Hha2 la figlia dell'ambasciatore

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PAM JENOFF

LA FIGLIA DELL'AMBASCIATORE traduzione di Anna Martini


ISBN 978-88-6905-042-8 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Ambassador's Daughter Mira Books © 2013 Pam Jenoff Traduzione di Anna Martini Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione HM settembre 2015


La figlia dell'ambasciatore


Prologo

Mentre attraverso la stazione il sole tramonta dietro le rovine degli archi della Lehrter Bahnhof. La pungente brezza di tardo autunno fa volare via i piccioni dalle travi dov'erano appollaiati, e io mi stringo nel cappotto per proteggermi dal freddo. È martedì sera e non c'è quasi nessuno, sui binari non ci sono i treni dei pendolari e le banchine sono deserte. Su un binario lontanissimo alla mia destra, un vagone, silenzioso e scuro, aspetta. Il telegramma che annunciava l'arrivo di Stefan con il treno mi aveva colta di sorpresa. Da quando gli alleati avevano bombardato le nostre linee, di convogli in città non ne erano entrati praticamente più. O perlomeno questo è quanto scrivono i giornali. Le ferrovie defunte e il blocco navale britannico sono la scusa per tutto, dalla mancanza di tubature nuove per ridarci l'acqua corrente – un problema che ci ha costretto a tornare all'aria aperta come un secolo fa – all'impossibilità di procurarsi il latte fresco. Guardandomi intorno nella stazione desolata, in questo momento quasi quasi ci credo. Mi torna alla mente il viso di Stefan. È stato proprio su questo binario che ci siamo salutati, più di quattro anni fa, e lui portava al collo la ghirlanda di aster che avevo raccolto. «Non partire» avevo implorato per l'ultima volta. Stefan non era fatto per la guerra: aveva un viso paffuto e gentile, e leggendo nei suoi grandi occhi

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castani si capiva che non avrebbe mai potuto fare male a una mosca. Ma ormai era troppo tardi... due settimane prima si era presentato spontaneamente al centro di reclutamento, prima della coscrizione, ed era tornato a casa con i documenti in cui gli si ordinava di presentarsi a rapporto al suo distretto. Tutti dicevano che sarebbe stata una guerra veloce. I serbi a cavallo, armati di spade, non potevano competere con i carri armati e gli aeroplani del kaiser. Gli scontri sarebbero finiti nel giro di poche settimane, e non c'era ragazzo che non desiderasse la sua parte di gloria, finché era in tempo per conquistarla. Superato il chiosco che sta chiudendo, dal quale si sprigiona l'odore del succedaneo del caffè, mi giro a guardare l'ingresso della stazione, con le porte sbatacchiate dal vento. Ad accogliere Stefan dovrebbe esserci qualcuno di più importante di me. È un soldato ferito in battaglia, dopotutto. Inoltre è l'unico giovanotto della nostra enclave berlinese a essere tornato dalle trincee. Non so cosa mi aspettassi esattamente, certo non la banda e la stampa, però magari una piccola delegazione del comitato di guerra locale. Ma anche il fiero gruppo di veterani è stato sciolto. Nessuno ormai vuole essere identificato come soldato e affrontare le occhiate cariche di rimprovero e le domande sul perché non abbiano portato a termine la loro missione. Passano quindici minuti, ne passano venti. Stringo sempre più forte i guanti di pelle sottile che sono riuscita a trasformare in una palla umida. Combattendo contro il bisogno di mettermi a camminare su e giù, mi avvio in direzione dell'ufficio del capostazione per cercare di scoprire se ci sono notizie sui prossimi arrivi. Aggiro un'enorme valigia con le ruote che è stata abbandonata, capovolta, in mezzo al salone. Sento che la gonna mi si

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è impigliata in qualcosa e mi fermo, voltandomi per liberare l'orlo. Non si tratta di un chiodo che sporge da qualche tavola, ma della mano di un uomo seduto per terra; è sudicio, ha i capelli lunghi, e al posto della sua gamba destra c'è un fetido ammasso di bende. «Bitte...» gracchia la voce mentre io mi ritraggo con un balzo. «Scusate se vi ho spaventata.» È un soldato anche lui, o perlomeno lo è stato, benché l'uniforme sia talmente malconcia da risultare irriconoscibile. Pesco una moneta dalla borsetta, obbligandomi a non sfuggire a quella mano tesa. Dentro di me tuttavia sono sgomenta. Stefan assomiglierà a questa infelice creatura? Alzo la testa quando l'oscurità dietro la stazione è bucata dalla sirena di un treno. Un momento dopo il treno compare sui binari. Procede con tanta lentezza che più che azionato da un motore sembra spostarsi grazie a una leggera inclinazione della terra. Dal fumaiolo della locomotiva escono grandi nuvole di fumo che riempiono la stazione. Mentre mi avvio verso la banchina cercando di vedere nella nebbia sento che il cuore mi batte forte. Il treno si ferma con fragore. Le porte si aprono con dolorosa lentezza e alcuni uomini, in uniforme e in abiti civili, scendono. Cerco Stefan fra quelli che si avviano nella mia direzione, pur sapendo che lui non ci sarà. Quando la banchina è ormai quasi deserta vedo un'infermiera spingere una carrozzina. Faccio qualche passo ma mi fermo subito. L'uomo seduto non è Stefan, è un vecchio ripiegato su se stesso, di cui vedo soltanto le testa calva. L'infermiera non riesce a spingere la sedia a rotelle giù dal treno perché una ruota si è incastrata nella porta, quindi corro ad aiutarla. L'uomo seduto si raddrizza leggermente mentre mi avvicino, non è più rattrappito. È davvero Stefan, vedo, e mi mordo il labbro inferiore con tanta forza da sentire

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il sapore del sangue. L'enorme ferita che gli attraversa il lato destro del viso dalla tempia al mento e la mancanza di capelli lo rendono irriconoscibile. Però la cosa peggiore sono le braccia, scheletriche, scosse da un tremito. La mia mente corre nel tentativo di immaginare quali orrori possano aver fatto invecchiare così un uomo nel giro di pochi anni. Lui mi guarda con gli occhi vuoti e vitrei, e non parla. «Ciao, caro» riesco a dire io, chinandomi per sfiorargli con le labbra una guancia che sembra di carta. Stefan allunga una mano tremante. «Andiamo a casa» dice con voce gracchiante, e quando le sue dita si chiudono intorno al mio polso, fredde come la morte, mi sfugge un grido. Spalanco gli occhi e mi metto seduta al buio, e non riesco a smettere di gridare.

