Hra4 la sconosciuta

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MARY KUBICA

LA SCONOSCIUTA traduzione di Barbara Piccioli


ISBN 978-88-6905-048-0 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Pretty Baby Mira Books © 2015 Mary Kyrychenko Traduzione di Barbara Piccioli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM ottobre 2015


La sconosciuta


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HEIDI La prima volta che la vedo, è in piedi sulla banchina alla stazione metropolitana di Fullerton, e stringe fra le braccia un bambino molto piccolo. Pianta saldamente i piedi a terra quando l'espresso della linea viola passa ruggendo, diretto a Linden. È l'otto di aprile, la temperatura è sotto ai nove gradi e piove. La pioggia scroscia qui, là e dappertutto, il vento è furioso. Una giornata da dimenticare. La ragazza indossa un paio di jeans strappati all'altezza delle ginocchia. La giacca, di nylon leggero, è verde militare con il cappuccio. Niente ombrello. Affonda il mento nella giacca e guarda fisso davanti a sé mentre la pioggia la infradicia. Quelli che le passano accanto se ne stanno curvi sotto gli ombrelli, nessuno la invita a dividere il proprio. Il bambino, infilato nella giacca della madre come un cucciolo di canguro nel marsupio, tace. Ne vedo sbucare ciuffi di lana rosa e unta e io mi persuado che il lattante profondamente addormentato in mezzo a quella che a me sembra un'autentica bolgia – gelo fin nelle ossa, il suono rombante di un treno della rete L che passa sfrecciando – sia una femmina. La ragazza si tiene vicina una valigia antiquata di logora pelle marrone, e porta un paio di stivali con le stringhe, anche quelli completamente zuppi. Non può avere più di sedici anni.

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È magra. Denutrita, mi dico, ma forse la sua è solo magrezza. I vestiti le pendono addosso, i jeans le stanno larghi, la giacca è troppo grande. Un annuncio della Chicago Transit Authority segnala l'arrivo di un convoglio, ed ecco che un treno della linea marrone entra in stazione. Un gruppo di pendolari dell'ora di punta del mattino si affolla nell'interno caldo e asciutto, ma la ragazza non si muove. Esito un momento, perché avverto il bisogno di fare qualcosa, poi però salgo come gli altri-che-non-fanno-niente, e guardo fuori dal finestrino mentre le porte si chiudono e noi ci allontaniamo, lasciando la ragazza e la bambina sotto la pioggia. Ma lei resta con me tutto il giorno. Arrivo nel Loop, alla stazione metropolitana di Adams/Wabash, e lentamente esco, scendo le scale ed emergo nella strada inondata, nell'odore acre di fogna che aleggia agli angoli delle strade, dove i piccioni avanzano lenti in cerchi vacillanti, accanto a cassonetti dei rifiuti e senzatetto e milioni di residenti che sotto la pioggia corrono dal punto A al punto B. Quel giorno passo parecchio tempo – fra una riunione sull'alfabetizzazione della popolazione adulta, la preparazione al GED, il test di educazione generale, e le lezioni private a un uomo di Mumbai che studia l'inglese – a immaginare la ragazza e la bambina che sprecano buona parte della giornata sulla banchina, a guardare i treni L andare e venire. E invento storie. La bambina soffre di coliche e dorme solo in mezzo al movimento. Le vibrazioni dei treni in avvicinamento sono la chiave per farla dormire. L'ombrello della donna – lo immagino rosso fiammante, con vistose margherite gialle – le era stato strappato da una folata di vento e si era capovolto, come tendono a fare in giornate come questa, rompendosi. L'ombrello, la bambina, la valigia: più di quanto lei potesse trasportare con due braccia. E la valigia? Cosa c'era nella valigia di 8


