Numero 127
Sommario
Febbraio/Marzo 2018 36
3 Editoriale
Francesco Varanini
4 Notizie in breve
A cura della Redazione
40
9 Letture
A cura della Redazione
10 Risonanze formative
44
Mauro De Martini
12 L’impresa imperfetta
Francesco Donato Perillo
13 L’emozione che fa stare bene
48
Anja Puntari
14 Essere o non essere Antonio Rinetti
16 Risorse umane e non umane
54
Martina Galbiati
17 L’essere delle cose Piero Trupia
60
18 Dirigenti disperate Chiara Lupi
20 Storia di copertina
Prima di farci volere bene dall’azienda impariamo a identificarci con l’impresa Franca Olivetti Manoukian
63
Occuparsi del benessere dei dipendenti non è strategia, ma una scelta di cuore Elisabetta de Luca
68
L’ufficio fa spazio al benessere Da residenza a esperienza Luca Brusamolino
72
24 Storia di copertina 28 Storia di copertina 32 Storia di copertina
Riflessioni Trasformare la cultura organizzativa per valorizzare l’intelligenza emotiva Diego Ingrassia, Massimo Berlingozzi Agenda HR HR e Direzione come pilota e copilota di un’impresa sulla via del cambiamento Elisabetta de Luca Intervista a Emmanuele Massagli Una leva per gestire le persone Perché serve il welfare aziendale Dario Colombo Speciale Welfare aziendale Banche e assicurazioni promuovono welfare primario ‘in casa’ e in azienda Veronica Pastaro Testimonianze Mosaicoon, Callipo e Masmec Welfare aziendale Made in Sud Elvio Pasca Riflessioni Trasferimenti intelligenti dei dipendenti Come si riducono i costi della mobilità Francisco Schenone, Marco Dilenge Riflessioni La reputazione online di persone e aziende nell’era del social recruiting Valentina Marini, Giada Susca Intervista a Simone Mariani Valorizzare il personale e i fornitori L’importanza di creare un dialogo A cura della Redazione Risorse quasi umane Axel Scapin
La motivazione intrinseca migliora l’ambiente e le performance aziendali Massimo Agnoletti
Direttore Editoriale Chiara Lupi – chiara.lupi@este.it Direttore Responsabile Francesco Varanini Caporedattore Dario Colombo – dario.colombo@este.it Redazione Michele Bavaro, Elisabetta de Luca, Mauro De Martini, Martina Galbiati, Veronica Pastaro, Francesco Donato Perillo, Alberto Piccolo, Pietro Trupia, Lauro Venturi persone.conoscenze@este.it Grafica e impaginazione Antonello Faccini – antonello.faccini@este.it Disegno di copertina Tommaso Catone
Abbonamenti Daniela Bobbiese daniela.bobbiese@este.it – abbonamenti@este.it Pubblicità Alessia Celli – alessia.celli@este.it Norma Ferracini – norma.ferracini@este.it Erika Sironi – erika.sironi@este.it Direzione, Redazione, Amministrazione Edizioni ESTE Srl - Via A. Vassallo, 31 20125 Milano - Telefono 02 91.43.44.00 Fax 02 91.43.44.24 – www.este.it Diffusione La rivista viene distribuita esclusivamente in abbonamento Abbonamento annuale € 140,00 • Estero € 210,00
Periodicità Dieci numeri mensili ordinari. Copie arretrate: € 16,80 + € 4,00 spese di spedizione, si possono richiedere al Servizio Abbonamenti, salvo esaurimento delle scorte. Copie di saggio: richiedere copia al Servizio Abbonamenti. Spedizione Poste Italiane Spa - Spedizione in abb. Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB Milano. Registrazione presso il Tribunale di Milano Numero 682 del 26/11/2003. Stampa: Grafica Metelliana S.p.A. – Via Gaudio Maiori, Zona Ind. – 84013 Cava de’ Tirreni (SA). Le tecnologie rendono facile l’accesso al materiale iconografico. Non altrettanto facile è il reperimento delle informazioni sui detentori dei diritti. L’editore dichiara di aver usato ogni mezzo per entrare in contatto con gli eventuali detentori di diritti d’autore del materiale utilizzato, e resta ovviamente disposto ad adempiere gli obblighi di legge.
Il Disegno di copertina e la rubrica ‘Risorse quasi umane’ sono curati da alcuni alunni della Scuola del Fumetto di Milano: ESTE ha attivato con l’istituto una collaborazione finalizzata all’assegnazione di Borse di studio agli autori più meritevoli
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SISTEMI&IMPRESA
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Management e tecnologie per le imprese del futuro
IL RUOLO DEL BUSINESS MODEL NELLE STARTUP INNOVATIVE B. Balboni, G. Bortoluzzi A. Tracogna, F. Venier, M. Tivan
DIVERSITY MANAGEMENT SELEZIONE NATURALE E MEDIAZIONE SOCIALE Davide Bizjak Stefano Consiglio Luigi Maria Sicca
MENO CAPI, PIÙ RESPONSABILITÀ È TEMPO DI ORGANIZZAZIONI SENZA GERARCHIE
LA VOCE DELLA DIREZIONE DEL PERSONALE Poste Italiane Spa - Sped. in abbon. Post. D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art.1, comma 1, DCB Milano
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N. 2 - marzo 2018
LE NUOVE SFIDE HR DEL 2018 RISORSE UMANE SEMPRE PIÙ STRATEGICHE Rossella Riccò
IL BENESSERE RELAZIONALE ALLA BASE DELLE NUOVE STRATEGIE DI CONCILIAZIONE Maria Letizia Bosoni Sara Mazzucchelli
> AGENDA HR 2018
HR e Direzione come pilota e copilota I nuovi trend delle Risorse Umane > INTERVISTE
Leva organizzativa e gestionale Perché serve il welfare aziendale > RIFLESSIONI
ELITE ALLO SPECCHIO Robot, persone e Made in Italy Noberasco tra 4.0 e tradizione
La reputazione online di persone e aziende nell’era del social recruiting
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EDITORIALE Francesco Varanini Il tema centrale di questo numero della nostra rivista è il benessere. “Per lavorare bene e star bene”, scrive nell’incipit del suo articolo Franca Olivetti Manoukian, “è cruciale che ci si identifichi, almeno in parte, con l’organizzazione e questo implica che l’organizzazione stessa sia in grado di riconoscere e ascoltare le persone, che riesca a valorizzare l’apporto che possono dare non solo a partire da quello che serve immediatamente all’azienda, ma anche da quello che ciascuno può ricercare ed esprimere”. È qui in gioco la necessaria assunzione di responsabilità di due diversi soggetti. C’è il singolo lavoratore, chiamato –come ogni cittadino e come ogni essere umano– a cercare ‘il proprio bene’, agendo da adulto in un mondo che impone di affrontare problemi e difficoltà, ma che allo stesso tempo offre opportunità e spazi di libertà. E c’è il manager, innanzitutto quello che si occupa professionalmente di Risorse Umane, chiamato a creare le condizioni necessarie affinché ogni lavoratore possa esprimersi. Si pone allora una questione che ho sempre considerato centrale (fin da ragazzo) e che poi è stato l’interrogativo principale del mio lavoro di etnografo. C’è una pretesa dalla quale, credo, noi che lavoriamo professionalmente nel campo delle Risorse Umane dovremmo tenerci lontani: sapere cosa è bene per gli altri. In effetti, nessun professionista del servizio alle persone sa –torno a usare le parole di Olivetti Manoukian– “quello che ciascuno può ricercare ed esprimere”. Quindi non credo sia costruttivo sforzarsi di indirizzare le persone verso una pretesa retta via, verso un qualcosa che consideriamo l’altrui bene. Ciò che invece, rispettosamente, possiamo offrire sono spazi, ambienti, archi di tempo nei quali ogni persona possa cercare la propria dimensione, il proprio equilibrio, che consiste nel non sentirsi solo, abbandonato a se stesso, e al contempo nel non sentirsi privato dello stimolo a esplorare i limiti, a scoprire il proprio potenziale. Mauro De Martini lo dice con chiarezza, interrogandosi sul proprio lavoro di formatore: “Formare bene, cioè fare formazione che sia ‘bene’ per gli altri, vuol dire favorire contesti d’apprendimento in cui le persone siano ascoltate veramente e libere nel ricercare il proprio bene, al di là di quello che io pensi essere il loro bene”. Anja Puntari, che in questo numero della
nostra rivista esordisce con la sua rubrica, aggiunge un ulteriore tassello: il benessere nasce, per tutti, dall’essere in equilibrio con se stessi e con gli altri. Si può essere in equilibrio con gli altri solo se si è in equilibrio con se stessi. Per questo è importante restare legati alla propria storia personale, alla propria vocazione. Puntari può essere un buon coach perché continua a essere un’artista. Ancora Puntari ci ricorda come sia frustrante la consapevolezza di vivere in organizzazioni che resistono ai nostri tentativi di “gestire le cose come vorremmo”. Perciò, nella nostra ricerca di star bene insieme con gli altri conviene puntare sulla dimensione emotiva. “Come viviamo, elaboriamo e trasmettiamo le emozioni a chi ci sta intorno dipende esclusivamente da noi”; “La nostra abilità di stare nella danza delle emozioni che ci porta al benessere”. Un’altra nuova rubrica inizia questo mese: ne è autore Antonio Rinetti. Per lunghi anni autorevole Direttore del Personale, ci accompagnerà riflettendo sul ruolo che ha ricoperto, guardando al presente e al futuro. Non a caso sarà uno degli ospiti del Convivio in programma il 13 aprile, l’ormai tradizionale incontro organizzato dalla nostra rivista: con lo sguardo rivolto ai prossimi 10 anni, ci interrogheremo su come si evolve la Direzione del Personale. Rinetti è già intervenuto al Convivio otto anni fa. Sono andato a cercare le email che ci siamo scambiati allora. Rinetti mi scriveva: “Devo confessarle che nel titolo della conversazione cui parteciperò (‘Il giusto compenso’) ho colto personalmente un sottofondo di natura etica, in particolare il riferimento all’aggettivo ‘giusto’ mi ha fatto venire in mente, oltre a ciò che può rappresentare una corretta e innovativa applicazione di tecnicalities sofisticate, anche una riflessione su molti meccanismi ‘distorti’ che il mercato, negli ultimi anni, ha apportato al panorama retributivo non solo in Italia, ma in generale nei Paesi più avanzati”. Nella sua rubrica Rinetti ripercorre una storia d’impresa poco nota, qui in Italia (“A Marsiglia nel lontano 1972 un produttore francese di vetro...”). Credo sia importante ritornare su queste vicende. L’Olivetti non è l’unico buon esempio che il passato ci offre. Ma in ogni caso il passato non ci serve per coltivare rimpianti; ci serve per immaginare quello che di nuovo possiamo fare, a partire dalle condizioni presenti.
PERSONE&CONOSCENZE N.127
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NOTIZIE IN BREVE La cura delle persone passa dal welfare Promuovere benessere dentro e fuori Il welfare aziendale si arricchisce di un nuovo player: è BluBe, la divisione welfare CIR food nata a gennaio 2018 dalla Business Unit BluTicket, specializzata nei servizi sostitutivi di mensa. D’altra parte, il mercato del welfare aziendale è in forte ascesa: una recente ricerca ne ha stimato il valore in circa 21 miliardi di euro nel caso in cui tutti i dipendenti di aziende private possano godere di piani dedicati (si consideri che l’ultima finanziaria vale circa 20 miliardi…). In realtà la nascita di BluBe è solo l’ultimo step di un percorso iniziato nel 2016 all’interno di CIR food, quando l’azienda ha introdotto NoixNoi, il programma di welfare aziendale dedicato ai soci e dipendenti della Cooperativa. Da lì il passo verso l’apertura al mercato è stato breve, visto che la divisione BluTicket ha rivestito il ruolo di ‘provider interno’ per l’attivazione del welfare legato ai servizi, testando quindi in concreto le sue potenzialità in questo settore. Dopo meno di due anni è così nata BluBe a seguito di un’operazione di riposizionamento della Business Unit, utile per comunicare al mercato un’offerta ben precisa, non più legata alla sola erogazione di buoni pasto. Dietro BluBe, infatti, c’è una vera e propria nuova filosofia: il nome ha la radice storica ‘Blu’ che ha caratterizzato da sempre questa realtà, a cui si aggiunge la parola inglese ‘Be’ a conferma del-
Il portale di flexible benefit di BluBe
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PERSONE&CONOSCENZE N.127
la volontà di mettere sempre di più la persona al centro del proprio business. Il risultato? “Un’offerta e un approccio al mercato che rispecchiano questo concetto e che trovano la loro sintesi nella filosofia di BluBe: Work, live, be more”, racconta Riccardo Gismondi, Direttore della divisione BluBe. Una storia fatta di cibo, cultura e persone La divisione BluTicket nasceva già 20 anni fa, vantando come core business il buono pasto cartaceo. Il processo di trasformazione ha portato poi al buono elettronico e oggi ai servizi di welfare aziendali. “BluBe pone le sue fondamenta sugli assi valoriali che da sempre hanno ispirato il gruppo CIR food”, spiega Gismondi, “ovvero: cibo, cultura e persone”. Proprio per questa ragione l’offerta si mostra fortemente variegata, consentendo alle imprese di soddisfare in modo personalizzato e flessibile i bisogni dei dipendenti, anche quando non sono al lavoro. BluFlex consente l’erogazione di un credito welfare per accedere a servizi legati all’assistenza, all’istruzione, al tempo libero, alla cura della persona, alla cultura, alla previdenza complementare o allo shopping. BluGift è invece il buono regalo personalizzato e flessibile (spendibile anche online) ideato per premiare i dipendenti, gratificare i
Riccardo Gismondi, Direttore della divisione BluBe
clienti e incentivare i collaboratori. Seguono poi le possibilità connesse al servizio sostitutivo di mensa, ovvero il buono pasto, erogato sia in formato cartaceo (BluTicket) sia elettronico (BluEasy e BluTicket Card). “La nostra offerta è stata progettata pensando alle necessità e ai bisogni sia delle grandi imprese sia di quelle di dimensioni più ridotte, vista la nostra capacità di immaginare con ogni cliente sempre qualcosa di nuovo”, sottolinea Gismondi. Benessere dentro e fuori l’azienda Nel sempre più affollato mercato del welfare, BluBe vuole però ritagliarsi il suo spazio come player che non intende proporre solo prodotti, ma pure costruire una cultura d’impresa legata al welfare. La Business Unit è tra i soci dell’Associazione italiana welfare aziendale e come tale si configura come uno dei player che può collaborare con le aziende per impostare concreti piani di welfare. “Siamo convinti che le aziende attente al momento della pausa pranzo racchiudano al loro interno una naturale propensione alla cura della persona”, considera Gismondi. “Rimettere in posizione centrale il benessere dei propri dipendenti è il primo passo da compiere per implementare un piano welfare di successo”. BluBe è anche attenta a sviluppare un welfare che vada oltre i confini aziendali: l’obiettivo è coinvolgere strutture cooperative locali per innescare un legame concreto tra azienda e territorio, così che l’organizzazione possa generare benefici pure per la realtà nella quale si trova a operare. www.blube.it
EMPLOYEE DIGITAL WORKPLACE LA NUOVA FRONTIERA DELLE TECNOLOGIE HR
Nuove ondate di crescita, mercati sempre più volatili, cambiamento delle aspettative da parte dei lavoratori e mutevoli scenari tecnologici stanno costringendo le aziende a ripensare le loro strategie di HR e Human Resource Information System (HRIS) per ridisegnare la funzione Risorse Umane. La Direzione del Personale, infatti, è ormai costretta ad adattarsi rapidamente al nuovo contesto. I dipendenti chiedono sempre più una maggiore esperienza di tipo ‘consumer’ quando accedono alle applicazioni aziendali: secondo recenti ricerche, è emerso che oltre la metà del campione considera l’uso di tool digitali sul posto di lavoro vitale per migliorare la soddisfazione lavorativa, l’innovazione e la produttività. Ma quali sono le principali leve di scelta di un HRIS? Una strategia HRIS si basa su tre principali leve di valore che influenzano il suo business case: miglioramento produttività; compliance, qualità e riduzioni dei rischi, ottimizzazione e controllo del budget HR. Di questi argomenti se n’è parlato al VEGA, Parco Scientifico Tecnologico di Venezia nell’ambito di alcune lezioni sui sistemi per l’HRM per il Master in People Management della Ca’ Foscari Challenge School: tra i relatori Vincenzo De Giovanni, Executive Director Operations di Allos, Martina Guzzi e Giorgia Chizzali, Business Consultant di Allos, invitati da Fabrizio Gerli, Professore Associato di Gestione delle Risorse Umane e Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari. Nello scenario descritto le tecnologie (Mobile, Social, Analytics e Cloud) vengono in aiuto alla Direzione del Personale all’interno di quello che viene definito Employee Digital Workplace, un ambiente tecnologico moderno dove servizi tradizionali e servizi innovativi, comunicazione, collaborazione sono resi disponibili a tutti i dipendenti dell’azienda oltre che agli specialisti Risorse Umane.
In questo ambiente, grazie al Mobile, finalmente le Risorse Umane possono raggiungere i propri dipendenti online-on the go, fornendo un’esperienza coinvolgente all’interno dell’azienda. Il Social diventa un fattore abilitante per ottenere maggiore partecipazione dei dipendenti, supporta la collaborazione orizzontale e verticale in azienda, introduce soluzioni di Gamification, migliora così progressivamente l’adoption dei servizi HR, ma anche di quelli più propriamente legati al business dell’azienda. Aumenta in questo modo come effetto indotto la retention sugli utilizzatori. Allo stesso tempo il Digital Workplace consente di avere a disposizione dati migliori –non solo legati ai processi standard dell’HR ma anche a quelli legati ai comportamenti dei suoi utilizzatori– su cui le aziende possono prendere decisioni strategiche. Proprio gli Analytics –che combinano dati HR e non HR, strutturati e non strutturati– grazie alla nuova capacità di elaborazione dei Big Data resa possibile dalle moderne tecnologie, aprono una nuova frontiera per la Direzione del Personale in termini di analisi strategica dell’informazione e dei fenomeni, e in più rendono tale informazione disponibile per dipendenti, manager e responsabili decisionali ovunque siano, in qualsiasi momento e nella modalità richiesta. In sintesi, e come trend che si consoliderà sempre più da adesso in avanti, l’Employee Digital Workplace diventa una App con il logo dell’azienda, sempre al primo posto nella list App che tutti i dipendenti di quella azienda hanno nel loro smartphone.
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NOTIZIE IN BREVE Partnership Scuola del Fumetto di Milano Assegnate le borse di studio ESTE
I vincitori della borsa di studio 2017, da sinistra: David Chiminazzo, Costanza Camponovo, Tommaso Catone, Marco Centurelli
Tra gli allievi della Scuola del Fumetto di Milano che hanno disegnato le copertine e la rubrica Risorse quasi umane di Persone&Conoscenze nell’anno 2017 sono stati selezionati gli allievi destinatari della nostra borsa di studio (in foto i vincitori, assente Yuri Cameirana). Per il secondo anno la nostra casa editrice ha destinato la cifra di 2mila euro agli allievi che con maggiore efficacia hanno saputo esprimere con il loro disegni i temi lanciati dalle cover story della nostra rivista. L’obiettivo della partnership con la Scuola del Fumetto di Milano è contribuire, anche con il nostro lavoro, a creare un legame tra la scuola e il mondo del lavoro. Ma la filosofia sottesa alla nostra collaborazione va anche oltre. Il mondo del lavoro sta cambiando velocemente: le tecnologie abilitano nuovi modi di lavorare e, al contempo, i mercati subiscono mutazioni profonde. L’industria ‘dismette’ la produzione in serie e crea canali di dialogo diretti con i propri clienti per realizzare produzioni sempre più sartoriali. E nel mondo del lavoro entrano i Millennial che devono ‘convivere’ con chi ha iniziato a lavorare quando ancora per telefonare si doveva cercare per strada una cabina telefonica. In azienda convivono mondi che, apparentemente,
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hanno poco in comune, ma si alimentano delle reciproche conoscenze. Nel nostro presente è anche difficile immaginare quali saranno le professioni che il nostro mercato del lavoro richiederà tra 10 anni. Quali saranno i lavori del futuro è un interrogativo al quale non
è semplice dare risposte (ne parliamo nella Storia di copertina di marzo 2018 di P&C). Alcune professioni possiamo immaginare saranno più richieste di altre, in un mondo nel quale crescono esponenzialmente i dati e chi li sa analizzare troverà spazio per esprimere le proprie competenze. Per gli avvocati invece, il cammino sarà forse più in salita, in agguato ci sono già algoritmi che analizzano le pratiche legali. Nemmeno i medici se la passano tanto meglio: la diagnostica, per fare un esempio, potrà essere delegata a un robot. La vera sfida sarà imparare a collaborare con le macchine, le persone dovranno saperle governare anziché ipotizzare scenari nefasti dove il lavoro sarà completamente delegato ai robot privando l’uomo di tutto il portato di senso che il lavoro porta con sé. In questo mondo che sta cambiando sotto i nostri occhi è interessante poter contare sullo sguardo di chi ancora non è ‘contaminato’ dalle dinamiche aziendali. Abbiamo bisogno dello sguardo e delle riflessioni di chi, stando ancora sui banchi di scuola, interpreta i grandi temi del nostro mondo del lavoro senza retropensieri, sovrastrutture e pregiudizi. Per questo abbiamo rinnovato la collaborazione con la Scuola del Fumetto anche per il 2018: nella foto, vi presentiamo i ragazzi, tutti allievi del corso di Fumetto Realistico, che disegneranno le prossime copertine di P&C.
Da sinistra: Lorenzo Martino, Cedric Tombo, Stefano Vergani, Axel Scapin, Gloria Marino, Stefano Della Rosa, Lorenzo Cambini, Alessio Caviggioli, Luca Carlesso, Luca De Meo
NOTIZIE IN BREVE La selezione si fa in una stanza buia Ecco come dire addio ai pregiudizi Un processo di selezione senza ‘condizionamenti’, nel quale i recruiter si ritrovano tra le mani curricula privi delle informazioni sensibili degli aspiranti lavoratori (per esempio età, sesso e razza) per eliminare qualsiasi tipo di pregiudizio nella scelta del selezionatore. Si chiama Blind Recruitment –letteralmente ‘selezione al buio’– e se in alcuni Paesi come gli Usa è una pratica consolidata, in Italia SAP è stata tra i primi a testarla. Durante l’ultima edizione del SAP Forum di Milano, l’azienda leader mondiale nelle soluzioni software per il business, ha organizzato dei colloqui al buio nell’ambito di un progetto pilota riservato ai giovani da inserire nell’organizzazione. “Abbiamo iniziato a confrontarci sulla Blind Interview affrontando i temi della Diversity”, racconta Pietro Iurato, Direttore Risorse Umane di SAP Italia, oltre che del Sud Europa e dal 2018 anche dell’Africa francofona. “In ambito recruitment utilizziamo un software basato su un algoritmo di machine learning che aiuta la ricerca del selezionatore e che permette di intercettare le candidature in linea con le posizioni aperte, aiutando l’attività poi conclusa dall’uomo con l’intervista’, ragiona il manager. Ed è proprio per azzerare ogni possibile pregiudizio –già basso visto l’utilizzo della tecnologia– che è stata introdotta la Blind Interview, con l’obiettivo di dare “maggior importanza ai contenuti”. Candidati più aperti grazie al buio Per svolgere le interviste al buio, SAP ha formato tre recruiter con corsi ad hoc svolti presso l’Istituto dei ciechi di Milano, per consentire loro di gestire il colloquio in stanze prive di luce: “L’effetto non è stato solo quello di evitare di abbattere i pregiudizi, perché le persone si sono dimostrate più aperte in una situazione molto particolare”, continua Iurato. Quali le opinioni di chi ha partecipato al Blind Recruitment? “Superato lo stupore iniziale, i giovani hanno apprezzato l’esperimento e l’azienda
che in questo modo ha dimostrato di essere interessata a conoscere le persone nel profondo senza fermarsi all’apparenza”, spiega il manager di SAP. Ma la sperimentazione non è stata solo un semplice test, perché sono “stati intercettati alcuni candidati” per iniziare “il percorso di assunzione in azienda”. “Il Blind Recruitment ci ha consentito di prendere in considerazione candidati leggermente diversi da quelli che cerchiamo nelle nostre selezioni: è di certo un processo virtuoso, perché l’obiettivo è costruire team più eterogenei”, commenta Iurato. Attenzione alle diversity D’altra parte la diversity è un tema centrale per SAP che da sempre ha grande attenzione per questi aspetti che possono contribuire a migliorare l’organizzazione. Non è un caso che l’azienda nel nostro Paese è quella che nel comparto IT ha una maggiore presenza di donne (30%) anche in ruoli manageriali (30%); in Italia, inoltre, le donne rivestono posizione di vertice: per esempio Luisa Arienti è l’Amministratore Delegato, mentre Carla Masperi è Chief Operating Officer. Nell’organizzazione c’è grande attenzione anche sulle politiche di ageing: “Abbiamo creato il giusto mix tra figure Junior e quelle Senior”, ammette il Direttore del Personale. “Oltre ad attrarre giovani talenti che sono formati anche attraverso un semestre presso i laboratori SAP in California, offriamo ai Senior continui sviluppi di carriera, tanto che il 50% delle posizione create sono riservate agli interni”. Una decisione in linea con il posizionamento sul mercato dell’azienda stessa: “La nostra ambizione è guidare la Digital transformation e quindi siamo chiamati a intercettare i nuovi trend del mercato, ma serve mixarli con l’esperienza”. Opportunità di carriera per tutti Questa attenzione alle persone è la chiave che SAP ha scelto per farsi voler bene dalle sue persone? “Potrem-
Pietro Iurato, Direttore Risorse Umane di SAP Italia
mo dire che vogliamo bene alle persone parlando dei benefit e del welfare offerto, ma sarebbe solo un aspetto superficiale”, commenta Iurato. “Il vero benessere si genera dal rispetto dei bisogni dei colleghi dal punto di vista delle opportunità concesse; sto parlando di meritocrazia e per noi offrire opportunità di carriera è una versa ossessione”. Ma non solo, perché l’organizzazione ha “leadership diffuse” e questo “aiuta a migliorare il benessere delle persone”. Inoltre, da qualche tempo l’azienda ha voluto abbandonare il Performance management, “perché è uno strumento per valutare il passato”, orientandosi invece verso il Talent management: “Vogliamo focalizzarci sul futuro e quindi sullo sviluppo delle persone”. E proprio in quest’ottica sono stati proposti percorsi manageriali nei quali il manager è invitato a diventare un coach. “L’obiettivo di Manager as a coach è che il capo possa sostenere lo sviluppo delle persone affinché queste migliorino”. Non è un caso che per il terzo anno consecutivo SAP Italia sia stata certificata dal Top Employers Institute per le eccellenti condizioni lavorative offerte ai propri dipendenti (nel 2018 ha ricevuto i riconoscimenti Top Employer Europe e Top Employer Italia). www.sap.com/italy/index.html
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NOTIZIE IN BREVE Festival della Cultura del lavoro Un ponte tra persone e aziende Un Festival per parlare di cultura del lavoro dedicato –e aperto– a tutti. Dove i protagonisti sono uomini e donne d’azienda, ma pure giornalisti, sociologi, psicologi e scrittori: persone insomma che ogni giorno si confrontano con i temi più attuali legati al mondo del lavoro. Nobilita, il lavoro raccontato Senza Filtro si svolge il 23 e 24 marzo a Bologna presso l’Opificio Golinelli: è un progetto di FiordiRisorse, la business community nata su Linkedin nel 2008 e alla quale aderiscono oltre 6mila manager con lo scopo di condividere buone pratiche, competenze e networking di alto livello. Ideatore del Festival è Osvaldo Danzi, fondatore di FiordiRisorse, insieme con Stefania Zolotti Direttore Responsabile della testata giornalistica Informazione SenzaFiltro da cui il nome del Festival: “Il lavoro è l’unico elemento che permette alle persone di realizzarsi e di assumere una vera dignità nel contesto in cui operano, vivono e si relazionano con gli altri individui”. Prosegue Danzi: “Se vogliamo ‘restituire il lavoro alle persone’, di lavoro devono parlare coloro che lo svolgono (i lavoratori), coloro che lo offrono (gli imprenditori) e coloro che lo raccontano (giornalisti e divulgatori di nuovi modelli culturali)”. Secondo Danzi, infatti, “il compito di chi guida la società civile (istituzioni) e quella produttiva (imprese) non è solo quello di osservare o promuovere
Osvaldo Danzi, fondatore di FiordiRisorse
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PERSONE&CONOSCENZE N.127
eventi in nome della visibilità, ma di partecipare e sostenere la crescita culturale e personale dei suoi cittadini e collaboratori, rendendosi parte attiva nell’individuazione di trend economici, di pensiero manageriale, di opportunità”. Come si arriva a tutto questo? “Presidiando luoghi non convenzionali dove si generano idee fuori dagli schemi, dove la condivisione di buone pratiche e le competenze sono messe a disposizione di tutti per diventare patrimonio comune”. Insomma Nobilita vuole (ri)costruire un ponte tra imprese, istituzioni e cittadini, creando consapevolezza e cultura più moderne. Generare una nuova idea di lavoro Dietro Nobilita c’è il lavoro di un “Comitato Diffuso e non Scientifico” composto da 50 persone “comuni” selezionate all’interno delle funzioni Comunicazione e Risorse Umane delle aziende, tra i giornalisti, gli opinionisti, i rappresentanti delle istituzioni e i membri della community di FiordiRisorse che hanno collaborato alla realizzazione del programma. “Abbiamo scelto di analizzare alcuni dei temi più attuali andando però oltre la teoria”, continua Danzi. E così al posto di “Industria 4.0” –parola di cui ormai c’è poco uso e grande abuso– c’è il “Ritorno alla fabbrica”, per analizzare come l’uomo e la cultura umanistica continuino a restare al centro a
supporto della tecnologia, influenzando produttività e comportamenti. Poi “Welfare” –“Che non significa solo palestre e asili nido, ma restituzione del tempo alle persone”– “Startup e Innovazione”, “Nuove fragilità: neolaureati e over40”, la selezione del personale “che non significa sempre cercare talenti”. E ancora “Formazione”, “Generazione Freelance”, “Terzo settore” e molto altro. Il Festival si divide in tre fasi: un “panel di divulgazione” sui temi più attuali del lavoro dibattuti in maniera semplice, ma non banale e spesso controcorrente da selezionatissimi opinion leader. Una seconda fase di Nobilita in cui sei personaggi carismatici (Oscar Farinetti, David Bevilacqua, Annamaria Testa, Paolo Vergnani, Sebastiano Zanolli e Luciano Floridi) trasmettono al pubblico 18 minuti a testa di valore manageriale: “Abbiamo immaginato una trasmissione di pensiero da proporre a tutti coloro che credono che possa esserci un modo diverso di parlare di lavoro”, argomenta Danzi. Mettere in relazione giovani e aziende Anche la location dove si svolge Nobilita è in sintonia con questi aspetti del progetto: la Fondazione Golinelli –nata a Bologna nel 1988 per volontà dell’imprenditore e filantropo Marino Golinelli– si ispira al modello delle fondazioni filantropiche americane e si occupa in maniera integrata di educazione, formazione e cultura per favorire la crescita intellettuale ed etica dei giovani e della società con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo sostenibile del nostro Paese. Le nuove generazioni sono protagoniste della terza fase del Festival in cui gli studenti possono incontrare le aziende e confrontarsi in maniera diretta con i loro manager e imprenditori. “Il superamento dei Career Day, un sistema obsoleto in cui non esiste confronto e che si limita a un’arida ricezione di curricula senza alcun feedback; abbiamo scelto di portare gli imprenditori in un’arena e di metterli a confronto con i ragazzi per fare vero orientamento professionale, offrire ai ragazzi nomi e cognomi di riferimento, dare loro le risposte che cercano e al tempo stesso diffondere la conoscenza di brand meno famosi ma concreti e ricchi di opportunità vere”. news.fiordirisorse.eu
LETTURE Retrotopia Retrotopia è l’utopia rivolta al passato e non all’avvenire. È lo sguardo dell’uomo post-moderno che cerca nel già visto, all’indietro, un’ancora di salvezza alle sorti che lo attendono. Un ‘dietrofront’ che pare l’unica via possibile per non essere schiacciati da una prospettiva di vita senza scampo, già scritta, seppur ancora prossima in termini cronologici. L’ultima opera del sociologo polacco Zygmunt Bauman, pubblicata poco prima della sua morte, ci consegna una pesante eredità, un’analisi schietta e bruciante della condizione umana, segnata nel presente da un futuro già scritto e sconvolto dal caos generato dai processi di globalizzazione, in cui non è possibile riconoscere riferimenti stabili, dissolti nella società liquida. Un orizzonte segnato dall’individualismo sfrenato, da guerre di tutti contro tutti,
dalla finanziarizzazione dell’economia, dalla scomparsa del concetto di comunità che non lascia altro scampo se non quello di rifugiarsi nei ricordi del passato, nella nostalgia, che inaspettatamente rassicura e tiene compagnia nel percorso incerto verso il nuovo, che si avvicina, già noto, senza concedere appello. La struttura narrativa del volume ci traghetta in un viaggio ‘della memoria’ che si sviluppa in quattro capitoli – il ritorno a Hobbes, alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno – elementi narrativi di un percorso che concede all’uomo di nutrire speranze non ancora screditate, contemplando un passato che pare glorioso rispetto a ciò che lo seguirà. Un percorso che “potrebbe trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente”.