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Ro manzo

PARTE I Parigi, dicembre 1918


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Attraverso il Jardin des Tuileries pedalando con attenzione per evitare i punti scivolosi sul sentiero di ghiaia bagnata. Nella frizzante aria dicembrina si sente la neve, e i rami spogli degli ippocastani si incrociano sopra la mia testa come una processione di sciabole. Pedalo più velocemente davanti alle panchine del parco, godendomi il vento sulle guance, e apro la bocca per inghiottire l'aria fresca. Uno scoiattolo spaventato corre a nascondersi dietro il piedestallo di una statua di marmo. I capelli mi si sciolgono e formano alle mie spalle una vela che mi sospinge avanti sempre più velocemente, e per un momento è quasi possibile dimenticare che mi trovo a Parigi. La decisione di venire in Francia non era dipesa da me. «Mi è stato chiesto di prendere parte alla grande conferenza di pace» mi aveva informato inaspettatamente mio padre meno di un mese prima. In precedenza aveva manifestato un profondo disinteresse per il cosiddetto circo di Versailles, e leggendo i dettagli dei preparativi sul Times aveva borbottato spesso tra sé e sé. «Secondo lo zio Walter...» aveva aggiunto, come ormai gli accadeva di frequente. Non c'era bisogno che ascoltassi il seguito. Il fratello maggiore di mia madre, un industriale che aveva ereditato la fabbrica di componenti elettroniche fondata dal loro padre, dopo aver contribuito alla macchina bellica non poteva prendere

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parte di persona alla conferenza. Tuttavia riteneva estremamente importante far sentire in qualche modo la sua voce intorno a quel tavolo, presenziare, insomma, prima che i tedeschi venissero convocati ufficialmente. Quindi si era procurato un invito nel ruolo di consigliere per mio padre, un accademico che aveva trascorso gli anni della guerra all'Università di Oxford. Era importante arrivare a Parigi prima di Wilson, mi aveva spiegato papà. E così avevamo chiuso in fretta e furia la casa che affittava in città ed eravamo corsi a imbarcarci a Dover. Mentre arrivo in fondo al parco e rallento, rifletto sul fatto che neanche mio padre era stato felice di venire qui. La strada pullula di autovetture e autocarri, e i cavalli terrorizzati procedono a fatica con le loro carrozze in mezzo al traffico. Mentre a Calais salivamo sul treno diretto nella capitale, avevo sorpreso mio padre a tirarsi la barba tristemente. La sua desolazione non nasceva soltanto dal fatto di essere stato costretto a lasciare la ricerca e l'insegnamento che tanto amava per precipitarsi sotto gli occhi della ribalta politica internazionale. Il problema principale era che noi eravamo gli sconfitti, un popolo vinto, e nella capitale francese che tanto avevamo amato prima della guerra ora venivamo guardati come nemici. Era stato già abbastanza brutto in Inghilterra. Benché la sua posizione accademica ci avesse salvaguardato dall'internamento toccato a molti tedeschi, all'università restavamo pur sempre dei paria, guardati con sospetto. Io non potevo portare la medaglia di guerra come facevano le compiaciute ragazze inglesi con i fidanzati al fronte, perché il mio, di fidanzato, combatteva sul fronte sbagliato. Tuttavia, grazie al mio inglese impeccabile, fuori della cerchia universitaria

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più stretta mi era riuscito relativamente facile mescolarmi agli inglesi. Qui a Parigi, invece, sanno già chi siamo, oppure lo sapranno appena la conferenza avrà inizio ufficialmente. E allora le recriminazioni non tarderanno. La mia gonna volteggia mentre scendo dalla bicicletta, e provo un senso di gratitudine all'idea che le crinoline che rendevano così scomodo pedalare non esistano più. I palazzi di rue Cambon scintillano ricoperti di neve, con le facciate bucate dalle granate. Alzo gli occhi verso quelle file interminabili di appartamenti, stupita di quanto le case qui siano strette a ridosso una dell'altra, come non accade neppure nei quartieri più popolosi di Londra. Come fanno a vivere in così poco spazio, i francesi? A volte mi sembra di soffocare solo a guardarle, quelle case. Essendo cresciuta a Berlino sono abituata alle grandi città. Eppure qui è tutto più grande in maniera esponenziale: gli enormi boulevard, intasati dal traffico, le piazze che si susseguono, sempre più imponenti. Anche i marciapiedi sono affollati, con la gente in fila sotto il tendone del negozio di formaggi, o davanti a quello dello chocolatier, dove un cartello comunica che alle tre sarà disponibile una certa limitata quantità di pasticcini. Un aroma dolce e tiepido annuncia che stanno per essere sfornati. Un attimo dopo imbocco una stradina laterale e appoggio la bicicletta al muro coperto di sbiaditi manifesti che esortano i passanti ad acquistare le obbligazioni di guerra. Quando entro nella minuscola libreria il campanello sopra la porta tintinna. «Bonjour.» Il proprietario, Monsieur Batteau, è abituato alle mie visite e saluta con un cenno senza alzare la testa. Mi infilo in uno degli stretti corridoi e scruto famelica gli scaffali. Appena giunti a Parigi, alcune settimane

