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G. COLOMBO E C. FIORETTO

FIAT 1100


ISBN 978-88-6905-040-4 Fiat 1100 © 2015 Gisella Colombo e Carmelita Fioretto Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM settembre 2015


Fiat 1100


Prologo

Un barman, un bravo barman, certe cose le percepisce subito, con un istinto che ha affinato con il tempo, con l'esperienza, perchĂŠ in un bar di persone ne passano tante, come uccelli migratori in un cielo d'autunno. CosĂŹ che, dopo anni dietro il bancone, gli basta poco, anche solo un gesto, uno sguardo, una battuta o persino un silenzio, per inquadrare una persona o intuire una situazione. A ogni modo, la coppia che in una luminosa domenica milanese dei primi anni '60 entra al Camparino, proprio all'inizio della Galleria in Piazza Duomo, con la sua atmosfera calda, elegante e i bei mosaici liberty alle pareti, dove pappagalli variopinti si aggrappano a ghirlande di foglie e fiori, con i grandi specchi che hanno riflesso nel tempo centinaia di volti, quella coppia probabilmente non attirerebbe l'attenzione del barman se il locale fosse affollato, come al solito. Invece, stranamente, ci sono pochi avventori. Lui, nota il barman mentre serve loro il rabarbaro che hanno ordinato, lasciando scivolare in ogni bicchiere una scorzetta d'arancia, ha l'aria impaziente di chi ha fretta di essere giĂ altrove. Lei ha un'espressione vagamente scontenta e lo sguardo assorto, lontano. 7


Quando lui le sussurra qualcosa, lei sorride svagata e si scosta leggermente, come se – quasi – le desse fastidio averlo troppo vicino. Chiude un attimo gli occhi, si mordicchia un poco le labbra e il tutto tradisce un'insofferenza, un'irritazione, sotto la maschera di una calma apparente. Il fidanzato, però, non sembra rendersene conto minimamente e vuota con rapide sorsate il bicchiere. Un battere di tasti sul registratore, lo scatto della molla che apre il cassettino, le monete che risuonano: e lui è già alla cassa a pagare. È allora che lo sguardo del barman incontra quello della ragazza e qualcosa, in quegli occhi, lo turba. Il barman non può saperlo, del resto nemmeno lei ne è del tutto consapevole, ma in quel momento la ragazza è in bilico tra due vite completamente diverse. A ogni angolo c'è un bivio: ogni minima scelta, ogni mossa, anche all'apparenza irrilevante, ne determina tante altre; talora anche la semplice coloritura emotiva di un gesto, o magari la frase buttata lì per caso, ha una risonanza su quelle successive. Un'azione insignificante può innescare una catena di eventi inanellati uno all'altro. E lei ha pochi secondi per decidere. La tensione le cresce dentro. Avverte la straordinaria sensazione di essere come divisa in due, quasi sdoppiata. «Desidera altro, signorina?» domanda il barman, 8


ma soltanto per spezzare l'imbarazzo che gli provocano quegli occhi che lo fissano senza nemmeno vederlo. Lei non risponde e lentamente si gira a guardare l'uomo davanti alla cassa.

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«Desidera altro, signorina?» A distanza di tempo, Anna avrebbe riflettuto sul senso riposto di quella frase, avrebbe passato in rassegna le possibili repliche a quella domanda apparentemente così neutra, così casuale. Avrebbe rivissuto, analizzato decine di volte quel momento. Il momento in cui all'improvviso la crepa che da mesi aveva incrinato la sua vita era diventata una voragine, un baratro che l'aveva separata da un presente e da un futuro già programmati e diventati insopportabili, intollerabili. Il momento in cui la ribellione le era esplosa dentro con violenza incontenibile. Poi avrebbe ricordato di essersi detta, come in un lampo: ora o mai più, ma non ne era sicura. Probabilmente non aveva pensato niente e aveva agito seguendo soltanto l'istinto, in modo del tutto irrazionale. Almeno, in quel primo momento. Eppure sembrava una domenica come tante altre. La città avvolta nella luminosità dorata di un primo, timido accenno di primavera e i rumori ovattati, rallentati, l'aria come rarefatta, sonnolenta. E come ogni domenica, alle undici in punto, c'erano stati i tre squilli al citofono. 10


