Il ginecologo che la segue non fa in tempo ad arrivare, il medico psichiatra di guardia va in confusione e viene messo alla porta dalle infermiere che fanno tutto da sole e, quando arriva l’ambulanza, il bambino è già nato. Qualcuno ha ventilato la proposta di convincerla a darlo in adozione. La dott.ssa D’Argenio ed io siamo in piedi davanti alla scrivania del Direttore. Ci guarda da dietro gli occhiali e, con quella sua voce fonda che si ripercuote a ottave basse in chi lo ascolta, snocciola uno dietro l’altro tutti i problemi che Ernestina dovrà affrontare se terrà il bambino. Ma noi non abbiamo intenzione di cedere e, finalmente, un breve cenno di assenso ci basta per capire che ce l’abbiamo fatta. Mentre stiamo per lasciare il sancta sanctorum, il Direttore propone: «Potremmo chiamarlo Niccolò!» Ci voltiamo a guardarlo in silenzio e allora conclude: «No, va bene, va bene, era solo un’idea». Un anacronistico fiocco azzurro rimane appeso per giorni alla porta d’ingresso del reparto Chiarugi1.

1 Trasferita a Castiglione delle Stiviere, seguita dalle colleghe e dagli psichiatri della zona, Ernestina ha poi fatto ritorno nella sua città, ha sposato G., e ha continuato per anni a inviare foto e notizie. In questi anni è diventata nonna.

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Giovanni

Ragioniere, ex attaccante di una squadra di calcio viterbese, alto, distinto, appassionato di rebus e cruciverba, tifoso laziale. Amato dalla sorella e dal fratello dai quali si reca periodicamente, socio e presidente di una piccola ditta di pulizie costituita da degenti ed ex degenti, è qui per quelle ossessioni e quei deliri che gli avvelenano la vita e lo costringono a una dicotomia esistenziale. I due lati della sua personalità talvolta viaggiano paralleli, altre volte uno cerca di prevaricare sull’altro. Inizia così lo scontro tra la rabbia malata delle sue fantasie e la fatica estenuante del rigido autocontrollo, nella sua consapevolezza di malattia. E’ una lotta silenziosa e feroce, la sua richiesta dei farmaci diventa ansiosa, cambia il modo di camminare e di stare seduto. Ha lo sguardo di uno che vuole far esplodere il mondo, come in questo momento, mentre mi avvicino a lui, la sua mano chiusa a pugno si ferma davanti al mio viso senza colpire ma resta lì immobile, quasi in attesa. Ci conosciamo da anni, siamo "amici di cruciverba", giochiamo insieme con le mie colleghe la schedina del totocalcio, andiamo in treno fino a Orte da dove lui prosegue da solo per Roma dove abita il fratello. Ogni tanto declamiamo brani di poesie o intoniamo una canzone ma oggi c’è da stanare il nemico accucciato dietro ai suoi occhi e dentro la sua gola e allora ci provo, ancora una volta, come già in altre occasioni. «Sono piena di rabbia, Giovanni, avrei voglia di gridare, di fare un urlo liberatorio che mi ripulisca da tutto quello che ho dentro, ma non me la sento di farlo da solo. Dai, Giovanni, aiutami!»

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Si allenta piano piano la tensione del suo braccio ancora steso davanti al mio viso, dalle nostre gole esce un urlo che batte sull’architrave della porta del saloncino ed esce a ripercuotersi fra le colonne dell’atrio centrale. Mentre ancora l’eco è sospeso per l’aria densa di fumo di sigarette, un infermiere si affaccia a vedere, mi guarda, scuote la testa e se ne va.

Gita al Parco dei Mostri di Bomarzo

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Fiore

Avrebbe dovuto essere una giornata di lavoro come le altre, ma non lo è. Tutto è rimasto sospeso a mezz’aria, insieme alla bestemmia dell’infermiere che mi ha dato la notizia e al silenzio che è seguito. Come un minuto di raccoglimento per dare il tempo di allineare le parole e di comprenderne il significato. Fiore, appena risvegliatosi dopo un intervento chirurgico, ancora sottoposto a flebo e drenaggi, si è gettato da una finestra del settimo piano dell’ospedale "Le Scotte". E così, dopo vari tentativi fatti in passato, alla fine ha realizzato quello che voleva, nonostante l’assidua presenza degli infermieri, i colloqui, i farmaci, l’affetto del nipote. Ha scelto di volare, illuso e affascinato dalla "maliarda"2 che in questi anni non l’ha mai abbandonato e l’ha tenuto stretto come un’amante gelosa e possessiva. L’ha guardato ogni mattina dallo specchio, ha poggiato la testa sul cuscino accanto a lui ogni sera, gli si è seduta accanto a mangiare e a bere. L’ancia nuova per il suo clarinetto è in una piccola scatola di cartone rigato sulla scrivania dello studio medico. Accanto, la cartella clinica con il suo nome scritto in bella grafia dal caporeparto rimarca il senso di fallimento, la frustrazione dei se e dei ma. La sconsolante sensazione d’impotenza che va a caricare il