Zygmunt Bauman Retrotopia Laterza (2017) pp. 206 – € 15,00
che venerava la sfera razionale dell’essere, e oggi riabilitate a grammatica del vivere. Il valore della cultura orale rappresenta la terza Onda, portatrice di inediti significati, riscoperti attraverso il ricordo della tradizione narrativa. La quarta Onda è quella del fenomeno ‘Social’: Social network, Social organization, Sharing economy, tutte manifestazioni caratterizzate dall’humus comune della condivisione, dell’apertura verso l’altro. Chiude la mappa del fluire l’Onda del neo-localismo 4.0, risposta alla dispersione e all’appiattimento generato dagli effetti imperanti della globalizzazione. I connotati del nuovo mercato uniscono l’inedito con il già noto, in un eterno ritorno che si rinnova, scardinando paradigmi e scoprendo nuovi significati e traiettorie nel vissuto e nella memoria.
Fabrizio Bellavista – Luisa Cozzi La logica del fluire Che mercato saremo Fausto Lupetti Editore (2017) pp. 210 – € 17,00
La logica del fluire Che mercato saremo L’unica certezza è che ci troviamo in uno stato di continuo cambiamento. Questo è l’assunto da cui il libro nato dalla penna condivisa da Fabrizio Bellavista e Luisa Cozzi prende le mosse. I due autori, esperti di comunicazione e marketing, attraverso l’analisi di alcune ‘tendenze’ rilevabili nel fluire incessante della continua metamorfosi del nostro tempo, affiancano il lettore nella decodifica delle caratteristiche del nuovo paradigma socio-economico in cui persone e imprese sono immerse. Le tendenze vengono presentate nella forma, fluida e mai uguale a se stessa, delle ‘Onde’. La prima Onda riguarda la ‘logica del fluire’, ossia il cambiamento continuo, motore della postmodernità; la seconda Onda prende in considerazione le emozioni, in passato relegate da una spinta meccanicistica
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RISONANZE FORMATIVE
Formare bene Mauro De Martini*
Nell’Apologia di Socrate, dialogo di Platone in cui si racconta il processo a Socrate, quest’ultimo, con l’intento di confutare Meleto, il proprio accusatore, espone un’argomentazione molto nota e, per certi versi, estrema, come faceva spesso il filosofo di Atene: “O non corrompo i giovani oppure, posto che li corrompa, lo faccio in modo involontario. Perché se corrompo, cioè rendo malvagia una persona, potrei io stesso subirne un danno”. In poche parole, possiamo dire che, per un errore di calcolo, per una fallacia nella stima delle conseguenze, quando facciamo qualcosa di sbagliato è per ignoranza del bene. Una posizione così netta, che va sotto la definizione di ‘intellettualismo etico’, si scontra con un’evidenza altrettanto netta, cui siamo abituati, cresciuti nelle grandi religioni monoteiste, una per tutte, il cristianesimo. So cosa sia il bene, ma faccio il male! Paolo di Tarso scriveva: “Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”1. La fondamentale differenza tra la posizione di Socrate e quella di Paolo parrebbe consistere esclusivamente nel ruolo giocato dalla volontà e dalla tentazione del peccato nella scelta pratica. L’intellettualismo di Socrate ci potrebbe sembrare ingenuo, come se fosse un bambino che ancora non conosce la complessità dell’agire umano, influenzato dalla conoscenza, ma anche da altre forze, come la volontà o il desiderio, non necessariamente volti al bene. Tuttavia, se prendiamo in considerazione il pensiero socratico nel suo complesso, sempre che di ‘pensiero socratico’ si possa parlare, l’ingenuità di Socrate inizia ad apparire meno evidente. Egli dichiara che l’unica cosa che sa è di ‘non sapere’. La sua filosofia, più che una visione del mondo, è un modello d’agire, è un ‘modo’ di porsi dinanzi al sapere, una ricerca critica della verità, un mettere in questione. La meta però sembra che non sia mai raggiunta. Forse, potremmo spingerci ad affermare che non sia neppure raggiungibile. Socrate chiede cosa sia il ‘santo’, il ‘bello’, il ‘giusto’, il ‘bene’ a tutti gli Ateniesi che cadono nella sua rete. Costoro rispondono, prima presuntuosamente, poi sempre più miserevolmente, alle sue corrosive domande. Tutti lo deludono e lui continua a svolazzare come un tafano, punzecchiando i suoi concittadini, esigendo spiegazioni sulle affermazioni. *
Consulente e formatore, gestione risorse umane e comportamenti organizzativi
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Rm 7,19, trad. CEI, 1974.
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Questo tema, che propongo come un racconto, non come pretesa d’esposizione storico-filosofica, mi interpella in qualità di formatore e fa nascere in me molte domande. Cosa significa per me fare ‘bene’ il formatore? Chi è il destinatario di questo ‘bene’? È l’azienda, committente del corso o il partecipante? Mi si potrebbe rispondere facilmente e in modo tranchant: se fai ‘bene’ il tuo lavoro, entrambi questi soggetti devono poter avere vantaggio. Facile da dire, un po’ meno da fare. Non ci dimentichiamo che le aziende sono, in un certo senso, astrazioni. Possiamo anche leggerle come singoli individui che, messi insieme, con ruoli e mansioni differenti, sono rappresentabili, in sintesi, come ‘azienda A’ o ‘azienda B’. Un altro livello di difficoltà è rappresentato dal fatto che, come Socrate sosteneva, non sappiamo mai perfettamente cosa sia il bene. Questo m’induce a domandarmi se le aziende sappiano realmente, e sempre, quale sia il bene dei loro collaboratori. Da ciò discende che io stesso, ricevendo un mandato, costruito su una raffigurazione del mondo fornita dall’azienda, non sia nella condizione di sapere precisamente quale sia il ‘bene’ dei partecipanti al corso. Tutto ciò potrebbe dare l’impressione che sia guidato da una visione relativistica del bene e del male in rapporto a persone e aziende. Qui Socrate dice la sua ancora una volta e, in un certo senso, con il suo eccesso, mi affascina: i valori non dipendono dai costumi o dalle convenzioni di una cultura, come invece sostenevano i sofisti. Il ‘bene in sé’ esiste, ma conoscerlo compiutamente è prerogativa del dio. La virtù sussiste per sé, ma noi non la possediamo completamente. A noi esseri umani spetta il compito di aspirare a essa. In questo senso il mio ruolo inizia a farsi un po’ meno oscuro. Formare bene, cioè fare formazione che sia ‘bene’ per gli altri, vuol dire favorire contesti d’apprendimento in cui le persone siano ascoltate veramente e libere nel ricercare il proprio bene, al di là di quello che io pensi essere il loro bene. A me spetta poi il lavoro di aiutare loro –e me stesso– a rendere ragione di ciò che nasce: strategie, decisioni e relative conseguenze sul fare.
Sono io a dare il ritmo
Il coinvolgimento dei dipendenti è al centro del successo aziendale. Combinando paghe e gestione risorse umane fai di più che remunerare i tuoi dipendenti. Li conosci davvero, ne migliori la vita e ne liberi il potenziale. Crea le condizioni per un luogo di lavoro ideale. Libera il valore delle tue persone. it-adp.com/liberailvaloredelletuepersone Il logo ADP, ADP e ADP A More Human Resource sono marchi registrati di ADP, LLC Tutti gli altri marchi sono di proprietà dei rispettivi titolari. Copyright © 2018 ADP, LLC.
L’IMPRESA IMPERFETTA
C’è welfare e welfare Francesco Donato Perillo*
“Mettete insieme i runner aziendali!” C’è qualche azienda che ha deciso di instaurare, a suo giudizio, e senza nulla dover contrattare con i sindacati, una buona pratica: basta con i pranzi di lavoro per cementare lo spirito di corpo, basta con asili, palestre e lavanderie. Ora è tempo di jogging meeting, tutti insieme a correre nel parco aziendale. Varie aziende lo hanno già fatto. Immagino una bella comunicazione del Direttore delle Risorse Umane indirizzata a tutti i dipendenti: “Caro collega, da oggi è operativo il nostro parco aziendale, un luogo di aggregazione e di riflessione di cui potrai usufruire quando vorrai, da solo o in compagnia del tuo team. Fuori del tuo ufficio, all’ombra di querce e di tigli, potrai respirare un’atmosfera green, allargare polmoni e orizzonti, magari anche mangiare un frutto e fare una doccia negli spogliatoi. Perché, consentimi di citare Giovenale, la rigenerazione del corpo è la condizione per far star bene la mente. Abbi cura di te!”. Stiamo assistendo alla conciliazione degli opposti, al disinvolto superamento di ogni contraddizione: da un lato flessibilità selvaggia, lavoro senza regole o addirittura “on demand” secondo i nuovi principi della sharing economy; dall’altro corsi zen, yoga, meditazione per il benessere dei dipendenti. C’è un’evoluzione del welfare, una tendenza strisciante, di chiara importazione americana, che sembra spostare sempre più i benefici dal materiale all’immateriale. Forse perché, inevitabilmente e in fin dei conti, anche il welfare è un business e come ogni prodotto o servizio richiede soluzioni sempre innovative e originali, a fronte di un mercato del wellness reso ipercompetitivo e che con il tempo tende alla saturazione. Il welfare aziendale ha generato aziende che vendono ogni sorta di servizi. Forse perché toccare la sfera sempre più personale dell’individuo, quella attinente alla libertà, alla salute della mente e non solo del corpo, consente a ciascuno di scoprire il proprio personale modo di star bene, come dice Francesco Varanini. Della serie: “Non t’impongo per accordo sindacale un’assicurazione sanitaria o un servizio di lavanderia a domicilio, non ti tratto da assistito, ma ti metto a disposizione un parco aziendale,
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e decidi tu se e quando correrci, se in solitudine o in compagnia”. O forse ancora perché quella che abbiamo descritto come una sfacciata contraddizione del capitalismo nell’era digitale, in fondo contraddizione non è. Proprio perché i diritti sono stati depotenziati e nella vita aziendale dominano i tre mostri della turbolenza, dell’incertezza e dell’arbitrio, la cura della mente sta particolarmente a cuore all’azienda. La finalità di questo welfare sembra essere allora più la ricerca della docilità che della felicità. Nessuna contraddizione dunque. Mandarti a casa senza giusta causa o demansionarti ben si concilia con una corsa sui prati del parco aziendale. La contraddizione che però resta è un’altra: è quella tra il dentro e il fuori dell’azienda, tra dipendenti e non. Laddove l’impresa estesa ha perso ogni confine, e senza distinzioni coinvolge nelle proprie sfide e nei propri team collaboratori e partner, manager e consulenti, lavoratori diretti e somministrati, subordinati e autonomi. Ma solo ai primi sono riservati i benefici del welfare aziendale, che da fonte di benessere diventa, per la diversità degli attori che cooperano nell’azienda estesa, fattore discriminante, un odioso status symbol. Ben venga il welfare se effettivamente migliora le condizioni di lavoro. Ma non venga a mettere lo stucco sulle crepe. Non venga prima di ristabilire nelle organizzazioni quegli elementari diritti umani che erroneamente diamo per scontati e nascondiamo con la polvere aziendale sotto il tappeto. Diritti resi sempre più vulnerabili dalle tendenze attuali del mercato del lavoro: il diritto alla pari retribuzione tra uomini e donne, in un Paese che presenta ancora un gender gap del 17%; alla pari retribuzione per pari lavoro, vanificato dall’abuso dei contratti a tempo determinato; alla privacy, minacciato da applicazioni informatiche sempre più evolute e invasive; alla previdenza, ormai chimera per la generazione dei Millennial. E, perché no, il diritto di sposarsi e fare famiglia, gravemente compromesso dalla precarietà di lungo periodo. Di fronte a questi clamorosi fattori di disagio la parola welfare è scritta sulla sabbia e difficilmente può tradursi con lo star bene.
Formatore manageriale e docente gestione risorse umane, Università Suor Orsola Benincasa
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L’EMOZIONE CHE FA STARE BENE
L’estetica dell’emozione Anja Puntari*
Per oltre un decennio della mia vita ho assaporato il mondo dell’arte contemporanea. Ho conosciuto le persone che popolano questo territorio, quelle famose e quelle che invece lo sono di meno. Ho visto tante opere d’arte: mi sono emozionata, mi sono fatta coinvolgere, sono cresciuta a contatto con esse. Di opere ne ho realizzate anch’io. Ho vissuto l’ebbrezza, la gioia, l’energia, la frustrazione e il senso di vuoto; tutte le sfumature delle emozioni che accompagnano la creazione delle opere d’arte, come anche il coinvolgimento intellettuale che ha come obiettivo di dare un senso alla vita e al mondo in cui viviamo. Poi, un po’ per interesse e tanto per caso, ho iniziato a lavorare fuori dai confini del mondo dell’arte; sono anche diventata un’imprenditrice o almeno parte di un gruppo di persone che prova a fare impresa. Oggi la mia principale attività è sostenere le organizzazioni in qualità di Business Coach. Da questo ‘osservatorio’ quotidiano, vedo che nel mondo delle imprese la dimensione di coinvolgimento e sconvolgimento emotivo, percepita come parte naturale del processo di creazione del nuovo e della crescita nel mondo dell’arte, raramente riceve attenzione. Anzi, pare che l’emozione non venga proprio contemplata come possibile fonte di contributo alla performance delle persone e dell’organizzazione; piuttosto si tende a fingere che non esista, che non faccia parte di noi. Ma la verità è che appena si entra in un posto di lavoro, le emozioni che ci abitano si percepiscono; le emozioni sono lì e passano da persona a persona anche quando vorremmo che non fosse così. Non sto certo dicendo niente di nuovo. David McClelland, sin dalle prime ricerche degli Anni 50 sui temi comportamentali, attribuisce alle emozioni la dimensione causale più profonda dei comportamenti. Negli Anni 90 Daniel Goleman ha spalancato la porta non solo a questa lettura, ma anche alle dimensioni applicative che può avere nella spiegazione dei livelli di performance individuale e collettiva. Eppure, neanche autori e
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teorie di questo calibro hanno fatto davvero breccia nelle prassi quotidiane delle organizzazioni; o almeno non quanto sono riusciti a farlo in termini di diffusione della conoscenza o di vendita nelle librerie. Questo perché, tra la teoria e la pratica –come sempre– occorre un’impegnativa transizione fatta di comportamenti individuali e collettivi da consolidare nel tempo. Su questo consolidamento comportamentale ci ha lavorato anche l’artista americano Jacob Tonski, Assistant Professor presso la Miami University all’Istituto di Interactive Media Studies. Nella sua opera Balance from within, vincitrice dell’edizione 2014 di Ars Elettronica nella categoria ‘Arte interattiva’, vediamo un divano antico poggiato su una gamba soltanto, che sfida la forza di gravità (in foto). In realtà non è perfettamente stabile: visto dal vivo, il mobile oscilla continuamente da un lato all’altro. Dentro il divano si nasconde un motore che lo aiuta costantemente a riacquisire la centratura. Se però qualcuno lo toccasse –basterebbe una spinta piccolissima– l’intera installazione cadrebbe. Il divano è un mobile che invita alla condivisione, alla socializzazione. È un oggetto che letteralmente ci sostiene e le relazioni umane, per Tonski, sono come questo divano, in costante movimento. Devono essere nutrite e alimentate per rimanere in equilibrio. La penso in modo simile. Credo che il benessere profondo nasca dall’essere in equilibrio con se stessi e con gli altri e che questo ‘essere’, tutt’altro che statico, venga fortemente condizionato dal nostro sentire emotivo. Stare in questo flusso richiede fatica e a volte rende le cose poco limpide, specialmente quando parliamo di contesti organizzativi di grandi dimensioni dove l’equilibrio nasce tra tanti attori diversi. Se sulla dimensione organizzativa spesso non abbiamo potere di gestire le cose come vorremmo, sulla dimensione emotiva sì. Come viviamo, elaboriamo e trasmettiamo le emozioni a chi ci sta intorno dipende esclusivamente da noi. Non è quindi una singola emozione che ci fa stare bene, ma è la nostra abilità di stare nella danza delle emozioni che ci porta al benessere.
Artista e Visual Business Coach
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ESSERE O NON ESSERE
Coinvolgere le persone, alla (ri)scoperta di Riboud Antonio Rinetti*
A Marsiglia nel lontano 1972 un produttore francese di vetro, Antoine Riboud, davanti a un’attonita platea di industriali suoi connazionali, pronunciò un discorso che fece epoca e che di fatto aprì la strada a un approccio alle Risorse Umane assolutamente rivoluzionario per il periodo. Dopo un approfondito esame dei motivi per cui il 1968 aveva creato una frattura profonda –se non insanabile– tra i mondi della scuola, del sindacato e delle imprese, Riboud evocò all’interno delle aziende del suo gruppo la necessità di mettere a punto un doppio progetto, economico e sociale, il cui fondamento era che nessuna crescita economica e industriale poteva essere sostenibile senza lo sviluppo, in parallelo, di un progetto di crescita sociale indirizzato a tutti i dipendenti. Nonostante le accuse di utopismo –se non addirittura di filo comunismo da parte della bigotta e conservatrice business community francese– Riboud in breve divenne il più popolare e rispettato ‘patron’ dell’industria transalpina, a capo di marchi come Danone, Kronenburg e Pommery, che acquistò nel giro di breve tempo portando il gruppo a diventare in pochi anni il terzo polo alimentare europeo. Le Direzioni del Personale si trasformarono in Relazioni Umane e Sociali, all’interno delle quali la parola d’ordine era “coinvolgimento”. Formazione permanente all’interno dei luoghi di lavoro e in particolare sugli impianti di produzione; primi e importanti progetti di outplacement collettivo in caso di ristrutturazione; accordi economici basati sulla cointeressenza e la partecipazione ai risultati; forte sviluppo dei cosiddetti ‘house organ’ redatti solo ed esclusivamente dai dipendenti; circoli della qualità (in salsa francese ça va sans dire!): le aziende transalpine del gruppo idearono ed esportarono con successo in tutta Europa un modello vincente e originale di politiche attive che diede frutti importanti per molti anni creando un unicum nel suo genere. Poi, alla soglia del nuovo millennio, ci pensò la Finanza a ridimensionare –e di molto– quanto era stato fatto in precedenza... Ho avuto il privilegio di lavorare in una delle aziende del gruppo guidato da Riboud nel decennio d’oro in cui il ‘doppio progetto economico e sociale’ ebbe un’applicazione capillare anche nel nostro Paese. Non so se fu realizzata l’utopia, ma senza dubbio ricordo con estremo piacere che in quegli anni il luogo di lavoro veniva universalmente
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considerato come una sorta di laboratorio di idee e di progetti in cui il sapere e l’esperienza di ciascuno erano seriamente presi in considerazione e fortemente stimolati. L’approccio di Riboud è stato senza dubbio estremamente pragmatico e business oriented; in ogni caso assai differente dal modello utopistico di Adriano Olivetti, tuttavia ha dimostrato che coinvolgimento, superamento di barriere sociali, formazione permanente, dialogo e responsabilità, possono portare un’azienda –anche tradizionale– a raggiungere risultati di eccellenza e soprattutto sostenibili nel tempo. A quei tempi la globalizzazione emetteva i suoi primi vagiti e di mondializzazione dell’economia, precariato, flessibilità, organizzazione liquida e quant’altro non se ne parlava proprio. Sembra da allora trascorsa un’eternità! Ho letto di recente di una grande multinazionale anglosassone che ha deciso di eliminare le produzioni italiane e di licenziare quasi tutti, operai e impiegati (alcune centinaia), per delocalizzare le attività manifatturiere nell’Europa dell’Est. Nulla di nuovo sotto il sole –ahimè!– perché di casi simili se ne sono visti, e se ne vedranno ancora un’infinità! Tuttavia, leggendo sulla stampa nazionale alcune interviste, si viene a sapere che il Gruppo, in ottemperanza al proprio codice etico, ha recentemente condotto, alla vigilia della chiusura della sede italiana, la solita indagine annuale per conoscere il parere dei propri dipendenti sull’integrità, la soddisfazione sul lavoro, il rispetto dell’etica, la trasparenza... Viene in mente il titolo di un recente film Chiedimi se sono felice: peccato che in quel contesto specifico abbia il sapore della peggiore delle beffe. Le persone sono più intelligenti di quanto molti imprenditori ritengano e sono capaci anche di digerire bocconi amari se c’è nei loro confronti chiarezza e onestà intellettuale. In conclusione: il tempo investito sulle risorse umane in quanto tali verrà sicuramente ripagato e con gli interessi, in termini di produttività, di adesione, di professionalità, valori incommensurabilmente più importanti di tutti i software e degli algoritmi impostici dai guru d’oggigiorno con l’evidente scopo di impoverire sempre di più il lavoro umano arricchendo a dismisura il loro già ricco portafoglio…
Ex Direttore del Personale di un importante istituto bancario e attualmente Consulente HR
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ALTUOFIANCO
Il nuovo servizio sviluppato da Eudaimon attraverso la partnership con Rete ComeTe nasce per perseguire il benessere concreto del lavoratore e della sua famiglia. Il dipendente verrà affiancato nell’orientamento alla rete di servizi di welfare pubblici e privati, e nel conoscere e accedere alle risorse economiche disponibili sul territorio. La figura di supporto per il lavoratore è il Care Manager che, grazie all’esperienza quotidiana di coordinamento dei servizi alla persona, aiuta nella personalizzazione del progetto di assistenza e di cura.
PRESENZA:
AFFIANCAMENTO:
TERRITORIALITÀ:
CAPILLARITÀ:
il Care Manager incontra “di persona” l’utente.
in tutto il percorso di risoluzione del bisogno.
le risposte arrivano dal proprio territorio di riferimento.
è disponibile su tutto il territorio nazionale.
in partnership con
www.eudaimon.it
RISORSE UMANE E NON UMANE
Obiettivi oltre confine Martina Galbiati
Due sono gli elementi costitutivi dello Smart working: le tecnologie abilitanti e il lavoro per obiettivi. Sulle prime si è detto tanto. Sul lavoro per obiettivi forse un po’ meno, ma non si può non riconoscere che al lavoratore smart stiano stretti i classici orari di ufficio, 9-13/14-18. Per lui il lavoro inizia con il gettare le basi di un progetto e termina con la consegna e il feedback del cliente (interno o esterno all’azienda) per cui è stato confezionato. I tempi quindi si dilatano oltre le canoniche otto ore: si costituiscono nuove unità di misura che si chiamano obiettivi e l’obiettivo raggiunto segna la campanella delle 18 che idealmente strillava la fine della giornata di lavoro negli uffici di 10 anni fa. Le tecnologie che ci connettono e permettono ai dati e alle informazioni di scorrere in maniera incessante, a ciclo continuo, dilatano anche gli spazi. Posso lavorare dall’auto, chiamando un cliente dopo aver lanciato un comando vocale al mio computer di bordo (si chiama ancora così?). Posso mandare mail dal cellulare con il dito di una mano mentre con l’altra tengo quella di mio figlio mentre lo accompagno a scuola. Potrei anche scrivere questa rubrica dal letto, alle 23.37, dopo che mia figlia si è addormentata e la mia giornata di mamma si è conclusa (si spera!). Poco fa, mentre ero sdraiata nel letto di fianco a lei e aspettavo che si addormentasse, pensavo che avrei potuto inaugurare una nuova modalità di ‘lavoro’ e portarmelo a letto! Oggi potrebbe essere il giorno giusto perché devo solo scrivere una cartella in Word: non ho bisogno di un piano d’appoggio per fogli e penne e nemmeno di una grande stabilità per manovrare il mouse. Magari la posizione rilassata, seduta con la schiena appoggiata al cuscino e le gambe già mezze sotto le coperte potrebbe anche rendermi più produttiva e far scattare quel ‘flow’ di pensieri che, quando capita, mi fa scrivere la rubrica tutta d’un fiato, come in trance, al limite dello stato di veglia. Interrompo il mio sogno di Smart worker, molto smart e forse poco worker stasera, perché penso che la verità è che oggi sono stanca e mi abbandonerei volentieri al sonno insieme con mia figlia, anziché alzarmi pesantemente dal letto e arrancare verso la cucina per riprendere il lavoro interrotto questo pomeriggio. Faccio appello alla forza di volontà per l’ultimo sprint della giornata e per rispedire al mittente l’idea di lavorare a letto. Perché decido che c’è un limite, o meglio, ci sono dei confini che non voglio superare. E il letto non
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si tocca, perché dopo quello non c’è più nulla. L’ultimo e l’unico tassello della giornata in cui posso ascoltare in silenzio i miei pensieri deve rimanere un luogo sacro, chiuso a chiave e protetto dalla schizofrenia del fare, dell’arrabattarsi, del provare a coordinare tutto. Il confine tra il lavoro e questa dimensione di inattività, di silenzio, di riposo, fino a poco più di un anno fa era rappresentato dalla porta del mio ufficio. Chiusa quella dietro le spalle tiravo un sospiro (di stanchezza più che di sollievo) e le spalle si rilassavano. Le mail erano sempre con me, il telefono mi legava a doppio filo con la mia scrivania, ma il grosso era fatto, e l’extra, fatto a casa o su un treno, era considerato tale e per questo più ‘leggero’. La sicurezza di essere sempre connessa e non perdermi una risposta importante inviata alle 20.30 o alle 8.15 mi dava sicurezza e anche una certa gradevole sensazione di tensione costante in sottofondo (la chiamano ‘sindrome del milanese’). Oggi, che sto sperimentando realmente il lavoro ‘per progetto’, posso anche esprimermi meglio sullo stato di permanente connessione in cui abbiamo il privilegio di lavorare. Quello che mi consente di dedicare tempo alla mia bambina innanzitutto e di mettermi al pc, mandare mail o fare chiamate senza limiti di tempo e luogo, semplicemente quando si può. Nel mio caso, quando l’altro lavoro, quello di mamma, me lo permette. E così il fantomatico ‘tempo libero’ (dal primo lavoro) diventa tempo di lavoro (il secondo) e viceversa: è tutta una questione di priorità, ma tutto il tempo è diventato ‘lavoro’. I confini, temporali o fisici, che prima ci stavano stretti e scomodi, oggi non esistono più. Ora tutto è libertà e la libertà esige autogestione, lucidità e responsabilità. La ‘giornata’ lavorativa si costruisce in base alla propria capacità di organizzarsi e di assumersi l’impegno di portare a termine un compito, rispondendo in primis a se stessi e alla propria disciplina. Per questo lo Smart working non è per tutti. Certamente non è la scappatoia che aspettavano i lavativi, perché il tempo passato in ufficio può anche diminuire, la mail puoi scriverla adagiato sul tuo bel tappeto del salotto sorseggiando l’ultima tisana di tendenza, ma al varco ti aspetta sempre lui, l’implacabile ‘obiettivo’ da raggiungere. Che si tratti di ore o giorni a tenervi lontani, lui aspetta sempre lì, immobile e imperturbabile, che ti avvicini un passo alla volta, non perché il tempo scorre, ma perché il tuo tempo produce.