«Sbrigati! Non farlo aspettare!» le aveva fatto fretta sua madre, con una certa ansia, una certa apprensione, come se da quello fossero dipesi la vita e il futuro. Lei aveva nascosto il fastidio e l'irritazione dietro un sorriso svagato. Con gesti lenti aveva infilato i guanti nella borsa, davanti allo specchio in anticamera si era sistemata meglio lo chignon, aveva sorriso a suo padre che, ancora in pigiama, con la tazzina da caffè in mano, la sigaretta tra le labbra, si era sporto a salutarla dalla cucina. Intanto, sua madre fremeva e già apriva la porta. Lungo le scale, Anna si era fermata qualche istante, per raccogliere la pazienza, la sopportazione, e stamparsi sul volto un sorriso che potesse sembrare luminoso e sincero. Intorno a lei, nel casermone, regnava un'insolita quiete, che già odorava di soffritto e ragù. Aveva tirato un respiro profondo, prima di scendere veloce l'ultima rampa di scale, attraversare l'androne e uscire nella luce della strada. Guido fumava, andando su e giù per il marciapiede. Una domenica come tante altre. Una passeggiata al Castello Sforzesco e da lì sino in Duomo. Tra di loro frasi insipide, lunghi silenzi e rapidi scambi di sguardi e sorrisi. Non camminavano a braccetto, tuttavia di tanto in tanto lui le afferrava il gomito in un gesto che da un po' di tempo non le sembrava più di protezione, quanto piuttosto di fastidioso possesso. 11


In Piazza Duomo, era stato Guido a decidere che c'era il tempo di un aperitivo, prima di andare in pasticceria e poi a pranzo a casa dei suoi. Ad Anna piaceva pensare che se quella domenica fossero stati in ritardo, se avessero scelto un altro bar, un bar che non avesse avuto due uscite, come il Camparino, che da un lato dava sulla piazza e dall'altro in Galleria, non sarebbe successo nulla o almeno non quella domenica e non nella maniera in cui era successo. E le piaceva anche rivedersi come in un film. Anzi no, in tanti fotogrammi staccati, come in uno di quei fotoromanzi che all'epoca andavano tanto. Quindi, eccola lì al Camparino. In piedi davanti al bancone di legno scuro, con la mano che fa la spola, con gesto quasi automatico, dalla ciotola delle noccioline alla bocca. Lei vorrebbe fermarla, ma non ci riesce. Intanto, fissa come ipnotizzata la piazza inondata dal sole e dai piccioni, subito oltre l'ombra dei portici. Guido lancia un'occhiata all'orologio e poi va alla cassa a pagare. Lo sguardo di Anna si sposta dai portici alla piazza e dalla piazza a lui. Lo guarda ed è come se lo guardasse da immense distanze di spazio e di tempo. E sente che le sta succedendo qualcosa. La tensione cresce dentro di lei a velocità vertiginosa. Mille pensieri le si affollano in testa. Due ragazze entrano nel bar, domandando qualcosa alla cassiera. C'è uno scambio di battute, un 12


accenno di risate. Guido si intromette, indica qualcosa nella piazza, le volta le spalle. Ed è in quel momento che lei si precipita alla porta che dà sulla Galleria ed esce. Un attimo dopo avere, forse, pensato: ora o mai più. A passo veloce si dirige verso Piazza della Scala. A quel punto le immagini del ricordo si fanno nebulose, frammentate, confuse. Di nitido c'è solo il cuore che le martella in petto, il respiro che le si condensa e brucia in gola e uno strano ronzio nelle orecchie, nella testa. Persone che la sfiorano, che le si parano davanti, che lei schiva e che la schivano. Un percorso di pochi minuti che sembra durare un'eternità. Solo all'uscita dalla Galleria, come alla fine di un tunnel, la nebbia che le ingombra la mente si dirada e il ricordo ridiventa limpido, preciso. Lo scampanellio di un tram che arriva da Piazza Cordusio. Anna accelera il passo, corre. È alla fermata giusto in tempo per salire, proprio un istante prima che il tramviere richiuda le porte. Si aggrappa a una delle sbarre di ferro e soltanto allora si volta indietro. I suoi occhi incontrano quelli di Guido. Attoniti, smarriti. Lui le era corso dietro lungo la Galleria, l'aveva chiamata più volte, quasi gridando, ma Anna non aveva sentito, non aveva voluto sentire il proprio nome rimbalzare sui mosaici, sui vetri della volta, sui visi incuriositi dei passanti. 13


Guido l'aveva quasi raggiunta, già aveva allungato un braccio per afferrarla. Una frazione di secondo troppo tardi. Il tramviere aveva ormai chiuso le porte. Ora, mentre il tram imbocca via Manzoni e lui si fa sempre più lontano, Anna per un attimo pensa davvero di scendere alla fermata successiva e tornare indietro, ma sa già che non lo farà. Non può. È più forte di lei. Tutto il suo essere si ribella, sin nel profondo, a quel consiglio dettato dall'insicurezza e dalla paura. Non può tornare indietro, no. Almeno non ancora. Ora deve stare sola e raccogliere le forze e i pensieri, capire e decidere. Se solo non si sentisse così scombussolata, frastornata, smarrita... Si lascia cadere sul lungo sedile di legno. Chiude gli occhi. Ha voglia di piangere, in uno strano miscuglio di stanchezza e di rabbia. Stanchezza di che? Rabbia per che cosa? Ancora non lo sa con chiarezza. Quello che sa è che il suo destino le è sfuggito di mano e che in quella vita che ha scelto e subito, per praticità, desiderio di emulazione o saggezza, ormai si sente insofferente e infelice. Riapre gli occhi. Sul sedile di fronte a lei è seduta una donna con la fronte incredibilmente spaziosa, i capelli mal trattenuti dalle forcine, raccolti in una foggia strana, un vestito grigio a fiorellini lilla, gli occhi vuoti, acquosi, un lago di solitudine. Qualcosa in quella donna la turba ancora di più, 14