2 Maliarda è la definizione data dal dott. L. della depressione/melanconia a livello profondo.

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fardello, già di per sé pesante, del confronto con questa forma di malattia che talvolta, come un’entità a sé stante, agisce sugli esseri umani annullando sistematicamente tutti i tentativi che si fanno per contrastarla e renderla inoffensiva.

Foto di gruppo davanti all’Ercole nel Parco di Bomarzo

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Prime esperienze di libertà... (o quasi)

»»

Anni ‘70

Sono i primi giorni di Giugno, fa già abbastanza caldo e da oltre una settimana un gruppo di degenti dell’O.P. è in albergo nel Viterbese per un soggiorno-esperimento in collaborazione con gli operatori psichiatrici della zona. Sono partiti un po’ esitanti ma ora danno quasi l’idea dei bambini della scuola quando vanno in vacanza. Sono contenti, sembra che assaporino l’aria della loro terra e hanno ritrovato il gusto della propria identità nelle parole del dialetto accantonato da decenni di vita in un’altra città. Qualcuno, mentre esploriamo i paesini intorno, racconta dei parenti, mostra campi su cui ha lavorato quando era ragazzo e fonti a cui abbeverava le pecore. Qualche familiare è venuto a trovarli in albergo, altri hanno dato risposte evasive all’invito, alcuni amministratori locali si sono fatti vedere dagli operatori più per obbligo istituzionale che per vera partecipazione, ma tutto ciò non ha intaccato il clima da "scampagnata" che anima questa esperienza. Domani arriverà un’altra collega, la mia permanenza qui è finita, oggi rientro a Siena. Una parte del gruppo mi ha accompagnata fino alla stazione di Orte. Aria calda del primo pomeriggio, aiole fiorite di là dai binari, mi affaccio al finestrino per gli ultimi saluti.

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Pomeriggio danzante presso il teatro del San Niccolò

Soggiorno marino a Tarquinia

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Il capostazione fischia e mentre il treno sta iniziando a muoversi, Luigi si sbraccia verso di me urlando: «Grazie Frora» non ha mai saputo dire correttamente il mio nome «che mi hai portato li sordi, perché pe annà co’ na morettuzza diecimila lire ce vonno!» Vedo gli infermieri che ridono e le espressioni perplesse e un po’ scandalizzate dei miei compagni di scompartimento. M’immergo nella lettura di un libro, fingendo indifferenza, ma dentro di me la voglia di ridere mi solletica la gola come una cascata di bollicine.

L’On. Ugo Sposetti parla con uno dei degenti

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La felicitĂ al mare a Tarquinia

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Gabriella

Gabriella proviene da una famiglia "bene" di Firenze (a un suo antenato musicista è dedicata una strada di quella città), ha frequentato il liceo e si è iscritta all’Università. Presto ha però incontrato la malattia che le ha tolto piano piano capacità, sogni, progetti. Ormai è qui da anni in una spoglia cameretta del reparto Chiarugi. Durante la settimana, su incarico dei familiari, due persone vengono a portarla fuori a passeggio, le leggono storie, le fanno ascoltare canzoncine e filastrocche e un paio di volte al mese viene anche la sorella che cerca di stimolarla con racconti, ricordi, musica. La sorella parla quasi incessantemente con Gabriella, con il medico, con me, con le infermiere e mi porta articoli di giornale sugli ultimi farmaci scoperti per la cura della schizofrenia, libri sulla chimica del cervello, atti di convegni. Qualcuno dice che è un po’ "schizzata", così ansiosa e logorroica. Non capiscono che rifiuta di accettare quello che per lei è una perdita, quello che per lei è difficile e penoso come lo è l’elaborazione di un lutto, e così cerca di trattenere con ogni mezzo quel poco che resta di una persona di cui ha conosciuto i pensieri, le risate, i dubbi. La malattia le ha portato via quella sorella che è una parte della sua famiglia, della sua vita. I ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza non corrispondono più a chi ha davanti adesso. Lo spirito, l’anima di Gabriella sono stati ingoiati da un gorgo che li ha poi risputati fuori senza sostanza, come bucce vuote, e lei lo sa. E’ una donna intelligente, ma non cedere definitivamente è per lei come avere in tasca un biglietto di