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fa, erano proprio i libri a mancarmi più di ogni cosa dell'Inghilterra: gli scaffali polverosi della biblioteca del Magdalen College, la vasta scelta sulle bancarelle del mercato di Portobello Road. Poi un giorno sono capitata davanti a questa libreria. Durante la guerra i libri erano diventati un lusso che pochi parigini si potevano permettere, e circolavano storie orribili di gente che li aveva bruciati per scaldarsi o ne aveva strappato le pagine per usarle come carta igienica. Molti invece li avevano portati in botteghe come questa per venderli al prezzo di pochi franchi con cui comprare un po' di pane. Il risultato è una libreria che scoppia di volumi ammucchiati in pile disordinate che arrivano fino al soffitto, e sembrano in procinto di crollare da un momento all'altro. Passo con affetto una mano sopra una copertina di marocchino screpolato. Sono strani titoli: vecchi libri di favole e saggi di politica e libri di poesie in una mezza dozzina di lingue, nonché una pletora di romanzi di guerra che nessuno sembra aver più il coraggio di leggere. Prendo in mano un volume di Goethe. Deve avere almeno cent'anni, ma a parte le pagine un po' ingiallite è in buone condizioni, con la costa praticamente intatta. Prima della guerra il suo valore sarebbe stato notevole. Qui è finito nel mucchio, irriconoscibile, un gioiello fra i rifiuti. «Pardon» dice Monsieur Batteau dopo pochi minuti appena, «se desiderate acquistare qualcosa...» Io alzo gli occhi dal diario di viaggio africano che stavo sfogliando. Sono qui da pochissimo e la luce non ha ancora cominciato a calare. «Oggi chiudo presto per via della parata» spiega il libraio. «Oh, sì, certo.» Come posso averlo dimenticato? Oggi

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arriva il presidente americano Woodrow Wilson. Mi alzo, do qualche moneta a Monsieur Batteau e infilo il libro di Goethe e un testo di botanica nella borsa. Fuori la strada è tutta diversa da prima: le code di persone davanti ai negozi sono sparite e al loro posto vedo soldati e uomini con i cappelli a cilindro e signore con i parasole, tutti avviati nella stessa direzione. Lascio la bicicletta e mi faccio trasportare dal flusso che percorre rue de Rivoli. L'ampio boulevard è stato chiuso al traffico automobilistico ed è gremito di pedoni. Il movimento della folla si arresta di colpo. Un attimo dopo avanziamo di nuovo, e raggiungiamo l'enorme ottagono di Place de la Concorde, i cui edifici grigi e imponenti risplendono nel sole del tardo pomeriggio. La piazza dove Maria Antonietta e Luigi XVI vennero ghigliottinati è invasa dalla folla, punteggiata dai cannoni conquistati ai tedeschi e portati qui dopo l'armistizio. Le statue agli angoli che simboleggiano ognuna una città della Francia sono state ornate da corone d'alloro. La gente preme alle mie spalle, i curiosi spuntano da ogni strada laterale nel tentativo di trovare posto nella piazza che ha già raggiunto la sua massima capacità. Sono circondata da un mare di uomini più alti di me. La lana umida dei loro cappotti preme contro il mio viso e mi impedisce di respirare. Gli spazi stretti non mi sono mai piaciuti. Sforzandomi di non cedere al panico cerco di raggiungere uno dei cannoni. Afferro i lembi della gonna e salgo sulla timonella, sentendo il freddo dell'acciaio sulle gambe attraverso le calze. «Scusate» dico al giovane stupito che è già issato sopra la bocca da fuoco. Da quel punto privilegiato vedo bandiere sventolare ovunque, stendardi ai balconi dell'Hôtel de Crillon con il suo bel colonnato, bandierine americane sventolate

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dai bambini. Wilson the Just!, dichiarano i cartelloni. La piazza è attraversata da un percorso delimitato con grandi quantità di stoffa azzurro cielo per tenere a bada la folla. Gli aeroplani rombano fragorosi sopra le nostre teste, e non li ho mai visti volare così bassi. A pochi passi sulla destra del cannone una donna con un mantello azzurro incontra il mio sguardo. Potrebbe avere una quarantina d'anni, direi, e si tiene eretta in mezzo a quella gente agitata. È alta, con un portamento perfetto, i capelli castani raccolti sulla sommità del capo. Ha qualcosa di familiare, benché non sappia dire di cosa si tratti. Bruscamente si volta e si allontana risalendo la corrente, sfuggendo all'adunata generale. Chi vorrebbe andarsene prima dell'arrivo di Wilson? Certo non ci sono luoghi più interessanti di questo, in questo momento preciso. Mi chiedo se per caso si sia sentita male, però i suoi movimenti sono calmi e fluidi mentre scompare in mezzo alla gente. Il baccano aumenta d'intensità fino a diventare un rombo. Rivolgo la mia attenzione alla piazza mentre avanza una fila di soldati a cavallo con gli elmetti vistosi della Garde Républicaine. I cavalli incedono a testa alta emettendo dalle froge grandi nuvole di vapore. La gente spinge e il corteo non è più dritto ma serpentino. Rabbrividisco quando sento dei colpi sparati da chissà dove. Certo è un suono che nessuno di noi avrebbe più voluto sentire. Dietro i cavalli compare una processione di carrozze scoperte. Sulla prima viaggia un uomo con un lungo cappotto e un cappello a cilindro; accanto a lui c'è una donna. È troppo lontano perché io possa vederlo, ma dalle acclamazioni capisco che deve trattarsi del presidente americano. Quando la carrozza si avvicina e davanti all'albergo si ferma, lo riconosco dalle fotografie