la fa sentire a disagio, le procura una fitta di pena. Soltanto anni dopo, capirà che quella donna le ricordava sua madre. Non fisicamente, no, ma nell'espressione molle, fiacca, nella piega amara della bocca. Anna scivola lateralmente lungo il sedile vuoto, per non averla proprio davanti, per smettere di guardarla. Non sa cosa farà adesso, cosa avverrà. Si chiede con che scusa Guido giustificherà ai suoi genitori la sua assenza dal pranzo domenicale, ma è sicura che fingerà che non sia successo nulla di grave, né a lei né tra loro. Ma, del resto, è davvero successo qualcosa di grave e di definitivo? O, forse, stasera ogni cosa si chiarirà, si ricomporrà, come un mare si ricompatta cancellando la scia della nave che l'ha ferito? Anna non ha ancora una risposta. Sa però che quella domenica non avrebbe sopportato l'atmosfera opprimente della casa dei suoi futuri suoceri, così perbenista, così formale, in cui nulla è davvero come appare. Come se, per loro, fingere che qualcosa non esista potesse bastare a non farla accadere. Una famiglia con l'orrore dell'imprevisto, dello scandalo e della trasgressione, in cui il buonsenso deve bastare per tenere ogni cosa sotto controllo, soprattutto le passioni e le emozioni. E sua suocera di certo sarà contenta che lei non sia andata; fingendosi rammaricata, tirerà un sospiro di sollievo e, nel togliere il piatto da tavola, scrollerà la testa, come al solito. 15


Non si sono mai piaciute loro due, e non per gelosia o rivalità, ma soltanto per istinto. Non si sono mai piaciute, attente, però, a non darlo a vedere e a fingere affetto, simpatia, complicità addirittura. Intanto, il tram corre per strade quasi deserte. La donna di prima è scesa già da tre fermate. Ormai la quiete, il torpore domenicale gravano sulla città come una cappa dorata. Il movimento, i rumori riprenderanno più tardi, finita la radiocronaca delle partite di calcio, ma soltanto per le vie e le piazze del centro, quando sarà l'ora dei cinema, della passeggiata e, sui sagrati delle chiese, della messa vespertina. Anna si sente protetta dentro lo sferragliare del tram. Al capolinea non è scesa, ma ha aspettato paziente la corsa di ritorno. Accavallando le gambe, lo sguardo le cade sulle sue scarpe nuove, belle, eleganti, verde oliva, dal pellame ancora liscio e senza grinze, il tacco a spillo, la punta stretta, la linea slanciata, sottile, esile come lei. Appena le aveva viste in vetrina, se n'era innamorata. Le aveva volute, quasi con frenesia, con voluttà. Ora, invece, le sembra strano averle desiderate così tanto. Non erano che scarpe. Una gioia effimera, vana. Nel tragitto verso il centro, Anna scende vicino ai giardini di Villa Palestro. Oltrepassa i cancelli, passeggia lentamente per i viali, tra le aiuole. Su una panchina, un gruppetto di soldati di leva, in libera uscita, ascolta la partita da una radiolina 16


a transistor gracchiante. Il suo passaggio li distrae, li anima. Le lanciano qualche fischio e qualche battuta, ma in un dialetto quasi gutturale, scoppiettante, che lei non capisce. Anna cammina, riflette, ricorda. Però i pensieri non sono lineari, anzi seguono sentieri tortuosi, con molte postille, rinvii e continui scarti temporali. Ha la sensazione di rovistare in un cassetto in cui si sono accumulate in disordine, alla rinfusa, troppe cose, gettate dentro così come viene. E mentre cerca, avverte nell'anima un dolore acuto, pungente, e un senso crescente di malessere e di disagio. Eppure va avanti a cercare decisa, perché capisce che non può più lasciar perdere, che deve abbandonare ogni forma di pigrizia, ogni timore: deve avere finalmente il coraggio di guardarsi dentro. Ovviamente, non si illude che basti una ricerca di poche ore. Sa benissimo che quello è solo l'inizio. L'inizio di cosa, ancora le sfugge.

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