L’ESSERE DELLE COSE
Spirito Piero Trupia*
Solo i viventi si ammalano, piante animali uomini, non le cose, le quali, semplicemente, mutano, componendosi, ricomponendosi, scomponendosi. La crisi ecologica non è una malattia del Pianeta: passa, semplicemente, a un altro equilibrio che potrà giovare a un’altra specie vivente. L’anidride carbonica, perniciosa per gli uomini, è alimento per le piante. Una cosa è certa: né l’universo né la Terra sono fatti per l’uomo. Ne segue che è l’uomo che deve adattarsi all’ambiente, non viceversa. L’ambiente conserva, in ogni circostanza, la sua “divina indifferenza” (Eugenio Montale). Ci sono però delle malattie umane che danneggiano il malato e gli aventi causa, non via infezione, ma via distorsione relazionale. Sono le malattie dello spirito. “Spirito” può avere diversi significati. Giuseppe Tomasi di Lampedusa soleva dire che “spirito odora di sacrestia”; pensava all’anima, religiosamente intesa. Ci sono gli spiriti animali di chi osa grandi imprese; c’è l’uomo di spirito, detto anche “spiritoso”; c’è il senso conferitogli da Giovanni Gentile nel libro del 1914 Teoria generale dello spirito come atto puro: in questo caso “spirito” è quella capacità soltanto umana, di produrre atti liberi, incondizionati, frutto di scelta e decisione. Il Diritto è fondato sull’esistenza assiomatica di tali atti e non si applica a chi è incapace d’intendere e di volere, di compiere atti puri. Si può smettere in qualsiasi momento una cattiva abitudine, dall’essere sgarbati all’uso di sostanze per tirare avanti –cibo o eroina– se si è in grado di produrre l’atto puro di piantarla lì solo perché lo si è voluto. Attendere il momento opportuno è un autoinganno, suggerito dalla perdita di autonomia legata alla dipendenza. Fu il ridicolo dramma di Zeno, dalla prima sigaretta all’ultima sul letto di morte, sempre convinto che fosse l’ultima ed era la penultima. “In fondo, cos’è un giorno in più”, si ripeteva. La malattia spirituale che tratterò ora è la superbia, o megalomania o sopravvalutazione di sé. Malattia professionale dei filosofi, quei saggi che Platone voleva a capo dello Stato. Lo studente che sfoglia il manuale di Storia della filosofia, può avere seri dubbi sulla sanità mentale dei pensatori, ognuno dei quali demolisce predecessori e contemporanei prima di accingersi alla propria opera. A sua volta, non sarà risparmiato dai posteri.
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La convegnistica filosofica è un jeu de massacre in guanti bianchi, all’insegna dell’ipocrisia accademica: prima le lodi e poi, dopo un “tuttavia”, mazzate. Conclusione: la filosofia non è una scienza cumulativa. Nel V secolo a.C. Anassagora di Clazomene, filosofo e astronomo, ebbe un’idea semplice: l’origine di tutte le cose non può essere una cosa (aria, acqua, fuoco). Esiste ed è un noūs apeiron autokrates (“intelletto sconfinato autopotente”). Disse anche che il Sole non era Apollo, ma una pietra incandescente e la Luna una pietra spenta che prende la sua lucentezza dal Sole e che quella pietra nera che nessuno aveva portato era caduta dal cielo. Fu condannato per empietà e salvato dal suo allievo Pericle. Tra i successori l’unico che lo loda senza riserve è Immanuel Kant. Platone e Aristotele lo attaccarono astiosamente con un sofisma: quel noūs, che Anassagora chiama la cosa più sottile, è una cosa materiale. Ma la parola greca è krematon, una cosa nel senso di ente. Anche altri filosofi hanno enunciato pensieri da valorizzare: Francesco Bacone, Berkley, Hume, Cartesio, Leibniz, Kant, Fichte, Schelling e, tra i contemporanei, Giovanni Gentile. Di nome e di fatto, non attacca i colleghi e in esergo al suo volume, riporta un pensiero di Pascal. Il problema dello spirito, inteso come soggettualità, va affrontato, per rifondare le scienze umane, dette, in Germania, “dello spirito”. Cito tra queste quella psicologia che, volendo essere scientifica, ha cancellato il soggetto. Nell’Arte e nella Letteratura l’autore, in quanto soggetto, è stato destituito e ridotto a un tecnico che applica le regole dell’arte figurativa o del racconto. Nella Psicologia il soggetto è un’entità metafisica non trattabile scientificamente, mentre nell’arte è un residuo del romanticismo, scomparso insieme con esso. Stando così le cose, la Psicologia è diventata un discorso senza soggetto e senza oggetto e l’opera d’arte o una cervellotica installazione che sorprenda e scuota con la sua stranezza o, in letteratura, una combinazione di frasi del tipo di quei thriller redatti da un gruppo di autori specializzati, con la firma di un “autore” da almeno 1 milione di copie. Dall’ispirazione all’evasione.
Linguista, cognitivista e filosofo del linguaggio
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DIRIGENTI DISPERATE
Il benessere non è una passeggiata Chiara Lupi
Il benessere in azienda è una questione accrescere i profitti e tagliare le spese”2. E complessa. Come fare in modo che le perqui ci avviciniamo al punto. Mentre prisone stiano bene e siano costantemente ma il portato personale doveva rimanere tese a dare il meglio? Nel mondo occidenfuori dall’azienda, oggi l’individuo vietale ha fatto breccia la politica dell’incentine sollecitato a condividere conoscenze, vo (chi pilota un aereo farà il possibile per passioni, hobby… L’obiettivo è evitare la riportare i passeggeri a terra, ma chi sull’astandardizzazione, promuovere l’innovaereo non ci sale, sarà motivato allo stesso zione, combattere l’appiattimento. Un bel modo ad avvitare i bulloni dei carrelli?). cambio di paradigma dalle pianificazioni Le filosofie orientali queste dinamiche le tayloriste... Oggi il dipendente non è più hanno già risolte con il senso del dovere parte fungibile di un ingranaggio, ma dalche nasce per esempio dall’idea del karma Marc Chagall, La passeggiata le sue scelte dipendono i risultati di busie il problema di incentivare a fare di più e ness. Una dinamica che vuole alimentare meglio non si pone con la stessa rilevanza. il senso di autoaffermazione del dipenDa questa parte del mondo invece far star bene le persodente e, al contempo, nutrire il suo desiderio di appartene, rispondere ai loro bisogni, prendersi cura rientra tra le nenza, con l’accordo che le scelte individuali troveranno un strategie aziendali, tanto che emerge una nuova figura proriconoscimento (l’incentivo, appunto). fessionale, il Welfare Manager. Ma cosa ci sta dietro? Ho Beh, il cambiamento non è da poco. Non è più sufficientrovato risposte interessanti nell’ultimo libro di Zygmunt te portare in azienda le proprie competenze, ora diventa Bauman, Retrotopia, lettura che consigliamo in questo necessario contribuire al benessere collettivo (i risultati di numero. Stiamo navigando a ritroso, sostiene il filosofo, il business). Le persone saranno all’altezza delle aspettative? futuro non rappresenta più una speranza ma, al contrario, Da chi saranno giudicate? I riconoscimenti saranno adeè generatore di incubi: dalla perdita del lavoro, alle scarsità guati? Le imprese non acquisiscono più solo competenze di prospettive che possiamo offrire ai giovani. da mettere a valore all’interno di un tempo definito. Ora le Cosa sta succedendo? L’interpretazione del filosofo meriaziende chiedono una disponibilità totale, che va ben oltre ta di essere considerata. L’uomo ha combattuto una guerl’orario e il luogo di lavoro. Una situazione parecchio anra contro legami, obblighi e impegni sociali e morali che siogena, che non è affatto detto tutti abbiano la capacità di vincolano le scelte, in modo da essere libero di affermagestire. Ecco che parlare di benessere in azienda diventa esre la propria identità. Una vittoria di Pirro, l’ha definita senziale, perché è cambiato il patto, l’ingaggio tra l’azienda Bauman, in quanto “si è ritrovato libero da interferenze e la persona non si fonda più sulle stesse basi. ma anche da aiuti esterni, privato di quel capitale sociale Oggi, oltretutto, in azienda sono già entrati altri attori con indispensabile per esercitare quel diritto all’autoaffermai quali dobbiamo essere capaci di entrare in relazione: mi zione per il quale tanto duramente aveva combattuto”1. riferisco ai robot, con i quali dovremo imparare a collaboTradotto: la società contemporanea concede all’individuo rare per governarli a nostro vantaggio e non per esserne una possibilità di affermazione che non ha corrispettivi governati. Per questo bisogna essere preparati e formarsi con il passato ma, al contempo, tende a sfumare sempre sarà l’investimento più sensato che ognuno di noi potrà più i confini all’interno dei quali potersi esprimere. L’infare per garantirsi la propria dose di benessere. Per stare dividuo è libero, ma dove? Oggi il desiderio di coltivare bene dobbiamo fare un costante lavoro su noi stessi, per una autonomia di pensiero e il fisiologico bisogno di apcomprendere il futuro anziché temerlo. Solo così potrepartenenza possono coesistere. E qui sta la novità. La mo sentirci leggeri, in equilibrio, come la compagna del nuova filosofia manageriale, prosegue Bauman, “trova pittore Chagall nella Passeggiata. Una tela dal significato nella diffusa aspirazione a conciliare la sicurezza dell’apstraordinario. Ognuno la può leggere come vuole, a noi partenenza con l’indisponibilità a rinunciare ai vantaggi interessa il patto tra i due coniugi. Ricrearlo in azienda dell’autonomia individuale una gradita opportunità per potrebbe essere un buon proponimento. 1 2
Bauman Z. (2017), Retrotopia, Laterza, Bari, 46. Ivi, 47.
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STORIA DI COPERTINA
Prima di farci volere bene dall’azienda impariamo a identificarci con l’impresa Franca Olivetti Manoukian “Non chiederti cosa il tuo Paese possa fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”, diceva John Fitzgerald Kennedy. Anche in azienda la sua lezione è valida: per farsi ‘voler bene’ dall’organizzazione è necessario che le persone si mettano in gioco, non assestandosi soltanto in un ruolo di ‘dipendente’ (termine che rimanda a una posizione subordinata e passiva) in modo da assumere modalità attive e interagire con i contenuti del lavoro e con la stessa organizzazione. L’impresa deve creare le condizioni per rendere possibile alle persone prendere parte (non solo essere parte) alla produzione e, nello stesso tempo, allo sviluppo, alla crescita e ai cambiamenti imposti dalle trasformazioni del contesto globale.
Franca Olivetti Manoukian, psicosociologa, è socia fondatrice dello Studio APS – Studio Analisi Psicosociologica. Da 30 anni svolge attività di formazione, consulenza organizzativa e ricerca, in particolare presso organizzazioni che producono servizi.
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Per lavorare bene e star bene è cruciale che ci si identifichi, almeno in parte, con l’organizzazione e questo implica che l’organizzazione stessa sia in grado di riconoscere e ascoltare le persone, che riesca a valorizzare l’apporto che possono dare non solo a partire da quello che serve immediatamente all’azienda, ma anche da quello che ciascuno può ricercare ed esprimere. È questa la strada per tentare di costruire un benessere possibile nelle situazioni lavorative, in questo periodo storico, nel nostro Paese, esposte a tanti travagli? La risposta è sì, se si propone di richiamare quanto sia strategico mettere in primo piano i rapporti che collegano reciprocamente organizzazione e singoli, ricordando come comunque questi abbiano un peso centrale. Non va dimenticato che, nelle organizzazioni che producono servizi (e le stesse aziende che producono beni non possono esimersi dall’erogare servizi ai propri clienti), il fattore centrale per la realizzazione della produzione e per il funzionamento organizzativo è costituito dal personale, la famosa personnel idea indicata con chiarezza ancora parecchi anni fa da Richard Norman. Condivisione per ottenere benessere È altresì importante tenere a mente che singoli e aziende sono collocati in un contesto sociale turbolento attraversato da disagi di ogni genere che inevitabilmente si riversano nelle vicende lavorative, disagi che a volte sono subìti più che capiti, non sono eliminabili, ma spesso vengono anche gestiti con modalità che li aggravano anziché contenerli. Perché sono così diffuse le domande di sicurezza, le richieste di avere certezze rispetto alle condizioni di vita e al proprio assetto lavorativo presente e futuro? Le famiglie e le persone si trovano al centro di pressioni contrastanti: da un lato si sentono oberate di compiti di mantenimento, accudimento, assistenza, educazione, di preoccupa-
zioni per la salute, l’abitazione, il reddito; dall’altro sono continuamente richiamate allo star bene, all’essere felici e serene, ben collocate e disponibili anche a offrire volontariamente tempo ed energie per la collettività. Due considerazioni andrebbero più chiaramente acquisite. Nel 2018, nel nostro Paese ciascuno di noi non può immaginare di essere pienamente felice. Lo ‘star bene’ o il ‘ben-essere’ è raggiungibile in modo parziale, per aspetti circoscritti e per tempi limitati. E, dall’altra parte, non si dà se non insieme con altri in un ambito relazionale aperto a scambi e condivisioni. Non appare pertanto realistico, ma neppure auspicabile, chiedere all’impresa di garantire benessere (chiedendo in questo senso di ‘voler
bene’ ai propri dipendenti), perché non sono soltanto le retribuzioni a migliorare definitivamente le condizioni di vita e perché un welfare di stampo paternalistico rischia di riservare privilegi comunque fragili e provvisori. Un contesto di vita positivo va costruito con la partecipazione di più attori coinvolti, istituzioni e cittadini, enti pubblici e aziende private, sindacati e scuole, servizi per la salute e associazioni di volontariato. Conoscere i ‘problemi’ di tutti Un primo passo consiste nel conoscere meglio i ‘problemi’ di ciascuno e di tutti; e il secondo consiste nel rappresentarli, nel farli comprendere e nel condivi-
Collaborazione e supporto reciproco per un business sfidante di Veronica Pastaro A Fara Gera D’Adda nel Bergamasco, Sonzogni Camme, fornitrice di sistemi tecnologici evoluti per l’industria meccanica, viene considerata senza dubbio uno fra i pionieri in materia di benessere, già per costituzione a partire dal 1964, quando ancora era una piccola realtà attenta ai bisogni delle proprie persone. Poi “il concetto di famiglia estesa è cresciuto insieme con le dimensioni dell’azienda, fino a oggi che contiamo quasi 70 dipendenti”, dichiara con orgoglio Manuel Guerrero, CEO & Managing Director di Sonzogni Camme. Questa è soltanto una delle ragioni che ha portato l’azienda a vincere il premio Welfare Index PMI, un riconoscimento per le Piccole e medie imprese virtuose del nostro Paese rispetto al Rapporto sullo sviluppo del Welfare aziendale promosso da Generali Italia. Fin dal principio, infatti, la cura nei confronti delle persone si è dimostrata attraverso i contatti telefonici durante tempi di assenze o di malattia prolungati, per far sentire la vicinanza dell’azienda; negli Anni 70 si iniziava a considerare il peManuel Guerrero, CEO riodo di malattia o maternità nel computo per la maturazione di eventuali pre& Managing Director di Sonzogni Camme mi e con il 1976 il premio di produttività è diventato fisso, indipendentemente dall’andamento economico dell’azienda: “Si può considerare a tutti gli effetti una 14esima mensilità che si mantiene fino a oggi”, puntualizza Guerrero. Dagli Anni 80 poi è stata prevista una mensa aziendale, formazione garantita per tutti i dipendenti, TFR erogato oltre ai limiti di legge, retribuzione al 100% per le ore di permesso per visite mediche, per i giorni di festività che cadono di sabato o domenica, così come altre casistiche che vengono retribuite nella totalità, anche oltre le norme vigenti. “È importante per noi trasmettere il messaggio che è molto più importante la persona rispetto agli obblighi minimi di legge”. Dal 2006 la gestione delle Risorse Umane è stata caratterizzata dalla concessione di un gran numero di part time a tutte le persone che l’hanno richiesto, tanto che oggi il 75% delle donne in forza lavora metà giornata. Un altro elemento cruciale per il riconoscimento del premio a Sonzogni Camme è stata la pratica del job sharing: “Abbiamo certi ruoli dove due persone lavorano part time e condividono la stessa funzione”, racconta il CEO. “Entrambe, per motivazioni personali, familiari o di salute, sono impossibilitate a rimanere in ufficio per l’intera giornata: in questo modo possiamo avere due persone contente e anche l’azienda stessa può ritenersi soddisfatta, poiché di fatto il ruolo è coperto da due figure molto motivate. Chiaramente è una dinamica win-win”. Il ritorno si può misurare a partire dalla grande collaborazione che mettono in campo tutti i dipendenti di Sonzogni Camme: “Di recente abbiamo avuto una flessione del fatturato e le persone si sono rese disponibili a prendere più giorni di ferie per ridurre il saldo ferie e permessi. L’anno successivo, nel 2017, abbiamo avuto un aumento della produzione notevole e tutti hanno investito tempo ed energie in ore di straordinari. Ciò consente di portare a termine progetti sfidanti che in circostanze differenti sarebbe impensabile realizzare”. Per offrire qualche numero, Guerrero aggiunge: “Il 2017 ha vista una crescita di fatturato del +14%, sfiorando i 10 milioni di euro, un risultato che sarebbe stato impossibile senza il supporto dei dipendenti e della motivazione che sanno mettere in campo”.
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© Stefano Vergani, Scuola del Fumetto di Milano
dere con gli attori sociali che hanno responsabilità di governo e di direzione, di allocazione delle risorse, di promozione di nuove iniziative, sostegno alla cittadinanza attiva e tutela della qualità della convivenza. È questo il percorso per costruire quello che oggi viene considerato il welfare realisticamente raggiungibile, il cosiddetto ‘welfare di comunità’. Una simile tipologia prevede il coinvolgimento di vari soggetti del territorio interagenti entro un ecosistema, per dare vita a connessioni che permettano di arrivare a rappresentazioni dei problemi più lucide e approfondite, più confrontate e più attendibili. La stessa possibilità di disporre di una conoscenza più adeguata delle difficoltà e degli interrogativi che inquietano nella vita quotidiana permette ai singoli di collocarsi, di padroneggiare un po’ meglio quello che non va come ci si aspetta o si desidera, alleggerisce i pesi, apre a sguardi più positivi su quello che ci circonda, consente di investire meglio nel lavoro. Se, per esempio, ci si trova con un figlio adolescente che rifiuta di andare a scuola o con un genitore anziano che dà segnali di demenza incipiente, si può evitare di chiudersi nelle proprie angosce, collegarsi con altre famiglie, interagire con servizi pubblici e con iniziative sostenute da associazioni… Le persone possono avere a disposizione maggiori risorse grazie alle relazioni, grazie al cosiddetto ‘capitale sociale’,
ovvero a quell’insieme di rapporti che li connettono in diverse forme e con diverse intensità ad altre persone, famiglie, gruppi. Oggi questo è davvero un patrimonio prezioso.
Il lavoro per essere responsabili del proprio benessere di Francesco Varanini Non si può progettare, se non ci si sente gettati in una situazione che esige un buon progetto. Non si può lavorare bene, se non ci si sente partecipi di ciò che ci sta facendo, se non ci si sente coinvolti nei motivi e nei fini dell’azione. Non si può lavorare bene se non si sta bene, ma anche: non si può stare bene se non si lavora bene. Esiste una notevole propaganda a favore di un atteggiamento di disinteresse per il lavoro. Si dice: “Non lasciatevi coinvolgere, perché vi stanno sfruttando, vi stanno rubando il vostro tempo, la vostra intelligenza, la stessa vostra affettività”. Le persone sono così invitate a vivere nel ‘tempo libero’, solo quando il tempo di lavoro è terminato. Simili atteggiamenti danneggiano ovviamente l’impresa, perché il malessere personale e la disaffezione si riflettono negativamente sulla qualità dei prodotti e dei servizi ai quali la persona è chiamata a lavorare. Ma –come opportunamente ci ricorda Franca Olivetti Manoukian– il prendere le distanze dal proprio lavoro danneggia anche gravemente la persona stessa, ogni persona. La personale ricerca del proprio ‘star bene’ non può escludere il tempo di lavoro. Anche se quel capo, quel ‘padrone’, quella azienda non si meritano il nostro lavoro, anche allora vale la pena di lavorare bene. Lavorando realizziamo noi stessi, costruiamo la nostra autostima, coltiviamo la nostra dignità. Lavorando bene nonostante tutto, lavoriamo su noi stessi, costruendo il personalissimo percorso che ci porta al benessere. Perciò, per responsabilità di fronte a se stessi, conviene lavorar bene anche in condizioni di difficoltà, anche se il contesto resta ingiusto, anche se lo vediamo giorno dopo giorno cambiare in peggio. Questo orientamento personale, ovviamente, non deve essere inteso come modo per scaricare sul soggetto la responsabilità dell’istituzione. All’istituzione, a ogni azienda, e in particolare alla Direzione del Personale dell’azienda, compete non solo il garantire una giusta remunerazione, non solo la creazione di un clima orientato allo ‘star bene’, ma anche, e soprattutto, il favorire il coinvolgimento, la partecipazione ‘emotiva’ al lavoro, a ciò che ogni persona è chiamata a fare. Quindi, come scrive Olivetti Manoukian, si tratta di lavorare per il passaggio “da dipendente a soggetto attivo”. E, sempre, “lo stare bene in azienda è un rapporto ‘a due’; alla persona fa da contraltare l’impresa”.
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Chi vive un disagio sociale, spesso, è qualcuno che è povero di relazioni. Pensiamo ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro privi di un retroterra familiare e sociale, di una rete di conoscenze e contatti con ambienti differenti: pur dotati di diplomi e lauree ottenuti con sacrifici da uno o più cicli di studi, non trovano un lavoro o vivono lunghi periodi di attesa, con continui rinvii e palleggi da un’esperienza all’altra (a tal proposito si veda il grafico): gli ultimi dati Istat diffusi a metà gennaio 2018 indicano che nella fascia di età 15-24 anni il tasso di occupazione è inferiore al 18% (dato tuttavia in aumento di 0,5 punti percentuali rispetto alla rilevazione di ottobre 2017). Da dipendente a soggetto attivo Dovrebbe essere ormai ampiamente e diffusamente acquisito che vada accantonata la visione dell’azienda come ‘padrone’ che accumula profitti attraverso lo ‘sfruttamento’ della classe operaia o dei lavoratori. I singoli prestano la loro opera nell’organizzazione e con l’organizzazione per realizzare dei prodotti-servizi intrinsecamente impregnati delle loro capacità e competenze. Non si arriva a produrre eseguendo soltanto quello che è prescritto nelle procedure. I prodotti, per essere qualitativamente apprezzabili e apprezzati, richiedono investimenti e identificazioni con i contenuti del lavoro e anche con l’azienda. Si tratta di sostenere identificazioni reciproche che possano non essere inquadrate soltanto nel rapporto datore di lavoro-lavoratore, mobilitato soltanto dalla contrattazione sulle retribuzioni. Gli uni e gli altri sono chiamati a ricollocarsi nel contesto per ricercare e realizzare condizioni di lavoro più soddisfacenti tenendo conto di ciò che può essere modificato all’interno dell’organizzazione e di ciò che va considerato e predisposto all’esterno. A tutti tocca interrogarsi per davvero su ciò che può consentire di rendere la vita più soddisfacente e investire sulle capacità di capire che cosa può far star meglio. E
John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) è stato il 35esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, impegnato nella lotta per la tutela dei diritti dei neri e nella creazione di un clima di rispetto e tolleranza fra i popoli
Fig. 14–15
La disoccupazione giovanile in Italia TASSI % SULLA POPOLAZIONE ATTIVA Disoccupazione giovanile (15-24 anni)
45
43,3%
42,7%
Disoccupazione generale
41,6%
40
39,3%
38,0%
37,5%
11,6%
11,6%
35 12,8%
12,6%
12,3%
11,6%
10 5
0 I 14
II 14
III 14
IV 14
I 15
II 15
III 15
IV 15
I 16
II 16
III 16
Fonte: ISTAT
Occupazione maschile e femminile in Italia TASSI % SULLA POPOLAZIONE ATTIVA 15-64 ANNI, DATI DESTAGIONALIZZATI Maschi
Femmine
70
65 64,5%
64,7%
65,0%
46,9%
47,0%
65,9%
66,0%
66,5%
47,2%
47,6%
48,1%
60
55
50 46,7% 45
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Fonte: ISTAT
I dati sulla disoccupazione giovanile in Italia (sopra) e
i dati sull’occupazione di genere nelPMI nostro Paese(sotto). 20 WELFARE INDEX — RAPPORTO 2017 Fonte: Istat
questo permette di ‘orientare il clima aziendale’: nelle interazioni tra singoli e organizzazione –cercando di sciogliere via via incomprensioni, dissidi, errori e malintesi– si va a costruire il benessere che è di ciascuno e dell’organizzazione nel suo insieme. “Sentire il lavoro come parte integrante della propria vita significa dare il meglio di sé, a casa come tra i colleghi. Con tutti i vantaggi che ne derivano, per la persona, l’ambiente, i risultati”, è scritto nel Rapporto 2017 Welfare Index PMI – Il welfare aziendale fa crescere l'impresa. Infatti, lo stare bene in azienda è un rapporto ‘a due’; alla persona fa da contraltare l’impresa, come è anche precisato nello studio Welfare Index PMI: “È un percorso culturale da fare insieme: imprenditori e collaboratori, in primis”.
