Il Divin porcello

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Il divin porcello Gino Civitelli

seconda edizione

Il divin porcello Storia del maiale

nella storia

Gino Civitelli


a cura di Gino Civitelli

Il divin porcello Elicona Servizi Culturali Progetto grafico e impaginazione: Ippolita Lorusso Editing testi e immagini: Piero Capretti

Ringraziamenti:

Comune di Siena e Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena.

Museo della Mezzadria senese di Buonconvento (SI) Gianfranco Molteni, direttore Marina Giordano, Sara Poggialini, Lucia Pelosi, Silvia Pratelli, Elicona

La mostra “Il divin Porcello. Storia del maiale nella storia” è disponibile presso l’Archivio del Museo della Mezzadria senese In copertina: Sano di Pietro, La macellazione del maiale, (part.), Codice delle Monache, Calendario, mese di Dicembre, Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati Agosto 2011 seconda edizione Ringrazio l’amico Luciano Scali per la collaborazione nella ricerca delle fonti storico-iconografiche.


Il divin porcello Storia del maiale

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Gino Civitelli

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Il maiale nella storia

1. Miniatura del XIII secolo. 2. Un molosso alle prese con un cinghiale, bassorilievo romano, Colonia 3. Gruppo marmoreo con la scrofa che allatta i porcellini, Roma, Collezione Musei Vaticani

Le prime immagini del maiale giunte fino a noi, risalgono a dipinti rupestri di oltre diecimila anni fa. Nell’isola di Malta, in una grotta del periodo neolitico, è stata scoperta la raffigurazione votiva di una scrofa che allatta tredici porcellini. In quell’epoca e nella successiva, detta appunto dell’ “evoluzione neolitica”, le attività dell’uomo, fino ad allora limitate alla caccia e alla raccolta, cominciano a fondarsi sull’agricoltura e sull’allevamento. Inizia così la “convivenza” tra l’uomo e il maiale, in un quadro più complessivo di radicamento sociale che porterà all’addomesticamento graduale di specie vegetali e animali. In un ritrovamento avvenuto a Cemi, in Turchia, risalente all’8000 a.C., ci sarebbe la prova che l’addomesticamento del maiale fosse addirittura precedente a quello del grano e dell’orzo, sfatando così la convinzione che dopo il cane fossero le capre e le pecore ad essere i più antichi amici dell’uomo. Non è certo, però, chi furono i primi popoli Il divin porcello

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a ridurre in cattività i cinghiali. Circa settemila anni fa, dalle risultanze archeologiche, sembrerebbe fossero stati quelli mediorientali che fino allora li avevano cacciati per la prelibatezza delle carni, ma ben presto l’usanza si sarebbe trasmessa agli altri popoli del sud-est asiatico, delle steppe del Nord e della Mesopotamia, all’Irak, alla Turchia e alla Grecia. Da quel momento, uomini e maiali attraverseranno le varie epoche storiche in un rapporto che assumerà, però, significati diversi secondo le varie culture e religioni. Il maiale è stato il primo animale a essere venerato nella storia: le prime figure di culto rappresentate in forma di scrofa, arcuate a vaso, appaiono circa settemila anni fa e nell’etimologia greca il termine maiale (His), si trasforma in Histera (utero, cavità, contenitore). L’animale è simbolo di fecondità, di prolificità e la sua abitudine di annusare e scavare il terreno (l’oltretomba) lo fanno diventare un tramite diretto con le divinità. La scrofa è gravida in quattro mesi e con le due fasi di preparazione e sterilità, consente in alcune culture di ripartire il ciclo annuo in tre parti, alcuni studiosi hanno perciò messo questa ripartizione in relazione con antichissimi schemi legati al ciclo mestruale e a quello lunare, che portarono i primi uomini del paleolitico a tracciare nelle caverne segni bianchi, rossi e neri in varie combinazioni fra loro. Nell’antico Egitto, il maiale è l’essere sacro agli dei Seth e Thot e la dea del cielo Nut viene rappresentata come una grande scrofa (la volta celeste) cirIl divin porcello

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4. Zodiaco di Dendera (part.), tempio sul Nilo a nord di Luxor 5. Il cinghiale Varah (una delle incarnazioni della dea Vishnu)


condata da maialini (le stelle), che sono ingoiati al mattino e fatti risorgere la sera. Sua figlia Iside è la dea della terra e rappresenta il principio generatore femminile della natura. In India, la dea-maiale Vajravarahi (la scrofa del diamante), ha la stella a sei punte e incede danzando lungo l’orbita delle stelle, avendo sotto di sé Idan-iha-mo, la dea del Soma, dell’oceano di latte o di sangue da cui tutto è stato creato. Nella religione Vedica e poi InIl divin porcello

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duista, il cinghiale Varaha è una delle dieci incarnazioni terrene della dea Vishnu che con Brahma e Shiva costituiscono la sacra triade indiana, che assume proprio le sembianze di un cinghiale per “trarre” la terra fuori dalle acque. “In principio, ad oriente, abitava il Grande Maiale primordiale. Il sole e la luna erano i suoi occhi, le stelle, sorgendo e tramontando ne percorrevano il corpo. Dalla prima scrofa nacque tutto ciò che esiste: ella è la madre di tutti noi”. Nei Samsara tibetani, le ruote della vita che si devono percorrere nei due versi per essere rigenerati, hanno al centro del labirinto sferico proprio un maiale, l’essenza originaria. Presso i Celti il cinghiale era uno dei simboli del dio Lug e rappresentava la casta sacerdotale in contrasto con l’orso che era invece l’emblema di quella guerriera. Durante il tempo di Saman, un periodo dell’anno corrispondente alla nostra ricorrenza dei morti, il maiale costituiva un sacro collegamento tra il mondo dei vivi e l’aldilà: l’animale, ucciso la sera per il banchetto sacrificale, ritornava in vita all’alba a rappresentare l’eterna ciclicità degli eventi. Ma la simbologia che i sacerdoti attribuivano al cinghiale-maiale fa pensare anche a una vera e propria funzione rituale di fonda-


zione, quasi a un animale-guida. Virgilio, nell’Eneide, parla di una “candida scrofa” che segnala il punto in cui doveva sorgere Albalonga e secondo una leggenda medievale, fu una scrofa semilanuta a indicare a Belloveso il luogo dove fondare Medio-lanum, Milano, com’ è raffigurato in un bassorilievo posto su uno dei pilastri del palazzo municipale del Broletto. Nella cultura cinese, l’ambiguità simbolica del maiale è stata utilizzata a scopo didattico e di ammonimento: prima rappresenta la natura istintiva, sporca, aggressiva, che una volta addomesticata si rivelerà però assai utile. Nell’ebraismo e nel mondo islamico, i “divini precetti” che sono rigorosamente codificati e presuppongono l’utilizzo di “cibi perfetti”, proibiscono l’allevamento del maiale e il consumo della sua carne ritenuta “impura”. Molto spesso, si pensa che tali divieti siano in relazione alle condizioni climatiche in cui non sarebbe opportuno assumere cibi ad alto contenuto calorico, ma l’avversione verso il maiale sarebbe stata trasmessa all’area semitica dalle popolazioni nomadi che vagavano nelle steppe asiatiche, popolazioni che avversavano la stanzialità, l’agricoltura e una continua dedizione alle colture, preferendo invece la pastorizia e l’attività predatoria. Anche nel cristianesimo, del maiale è prevalso l’elemento simbolico più negativo: esso rappresenta l’ingordigia, la sensualità, la lussuria, l’abiezione, il peccato! Nel libro del Levitico (11, 1-9) si legge “Non mangerete il cammello, il coniglio, la lepre, il porco. Non mangerete della loro carne e non toccherete i loro corpi morti; li considererete come impuri”. Nella Bibbia, in una lista di animali da evitare per gli usi alimentari, figura ancora il maiale. Che cosa evoca questo animale per mantenere ancora in alIl divin porcello

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cune culture un profondo simbolismo di impurità, disgusto e orrore? L’odio per il maiale è antico come il mondo. Presso gli antichi Egizi esistevano già molte proibizioni sui porci e sui loro guardiani, perché nonostante i maiali fossero impiegati dai contadini per interrare le sementi, i sacerdoti di Osiride li accusavano di aver straziato il corpo della loro divinità e da allora, il porco nero come quello rappresentato nella tomba di Ramesse, divenne il simbolo di tutti gli spiriti malefici. Nella leggenda greca, la maga Circe trasforma in porci gli uomini di Ulisse per punirli delle loro lussuriose molestie, nella Ruota dell’esistenza tibetana, il maiale è raffigurato al centro come

6. Scrofa semilanuta, Milano, Palazzo della Regione 7. Epidromos, Scena di un sacrificio di un porcellino, coppa attica, metà V sec. a.C. 8. Eracle porta a Euristeo il cinghiale di Erimanto, cratere a figure nere, 550 a.C. ca. Il divin porcello