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ritorno da poter usare, forse un giorno, per farla rientrare a casa. Adesso è uscita, in fretta come fa sempre, magra e nervosa. Oggi mi ha lasciato da leggere il libro di Oliver Sacks, Risvegli. Torno da Gabriella, la finestra è aperta, fra le sbarre entrano le ombre degli alberi del piazzale e il richiamo ossessivo e quasi ritmico di una ricoverata che gira in tondo là fuori. Un lamento e un colpo alla panca, un altro lamento e un altro colpo alla panca. Gabri ha un corto caschetto di capelli bianchi su un viso che ha stranamente la paffutezza dell’infanzia nonostante siano visibili i segni dell’età ormai avanzata. I suoi occhi mi guardano da una distanza infinita. Io non so mai se mi vede davvero o m’indovina soltanto, persa com’è nei suoi mondi fantastici e a volte terrifici. Parlotta sottovoce, raramente le sue frasi hanno un senso compiuto, appallottola e gira le parole come un gomitolo di lana, ne fa fili e corde che s’intesse intorno e in cui rimane prigioniera. Le prendo una mano: è morbida e tiepida ma è indifferente, immobile, quasi inconsistente. Non cerca e non rifiuta contatti, non si accorge nemmeno che la lascio andare e la riappoggio sul bracciolo della poltroncina.

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LUCIA

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Sì, ho fatto l’amore... e allora mi hanno portato a Siena perché ho avuto una bambina… avevo ventotto anni... il padre era uno di Viterbo: andavo a passeggio, lo vidi, mi chiamò… la mamma non voleva, ma lui sembra l’abbia fatto apposta… così son rimasta in quel modo… mamma se ne è accorta che ero di quattro mesi… non ho fatto in tempo ad abortire, ma un’altra volta abortisco… durante la gravidanza sono andata dalle suore dell’ospizio, a Viterbo… l’ho fatto all’ospedale civile, non c’era altro posto, a casa mamma non mi voleva… una bambina, Manuela, le misi io il nome… l’ho allattata io… sono stata con la bambina un anno in istituto, sempre dalle suore… poi Manuela se l’è presa mia mamma…

3 Le testimonianze riportate da pag. 197 a pag. 202, sono state raccolte nel 1976 da Giuliana Morandini, giornalista di Paese Sera e pubblicate nel libro … E allora mi hanno rinchiusa, Bompiani, Milano, 1977.

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PEPPINELLA

Lavoravo le pagnotte di pane… tutti lavoravano per la pagnotta in famiglia… Ho fatto all’amore con uno per dodici anni, stava a fare il soldato e io sempre a scrivergli… poi è venuto a casa e mi ha lasciato… avevo ventotto anni, gli volevo bene, mi dicevo «che mi importa di cercarne un altro!»… mi era venuto un principio di pleurite alla spalla e lui allora se n’è andato «tu stai male e non ti voglio più»… c’erano tre giovanotti… Nivino era contadino, gli altri stavano in paese… io dicevo «se trovassi un contadino sarei più contenta, almeno fa il mestiere mio…» Ma guardavano e non mi parlavano, non facevano che lavorare e basta… io non me la pigliavo «se mi sposo bene, se no sto ragazza, tanto c’è da tribolare da sposata come da ragazza…».

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CATERINA

Facevo la casalinga, a servizio non mi mandavano… il babbo e la mamma erano all’antica, avevano paura che facessi un figliolo… tanto l’ho fatto lo stesso, a me è successo lo stesso… Avevo vent’anni… un po’ ho sofferto… la gravidanza l’ho passata qui… ero di quattro mesi e mezzo quando papà mi ci ha portata perché ero incinta… Il padre del mio bambino è del mio paese, di C… avevo un altro ragazzo, poi la mamma ha voluto che prendessi questo… con il primo ero rimasta come mi aveva fatto mamma, ma questo secondo disse che se non facevo l’amore con lui non mi sposava… ci sono stata tre anni… quando ha visto che crescevo mi ha lasciata… Il mio babbo voleva farmi abortire, mi voleva far bere un bicchiere d’olio di ricino: «bevi l’olio, se no ti porto a Siena»… «senti babbo, se tu mi vuoi far prendere l’olio a forza, preferisco andare a Siena, l’olio non lo prendo»… io lo volevo il bambino… il babbo mi disse «allora ti porto a Siena e poi vi porto a casa tutti e due...» invece io sono ancora qui…

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E’ nato all’ospedale civile, le suore l’hanno chiamato Clemente perché era il 23 novembre, ma io lo chiamo col secondo nome, Fabio… avrebbe quattordici anni, è nato nel '61… sta a Massa Marittima, in collegio, fa la seconda media… da quando è nato è sempre stato in collegio, solo nelle vacanze va a casa… è parecchio che non vedo Fabio… si chiama Clemente, ma io lo chiamo Fabio.