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che ho visto sui giornali. Mentre scende, il presidente saluta. Porta gli occhiali e il suo volto è solenne, come se vedesse per la prima volta quante sono le persone che affidano le loro speranze alle sue promesse. Un attimo dopo è scomparso dentro l'hotel. Lo spettacolo è già finito e i curiosi cominciano a defluire lungo le numerose arterie che si allontanano dalla piazza. Individuo la signora con il mantello azzurro a pochi metri da me, ancora intenta a risalire controcorrente. Impulsivamente salto giù dal cannone, e l'orlo della gonna si impiglia nell'affusto. Libero la stoffa e parto nel tentativo di raggiungere la donna infilandomi in ogni interstizio aperto, senza provare alcun senso di claustrofobia mentre inseguo quell'azzurro che brilla come un segnale luminoso. Raggiunta la strada, una cinquantina di metri più avanti individuo la signora, mentre sta entrando nel parco che un'ora prima ho attraversato in bicicletta. Non c'è niente di insolito in questo. Tuttavia continuo a pensare che nessuno avrebbe rinunciato all'arrivo di Wilson per fare una passeggiata, e la sua andatura è talmente decisa da far sospettare che sotto ci sia qualcosa di più interessante di quattro passi e una boccata d'aria. Accelero, ed entro nel parco anch'io. Un momento dopo lei abbandona il sentiero principale per entrare in un giardino più piccolo dove non sono mai stata. Mi fermo. Un alto cancello brunito delimita l'ingresso, sorvegliato ai lati da due leoni di pietra finemente scolpiti. Il sentiero che si apre davanti a me è oscurato dai sempreverdi. Torna sui tuoi passi, mi dice una vocina. Ma la donna con il mantello azzurro è sparita dietro una curva e non resisto alla tentazione di seguirla. Varco il cancello. Dopo pochi metri il sentiero termina davanti a un laghetto gelato e si divide seguendone

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le due sponde. Scruto le panchine vuote, ma non vedo traccia della donna. Da dietro una curva sento arrivare delle risate. Seguo il sentiero e dall'altra parte del laghetto, nascosta in un boschetto, scopro una vasta distesa di acqua ghiacciata. Un gruppo di signorine eleganti di circa vent'anni pattinano sul ghiaccio chiacchierando disinvolte a voce alta. Sulla sponda opposta, qualcosa si muove fra gli alberi. È la signora vestita d'azzurro. Si unirà alle pattinatrici? Ha il doppio dei loro anni, e sembrerebbe una strana presenza, ma del resto la conferenza di pace ha portato a Parigi strane persone di ogni genere, e le convenzioni e le distinzioni che potrebbero tenerle separate a casa qui perdono i loro contorni. La donna indugia nell'ombra, come la strega di una fiaba, osservando assorta le ragazze. Il suo è lo sguardo concentrato e protettivo di una donna di scienze che studia un soggetto della massima importanza. Quando le pattinatrici si dirigono verso l'argine, lei si ritrae e scompare. Prendo in considerazione l'idea di continuare a seguirla, ma il sole è ormai tramontato dietro gli alberi e il pomeriggio invernale si sta facendo buio. Venti minuti più tardi ho recuperato la mia bicicletta e raggiunto l'albergo. Papà ha scelto di alloggiare al minuscolo Hôtel Relais Saint-Honoré, una scelta accuratissima. L'alberghetto infatti si trova proprio di fronte al Ministero degli Esteri, sulla sponda opposta della Senna, permettendogli così di essere vicino alla conferenza e allo stesso tempo di mantenere un po' di privacy. L'ingresso del Saint-Honoré sembra più un salottino che il foyer di un hotel, con le sue poltrone di velluto rosso. «Mademoiselle» mi chiama l'impiegato alla reception

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mentre gli passo davanti. Mi giro malvolentieri. Lui mi tende una lettera tenendola con il pollice e l'indice, come se il francobollo tedesco potesse, chissà come, infettarlo. La prendo e sento un tuffo al cuore quando vedo la grafia tremolante. Mi riavvio verso l'ascensore. Quando le porte si aprono mi trovo inaspettatamente di fronte papà e due signori baffuti dalla carnagione scura. «E se si guarda ai confini prebellici...» Papà, che sta parlando in francese, vedendomi si interrompe. «Buonasera, cara. Signori, posso presentarvi mia figlia? Margot, questi sono i signori Di Vincenzo e Ricci della delegazione italiana.» «Piacere» dico. I due uomini fanno un cenno e mi guardano in modo strano. Dev'essere per via del mio vestito, sporco e strappato all'orlo dove la gonna si è impigliata nell'affusto del cannone, e per i capelli scarmigliati. Non è escluso che emani un cattivo odore, dopo la vigorosa pedalata attraverso il parco. Però mio padre non sembra farci caso e mi sorride con affetto e orgoglio. «Arrivo subito, mia cara.» Non si comporta così soltanto perché è un accademico distratto, ma perché mi ha sempre accettata fino in fondo per ciò che sono davvero, con tutte le mie asprezze e i miei difetti. Il mio aspetto non lo disturba, come non lo turba una certa tendenza a dimenticarmi l'orario dei pasti e i giorni della settimana. L'inserviente chiude i cancelli dell'ascensore e nello stomaco sento quella spiacevole sensazione che provo immancabilmente salendo al terzo piano. Apro la porta della nostra suite, che è composta da due camere da letto e un salotto. Vado in bagno ad aprire l'acqua nella grande vasca con i piedini a forma di zampa di leone e vi verso dei sali. Mentre la vasca si riempie mi sbarazzo degli indumenti sudici e della biancheria che mi si è