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simbolo dell’ignoranza. Nel Vangelo di Marco (5-12) nella parabola di Gadara, Gesù incontrando un gruppo di indemoniati che lo pregano di liberarli, costringe i diavoli a entrare nel corpo di alcuni porci che pascolavano lì vicino. “Così egli fece, ed essi, usciti dal corpo degli uomini, entrarono in quello dei porci: ed ecco che tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti”. Nella parabola del “Figliol prodigo” il giovane, dopo aver preteso in anticipo dal padre la sua parte d’eredità e averla scialacquata, diventa guardiano di porci, raggiungendo così il gradino più basso, il fondo dell’abiezione. Nel “discorso della montagna” dal Vangelo secondo Matteo, Gesù esorta: “…non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”. Nel Medioevo il maiale era la cavalcatura usata dalle streghe alla costante ricerca di una sfrenata sessualità e quando veniva macellato, gli esorcisti vi cercano dentro Il Demonio. In epoca recente Jung e Freud ci hanno fatto capire quanto i simboli religiosi e mitologici siano portatori di un’ enorme carica di energia psichica, capaci di una valenza che la parola, strumento della razionalità non può esprimere né rimuovere. Certamente oggi cose del genere potranno far sorridere, ma il problema per l’Uomo di non essere accomunato al maiale nella sua simbologia dispregiativa è un fatto non ancora risolto e su cui è necessario riflettere. Resteremo, come il maiale, nella melma in preda alla volgarità, alla voracità onnivora che offende e uccide il pensiero o sapremo differenziarci? Sapremo sollevare la testa da terra e vedere? Non ci possono essere alternative: o l’animalità che è nell’uomo si trasforma in coscienza e conoscenza attraverso un nuovo auto-addomesticamento collettivo, oppure, come ha immaginato George Orwell, dopo la rivoluzione animale saranno proprio i maiali, i più intelligenti fra i non umani, a detenere il potere nella fattoria liberata. Il divin porcello

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9. Battuta di caccia al cinghiale (part. del pavimento a mosaico), Piazza Armerina (Enna), Museo Archeologico Regionale della Villa Imperiale del Casale


Il maiale nell’Odissea Nella cultura dell’antica Grecia, il maiale e il cinghiale occupano un posto di tutto rilievo rispetto ad altri animali più o meno mitologici. Accanto al Toro di Maratona, al Leone Nemeo ecc., spiccano il Cinghiale Calidonio mandato dalla dea Artemide a Corinto a distruggere i raccolti del re Eneo suo nemico, mentre Ercole dovette combattere la sua quarta fatica contro il cinghiale di Erimanto che una volta catturato portò vivo a Euristeo il quale, dalla paura, si nascose in un grosso orcio. Ma è nell’Odissea che il maiale raggiunge il massimo valore simbolico: gli uomini di Ulisse vengono trasformati in maiali dalla maga Circe, Ulisse stesso alla corte dei Feaci invia un lombo di maiale in omaggio al cantore Il divin porcello

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Demodoco, e attraverso Eumeo, ci fornisce alcune precise indicazioni tecnico-culinarie per gustarlo al meglio, abbrustolendolo per eliminare le setole e cospargendone le carni di farina per far raggrumare il grasso, essendo l’olio di oliva usato a quel tempo esclusivamente per ungere il corpo. Ed è sempre Eumeo, il suo “esimio porcaio”, che costruisce in sua assenza un recinto mitico in cima a un sacro colle, dove custodisce gli animali del padrone, cui offrirà, appena sbarcato a Itaca, due bei maialini.

Perché loro il pastor dovea mandarne Il più grasso ogni dì; sì che a trecento E sessanta eran essi omai ridotti. Fieri come leoni, alla custodia Del casolar vegliavano la notte Quattro mastini, che allevati avea E nudrìa di sua mano il buon famiglio.”

Omero, Odissea, XIV, 5-25 (traduzione di Paolo Maspero).

“E lo trovò nel portico seduto D’un saldo ed ampio casolar, che posto Era in cima d’un colle, e si potea Tutto correr dintorno. Il mandrïano, Nell’assenza d’Ulisse, e senza darne Alla regina ed a Laerte avviso, Fabbricato l’avea di pietra viva, Tolta a vicina cava, e circondato d’una siepe di spini; ed alla siepe Avea condotto in giro uno steccato Di rimondi quercioli. Una appo l’altra Ivi dodici stalle eran disposte, E ciascheduna contenea cinquanta Feconde scrofe. Dalle stalle i maschi Dormìan lontani, e li venìan più sempre Di numero scemando i baldi Proci, Il divin porcello

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Maiali e numeri di A. Asterzod In tutto 50x12=600 scrofe gravide… Questo numero 50, scelto da Omero, non è certo casuale e deve avere un preciso significato simbolico-numerologico e/o astrologico. Rappresenta forse un ciclo temporale basato su qualche periodo astronomico particolare, per esempio planetario? Nessuno, ritengo, potrebbe rispondere con esattezza a tale domanda. Occorrerebbe anche spiegare perchè il numero 50 figuri alla base del mito degli Argonauti o appaia presso altri antichi miti: sono 50 le figlie di Danao trasportate sulla stessa nave e anche Priamo, re di Troia aveva 50 figli e figlie. Giasone alla ricerca del Vello d’oro aveva con sé 50 compagni e anche l’eroe sumerico Gilgamesh si racconta che partì con 50 compagni di avventure. Il ciclo di 60 anni è alla base dell’astrologia cinese fatta di 12 segni annuali per 5 elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua), il 60 è anche il numero base della suddivisione del tempo e dello spazio: un’ora, come anche un grado, viene suddivisa in sessanta primi e ciascun primo in 60 secondi.

10. G. Stradano, Circe tramuta in porci i compagni di Ulisse (part.), Firenze, Palazzo Vecchio, studiolo Il divin porcello

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Guardiani e ammaliatori Se i Greci dovevano sospingere i branchi dei maiali al pascolo, gli Etruschi, che facevano tutto a suon di musica, li avevano invece abituati a seguirli docilmente al richiamo dei loro strumenti. Polibio descrive le evoluzioni di grandi branchi di maiali lungo le rive del Tirreno, con i porcari avanti che soffiavano, di tanto in tanto, nella bùccina. In una situla ritrovata a Chiusi, risalente al 650 a. C., oggi al museo archeologico di Firenze, vi è raffigurata una mandria di verri condotta al pascolo da un porcaio. Varrone parla anche dell’educazione dei maialini, che l’allevatore doveva abituare fin da piccoli a far tutto al richiamo della tromba. Columella descrive invece un porcile con uno stabbio particolare da adibire al parto delle scrofe; in esso, per impedire l’uscita, consigliava di mettere un gradino davanti a ogni porta. Un porcile di questo tipo è stato recentemente riportato alla luce durante gli scavi della villa romana di Settefinestre ed è curioso notare come quelli dei nostri contadini fossero costruiti in modo analogo con uno scalino fatto con una fila di mattoni davanti ad ogni stabbio.

11. Ricostruzione della porcilaia della villa di Settefinestre (prospetto), Ansedonia, metà II sec. d. C. 12. Tomba dei Leopardi, parete destra (part.), Tarquinia, Museo Nazionale

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Vivande prelibate Chi pensasse che fra i romani fossero particolarmente ricercate, come oggi, solo le parti nobili del maiale dovrà senz’altro ricredersi leggendo alcune delle ricette della cucina di Apicio. Callo, cotenne e peducci: da mangiare lessati con salsa. Poppa di scrofa: lessala e infilzala con stecchi, cospargila di sale e mettila in forno o sulla gratella. Trita del pepe, del ligustro, della salsa, del vino puro e passito. Addensa con amido e copri la poppa. Poppe ripiene: trita del pepe, carvi (cumino selvatico) e ricci salati. Riempi e cuoci. Si mangia con salamoia e senape. Nella cottura delle poppe era sempre raccomandata la legatura dei capezzoli affinchÊ non si perdesse neppure un goccio di latte. Il divin porcello

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Ventresca: Per ventresca s’intendeva il ventre del maiale, che veniva lavato con acqua e aceto e, così pulito, riempito di polpa di porco tritata, tre cervella e uova crude cui aggiungerai i pinoli e il pepe a chicchi. Sembra un’antica ricetta dell’attuale Buristo. Trita del pepe, del ligustro, del silfio, dell’aneto, dello zenzero, poca ruta, dell’ottima salsa e poco olio. Riempi la ventresca in modo da lasciare dello spazio perché non scoppi quando bolle. Chiudi con stecchi e, legato il tutto con amido, immergila nel tegame bollente. Levala e pungila con un ago perché non schianti. Quando è a mezza cottura levala e sospendila sul fumo perché si colori. Lessala completamente e poi la tempererai con la salsa, col vino puro e con poco olio. L’aprirai col coltello e la servirai con la Salsa e il ligustro. La trippa di maiale “alla Falisca” era uno dei piatti più ricercati nei banchetti etruschi. Per fare la ventresca arrosto: avvolgila nella crusca e, dopo, mettila in salamoia e così la cuocerai. Vagine sterili: servi con pepe e Salsa, con laser partico. Vagine arrostite: avvolgile nella crusca e dopo mettile in salamoia e così cuocile. Vagina lessa: Quest’ultima, per il suo aspetto bianco translucido ha dato poi il nome “porcellana” al tipo di ceramica fine e quasi trasparente. Varrone definisce la vulva di maiale “Veneris Ostium”, mentre Plinio sosteneva che la vagina di scrofa era ottima se questa era vergine. L’Omento: la nostra ratta. Veniva usato per fare polpette di ogni tipo, ma in primavera veniva bruciato in omaggio alle divinità. Il Porcus Troianus: Era un porco ripieno di altre vivande che i romani preparavano per similitudine con il cavallo che i Greci introdussero pieno d’armati nella città di Troia. Prosciutto lessato: con molti fichi e foglie d’alloro Prosciutto con mostaccioli: è dolce, impastato con farina, miele e fichi 13. Scena di lavorazione del maiale, miniatura inglese, XIV sec. (si noti a destra la raccolta del sangue, al centro la bruciatura delle setole e a sinistra la pulitura delle budella)