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ELSA

Ho avuto un figlio, avevo ventitre anni… è stato con uno di Roma, ci siamo lasciati quando il bambino era già nato… lui aveva un’altra donna a Roma, ma anche a me voleva bene… I miei la presero un po’ male, tanto è vero che il babbo voleva ammazzare il mio fidanzato… lui diceva di volermi, ma voleva una donna ricca ed io ero povera… la mamma disse: «se non la vuoi lasciala stare, prenderà un’altra sistemazione»… non ho pensato di abortire, la mamma me lo ha detto, ma io non ho voluto… dopo cinque mesi dal parto avevo nevralgie alla testa e sono venuta qui, mi ci ha portata il babbo… il bimbo l’ha cresciuto la mia mamma… quando sono tornata a casa il bambino mi ha fatto festa ma stava molto attaccato alla mia mamma… volevo che si attaccasse un poco anche a me… Umberto adesso ha ventidue anni… viene a trovarmi… sta in un negozio di elettricista, ha la ragazza di Follonica…

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RINA

Siamo otto figlioli… mamma è sempre stata in casa a fare le faccende… la mamma è sempre stata strana… mio babbo va in campagna, parte la mattina presto, fa le provviste e ci sta una settimana, quindici giorni… ci è toccato il podere, cinque ettari e mezzo dell’Ente Maremma… mia mamma non ci voleva annà, per i figlioli piccoli… ci era toccato un podere in un bosco, in fondo a una macchia… la mamma diceva: «e se mi sento male?», mia mamma ha delle idee sballate… stavamo in una casetta di due stanze dieci persone, era contenta a quel modo… mia madre è stata ammalata, ci ha fatto ammalare tutti di nervi… si era poveri, i signori ci davano della roba, della pasta, e lei sa che faceva? La buttava e noi si pativa la fame… diceva: «non ho bisogno»… ci davano della stoffa per farci i vestitini, non la prendeva, mi davano dei grembiulini e lei me li levava, diceva: «i miei figlioli non hanno bisogno»... era violenta, ci picchiava, mi mandava a prendere l’acqua estate e inverno, anche il babbo aveva paura di lei… si è patito tanto da piccini... dopo, da grandi, i nervi sono scappati fuori…

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Lelio

Lui è quello con cui bisogna essere prudenti. Quello che quando torna dal guardaroba dove lavora dicendo che vede "la polvere" deve prendersi un surplus di farmaci per evitare il peggio. E’ quello che parla poco, che non dà confidenza. Lui è quello con i capelli bianchi a spazzola e gli occhi azzurri, dentro i quali non leggi perché non c’è scritto niente. Non ci sono tracce di sentimenti o di emozioni. Lui quasi ogni giorno manda qualcuno a comprare le banane di cui è ghiotto, ma lui è anche quello che è venuto, anni fa, dal Giudiziario di Aversa perché con il fucile ha ucciso un fratello e ne ha ferito un altro. E’ quello che, come oggi, su richiesta dei parenti, abbiamo già portato alcune volte al paese di origine a trovare la madre e che adesso, con la scusa di andare in bagno, è riuscito ad allontanarsi dalla casa di famiglia. Sono usciti tutti a cercarlo. Siamo rimaste solo io e la mamma di Lelio. Lei è una vecchia signora piccola e magra vestita di nero e mi dà del "voi", come usano ancora gli anziani qui nel Viterbese. Ha paura che il figlio sia nascosto in casa: «signorina chiamate i carabinieri, se è qui ci ammazza tutte e due». La casa è grande e piena di silenzio. Comincio ad aprire le porte per rassicurarla. Ogni maniglia che tocco mi rimanda un po’ del tremito che da qualche minuto rende insicure le mie mani. Scendiamo le scale dal ballatoio interno. Una luce quasi estiva filtra dalle finestre spalancate e illumina il pavimento di piastrelle a losanghe dell’atrio. Altre porte da aprire sul buio di stanze poco usate che hanno odore di vecchio e di abbandono. Poi sento delle voci

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Gruppo di degenti al reparto Kraepelin