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Occuparsi del benessere dei dipendenti non è strategia, ma una scelta di cuore Elisabetta de Luca Se è molto semplice trovare multinazionali che hanno numerosi progetti dedicati al benessere delle loro persone è perché hanno intuito, prima delle aziende più piccole, che avere le persone felici a lavoro, le rende più produttive. Le PMI non sempre seguono l’esempio delle grandi, preoccupate dei costi (e dell’impegno) che qualsiasi iniziativa comporta. Ma c’è chi ha trovato un motore diverso per spingere verso il wellbeing: ricordarsi cosa significa essere un dipendente frustrato e prendersi la responsabilità di migliorare la vita lavorativa delle persone. Una scelta di cuore, quindi, e non ‘di portafoglio’. Dai dati raccolti dall’Agenda HR, l’annuale ricerca sui trend e le sfide per chi si occupa di gestire le persone che OD&M realizza con ESTE (per approfondire, leggere il report della presentazione dei dati, a pagina 40), è emerso che gli Amministratori Delegati nel 2018 puntano a implementare il wellbeing dei dipendenti, perché occuparsi del benessere delle persone aumenta la produttività. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo…i costi. Da una ricerca effettuata da Willis Towers Watson, società leader nella consulenza direzionale e organizzativa, è emerso che ben il 64% dei datori di lavoro italiani è preoccupato per la crescita dei costi dei benefit (a fronte del 55% dell’area Emea); il 50% per l’impatto dei cambiamenti normativi e il cambiamento dei benefit obbligatori; il 44% di avere un budget insufficiente per realizzare i cambiamenti necessari nei piani di benefit. L’Italia non è sola: il 58% delle aziende dell’Europa occidentale dichiara di non aver pianificato una strategia in tema di salute e benessere per i propri dipendenti, nonostante questo sia considerato un aspetto fondamentale per attrarre nuovi talenti. Cosa spinge, allora, la Direzione a occuparsi di benessere? Spesso, purtroppo, è la voglia di seguire una moda. Dalla ricerca è emerso, infatti, che “troppe aziende non hanno una chiara conoscenza di quanto stanno spendendo in benessere e della ragione per cui lo stanno facendo”. Così facendo si corre il rischio di vanificare l’investimento. Ma, l’indagine svolta da Persone&Conosceze tra aziende virtuose sul tema benessere individua un altro motore che dà avvio a progetti dedicati al wellbeing (così come al welfare): le esperienze personali di chi gestisce le persone. Strategia? Sì, ma anche cuore. Nel nostro viaggio, infatti, abbiamo incontrato chi ha vissuto in prima persona l’assenza di politiche di conciliazione nella azienda per cui lavorava; chi è stato un dipendente e ha perso il lavoro prima di fare l’imprenditore; chi si interroga su come occuparsi degli operai in fabbrica; chi è cresciuto nella propria azienda e vuole ringraziare le persone che hanno contribuito al successo dell’impresa. Quando benessere fa rima con conciliazione Nel 1980, Mariarosaria Scherillo vive a Napoli, è all’ultimo anno di liceo scientifico, è incinta e la sua scuola ha subito i danni del terremoto. Non sembra l’incipit di una storia a lieto fine e invece lo è, perché, dopo essere stata segnalata tra i migliori neodiplomati, a 24 anni Scherillo ha già avuto incarichi da dirigente e decide di fondare a Bari, insieme con l’azienda per la quale lavora, Computer Levante Engineering, oggi CLE, azienda di Information Technology, per riuscire a conciliare l’essere mamma e il lavoro. CLE negli anni ha cambiato pelle per adattarsi al mercato e oggi ha due sedi, a Bari e a Milano, 35 dipendenti e quattro business unit. Il prodotto di punta di CLE è ‘Resettami’: la soluzione per la gestione dell’assistenza domiciliare socio-sanitaria dei pazienti, in grado di condividere il percorso di cura tramite una piattaforma in cloud. Tutte le scelte imprenditoriali compiute da Scherillo sono state dettate dalla sua esperienza personale: “Ho fondato la mia azienda 30 anni fa, quando nell’IT c’erano pochissime imprenditrici. Anche
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Mariarosaria Scherillo, Amministratore unico di CLE
quando avevamo numeri più piccoli mi sono occupata di benessere organizzativo, perché ritengo che prima di tutto la conciliazione vita-lavoro, soprattutto per le donne, sia fondamentale”. Ecco perché in CLE sono previsti contratti part time, Smart working, telelavoro e Job Sharing: “Benefici riservati non solo alle mamme, ma anche ai papà”. Nella sua azienda Scherillo ha voluto ‘Cleden’, uno spazio all’aperto dove possono trascorrere le giornate i figli dei dipendenti da maggio a ottobre, quando gli asili e le scuole chiudono i battenti: “Ho voluto questo spazio che nel nome richiama l’Eden, il Paradiso, perché so bene quanto sia difficile doversi occupare dei figli quando si ha un lavoro a tempo pieno. Così ho invitato i nonni, i genitori dei miei dipendenti, a occuparsi dei piccoli che in Cleden possono giocare, fare i compiti delle vacanze e la merenda, sotto l’occhio vigile dei genitori che, se vogliono, in pausa, possono passare a salutarli”. Nel prossimo futuro in CLE nascerà una nursery con percorsi di accompagnamento per le mamme, dalla gravidanza sino al primo anno d’età. Oltre all’esperienza personale, a spingere l’imprenditrice ad attuare politiche di conciliazione è stata la voglia di migliorarsi: “Ogni capo azienda dovrebbe avere l’umiltà di guardarsi intorno e imparare dagli altri; come avviene per le nuove tecnologie o per i nuovi macchinari, così è importante aprirsi al tema del benessere per crescere. Per avere successo bisogna creare buone relazione e attivare la comunicazione, fare in modo che le persone possano esprimere il proprio talento e sentirsi nel posto migliore in cui possano essere”. Il benessere in fabbrica Se le politiche di conciliazione sono di più facile applicazione in un’azienda che si occupa di sviluppare tecnologie, lo stesso non può dirsi per le linee produttive. Sono ancora molto pochi i progetti di Smart production e tutti in fase sperimentale. Come occuparsi, allora, del benessere di chi lavora in fabbrica? Qualche esempio ce lo fornisce Marisa Di Sanza, HR Manager Italian Plants e Industrial Relations del Gruppo Campari, azienda leader nell’industria del beverage, che nella sua lunga esperienza è riuscita a lanciare diversi progetti per gli operai che lavorano negli stabilimenti: “Sono idee semplici che però migliorano, seppur in piccolo, la vita dei lavoratori”. Di Sanza ha deciso di puntare prima di tutto sulla salute e sulla sicurezza dei dipendenti, un aspetto fondamentale che troppo spesso viene (ancora) ignorato, se si pensa che nel 2017, soprattutto nelle aziende del Nord Italia, si sono registrati circa 2mila incidenti in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (fonte Istat). “In CamMarisa Di Sanza, HR pari facciamo tanta formazione Manager Italian Plants sul tema della salute e sicurezza. e Industrial Relations L’età media è di 45 anni, non del Gruppo Campari
abbiamo ancora il problema dell’invecchiamento, ma puntiamo molto sulla prevenzione sia per gli infortuni sia per i problemi di salute”. Diverse sono le iniziative dedicate al mantenimento di una buona forma fisica: “A novembre, diamo gratuitamente la possibilità di vaccinarsi contro l’influenza. Inoltre, concediamo, su richiesta, massimo quattro ore di permesso retribuito giornaliero per dare la possibilità a tutti di sottoporsi ai trattamenti sanitari”. Ma la salute passa anche dal cibo: “Abbiamo un mensa gratuita per tutti gli operai, aperta sia a pranzo sia a cena, dove i pasti sono preparati al momento e i menù variano giornalmente, in base ai prodotti di stagione”. Ultimamente sono stati introdotti ‘menu welness’ e ‘menu a tema regionale’ o legati a festività ricorrenti, oltre all’inserimento di menu riservati alle persone con particolari patologie”. Altra ‘coccola’ che in Campari riservano agli operai è il lavaggio della divisa, che non è solo un indumento ma un dispositivo di protezione individuale: “I nostri dipendenti lasciano gli abiti da lavoro dotati di chip nell’armadietto, dove li ritrovano settimanalmente puliti e stirati”. Garantire a tutti un orizzonte Partire dallo scaricare i pacchi per arrivare a diventare Responsabile di Stabilimento. Il sogno di tanti che Davide Cammi, Direttore di Stabilimento di Noberasco è riuscito a realizzare. Quel Natale frenetico passato tra i cesti di frutta secca dopo il diploma come perito tecnico industriale, non l’ha mai dimenticato: aveva avuto una proposta più allettante da un’altra azienda, ma decise di rimanere in Noberasco per tenere fede agli impegni presi, strappando la promessa al suo superiore di essere spostato in seguito nell’area Qualità. La sua lealtà l’ha premiato. Questa esperienza l’ha aiutato a crescere dal punto di vista professionale Davide Cammi, (e umano) e l’accompagna anco- Direttore di Stabilimento di ra oggi nel suo lavoro all’interno Noberasco dell’azienda leader nel mercato della frutta secca: “Garantire il benessere dei dipendenti significa garantire a tutti di essere gratificati, trasmettere l’idea che chiunque può lasciare un segno, avere uno scopo”. Idee che cerca di trasmettere anche alle nuove leve. Con l’ufficio HR, infatti, Cammi ha fondato un’accademy in Noberasco: “Grazie al supporto di una nota agenzia interinale e FORMA.TEMP, il fondo per la formazione dei lavoratori, abbiamo organizzato un corso di 156 ore, al termine del quale rilasciamo un attestato. Insegniamo ai ragazzi che provengono dagli Istituti Tecnici, prima di tutto, come si lavora in sicurezza sulla linea produttiva, poi nozioni di lean manufacturing, in particolare come gestire gli spazi di lavoro, anche attraverso prove ‘sul campo’”. Il progetto, che ha avuto un buon successo, è arrivato alla quinta edizione: “I partecipanti hanno un rimborso spese,
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piccolo dal punto di vista del guadagno, ma significativo in termini di attraction. Inoltre, riusciamo a inserire qualcuno di loro in azienda tramite tirocini finalizzati all’assunzione”. Anche in Noberasco è molto sentita la prevenzione in termini di sicurezza: “Abbiamo il progetto ‘Zero Infortuni’, un percorso sì di formazione, ma soprattutto di sensibilizzazione sul tema per tutta l’azienda, dai capi, fino al singolo operaio”.
con i soci fondatori, di occuparmi del loro benessere”. Così Manfredi, con suoi soci, si è rimboccato le maniche per creare “una società di persone, non di numeri in libro paga che valorizzasse le persone, le esperienze, le professionalità”: “Abbiamo proposto ai nostri colleghi di agire insieme verso un’unica direzione, per uscire dall’incubo. Abbiamo dato loro e ci siamo dati un motivo per continuare a lottare. Così la nostra forza, il collante emotivo, è diventata la coesione”.
Passare dall’essere ‘io e l’azienda’ a ‘io azienda’ Un’altra persona che è passata ‘dall’altro lato della barricata’ e da dipendente è diventato imprenditore è Salvatore Manfredi, Presidente di Fenix Pharma, la prima cooperativa farmaceutica in Italia. A differenza di Cammi di Noberasco, si è trovato a dover realizzare non solo il suo sogno, ma anche quello dei suoi compagni di avventura che, come lui, avevano perso il lavoro. Andiamo per gradi: nel 2011 Warner Chilcott, azienda farmaceutica americana, decise di dismettere tutte le attività in Europa, lasciando 550 persone senza lavoro, di cui circa 160 in Italia, nonostante solo due anni prima avesse acquisito il ramo farmaceutico di Procter&Gamble. Dalle ceneri di questa sconfitta è nata l’idea di cinque ex manager, tra cui Manfredi, di far rivivere l’azienSalvatore Manfredi, da, come una mitologica fenice: Presidente di Fenix “Abbiamo scelto questo nome Pharma proprio per simboleggiare la rinascita. Oggi abbiamo 43 soci lavoratori e 50 commerciali, per un fatturato di oltre 9 milioni di euro”. L’esperienza nelle grandi multinazionali ha dato a Manfredi un osservatorio privilegiato in termini di approccio al benessere: “Quando sei il proprietario, per una quota piccola o grande che sia, è più facile sviluppare il senso di appartenenza, perché il benessere nasce dal lavorare per qualcosa che ti appartiene. Nelle multinazionali, invece, bisogna fare formazione per ingaggiare i dipendenti, mentre in una cooperativa è naturale averlo”. Anche la gestione dei benefit cambia quando si è soci lavoratori: “Non prevediamo dei benefici per migliorare la produttività, ma, preservando il senso di uguaglianza, al di là del ruolo che si ricopre, quando si dà un benefit lo si decide insieme, per migliorare la condizione di tutti. Non c’è un processo topdown”. Come dice Manfredi, “il terreno culturale di una cooperativa è diverso da quello di una multinazionale”: “Siamo passati dall’essere ‘io e l’azienda’ a ‘io azienda”. A rinascere nel 2011 non è stata solo un realtà imprenditoriale, ma un gruppo di persone: “Io mi ero già allontanato dalla precedente proprietà e, quando sono tornato per iniziare questa nuova avventura, avevo già superato il trauma del licenziamento. Tutti gli altri, invece, erano molto impauriti, specialmente perché molti superavano i 50 anni di età e si sentivano persi. Mi sono sentito in dovere, insieme
Essere una grande famiglia “La domanda non è se abbiamo iniziative che tutelino il benessere dei nostri dipendenti, ma perché non dovremmo averne?”. Comincia così la nostra chiacchierata con Francesco Pomarico, a capo della Direzione Operativa di Megamark, tra i leader del Sud Italia nella distribuzione organizzata, con oltre 500 punti e all’incirca 5mila dipendenti. La prima iniziativa in Megamark è partita nel 2001, come racconta Pomarico: “Per volere di mio padre, Presidente dell’azienda, abbiamo istituito una Fondazione per sostenere economicamente la famiglia di uno dei nostri collaboratori che si era gravemente ammalato. Ci siamo sentiti parte di quella famiglia in difficoltà e abbiamo deciso di ampliare il progetto”. Il senso di comunità, anzi di famiglia, è il valore portante su cui si basa l’azienda: “Nel nostro territorio mancano policy pensate per il sostegno alle famiglie. Ecco perché, nel 2011, abbiamo lanciato il progetto ‘Giovani talenti’, garantendo delle borse di studio ai figli dei dipendenti che hanno raggiunto buoni risultati scolastici. Inoltre, diamo la possibilità ai ragazzi di andare all’estero per perfezionare l’apprendimento di una lingua straniera”. Come l’imprenditrice di CLE, anche Pomarico ritiene che sia necessario avere l’umiltà di imparare dagli altri, soprattutto dalle orgaPomarico, nizzazioni più grandi: “Durante Francesco a capo della Direzione un viaggio in Spagna, ho ‘ruba- Operativa di to’ l’idea di un grande gruppo Megamark di supermercati di prolungare la maternità un mese in più rispetto ai cinque previsti dalla legge, retribuito regolarmente. Inoltre, doniamo una gift card da 1.000 euro a tutti i neogenitori per contribuire alle spese extra, nel primo anno di vita del figlio”. Il successo delle iniziative in Megamark è dettato dalla bontà dei progetti: “Non facciamo tutto questo per aumentare la produttività, ma anche per migliorare il rapporto con i collaboratori, per trasmettere loro i valori su cui è stata fondata questa azienda che nasce come ditta individuale e che, quando ha iniziato a crescere, la domenica riuniva tutti i dipendenti nella campagna di mio padre per una grigliata. Era un modo per costruire i legami. Ora con 5mila persone è impensabile organizzare momenti del genere, ma attraverso queste iniziative vogliamo far sentire i nostri lavoratori ancora parte della famiglia”.
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STORIA DI COPERTINA
L’ufficio fa spazio al benessere Da residenza a esperienza Luca Brusamolino Le tecnologie abilitano nuovi modi di lavorare in cui il tempo e lo spazio non rappresentano più vincoli, bensì possibilità. I luoghi di lavoro si emancipano dallo spazio ufficio e i tempi in cui essere connessi si dilatano, potenzialmente all’infinito. Eppure oggi più che mai è fondamentale per le aziende che intendono garantirsi elevati livelli di engagement e performance, investire nella creazione di spazi di lavoro che promuovano il benessere dei dipendenti partendo dall’attenzione per alcune variabili fondamentali tra cui il comfort acustico, l’ergonomia, le fonti luminose e il microclima.
Luca Brusamolino è founder di Workitect, realtà di consulenza e progettazione di spazi di lavoro. Si è laureato in Organizzazione e Risorse Umane, presso l’Università degli Studi di Milano, studiando il rapporto tra spazi fisici e persone dal punto di vista organizzativo. Dal 2016 si occupa di consulenza alle aziende nei processi di workplace change e nell’introduzione dello Smart working. Il suo approccio multidisciplinare è dato dall’esperienza come HR, sia in azienda sia in società di consulenza, e come Sales Manager per una multinazionale chimica.
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In un mercato sempre più competitivo, uno degli obiettivi principali delle aziende è quello di aumentare la produttività, concentrandosi sui fattori più importanti che la influenzano così da incrementare la performance dei collaboratori. Per dare il massimo, una persona deve star bene a 360 gradi, deve essere motivata, coinvolta, stimolata. Le aziende non devono fare altro che lavorare sul benessere, identificando prima di tutto i possibili fattori che lo possono minare. Primo tra tutti, lo stress. Lo stress sul luogo di lavoro può influire in modo negativo sulla nostra salute, sia mentale sia fisica, portare al burnout e, soprattutto, ha un impatto negativo sulla performance. Secondo un recente studio dell’American Psychological Association, il 42% delle persone sostiene che il proprio livello di stress è notevolmente aumentato negli ultimi cinque anni. I fattori che lo possono causare sono svariati e uno di quelli spesso poco considerati è l’ambiente lavorativo. Un luogo di lavoro che non favorisce il benessere incide in modo negativo sull’engagement (Engagement and the Global Workplace 2016)], con forti ripercussioni sulla performance. Lo stress inoltre incrementa fenomeni quali l’assenteismo e il meno conosciuto presenteismo, ossia l’andare al lavoro mentre si è malati o non completamente ‘engaged’. Il solo presenteismo, infatti, costa alle aziende americane più di 150 miliardi di dollari l’anno. Molti cercano di affrontare il problema aumentando i benefit legati ai servizi sanitari aggiuntivi ai propri dipendenti. Ma è davvero questa la via da percorrere? Forse sarebbe meglio investire nella prevenzione partendo dal luogo in cui avviene il lavoro, ovvero l’ufficio. Quali sono i principali aspetti che rendono un ambiente di lavoro il luogo che abilita il benessere?
Il coworking è la nuova frontiera dello spazio di lavoro, figlia dell’economia collaborativa: al centro la dimensione sociale del lavoro che si fa condiviso e diffuso
Nella progettazione di uno spazio di lavoro, occorre considerare che esistono vari elementi che incidono positivamente o negativamente sul benessere delle persone, e quindi che hanno un impatto sulla performance. Vediamoli nel dettaglio. Privacy e densità degli spazi Dagli Anni 80 il modello di layout predominante diventa l’open space, che aumenta la densità degli spazi diminuendo i metri quadri per persona, con un risparmio sugli oneri di locazione, di manutenzione e di gestione in genere dell’edificio. Un modello che al vantaggio sui costi aggiunge una miglior comunicazione e trasparenza, ma che porta con sé delle grandi insidie, come per esempio rumore e assenza di privacy. La privacy è uno degli aspetti maggiormente sentiti; pensiamo per esempio alla scrittura di un documento che contiene dati sensibili con il vicino di scrivania che può leggere lo schermo (privacy visiva) o al dover fare una telefonata riservata all’interno di uno spazio aperto e affollato da più persone. Vedremo poi come, grazie allo Smart working e al nuovo modello activity based degli spazi di lavoro, si riescono a contenere i metri quadri necessari ampliando però i confini della sede all’esterno e allo stesso tempo offrendo più varietà di ambienti. Il controllo del rumore–comfort acustico Il rumore è quasi sempre il primo aspetto indicato da chi lavora in ufficio come l’elemento che maggiormente genera un impatto negativo sul proprio lavoro, è causa di stress e disturbi fisici come per esempio il mal di testa, e riduce quindi produttività e performance fino al 40%.
A livello acustico esistono vari accorgimenti che possono mitigarne la percezione: • assorbire il rumore negli spazi aperti e senza pareti utilizzando materiali fonoassorbenti come moquette, pannelli, o arredi; • bloccare il rumore utilizzando pareti, porte e box acustici per quegli ambienti dove è necessaria una maggiore concentrazione e creare una varietà di spazi a seconda dell’attività da svolgere, introducendo anche delle policy di utilizzo degli spazi; • mascherare il rumore attraverso l’emissione di suoni (white noise) che coprono i rumori che possono creare disturbo.
Gli uffici di Google sono uno degli esempi più noti di spazi di lavoro all’avanguardia: utilizzo sapiente del colore, arredi futuristici e postazioni informali sono solo alcuni degli elementi per stimolare la produttività dei dipendenti
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È importante notare però che a livello cognitivo le variabili demografiche e fisiche incidono sulla percezione del rumore come elemento di disturbo e inoltre, per il completamento di alcune attività di routine, essere ‘interrotti’ può essere addirittura di stimolo e aiuto. Ergonomia e movimento Uno dei nemici principali del benessere è la sedentarietà e la scorretta postura, tanto che, secondo uno studio dell’Unione Europea, ogni anno si perdono sette giornate lavorative per problemi all’apparato muscoloscheletrico. Il primo accorgimento è quello di attrezzare la postazione del comfort necessario, con sedute regolabili dotate di supporto lombare e schienale in rete; anche una scrivania elevabile in altezza può essere di grande aiuto per dare la possibilità di lavorare anche in piedi. Oltre a questo, un ufficio con varietà di spazi e varietà di arredi incoraggia il movimento all’interno degli ambienti. Per stimolare la creatività e l’efficienza di alcune riunioni può essere d’aiuto organizzare meeting in piedi o walking meeting. Microclima e benessere termico Il comfort termico è dato dalla giusta combinazione tra temperatura, ricircolo dell’aria e umidità. L’equilibrio tra questi elementi è essenziale per il benessere fisico nell’ambiente di lavoro. Soprattutto negli open space è però difficile trovare il compromesso tra le esigenze di tutti: da uno studio dell’Università di Maastricht (Olanda), pubblicato su Nature Climate Change, si scopre che per le donne la condizione termica ideale sarebbe di 24,5 gradi mentre per gli uomini di 22 gradi. Gli edifici tecnologicamente più avanzati hanno però un controllo centralizzato della temperatura e un ricir-
colo meccanico dell’aria e non permettono agli utenti di aprire le finestre o controllare direttamente la temperatura. Esistono tuttavia dei sensori che misurano il comfort della postazione in termini di temperatura, umidità e ‘pulizia’ dell’aria e comunicano direttamente con i sistemi di Building Management System (BMS) per consentire automatismi per la regolazione e l’attivazione degli impianti. Luce, colori e varietà sensoriale Le persone in genere preferiscono essere circondate da un ambiente naturale che regali emozioni sensoriali diverse nello spazio e nel tempo. La presenza di luce naturale, la variabilità dei colori e la possibilità di essere a contatto con elementi naturali aumenta il benessere migliorando il ritmo cardiaco e il ciclo del sonno, diminuendo le situazioni di stress. Oltre a questo, variare il colore all’interno dell’ambiente può essere d’aiuto per identificare le differenti aree e vie di circolazione. Varietà di spazi e possibilità di scelta: l’Activity Based working Abbiamo accennato in precedenza a un nuovo modello di riferimento per la progettazione degli uffici: l’Activity Based working. Un ufficio in cui a seconda dell’attività da svolgere viene creato un ambiente dedicato e funzionale per “concentrarsi, comunicare, collaborare e contemplare” (Myerson, le 4 C dell’Activity Based working). Questo cambia il paradigma dello spazio ufficio, che passa da un modello basato sulla presenza alla propria scrivania a un modello caratterizzato dalla varietà di spazi non assegnati, in cui le persone possono scegliere a seconda delle necessità dove lavorare.
La sindrome da burnout rappresenta la risposta alla situazione cronica di grande tensione vissuta dal lavoratore. Per prevenirla è possibile intervenire anche sulle variabili che governano lo spazio fisico di lavoro
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È proprio la possibilità di scelta che influisce maggiormente sul benessere; infatti, avere un grado di controllo su una situazione riduce lo stress connesso a essa. Concretamente: per una telefonata riservata c’è un phone booth insonorizzato in cui chiamare in estrema privacy; per concentrarsi vengono create delle aree simili a biblioteche in cui si lavora in silenzio; l’angolino in cui veniva messa la macchinetta del caffè diventa un’area lounge, più ampia e informale, in cui rilassarsi, socializzare e incontrare clienti o colleghi per meeting informali. Il lavoro oggi Grazie alle nuove tecnologie, si amplia il concetto di Activity Based working, aumentando la possibilità di scelta in termini di luoghi di lavoro. La flessibilità si espande e rompe addirittura il binomio ufficio-casa, permettendo alle persone di poter lavorare in luoghi terzi (bar, aeroporti, coworking). In particolare i coworking sono uno dei simboli di questa rivoluzione. Nati dall’esigenza dei lavoratori freelance di avere un ambiente di lavoro funzionale, hanno poi proliferato con il boom delle start up aumentando anche i servizi offerti (eventi, workshop, networking). L’alto tasso di innovazione spinge quindi le aziende a interessarsi ai coworking e a farli sperimentare ai propri collaboratori. Il Remote working inoltre, permette di abbattere anche le barriere temporali. Controllare le mail la mattina mentre si è sul treno o finire un report prima di andare a letto sono azioni che ormai rientrano nella normalità. Vengono meno così i vincoli spaziali e temporali del lavoro. Questi cambiamenti trovano una spinta soprattutto nelle nuove generazioni, prima su tutte i Millenial, che sono cresciuti utilizzando fin da subito la tecnologia. Secondo un sondaggio di OnePoll, tre giovani su cin-
que, nella scelta del proprio lavoro futuro, ritengono essenziale la possibilità di lavorare da remoto. Tuttavia, la tendenza si sta sempre più spostando anche verso le altre fasce d’età; oggi tutti utilizziamo un tablet o uno smartphone nel nostro quotidiano, con la possibilità di essere connessi da ogni luogo e questo si riflette di conseguenza sul luogo di lavoro. Workplace 4.0 Considerando quindi i cambiamenti radicali nei nuovi modi di lavorare, a cosa serve l’ufficio nell’era dello Smart working? Le persone possono scegliere di svolgere le loro attività in qualsiasi luogo, quindi investire sullo spazio fisico di lavoro acquista senso se la sede aziendale si trasforma in un luogo di incontro, di identità e di innovazione. L’essere umano è una creatura sociale e il sentirsi parte di una comunità incide positivamente con il benessere individuale e organizzativo. Investire quindi nel design di un ufficio che rafforzi cultura aziendale e valori e crei delle occasioni di incontro è cruciale per quelle aziende che fanno della collaborazione e della creatività i propri punti di forza. In un contesto globale dove i cambiamenti sono sempre più repentini, la capacità di attrarre nuovi talenti assume un’importanza fondamentale. Ed è anche per questo che le multinazionali stanno investendo molto nella creazione di luoghi di lavoro che facciano sentire le persone parte di vere e proprie comunità. Non solo spazi fisici dunque, ma servizi che permettano di vivere una vera e propria esperienza a tutto tondo, con occasioni di crescita lavorativa e soprattutto personale; corsi di teatro, palestre, possibilità di organizzare mostre ed eventi, sono solo degli esempi di quello che dev’essere l’obiettivo delle Risorse Umane, che sempre di più si occupano di spazi di lavoro: trasformare l’ufficio da ‘residenza a esperienza’.
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La motivazione intrinseca migliora l’ambiente e le performance aziendali Massimo Agnoletti In un contesto così competitivo e dinamico, la chiave del successo aziendale sta nel coltivare e preservare un ambiente lavorativo sereno e stimolante, che considera il benessere psicosociale e la qualità di vita dei dipendenti per garantire risultati in termini di produttività e innovatività nel medio-lungo termine. L’utilizzo del concetto psicologico della motivazione intrinseca non solo è strategicamente importante, ma risulta essere una condizione sine qua non per far prosperare l’azienda evitando di disperdere nel tempo preziose risorse umane sulle quali c’è stato un significativo investimento economico, di competenze specifiche ed emotive.
Massimo Agnoletti è Psicologo con un dottorato di ricerca e un’esperienza formativa e professionale internazionale soprattutto negli Stati Uniti. Dirige il Centro Benessere Psicologico con base a Venezia dove fornisce servizi di supporto psicologico, formazione, consulenza aziendale e conducendo ricerca scientifica a livello internazionale sullo stress e la motivazione intrinseca. Collabora da anni con il Philip Zimbardo, Docente della Stanford University e Robert Cialdini, Docente dell’Arizona State University.
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Dalla concettualizzazione tayloristica del lavoro che considerava fondamentale lo studio ergonomico del movimento e dello sforzo muscolare dei lavoratori, in maniera graduale ma continua, cumulativa e coerente con un mercato che ha sempre più l’esigenza di offrire servizi e prodotti complessi, assistiamo nel tempo a una crescente necessità di introdurre a livello aziendale alcuni concetti chiave psicologici derivati dalla letteratura scientifica per migliorare la gestione delle risorse umane. Uno dei fattori maggiormente sottostimati a livello aziendale, quanto scientificamente studiati negli ultimi 30 anni, sono le motivazioni intrinseche cioè quei processi che ci spingono a essere ingaggiati in attività che scegliamo di fare a prescindere dal fatto che ci siano fonti motivazionali esterne a questa nostra scelta. Quella delle motivazioni intrinseche è un esempio paradigmatico di quanto alcune conoscenze strettamente accademiche, fino a poco tempo fa confinate purtroppo al microcosmo universitario, possano produrre un significativo miglioramento del settore commerciale e produttivo per le importanti conseguenze che possiedono a livello lavorativo. La realizzazione delle motivazioni intrinseche nell’ambiente professionale è, come vedremo, non solo auspicabile, ma necessaria per garantire nel tempo un certo output aziendale. Solo in questi recentissimi anni si sta assistendo a un’implementazione di questo complesso, ma fondamentale concetto (vedi per esempio il fenomeno della gamification aziendale o del settore delle peak performance nel settore del business) a causa dell’esigenza di garantire un alto livello di produttività e innovazione in un team di lavoratori che prevede necessariamente un determinato, e per niente scontato, standard di qualità di vita e benessere percepito dai membri che compongono il team. In maniera più o meno esplicita, per un
principio ‘di necessità virtù’, in ambiente aziendale si utilizzano sempre di più aspetti e conoscenze della psicologia scientifica perché è –e sarà sempre maggiore in futuro– forte l’esigenza di coltivare efficientemente l’ambiente lavorativo dei dipendenti per ottenere migliori risultati commerciali. Se fino a qualche tempo fa questa sembrava una prerogativa di coloro che puntavano all’eccellenza aziendale, oggi in un contesto socioeconomico così fluido e dinamico, ma altrettanto richiedente e stressante, appare più un’esigenza per garantire un minimo di stabilità e prosperità aziendale.