Prosciutto di cinghiale riempito alla tarantina: Un piatto molto elaborato in quanto prevedeva il riempimento del coscio, fra la pelle e la carne di una salsa detto appunto alla tarantina con bacche di alloro, ruta vino e olio verde. Il divin porcello

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I maiali in Valpadana Fin dall’epoca romana, la Valle Padana era famosa per gli allevamenti dei suini. Così scriveva lo storico greco Polibio, verso la metà del II sec. A. C. “Tanta è l’abbondanza di ghiande raccolte nei querceti della pianura che la maggio parte dei suini macellati in Italia, per la necessità dell’alimentazione domestica e degli eserciti, si ricava in quella zona”. Scavi archeologici condotti in villaggi neolitici della Pianura Padana hanno evidenziato che su 100 capi di bestiame, 76 erano maiali, 13 erano pecore e 11 i bovini. (fonte del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) Nel sito di Forcello, vicino Bagnolo San Vito a Mantova, in un insediamento etrusco del V secolo, si sono trovate oltre 30.000 ossa di maiale, ma non vi erano quelle delle zampe posteriori. Gli Etruschi avevano già “scoperto” il prosciutto?

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14. Maiali in un bosco di querce, disegno acquarellato 15. Theatrum Sanitatis, tav. 15, Roma, Biblioteca Casanatense, XIV sec.

La conservazione della carne “Nulla è più utile del sole e del sale” scriveva Plinio il Vecchio, mentre Catone il Censore (II se. a.C.) ci tramanda una raffinata tecnica di conservazione dei cosci di maiale che dopo la salatura venivano unti con l’olio, affinché non si indurissero. Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.) scrive nel “De Rustica” che i Galli erano grandi esperti nella lavorazione di carni suine. Ancora oggi, nel bassorilievo della cattedrale di Reims, sono raffigurati dei “norcini” al lavoro e insaccati esposti insieme a prosciutti pronti per la vendita. I Romani importavano quarti di maiale e prosciutti prodotti dalla Gallia Cispadana e la carne salata era molto importante nella dieta dei legionari. Dopo la vittoriosa battaglia combattuta sul Trebbia contro i Romani nel 217 a.C., Annibale entrò a Parma e gli furono offerti cosci di maiale che furono molto graditi. I Longobardi, che consumavano grandi quantità di maiale, si cibavano raramente con carne fresca, perché era già in uso la tecnica di salagione e affumicamento per la produzione di insaccati, di lardo e prosciutto. Quelli che abitavano la Valle Padana si approvvigionavano di sale in una località vicino a Parma, che proprio per questo prese il nome di Salsomaggiore.

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L’origine della parola Dal punto di vista strettamente biologico, le specie di suini o maiali selvatici sono tre: Il SUS CRISTATUS. Quello del Nepal e dell’India settentrionale. Il SUS VITTATUS. Quello cinese. Il SUS SCROFA. Il cinghiale europeo SUS. E’ una parola indoeuropea usata per indicare soprattutto il maiale adulto selvatico. PORCO. E’ l’animale domestico macellato per l’alimentazione. PORCA. E’ la femmina adulta del maiale. MAIALE. In latino maialis, l’animale grasso. TROIA. Dal longobardo Trogola, è la femmina del maiale adoperata per la riproduzione. Per questo il vocabolo viene spesso usato in modo dispregiativo per indicare una donna di facili costumi. CINGHIALE. Veniva chiamato “porco sivestre” oppure “porcus singularis”, da cui discende il termine fracese “sanglier” e l’italiano cinghiale. IN TOSCANO CIGNALE. Da cinghia, cintura, in riferimento alla fascia bianca della razza cinta senese. PORCO E CINGHIALE. Sono termini usati indifferentemente nell’antichità. Dante, nella Divina Commedia, li usa per designare sia l’uno che l’altro animale.

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16. Interno di una bottega di salumiere, bassorilievo raffigurante un macellaio intento a tagliare “il costoleccio”, Roma, Museo della civiltà romana 17. Hans Weiditz, Diavolo Porco, incisione, XVI sec. (il demonio è qui rappresentato in forma di porco incoronato dal suo adoratore)


Il maiale nel medioevo Il terzo e il quarto secolo dopo Cristo furono caratterizzati da una grave crisi demografica che colpendo soprattutto le popolazioni di campagna ebbe ripercussioni dirette e pesanti sull’agricoltura. Aumentarono così le aree incolte e boschive mentre diminuirono sensibilmente quelle coltivate, facendo cambiare in modo sostanziale anche il paesaggio. In questo nuovo contesto, l’allevamento allo stato brado dei maiali diventò un elemento determinante non solo sotto il profilo alimentare, ma soprattutto per quello economico e sociale. La successiva invasione longobarda avvenuta nell’anno 569 d.C., portò a una modifica delle vecchie tradizio-

ni romane, sostituendole con quelle di una civiltà seminomade, abituata a prendere dalla natura ciò che spontaneamente questa poteva offrire. I boschi diventarono così una grande risorsa. Quelli di querce della specie Il divin porcello

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comune vennero considerati terreno produttivo al pari dei campi coltivati e delle vigne, per cui il loro valore commerciale aumentò in modo considerevole. Nella terminologia notarile del tempo, i boschi furono suddivisi in “selve infruttuose”, quelli con piante che producevano solo legname e in “silva ad incrassandum porcos” quelli che invece potevano permettere il pascolo dei maiali. Questo fatto rivoluzionò anche il tipo di misurazione dei boschi stessi, basandolo non più sulla loro estensione ma sul numero dei capi suini che Il divin porcello

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18. Hieronymus Bosch, Inferno musicale (part.), Madrid, Museo del Prado, 1503-1504 19. Hieronymus Bosch, Il diavolo. Le tentazioni di Sant’Antonio (part.), Lisbona, Museo Nazionale di Arte Antica


potevano sfamare, perciò gli amministratori fondiari dichiaravano che tale selva è da 100 maiali, oppure 50, e così via. Chi non possedeva boschi, ed era costretto ad affittarli, doveva pagare il “ghiandatico”, una tassa per le ghiande raccolte o consumate dal branco, oppure dare la “decima porcorum”, cioè la decima parte dei maiali pascolati al proprietario del fondo.

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I porcari Il mestiere del porcaro cessò di essere, come nella parabola del “figliol prodigo”, l’ultimo livello sociale e divenne invece molto apprezzato e ben remunerato. Anche se i porcari restavano, come la maggior parte dei lavoratori, dei servi appartenenti ai signori, la loro conoscenza del territorio era fondamentale e veniva utilizzata anche nelle cause per definire i confini delle proprietà. Matilde di Canossa, nell’anno 1096, chiamò due di loro, Giovanni detto “il cane” e Gerardo “il pazzo” per dirimere una lite scoppiata per il possesso di boschi e paludi nella zona di Mantova. Quale fosse l’importanza dei porcari nella società altomedievale, possiamo desumerlo dalla somma che si doveva pagare come risarcimento al loro proprietario qualora fossero feriti o uccisi. L’editto di Rotari (653 d.C.) prevedeva tutta una scala di valori per le diverse categorie dei servi, facendoci capire la differenza fra le due rispettive attività. Il “Magister Porcarius”(maestro, capo dei porcari) era una figura molto apprezzata e aveva il valore più alto in assoluto al pari di un maestro artigiano. Questa attività ha dato il nome a un comune in provincia di Lucca. Per l’uccisione di un maestro porcaro soldi d’oro 50 Per un maestro artigiano soldi d’oro 50 Per un porcaro o artigiano semplice soldi d’oro 25 Per un pecoraio o bovaro o capraio soldi d’oro 20 Per un contadino soldi d’oro 20 Il divin porcello

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Il pascolo Il maiale divenne il vero re del bosco. Ogni giorno grandi branchi venivano condotti al pascolo con a capo il sonorpair, il verre più grosso “che tutti gli altri batte e vince”. Questi portava al collo un campanello in modo che la sua presenza fosse costantemente avvertita dal branco e da altri che si trovavano

20. Novembre. Les travaux et les jours, Martyrologe d’Usuard, Parigi, Biblioteca Nazionale, 1270 21. Porcaro al pascolo, miniatura dal Tacuinum Sanitatis, Vienna, Biblioteca Nazionale Il divin porcello

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nelle vicinanze. A volte, invece del verre, il capobranco era la scrofa maggiore, la Ducaria, a cui tutti maschi e femmine dovevano rispetto e obbedienza. Vivendo nei boschi allo stato brado i maiali si incrociavano con i cinghiali, assumendo perciò un aspetto assai diverso da quello odierno. Erano molto Il divin porcello

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magri e snelli, con il grifo appuntito e le zanne che sporgevano come quelle dei cinghiali, le zampe divennero più lunghe e muscolose, le orecchie corte ed erette, le setole irsute e dritte sulla schiena come una criniera. Ma anche le razze erano diverse da quelle attuali. Michelangelo Tenaglia, autore nel 1400 di un trattato in versi sull’agricoltura, li descrive così: “Questo (il porco) lo vediamo di tre colori, bianco, rosso e negro” e Vincenzo Tanara aggiunge: “il bianco è havuto, secondo Ulisse Aldrovandi, per secondo il rosso per soavissimo à mangiare, il negro per haver la carne soda, di più durata dell’altre”. Ancora nel 1700, molti viaggiatori del Gran Tour descrivono, nei loro appunti, branchi considerevoli di maiali rossi nella campagna bolognese e toscana.