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all’ingresso di casa. Apro il portone e mi trovo davanti Lelio sospinto dall’infermiere. In quel momento la rabbia mi riempie, si espande e gonfia come una cosa a sé stante che non riesco a trattenere. Ho voglia di picchiarlo, lo afferro per la giacca, lo strattono e gli urlo: «ma cosa diavolo pensavi di fare?». Lelio non si difende dalla mia aggressione, rimane lì, nel vano della porta, e mi guarda con espressione indifferente: «Quanto la fai lunga! Volevo solo vedere se al casale in campagna c’era sempre il fucile, così potevo finire il lavoro». Il tempo è un concetto universale, passa per tutti, ma non è per tutti uguale il modo di misurarlo. Per qualcuno non ci sono orologi, appuntamenti, non esistono i cambiamenti delle stagioni che una dopo l’altra srotolano gli anni e li sommano sui calendari e sulle nostre facce. Per Valentino, Giuseppe, Domenico, Fulvio, Fiorella, Patatina, la misura del tempo è la distanza fra un pasto e un altro, di cui non sanno neppure dire il sapore, ma che placa quel senso di disagio che c’è da qualche parte, nel corpo. E’ l’intervallo che passa fra avere mani più gentili o più brusche che lavano e vestono. Molti di loro non hanno saputo di essere bambini, come ora non sanno di essere adulti. Alle sette di sera per tanti è già notte fonda. Dopo cena solo gli autosufficienti rimangono alzati, gli altri vengono messi a letto perché il personale deve ripulire, cenare, farsi la doccia, scrivere "le consegne" e aspettare il cambio turno davanti alla televisione. Il tempo per qualcuno dei "matti" è come un respiro sospeso, trattenuto a metà. E’ l’attesa. L’attesa per Damiano di tornare dalla sorella, di Mario per ricevere la visita del fratello, di Angelo per andare a Marta. E’ l’attesa di Vincenzo, che un cancro sta per mandare all’altro mondo, di vedere dopo tanti anni un’ultima volta i due figli. Ed è una storia di bugie che gli racconto ogni giorno sui figli cercati e finalmente trovati, lontani per lavoro ma che stanno in ansia per lui e che verranno senz’altro. E’ l’attesa che finisce quando gli dico, mentendo, che stanno per arrivare e il respiro si chiude…

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Solitudini

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Leopoldo

Poldino è uno dei ricoverati più giovani. E’ brutto. Ha la testa grossa in confronto al corpo minuto. La faccia un po’ deforme. Alcune dita sono unite fra loro. E’ un insufficiente mentale grave che non ha neppure un linguaggio rudimentale. E’ così fin dalla nascita. E’ per questo che i genitori l’hanno lasciato al D’Ormea da piccolo e non l’hanno più voluto vedere perché, come ha risposto il padre ai miei inviti, è stato traumatico avere un figlio così e loro hanno "preferito dimenticare". Poldino ha l’andatura oscillante come quella dei pinguini ma la destrezza di un rapace: tutto quello che vede per terra lo afferra velocemente e se lo mette in bocca. Sta seduto su una sedia, vicino alla porta d’ingresso del reparto, ogni tanto batte la testa all’indietro sul muro, con un rumore sordo ma forte che si sente dal piano superiore. Ha i capelli rasati che gli formano sul cranio deforme una specie di lanugine morbida, come un pulcino. Quando arrivo in reparto, gli passo accanto, gli faccio una carezza sulla testa e lo saluto. Non sposta neppure lo sguardo su di me, i suoi occhi continuano a percorrere il pavimento alla ricerca di qualcosa da ingoiare. Ed è così sempre, ogni volta che entro, ma stamani c’è una telefonata urgente per me e, appena arrivata, devo andare di corsa a rispondere. Niente saluto e niente carezza. Mentre parlo al telefono vedo Poldino che mi si avvicina più velocemente che può, con la sua buffa andatura e, non riuscendo a fare altro, mi colpisce le scarpe con innocui, piccoli calci appena accennati, con le sue ciabattine di feltro.