In maniera estrema e per questo forse ancora più chiara, coloro che vivono spesso esperienze legate alle motivazioni intrinseche esprimono questo senso appagante e positivo con frasi del tipo “farei questo lavoro anche se non mi pagassero”, perché percepiscono un valore positivo, nutriente e molto significativo, riconosciuto o meno socialmente, nello svolgere quella specifica attività. Si pensi, per esempio, a coloro che lavorano facendo i pompieri, i medici, i soldati, ma anche chi è un appassionato programmatore di software, chi progetta giochi, gli istruttori sportivi e molti altri. Il vivere queste esperienze legate alla motivazione intrinCosa sono le motivazioni intrinseche e perché seca conduce a una percezione di miglioramento delle sono importanti per le organizzazioni proprie capacità messe in gioco che è di per sé appaVediamo ora un po’ più in dettaglio cosa sono le mogante e per questo sufficiente per motivare a replicare tivazioni intrinseche, così importanti per le dinamiche nel tempo l’attività oggetto di questa particolare moaziendali. Le motivazioni intrinseche sono quelle spetivazione. Naturalmente, poiché alla base della mocifiche motivazioni che tutti noi esprimiamo produtivazione intrinseca c’è la libertà di scelta necessaria cendo comportamenti per il gusto stesso di compierli per selezionare quella più idonea a ciascuno di noi, le a prescindere dal fatto che ci siano o meno dei premi specifiche e personali attività connesse alle motivazioo delle punizioni esterne. Mi spiego meglio: diversani intrinseche hanno anche una componente soggetmente da quelle ‘estrinseche’, caratterizzate dal fatto tiva. Mentre a una persona la motivazione intrinseca che prevedono uno stimolo esterno a noi positivo (in‘spinge’ a replicare l’esperienza del giocare a scacchi centivo) o negativo (punizione), le motivazioni intrinperché considerata molto gratificante, a un’altra il seche sono invece connotate dal ricercare attivamente gioco degli scacchi può essere assolutamente noioso esperienze piacevoli e soddisfacenti per il fatto stesso contrariamente alla pratica, per esempio, dello sci. di viverle, anche se non sono accompagnate da evenL’appassionato di sci, preso in considerazione in pretuali incentivi positivi esterni come, per esempio, vancedenza, è talmente gratificato dall’esperienza stessa taggi economici o l’approvazione sociale. Ai corsi di che considerare l’insieme di ‘costi’ (tempo, energie, formazione faccio spesso l’esempio dello sciatore, perecc.) è valutato come un prezzo che vale la pena pagaché in genere risulta emblematico: l’appassionato di sci re al fine di ottenere la positività psicofisica derivante compie l’atto di sciare per il gusto stesso di farlo, molto dall’esperienza desiderata. spesso sciare non solo non è un’attività che produce un Tornando all’oggetto di questo articolo: perché queguadagno economico, a eccezione di poche ‘fortunate’ ste motivazioni intrinseche sono così importanti per le persone che riescono a combidinamiche aziendali? La risposta nare motivazioni intrinseche ed risiede nel fatto che ormai dai dati estrinseche, ma anzi richiede un emersi dalla letteratura scientifica investimento in termini di soldi, del settore, da più di 30 anni si sa tempo ed energie espresse per che un lavoratore che possiede praticare l’attività stessa. Parlo di una bassa motivazione intrinsepoche ‘fortunate’ persone perché ca è un lavoratore poco efficace, ci sono in effetti persone che per perché poco ingaggiato nell’atuna combinazione di fattori legatività che lo porta a investire il ti all’atteggiamento psicologico suo tempo e le sue risorse almeno che possiedono e delle esperienze otto ore al giorno, cinque giorni che hanno vissuto in passato, lasu sette, in ambito professionale. vorano facendo un’attività scelta Un lavoratore che esprime poche da loro stessi che è di per sé gramotivazioni intrinseche, oltre a tificante e quindi combinano il essere poco produttivo e creatifatto di essere ingaggiati spesso vo, si comporta dal punto di vista in esperienze per loro anche piaprofessionale quasi unicamente cevoli (motivazione intrinseca) sollecitato da quelle estrinseche oltre a beneficiare del fatto che caratterizzate quindi dal sistema Jan Ingemar Stenmark, per i suoi successi, è l’attività stessa fornisce loro an- considerato il più grande sciatore di tutti i tempi. ‘bastone e carota’ disposto, imche incentivi economici e/o so- Il Paraguay gli ha dedicato un francobollo nel plicitamente o meno, dal manaciali (motivazione estrinseca). gement aziendale. 1980 e un asteroide porta il suo nome
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Come vedremo tra poco, il positivo senso di autonomia, progresso e coinvolgimento verso un obiettivo aziendale, prende il posto, nel caso di un lavoratore guidato quasi unicamente dalle motivazioni estrinseche, a un approccio molto più passivo e che tende in maniera dominante a evitare di compiere errori che possono implicare la perdita del lavoro (evitare cioè la ‘punizione’ più significativa), piuttosto che nell’adottare uno stile più proattivo utile, oltre a soddisfare delle richieste personali, anche a livello aziendale. Risultano già intuitivamente chiari, quindi, almeno alcuni benefici aziendali nell’avere un team di lavoratori che, oltre al vantaggio economico, si sentano ‘intrinsecamente’ motivati e coinvolti nello svolgimento della loro attività. Ciascuno di noi potrà immaginare la potenziale differenza di un team formato da membri con un’alta motivazione intrinseca, confrontato con uno composto da persone con una bassa motivazione intrinseca. I risultati aziendali globali dei due ipotetici team di lavoratori sarebbero molto distanti e rappresentativi delle dinamiche psicosociali messe rispettivamente in atto nei due gruppi. Le Esperienze ottimali nel business Le motivazioni intrinseche, studiate inizialmente negli Anni 70 del Novecento soprattutto da due studiosi americani, Edward Deci e Richard Ryan, che hanno prodotto la Self Determination Theory, sono caratterizzate dall’essere non solo piacevoli, ma anche soddisfacenti e appaganti, perché nutrono e arricchiscono la persona che le vive, creando nel tempo quel senso di crescita, progresso e significatività tanto importanti quanto strategicamente fondamentali e necessarie per vivere vite piene e felici e, come confermato recentemente dalle scienze biomediche, anche in salute. Questo non significa vivere vite prive di problemi, difficoltà o sfide da affrontare, ma che la gestione dello stress psicofisico conseguente questi aspetti della vita è molto efficiente e quindi salubre per coloro che possiedono
Il protagonista del film ‘Lo stagista inaspettato’ è un esempio di persona con una forte motivazione intrinseca perché a 70 anni riparte da uno stage
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una più alta motivazione intrinseca. Chi è caratterizzato dall’avere un’alta motivazione intrinseca possiede, in termini di dinamiche psico-neuro-metaboliche, sia nel breve sia nel lungo termine, grandi vantaggi dimostrati dall’ampia letteratura relativa la qualità di vita, la longevità e l’aspettativa di vita. Negli Anni 70 del Novecento, il crollo e il superamento epistemologico del paradigma ‘comportamentista’, basato esclusivamente sul concetto di premi e punizioni (preso tra l’altro come riferimento teorico principale anche nella progettazione e gestione delle attività economiche, soprattutto occidentali), permise un fiorire di teorie e conoscenze psicologiche tra le quali le motivazioni intrinseche che, oltre a essere più accurate, precise e predittive, riflettono anche con maggiore realismo il comportamento umano. Una tipologia paradigmatica di motivazioni intrinseche sono le Esperienze ottimali (chiamate anche Flow Experiences nel mondo anglosassone) esperienze particolari, identificate e analizzate dallo psicologo americano Mihaly Csikszentmihalyi, co-fondatore anche del movimento scientifico chiamato Psicologia Positiva, che le ha applicate in molti settori, incluso il settore commerciale (si veda il suo libro Good Business). Ho avuto il piacere e l’onore di collaborare con Csikszentmihalyi per sviluppare in California la mia tesi di dottorato sul Flow e da allora coltivo lo studio e la ricerca scientifica di questo settore per l’enorme impatto sia nel settore squisitamente clinico-salutistico sia per il miglioramento delle performance nel settore sportivo e aziendale. Le Esperienze ottimali sono esperienze che prevedono necessariamente una motivazione intrinseca (scegliamo noi di fare quella specifica attività per il gusto stesso di farla) e un rapporto equilibrato tra la difficoltà dell’attività e la percezione delle nostre stesse capacità messe in gioco per compierla. Questa particolare combinazione conduce a tutta una serie molto positiva di percezioni psicofisiche vissute nel breve termine quando ci troviamo ingaggiati in queste attività (alto senso di controllo situazionale, totale percezione di coinvolgimento nell’attività, ecc.), nel lungo termine (senso di soddisfazione, di crescita e progresso, di significatività, ecc.), una serie di benefici fisiologici nella gestione dello stress oltre che un vantaggio in termini di performance prodotta. Chiaramente, in ambito lavorativo, questo si traduce in un ambiente aziendale che facilita il miglioramento delle performances in termini di produttività e innovatività, oltre a un ambiente percepito dai lavoratori come più sereno, anche se non globalmente rilassante, connotato per essere sfidante perché richiedente molte energie e risorse. Tornando alla ‘macro’ categoria della motivazione intrinseca possiamo vederla come almeno in parte contrapposta a quella delle motivazioni estrinseche dove il feedback da parte dell’azienda è strutturato soprat-
tutto in ‘premi e punizioni’ per selezionare i comportamenti desiderati e accrescere i risultati aziendali. Gli effetti motivazionali immediatamente successivi l’eventuale premio o punizione creano una sorta di dipendenza negativa nei confronti delle fonti esterne che somministrano gli incentivi e questo fa sì che in un contesto di non imminente incentivo positivo o negativo vi sia un livello generale di motivazione più basso, come se si fosse in modalità di ‘attesa’ dei futuri incentivi esterni. Tradotto in comportamenti pratici questo significa che la persona che lavora in un contesto fortemente strutturato da ‘carote e bastoni’, appena ha la percezione che non sia presente l’agente che attribuisce premi e punizioni o che siano lontane le scadenze temporali di queste ultime, tende a un atteggiamento passivo più orientato a evitare errori e scelte rischiose controproducenti, anziché adottare un approccio proattivo che prevede investimenti psicofisici significativi finalizzati a vincere le sfide personali così importanti anche dal punto di vista aziendale. Tra le motivazioni intrinseche e quelle estrinseche c’è un rapporto complesso nel senso che da una parte avere un’alta motivazione intrinseca non significa escludere a priori quella estrinseca, dall’altra la letteratura scientifica in maniera univoca e molto chiara indica che se la motivazione estrinseca viene utilizzata come fonte predominante di feedback ricevuto dai soggetti, molto velocemente la motivazione intrinseca decade abbassando anche il livello generale di motivazione, generando nel tempo performance psicofisiche e/o professionali sempre meno efficaci. Perché il sistema ‘bastone e carota’ non funziona Questi dati emersi dalla letteratura riflettono molto bene cosa accade generalmente nelle aziende dove viene considerata erroneamente valida una visione purtroppo irrealistica e riduttiva dell’uomo, proponendo attività lavorative strutturate quasi unicamente con incentivi e punizioni. Quanto più viene richiesta dall’azienda una performance connessa alla creatività e alla adattabilità continua ai vari contesti operativi potenzialmente presenti, più la necessità di coltivare anche la motivazione intrinseca diventa strategicamente importante. Fornire unicamente un articolato, e magari sofisticato, sistema di premi e punizioni porta a risultati aziendali scarsi nel lungo termine, perché non riflette la complessità psicologica degli attori in gioco (i lavoratori) nelle loro dinamiche personali e lavorative. Purtroppo, molto spesso per pura ignoranza o disinformazione, queste dinamiche anziché essere considerate strategicamente importanti per costruire nel tempo un buon welfare lavorativo sono sottovalutate a priori ritenendole poco significative o poco applicabili o addirittura d’intralcio per raggiungere la performance aziendale d’eccellenza. La letteratura scientifica in-
dica molto chiaramente che la situazione è esattamente opposta a questa visione psicologicamente miope e poco sofisticata quanto poco efficace dal punto di vista del benessere aziendale. Le motivazioni intrinseche, a differenza di quelle estrinseche, hanno effetti positivi a breve, medio e lungo termine, soddisfano tre bisogni psicologici basilari innati e di natura universale: senso di competenza (percezione di controllo e utilizzo delle proprie capacità); senso di relazionalità (intrattenendo relazioni emotivamente positive e significative nella rete sociale di riferimento); senso di autonomia (percezione di un minimo livello di libertà decisionale messa in atto nella scelta dei comportamenti significativi). Le motivazioni intrinseche sono composte da quattro aspetti fondamentali: gli scopi dell’attività sono chiari e significativi per la persona; la scelta dell’attività è, almeno in parte, autonoma e non pesantemente vincolata-imposta da agenti o fattori esterni; un alto senso di controllo relativo le competenze personali messe in atto; vi è un senso di progresso, crescita e condivisione percepita nel processo di avvicinamento allo scopo desiderato. Gli studi scientifici sulle motivazioni intrinseche, in generale, e le Esperienze ottimali in particolare, sono un prezioso se non imprescindibile strumento da implementare nella gestione aziendale al fine di coltivare in maniera efficace, soprattutto nel medio e lungo periodo, sia la qualità del clima lavorativo che le performance produttive e innovative generate dai lavoratori. Poiché le motivazioni intrinseche sono misurabili e monitorabili nel tempo, considerarle come fattore chiave attraverso il quale calibrare interventi mirati per coltivare una più efficace motivazione e un welfare aziendale (aumentando la libertà di scelta individuale, di coinvolgimento, ecc.) è complesso anche se assolutamente realizzabile e auspicabile per ottenere performance ottimali.
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RIFLESSIONI
Trasformare la cultura organizzativa per valorizzare l’intelligenza emotiva Diego Ingrassia, Massimo Berlingozzi L’uomo detiene ancora un vantaggio competitivo rispetto all’intelligenza artificiale e agli algoritmi. Un potenziale non ancora compreso a pieno, specie all’interno delle organizzazioni, consiste nella capacità di provare e gestire le proprie emozioni. In un contesto in cui le ricerche rivelano la diffusa incapacità dei capi di provare empatia nei confronti dei propri collaboratori, risulta prioritario trasformare la cultura organizzativa, per tornare a dare valore all’umanità della persona, racchiusa nelle sue emozioni.
Diego Ingrassia, Formatore e Coach esperto, certificato MCC all’International Coaching Federation, è il punto di riferimento in Italia per le teorie e i modelli scientifici sulla fisiologia delle emozioni.
Massimo Berlingozzi, Formatore e Coach, esperto nella gestione dei processi di cambiamento e di sviluppo del potenziale umano, ha collaborato con le più importanti aziende e società di consulenza in Italia.
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Lunedì 5 febbraio 2018 è stato un giorno nerissimo per la Borsa di Wall Street, la peggior seduta dal 2011. L’indice Dow Jones è arrivato a perdere il 6% per poi fermarsi a -4,6%: un calo analogo ha coinvolto anche tutte le Borse asiatiche, le Borse europee hanno reagito con maggior equilibrio denunciando comunque considerevoli perdite. Cosa è accaduto? A giudizio degli analisti, le notizie dello storico accordo sindacale in Germania nella regione del Baden-Württemberg che prevede aumenti salariali del 4,3% per 900mila lavoratori, che presto potrebbe essere esteso alla totalità dei 3,9 milioni di metalmeccanici tedeschi, insieme con notizie analoghe provenienti dagli Stati Uniti, hanno innescato una serie di automatismi comandati da algoritmi istruiti per reagire quando si modificano alcuni parametri legati all’indice di volatilità, provocando a cascata un’ondata di vendite sui mercati. È sensato tutto questo? Sicuramente no. La notizia di aumenti salariali su larga scala è ottima per l’economia reale, oltre a concorrere al benessere di molte famiglie, produce nel tempo un aumento dei consumi e quindi un vantaggio per i mercati. Perché quindi è potuto accadere questo? Mettiamo da parte considerazioni che potrebbero indurci a riflettere su quanto i meccanismi delle Borse siano lontani dall’economia reale, estranee per altro al tema di questo articolo, e concentriamoci invece su un dato reale: il 66% dei miliardi di scambi che avvengono ogni giorno sulle Borse mondiali è governato da algoritmi, macchine che decidono autonomamente. Un qualunque livello di controllo guidato da persone non avrebbe mai fatto accadere tutto questo: c’è ancora molto spazio per l’intelligenza umana! Ma quanto ne siamo consapevoli? Quando l’intelligenza è potenza di calcolo non c’è partita tra l’intelligenza della macchina e quella umana: è noto che Deep Blue, un computer di IBM, nel 1997 è riuscito a battere in una partita di scacchi Garry Kasparov. Ma la macchina non è consapevole di quello che fa, non ha coscienza, non
ha emozioni: c’è qualcosa nell’intelligenza umana che non può essere ridotto a un algoritmo. Conoscere le emozioni per gestirle al meglio Contestualizzare gli elementi di senso di una decisione; garantire equilibrio emotivo e ragionevolezza nel processo decisionale; comprendere responsabilmente le conseguenze di una determinata scelta; essere capaci di fornire risposte anche di fronte a situazioni ambigue, tollerare l’incertezza; agire comunque, se necessario, anche in assenza di una procedura o di un programma: sono caratteristiche peculiari dell’intelligenza umana. Ma gli studi dedicati a comprendere questa intelligenza hanno una storia breve. Non bisogna avere molti anni –e forse le cose non sono molto diverse neppure oggi– per ricordare che durante gli anni della scuola l’intelligenza che contava era quella di tipo logicomatematico. Per poi approdare nel mondo del lavoro e ricevere insegnamenti pronti a ricordarci di “lasciare le emozioni al di fuori”: una mente razionale, lucida e distaccata fornisce le migliori prestazioni. Non dobbiamo dimenticare quindi che il cammino che ha portato a riconoscere le emozioni come una componente essenziale della nostra intelligenza è stato –almeno all’interno della nostra civiltà– lungo e difficile, e per quanto sia possibile individuare contributi di enorme rilevanza nell’opera di alcuni grandi filosofi, a partire da Aristotele, per arrivare al fondamentale saggio di Charles Darwin The Expression of the Emotions in Man and Animals, è solamente a partire dai lavori di Peter Salovey e John D. Mayer (1990) che il tema dell’intelligenza emotiva si impone nel dibattito scientifico. Per molto tempo quindi l’unica intelligenza riconosciuta come tale è stata quella riconducibile al pensiero logico e razionale. Ancor oggi i test basati sul quoziente di intelligenza (QI) sono ampiamente presenti nei test di ammissione a molte facoltà universitarie, così come esiste un club esclusivo (Mensa) la cui appartenenza è vincolata al superamento di una certa soglia ‘quantitativa’ del QI. Eppure, la nostra intuizione avrebbe potuto da sola indicarci che un tale approccio risulta essere riduttivo, in quanto tutte le nostre decisioni sono influenzate dalle nostre emozioni e solo in un successivo momento tendiamo a spiegare le nostre scelte attraverso il pensiero razionale. Dobbiamo agli studi di Paul Ekman, il massimo esperto della fisiologia delle emozioni, la dimostrazione che Darwin aveva ragione sull’origine biologica e adattiva delle emozioni, perché alcune di esse si manifestano sul volto degli esseri umani nel medesimo modo in tutte le culture del mondo. Aver scoperto questa matrice universale e la natura innata delle sette emozioni primarie (paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto, sorpresa, disprezzo) ci ha aiutato a comprendere in modo più approfondito la natura delle emozioni e la
loro importanza, non solo nel corso dell’evoluzione della nostra specie, ma nella nostra vita di tutti i giorni. “Le emozioni accadono”, afferma Ekman: non possiamo sceglierle, le emozioni ci accompagnano nel corso della vita, si mescolano ai nostri pensieri per generare ricordi, colorano le nostre esperienze e quando non siamo soddisfatti della intensità emotiva a cui siamo esposti, guardiamo film, andiamo a teatro, leggiamo libri, frequentiamo persone che suscitano in noi emozioni… Ma per quanto siano importanti, ci ricorda Ekman, le conosciamo ancora molto poco. L’intelligenza emotiva è ancora poco valorizzata nei luoghi di lavoro Come abbiamo visto è a partire dai lavori di Salovey e Mayer del 1990 che si anima il dibattito scientifico attorno all’intelligenza emotiva, ma in realtà è solo attraverso l’opera di divulgazione di Daniel Goleman, iniziata con il testo Emotional Intelligence del 1995 (tradotto in Italia nel 1997), che questo tema comincia a riscuotere interesse anche al di fuori dell’ambiente accademico. Chi segue il mondo della formazione può probabilmente retrodatare questo interesse a partire dall’inizio degli Anni 90, quando all’interno di organizzazioni che diventavano sempre più articolate e complesse, si è cominciato a sentire il bisogno di strumenti che potessero comprendere la performance lavorativa anche al di là della sua componente tecnico-specialistica, e si sono adottati modelli basati sul concetto di competenza e di soft skill, derivati dagli studi di David McClelland e portati in Italia da Piero Quaglino. Ma il merito degli studi dedicati all’intelligenza emotiva è di aver dato vita a un costrutto che sintetizza in modo efficace un insieme di qualità (conoscere le proprie e le altrui emozioni; saperle gestire; motivare se stessi; saper utilizzare queste competenze nella relazione con gli altri), facilmente riconducibili a comportamenti efficaci. Goleman riporta nei suoi libri numerosi esempi di successo da parte di persone emotivamente intelligenti e sostiene che coloro che hanno queste caratteristiche si distinguono nel mondo del lavoro perché sono capaci di realizzare migliori performance. In base alla nostra esperienza possiamo confermare queste osservazioni: le persone capaci di riconoscere, accettare e gestire in modo consapevole le proprie emozioni riescono a instaurare relazioni positive e sono capaci di affrontare meglio e con maggiore equilibrio le situazioni difficili. Ma la nostra esperienza ci ha anche fatto incontrare manager di successo, ai vertici nelle loro organizzazioni, caratterizzati da un’intelligenza emotiva molto bassa. Poco attenti a quanto accade attorno a loro a livello relazionale e unicamente concentrati sugli obiettivi di business. Di fronte a queste situazioni è lecito chieder-
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biamo rinunciare a facili scorciatoie ed essere disposti ad accettare maggiore complessità: alimentare l’ascolto, la fiducia reciproca e un clima di cooperazione.
Cinque delle sette emozioni primarie secondo il film d’animazione ‘Inside out’: rabbia, disgusto, gioia, paura, tristezza (da sinistra)
si: è davvero indispensabile l’intelligenza emotiva? Per rispondere a questa domanda bisogna aprire una breve riflessione sulla cultura organizzativa e sui modelli di leadership. I modelli culturali cambiano, ma in genere cambiano molto lentamente. Oggi sempre meno persone sono disposte ad accettare di essere guidate attraverso metodi autoritari: è cambiata la società, sono cambiati i modelli educativi all’interno delle famiglie, abbiamo speso molte parole per far comprendere la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, e possiamo dire che questo è un dato in larghissima misura compreso e condiviso. Ma quante persone amano ancora l’uomo forte al comando? Il cosiddetto ‘uomo forte’ (potrebbe anche non appartenere al genere maschile) non è per definizione autoritario, ma è deciso, sicuro, determinato, carismatico. Siamo di fronte a uno stereotipo poco in sintonia con l’accettazione delle proprie emozioni, culturalmente viste ancora come un segno di debolezza. Ma quando si cerca di cancellare questa componente, che non è possibile annullare data la sua natura biologica, non si fa altro che innescare un processo destinato lentamente a scoppiare. Aumenta la competizione interna, così come il livello di stress individuale e collettivo, insorgono conflitti che si cerca di sedare senza cercare di comprendere, altri reagiscono assumendo un atteggiamento rassegnato e remissivo. Alla fine, all’interno di un clima divenuto estraneo al riconoscimento personale e alla gratificazione, chi può se ne va. È necessario allora promuovere un cambiamento della cultura organizzativa. Se vogliamo immaginare gruppi di lavoro emotivamente intelligenti –e per fare questo dobbiamo essere capaci di generare modelli di confronto e di comunicazione più aperti e flessibili– dob-
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L’agilità emotiva e le nuove competenze manageriali Studi recenti sembrano confermare le ricerche condotte a Berkeley dallo psicologo Dacher Keltner che aveva coniato la definizione di “paradosso del potere”. Keltner aveva notato come nel tempo l’esercizio del potere tende a far perdere alle persone alcune delle doti che hanno consentito loro di ottenerlo. In particolare, aveva riscontrato una limitata capacità di entrare in sintonia con le persone con cui erano in relazione e di riuscire a comprendere cosa loro stessero provando. Queste intuizioni sono state confermate da Sukhvinder Obhi, un neuroscienziato della McMaster University in Ontario, che ha condotto una serie di esperimenti usando la tecnica della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), attraverso i quali ha potuto appurare che l’esposizione al potere danneggia il funzionamento di alcune strutture cerebrali, i neuroni a specchio, che come è noto sono alla base della nostra capacità empatica. Questi brevi spunti sulla cultura della leadership ci aiutano a comprendere anche in una prospettiva più ampia qual è la sfida che la riflessione sul tema dell’intelligenza emotiva ha avviato all’interno del mondo del lavoro. Come abbiamo visto i modelli culturali nelle organizzazioni cambiano molto lentamente, la resistenza al cambiamento è un fenomeno ben conosciuto, le persone hanno bisogno di tempo per potersi adattare. Attorno a noi però c’è un mondo che cambia a una velocità impressionante: l’innovazione tecnologica, gli effetti della globalizzazione, l’immigrazione, una società sempre più complessa e multietnica, l’enorme quantità di informazioni da gestire, comunicazioni frenetiche sempre più disattente alla componente emotivo-relazionale. Non possiamo certo trasformarci in luddisti del Terzo Millennio, anche perché ormai è tutto immateriale ciò che dovremmo distruggere. La “agilità emotiva”, come l’ha definita Susan David in un suo recente libro, è una qualità dell’intelligenza emotiva che ci può aiutare ad alleviare lo stress e a trovare nuove risorse coordinandoci con il nostro ‘cervello emotivo’ proprio quando la nostra rigidità cognitiva rischia di farci cadere in trappola. “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce” è un celebre aforisma di Blaise Pascal che riassume mirabilmente il ruolo e l’importanza dell’intelligenza emotiva con tre secoli di anticipo sui lavori di Salovey e Mayer. Il contributo più importante degli studi sull’intelligenza emotiva forse è proprio questo: ricordarci che in questa sintesi tra cuore e ragione, che trova sempre più conferme in recenti acquisizioni delle moderne neuroscienze, risiede il valore più profondo dell’intelligenza umana.
AGENDA HR
HR e Direzione come pilota e copilota di un’impresa sulla via del cambiamento Elisabetta de Luca OD&M ed ESTE hanno realizzato l’annuale ricerca per individuare le sfide e i trend che caratterizzeranno il mondo HR per il 2018. Mentre la Direzione è più improntata sulla ricerca del benessere dei dipendenti e ha, quindi, una visione più vicina alle aziende estere, le Risorse Umane nel nostro Paese sono ancora indietro sul versante tecnologia e retention dei Millennial. La sfida più importante è abbandonare le mansioni ordinarie per dedicarsi alla definizione della strategia. “Parlare la stessa lingua dei manager” e usare analisi dei dati per mostrare i risultati potrebbero essere strumenti utili per raggiungere gli obiettivi.