“Si deon dar loro le ghiande, le castagne e somiglianti cose, o le fave, o l’orzo o il grano imperocchè queste cose non solamente ingrassano, ma danno dilettevole sapore alla carne” Piero de’ Crescenzi XIII sec.

22. Breviario Grimani, Porcari che bacchiano le ghiande in Novembre, miniatura, XV sec.,Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana Il divin porcello

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Maiali a spasso e da pulizia L’allevamento dei maiali, sviluppatosi inizialmente in zone distanti dalle città, si diffuse ben presto anche nei centri urbani, rendendo ancor più gravi i problemi igienici e di ordine pubblico. A questo proposito si cercò di porre rimedio con gli Statuti dei comuni, in cui fu limitato il numero e il tipo di bestie e disciplinato l’andirivieni dei porci per le vie della città. A Firenze, nel 1402, i porci venivano tassati in entrata e in uscita nella misura di due denari a capo. Una vera e propria tassa di scopo si direbbe oggi. Nello Statuto di San Giovanni d’Asso e di Lucignano d’Asso in provincia di Siena, si legge: “... niuna persona di Lucignano né della sua corte né distretto possa né debba lasare andare e’ loro porci o porcho sciolto o sciolti fuori della stalla da cale’ di Giugno per infino a Kalende di Agosto…”. In altri casi fu imposto perfino di ferrarli nel grifo con appositi anelli affinché non provocassero danni “porci habeant anulum ad griffum”. Delle scorribande dei maiali in città rimase vittima l’Imperatore Traiano che cadde da cavallo a causa di un porco, Filippo, detto il Grosso, figlio del Re di Francia Luigi V, morì cadendo da cavallo davanti alla reggia, per colpa di un maiale che gli aveva spaventato l’animale. Anche Giotto, a Padova, fu urtato da un branco di porci e fatto cadere a terra. I suoi amici, prontamente accorsi, lo aiutarono a rialzarsi preparandosi ad una sequela di imprecazioni e invece il grande artista, con un mezzo sorriso esclamò: “o non hanno e’ ragione? Chè ho guadagnato a miè dì con le setole loro migliaia di fiorini e mai non diedi loro una scotella di broda”. Ma i maiali sono stati da sempre utilizzati per riciclare rifiuti e ripulire le Il divin porcello

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23. Un gregge di pecore e un maiale entrano a Parigi, (part.) da Yves, monaco di Saint Denis, “Vita e martirio di Saint Denis” Parigi, Biblioteca Nazionale 24. Albrecht Durer, Ritratto dell’imperatore Carlo Magno, Norimberga Museo Nazionale Germanico


città. Per questa loro caratteristica, gli inglesi e il mondo anglosassone, hanno coniato il termine “Garbage pig” letteralmente “maiale da spazzatura” e questa funzione l’hanno storicamente svolta in Cina, in Corea, negli Stati Uniti, negli agglomerati urbani europei, in Italia. Gli ordini conventuali, fra cui brillavano i frati di Sant’Antonio “del porcello”, che avevano il privilegio di tenere i maiali in città, li utilizzarono fino alla fine del 1700 come servizio di nettezza urbana. A Siena, nel 1296, fu emanato un bando per la pulizia “di tutta la spazzatura et letame et granaglie” di Piazza del Campo. Colui che vinceva l’appalto aveva il diritto di tenere “una scrofa e quattro maialetti perché mangiassero le sopraddette granaglie”.

Il Capitolare di Carlo Magno Nel IX sec. l’Imperatore emanò un “capitolare sulla gestione delle aziende regie” per la conservazione della carne di maiale. “Bisogna provvedere con ogni diligenza che il lardo, le carni affumicate, insaccate e salate siano preparate e lavorate con grande pulizia”. Gli insaccati, salami e salcicce, venivano confezionati con molte spezie (pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano, zafferano, ecc) e Il divin porcello

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coloro che non potevano permettersele utilizzavano le erbe degli orti (aglio, salvia, prezzemolo, maggiorana, ecc.).


Migliacci, buristi e mortadelle “Del maiale non si butta via niente” recita un vecchio detto popolare, tantomeno il sangue che è il primo elemento che viene raccolto al momento dell’uccisione. Fin dal Medioevo, uno dei modi più comuni per utilizzarlo era per la confezione di torte, impastandolo con farina di miglio, da cui il nome di “migliaccio”, oppure per fare “cervelati”, specie di salcicce fatte di sangue mescolato a miele e aromi. Nel 1700 a Siena, durante la reggenza di Violante di Baviera, le guardie tedesche al suo seguito mangiavano una specie di salciccia che chiamavano “wurst”. I senesi assaggiandola, aggiunsero spezie e il sangue, in tedesco “blutte”. Dall’unione di queste due parole e dalla pronuncia storpiata, si arriva a “blutte-wurst” e quindi al buristo, il classico insaccato fatto con Il divin porcello

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25. Tacuinum Sanitatis, Vienna, Biblioteca nazionale, XV sec. 26. 27. 28. Theatrum Sanitatis, Roma, Biblioteca Casanatense, XIV sec.


friccioli, sangue, aromi, carni lessate di minor pregio e poi il tutto nuovamente rimesso a lessare. La “mortadella” viene chiamata così perché i romani preparavano un salame insaccato dentro le budella aggiungendoci bacche di mirto che chiamavano “Myrtata” e successivamente “Murtata”, da cui il termine mortadella o in toscano mortatella. Nel medioevo le mortadelle venivano chiamate anche “tomacelli”. La prima rappresentazione di un salame risale al 1166 a.C. ed è quella ritrovata a Tebe, nella tomba del faraone egiziano Ramsete III. Il divin porcello

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Ricette Una ricetta cinquecentesca del migliaccio “A fare uno migliasso rosso, piglia tre scodelle di sangue di porco colato, e tre uova, e libra una di formaggio grasso, et oncie tre d’uva passa monda, et oncie meza di cannella pista, et un quarto di pevere, et libra e mezza di zuccaro, et un picico de finocchi, overo aneti crudi , e incorpora bene ogni cosa insieme, senza il sangue, poi habbi una


tiella con grasso nel fondo, e fa una spoglia di fa-

taio distempera con l’ova tanto, che sia spesso. Poi

rina bianca , e butiro, e zuccaro, et acqua tiepida,

abbi rete di porco e, a modo di monticelli tondi,

e ponila nel fondo di detta tiella, e buttali sopra

li copri, e spartitamente li friggi nella padella col

della compositione, e distesa che l’haverai pone-

lardo; e cotti, cavali e poni in una pentola nova.

rai ogni cosa insieme a cuocere, e come havera

E prese spezie con zaffarano e pepe, distemperato

havuto una calda, segnalo di sopra a mandole,

con bono vino, gettalo sopra essi nella pentola, e

e gettali un poco di grasso di sopra disfatto, e lo

falli bullire competentemente e mangia”.

finerai di cuocere, e come è cotto, li ponerai zuccaro e cannella disopra”.

I fegatelli Nel XIV secolo compaiono in Italia i primi libri di cucina. Questa ricetta del 1300, tratta da un manuale che si trova presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, può essere considerata la prima ricetta degli attuali fegatelli, che tuttora, in molte zone d’Italia vengono cucinati tritando il fegato di maiale e aggiungendo uova e aromi, avvolgendoli poi nella “ratta” (la membrana pleurica). “Togli il fegato del porco, e lessalo: poi lo cava, e tritalo sulla taola col coltello fortemente e spesso; o vero tu il gratta colla grattusia al modo del cascio secco. Poi abbi maggiorana e altre erbe odorifere, bene peste col pepe, e detto fegato, e nel mor-

Libro della cucina del sec. XIV, a cura di F. Zambrini, Bologna, 1863, pp. 73-74.