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incollata alla pelle. Forse le crinoline sono passate di moda, ma i corsetti, purtroppo, resistono. Chiudo l'acqua e mi immergo con una sensazione di gratitudine, lasciandomi avvolgere dal vapore. Ripenso alla lettera non ancora aperta e il viso di Stefan mi appare nella mente. È difficile ricordare quando la nostra storia è cominciata. Lui c'era sempre stato, nella mia vita: un ragazzo che abitava in una via poco lontana e che frequentava la mia stessa scuola, una classe più avanti, dall'altra parte del corridoio. Avevamo giocato spesso insieme, da bambini, e al funerale di mia madre mi era stato vicino, e dopo mi aveva presa per mano e aiutato a fuggire dalla casa affollata di gente. Quando avevo quindici anni, una mattina d'autunno stavo leggendo seduta sul gradino dell'ingresso della nostra casa berlinese quando lui era passato in bicicletta e aveva rallentato senza fermarsi. Poiché consegnava il Post alle famiglie che erano abbonate, la cosa non mi stupì. Tuttavia dopo circa mezz'ora ripassò. Allora alzai lo sguardo incuriosita. La sua casa si trovava in un quartiere più elegante del nostro, era due volte più grande della nostra, però entrava acqua dal tetto e i gradini dell'ingresso erano in cattivo stato. Ultimamente lo vedevo nella nostra via tre o quattro volte al giorno, benché il quotidiano avesse una sola edizione. «Aspetta» lo chiamai, e mi alzai. Lui si fermò di botto, impedendo al manubrio della bici di sterzare troppo. «Volevi qualcosa?» Stefan scese dalla bicicletta e la appoggiò al cordolo del marciapiede, poi venne verso di me. C'era qualcosa di diverso, in lui. Benché i capelli biondo-rossiccio e la pelle chiarissima fossero uguali a prima, aveva cominciato a radersi e la soffice peluria sul labbro superiore

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era diventata un accenno di baffi. Era molto cresciuto e oramai mi superava di una testa, e le sue braccia avevano una robustezza nuova. «Mi stavo chiedendo» disse, «se ti piacerebbe andare al cinema.» Colta di sorpresa distolsi lo sguardo. Mi ero aspettata un invito a giocare con i ragazzi a calcio la domenica nel parco, anche se secondo Tante Celia stavo diventando un po' troppo grande per quel genere di cose. Comunque il tono di Stefan era diverso, e quando riuscii a guardarlo vidi che il colletto della sua camicia era fradicio. Era evidentemente nervoso. «Sì» mi affrettai a rispondere nel tentativo di alleviare il suo disagio. «Ti passo a prendere questa sera alle sette.» Arretrò, quasi incespicò nella bici e scomparve pedalando. La serata non fu niente di speciale, una commedia americana seguita da un gelato all'Eiscafé. Ma dopo Stefan divenne via via sempre più presente; veniva a casa mia dopo la scuola, pranzava con noi nella villa di zio Walter a Grunewald. Un pomeriggio, mentre passeggiavamo lungo il lago dietro la villa, guardai le nostre mani, e vedendo le dita intrecciate capii che eravamo fidanzati. Non molto diverso da quando eravamo stati semplicemente amici. Stefan era poco invadente e mi lasciava tranquilla. Stare insieme a lui era come stare in compagnia di me stessa. Eravamo a pranzo dallo zio Walter la domenica in cui arrivò la notizia dello scoppio della guerra. Uno dei suoi segretari si precipitò nella sala da pranzo e gli sussurrò all'orecchio qualcosa che lo spinse ad accendere la radio sulla mensola del camino. Gli uomini annuirono con aria di approvazione quando sentimmo la dichiarazione di guerra della Germania. Il nostro alleato

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austriaco, l'Arciduca Francesco Ferdinando, era stato assassinato a Sarajevo, in pieno giorno; un rivoluzionario serbo aveva sparato su di lui e la moglie Sofia. Il nostro paese aveva dovuto prendere una posizione. Dieci minuti più tardi esco dalla vasca, e mentre mi asciugo e indosso un abito pulito sto ancora pensando a Stefan. Dopo la guerra sarei potuta tornare a Berlino, avrei potuto insistere perché papà mi permettesse di stargli vicina durante la convalescenza. Invece non l'avevo fatto. Il senso di colpa mi fa deglutire a fatica. La sua famiglia si occupa di lui con ogni attenzione. Tuttavia dalle sue lettere capisco che è me che vorrebbe più di chiunque, perché scrive sempre con grande entusiasmo del mio ritorno. Io gli mando dolcetti francesi e altre leccornie, però trovo molto difficile rispondere alle sue lettere. Che cosa mai posso dire a quest'uomo che mi sembra di non conoscere più? Rovisto nella mia trousse in cerca di una crema per le mani, perché qui a Parigi sono diventate secche e screpolate. Tante Celia dice che è perché continuo a togliermi i guanti. Non possiedo molti prodotti di bellezza: una cipria, un piccolo rossetto rosa chiaro per le occasioni speciali, un profumo che l'anno scorso Celia mi ha regalato per il mio compleanno e che per i miei gusti ha una fragranza troppo floreale. Quando riemergo, trovo papà che sfoglia alcune carte seduto allo scrittoio a ribalta nell'angolo del salotto trasformato in studio: accanto ha un bicchiere di Pernod. La nostra cena, due piatti coperti da due cupole di metallo e una grande fetta di pane avvolta in un tovagliolo, ci aspetta come piace a noi. «Papà» chiamo a bassa voce per riscuoterlo dal suo lavoro. Prendo il candelabro dalla mensola del camino

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mentre lui versa il vino. «Baruch atah Adonai...» «Celia è andata al ricevimento» dice senza aspettare che glielo chieda, quando abbiamo finito la preghiera di ringraziamento. Trattengo un sospiro di sollievo. Non sarei stata così poco caritatevole da non condividere la cena con una parente che non sapeva dove andare. Però trascorrere Shabbat insieme è una tradizione che mio padre e io osserviamo ovunque ci accada di trovarci nel mondo, e portiamo sempre con noi la coppa d'argento per il vino su cui recitiamo il Kiddush e la menorah, il candelabro a sette braccia, proprio come abbiamo fatto anche venendo a Parigi. Per quanto sia indaffarato lui trova sempre il tempo per fermarsi a cenare con me e conversare, noi due soltanto. Taglio in due la fetta di pane croccante e ancora caldo. Vivendo in albergo ci si dimentica facilmente delle difficoltà in cui versa ancora la popolazione. Porgendo un pezzetto di pane a papà mi accorgo che è molto pallido. È vestito impeccabilmente come sempre, e nei suoi capelli c'è una sfumatura argentea, ma vedo che sotto gli occhi ha delle brutte occhiaie scure. «Hai preso la medicina?» gli domando a bassa voce. Si lascia assorbire talmente dal lavoro da dimenticarsi di mangiare e prendere le pillole che secondo il medico sono essenziali, per il suo cuore. Non so più da quanto tempo sono io a ricordargli di prenderle. Prima che lui abbia il tempo di rispondere starnutisco una, due volte. «L'aria è troppo secca» mi affretto a spiegare, cercando il fazzoletto. Papà aggrotta la fronte preoccupato, e ora tocca a lui essere in pena per me. L'influenza spagnola, come quella che dieci anni fa si era portata via mia madre, da quest'autunno sta assumendo un andamento epidemico. Anch'io l'avevo presa, da piccola, ma era passata davanti alla porta della mia