Simonetta Cavasin, Amministratore Delegato di OD&M Consulting
Attrarre persone con le giuste competenze, avere cura dello sviluppo professionale, affiancare i manager nelle scelte strategiche: sono queste le sfide più importanti che il mondo HR deve affrontare nel 2018. Come ogni anno, dal 2014, OD&M ha presento, il 18 gennaio 2018, nella sede di Gi Group a Milano, l’Agenda HR: i risultati della survey sui trend che caratterizzeranno il mondo delle Risorse Umane nel prossimo futuro, realizzata con ESTE. Ad aprire l’incontro è stata Chiara Lupi, Direttore editoriale di ESTE che ha sottolineato quanto la comparazione delle risposte dei Direttori del Personale e quella della Direzione sia il valore aggiunto della ricerca. Cosa è cambiato e cosa cambierà rispetto al 2017? Prima di tutto è aumentato il numero di partecipanti alla ricerca e questo consente a ESTE e a OD&M di avere un osservatorio privilegiato, soprattutto nell’ambito Risorse Umane, area che deve essere pronta a fronteggiare la quarta rivoluzione industriale. “Per affrontare le sfide, gli HR dovremmo diventare una comunità professionale”, ha detto Simonetta Cavasin, Amministratore Delegato di OD&M Consulting, rivolgendo un appello ai numerosi partecipanti all’evento di presentazione dei risultati. All’estero l’HR guida il cambiamento, in Italia deve ancora adattarsi Altro aspetto interessante dell’analisi è il confronto con le ricerche svolte all’estero: “Nel resto del mondo, rispetto al nostro Paese, l’area HR è più focalizzata a fronteggiare la trasformazione
Il pubblico presente all’evento Agenda HR
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digitale, il cambiamento demografico e la globalizzazione, fenomeni che stanno modificando profondamente la società, costringendola a ripensare l’uso delle risorse del Pianeta e la tutela della salute. Invece, in Italia, l’HR focalizza le proprie energie sulla ridefinizione dell’Industry e sull’accelerazione del business che sta modificando i modelli organizzativi”, ha sottolineato Cavasin. A confermare la lontananza tra l’Italia e l’estero è stato Federico Vecchiarelli, Partner di Area Consulting&Partnes che Persone&Conoscenze ha incontrato a margine dell’evento: “Vivo da sei anni negli Stati Uniti e ho notato che nel nostro Paese il mondo HR è rimasto legato alla teoria, mentre in Usa c’è molto più pragmatismo. La trasformazione digitale, poi, è avvenuta da tempo e le Risorse Umane non si sono interrogate su come guidare il cambiamento, ma hanno preso atto che il mondo è cambiato e si sono adeguate”. Uno dei trend emersi nella ricerca condotta da OD&M ed ESTE è la scelta delle persone giuste che in Usa, ha detto Vecchiarelli, è già una realtà: “Da anni è in atto una ‘guerra dei talenti’ e una migrazione importante di ‘cervelli in fuga’ soprattutto dalla Cina e dall’India, da dove provengono persone estremamente qualificate. Nel nostro Paese tutto questo è ancora impensabile”. Come sono cambiate nel tempo le sfide per gli HR A proposito di persone con le giuste competenze, ben il 77,4% dei rispondenti considera questa responsabilità la sfida più importante per il 2018: una novità rispetto agli scorsi anni. Ma come si è evoluto il mondo HR internazionale dal 2014 a oggi? Cavasin ha tracciato una linea temporale grazie all’analisi dei dati raccolti nelle scorse edizioni di Agenda HR: “Nel 2014 le Risorse Umane erano più focalizzate sullo sviluppo della leadership e sulla retention dei talenti. Il 2015, invece, è stato l’anno in cui si è iniziato a parlare di diversity e si è perso un po’ di vista il focus sulla strategia. L’anno successivo la parola chiave è diventata ‘competenze’”. Il 2017 è stato un anno di profondi cambiamenti nel mondo industriale italiano e anche l’HR ha dovuto adeguarsi alle nuove sfide: “Dalla comparazione dei dati è emerso che lo scorso anno, a eccezione del Talent management e di engagement e retenzio, tutti gli altri focus degli anni precedenti sono scomparsi per fare spazio alla People Anaytics, alla cultura del
GESTIONE E SVILUPPO TALENTI
GESTIONE E SVILUPPO LEADERSHIP
PIANIFICAZIONE STRATEGICA PERSONALE GESTIONE COMPORTA-MENTI ENGAGEMENT CULTURA
2014
DIMOSTRARE CREDIBILITÀ CONTRIBUTO HR A SVILUPPO BUSINESS 2015
2014
GESTIONE E SVILUPPO LEADERSHIP
ENGAGEMENT E RETENTION
UTILIZZO PEOPLE ANALYTICS
UTILIZZO PEOPLE ANALYTICS
GESTIONE E SVILUPPO TALENTI
PROCURARSI E SVILUPPARE COMPETENZE NECESSARIE
ASSICURARE COMPETENZE NECESSARIE A BUSINESS
ENGAGEMENT E RETENTION
PIANIFICAZIONE STRATEGICA PERSONALE
ATTRARRE E TRATTENERE TALENTI
TALENT MANAGEMENT
ENGAGEMENT E RETENTION
GESTIONE E SVILUPPO LEADERSHIP
PERFORMANCE MANAGEMENT
PERFORMANCE MANAGEMENT
GESTIONE DIVERSITÀ
2016
2015
GESTIONE DIVERSITÀ
2016
CULTURA ASCOLTO, FLESSIBILITÀ, SVILUPPO, AUTONOMIA
TALENT MANAGEMENT CULTURA ASCOLTO, FLESSIBILITÀ, SVILUPPO, AUTONOMIA DIGITAL HR
LIFE LONG LEARNING
LIFE LONG LEARNING
REINVENTARE FUNZIONE HR (COMPETENZE)
SUPPORTO A CRESCITA E SVILUPPO PROFESSIONALE
2017
2018
L’evoluzione delle sfide HR dal 2014 a oggi
lavoro agile e dello sviluppo professionale, alla logica dell’apprendimento continuo”. E lo confermano le risposte alla survey: il 62,6% dei partecipanti afferma che la cura dello sviluppo professionale per gli HR è il traguardo più importante da raggiungere. La convivenza tra gli uomini e le tecnologie, così come l’aumento della presenza dell’intelligenza artificiale, l’inserimento dei Millennial e dei nativi digitali, la valorizzazione delle risorse presenti in azienda che hanno bisogno di aggiornarsi, sono tutti aspetti importanti con cui i Direttori del Personale devono confrontarsi. “Nel 2018 si torna a parlare di engagement e di retention, questo è il sintomo che il mercato è in ripesa. Le organizzazioni hanno maggiore respiro e possono dedicarsi all’ascolto”, spiega Cavasin che aggiunge: “Il 2018 è l’anno dei dati”. La terza sfida, infatti, per il 61,7%, è proprio il supporto dei line manager nella gestione delle persone e nell’utilizzo e nell’interpretazione: “La tecnologia deve servire per rivedere i processi e rispondere in maniera efficace ai cambiamenti in atto”. La Direzione (e non l’HR) pensa al benessere dei dipendenti Chi sono i rispondenti? Rossella Riccò, Responsabile Area Studi e Ricerche di OD&M chiarisce questo punto: “I rispondenti sono principalmente uomini, con oltre 15 anni di esperienza nella Direzione del Personale, tra i 40 e i 50 anni, in prevalenza con una formazione umanistica”. Sia la Direzione, con una netta presenza di Amministratori Delegati tra i rispondenti, sia l’area HR concordano con il dire che le Risorse Umane dovrebbero avere una funzione maggiormente strategica, ma solo un terzo delle
Federico Vecchiarelli, Partner di Area Consulting&Partnes
Rossella Riccò, Responsabile Area Studi e Ricerche di OD&M
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Un momento della presentazione dei dati di Agenda HR
Barbara Imperatori, Professore associato di Organizzazione Aziendale all’Università Cattolica del Sacro Cuore
Massimiliano Boggetti, Amministratore Delegato di Sebia Italia
Fabrizio Magi, HR Director di Sebia Italia
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figure che si occupano di gestione delle persone è coinvolto nella definizione della strategia aziendale. Sembra, dall’analisi delle risposte, che l’area HR fatichi a far emergere i risultati raggiunti, probabilmente perché non utilizza l’Analytics per la gestione e quindi è difficile ‘quantificare’ quanto di buono fatto. E lo confermano i dati: la maggior parte delle funzioni HR misura i risultati raggiunti tramite KPI; oltre la metà misura l’impatto delle proprie azioni sui risultati aziendali; meno della metà utilizza lo strumento di HR Analytics per migliorare il processo di decision making. Ciò significa che esiste ancora una distanza tra il mondo HR e l’uso di tecnologie. A proposito della Direzione, i rispondenti appartenenti a questa categoria hanno mostrato un interesse maggiore rispetto all’area HR in merito al benessere dei dipendenti. Il wellbeing (che comprende il miglioramento del welfare, dello Smart working, del worklife balance, della qualità della vita lavorativa e il mantenimento di un ambiente di lavoro collaborativo) è la frontiera più importante da esplorare, per aumentare la retention e attrarre talenti. Se all’estero l’orientamento della Direzione è paradossalmente più vicino alla visione degli HR all’estero, in Italia, come specifica Riccò, gli HR italiani sono più focalizzati sull’essere da supporto ai manager: “Abbiamo proposto 28 sfide, divise in quattro macro aree. Dalle risposte raccolte abbiamo capito che la sfida interna più importante è attrarre le persone giuste; lo sviluppo del personale è una sfida a cui rispondere insieme con la Direzione”. “Sul tema della retention è emerso un fatto-
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re che fa pensare: la profonda distanza tra le politiche portate avanti dagli HR e i desiderata della fascia di giovani tra i 18 e i 34 anni”, sottolinea Riccò. Dalla ricerca è emerso che la Direzione del Personale punta sui valori aziendali, sulle peculiarità dell’impresa e sul mantenere un ambiente di lavoro positivo, ma i Millennial alla domanda “nel momento in cui hai la possibilità concreta di poter cambiare lavoro, a cosa attribuiresti maggiore importanza per rimanere in azienda?” hanno risposto in prevalenza alla valutazione e reward (quindi retribuzione fissa e variabile, benefit, welfare aziendale, ecc.), a seguire gli orari di lavoro (flessibilità, Smart working, politiche di conciliazione vita-lavoro), solo al terzo posto, l’ambiente di lavoro (l’atmosfera, il modo di comunicare, la gestione degli spazi) e, all’ultimo posto, i valori aziendali e le caratteristiche aziendali. Da HR Manager a People Enabler Ma quali competenze deve mettere in atto un HR 4.0? Ai rispondenti sono state sottoposte le skill individuate nel ‘modello di Ulrich’, un metodo di analisi elaborato nel 2016 secondo il quale la Direzione del Personale deve possedere allo stesso tempo competenze connesse alla gestione delle persone e all’organizzazione, competenze di ruolo strategiche, nonché capacità di gestire i paradossi. “La visione cambia in base La visione cambia in base alla partecipazione diretta degli HR alla definizione della strategia aziendale. Sia la Direzione sia le Risorse Umane concordano con il dire che le competenze più importante da sviluppare sono l’essere navigator credible activist,
culture and change champion, total reward steward, human capital curator”, spiega Riccò. “Stiamo vivendo un momento storico importante per l’HR che può e deve fare la differenza”. Ne è convinta Barbara Imperatori, Professore associato di Organizzazione Aziendale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, chiamata a commentare i dati della ricerca. “Il dialogo tra chi gestisce le Risorse Umane e la Direzione è difficile perché è influenzato dalle mode. Ai Direttori del Personale spetta il compito di insegnare ai manager a occuparsi delle persone, così da avere il tempo per dedicarsi alla strategia, perché l’HR deve affiancare il manager e non supportarlo”. Per quanto riguarda l’engagement, Imperatori sostiene che c’è nuova linfa nel mercato del lavoro, il passaggio al digitale fornisce nuovi strumenti per attrarre le persone (come gli hackaton e l’alternanza scuola-lavoro), ma finché si avranno in azienda contratti instabili non si può raggiungere l’obiettivo dell’ingaggio. Il successo si ha se l’HR e la Direzione condividono la strategia ESTE ha chiesto a due coppie di CEO e HR di confrontarsi sulle sfide del 2018 sulla gestione delle persone. Sono intervenuti nell’ordine: Massimiliano Boggetti, Amministratore Delegato di Sebia Italia e Fabrizio Magi, HR Director; Pier Carlo Alessiani, Amministratore Delegato di JT International Italia e Viviana Greco, HR Director. Boggetti ha sottolineato l’importanza della sintonia che si deve instaurare tra la Direzione e l’HR: “Condividiamo la strategia e ci supportiamo. Il segreto è parlarsi in maniera sincera. Per quanto riguarda l’engagement ritengo che la chiave del successo sia la compartecipazione”. Autonomia e responsabilizzazione sono per Magi la strada per gestire le persone in azienda: “Lasciamo liberi i dipendenti di trovare la propria via per raggiungere gli obiettivi, così si sviluppano le idee”. “Riconosco alla funzione HR un grande coraggio per affrontare la chiusura delle persone, dipendenti come dirigenti. Perché abbiano una funzione strategica, come nella nostra azienda, le Risorse Umane devono essere ascoltate. È necessaria convinzione e trasparenza”, ha sostenuto Pier Carlo Alessiani, Amministratore Delegato di JT International Italia. Greco, invece, ha sottolineato che a volte all’HR tocca fare la voce grossa, su tematiche che non incontra-
no sempre il favore della Direzione, come per esempio il lavoro agile: “È vero che non usiamo gli Analytics, ma il motivo è la nostra formazione umanistica. L’engagement, invece, non spetta all’HR, ma ai manager. Le Risorse Umane devono darsi degli obiettivi alti”, aggiunge. Le sfide del 2018 per l’HR calate nelle realtà Dopo il confronto diretto tra la Direzione e l’HR l’evento si è concluso con una tavola rotonda, dedicata alla sfide dei Direttori delle Risorse Umane, alla quale hanno partecipato: Davide Boccardo, HR Director di Davines; Francesca Filippucci, EU Regional HR Lead di Biogen e Marco Verga, Direttore Sviluppo Persone e Organizzazione di Aeroporto di Bologna. Il dibattito si è aperto con l’intervento di Filipucci che ha sostenuto la necessità di una vicinanza tra l’HR e il business dell’azienda: “Le Risorse Umane devono parlare la stessa lingua dei manager per farsi ascoltare. La sfida per il 2018 è lavorare sul wellbeing perché rendere le persone felici significa aumentare la produttività. Inoltre, bisogna lavorare sul digital, per essere guida del cambiamento, e conosce l’universo dei Millennial per poterli trattenere in azienda”. Le tre sfide individuate da Boccardo sono l’autonomia, le competenze e le connessioni: “Viviamo in un mondo connesso, con il 50% della popolazione sotto i 30 anni, come possiamo non mettere in agenda queste due tematiche? Il recruitment così come il training devono evolversi alla luce dei cambiamenti in atto”. Verga, invece, ha acceso un faro sull’importanza del dialogo tra HR e manager con un esempio: “Abbiamo cambiato il sistema di performance management e questa rivoluzione è avvenuta su impulso dell’AD. La sua scelta è frutto delle sollecitazione dell’HR, a questo serve l’ascolto e il dialogo. Le sfide per il 2018 nella mia realtà sono legate alla riorganizzazione dei processi in maniera agile”. A Cavasin è stato affidato il compito di concludere la presentazione dell’Agenda HR: “Le Risorse Umane e la Direzione devono essere in questo 2018 come il pilota e il copilota. Devono insieme costruite un ponte tra l’organizzazione e l’offerta; devono sondare tutte le possibilità per attrarre nuovi talenti, come l’alternanza scuola-lavoro e lavorare per lo sviluppo del territorio, non solo dell’azienda”.
Pier Carlo Alessiani, Amministratore Delegato di JT International Italia e Viviana Greco, HR Director
Davide Boccardo, HR Director di Davines
Francesca Filippucci, EU Regional HR Lead di Biogen
Marco Verga, Direttore Sviluppo Persone e Organizzazione di Aeroporto di Bologna
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INTERVISTE
Una leva per gestire le persone Perché serve il welfare aziendale Intervista a Emmanuele Massagli, Presidente di Aiwa Dario Colombo Nata per riunire i principali player del mercato del welfare aziendale, Aiwa ha da poco compiuto un anno di vita: è tempo di bilanci per l’associazione che oltre a dare una ‘rappresentanza politica’ ai suoi soci, è stata in grado di stimolare un dibattito che il Legislatore ha seguito con interesse, tanto che nell’ultima legge di Bilancio il welfare aziendale è stato ulteriormente potenziato con una norma sulla mobilità dei dipendenti. Ma il vero obiettivo di Aiwa è la diffusione di una cultura di welfare che permetta a questo strumento di andare al di là dei vantaggi fiscali per le imprese, diventando una leva gestionale per l’HR (e per gli imprenditori) per creare fiducia nelle organizzazioni e generare un clima partecipativo. Ha da poco compiuto un anno e ora Aiwa affronta la sua sfida più importante: “Fare cultura sul tema del welfare aziendale per evitare che vinca una logica basata solo sul risparmio fiscale”. Parole di Emmanuele Massagli, Presidente dell’Associazione italiana welfare aziendale, che Persone&Conoscenze ha incontrato in esclusiva. Circa 12 mesi fa, Aiwa diventava realtà: “Il 22 dicembre 2016 abbiamo depositato i documenti dal notaio e l’Associazione ha iniziato le attività il 1 gennaio 2017”, ricorda Massagli, che evidenzia come Aiwa riunisca “13 player del mercato del welfare aziendale in una struttura molto snella, senza compensi, né dipendenti”. Per capire i motivi alla base dalla nascita dell’Associazione, serve però fare un passo indietro e partire da Adapt, l’associazione senza fini di lucro fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere, in un’ottica internazionale e comparata, studi e ricerche di lavoro, di cui Massagli è Presidente: “Alcuni dei soci fondatori di Aiwa avevano relazioni con Adapt proprio sui temi di welfare aziendale, soprattutto a seguito della legge di Stabilità 2016 che ha permesso al welfare di entrare nelle relazioni industriali”, ricorda il Presidente di Aiwa. Fu proprio Massagli a proporre ad alcuni di questi player di valutare la possibilità di creare un’associazione in grado di “dare voce” a tutti i soggetti e di “diventare un interlocutore unitario, rappresentativo e credibile, in grado di confrontarsi con gli stakeholder”. E così è nata Aiwa, che riunisce tutti i modi di fare welfare aziendale e che per la prima volta è riuscita a far dialogare aziende apparentemente diffe-
Emmanuele Massagli Classe 1983, da gennaio 2017 è Presidente di Aiwa. È professore a contratto di Pedagogia del lavoro e di Welfare della persona presso l’Università degli Studi di Bergamo. Fa parte del collegio dei docenti della Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro della stessa università; dal 2012 è Presidente di Adapt. È inoltre dottore di ricerca in Diritto delle relazioni di lavoro e assegnista di ricerca presso la facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Negli anni 2009-11 ha coordinato la Segreteria Tecnica del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed è stato consulente diretto del Ministro.
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renti: dai broker ai piattaformisti fino alle società specializzate in payroll, voucher e consulenza del lavoro. Oggi sono soci dell’Associazione: Aon, Assiteca, Cir food, Day Ristoservice, DoubleYou – Zucchetti, Easy Welfare, Edenred, Eudaimon, Mercer Italy, Welfare Pellegrini, Sodexo, Well Work, Willis Towers Watson. “Si tratta di player che coprono oltre l’80% delle quote di mercato”, puntualizza Massagli, che ricorda come ormai in Italia ci sia stata una ‘proliferazione’ di soggetti con proposte di welfare aziendale, tanto che una stima attendibile conta una novantina di player attivi.
stazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente in natura o sotto forma di rimborso spese aventi finalità di rilevanza sociale ed esclusi, in tutto o in parte, dal reddito di lavoro dipendente”. Massagli lancia quindi un appello per salvaguardare questo modello: “Il welfare aziendale non deve diventare un mercato di gare al ribasso, come fosse quello della concorrenza telefonica, ma deve essere funzionale alla trasformazione già in atto del rapporto di lavoro che si basa sulla fiducia tra azienda e lavoratori e sul clima partecipativo nell’organizzazione”.
Legge di Bilancio 2018: nuovo sostegno al welfare Almeno all’inizio, Aiwa si è ritagliata un ruolo attivo come gruppo di “pressione” e progettazione legislativa, con l’obiettivo di “dare agli operatori del settore una rappresentanza istituzionale”: tra i risultati ottenuti, l’ultimo in ordine cronologico, è quello contenuto nella legge di Bilancio 2018, approvata a fine 2017 (Legge 205 del 2017). Nel testo approvato, infatti, ha trovato spazio una misura che incentiva l’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto da parte dei lavoratori subordinati (lettera b, comma 28 dell’articolo 1): la legge prevede che le aziende dal 1 gennaio 2018 possano portare in deduzione le spese sostenute per il rimborso dei titoli di viaggio dei lavoratori dipendenti e che tali spese non concorrano a formare reddito da lavoro dipendente. In pratica l’abbonamento ai trasporti pubblici diventa un compenso in natura esentasse che il datore di lavoro può decidere di erogare volontariamente, obbligatoriamente e inserire in un paniere di benefit per i dipendenti che beneficiano dei premi di risultato. “Già che il Legislatore abbia confermato l’impianto legislativo alla base del welfare aziendale è un segnale molto importante”, rileva il presidente di Aiwa. Inoltre, la novità contenuta nella legge di Stabilità che riguarda la mobilità è un altro successo del welfare aziendale: “Il fatto che sia entrata nella legge di Bilancio 2018 la possibilità per le aziende di godere dei vantaggi fiscali e contributivi per le spese sostenute al fine del trasporto dei dipendenti addirittura senza soglia è una conquista da non sottovalutare”, commenta Massagli, che ha lavorato proprio perché il Legislatore mettesse mano anche a questi temi nella stesura della legge. D’altra parte, è nel Dna di Aiwa sostenere il welfare aziendale, tanto che nel suo statuto l’Associazione fa chiarezza anche su che cos’è il welfare aziendale, perché –non si dimentichi– che nella normativa italiana non esiste l’espressione “welfare aziendale”, ma si fa riferimento esplicito ai “benefici di utilità sociale”, ossia beni, prestazioni di opere e servizi aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria e culto. Ecco perché Aiwa nel suo documento fondativo precisa: “Con l’espressione ‘welfare aziendale’ si identificano somme, beni, pre-
Una leva per la gestione delle persone Questo modello promosso da Aiwa è anche quello che la politica sta perseguendo sin dal 2016, quando con la legge di Stabilità ha cambiato le regole che determinano il reddito da lavoro dipendente, ampliando il novero delle erogazioni aventi finalità sociali, educative e assistenziali fiscalmente agevolate, promuovendo il welfare aziendale e di cui si ha evidenza pure in alcuni rinnovi dei Contratti collettivi nazionali, come quello dei Metalmeccanici o più di recente delle Telecomunicazioni che segue a quello degli Orafi, Argentieri e Gioiellieri: “Il Legislatore è intervenuto, dopo decenni di silenzio, sui profili fiscali di questa particolare disciplina e ha introdotto diverse e rilevanti novità che hanno stravolto l’efficacia –in modo positivo– della norma, rendendola molto più fruibile”, commenta il Presidente di Aiwa. La successiva legge di Stabilità 2017 ha quindi confermato la strada intrapresa e l’ha addirittura ampliata, ribadendo la convinzione che le iniziative di welfare aziendale creino vantaggi sia per le aziende sia per i lavoratori. Questi ultimi, infatti, percepiscono un maggiore guadagno grazie ai servizi offerti rispetto a quanto potrebbero ottenere con i soldi percepiti in busta paga (che avrebbero una tassazione maggiore e l’obbligo di versamento dei contributi, a carico dell’impresa e dello stesso dipendente), mentre le aziende ottengono un miglioramento dell’ambiente di lavoro grazie a persone più motivate e quindi maggiormente produttive. Proprio per questo la legge di Bilancio 2018 ha scelto di continuare sulla strada tracciata in precedenza, confermando –tra le altre cose– i bonus a sostegno delle famiglie (Bonus mamme domani; voucher baby sitter; buoni asilo nido; assegni di maternità), ampliando inoltre anche la platea dei beneficiari del Reddito di inclusione (Rei). Altra novità riguarda il riconoscimento dei caregiver familiari: il Legislatore ha previsto l’istituzione di un Fondo a sostegno del ruolo di cura e assistenza per persone che per malattia, infermità, disabilità non sono più autosufficienti. “È però un errore pensare che il welfare aziendale sia nato dopo il 2016 e soprattutto per merito del Legislatore”, prosegue Massagli, secondo cui il welfare “non è neppure il prodotto della crisi”, quanto un mix di fattori. Come è noto, infatti, sin dal 2008, grazie al caso Luxottica, si è iniziato a parlare di moderno welfare aziendale: fu l’azienda a introdurre servizi da offrire ai dipendenti nel
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su ciascuno dei seguenti fattori? Già verificato un netto miglioramento Qualche buon risultato ma aspettiamo miglioramenti più significativi a lungo termine Miglioramenti piuttosto limitati Nessun miglioramento riscontrato
Produttività del lavoro Soddisfazione dei lavoratori e clima aziendale Fidelizzazione dei lavoratori Riduzione dell’assenteismo Miglioramento dell’immagine aziendale Contenimento del costo del lavoro
43,3%
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36,2%
27,6%
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Risposte alla domanda ‘Nella sua impresa qual è l’impatto delle iniziative di welfare aziendale su ciascuno dei seguenti fattori?’. Legenda: Nessun miglioramento riscontrato (rosa); Miglioramenti piuttosto limitati (rosso); Qualche buon risultato, ma aspettiamo miglioramenti più significativi a lungo termine (beige); già verificato un netto miglioramento (marrone). Fonte: Welfare index PMI – Il welfare aziendale Secondo la generalità delle imprese una larga livello professionale, per una fa crescere l'impresa – Rapporto 2017 scelta di qualità della
vita a cui le iniziative di welfare hanno dato un significativo contributo. Alcune hanno dichiarato contratto di secondo livello al posto di compensi monedi dare molto risalto all’offerta benefici di tari. “I cambiamenti economici e ladinuova composizione welfare aziendale nei colloqui di assunzione connai demografica hanno imposto un cambiamento nella tura del rapporto di lavoro”, argomenta il Presidente di candidati.
Aiwa: “Se un tempo si ‘vendeva’ il tempo in cambio di un salario, oggi chi lavora è valutato sempre di più a risultato iniziative con un maggiore impatto sullafered Tra esigeledalla azienda anche servizi: da qui il terreno produttività del lavorodel sono state citate quelle tile per la proliferazione welfare aziendale”. Uno scenario sul quale il Legislatore ha posto attenzione, creando legate alla conciliazione vita-lavoro, in particolare le norme descritte che hanno permesso ai provider di rila flessibilità degli orari e il lavoro a distanza. tagliarsi il proprio mercato, risolvendo anche il paradosso Venendo incontro allecontraddittorietà esigenze del dipendente, legato alla irragionevole delle previgenpermettendogli di egestire glidel orari o didilavorare ti norme del welfare di quelle premio produttività (risalenti al 1997): ora anche il welfare è “contrattabile” parzialmente da casa, l’azienda lo responsabilizzae dunque parte dello scambio di lavoro. “Il Legislatore ha inducendolo a dare il meglio di sé. certificato che il welfare aziendale è una leva di gestione del personale e un oggetto della contrattazione collettiva, La nostra indagine rileva direttamente la in particolare di quellanon di prossimità”, spiega Massagli.
soddisfazione dei lavoratori per i servizi di welfare Coinvolgere un ruolo aziendale mailnesindacato verifica lacon percezione daattivo parte Ciò che emerge dopo i primi anni di diffusione del welfare delle imprese. aziendale è tuttavia uno ‘scollamento’ tra quanto imma-
maggioranza di lavoratori, il 75%, non hanno alcuna consapevolezza dei servizi di welfare o li Inoltre, la bontà del piano di welfare è, secondo Masconoscono solo indigenerale. appaiono sagli, una “cartina tornasoleLe delimprese clima aziendale e del inrapporto generale ottimiste sul gradimento dei Già, trapoco azienda e sindacato, laddove presente”. perché anche il sindacato è chiamato a giocare un ruolo lavoratori: il 55% pensano che i dipendenti attivo nella partita e, suggerisce il Presidente di Aiwa, preferiscano sempre il denaro, pur tassato, in “non dovrebbe limitarsi a firmare l’accordo”, ma dovrebbusta paga. Ciò può apparire contradittorio be “curare anche la tipologia di servizi inseriti nelcon piano, l’obiettivo, indicato dalla grande maggioranza senza lasciare che siano decisi da un soggetto esterno”. Moltoimprese, spesso, infatti, i sindacatiil hanno criticato il welfare delle di sviluppare welfare aziendale per aziendale perché troppo sbilanciato verso il “welfare rimigliorare la soddisfazione dei dipendenti. In realtà creativo” (tutti i servizi legati al benessere della persona e anche percezione delle reazioniper deiintenderci) lavoratoriche, è alla vitalaquotidiana come le palestre, drasticamente diversa dai secondo livello di iniziativa a loro giudizio, “distrae bisogniilprimari delle persone”: “Questo succede perché i rappresentanti dei delle imprese. Quelle attive in almeno 6 aree e lavoche ratori non sono attenti agli aspetti implementazione, sostengono costi aggiuntivi per ildiwelfare aziendale ma puntano solo al risultato politico; invece il sindacato ritengono, traemergere il 45% eleilnecessità 48% deidelle casi,persone che i loro dovrebbe far nell’orlavoratori abbiano una buonaanche consapevolezza ganizzazione e contestualmente le potenzialitàdei del territorio suggerendo i servizi per le piattaforme”. Ma il servizi che ricevono e ne siano soddisfatti.
ruolo delle sigle sindacali non finisce qui, secondo Massagli: perché nonostante l’azienda compia scelte ‘etiche’ L’indagine inwelfare, profondità sulle 109 best sul fronte di è pureffettuata sempre il lavoratore a fare la practice permesso di raccogliere copiose “faccia ginato dalla Direzione del Personale e l’effettivo utilizzo scelta deiha servizi. E quindi serve che il sindacato da parte delle persone: in pratica restano ancora troppi i cultura”, perché la piattaforma –la tecnologia– è solo dipendenti che preferiscono la retribuzione cash al posto “uno strumento” che spetta poi all’azienda e ai lavoradei servizi di welfare. “Si tratta di percentuali più basse tori riempire e sfruttare al massimo. “Aiwa vuole offrire 56 WELFARE INDEX PMI — RAPPORTO 2017 di quanto certe ricerche hanno evidenziato”, commenta il suo contributo anche su questa tematica; fare inforil Presidente di Aiwa, che spiega come ci siano casi di piamazione, formazione e cultura perché tutti i protagonini “fatti male” e quindi poco utilizzati: “La soluzione è sti del ‘processo del welfare’ siano in grado di costruire inserire nel paniere servizi, beni e prestazioni che servano una offerta realmente rispondente alle esigenze delle davvero alle persone dell’organizzazione; se si sceglie ciò persone: solo questo è garanzia non solo del successo del che i dipendenti già posseggono o si inducono bisogni che singolo piano di welfare, ma anche della affermazione non si hanno, allora questi preferiranno il corrispettivo definitiva nel nostro ordinamento di questa moderna monetario e considereranno il welfare una ‘fregatura’”. leva di gestione del personale”.
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SPECIALE
Banche e assicurazioni promuovono welfare primario ‘in casa’ e in azienda Veronica Pastaro Fra i nuovi provider di welfare spiccano primariamente gli istituti bancari, seguiti da società specializzate in temi assicurativi, che stanno affinando la propria offerta welfare. Nella maggior parte dei casi l’apertura al mercato è derivata da una sperimentazione dei servizi all’interno del proprio contesto aziendale, con una spiccata predilezione per il welfare primario, riguardo aspetti come la previdenza completare e la sanità integrativa. Affinché le aziende siano in grado di sopperire alle mancanze del Welfare State, è necessario promuovere un nuovo approccio culturale.
Lorenzo Bandera, Ricercatore di Percorsi di secondo welfare
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Nell’ultimo anno un numero crescete di istituti bancari ha scelto di entrare nel mercato del welfare aziendale offrendo alle imprese pacchetti di beni e servizi, consulenza e percorsi di accompagnamento in tale ambito. Numerosi istituti di credito hanno infatti costituito unità e dipartimenti ad hoc che si occupano di elaborare offerte adeguate alle diverse esigenze delle aziende clienti. Contestualmente anche società specializzate in assicurazioni hanno potenziato la loro offerta in tema welfare. Sulla scelta ha certamente pesato la situazione venutasi a creare con le leggi di Stabilità degli ultimi tre anni, che hanno introdotto vantaggi fiscali significativi per le organizzazioni che scelgono di implementare piani di welfare interni. “Visti i benefici offerti dalla normativa, sempre più aziende (ma non bisogna dimenticare anche il mondo non profit, in particolare cooperativo, molto attento a questo tema, e le Pubbliche Amministrazioni chiamate ad attivare sperimentazioni) scelgono di introdurre servizi di welfare più o meno strutturati”, osserva Lorenzo Bandera, Ricercatore di Percorsi di secondo welfare. Per farlo, tuttavia, nella maggior parte dei casi necessitano di un supporto che permetta loro di individuare le misure su cui puntare e le modalità più adeguate per erogarle. “E così, insieme con la domanda di competenze utili a implementare piani di welfare aziendale, è cresciuta l’offerta di know how con un vero e proprio boom dei cosiddetti ‘provider’, società che offrono pacchetti di welfare personalizzabili in base alle esigenze (e possibilità) delle singole realtà”. Il fatto che molte banche abbiano scelto di provare a svolgere la funzione di provider è certamente sintomo della vitalità di questo settore di mercato, ma porta con sé anche alcune sfide che non bisogna dare per scontate. “Le competenze necessarie a implementare piani di welfare strutturati e sostenibili nel tempo, la capacità di dare agli stessi una forte connotazione territoriale (per esempio coinvolgendo localmente erogatori di servizi) nonché di valutare efficacemente i risultati ottenuti, sono elementi centrali per ottenere risultati positivi”, considera Bandera. Dal punto di vista del Laboratorio di ricerca Percorsi di secondo welfare, “le realtà che hanno scelto di creare partnership con provider già attivi nel campo del welfare aziendale, di provare a predisporre piani a trazione territoriale e di avvalersi della collaborazione di laboratori e centri di ricerca per la valutazione dei risultati conseguiti sembrano oggi godere di un vantaggio competitivo considerevole”. Quelle che al contrario si sono mosse autonomamente, corrono il rischio di “offrire servizi ‘standard’ slegati dal territorio e di non operare nessuna riflessione sistemica sul proprio operato”. Secondo Bandera, “tutti i fattori apparentemente non dirimenti, tuttavia, assumeranno un peso notevole nel momento in cui gli attuali vantaggi fiscali dovessero venir meno ‘sgonfiando’ il mercato”: “Solo chi sarà in grado di offrire pacchetti veramente ‘su misura’, favorire legami territoriali e riflettere ad ampio spettro sull’impatto generato nelle aziende ne potrà uscire vincitore”.