La trippa Una ricetta assai semplice per l’utilizzazione di questa parte dell’animale è contenuta nel libro di cucina di Giovanni Rosselli, edita a Venezia nel 1518. 29. Monumento al maiale, bronzo, Castelnuovo Rangone (Mo) Il divin porcello

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“Per fare la menestra di tripe. Le tripe vogliono essere in prima bene nette, et ben lavate bianche, et ben cocte con un osso de carne salata, per darlo bono sapore, et senza sale aciochè siano più bianche; et como sono cocte, tagliale in pezzi piccoli et mettevi uno poco de petrosillo (prezzemolo) menta et salvia et de sale e pepe datto uno boglio (fatto bollire) et dopo fa le menestre et metteve de sopra del casio (cacio) et dele specie (spezie) a chi

Lo strutto Lo strutto compare solo sporadicamente nella documentazione, ma era ben conosciuto come condimento e fondo di cottura. Una carta del secolo VIII lo chiama uncto, e nella documentazione basso-medievale si parla spesso di sugnasunzia, assungia, grassa, intriglum che, opportunamente fusa, spesso assieme a del lardo, veniva trasformata in strutto. Questo si conservava, come ci informa qualche secolo più tardi l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara, “in vasi, o

pare e vole”. Opera nova chiamata Epulario, p. XI.

pentole, ovvero olle, o vesiche, e, all’aria fredda fatto insodire, per li quotidiani bisogni della cu-

Il lardo

cina, in fresca et aerosa dispensa si ripone; con

Particolare importanza aveva il lardo, chiamato così fin dall’antica Roma in cui si bruciava nei lari di famiglia. Accuratamente salato e conservato, si usava anche come alimento a sé. In epoca longobarda, i maestri muratori ne ricevevano una quota fissa di 10 libbre (circa 5 kg) per il loro sostentamento al momento di iniziare i lavori. Il lardo compare poi, regolarmente, fra le scorte alimentari delle famiglie (come sappiamo dai testamenti) e negli inventari delle grandi aziende rurali. Quello di Migliarina presso Carpi (X sec.) registra la presenza nei magazzini di 50 grosse fette (baffas) di lardo, conservate con la cotica (cum secamen suo). Il divin porcello

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questo si frigge ogni cosa ; con questo si humetta, e si mantiene morbida, gustosa ogni vivanda, tanto arrosto, come stuffato”. L’economia del cittadino in villa, Venezia 1665, p. 187


30. Frères de Limbourg, Les Très Riches Heures du duc de Berry, Novembre, Chantilly, Musée Condé, 1412-1416 31. Grand kalendrier et compost des Bergiers avec leur Astrologie, Dicembre, Parigi, Biblioteca Nazionale, 1491 Il divin porcello

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Il maiale nel calendario Nei calendari figurati medievali, in cui per ogni mese viene rappresentata l’attività lavorativa più importante, è riservato un largo spazio all’allevamento e all’uccisione del maiale nei mesi di Novembre, Dicembre e Gennaio. Le immagini descrivono con una certa precisione le varie modalità per ucciderlo. Questa poteva essere preceduta dallo stordimento dell’animale, colpito alla testa con un martello o un’ascia, mentre per l’uccisione poteva essere vibrato un colpo dritto al cuore con un coltello o uno stiletto appuntito, o un taglio preciso alla gola, che recideva la vena giugulare. Nel primo caso, per individuare con precisione il punto da colpire, si ripiegava la zampa anteriore sinistra del porco che termina esattamente in corrispondenza del cuore, mentre la seconda tecnica si impiegava soprattutto quando si voleva raccogliere e conservare il sangue dell’animale. Nel calendario cinese ogni anno è dedicato ad un animale. Secondo la leggenda, Buddha prima di lasciare la terra, chiamò a sé tutti gli animali, ma solo dodici risposero al suo appello e a questi venne offerto a turno il governo di un anno, in Il divin porcello

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32. Ruota dei mesi, Novembre (part. del taglio in due mezzene del maiale), mosaico dalla chiesa di S. Maria delle Stuoie, Pavia, Musei Civici 33. Ideogramma cinese del maiale 34. Heures d’Adélaïde de Savoie, duchesse de Bourgogne, Novembre, Chantilly, Musée Condé, 1460 -1465

modo da trasmettere alle persone nate in quel periodo le tendenze psicologiche e il carattere dell’animale di appartenenza. Fra questi, per ultimo, si presentò il maiale. IO SONO IL MAIALE “Fra tutti i figli di Dio io ho il cuore più puro. Con innocenza e con fede, cammino nella luce dell’Amore. Donando liberamente me stesso sono più ricco e due volte benedetto. Legato a tutta l’umanità da spirito di fratellanza, la mia buona volontà è universale e non conosce tramonti ...”. I nati sotto questo segno sono galanti, ossequiosi, scrupolosi, degni di fiIl divin porcello

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ducia, sicuri di sÊ ma innocenti e senza difesa. Facili da prendere in giro gli piace vivere bene, hanno forte volontà e autorevolezza, sono coscienziosi e d’animo artistico. I partners ideali sono quelli nati sotto il segno del coniglio. Da evitare assolutamente quelli nati sotto il segno del serpente e della capra.

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35. Hieronymus Bosch, Le tentazioni di S. Antonio, Madrid, Museo del Prado 36. Puccio di Simone, S. Antonio Abate e devoti, Fabriano, Monastero S. Antonio fuori le mura

S. Antonio Sant’Antonio Abate, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa, viene sempre raffigurato con un porcello accanto e numerosi animali intorno e questo fatto ha portato spesso a numerosi equivoci. Antonio era nato intorno al 250 d. C. a Coma, presso Eracleopoli, nel Medio Egitto, da una famiglia agiata, ma avendo perduto anzitempo i genitori dovette fare i mestieri più umili, fra cui il guardiano di porci. Verso il 270 d.C. , abbandonato il villaggio natale, si ritirò in un eremo nel deserto, dedicandosi alla preghiera e alla lettura delle Sacre Scritture. Sottoposto ad ogni genere di tentazioni da parte del Demonio che gli si presentava nelle vesti di maiale, seppe però resistere stoicamente e dopo lunghi anni attraversò il Nilo andando a vivere in un avamposto fortificato sulla riva sinistra del fiume, dove ben presto fu raggiunto da molti discepoli attratti dalla sua fama di combattente del demonio e guaritore di infermi. Verso il 312 egli ritornò da solo nel deserto, nelle vicinanze del Mar Rosso, dove morì ultracentenario nel 356. Sant’AtaIl divin porcello

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nasio prima e successivamente San Girolamo, ne tramandarono la vita e le gesta, chiamandolo ”il padre dei monaci”. La raffigurazione del maiale sottomesso ai suoi piedi, simboleggia quindi la vittoria sulle potenze demoniache, sulla sessualità sfrenata e sul peccato, rappresentati da questo animale. Le sue reliquie, ma sarebbe più corretto parlare di ceneri, vennero scoperte nel 561 sotto l’Imperatore Giustiniano, il quale le fece trasportare ad Alessandria nella Chiesa di San Giovanni Battista. Nel 635, durante l’invasione araba dell’Egitto, furono trasferite per precauzione a Costantinopoli dove rimasero fino al secolo XI, quando un crociato, di ritorno dalla Terra Santa le portò in Francia a Motte–Saint Didier. Infine, nel 1491 furono definitivamente traslate a Saint Julien presso Arles, in Provenza. In quel tempo, nella Francia meridionale, imperversava una gravissima epidemia di ergotismo causata dal consumo di segale cornuta inquinata da un fungo tossico. La malattia era nota fin dall’epoca romana. Plinio la chiamava fuoco sacro o Ignis sacer, cominciava con sintomi di intenso bruciore, come ustioni da fuoco, quindi comparivano sul corpo delle chiazze che evolvevano in cancrena. In onore del Santo, fu fondato un ospedale per la cura delle persone affette da questa malattia che fu chiamata appunto “fuoco di Sant’Antonio”. Scomparso l’ergotismo, con questo termine si continuò a chiamare l’herpes zoster, un’affezione di origine virale con eruzioni cutanee simili a quelle della varicella, le quali, localizzandosi lungo il nervo colpito provocano un intenso dolore. Il fuoco di S. Antonio veniva curato con il lardo di maiale applicato sulla pelle nel tentativo di lenire il bruciore e da quel periodo l’Ordine Ospedaliero degli Antoniani ebbe, anche in Italia, particolari privilegi nell’allevamento di questi animali. Nelle stalle dei nostri contadini non mancava mai un ritratto di questo Santo e fino agli anni ‘50 del secolo scorso, le bestie che morivano improvvisamente venivano vendute a prezzo ridotto e chiamate, appunto, Santantoni. Il divin porcello

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Araldica e toponomastica

Fin dall’antichità il cinghiale è sempre stato fra le prede più ambite, non solo per la sua carne prelibata ma anche per il suo significato simbolico. L’uomo ha cercato di identificarsi e di carpire le sue doti di forza, coraggio e combattività utilizzandone le ossa e le zanne per farne monili e rappresentandolo in vari modi. La sua testa mangiata, dipinta o appesa come trofeo rafforzava l’immagine di potere e di forza che le classi nobiliari volevano trasmettere, per cui molti lo adottarono come stemma familiare. Nella parete centrale della tomba dei Giglioli, a Tarquinia, sono rappresentate le armi del defunto e tra queste si vede lo scudo in cui spicca una testa di cinghiale. La famiglia più famosa, nel cui stemma figura un maiale, è quella padovana degli Scrovegni. Salimbene Capacci, che fu Podestà di Buonconvento nel 1467, aveva come stemma di famiglia una testa di maiale, che da quell’epoca, fu chiamata “la capaccia”. Il divin porcello

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37. Stemmi dei Comunelli di Scrofiano e Troiola 38. Arme di Salimbene Capacci, Buonconvento, Palazzo Podestarile 39. Tomba dei Giglioli (part.), Tarquinia, Necropoli di Monterozzi


Toponimi con riferimento al maiale se ne trovano tantissimi in tutta Italia, basti pensare a Norcia, in Umbria, a Porcari in provincia di Lucca, alla Lucania (da luganega). Nel senese spiccano l’antico comunello di Troiola (Monteroni d’Arbia), di Scrofiano nel comune di Sinalunga e quello di Luriano.