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stanza come se fosse stata segnata con del sangue di agnello, come l'angelo della morte della Pasqua, e mi aveva risparmiata. Dopo giorni di febbre alta un mattino mi ero svegliata con una cicatrice a forma di mezzaluna sul collo, la reazione a una delle medicine, e nient'altro. A quanto pare questa nuova ondata influenzale è ancora più virulenta della precedente, e a Oxford aveva mietuto dodici vittime già prima della nostra partenza. La gente non faceva che parlare dei modi per prevenire il contagio: sciacquare le narici con acqua tiepida e bicarbonato di soda, portare dell'aglio appeso al collo, bere una dose di whisky prima di andare a letto. Qualcuno mormorava che erano stati i tedeschi a scatenarla, come arma batteriologica, e a volte pareva che stessero per accusare proprio noi due. «È più probabile che sia arrivata dall'altra parte dell'Atlantico» aveva detto una volta mio padre, «portata dai soldati.» A Londra la gente aveva smesso del tutto di uscire. Qui a Parigi invece le feste continuavano allegramente, come se virus e batteri fossero un'invenzione degli scrittori di fantascienza. Assaggio un cucchiaio del profumato coq au vin. «Sto bene, davvero. Raccontami la tua giornata.» Mentre ceniamo, papà mi descrive l'incontro con i rappresentanti della delegazione italiana che chiedono il suo appoggio per l'indipendenza della Macedonia. «E poi ci sono le colonie dell'Africa occidentale» dice, cambiando argomento con velocità mercuriale come suo solito. «I francesi lotteranno duramente sulla questione dell'indipendenza. Vorrebbero dei mandati, piuttosto.» «Quindi l'autodeterminazione non è per tutti.» «Liebchen, dobbiamo essere realisti. Non si può cambiare il mondo nel giro di pochi mesi.»

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Allora questa conferenza a che cosa serve?, mi chiedo io. «Dobbiamo agire all'interno del sistema» prosegue lui, come se rispondesse alla domanda che non ho fatto a voce alta. «Anche se so che non sei d'accordo con me. Ma basta parlare del mio lavoro» conclude, mentre io tolgo i piatti e servo il caffè e la torta di mele. «Tu come stai, mia cara?» «Bene. Un po' agitata.» «Oh? Pensavo che tu e Celia vi sareste divertite andando per musei...» Lascia la frase in sospeso e ha un trasalimento davanti al baratro che separa sua figlia dalla cognata, una donna che gli farebbe tanto piacere che accettassi. «Se tu avessi un fratello, o una sorella» ripete per l'ennesima volta, preoccupato. Le famiglie poco numerose come la nostra sono l'eccezione, ma per qualche ragione che non mi è chiara i miei genitori non hanno avuto altri figli. Lo bacio sulla guancia. «Non avrei mai voluto dividerti» gli dico nel tentativo di placare il suo senso di colpa. È la verità. Noi due siamo sempre bastati a noi stessi. Vedo le nostre cene di Shabbat come un tableau, un quadro vivente che nel corso degli anni si è ripetuto in varie città. «E io sto bene, davvero. Le feste sono fantastiche, ma le donne sono proprio sciocche.» Rendendomi conto di aver ripreso a lamentarmi mi interrompo. «Saresti più felice se vivessimo fuori città?» mi chiede. Rifletto sulla domanda. Vicino alla natura mi sono sempre sentita più libera, come durante le passeggiate che facevamo quando ero piccola. Papà è un erudito ma anche un uomo che ama la vita all'aria aperta, capace di muoversi in una fitta foresta senza bussola, di trovare sempre dell'acqua fresca e di prevedere le condizioni

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meteorologiche. Andavamo sempre a fare escursioni in montagna, con le provviste nello zaino, e prima del tramonto cercavamo un rifugio in quota per passare la notte. Parigi, tuttavia, per quanto sovraffollata ha una certa energia. E non voglio finire esiliata in qualche noiosa periferia in compagnia della zia. «Non so. Non credo.» Mangiando il dessert stabilisco che in fondo non è la città a dispiacermi. Da bambina ci sono venuta ogni primavera, a fare compere nelle belle boutique di rue du Faubourg Saint-Honoré con mia madre, e poi papà nel tardo pomeriggio ci raggiungeva per un dolce in una delle pasticcerie. Avevo persino sognato di studiare alla Sorbona, un giorno. No, è la Parigi di questi tempi che detesto. Alla vigilia della conferenza si è riempita di giornalisti e delegati di ogni causa e paese possibile e immaginabile. Alberghi deserti fino a prima della guerra sono stati arieggiati, le stanze tinteggiate di fresco per accogliere tutti quelli che sono accorsi a vedere lo spettacolo. Non sono le persone che hanno una buona ragione per essere qui a darmi fastidio, i gruppetti di uomini in abiti formali che decideranno il futuro del mondo, i litigiosi delegati di paesi che lottano per diventare nazioni. Mi infastidiscono i perditempo, i mondani e le mondane che sono venuti a organizzare le feste e altre occasioni di mettersi in mostra e hanno intasato la capitale fino al punto di renderla invivibile. «Comunque, a un certo punto la questione non dipenderà più da noi» prosegue a dire mio padre. «Quando arriveranno i tedeschi...» Io aggrotto la fronte con espressione interrogativa. Noi siamo i tedeschi.