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Superare la barriera dei costi e la negoziazione con i fornitori Dal suo osservatorio, anche Credem sta constatando una costante crescita della domanda di servizi welfare, sotto la spinta dell’evoluzione di fenomeni socio-demografici ed economici. “Poiché il welfare aziendale garantisce benefici per tutti (lavoratori, imprese e parti sociali), la banca deve porsi l’obiettivo di essere partner dei propri clienti Corporate e PMI per contribuire all’espansione di questa opportunità, cogliendo anche i bisogni dei dipendenti delle aziende”, afferma Alessandro Denti, Responsabile Commerciale Sviluppo di Credem. L’attenzione da sempre riservata ai bisogni espressi dai consumatori e dalle aziende ha portato l’istituto di credito emiliano a introdurre con Eudaimon, società leader in Italia nella consulenza in ambito welfare aziendale, un piano “pensato e sviluppato allo scopo di rispondere ai bisogni di welfare e di conciliazione vita-lavoro dei quasi 6mila dipendenti che ne fanno parte”. A partire da questa positiva esperienza, la partnership con Eudaimon è diventata strutturale, “con la convinzione che i programmi di welfare aziendale siano un vero valore aggiunto per le aziende e per le persone che ci lavorano”. Secondo Denti, “il primo obiettivo di Credem è sensibilizzare i nostri clienti, diffondendo la cultura della valorizzazione delle persone come investimento per la crescita”: “Il welfare aziendale è un insieme di servizi e dispositivi in denaro progettati per accrescere il benessere personale, lavorativo e familiare dei dipendenti che, se erogati in risposta a bisogni reali dei lavoratori, accrescono il benessere organizzativo e la produttività dell’impresa”. Colto questo bisogno, la mission individuata è quella di essere “una banca al servizio delle imprese, dei dipendenti e delle loro famiglie”. C’è sicuramente un diverso approccio di conoscenza rispetto al tema welfare in base alle dimensioni delle aziende. “Dal recente rapporto Secondo welfare in Italia”, illustra il Responsabile Commerciale Sviluppo di Credem, “emerge che il 92% delle PMI italiane non ha alcuna conoscenza o ha una conoscenza solo generica del concetto e dei benefici del welfare aziendale”. Diverso il caso delle aziende più strutturate, “dove il 69% delle aziende con più di 49 dipendenti conosce i programmi, mentre il 56% delle aziende con più di 350 dipendenti adotta misure di welfare”.
Tuttavia l’approccio culturale rappresenta soltanto uno degli ostacoli per le imprese di piccole dimensioni ad avvicinarsi al welfare: “I problemi riguardano principalmente i costi giudicati eccessivi, già nelle fasi di articolazione dell’offerta di servizi. In secondo luogo, le PMI hanno difficoltà anche nel raggiungere una massa critica che consenta loro di ottenere condizioni vantaggiose nella negoziazione con i fornitori di welfare aziendale”, analizza Denti. “Grazie alla nostra collaborazione con Eudaimon, i costi di accesso a questi servizi possono diventare più accessibili e l’azienda può garantire ai propri dipendenti ulteriori agevolazioni con l’accesso a vantaggiose condizioni a prodotti offerti da Credem”. Il welfare in linea con i valori e la vision aziendali Secondo Andrea Lecce, Responsabile della Direzione Marketing per la Divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, “il welfare è sempre di più elemento distintivo e reputazionale e questo ha favorito sicuramente il panorama delle società e delle banche che offrono soluzioni per il welfare”. È in questo contesto che Intesa Sanpaolo ha pensato di proporre alle proprie aziende clienti non solo soluzioni bancarie e assicurative, ma anche servizi per il welfare aziendale. “Per noi si tratta di dare compimento a quanto previsto dall’accordo triennale fra Intesa Sanpaolo e Confindustria che prevede lo sviluppo di piattaforme di welfare in grado di soddisfare nuovi bisogni legati ai cambiamenti di stili di vita e all’individuazione di soluzioni volte a migliorare benessere e qualità della vita dei dipendenti”. Come spesso avviene, i processi partono prima di tutto all’interno: “Noi viviamo ogni giorno un’esperienza di welfare”, racconta Lecce, “poiché la nostra azienda mette a disposizione dei dipendenti strumenti di previdenza, assistenza sanitaria, condizioni agevolate, nonché, in alcuni casi, il rimborso di beni e servizi per la persona e per la famiglia”. L’occasione poi della prima edizione del premio Women Value Company, istituito da Intesa Sanpaolo con la Fondazione Bellisario e dedicato a chi ha saputo distinguersi nella parità di genere attuando politiche e strategie per la conciliazione vita-lavoro, è stata rivelatrice di una sensibilità per il benessere dei dipendenti registrata nelle oltre 600 imprese partecipanti: “Le storie che ho sentito hanno suscitato in me un’ammirazione profonda:
Alessandro Denti, Responsabile Commerciale Sviluppo di Credem
Andrea Lecce, Responsabile della Direzione Marketing per la Divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo
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un elemento che accomunava molte di queste esperienze era la consapevolezza del rilievo strategico di un programma di welfare, che ha prodotto una migliore reputazione e riconoscimento sociale dell’azienda, una più forte attrazione e fedeltà dei lavoratori più qualificati e dei migliori talenti”. Da qui allora la decisione di intervenire concretamente con una soluzione innovativa per la gestione del piano di welfare: Welfare Hub, un servizio per la gestione dei programmi di welfare aziendale per l’erogazione di beni e servizi con l’accesso a una piattaforma digitale. Il manager di Intesa Sanpaolo spiega che nella realizzazione della piattaforma ha giocato un ruolo fondamentale l’affiancamento di Seri Jakala, primo player in Italia nei marketing services: “Grazie all’esperienza del nostro partner nel campo dei modelli di employalty e di ingaggio, la nostra soluzione si distingue dal mercato per l’offerta di un meccanismo di onboarding in grado di mettere i dipendenti delle aziende nelle condizioni di conoscere meglio le opportunità offerte dalla normativa fiscale e i vantaggi dell’adesione ai flexible benefit, accompagnandoli verso una scelta consapevole”. Lecce sottolinea inoltre come la soluzione sia perfettamente scalabile, dal momento che “è configurabile anche una versione ‘light’, semplificata, rivolta alle aziende piccole con esigenze semplici, come per esempio quelle con Contratto collettivo nazionale dei Metalmeccanici, Orafi e Telco che prevede l’erogazione obbligatoria di una somma prefissata, sotto forma di flexible benefit”. In linea con la vision di chi vuole essere partner a 360 gradi e accompagnare le imprese sulla strada dello sviluppo, “la nostra sfida è quella di offrire soluzioni concrete e innovative, a partire dalle opportunità derivanti dalla nuova normativa sui flexible benefit lasciando la grande maggioranza del beneficio economico, conseguente al risparmio fiscale, in capo all’azienda e ai dipendenti”.
Rossella Leidi, Chief Wealth and Welfare Officer e Vice Direttore Generale di UBI Banca
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Verso la democratizzazione del welfare UBI Banca è stato tra i primi istituti bancari italiani a proporre sul mercato un servizio di welfare aziendale, “come naturale evoluzione per identificare servizi che potessero rispondere a bisogni sociali concreti, come per esempio la domanda di assistenza, sanità, mutui e servizi”, a detta di Rossella Leidi, Chief Wealth and Welfare Officer e Vice Direttore Generale di UBI Banca. L’orientamento strategico nasce proprio dal suo essere banca
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con forti connotazioni territoriali, attenta alle esigenze delle imprese e al sociale, non soltanto dal punto di vista economico. L’esperienza sviluppata negli anni per i dipendenti di UBI Banca ha permesso di “mettere al servizio dei clienti esperienza, cultura e know how in materia di welfare, fortemente sentita all’interno”, fra gli oltre 20mila dipendenti del Gruppo che già da diversi anni utilizzano la piattaforma proprietaria di servizi welfare. Leidi racconta inoltre di un approccio caratterizzato da valorizzazione del territorio, “come elemento costitutivo di un network di prossimità”, e da sostegno al terzo settore e sussidiarietà, “che permette di realizzare una vera e propria rete di benessere per tutti i lavoratori, una protezione integrativa rispetto al Welfare State in tema di assistenza sanitaria, sostegno al reddito, istruzione, cultura e ambiente”. Il Vice Direttore Generale di UBI Banca è convinta che una simile impostazione concorra evidentemente alla “realizzazione di un circolo virtuoso che travalica il puro aspetto di vantaggio fiscale implicito nel piano welfare”. A partire da queste premesse è venuta a costituirsi la divisione UBI Welfare, attraverso cui la banca punta a divenire partner delle aziende nella costruzione di piani welfare fortemente personalizzati, grazie a un “approccio consulenziale ad ampio raggio che mira ad accompagnare le imprese in ogni passo del processo”, dall’analisi all’attivazione effettiva, fino anche alla comunicazione e al monitoraggio. Al fine di approfondire l’analisi e la conoscenza dei fenomeni che possono contribuire a migliorare il benessere individuale e collettivo, ha preso avvio la realizzazione di un osservatorio sul welfare territoriale, guidato dal Professor Michele Tiraboschi, in partenariato con Adapt. “Attraverso l’affiancamento di una rete di professionisti in materia”, spiega Leidi, “auspichiamo di raggiungere una comprensione profonda dell’evoluzione del sistema welfare, sia a livello territoriale sia settoriale, per poter cogliere le esigenze del mercato ed essere preparati a rispondere al meglio”. Del resto l’atteggiamento delle imprese è soggetto a rapidi mutamenti: “Se nel 2016 la conoscenza attorno al fenomeno welfare era piuttosto scarsa, nei mesi successivi abbiamo assistito a un crescente interesse, dal quale deriva un approccio più fluido”. Il welfare aziendale è oggi terreno non più solo per le grandi aziende: anche PMI meno strutturate e (sorprendentemente) persino piccole realtà artigiane stanno adottando l’offerta welfare
di UBI Banca. “Abbiamo concepito soluzioni personalizzate per cluster di aziende, orientate alla democratizzazione del welfare proprio per generare una risposta sociale, a fronte della constatazione che sono proprio le piccole e micro imprese ad avere maggiori difficoltà nell’offrire welfare ai propri dipendenti”, sostiene Leidi. “Puntiamo infatti a garantire un’offerta trasversale, mirata non soltanto alla conversione del premio di risultato, bensì alla pianificazione del benessere finanziario lungo tutto il ciclo di vita, dell’impresa e del lavoratore”. Portare un pezzo di Stato sociale nelle aziende Le leggi di Stabilità 2016 e 2017 hanno introdotto una serie di importanti servizi di supporto alla vita quotidiana delle persone e delle famiglie che offrono vantaggi per il lavoratore e al tempo stesso garantiscono significativi sgravi fiscali anche per l’impresa. Tuttavia Claudio Raimondi, Responsabile Welfare di PosteVita, sottolinea come simili interventi non debbano intendersi come soluzioni definitive al problema di come ricostruire uno Stato sociale: “Se infatti il Welfare State si basa sulla previdenza, sulla salute e sulla non autosufficienza, è bene tenere presente che simili temi sono stati appena sfiorati dalle leggi di Stabilità. Il rischio quindi di limitare il concetto di welfare a quanto concerne gli aspetti più attrattivi, come palestra, viaggi e tempo libero è molto alto”. Per Poste Italiane, invece, “il cuore della questione è, soprattutto, il benessere sociale del Paese”: “Proprio per questa ragione ci stiamo impegnando a raccontare i bisogni del Paese in tema di salute e non autosufficienza, al fine di realizzare un pezzo di Stato sociale che ancora manca”. A tal proposito Raimondi mette in guardia: “Attenzione che il benessere sociale non coincide con lo Stato sociale; sono due valori altrettanto utili alla vita delle persone, ma profondamente diversi”. Al fine di contribuire alla promozione di una cultura aziendale in grado di distinguere le due sfere, Poste Italiane ha realizzato in PosteVita una divisione apposita che si dedichi esclusivamente al welfare. Del resto il Welfare Manager di PosteVita registra scarsa consapevolezza riguardo all’esistenza e alle possibilità delle polizze di long term care (“e già l’assenza di un termine corrispettivo in italiano la dice lunga sulla totale assenza di cultura a riguardo”). La mission
è dunque “portare un pezzo di Stato sociale dentro le aziende, gli unici luoghi dove si possono realizzare principi di mutualità, ovviando a problemi di costi e di stato di salute”. A titolo esemplificativo basti pensare che, per un cittadino, la spesa da affrontare singolarmente per stipulare una polizza long term care ammonterebbe a circa 400 euro annui; mentre attraverso l’azienda è possibile ottenere il medesimo servizio a fronte di una spesa di 40 euro, indipendentemente dalle condizioni di salute del singolo dipendente. In un simile contesto le organizzazioni sono quindi chiamate a svolgere la loro parte: “È fondamentale che le aziende non siano miopi posando il loro sguardo solo alle contingenze presenti”, ricorda il manager di PosteVita, “ma che l’orientino anche al domani dello Stato sociale affiché permetta un vivere civile: se non sono le imprese ad adoperarsi per garantire coperture collettive, i singoli lavoratori (con ogni probabilità) non avranno mai le possibilità per provvedere da sé”. Dal punto di vista di Raimondi, si tratta di un problema di focalizzazione, per cui “si perdono di vista i pilastri fondanti del welfare e ci si concentra soltanto sulle contingenze dell’oggi”, al punto che “il problema della non autosufficienza è oggi percepito come un non-tema”. Risulta allora chiaro come la comunicazione di PosteVita punti non tanto alla sponsorizzazione dei vantaggi fiscali derivanti dall’adozione di piani welfare, quanto piuttosto a “trasmettere una visione e gli strumenti attraverso cui ricostruire lo Stato sociale”. Un approccio al welfare che veste su misura Un punto di vista inedito è offerto da Assiteca, broker assicurativo da oltre 30 anni che nel tempo è andato sempre più strutturandosi per rispondere al meglio alle esigenze delle aziende rispetto al mercato e oggi garantisce un’offerta per il welfare con servizi di consulenza mirati, oltre che soluzioni assicurative. “Il welfare aziendale ha il compito di affiancare il welfare pubblico dove quest’ultimo non risulta più in grado di sostenere la richiesta”, sostiene Lucia Troilo, Responsabile Progetti di Welfare di Assiteca. Già a partire dal 2015 il broker assicurativo ha iniziato a registrare una crescita di interesse nei confronti della tematica welfare e i primi tentativi di approccio anche da parte delle PMI oltre che delle grandi imprese. “Per cogliere in
Claudio Raimondi, Responsabile Welfare di PosteVita
Lucia Troilo, Responsabile Progetti di Welfare di Assiteca
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Federico Casini, Presidente Esecutivo e Direttore Generale di Aon
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modo più approfondito la portata del fenomeno abbiamo promosso un’indagine in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e il Sole 24Ore su oltre 230 imprese italiane”, racconta Troilo. “L’anno seguente, com’è noto, la legge di Stabilità 2016 ha notevolmente ampliato il panel dei servizi ascrivibili alla voce ‘welfare aziendale’ e favorito l’accesso a questo nuovo strumento, in particolare proprio per le PMI. La Divisione Welfare di Assiteca ha potuto così ampliare i propri servizi facendo cogliere questa importante opportunità a imprese clienti e prospect del gruppo”. L’attività di analisi ha messo in luce come ogni realtà aziendale presenti esigenze molto differenti e necessiti di progetti e soluzioni personalizzate, non standardizzate, che prendano in considerazione molteplici fattori. “Prima di tutto è opportuno analizzare le aspettative delle aziende e le esigenze dei dipendenti attraverso una survey che consenta di proporre una strategia in grado di valorizzare e migliorare le politiche di welfare aziendale già presenti e promuoverne di nuove”, spiega la manager. Di non secondaria importanza sono poi gli aspetti legati alla dimensione dell’impresa, all’età media della popolazione aziendale (“fra gli Over 50 si registra una più spiccata sensibilità rispetto ai temi della sanità e della previdenza”) e alla posizione geografica, che mostra chiaramente come “nel Sud Italia, a causa della carenza dei servizi, la salute stia diventando aspetto prioritario nei piani welfare di numerose organizzazioni”. A detta della Responsabile Progetti di Welfare di Assiteca emerge come anche le rappresentanze sindacali hanno cambiato atteggiamento nei confronti del welfare aziendale: “Se all’inizio del 2016 si registrava ancora una certa diffidenza e i sindacati rappresentavano di fatto un ostacolo all’implementazione di piani welfare, oggi hanno in maggioranza rivisto le proprie posizioni e aprono la strada a questi temi puntando in particolare alla sanità integrativa e alla previdenza complementare, servizi di primaria importanza che Assiteca da sempre offre ai propri clienti”. La mission di Assiteca è essere l’unico interlocutore dell’impresa per la gestione integrata di tutti i rischi aziendali arricchendo l’attività tradizionale di brokeraggio assicurativo con specifici servizi di consulenza. Il focus della Divisione Employee Benefits e Welfare è “garantire l’ottimale gestione del
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capitale umano, senza dubbio il patrimonio più sensibile per determinare il successo dell’intera organizzazione”. Nessuna contrapposizione fra coperture primarie e secondarie Secondo Aon, società che si occupa di consulenza dei rischi e delle Risorse Umane, di intermediazione assicurativa e riassicurativa, “è evidente che lo Stato in ambito welfare stia dando sempre più spazio all’iniziativa privata”, afferma Federico Casini, Presidente Esecutivo e Direttore Generale di Aon. Del resto, “più delle leggi di Stabilità, hanno inciso in misura maggiore i rinnovi dei Contratti collettivi nazionali dei lavoratori, in primo luogo dei Metalmeccanici (ma non solo), che hanno previsto l’erogazione obbligatoria di una somma stabilita sotto forma di flexible benefit”. In un simile scenario, il ruolo di Aon può definirsi quello di “promotore” nei confronti delle grandi realtà imprenditoriali, nonché “aggregatore” per le PMI: “Anche queste necessitano di servizi per assolvere gli obblighi dei Ccnl, nonostante il loro esiguo numero di dipendenti. Così, tramite le associazioni, arrivano a noi tutte quelle piccole realtà aziendali che non avrebbero la possibilità di operare in modo autonomo e personalizzato”, spiega Casini. La storia di Aon ha inizio oltre 25 anni fa nella gestione delle risorse umane dei propri clienti, specie attraverso coperture assicurative vita, infortuni e rimborso spese mediche. Nel 2010 è stata realizzata una piattaforma proprietaria per la gestione dei flexible benefit dei propri dipendenti che, a fronte del successo riscosso, è stata poi promossa anche sui clienti. “L’ulteriore evoluzione in ambito welfare è rappresentata oggi dal cosiddetto wellbeing, ovvero il benessere psico-fisico della persona”, illustra il Presidente Esecutivo di Aon. In quest’ultima area rientrano, oltre all’analisi pensionistica e finanziaria, il supporto psicologico e medico, nonché la consulenza per una sana alimentazione e l’esercizio fisico. “Il nostro desiderio è di essere partner dell’azienda per favorire il benessere dei dipendenti nel suo complesso”. In quest’ottica non viene rilevata una contrapposizione fra le coperture primarie e secondarie: “Tutela, salute, previdenza e benessere continuano a essere le aree di interesse che consigliamo maggiormente. Al tempo stesso, i flexible benefit consentono al dipendente di
scegliere come spendere il proprio credito welfare in funzione delle esigenze, differenti in base alle fasce d’età, al proprio nucleo familiare e al proprio stile di vita”. Opzioni che potrebbero rappresentare agli occhi dei più un’opposizione binaria, per Aon invece “costituiscono un percorso virtuoso che si articola nel tempo, all’interno del quale tutte le aree vengono sviluppate, generando un aumento dell’engagement e della produttività aziendale”. A tal fine, assume un ruolo centrale il processo di comunicazione e diffusione dello strumento “piattaforma flexible benefit”, attraverso incontri con i dipendenti, sviluppo di materiali informativi “adatti a illustrare la nostra proposta in materia di welfare, per promuovere una cultura consapevole all’interno dell’azienda”. Anche il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali e delle associazioni datoriali costituisce senza dubbio una leva strategica su cui fondare un piano di comunicazione efficace: “Nella discussione con i sindacati abbiamo costruito un circolo virtuoso, nell’interesse dei lavoratori e degli imprenditori, che ha contribuito al miglioramento del clima aziendale e alla crescita dell’engagement (come dimostrano le statistiche in tema welfare)”, racconta Casini. “Riteniamo che gli accordi stipulati tra Aon e Confindustria Verona e Venezia Giulia rappresentino un valore aggiunto per le PMI associate, che possono così offrire ai propri dipendenti una vasta gamma di soluzioni in ambito welfare, attraverso operatori attivi sul territorio di appartenenza”. Promuovere la crescita di una cultura previdenziale e sanitaria “Oggi le aziende rivestono un ruolo sempre più attivo nei confronti di politiche di welfare aziendale a sostegno del reddito dei propri dipendenti, confrontandosi con nuove domande di protezione generate dai cambiamenti in atto nella nostra società”. È quanto sostiene Fiammetta Fabris, Amministratore Delegato di UniSalute. Dall’ultima indagine di UniSalute, la compagnia del gruppo Unipol specializzata in assistenza sanitaria e prestazioni sanitarie integrative (con oltre 7 milioni di clienti), arriva la conferma che il welfare aziendale è in cima alle priorità degli italiani. L’85% degli intervistati si aspetta infatti che le aziende si attivino con piani di welfare aziendale offrendo beni e servizi che agevolino la vita quotidiana dei lavoratori. “Tutte le ricerche che abbiamo fatto”, spiega
Fabris, “indicano che i dipendenti richiedono sempre più spesso iniziative e soluzioni di welfare inteso in senso allargato e che questi sono elementi di alta fidelizzazione per i dipendenti”. Proprio per questo UniSalute ha deciso di rafforzare la propria presenza nel mercato dell’assistenza sanitaria creando una nuova società, UniSalute Servizi – divisione SiSalute, che completa l’offerta con servizi sanitari non assicurativi sia per le aziende, sia per i singoli individui: “L’offerta di SiSalute per le aziende riguarda in particolare l’ambito dei flexible benefit con portali dedicati che possono integrarsi con piattaforme terze di altri provider”, spiega l’AD di UniSalute. Per i singoli, l’offerta prevede anche le Card SiSalute, un servizio che consente di utilizzare le strutture sanitarie del network SiSalute per effettuare a tariffe scontate visite, esami, terapie, riabilitazione. Le indagini indicano anche che, accanto all’assistenza sanitaria integrativa un altro pilastro del welfare aziendale è rappresentato dalla previdenza. Su questo fronte Alberto Boidi, Responsabile Vita in UnipolSai, spiega che il Gruppo Unipol si è mosso per tempo e include da molti anni l’assistenza sanitaria integrativa (tramite la Cassa di Assistenza) e la previdenza integrativa (tramite il Fondo Pensione) nelle proprie previsioni contrattuali, offrendo quindi a tutto il personale dipendente una serie di significativi vantaggi di tipo sia sanitario e assistenziale sia previdenziale. “È chiaro che un contesto come quello del Gruppo Unipol è già particolarmente favorevole per tutto quanto concerne gli strumenti di previdenza integrativa a disposizione dei dipendenti, che godono per esempio di una serie di automatismi”, afferma Boidi. “Pur all’interno di questo contesto, tuttavia, utilizzare al meglio gli strumenti a disposizione dipende in parte dalla sensibilità individuale, dato che anche nell’ambito della previdenza integrativa vale sempre la regola che più si versa, maggiori sono le prestazioni cui si ha diritto a scadenza”. “Avendo ben presente come Gruppo”, sottolinea il Responsabile Vita in UnipolSai, “il ruolo sociale che abbiamo, che nello specifico significa adoperarci per promuovere una sempre maggiore adesione a forme di previdenza integrativa e quindi un sempre più diffuso accesso a prestazioni di welfare, continueremo a lavorare, al nostro interno, ma anche sull’esterno, per far crescere la cultura previdenziale, soprattutto nei giovani. Perché è un elemento costitutivo di un sistema di welfare che funziona”.
Alberto Boidi, Responsabile Vita in UnipolSai
Fiammetta Fabris, Amministratore Delegato di UniSalute
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TESTIMONIANZE
Mosaicoon, Callipo e Masmec Welfare aziendale Made in Sud Elvio Pasca Viaggio in tre aziende di successo del Sud Italia che mettono al centro dell’attenzione il benessere dei dipendenti, ognuna a modo suo. Dalla giovanissima tech company siciliana con un campus stile Silicon Valley, dove si riflette anche in altalena e non si timbra il cartellino, all’impresa barese di robotica e meccatronica che si fa aiutare dagli psicologi e coltiva la creatività dei suoi ingegneri portandoli a teatro, passando per le ‘storie di famiglia’ di un marchio ultracentenario proiettato nel futuro dove per tutti c’è sempre stato un ‘help desk a 360 gradi’. Un progetto più complicato del solito, un ostacolo che non si riesce a superare, mentre lo stress sale e la deadline si avvicina. C’è chi chiude gli occhi e sogna di essere altrove, anziché inchiodato da giorni a una scrivania. E chi invece può sdraiarsi su un divano e godersi da una parete a vetri un tramonto sul mare, in attesa dell’idea giusta per ripartire. I lavoratori della Mosaicoon appartengono, per loro fortuna, a questa seconda categoria. Il quartier generale della tech company siciliana fondata da Ugo Parodi Giusino è una meraviglia tra la montagna e la spiaggia di Isola delle Femmine che pare disegnata apposta per farli stare bene, oltre che la traduzione architettonica del successo di un’avventura nata nel 2007 in un garage di Palermo, oggi arrivata con i suoi uffici commerciali a Londra, New Delhi, Singapore e Seoul. La piattaforma di video content marketing Mosaicoon permette ai brand di scegliere, adattare e utilizzare per le proprie campagne video prodotti da creativi di tutto il mondo. Nel quartier generale lavorano una sessantina di persone, tra sviluppatori, designer, producer e altri profili tecnici che la fanno funzionare, oltre alle figure di staff. Per il 40% sono donne e tutti sono (molto) giovani: l’età media supera di poco i 30 anni. “L’azienda è tarata sull’attenzione al loro benessere e questo vale anche per i nostri uffici”, dice Daniele Rotolo, Responsabile delle Risorse Umane. Ecco allora 5mila metri quadri, distribuiti su tre piani di vetro e cemento, con open space e stanze per concentrarsi, dove i muri, quando ci sono, sono trasparenti come le porte e alle scrivanie si accompagnano poltrone o divani design. Il piano inferiore è dedicato al relax, con cucina, forno, frigo,
Le altalene costruite all’interno di Mosaicoon
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Daniele Rotolo Laureato in Ingegneria Gestionale presso l’Università degli Studi di Palermo, ha iniziato la sua carriera nelle risorse umane in ERG come Specialista Organizzazione e Sviluppo, prima di diventare Responsabile Organizzazione dell’intero Gruppo ERG nel 2010. Alla fine del 2010 è entrato nel Gruppo Piaggio come Responsabile Organizzazione e Processi. Ha lavorato per il Gruppo per oltre sei anni ottenendo ruoli di crescente responsabilità fino alla nomina di SVP Organizzazione, Sviluppo e Comp&Ben. Dopo numerosi anni di esperienza in aziende strutturate nel 2016 è entrato in Mosaicoon come Direttore HR del Gruppo e come Direttore del Board di Mosaicoon Pte Ltd (Asia Pacific).
un enorme tavolo per mangiare insieme e l’immancabile biliardino. C’è anche una biblioteca aziendale, aperta al contributo di tutti, mentre dal soffitto penzolano altalene. Intorno, un parco di 10mila metri quadri con palme, agrumeto, orto e, ça va sans dire, piscina. “Le persone fanno la differenza” Una campus stile Silicon Valley, insomma, da dove durante la pausa pranzo si può scappare a fare il bagno o anche surf nel Mediterraneo. “Soprattutto in aziende come la nostra, sono le persone a fare la differenza. Ci reggiamo sulla loro passione e sulla loro resilienza. Soluzioni innovative e intelligenti possono arrivare dall’idea del singolo o del team, ognuno deve essere messo in condizioni di dare il massimo. Per noi è un mantra”, assicura Rotolo. “Anche la comunicazione ha un ruolo fondamentale, deve essere fluida e le distanze azzerate. Ugo parla con tutti e organizziamo sessioni chiamate Ask Mosaicoon nelle quali il management risponde pubblicamente a domande raccolte anonimamente”. L’assistenza sanitaria integrativa ce l’hanno tutti, come previsto dal Ccnl Metalmeccanici, mentre per spendere la loro dote di welfare aziendale ragazzi e ragazze di Mosaicoon fanno scelte in linea con la loro giovane età: “Soprattutto buoni per acquisti online o per viaggi aerei”, ricorda Rotolo. “Siamo ancora pochi, riusciamo a gestire le richieste una a una, senza affidarci a provider esterni. Credo però che si debba anche fare un’opera di informazione, far capire, per esempio, che 1.000 euro di welfare valgono più di 1.000 euro di bonus. Abbiamo, poi, tanti altri modi di lavorare sul comfort dei dipendenti”. Tra i progetti ci sono una nursery, una sala prove per la band aziendale e una palestra interna, ma intanto i dipendenti possono fare attività
fisica in diverse strutture convenzionate sul territorio. Dopo mezzogiorno arrivano nell’area relax i pasti prenotati online tra oltre 70 opzioni offerte quotidianamente da un fornitore esterno. Con tre euro o poco più si ha un pranzo completo. Il caffè è gratis e l’accordo con lo stesso produttore locale renderà conveniente anche acquistarlo in cialde per casa. D’estate c’è pure un carrettino del gelato, mentre i frutti dell’agrumeto sono a disposizione di tutti. Gli orari? “Flessibili in entrata e uscita. Non abbiamo badge, ci affidiamo alla responsabilità di ognuno. Il cuore del nostro successo è il senso di appartenenza e l’importante è raggiungere gli obiettivi. Stiamo lavorando a una policy per lo Smart working esteso a tutte le funzioni, abbiamo invece scartato l’idea del telelavoro perché crediamo che in una fase di cambiamento come questa è importante stare tutti insieme”. All’orizzonte c’è anche la distribuzione di stock options, “con una formula innovativa e particolarmente conveniente per i dipendenti”. A Mosaicoon sentono la responsabilità di essere un’eccellenza nata in un territorio non sempre facile, l’esempio che si può fare impresa partendo dalla Sicilia e arrivando fino a Seoul. “Questo stesso territorio ci garantisce, però, anche una qualità delle vita invidiabile, a costi contenuti. Vogliamo portare altri qui, rendendo la nostra sede un luogo di scambio di idee con l’esterno. Per questo abbiamo ospitato personale di altre aziende e ora pensiamo di creare un coworking aperto a nomadi digitali, startupper e altre figure per noi interessanti”. Callipo Group, volersi bene in famiglia Lasciamo le spiagge palermitane, attraversiamo lo Stretto e risaliamo di poco lo Stivale fino a Pizzo Calabro, da oltre un secolo culla del Tonno Callipo. Le conserve, tra scatole e va-
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Dipendenti Callipo al lavoro in uno degli stabilemnti dell’azienda
setti, continuano a guadagnare fette di mercato in Italia e all’estero, ma intanto l’azienda si è trasformata in un gruppo, allargando e diversificando l’attività nella Gelateria Callipo, nel Popilia Country Resort e nella Tonno Callipo Calabria Volley, la cui squadra principale milita in Superlega. Una dimensione globale e complessa che però non le ha fatto perdere il carattere fortemente familiare. Non a caso, Storie di Famiglia è il titolo di una web serie lanciata da Tonno Callipo sul suo canale YouTube. Ci si poteva aspettare una celebrazione che partisse dal 1913, con il patriarca e fondatore Giacinto, per arrivare all’attuale Amministratore Unico Filippo (‘don Pippo’ ) Callipo e a suo figlio, Giacinto anche lui, quinta generazione in azienda. I due Callipo fanno invece solo brevi camei, i veri protagonisti sono i dipendenti, spesso a loro volta mariti e mogli, fratelli, sorelle o padri e figli che lavorano fianco a fianco nello stabilimento. “Con quei video volevamo restituire un po’ del clima che si respira qui dentro. Ci sen-
tiamo un’unica famiglia e anche per questo abbiamo sempre avuto a cuore il benessere di tutte e di tutti”, ci spiega Giacinto Callipo. La declinazione al femminile è d’obbligo, visto che le donne rappresentano la maggioranza tra i 200 dipendenti di Tonno Callipo. Lavorazioni fondamentali e artigianali come la pulitura o l’invasettamento sono affidate solo alle loro mani e se si vuole aumentare la produzione bisogna ragionare soprattutto in rosa. Varietà di genere c’è anche nella zona alta dell’organigramma. “Crediamo nella marcia in più delle donne e alle dipendenti è dedicata una delle nostre prime misure di welfare, la possibilità di effettuare gratuitamente controlli periodici, come mammografie e altri esami, in un centro senologico convenzionato a Vibo Valentia”. L’apertura di un nido aziendale dovrà invece attendere un ampliamento degli stabilimenti, per il quale c’è un tavolo aperto con l’amministrazione comunale: “È un progetto che coltiviamo da anni, ma per ora non abbiamo spazio”.