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Maiali e banche Nel 1574 il Monte dei Paschi di Siena concede a Messer Scipione di Messer Crescentio Turamini gentiluomo senese, un prestito quadriennale di quaranta scudi per acquistare ottanta troie da allevare nella bandita di Monticiano. E’ la prima testimonianza del finanziamento di una banca nel campo del credito agrario.

40. Atto di concessione di un prestito di 40 scudi per l’allevamento di Ottanta troie nella bandita di Monticiano Siena, Archivio Banca Monte dei Paschi, Sala esposizione 41. La caccia di Meleagro al cinghiale Calidonio (part. vaso FranÇois), Firenze, Museo Archeologico Il divin porcello

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E’ più troia della scandella

Hanno detto… “Se ‘l Petrarca amò si forte il lauro fu perché gli è bon tra la salciccia e il tordo.

La troia secca sogna la ghianda

Cavare la sete col prosciutto

Leonardo da Vinci

“Il porco puossi rassomigliare a’ virtuosi, quali vivi sono maltrattati, ma morti desiderati, honorati, e felice chi ha i suoi scritti e libri” Vincenzo Tanara (1665)

“Mi piacciono i maiali, perché i cani ci rispettano troppo, i gatti per niente” Winston Churchill

Citazioni La Salsiccia è un cibo degli dei. Giuseppe Giusti

Sparse le carni di sale e gli spiedi appoggiò sugli alari Giovanni Pascoli

Il maiale non è fatto solo di prosciutti Detto emiliano

Proverbi e modi di dire Chi ammazza un vitello mangia una settimana, chi ammazza il maiale mangia tutto l’anno. Porco di un mese, oca di tre, mangiare da re. Il divin porcello

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Curiosità Nell’antica Grecia, alcuni tipi di vasi, utilizzati per mescere liquidi, si chiamavano “a bocca di porco”. Il lardo veniva chiamato così perché veniva bruciato nei lari domestici oltre che per cucinare. La prima ricetta del maiale giunta fino a noi è cinese e tratta di un maialino da latte farcito di datteri e cotto fra pietre roventi e risale all’epoca della dinastia Zhou (XII - XIII sec. a. C.).

messi. Numerosi ritrovamenti di statuette votive raffigurano offerenti mentre portano in braccio un maialino da sacrificare alla divinità. Ma il sacrificio di un maiale, oltre che per ingraziarsi la dea delle messi, svolgeva anche un auspicio particolare per scongiurare la follia, che i romani temevano moltissimo e consideravano come una pena terribile che gli dei riservavano ai peccatori. Nelle strade dell’antica Roma si vendevano delle specie di salsicce calde arrostite dette Tomacula, mentre una varietà più lunga e più secca si consumava

La prima descrizione letteraria dell’uccisione del

nelle mense e veniva chiamata Longaones. Anche i

maiale e del banchetto che segue si trova invece

prosciutti ce n’erano di diverse qualità: il Petaso era

nell’Odissea e riguarda il porcaro Eumeo.

il prosciutto più dolce, di minor stagionatura e du-

“Poi accoppò il porco con un pezzo di quercia che non

rata, mentre il Perna era più salato e affumicato e di

aveva spaccato: la vita l’abbandonò.

lunga conservazione. Enea sacrificò a Giunone una

Lo scannarono, lo scottarono, gli altri lo squartarono

scrofa che allattava per ringraziarla di avergli fatto

subito; offriva i bocconi il porcaio, primizia di tutte le

raggiungere le coste laziali.

membra, su grasso abbondante, e li buttava sul fuoco,

Cristoforo Colombo, nel 1493, in occasione del suo

spargendo fior di farina. Il resto lo fecero a pezzi, li

secondo viaggio nelle Americhe, portò con sé otto

infilzarono su spiedi, li arrostirono con cura: poi tutto

maialini.

ritrassero e gettavano i pezzi in mucchio sui deschi.”

Il patriarca Bessarione, venuto a Firenze nel 1430 in

Odissea, Libro XIV, vv. 425-428

occasione del Concilio Eucumenico, assaggiando un

Un’intera armata musulmana, al centro dell’Anatolia, venne dispersa da carcasse di porci gettate con le catapulte dai nemici bizantini. Nell’antica Roma, durante gli “ambartali” (festività solenni che si svolgevano alla fine di maggio), i sa-

piatto di maiale arrosto, pare avesse esclamato “Aristos”, che in greco vuol dire migliore, speciale. Ma il Sacchetti, il noto umanista, in una delle sue novelle, aveva parlato di un tipo di carne di maiale arrosto chiamata “arista”.

cerdoti sacrificavano un maiale a Cerere, dea delle Il divin porcello

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Trilussa e i maiali

LA CARRIERA DEL PORCO Una vorta un Maiale d’ingegno, che veniva da un sito lontano,

ER PORCO Un vecchio Porco disse a certe Vacche: la vojo fa’ finita de fa’ sta porca vita. Me vojo mette er fracche, le scarpe co’ lo scrocchio, un fiore, un vetro all’occhio, e annammene in città, indove c’è la gente più pulita che bazzica la bona società. In un detto e un fatto, e quela sera istessa agnede a pijà er tè da nà contessa: s’intrufolò frammezzo a le signore, disse qualche parola de francese suonò, cantò, ballò, fece l’amore. Ma doppo du’ o tre giorni er vecchio Porco ritornò al paese. Che? - fecero le Vacche - già ritorni? Dunque la società poco te piace … No - disse er Porco - so’ minchionerie! Io ce starebbe bene: me dispiace che ce se fanno troppe porcherie…

chiese aiuto a un Somaro italiano de trovaje un impiego in città. Er Somaro je disse: - M’impegno volentieri de datte ‘na mano se me dichi per filo e per segno qual è l’arte che mejo sai fa’. Vendi er vino? - Nun posso soffrillo, me fa male soltanto a odorallo. - Sei droghiere? - Nemmanco a pensallo! So’ nervoso e nun pijo caffè. Sei tenore? - Pe’ gnente! Se strillo me viè fòra la voce der gallo... - Se è così torna a casa tranquillo ché ‘sti posti nun fanno pe’ te. - Io, però, - disse allora er Maiale faccio er porco, e de più ciò pe’ moje la più bella fra tutte le troje, co’ cert’occhi che fanno incantà. L’ho sposata, ma è un nodo legale ch’ogni tanto se lega e se scioje... - S’è così - disse er Ciuccio nostrale resta qui ché l’affare se fa. Carlo Alberto Salustri, “Trilussa”, 1871-1950

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Il maiale nel cinema

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Botta Anton Francesco Grazzini detto il lasca, ai primi del ‘500 decanta il maiale:

“O porco mio gentil, porco dabbene, fra tutti gli animal superlativo, soggetto caro a desinari e cene. Tu contenti saziando ogni uom vivo colle tue membra valorose e belle, tu non ha’ in te niente di cattivo. Dal capo a’ piedi, il sangue, insin la pelle ci doni in cibo, in quanti modi sanno teglie, stidioni, pentole e padelle”.

e... risposta Anton Germano Rossi, nelle sue “Contronovelle” così fa rispondere il maiale:

“Strano animale l’uomo! Mi glorifica cucinandomi in duecento e più maniere. E mi usa come termine vigliaccamente offensivo nelle sue imprecazioni” 42. Pieter Bruegel, Proverbi fiamminghi (part.), Berlino, Staaliche Museum, 1559 Il divin porcello

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tamente connessa con il maiale ed i suoi prodotti. Giosuè Carducci scriveva componimenti poetici sul maiale e quando faceva visita al suo amico Grosoli, salumiere di Modena, questi lo accoglieva mettendo un branco di maialini vivi in vetrina. Emile Zola ammoniva: “Se volete allegria, mangiate in modenese” ricordando che lo zampone dà gioia all’animo triste, mentre Gabriele D’Annunzio si dichiarava “cupidissimo amatore del culatello” .

Gioacchino Rossini,

Golosi celebri “Il maiale è come la musica di Verdi; è tutta buona!” In questa versione emiliana del più popolare “del maiale non si butta via niente”, c’è tutto il rapporto tra questo animale e la nostra cultura, e se a Parma si intendono senz’altro di buona musica e salumi, è tutta l’Italia ad avere la propria storia e non solo quella alimentare, stretIl divin porcello

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famoso per le sue musiche, ma anche per i suoi raffinati gusti gastronomici, era un vero e proprio patito del prosciutto che inseriva in tutte le sue ricette e Paganini attribuiva a questo salume una rapida ripresa da un grave deperimento fisico. Giuseppe Verdi lo gustava invece nel salotto della contessa Maffei, sua grande amica, come si apprende dalle lettere di altri illustri ospiti di quei raffinati incontri.