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«A quanto pare la delegazione ufficiale risiederà a Versailles, sarà alloggiata lì.» Rifletto su questa nuova informazione. La conferenza si svolge a Parigi e i tedeschi verranno alloggiati a Versailles? Il luogo dove mezzo secolo prima avevano imposto le loro draconiane condizioni di pace, oggi diventa il luogo della loro giusta segregazione. «All'arrivo della delegazione si spostano anche i lavori della conferenza?» «Non che io sappia.» «Ma se i tedeschi devono prendervi parte, mi verrebbe da dire, dovrebbero trovarsi vicini ai lavori...» «Verrebbe da dirlo anche a me.» Papà beve un sorso di caffè. «Verrebbe da dire anche che per una vera, fattiva partecipazione, la delegazione tedesca avrebbe dovuto essere invitata fin dai primi mesi dei lavori.» Come si fa a negoziare la pace se l'altra parte non siede al tavolo delle trattative? «Conosci i delegati?» chiedo. «Oh, sono i soliti. Rantzau, il nuovo ministro degli Esteri, nonché il ministro della Difesa e naturalmente l'ambasciatore, la vecchia nemesi dello zio.» Gli uomini che detengono il potere costituiscono un club molto ristretto ed esclusivo, sono cresciuti negli stessi ambienti e hanno frequentato le stesse scuole. Un club a cui papà non aveva mai desiderato appartenere, e invece adesso, suo malgrado, vi si trova coinvolto. «C'è anche un uomo più giovane, un capitano, ma non riesco a ricordarne il nome.» «E portano qualcuno? Voglio dire, vengono con le famiglie?» Papà scuote la testa. «A Versailles gli alloggi sono limitati.» Inoltre era insolito che i delegati portassero con sé mogli e figli, anche quando rappresentavano i

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paesi vincitori. «Non mi hai ancora detto che cosa hai combinato oggi, oltre al fatto di aver evitato Celia.» Valuto l'ipotesi di parlargli della donna con il mantello azzurro, ma mi rendo conto da sola che il racconto del mio interessamento e dell'inseguimento risulterebbe inconsistente e sciocco. «Ho visto l'arrivo di Wilson» dico. «Davvero?» «Una folla entusiasta.» «Hanno grandi speranze. I Quattordici Punti, l'autodeterminazione, un nuovo ordine mondiale...» Scuote la testa. «Wilson è un idealista. È come quel concetto del giudaismo: tikkun olam, che alla lettera significa "riparare il mondo". È quello che cerca di fare Wilson.» «Non sembri credere che ci riuscirà.» «Credo che non sia così semplice.» Papà prende in mano la pipa ma non l'accende, usandola come una bacchetta durante una lezione. «Prendi l'autodeterminazione, per esempio. Che cosa significa, esattamente? Si tratta di una nazionalità, di un gruppo religioso, o di cos'altro?» Colpisce l'aria di fronte a sé. «Sono convinto che le cose cambieranno, che si darà un diverso assetto geopolitico alla terra? Non lo so. Il mondo non tornerà mai più com'era, con i Kaiser, gli zar e i re, ma il problema è se al loro posto possiamo fare qualcosa di meglio. Io credo che il mondo potrebbe essere un posto migliore, se ci provassimo.» Sospira. «A ogni modo, avremo parecchie occasioni di vedere il presidente Wilson al ricevimento di benvenuto di domani sera.» Inclino la testa. «Te ne ho accennato la settimana scorsa.» Il calendario degli impegni mondani era talmente zeppo di occasioni barbose che avevo smesso di ascoltare, limitandomi a farmi trascinare da papà e dalla zia. «Dovrebbe essere una grande serata.»

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Gemo di dolore. «Devo proprio venire?» «Temo di sì. È un'occasione importante e non possiamo permetterci di non prendervi parte. Hai avuto notizia da Stefan?» chiede, cambiando di nuovo argomento. Fin qui mio padre mi ha lasciato la massima libertà, ma su questo argomento è insistente. Ormai si avvicina ai settant'anni e vorrebbe vedermi sistemata, anziché sola al mondo. «Sì.» Non ammetto di non aver ancora aperto la lettera ricevuta quest'oggi, concentrandomi invece su quanto Stefan mi aveva scritto la settimana scorsa. «Sembra che a Berlino abbiamo avuto molta neve, molta più di quanta ne è scesa qui.» Papà annuisce. «Zio Walter scrive lo stesso. Sono sicuro che non vedi l'ora di tornare da lui. Da Stefan, intendo, non dallo zio.» Sorrido della battuta. Il fratello di mia madre non è mai stato uno dei miei parenti preferiti. «Come sta?» Sento nella domanda di papà una inconfondibile nota di affetto. Ha sempre voluto bene a Stefan, e le loro personalità miti si intendono alla perfezione. Da ragazzo Stefan si sentiva soggiogato dalla sua acuta intelligenza e lo ascoltava sempre rapito parlare dell'ultimo articolo che stava scrivendo. «Si impegna molto negli esercizi di riabilitazione. È riuscito persino ad alzarsi in piedi un paio di volte.» «Notevole. Non si aspettavano nemmeno che ce la facesse, quindi alzarsi dalla sedia a rotelle è una bella impresa. Magari prima o poi riuscirà a camminare con le stampelle. Che giovanotto straordinario.» Sento una fitta di gelosia. In un certo senso Stefan è il figlio maschio che mio padre non ha avuto. Non che Stefan avrebbe seguito le sue orme nella vita accademica. Gli Oster erano una famiglia di banchieri finiti in bancarotta. Da Stefan, che era il maggiore di quattro