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Ogni tanto incontro la paura: è nelle goccioline di sudore all’attaccatura dei capelli e nel lieve formicolio dietro le orecchie che sembra diventino più grandi e si aprano per captare meglio lo struscìo dei passi leggeri di Ugo. Mi si avvicina alle spalle, mentre sono sola, e mi dà una lettera da spedire alla sua "fidanzata". Ugo odia le donne, ne ha accoltellata una anni fa. Dice che deve ucciderne almeno quindici per poter finalmente sposare la sua donna tanto amata, che altri non è che la Madonna, alla quale scrive periodicamente indirizzando le lettere: "Alla Signorina Maria Maddalena, città del Vaticano, Roma". Ritrovo la paura nel gesto di Alvaro. E’ rientrato in O.P., dopo alcuni anni passati al Giudiziario di Montelupo Fiorentino per un’azione stupida fatta in città, a danno di una straniera. Da allora, non appena si avvicina qualcuno di noi, si copre la testa con le braccia, in un istinto automatico di protezione. Risponde a monosillabi, lui che era grande e grosso ed ha sempre avuto l’aria da spaccone. Sta seduto in disparte, con la testa bassa, smagrito, la giacca un po’ larga per lui. Le mani hanno un tremore leggero, la bocca semiaperta. L’hanno imbottito di farmaci per anni, sembra chiuso in un bozzolo dove arrivano solo gli stimoli della sopravvivenza, non le voci della madre e del fratello, non i suoni della vita intorno a lui, né la musica, le luci, le domande. Adesso per farci guardare bisogna accucciarglisi accanto e parlargli piano, con dolcezza, perché cominci ad accettarci, a riconoscere i nostri passi, le nostre facce, questo luogo. E il suo corpo, la sua voce, i suoi pensieri.

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Giovanni I.

Potrebbe essere racchiuso in una sfera, non ha spigoli, non ha angolosità. Il suo corpo è rotondo, come rotonde sono le sue risatine mentre colloquia incessantemente con chi, nella sua mente, gli fa compagnia da anni. Rotonde sono le sue parole che non hanno sibilanti o durezze o asperità nelle consonanti. Scivolano via un po’ impastate ma morbide e infilate una dietro l’altra, come piccole pietre traslucide smussate dall’acqua. Giovanni è arrivato da un altro reparto. Vogliamo parlargli per conoscerlo al di là, di ciò che troviamo scritto nella cartella clinica. «Giovanni, perché sei qui in Ospedale?» «Un giorno, al mio paese, si alzò un vento fortissimo. Volava via tutto, le persiane delle finestre, i tetti delle case, gli alberi. Volavano via. Andavano in aria gli animali, le persone. E’ volato via il pozzo dietro casa, la chiesa, la gente di casa mia» e mentre lui parla mi sembra di uscire dalla finestra e di poter galleggiare in quel cielo pieno di vento azzurro e profumato, insieme a donnine con le gonne gonfie d’aria e gatti con il pelo stropicciato. E’ come stare in una fiaba di Rodari. Poi sento, come venisse da lontano, la voce del medico che chiede ancora una volta: «Ma tu, Giovanni, perché sei qui?» «Perché poi il vento ha portato via anche me e sono atterrato a Siena, qui».

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Degenti presso la sala-parlatorio del centrale

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Giuseppe

Qualcuno lo chiama "l’avvocato" anche se non è stato in grado di finire gli studi. E’ un signore di mezz’età, tarchiato, attento nel vestire, completamente calvo, ossequioso. Sta molto appartato, ma segue abbastanza le vicende del mondo esterno. Quando è con gli altri, al mare sta sdraiato per ore sulla spiaggia, appoggiando la testa al niente, all’aria del suo "cuscino psichico". Parla con proprietà di linguaggio e ogni tanto elargisce rari sorrisi. «Giuseppe, ma sua madre quando è morta?» «La mamma non è morta, è ridiventata giovane, è andata a Londra dove le hanno cambiato il corpo». «E il vecchio corpo dov’è, Giuseppe?» «E’ là, appuntato sull’atlante geografico De Agostini di Novara». Ora lo guardo attraverso la porta aperta del salone: oggi è venuto a trovarlo il padre, ex alto ufficiale dell’esercito, ormai molto anziano e di cui fisicamente Giuseppe è quasi una copia. Giuseppe gli sta davanti, quasi sull’attenti, con il collo robusto leggermente flesso in avanti, le braccia rigide ai lati del corpo. Annuisce rispettosamente a tutto quello che il padre dice. Trascorrono "faticosamente" assieme un po’ di tempo. Il padre mi chiede notizie di Giuseppe, con lo stesso tono con cui si domanda alla maestra se il figlio scolaretto si sta comportando bene. Poi se ne va brusco e impettito, dopo aver dato una pacca sulle spalle del figlio.