Pregiudizi ... Già i grandi medici dell’antichità, da Galeno a Cornelio Celso, Caio Plinio, Dioscoride, ecc. riconoscevano l’importanza della carne suina. Ippocrate, il padre della medicina, sosteneva che “la carne di maiale è tra le carni quella che fornisce al corpo umano più forza ed è ottimamente digeribile”. Plinio il Vecchio ricorda che “da nessun altro animale si trae maggior materia per il gusto del palato: le carni del maiale offrono quasi cinquanta differenti sapori, mentre ogni altro animale ha un sapore unico”. Nei decenni scorsi, nutrizionisti e dietologi imputarono alla carne di maiale d’essere un prodotto pesante, grasso, dannoso per la salute, troppo salato, alleato del colesterolo, una bomba per la linea, etc. Era vero. Da allora però il maiale è cambiato: rigorose selezioni delle razze e nuovi sistemi di allevamento lo hanno messo a dieta, trasformandolo da animale onnivoro in vegetariano, riducendo così il suo contenuto di grasso (perlopiù insaturo), dal 45 al 20%. Il divin porcello

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La sua carne è stata così rivalutata dai medici, poiché il suo contenuto di colesterolo non è superiore ad altre, e la richiesta del mercato, a causa anche dei problemi che di recente hanno colpito i bovini, è tornata a livelli massimi. Se in passato l’allevamento dei suini era finalizzato soprattutto verso la produzione di prosciutti e carne, ai giorni nostri gli allevatori hanno scelto di affiancare alle tradizionali razze da ingrasso, quella dei “magroni”, suini a sviluppo precoce che forniscono carni tenere, gustose e poco grasse.

... e verità Digeribilità

43. Andrea Vesalio, Maiale sul tavolo anatomico, tavola dal De Humani Corporis Fabrica, 1542 44. G. Botter, Presciutto e fichi, olio su compensato

Tempo necessario in ore per assimilare: 100 grammi di prosciutto h. 1,40 100 grammi di vitello h. 2,50 100 grammi di manzo h. 3,00 100 grammi di agnello h. 3,00 100 grammi di maiale h. 3,15 100 grammi di pollo h. 3,15 100 grammi di tacchino h. 3,30 Percentuali di colesterolo fra vari tipi di carni crude (Mg. / 100 g.) Agnello 70-75 Bovino 70-75 Maiale 60-70 Pollo con pelle 81 Gamberi 150 Il divin porcello

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La cinta senese Le sue origini sono antichissime; esisteva certamente molto prima delle razze bianche nord europee (Yorkshire, Landrace, ecc.) come testimoniano le numerose documentazioni scritte e raffigurazioni pittoriche, dal dipinto di Bartolo di Fredi esposto nella Pinacoteca Nazionale di Siena, all’affresco di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti del Buon governo in cittĂ e in campagna che si trova nel Palazzo Pubblico di Siena (1325). Questa razza non è il risultato di una mutazione naturale, ma molto probabilmente frutto di incroci avvenuti in epoca romana o altomedievale fra Il divin porcello

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45. Ambrogio Lorenzetti, L’effetto del Buon Governo in Città e in Campagna (part.), Siena, Palazzo Pubblico

soggetti bianchi asiatici e maiali neri europei di cui conserva il grifo lungo e appuntito, le lunghe orecchie e altre caratteristiche di “selvaticità”. E’ una razza molto rustica, resistente alle malattie, che si è adattata benissimo alle condizioni climatiche e morfologiche del territorio toscano. Qualche decennio fa ha rischiato l’estinzione, poi la Regione Toscana, attraverso l’A.R.S.I.A. (Agenzia Regionale per l’innovazione e lo sviluppo del settore agricolo e forestale), è intervenuta finanziando programmi finalizzati a mantenerne la purezza.

46. Maiali cinti senesi Il divin porcello

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La lavorazione del maiale all’usanza senese Ogni regione d’Italia, per condizioni climatiche e tradizioni culturali ricava dal maiale prodotti diversi. Il solo elemento unificante, in questo senso, è il prosciutto crudo. Nella tradizione contadina senese, da un maiale si ricavavano: due prosciutti, due spalle, quattro finocchiate, due capicolli, una o due mortadelle e altrettanti salamini, salcicce, due gotini e due rigatini, un piccolo pezzo di soppressata, alcuni buristi e la trippa, una bonzola di strutto. Il sangue veniva usato un po’ per il buristo e un paio di bicchieri per i migliacci. Con il fegato si facevano i fegatelli, il cuore veniva macinato nel salame, il polmone nella salciccia. I due reni venivano di solito mangiati in gratella il giorno in cui si “ravversava” il maiale. La percentuale di sale per le salcicce è di solito del 2%, per i salami del 2,5% .

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Il testamento del maiale 47. Nicolò Miretto, Stefano da Ferrara, Dicembre (part. un contadino in piedi che squarta il maiale), affresco, Palazzo della Ragione, Padova 48. Breviario di Ercole I d’Este (part.miniatura con la macellazione domestica del maiale), Modena, Biblioteca Estense Universitaria

Il maiale ha fornito lo spunto, nei vari tempi, a tutta una serie di “lodi” e di componimenti letterari. Uno di questi, fra i più singolari, è un “Testamento Porcelli” di autore ignoto che risale al IV sec. d.C. è tramandato per tutto il medioevo e recitato dai bambini come filastrocca. Questa versione è stata riportata da Vincenzo Tanara, agronomo bolognese, ne “L’economia del cittadino in villa” del 1665. Il divin porcello

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Avvedutosi certo venerabil porco, che dal protosguattero Zighittone doveva essere macellato, gli addimandò un’hora de tempo per poter disporre delle sue facoltà; Così comparve il notaro di Svigo, il quale rogò l’ultima volontà di quello. Prima lascio che il mio corpo sia da una caterva di golosi Con varia cuocitura nel lor ventre sepelito. Lascio a Priapo (dio della fecondità e degli orti) Il mio grugno, col quale possa cavare i tartufi dal suo horto. Lascio a’ librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con comodità piegare e pulire le carte. Lascio a’ dilettissimi hebrei, da’ quali mai ho havuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio. Lascio a’ pittori tutti i miei peli per far pennelli. Lascio a’ fanciulli la mia vessica da giocare. Lasio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano. Lascio a’ mandatori e mugnai per far recipienti da acconciar i grani. Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori, per far colla da stucco, e l’altra metà a quelli che

fabbricano il sapone. Lascio il mio sebo a’ candelottari per mescolarlo a metà col bovino e far ottime candele, con le quali li virtuosi possano della notte studiare. Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carratieri, e l’altra metà a’ garzolari per conciare la canapa. Lascio le mie ossa a’ giocatori, per far dai da giocare. Lascio a’rustici, miei nutritori, il fiele per poter senza spesa cavar le spine dal loro corpo, quando scalzi e nui nel lavorar la terra gli fossero entrati nella pelle, e per poter senza spesa, in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare. Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il guadagno che sono per fare con quell’arte è simile a quello che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda. Lasco agli hortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per piantar carote. In tutti gli altri miei lardi, presciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami mortadelle, salcizzotti, salcizze e altre mie preparationi, instituisco e voglio che sia il mio herede universale il carissimo economo villeggiante. Il divin porcello

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Quando s’ammazzava il maiale tratto da “Quando s’era contadini” di Gino Civitelli e Benito Pellegrini

49. Frontespizio (part.) de Gli Elogi del Porco Capitoli Berneschi, Tigrinto Bistonio, Modena, Soliani Stampatori Ducali, 1761 50. Un maiale ammazzato appeso alla scala, davanti al podere, fotografia, XX sec.

… Poco prima di natale, quando i lavori grossi erano terminati e la stagione era favorevole, si ammazzava il maiale, anche per avere qualcosa in più da mangiare durante le Feste. Ad ogni contadino ne spettava uno solo, anche se la famiglia era numerosa, e quel magroncino ner, con una striscia bianca sulla groppa come quello dipinto dal Lorenzetti nell’affresco del Buon Governo, veniva tirato su con l’imbratto, l’erba, qualche zucca, e negli ultimi mesi con la ghianda che rasIl divin porcello

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sodava la carne e rendeva più saporito il prosciutto. Due giorni prima di ammazzarlo, si smetteva di governarlo e si preparava tutta l’apparecchiatura con grande cura dei coltelli, del tritacarne, e in modo particolare della “scannatoia”, un arnese lungo e appuntito, spesso ricavato da una vecchia baionetta o da una lima. Il giorno fissato, di mattina presto, due persone entravano nel chiostro e una di loro con un manciatino di granturco faceva uscire dal castro il maiale che, affamato com’era lo seguiva docile e ignaro… ma appena aperta la bocca, una cordicella fatta passare per la mascella gli immobilizzava il grifo, mentre l’altra persona legava una zampa all’animale affinché non potesse scappare. Appena fuori dal castro, il maiale veniva fatto rotolare su delle tavole, il più delle volte si usava la paratia posteriore del carro e a quel punto, con la pancia rivolta in alto, quattro persone lo tenevano fermo per le zampe mentre levava alte strida e subito uno lo scannava affondando il coltello nella gola andando a cercare il cuore. Passavano alcuni minuti in cui il povero animale si dibatteva con minor vigoria, le strida si facevano sempre più fievoli, la massaia accorreva prontamente con un tegame per raccogliere il sangue che sarebbe poi servito per il buristo ed i migliacci. Il sangue veniva “lavorato”, cioè agitato in continuazione per sciogliere i grumi che si erano formati, poi veniva passato e messo in fiaschi, dopo essere stato salato un po’ perché non si accagliasse. A questo punto si cominciava a ripulire la pelle dalle setole, in alcuni casi bruciandole con scopette di ginestra, ma sempre più spesso versando acqua bollente sopra una balla stesa sul corpo dell’animale, facendo però attenzione a non “incuocere” i cosci, le parti più pregiate, poi si cominciavano a raschiare le setole con Il divin porcello