più importante di un ombrello in una giornata del genere? Forse la ragazza è stata lì tutto il giorno, in attesa. Forse aspettava un arrivo, non una partenza. O forse è saltata sulla linea rossa pochi secondi dopo che la marrone è scomparsa alla vista. Quella sera, quando torno a casa, lei non c'è. Non ne parlo a Chris perché so già cosa mi direbbe: chi se ne importa?. Aiuto Zoe a fare i compiti di matematica sedute al tavolo in cucina. Non sono sorpresa quando lei dice di odiare la matematica. Di questi tempi Zoe odia quasi tutto. Ha dodici anni. Non ne sono sicura, ma credo di rammentare che il mio periodo di odio indiscriminato sia iniziato molto più tardi: verso i sedici, diciassette anni. Ma oggigiorno tutto comincia prima. Io andavo all'asilo per giocare, per imparare l'alfabeto; Zoe è andata all'asilo per imparare a leggere, a diventare tecnologicamente più esperta di me. Maschi e femmine entrano precocemente nella pubertà, in certi casi fino a due anni prima rispetto alla mia generazione. I decenni hanno il cellulare; alcune bambine sviluppano già il seno. Chris cena e poi come sempre scompare nel suo studio, a esaminare noiosi fogli di calcolo che inducono al coma; finirà solo dopo che Zoe e io saremo andate a dormire. Il giorno dopo lei è di nuovo lì. La ragazza. E di nuovo piove. Solo la seconda settimana di aprile, e già i meteorologi prevedono piogge da record per tutto il mese. L'aprile più piovoso che sia mai stato registrato, dicono. Ieri, la stazione dell'aeroporto O'Hare ha riportato un centimetro e mezzo di pioggia in una sola giornata. L'acqua ha cominciato a insinuarsi nelle cantine, a raccogliersi nelle strade più basse della città. Alcuni voli sono arrivati in ritardo o sono stati cancellati. Aprile piovoso fa il maggio grazioso, ricordo a me stessa, infagottata in un giaccone impermea9


bile color crema. Ai piedi ho un paio di stivali di gomma in previsione del tragitto fino al lavoro. Lei porta gli stessi jeans strappati, la stessa giacca verde militare, gli stessi stivali con le stringhe. La vecchia valigia riposa lì accanto. Vedo che trema nell'aria gelida e che la bambina è agitata, irrequieta. Lei la fa saltare su e giù, e sulle sue labbra leggo: Shh. Sento parlare dietro di me delle donne che bevono caffè bollente protette da enormi ombrelli da golf: «Non avrebbe dovuto portare fuori quel povero bambino. In una giornata come questa?» sbuffa una. «Cosa c'è che non va in quella ragazza? Dov'è il berretto del piccolo?» Passa rombando l'espresso della linea porpora; quello della linea marrone entra in stazione e si ferma e quelliche-non-fanno-niente sfilano all'interno come artefatti in movimento di una catena di montaggio. Ancora una volta indugio, con la voglia di fare qualcosa ma restia a sembrare offensiva o invadente. È molto sottile la linea fra l'essere utili e l'essere irrispettosi, ed è una linea che non voglio oltrepassare. Potrebbero essere milioni le ragioni per cui lei se ne sta lì con la sua valigia, tenendo la bambina sotto la pioggia, milioni di ragioni oltre a quella con cui si trastulla la mia mente: non ha una casa. Lavoro con persone spesso afflitte dall'indigenza, in gran parte immigrati. A Chicago, le statistiche sull'alfabetizzazione sono sconfortanti. Circa un terzo degli adulti ha un bassissimo livello di scolarizzazione, il che significa che non sono in grado di compilare i moduli per una richiesta di lavoro. Non sanno leggere le indicazioni stradali, né individuare la loro fermata lungo il percorso dei treni. Sono incapaci di aiutare i figli a fare i compiti. I volti della povertà sono lugubri: donne anziane raggomitolate a palla sulle panchine dei parchi, tutti i loro beni caricati su un carrello della spesa da cui non si separano 10