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Gita al Parco dei Mostri di Bomarzo

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Ilvo

Quando lo guardo è come sfogliare le pagine di uno di quei libri su fate e gnomi che piacciono tanto a mia figlia. Se avesse le orecchie a punta e gli stivaletti con i campanellini, sarebbe un vecchio folletto perfetto. Ha per tutti piccoli sorrisi silenziosi, si vede spesso con una scopa in mano mentre cerca di aiutare nelle pulizie ma quando, dove e come vuole lui. E’ qui da tanto tempo che per ricordarne il perché devo rileggere la sua cartella. Ma oramai contano poco le motivazioni e le ipotesi. Gli anni vissuti qui dentro si sono sedimentati su di lui, impedendo di capire come sarebbe potuto essere se fosse cresciuto in una realtà diversa, con stimoli appropriati e presenze positive. Oggi, però, è per lui un giorno di festa. E’ nella casa dei familiari che lo accolgono sempre con gioia e si radunano tutti, grandi e piccoli, per passare un po’ di ore insieme. E’ in salotto e gioca con i bambini che gli raccontano cose e gli fanno domande. Lui non risponde perché Ilvo, che per anni ha rifiutato di parlare, anche adesso non parla con chi non vede ogni giorno. Si esprime a gesti e a lievi fischi eppure riesce a farsi capire. Il fratello lo sa, viene spesso a trovarlo in O.P. e ogni volta riparte deluso. Spera sempre che un giorno o l’altro parlerà con lui. Mentre saluto la famiglia l’infermiere aiuta Ilvo a indossare la giacca e gli chiede che cosa ha fatto in questa giornata. Sono da soli nel corridoio e lui comincia a raccontare, con la sua vocetta leggera, quasi infantile, che viene fuori prima esitante poi più decisa. Accompagna le parole con brevi cenni della testa. Il fratello, nascosto dietro la porta, lo ascolta in silenzio e mi dice: Storie e personaggi del manicomio di Siena

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«Questa è la prima volta nella vita che sento la sua voce». Ci sono momenti in cui qualcuno di noi si sente più a proprio agio qui dentro che al di là del cancello. Le tristezze si nascondono bene tra queste mura, a volte anche la rabbia si diluisce in fretta e in silenzio, nel confronto con le vite perdute di quelli che stanno qui. Non è difficile parlare con chi abita i loro deliri, è solo questione d’immaginazione, di capacità d’improvvisazione. Si uccide più volte Schopenhauer che tormenta Gabriella, si può uscire dal reparto con in tasca un pizzico di sale dato da Maria contro le streghe o si chiudono bene le finestre per evitare che gli extraterrestri arrivino a portar via Giuseppe. E tutto questo ha una cadenza di ovvietà, di normalità che non richiedono mai speculazioni intellettuali o "riflessioni profonde". Dopo qualche tempo, quasi tutto quello che per gli estranei è "roba da matti" diventa parte della vita quotidiana. Ci si può abituare a vedere Lucia che vaga per il reparto con le mani infilate in grossi guanti imbottiti, per evitare che si morda a sangue le dita e si strappi le unghie. E’ facile anche fermarsi a parlare di banalità con Pasquale senza dare importanza al fatto che per andare al lavoro, non solo porta con sé una vecchia valigetta ma anche, appeso dietro al collo, un abito completo scuro che oscilla qua e là, a ogni suo passo. E può perfino capitare di dover uscire in fretta dal Duomo di Grosseto, ostentando indifferenza, nel momento in cui si ha la consapevolezza del fatto che Piero, nella penombra silenziosa di una navata, si è sbottonato i pantaloni e sta facendo pipì su una colonna…

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Il 1995

Esco dal reparto. E’ quasi buio. La porta si chiude lentamente, ovattando la musica e i canti. Anche la luce che illumina i finestroni sembra un po’ meno chiara, meno viva. Questa è la mia ultima festa qui dentro. Fra qualche giorno non sarò più qui, andrò a lavorare al distretto. Se alzo la testa posso indovinare dietro il vecchio Ferrus, ormai chiuso da tempo, la Torre di Piazza e il tetto del "Tartarugone". Annuso l’aria, l’odore delle prime mimose sale dagli orti de’ Pecci. Mi entra nel naso, scende dietro al palato e si posa sulla lingua, come fosse un sapore quasi di miele, forse con una punta di amaro. Anch’io, come i "matti", ho passato un pezzo della mia vita qui dentro, per scelta, per incoscienza, forse per una certa empatia. Per me, cresciuta in una realtà di divieti, di rigidità e con poco affetto, non è stato poi molto difficile condividere silenzi o interpretare costruzioni di mondi e identità immaginarie. E’ stato, a volte, come ritrovare le fantasie dell’infanzia, quando m’inventavo vite diverse, per difendermi da ciò che non amavo, per uscire da un mondo che non riconoscevo come mio. Per molti di noi non è stato un lavoro fine a se stesso. E’ stata, invece, una continua presa di coscienza degli eventi e delle manchevolezze del passato, utile per poterci differenziare nella concezione e accettazione della malattia mentale e, quindi, nel modo di affrontarla nella realtà quotidiana.