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51. 52. Theatrum Sanitatis, Roma, Biblioteca Casanatense, XIV sec.

coltelli poco affilati e infine veniva fatta “la barba” affinché non restassero tracce di setole nelle cotenne. Questo era un lavoro di precisione, raccomandato soprattutto dalle donne: non era affatto simpatico addentare un boccone di buristo o di soppressata e trovarci la ruvidezza delle setole sfuggite alla precedente operazione. Le unghie delle zampe venivano estratte immergendo lo zampuccio in un tegamino con acqua bollentissima, e spesso l’operazione andava ripetuta più di una volta. Issato il maiale a testa in giù su una scala appoggiata al muro, il maialaio, cioè colui che era addetto alla lavorazione dell’animale, dopo averlo macellato cominciava a squartarlo partendo dalla coda e giù giù fino al torace; le budella venivano raccolte sopra un graticcio ricoperto su cui era stato teso un telo, poi venivano estratti i polmoni, il cuore, il fegato e la ratta, che venivano osservati con cura per controllare che l’animale fosse perfettamente sano e subito veniva strappata la bile, affinché non rendesse amari i fegatelli. Quel sacchettino verdastro veniva lanciato in concimaia e subito accorrevano le galline, che dopo un primo momento di esitazione se lo contendevano per beccarlo. Ora le due parti, separate e lavate, mostravano la lucentezza delle costole, la lunga spina dorsale da cui veniva tolto il filo del midollo che, assieme al cervello sarebbe stato fritto il giorno stesso per i bambini. Naturalmente i primi commenti riguardavano il colore della carne e la quantità di grasso, elementi decisivi per la resa e la qualità dei “pezzi”, cioè dei prosciutti o delle spalle. A questo punto il maiale veniva trasportato in casa e appeso a due scalei nel granaio, dove si sarebbe lentamente raffreddato, mentre fuori il lavoro continuava con il lavaggio delle budella che sarebbero poi servite per il buristo Il divin porcello

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53. Andrea de Bartoli, La raschiatura delle setole, miniatura, Forlì, Biblioteca Comunale, ms. 853 54. Rappresentazione dell’uccisione del maiale “a baionetta”, bassorilievo del XII sec.,Verona, Chiesa di S. Zeno Il divin porcello

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e i salciccioli. Per questo secondo uso venivano poi conciate con la costola di una coltella, al fine di togliere ogni residua traccia di grasso, un’operazione molto delicata in cui bisognava stare attenti a non intaccare la sottile parete della budella stessa. Per fare mortadelle e salami si compravano invece quelle di bove, salate, scelte preferibilmente fra quelle più dritte chiamate in gergo “zucchette” e “giro”. Il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, le due metà ormai fredde, venivano staccate dagli scalei e portate sopra il grande tavolo di legno della cucina. Iniziava una giornata importante che avrebbe visto tutti all’opera, compreso i bambini a cui venivano demandati piccoli lavori, ma che si divertivano a toccare, curiosare e assaggiare. Il divin porcello

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La cucina, con il grande focolare acceso e i trespiti disposti a raggera, si riempiva ben presto di vapori e di odori che si imprimevano nella memoria e ti rimanevano addosso per diversi giorni. Il maialaio, spesso uno di famiglia, oppure preso da fuori, dirigeva le operazioni e dettava i tempi: tagliava per primi i cosci, li massaggiava e li spremeva vicino alla “noce” perché non rimanesse dentro l’arteria che sboccava in quel punto, alcuna traccia di sangue e finita l’operazione li portava subito nel granaio posandoli con delicatezza sopra due tavole asciutte. Poi toglieva le costole, staccandole così a filo dell’osso che rimanevano quasi “scrive”, cioè con ben poca carne da mangiare quando sarebbero state cucinate in gratella o in umido e anche questa parte veniva portata nel granaio e attaccata in modo da non essere “arrivata” dagli animali. A questo punto si tagliavano le due parti della testa da cui era stato tolto il cervello e si facevano i “gotini”, infine le spalle e i rigatini, che quando avevano tre strisce di magro venivano detti scherzosamente “marescialli”. Ora al centro del tavolo trionfavano le due lombate, due masselli di carne rosea e compatta che il maialaio misurava ad occhio appoggiandovi sopra la coltella prima di tagliare i due capocolli e le quattro finocchiate (secondo la tipica usanza senese) una delle quali sarebbe stata “marimessa” a Pasqua, magari con il contorno di qualche carciofo primaticcio. La carne veniva scelta con cura: quella migliore, assieme al cuore, sarebbe servita per il salame, l’altra un po’ più fibrosa , vicino all’osso, per i salciccioli. Anche il grasso veniva separato: il migliore veniva tagliato a cubetti per gli insaccati grossi, l’altro, escluse le grasce, tritato e cotto, avrebbe dato i “friccioli” per il buristo e l’“unto”, il condimento principale dei contadini, che Il divin porcello

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55. Raccolta del sangue del maiale, miniatura

veniva conservato nella “bonzola” e nelle belle zuppiere smaltate. La massaia ricordava al capoccio di scegliere le animelle dello “strigolo” e qualche pezzo di carne per la tegamata della domenica successiva a cui sarebbero stati invitati i parenti e qualche persona da ricompensare. In un pentolone, ai fornelli, venivano lessate le cotenne, gli ossi e la “capaccia” per fare il buristo e la soppressata; spesso, a seconda delle particolari usanze familiari, alcuni ossi particolari venivano scelti per fare il brodo per i migliacci, il dolce classico della sporcellata. I due mucchi di carne, dopo essere stati tritati, venivano spianati sopra il tavolo: mentre in quello dei salciccioli si aggiungeva un po’ d’aglio schiacciato, sopra a quello del salame si mettevano i grasselli salati a parte e il pepe in chicchi. Le percentuali del sale e del pepe variavano da famiglia a famiglia e costituivano un momento di riflessione fra il maialaio e il capoccia: fare il maiale o, come si diceva “ravverzarlo”, era anche un momento in cui tutti i ruoli si confrontavano, pur rimanendo una gerarchia stabilita dalla capacità e dall’esperienza acquisita nel tempo. Quello del pranzo era il momento del primo assaggio rituale: ai bambini veniva data un po’ di pasta dei salciccioli spalmata e “crogiata” sopra una fetta di pane; il capoccio mangiava una “panucciola” cotta sopra il trespite, dopo averla lavata con l’aceto e spellata con la paletta rovita, il norcino assaggiava le costole cotte anch’esse alla brace, le donne avolte preferivano qualche pezzo di carne lessa ancora calda. Tutto si svolgeva nel canto del fòco, con il piatto fra le gambe, mentre sopra il tavolo l’impasto degli insaccati cominciava a fermentare coperto da un telo bianco di bucato. Si beveva qualche bicchiere di acquarello, freddo e aspro, dopo si ricominciava e ben presto i salciccioli cominciavano a formare un cerchio sempre più grande sopra il tavolino. Mentre si bucavano con un aggeggio fatto di aghi infilzati su un turacciolo Il divin porcello

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o su un tappo da damigiane, gli si dava una contata a caso, tirando un po’ ad indovinare quanti fossero veramente e nel calendario dell’anno prima, che pendeva dalla parete un po’ unto e ingiallito, si andava a vedere se erano più o meno dell’anno precedente. Le mortadelle venivano insaccate facendo palle di carne grandi come un pugno perché l’aria non entrasse dentro e mano a mano lisciate, stropicciate e legate con cura con lo spago, lasciando un lungo occhiello per attaccarle. Ogni contadino, dopo alcuni giorni di “stufatura” vicino al canto del fòco, durante i quali i salumi diventavano belli rossi, aveva una stanza o un àndito ben ventilato dove la carne “tirava” bene, e in quel punto i correnti e i travetti erano fitti di chiodi a cui sarebbero stati appesi le finocchiate, i salami e i rigatini fino a quando, con il sopraggiungere del caldo, sarebbero stati portati al fresco in cantina. La cottura del buristo durava fino a tardi, fino a che nel paiolo rimanevano a cuocere solo il “fondo budello” e la “trippa”; quest’ultima, lucida e scura, pareva la groppa di una balena e quando veniva bucata con un ferro da calza, ne usciva uno zampillo d’acqua e di sangue, ma se fosse crepata si sarebbe tirato qualche “moccolo”perché il danno non sarebbe stato facilmente rimediabile. Nella grande cucina, dove era cambiata la temperatura e i profumi si erano confusi e alternati, il grande tavolo ormai sgombro, aveva riacquistato la sua centralità e sembrava ancora più grande. Pulito con la “paletta”, la scapola del maiale e una manciata di crusca per togliere il grasso, in controluce luccicava e si vedevano i tagli nuovi che andavano ad intrecciarsi con quelli vecchi; si sentivano al tatto, come la pelle delle mani dei contadini che era sempre ruvida, salvo quando si faceva il maiale… 56. Uccisione del maiale, miniatura 57. Tacuinum Sanitatis, Vienna, Biblioteca Nazionale, XV sec. Il divin porcello

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