mai, mentre frugano tra la spazzatura in cerca di qualcosa da mangiare; uomini addossati alle facciate dei grattacieli in pieno gennaio, che dormono accanto a un cartello: Aiutatemi, per favore. Ho fame. Dio vi benedica. Le vittime della povertà occupano alloggi al di sotto di qualunque standard di vivibilità, in quartieri pericolosi; nel migliore dei casi si nutrono in modo inadeguato e spesso soffrono la fame. Hanno scarso o nessun accesso ai servizi sanitari, alle vaccinazioni; i loro figli frequentano scuole sottofinanziate, sviluppano turbe comportamentali, assistono a episodi di violenza. Per loro è maggiore il rischio, fra le altre cose, di avere rapporti sessuali in giovane età, ed ecco che di conseguenza il ciclo ricomincia. Adolescenti mettono al mondo bambini sottopeso; privati delle cure mediche, i piccoli non vengono vaccinati e si ammalano. Torna la fame. La povertà, a Chicago, è più elevata fra i neri e gli ispanici, ma questo non esclude che una ragazza bianca possa essere povera. Tutto questo mi passa per la testa nella frazione di secondo in cui mi chiedo cosa fare. Aiutare la ragazza. Salire sul treno. Aiutare la ragazza. Salire sul treno. Aiutare la ragazza. Poi però, sorpresa, la vedo salire a bordo. Lo fa pochi secondi prima dell'annuncio... bing, bong, bong... le porte stanno per chiudersi, e io la seguo mentre mi domando dov'è che stiamo andando, la ragazza, la bambina e io. La carrozza è affollata. Un uomo si alza e le offre gentilmente il suo posto; lei accetta senza una parola, si cala sulla panca di metallo vicino a un tipo con l'aria del maneggione e un lungo soprabito nero, che guarda la bambina come se fosse arrivata da Marte. I passeggeri si perdono nelle consuete attività del pendolarismo, si attaccano ai cellulari, ai laptop, ad altri gadget tecnologici, leggono romanzi, quotidiani, la relazione da presentare quel giorno. Sorseggiano caffè e contemplano lo skyline fuori del fi11


nestrino, smarriti in quella lugubre giornata. Con cautela, la ragazza estrae la bambina dal marsupio, svolge la copertina di lana rosa e sotto di essa, miracolosamente, la piccola appare asciutta. Il treno corre sobbalzando verso la stazione di Armitage, quasi si libra alle spalle di fabbricati in mattoni e tre o quattro edifici di appartamenti, così vicini che non posso fare a meno di immaginare come vibrino al passaggio dei treni, i bicchieri che tintinnano nelle credenze, i televisori momentaneamente tacitati ogni pochi minuti durante il giorno e fino a tarda notte. Lasciamo Lincoln Park e ci dirigiamo verso Old Town, e da qualche parte lungo il tragitto la bambina si calma, le grida che si spengono in un sommesso piagnucolio, con evidente sollievo degli altri passeggeri. Io sono in piedi, costretta a stare più lontana di quanto vorrei dalla ragazza. Pronta ad affrontare l'imprevedibilità dei movimenti del convoglio, sbircio la neonata al di là di corpi e ventiquattrore: perfetta carnagione color avorio, ora chiazzata di rosso per via del pianto, le guance incavate della madre, una tutina Onesies bianca, il disperato e avido succhiare di un ciuccio, gli occhi vuoti. Passando, una donna dice: «Che bella bambina». La ragazza si costringe a sorridere. Sorridere non le viene naturale. La immagino accanto a Zoe e mi rendo conto che lei è più vecchia: il senso di disperazione nel suo sguardo, tanto per cominciare, la mancanza della nuda vulnerabilità di Zoe. E naturalmente c'è la bambina (mi sono convinta che secondo Zoe è ancora la cicogna a portare i bambini), benché accanto all'uomo d'affari la ragazza appaia piccola come una ragazzina. Ha un taglio di capelli asimmetrico: corti su un lato, lunghi fino alle spalle sull'altro. Sono di un marrone scialbo, come quello delle vecchie foto che ingialliscono col tempo, e ci sono tracce di rosso, ma non è quello il suo colore naturale. La pioggia ha sbavato il trucco scuro, pesante, ora qua12


si invisibile dietro la lunga frangia. Rallentiamo entrando nel Loop. Guardo la bambina che viene nuovamente avvolta nella copertina rosa e infilata all'interno della giacca di nylon, e mi preparo a vederle scendere. Ma la ragazza mi precede scendendo a State/Van Buren, e io non posso fare altro che osservarla dal finestrino, sforzandomi di non perderla di vista nel traffico che a quest'ora invade la città . La perdo comunque, ed ecco che non c'è piÚ.

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