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figli e l'unico maschio, ci si aspettava che riportasse la famiglia agli antichi fasti. Tutti avevamo sperato che aiutasse lo zio Walter nella direzione delle fabbriche. Ma adesso immaginarlo aggirarsi per gli stabilimenti con le stampelle sembra decisamente un'assurdità. «Se la cava benissimo» dico, eppure qualcosa mi tormenta. «Tu credi che abbia subito danni, oltre a quelli alle gambe, voglio dire? Le sue lettere sono un po' bizzarre.» Papà aggrotta la fronte come se si aspettasse altre spiegazioni. Però io non riesco a delucidare le mie preoccupazioni. «È la guerra, mia cara. Dagli tempo.» Annuisco. Stefan è così un bravo ragazzo. Mi si spezza il cuore al pensiero delle cose che ha dovuto vedere e soffrire. E non posso impedirmi di chiedermi se tornerà mai completamente sano. «Speriamo che la conferenza finisca presto, così potremo tornare a Berlino e lo rivedrai.» Deglutisco malgrado il nodo che mi si è formato in gola. «Speriamo.» «Buonanotte, cara.» Papà si avvicina alla scrivania e allunga una mano verso una pila di carte. Nonostante la corporatura snella e i modi tranquilli, è l'uomo più forte che abbia mai conosciuto. Non soltanto forte, anche coraggioso. Un giorno, quando avevo più o meno sei anni, passeggiavamo con il nostro pastore tedesco Gunther nel Tiergarten, quando un grosso cane randagio ci si parò di fronte sul sentiero. Il mio primo istinto era stato di scappare impaurita. Invece papà si era fatto avanti, mettendosi fra il nostro buon Gunther e il cane ringhiante. In quel momento capii che cosa comportava essere un genitore, un impegno per cui forse io non sarei mai stata all'altezza. Per occuparsi di me ha dovuto rinunciare a così tante

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cose! Dopo la morte di mia madre sarebbe stato logico affidare le mie cure a una governante o a Celia. Lui invece aveva ridotto gli impegni all'università, rinunciando alle ore di insegnamento pomeridiane e serali e portandosi il lavoro a casa per poterlo svolgere mentre mi faceva compagnia. Mi aveva portata con sé nei suoi viaggi, rifiutando tutte le occasioni che gli erano state offerte in luoghi troppo lontani o pericolosi, o che erano sprovvisti di buone scuole. A volte mi accorgevo che era stanco di conversare, che non vedeva l'ora di tuffarsi nel lavoro per sfuggire alla fatica della vita quotidiana, e del dolore che portava come un fardello. Eppure, prima di tutto faceva sempre in modo di accertarsi che io non fossi sola. Ora, curvo sulla scrivania, mi sembra un uomo vulnerabile. Vengo colta dal grande desiderio di chinarmi e abbracciarlo. Mi limito a mettergli una mano sulla spalla. Lui alza la testa, sorpreso dal contatto. Non siamo molto abituati alle manifestazioni fisiche di affetto. «Buonanotte, papà.» Porto in corridoio il vassoio con gli avanzi della cena, poi prendo la lampada e vado nella mia camera affinché papà possa lavorare in pace. Prendo il volume di Goethe che ho comprato nel pomeriggio e ne accarezzo la copertina. A Stefan piacerebbe, o quantomeno gli sarebbe piaciuto, un tempo. Avevamo sempre condiviso il grande amore per i libri e ai nostri familiari divertiti capitava spesso di trovarci seduti sotto un albero del giardino, o nel salottino, intenti a leggere vicini, ciascuno perso nel proprio mondo. Chissà se adesso leggeva qualcosa? O se l'eventuale libro, magari con qualche riferimento alla morte e alla sofferenza, riusciva soltanto a rendergli le cose più difficili? Appoggio il mio sul tavolo.

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La lettera di Stefan è sulla credenza. Con riluttanza la apro. Carissima Margot, Dalla grafia quasi illeggibile capisco che questa volta ha provato a scrivere lui stesso, anziché dettare all'infermiera. Spero che questa mia ti trovi in buna salute. Ci sono novità eccitanti: papà sta ristrutturando il villino e lo fa ampliare, così ci potremo vivere, quando saremo sposati. Mi faccio piccola piccola. Stefan è immobilizzato su una sedia a rotelle e ovviamente non può tornare ad abitare nella casa di Berlino con tutte quelle scale strette. Ricordo la casa delle vacanze degli Oster, un cottage formato da due stanze sull'argine di uno stucchevole laghetto a più di un'ora dalla città. Dovremo veramente abitare in mezzo al nulla? E come si guadagnerà da vivere, lui? Faccio girare sul dito l'anello che mi aveva regalato prima di partire per il fronte. Sarei dovuta tornare in patria per restare con lui, mi dice una vocina per la centesima volta. Avevo ottimi motivi per non farlo: la guerra, prima di tutto, poi le condizioni delle linee ferroviarie, e adesso la convocazione di mio padre a Parigi. Certo, se avessi insistito abbastanza sarei riuscita a trovare un modo per andare lo stesso, però non avevo insistito, abbracciando ogni scusa come una coperta sotto cui nascondermi per sfuggire alla verità. Mi sfilo l'anello e lo metto in tasca. Piego la lettera e la inserisco nella busta senza neppure finire di leggerla.

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Qualcosa cade volteggiando sul pavimento. Una fotografia. La raccolgo, già rammaricata che me l'abbia spedita. Lui era animato dalle migliori intenzioni. È seduto sulla sua sedia a rotelle tutto sorridente e sembra dire: Guarda quanti progressi ho fatto! In un certo senso è in condizioni migliori dell'uomo che popola i miei incubi, tuttavia il suo viso rimane quello di uno sconosciuto, gli occhi infossati nient'altro che la conferma di tutti i miei timori riguardo al futuro che ci attende. Forse questo soggiorno a Parigi non è la soluzione peggiore. Dopotutto.

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