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Le difficoltà, gli errori, i successi, i fallimenti si mescolano tra loro e compongono la fila lunghissima dei giorni e dei mesi che si trasformano in anni e mi passano accanto sparendo, mutando e ricomponendosi nella memoria, come le dune del deserto. La ghiaia scricchiola sotto le scarpe, l’edificio centrale sta già cominciando a entrare nel cono scuro della sera. Vado verso l’ufficio. Nei corridoi deserti i passi fanno echi leggeri. Mi tolgo la parrucca del costume di carnevale, lascio dietro di me tracce di coriandoli. Sono un po’ stanca e mi fanno male i piedi. Non sono mai stata una brava ballerina. Appoggio al muro la mia tristezza, mi siedo su uno scalino e aspetto che passi.

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Proprio perchĂŠ conosciamo la debolezza intrinseca di ogni farmacoterapia assolutizzata e di ogni psicoterapia trionfalistica, non abdichiamo mai alla nostra umana solidarietĂ e alla nostra disponibilitĂ ad ascoltare e comprendere

Eugenio Borgna

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Indice

di Gino Civitelli 1.

UNA CHIUSURA TARDIVA

7

2.

DALL’OFFICINA ALL’OSPEDALE

11

3.

IL CONCORSO

13

4.

IL CORSO

15

5.

IL TIROCINIO

21

6.

IL VECCHIO PALMERINI

27

7.

VILLA UOMINI

33

8. PERSONAGGI

35

Il Savelli e la Ferrari

35

Il "Sanca"

39

9.

IL LAVORO NEI REPARTI

43

L’infermeria

43

Il Chiarugi

51

La lavanderia

55

L’istituto medico psico-pedagogico

59

10.

Il Conolly 65

11.

LE PAROLE DEL MANICOMIO L’elettroshock

75 77

L’ergoterapia 79 Finalmente sposi 95 Storie e personaggi del manicomio di Siena

221


12.

LE ELEZIONI

97

13.

L’ARTE DI ARRANGIARSI

99

14.

UN "MATTO" TROPPO COMPETENTE

103

15.

IL BERSAGLIERE

107

16.

ALVARO E L’ ELASTICO

109

17.

MOSTRI SACRI

113 113

Mario Tobino

115

18.

UNA GIORNATA STORICA

117

19.

UNA LOTTA DIFFICILE

119

Il San Niccolò

119

20.

I PRIMI PASSI

123

21.

IL BISOGNO DI CAMBIARE

129

22.

PSICHIATRIA E STREGONERIA

131

23.

DA GUARDIANI A PROTAGONISTI

135

24.

222

Giovanni Jervis

Il Montemaggio

135

Il campeggio

141

La vendemmia

145

La raccolta delle foglie

146

La lezione del Montemaggio

147

Un lavoro tutt’altro che semplice

148

Arte e follia 151 Mario Puccini

161

Carlo Vincenti

163

N o i c ' e r ava m o


Spartaco Bargelli

167

Paris Morgiani

169

di Flores Ticci 25.

Le "ragazzette" 181

26.

Reparto Chiarugi 183

27.

Ernestina 185

28.

Giovanni 187

29. Fiore 30.

Prime esperienze di libertĂ ... (o quasi) 191 Anni ‘70

31.

189

191

Gabriella 195 Lucia 197 Peppinnella 198 Caterina 199 Elsa 201 Rina 202

32.

Lelio 203

33.

Leopoldo 207

34.

Giovanni I. 209

35.

Giuseppe 211

36.

Ilvo 213

37.

Il 1995 215 Storie e personaggi del manicomio di Siena

223


Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare alla Fondazione Monte dei Paschi di Siena per aver messo a disposizione le foto del Fondo Malandrini sull’Ospedale Psichiatrico San Niccolò e al dott. Enzo Valeriani per la gentile collaborazione. Le foto del Fondo Malandrini sono di proprietà della Fondazione Monte dei Paschi di Siena che ne detiene tutti i diritti. Un sentito ringraziamento ad Anna Cigni, Renata Paolini, Manlio Landi, Franco Savini, Silvano Guerrini, Eleonora Lorenzini, Anna Rubbioli, Giulio Crocini, Alessandro Nocciolini. Alla Cooperativa “Riuscita Sociale” per le foto delle sculture di Paris Morgiani. Ad Alberto e Agnese Miralli per le foto e la tesi su Carlo Vincenti. A Fabio Vincenti per le notizie su suo fratello Carlo. A Ilaria Semplici per alcune immagini dell’Ospedale Psichiatrico.

224

N o i c ' e r ava m o


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