Giacinto Callipo Classe 1984, Laurea triennale in Economia Aziendale all’Università Bocconi di Milano e Master in Management alla Universidad Pompeu Fabra. Dopo una breve esperienza lavorativa nell’ufficio controllo di gestione di un’azienda internazionale nel settore della produzione di carta e altri supporti per la stampa, Giacinto Callipo, quinta generazione della famiglia, è entrato nel Gruppo aziendale all’età di 24 anni seguendo dapprima lo startup della Gelateria Callipo. Oggi, in staff con l’Amministratore Unico e la Direzione, si occupa in particolare dell’area R&S e marketing di tutte le aziende della Callipo Group e dello sviluppo commerciale della G. Callipo Conserve Alimentari Spa e della Gelateria Callipo.
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L’help desk di don Pippo Giacinto Callipo ha l’attenzione ai dipendenti impressa nei primi ricordi. “Sono cresciuto qui dentro, da bambino vedevo mio padre ritagliarsi sempre un momento per i problemi di tutti, magari chiamava la banca per spendere una buona parola per la concessione di un mutuo, l’avvocato se qualcuno aveva una lite con il vicino, oppure uno specialista se c’era un problema di salute. Una sorta di help desk a 360 gradi, sempre aperto. Sforzi ripagati dall’attaccamento dei dipendenti all’azienda: lo scorso Natale abbiamo premiato un’altra decina di ‘senatori’ Callipo, che sono con noi da almeno 25 anni”. Il welfare aziendale in Callipo Group ha ancora un aspetto paternalistico, arriva ‘dall’alto’. Nessun contratto di secondo livello, anche se sul tema c’è da tempo un tavolo aperto con i sindacati. Questo non ha impedito di distribuire già due volte negli scorsi anni un premio di risultato di circa 600 euro per dipendente. “Continuiamo a crescere, nel 2017 abbiamo chiuso con un 10% in più, 52 milioni solo nel Tonno. È giusto condividere i frutti con gli artefici di questo successo”. La quinta generazione Callipo è proiettata al futuro. “Sono convinto che l’attaccamento e la condivisione dei valori e delle strategie aziendali siano alla base dei nostri successi. Per questo motivo ritengo fondamentale il risultato portato a casa da ogni collaboratore grazie a una ‘vicinanza d’intenti’ piuttosto che necessariamente a una vicinanza fisica. Per tale motivo, monitorando comunque la produttività e gli obiettivi raggiunti, non sarei contrario a una maggiore flessibilità degli orari e allo Smart working. Credo che alcune figure a partire dai commerciali, pur dovendo ‘respirare’ spesso l’aria aziendale per poter condividere l’andamento delle attività in ufficio, siano più produttive all’esterno dell’azienda, per seguire meglio il consolidamento della nostra distribuzione sul territorio, per coltivare rapporti commerciali, per scoprire novità ed essere al passo con i ritmi sempre molto veloci del mercato. Industria 4.0 non vuol dire solo macchinari d’avanguardia, ma anche una riorganizzazione del lavoro e dei rapporti”. Intanto, Giacinto Callipo si è fatto promotore di diverse piccole innovazioni dedicate al relax dei collaboratori. “In sala mensa abbiamo biliardino e ping pong, in estate un frigo pieno di nostri gelati a disposizione di tutti i collaboratori. Abbiamo organizzato anche gite aziendali nei weekend, come per la ciaspolata sulle nevi
della Sila o il Volo dell’Angelo sulle Dolomiti Lucane. Sul territorio siamo percepiti come un modello da seguire, i calabresi comprano il nostro tonno perché è buono, ma anche perché sanno come trattiamo chi lavora qui”. Il welfare aziendale diventa, così, anche una questione di reputazione, come la Corporate social responsibility che vede il gruppo in prima linea sul territorio. “Abbiamo, ad esempio, un bel progetto che coinvolge i detenuti del carcere di Vibo Valentia nel confezionamento delle cassette regalo natalizie, ma lo stesso spirito c’è anche nell’offrire le stesse strutture e lo stesso staff della nostra squadra di Superlega a 300 ragazzi della provincia impegnati nelle giovanili di volley”. Masmec, robot e teatro Alle porte di Bari, c’è invece chi, per far star bene oltre 200 dipendenti impegnati ogni giorno su uno dei fronti più avanzati della ricerca e dello sviluppo industriale, ha chiesto addirittura l’intervento degli psicologi. È successo alla Masmec Spa di Modugno, azienda attiva sul mercato internazionale e specializzata in tecnologie di precisione, robotica e meccatronica per i settori Automotive e Biomedicale. “Il welfare per noi è cura della persona nel senso più largo del termine. Facciamo cose speciali e quindi abbiamo bisogno di persone speciali. Eliminare ogni ostacolo alla loro capacità di crescere ed esprimersi al meglio è il nostro compito principale”, dice Michele Turchiano, Responsabile delle Risorse Umane. “Per venire incontro alle loro necesità bisognava però prima scoprirle, così abbiamo deciso di farlo scientificamente”. Da sempre in contatto con il mondo dell’istruzione e dell’università (tra l’altro Turchiano è socio fondatore dell’Istituto Tecnico Superiore per la meccatronica “Antonio Cuccovillo”), Masmec nel 2014 ha aperto le porte agli psicologi del lavoro dell’ateneo di Bari per condurre
Pannelli di controllo sulle linee di produzione Masmec
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Michele Turchiano Michele Turchiano, 37 anni, laureato in Giurisprudenza e abilitato all’esercizio della professione forense, da 12 anni lavora in ambito HR. Ha iniziato la carriera come addetto alle relazioni sindacali/ amministrazione del personale per una multinazionale produttrice di carrelli elevatori, per la quale ha ricoperto ruoli di sempre più ampia responsabilità, diventando Responsabile dell’Amministrazione del Personale e, in seguito, Responsabile del Personale di plant. Attualmente ricopre il ruolo di Responsabile Risorse Umane di Masmec Spa occupandosi di HR a 360 gradi: dalla gestione delle relazioni industriali alla contrattualistica, dallo sviluppo del personale al design organizzativo, dalle politiche retributive al welfare aziendale.
un’indagine di clima e mappare soft skill ed esigenze dei dipendenti con una serie di interviste individuali. Il progetto si chiamava Il valore che crea valore. “Sono emersi tantissimi elementi interessanti, ognuno ha potuto indicare punti di forza e criticità”, racconta Turchiano. “Tanti chiedevano, per esempio, di migliorare la comunicazione e così abbiamo eliminato le barriere, fisiche e non, per facilitare gli scambi. Poi sono state evidenziate necessità più concrete, che abbiamo tradotto in un piano di welfare strutturato. Oggi ogni dipendente ha una somma da spendere in una serie di servizi, attraverso la piattaforma di un provider esterno, Edenred”. L’offerta di welfare è molto varia. Si va dai servizi di cura della persona, al rimborso delle spese di istruzione e dei libri di testo dei figli; dai biglietti aerei per viaggi di piacere a voucher per cinema e librerie. Ciò si aggiunge alla previdenza sanitaria integrata prevista da CCNL. Chi vuole assistere a uno spettacolo deve solo prenotarsi, se ci sono più prenotazioni si fa una riffa. L’importanza attribuita alle persone a alla loro crescita spiega perché Masmec abbia lanciato l’iniziativa Tutti a Teatro: l’azienda ha acquistato abbonamenti per i principali teatri di Bari, fruibili dai dipendenti con familiari e accompagnatori. Oltre all’opera, al balletto, alla concertistica e alla prosa, un’attenzione particolare è rivolta alle rappresentazioni per bambini e ragazzi. “Cogliere le esigenze reali” “Abbiamo notato che sono particolarmente apprezzati i momenti ricreativi organizzati fuori dall’azienda con le famiglie, come la visita guidata al Teatro Petruzzelli aperto in esclusiva per noi o gli spettacoli al planetario per la gioia dei più piccoli o i concerti Gospel
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per esaltare il clima natalizio. Sono occasioni culturali, di piacere, ma che stimolano l’inventiva, indispensabile per chi deve creare ogni giorno qualcosa che fino al giorno prima non esisteva. Un terreno fertile va continuamente coltivato”. “I lavoratori sono la forza della nostra azienda”, non si stancano di ripetere il fondatore e presidente Michele Vinci e sua figlia Daniela, Amministratore Delegato, parole usate anche a dicembre 2017, quando Masmec ha vinto per la seconda volta il Premio Nazionale per l’Innovazione della Presidenza del Consiglio. Quella filosofia ha fatto accompagnare agli investimenti costanti in Ricerca e Sviluppo un altrettanto costante sforzo per il benessere delle risorse umane. “Produciamo tecnologia avanzatissima, ma sappiamo che la rivoluzione vera la fanno le persone. Vanno messe sempre al centro. L’importante è cogliere le esigenze reali, altrimenti si rischiano buchi nell’acqua”, avvisa il Responsabile HR. “Quando, per esempio, abbiamo pensato di creare un nido aziendale, ci siamo accorti che sarebbe stato utilizzato poco, perché avrebbe rotto un’organizzazione che le famiglie si erano già data per accudire i figli. Ora che stiamo ipotizzando un piano di Smart working, vogliamo prima indagare se c’è davvero interesse e in quali forme”. Il ritorno più importante di questi sforzi? “Vedere persone soddisfatte e orgogliose del proprio lavoro, che si sentono parte di un’eccellenza e non si tirano mai indietro se c’è da fare uno sforzo di produzione in più o andare a installare macchine in giro per il mondo. Ci sono anche il nostro welfare e i tanti momenti ricreativi passati insieme dietro quello che chiamo ‘attaccamento alla maglia’. Da noi il turnover è praticamente inesistente”.
I quaderni di Sviluppo&Organizzazione
WELFARE AZIENDALE TRA DIMENSIONE ORGANIZZATIVA E CURA DELLA PERSONA Analisi di un percorso per creare un nuovo patto tra l’impresa e le persone
I quaderni di Sviluppo&Organizzazione n° 23
WELFARE AZIENDALE TRA DIMENSIONE ORGANIZZATIVA E CURA DELLA PERSONA Analisi di un percorso per creare un nuovo patto tra l’impresa e le persone
a cura di Franca Maino
&SVILUPPO ORGANIZZAZIONE
Dopo Welfare aziendale, la risposta organizzativa ai bisogni delle persone e Dall’azienda al territorio: le PMI incontrano il welfare, è uscito il terzo quaderno di Sviluppo&Organizzazione dedicato al welfare aziendale curato da Franca Maino. Entrato in crisi il welfare pubblico, il welfare aziendale diventa un architrave del modello sociale europeo: i vantaggi per l’impresa e per i lavoratori viaggiano sullo stesso binario e si crea un nuovo patto di fiducia tra l’azienda e la persona.
€ 20,00
Edizione 2017 A cura di Franca Maino pagine 164 € 20,00
Le aziende sono chiamate a svolgere un ruolo sociale che impatta sulle organizzazioni, sui territori e sul sistema Paese. Il welfare aziendale si configura come strumento di ‘ingegneria organizzativa’ e di innovazione sociale e, da ‘carrello della spesa’, diventa un’opportunità per ‘ridisegnare’ il luogo di lavoro del futuro.
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RIFLESSIONI
Trasferimenti intelligenti dei dipendenti Come si riducono i costi della mobilità Francisco Schenone, Marco Dilenge Cambiano i trend della mobilità globale: le aziende devono offrire esperienze di carriera all’estero se vogliono conquistare i Millennial più talentuosi. Ma se un tempo le assegnazioni all’estero a lungo termine erano molto costose (fino a otto volte lo stipendio annuale del dipendente), oggi sono possibili opzioni low cost in grado di soddisfare anche le esigenze e le aspettative dei leader aziendali: una recente ricerca di Crown World Mobility ha individuato tre diversi tipi di mobilità internazionale: trasferimenti permanenti, local plus e localizzazione.
Francisco Schenone ha oltre 13 anni di esperienza nel settore della mobilità globale. Ha vissuto e lavorato come espatriato in tre Paesi diversi. Dal 2014 è Direttore Generale di Crown Worldwide Group in Italia.
Marco Dilenge vanta 11 anni di esperienza nel settore della gestione del personale all’estero. Attualmente è Regional Marketing Manager – Central, Southern & Eastern Europe di Crown Worldwide Group.
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Gli esperti di Crown World Mobility hanno discusso della ‘nuova situazione’ per cui le aziende si stanno allontanando dagli approcci tradizionali di assegnazione internazionale. La tradizionale assegnazione a lungo termine può costare da tre a otto volte lo stipendio annuale del dipendente, in base alla politica, al livello del collaboratore, della dimensione della famiglia e alla combinazione Paese d’ordine-Paese ospitante. Sono molti i modi in cui le aziende utilizzano la mobilità globale per implementare con successo le strategie inerenti ai talenti globali, ma quella che spicca maggiormente è quella che vede i Millennial all’inizio della carriera sempre più alla ricerca di opportunità a livello internazionale. E nella ‘guerra per i talenti’, se le aziende desiderano tenerseli stretti, devono disporre di opzioni di mobilità a basso costo. Ma non è tutto: i leader aziendali devono essere favorevoli a questa nuova situazione e devono essere propensi a ricorrere a queste opzioni a basso costo. Allineare il programma di mobilità globale con le aspettative dei leader aziendali rappresenta una sfida di fondamentale importanza. Il recente sondaggio annuale tra più di 100 aziende partecipanti si è concentrato sulle tendenze e i cambi inerenti a tre diversi tipi di mobilità internazionale: trasferimenti permanenti, local plus e localizzazione. I trasferimenti permanenti: biglietti di sola andata I trasferimenti permanenti sono stati concepiti per essere utilizzati per i trasferimenti internazionali di sola andata, in cui l’assegnatario e la sua famiglia vivono nella nuova destinazione come le persone del posto. Esso presuppone che il dipendente venderà la sua casa (o recederà il contratto di affitto), venderà l’auto, spedirà le sue appartenenze e si preparerà per la nuova vita prima di trasferirsi. I trasferimenti permanenti supportano le persone qualificate affinché occupino i posti vacanti come parte di un soluzione del personale globale sempre più apprezzata dalle aziende con strategie globali mature. Attualmente le aziende desiderano offrire una vasta gamma di possibilità di carriera ai dipendenti.
Un altro fattore chiave per i trasferimenti permanenti è rappresentato dal fatto che molte destinazioni in cui le aziende desiderano fare affari non dispongono di un grande bacino di talenti per determinati insiemi di competenze necessari per soddisfare le proprie esigenze. Il numero di aziende che sta adottando i trasferimenti permanenti e di quelle che ricorre alle assegnazioni a lungo termine è pressoché uguale, non ci sono grandi differenze. Desideriamo continuare a concentrarci su questo punto. Entrambe le tipologie di politiche sembrano essere importanti, soprattutto se le combiniamo con i dati precedenti che indicano che oltre il 90% delle aziende dispone di politiche di trasferimenti permanenti avviati dall’azienda. Il tipo di supporto fornito con maggiore frequenza riflette i benefici che vengono comunemente offerti per garantire la compliance (immigrazione e tasse) e la logistica necessaria per arrivare a destinazione (supporto relativo al trasferimento). L’immigrazione, nello specifico il tempo necessario per ottenere i visti, è stata indicata come la sfida principale. La sistemazione del dipendente e della sua famiglia è stata la seconda sfida citata con maggiore frequenza. Il salario-la retribuzione nella nuova destinazione si trova nella terza posizione. Trasferire i dipendenti da un luogo in cui il costo della vita o la qualità della vita sono elevate a destinazioni con livelli inferiori rappresenta una delle sfide maggiori quando si applica una politica di trasferimenti permanenti. Trasferimenti permanenti avviati dai dipendenti Si sta verificando un cambio derivante dalle strategie di mobilità dei talenti e dai valori propugnati dai Millennial che richiedono alle aziende maggiore flessibilità e possibilità di scelta per il loro cammino professionale. La maggioranza dei partecipanti al sondaggio dispone già di una politica per i trasferimenti permanenti avviati dai dipendenti. Il tipo di supporto fornito più spesso rispecchia i benefici offerti abitualmente al fine di garantire la compliance e la logistica necessaria per arrivare a destinazione. Questa tipologia di politica risponde a una strategia di gestione dei talenti fornendo delle opzioni per il cammino professionale all’interno dell’organizzazione globale. L’intenzione è quella di fornire meno supporto rispetto a quello offerto dal trasferimento permanente introdotto dall’azienda e di ridurre al minimo i costi. La maggiore sfida menzionata sono state le aspettative del dipendente e ciò si incentra per lo più attorno alla differenza tra i trasferimenti avviati dall’azienda e quelli avviati dai dipendenti. I ‘benefici limitati della politica’ sono stati la seconda maggiore sfida. Alcune risposte hanno indicato il rischio di perdere i talenti come conseguenza. Local Plus: trasferimenti a costi minori Non è sempre facile trasferire i dipendenti e le loro famiglie in un nuovo Paese per vivere ‘come dei residenti locali’ e nel caso di determinate destinazioni non è possibile. Originariamente la pura politica di trasferimento ‘da
Risposte alla domanda: “I trasferimenti permanenti avviati dall’azienda vengono adottati con maggiore frequenza rispetto alle assegnazioni a lungo termine?”. Fonte: World Mobility Perspectives, Crown World Mobility
locale a locale’ (come nel caso di un trasferimento permanente) era stata concepita per essere adottata tra Paesi di pari livello, in cui lo stile di vita, il costo della vita, lo stipendio e la qualità della vita sono simili e quindi non è necessario il supporto continuo da parte dell’azienda. Le politiche Local Plus forniscono alle aziende la flessibilità per trasferire un dipendente a costi minori rispetto a quelli di un pacchetto di assegnazione internazionale tradizionale. Consente loro di aggiungere dei benefici concepiti per soddisfare le esigenze dei dipendenti o per rispondere alla realtà della nuova destinazione. Trasferimento Local Plus Il trasferimento Local Plus è uno scenario in cui si presume che il dipendente si trasferisca permanentemente in un’altra località. Quindi, ha molto in comune con il trasferimento permanente. Questa politica viene spesso applicata a chiunque sia idoneo al trasferimento e i benefici sono prestabiliti dalla politica. La politica Local Plus è anche costruita attorno a una politica standard di trasferimento, ma presenta la possibilità di aggiungere dei ‘Plus’ quando necessario per soddisfare le esigenze del dipendente inerenti alla destinazione o a questioni aziendali. Questa politica viene adottata circa per un terzo delle volte (31%) da aziende per circostanze, regioni o Paesi specifici che vengono stabiliti in base agli schemi e alle esigenze di trasferimento delle aziende. La sfida menzionata più spesso è stata la negoziazione dei benefici Plus. Le negoziazioni inerenti all’alloggio e alla scuola sono state descritte come ‘emotive’. Assegnazioni Local Plus Il secondo approccio Local Plus trattato in questa relazione è rappresentato dalle assegnazioni Local Plus dalla durata temporanea. Lo scopo è trasferire i dipendenti a
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Allo stesso tempo l’approccio fornisce maggiori benefici rispetto a un trasferimento da locale a locale, quindi potrebbe essere una migliore opzione per i dipendenti con famiglia (applicata da 49% dei partecipanti al sondaggio), se l’azienda dovesse utilizzare solo gli approcci di mobilità a costi ridotti invece della politica di assegnazione a lungo termine.
La tabella riporta i principali vantaggi della politica di trasferimenti permanenti avviati dall’azienda (il cambio di colore indica un calo significativo nella frequenza rispetto al gruppo precedente). Fonte: World Mobility Perspectives, Crown World Mobility
costi minori rispetto all’approccio della tradizionale assegnazione internazionale, avvicinandoli il più possibile allo Stato locale. Nei casi in cui il modello del Paese locale non è applicabile a causa di fattori specifici della destinazione o di esigenze specifiche del dipendente, le aziende utilizzano questo approccio aggiungendo dei benefici Plus al pacchetto di mobilità del dipendente. Questa politica fornisce meno benefici rispetto alla tradizionale politica di assegnazione a lungo termine e potrebbe essere utilizzata con maggiore frequenza per dipendenti non accompagnati (utilizzata da 51% delle aziende).
Benefici della politica di trasferimenti permanenti avviati dall’azienda offerti da meno della metà delle aziende.
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Localizzazione: da temporaneo a dipendente locale La localizzazione viene definita come la transizione dallo Stato di assegnazione temporanea allo stato di dipendente locale. Questa transizione si verifica principalmente al termine dell’assegnazione internazionale, al posto del rimpatrio. Come indicato nell’introduzione, le assegnazioni internazionali a tempo indeterminato –che durano molto tempo– possono ancora verificarsi, ma sta diventando sempre più difficile giustificarle agli occhi dei leader senior o appoggiarle strategicamente. Per un dipendente che passa da un pacchetto di assegnazione internazionale a un pacchetto locale la transizione viene spesso percepita come una degradazione professionale. Alcuni assegnatari localizzati affermano che l’esperienza internazionale e le competenze globali che apportano in una posizione locale giustificano il fatto di essere pagati di più o di ricevere del supporto aggiuntivo non locale. Attualmente ci sono aziende che stanno introducendo dei modi creativi per alleggerire il processo di localizzazione: • transizione direttamente allo stato locale alla data della localizzazione; • viene fornita dell’assistenza in modo indefinito (in modo simile all’assegnazione Local Plus); • transizione allo stato locale durante un periodo di tempo. I cinque tipi principali di supporto per la localizzazione temporanea sono: indennità di alloggio (71%), assistenza fiscale (71%), istruzione dipendente (43%), assicurazione medica (25%) e supporto per l’alloggio (11%). Conclusioni I programmi di mobilità globale si stanno adattando ai rapidi cambiamenti in corso su tutti i livelli dell’organizzazione e in qualsiasi settore. La maggior parte delle aziende è influenzata dalla migliore tecnologia, dalle strategie di gestione dei talenti, dalla crescita degli affari a livello globale, dalla migliore gestione dei costi e dal desiderio di aumentare la flessibilità e le opportunità. Questi fattori, assieme ad altri, stanno creando un ‘nuovo standard’ ovunque guardiamo. Fornire delle alternative fattibili al modo in cui facciamo sempre le cose crea un modo stimolante, più interessante e più intelligente di considerare i dipendenti e le loro famiglie che si trasferiscono in tutto il mondo. Questa indagine fornisce una maggiore comprensione di queste tre alternative: trasferimenti permanenti, Local Plus e localizzazione.
RIFLESSIONI
La reputazione online di persone e aziende nell’era del social recruiting Valentina Marini, Giada Susca La comunicazione digitale estende il diritto di manifestare la propria opinione a chiunque abbia accesso a un wi-fi. Si scardinano logiche, gerarchie, a volte anche ruoli e meriti, tra le persone e nelle aziende, nei processi interni ed esterni all’organizzazione e in particolare per la funzione HR, impegnata nelle attività di recruiting. In questo scenario il progetto indipendente #GalateoLinkedIn ha l’obiettivo di offrire a persone e imprese i punti di riferimento per la creazione di un’identità digitale di successo, consapevole dei rischi e delle opportunità che il social network può offrire.
Valentina Marini lavora nel settore HR e dal 2017 è Founder di #GalateoLinkedIn, iniziativa volta a rendere LinkedIn uno strumento di lavoro sempre più efficace.
Giada Susca si occupa di “Umane Risorse” dedicando un attento focus alla Social HR e dal 2017, assieme a Valentina Marini, è Founder di #GalateoLinkedIn.
La società cambia velocemente sotto la spinta della grande rivoluzione tecnologica. Dirompenti modelli di business. Nuove e diverse variabili in gioco nelle organizzazioni tra cui i social network. Piattaforme di collaborazione aziendale, Smart working, Big data e neuroscienze. È ormai evidente da anni lo strategico ruolo delle Risorse Umane in questo scenario definito di Digital transformation. Qual è esattamente questo ruolo? Quali sono le sfide poste agli HR? “Inserire il digitale nelle organizzazioni non significa acquistare una o più piattaforme, ma capire come fare leva sull’opportunità offerta dalla tecnologia per ripensare il lavoro. [...] Recuperando il potenziale ancora inespresso del capitale umano” (Luca Solari). Ripensare il lavoro, recuperare il capitale umano: azioni che fanno ben comprendere la centrale funzione degli HR. Non è, quindi, una novità parlare dell’acceleratore del capitale umano come fondamentale driver al necessario cambiamento all’interno delle organizzazioni, alla luce delle trasformazioni sociali e quotidiane. In questa realtà liquida e in costante cambiamento è proprio dalle persone, come sostenuto da Solari, che possiamo trarre la linfa per innovare l’organizzazione. “Non c’è Machine Learning, non c’è Intelligenza Artificiale che tenga, al di là della banalizzazione spesso attuata da chi cerca di vendere questi strumenti. La direzione Risorse Umane deve rovesciare l’approccio: da funzione di ordine, di controllo, di standardizzazione, di definizione di macroprocessi, deve uscire e immaginare che il suo ruolo è quello di cercare gli elementi di unicità, di irripetibilità. Deve cioè cercare tutte quelle persone che in fasi e modalità diverse, possono contribuire. Questo vuol dire avere anche il coraggio di decostruire i propri sistemi e credenze”. Tecnologie oltre il tempo e lo spazio La Digital transformation scardina l’unitarietà di tempo e spazio che era alla base del concetto stesso d’impresa.
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Il web rappresenta una vetrina potentissima per chi cerca e offre lavoro: oggi l’80% delle persone cerca lavoro online e il 93% dei recruiter utilizza la Rete per la ricerca del candidato ideale
L’azienda prevedeva che la produzione o il servizio che essa stessa offriva venisse erogato nello stesso momento e nello stesso luogo. Conseguentemente, all’unitarietà di tempo e spazio si erano conformate la legislazione del lavoro, le politiche sindacali, la comunicazione interna, le politiche di formazione e sviluppo delle persone. La formazione veniva fatta solo in aula replicando il modello scolastico, la comunicazione era tendenzialmente monodirezionale, e così via. Oggi, saltando l’unitarietà di tempo e spazio, è cambiata ogni forma di gestione e sviluppo delle persone: le nuove tecnologie, e i social network in particolare, evidenziano questo salto logico e organizzativo. La comunicazione che i social consentono è fuori o dentro le imprese? La formazione è dentro o fuori le aule e i momenti formali di apprendimento? C’è disruption nel modo in cui si entra in contatto e si comunica con le risorse, interne ed esterne. Il face to face è stato in gran parte sostituito da modalità comunicative più efficienti, e spesso più efficaci, attraverso i canali social e attraverso piattaforme di social collaboration. Queste ultime determinano un altro cambiamento fondamentale: avere la possibilità di aggiungere, al tipico one to one o one to many, il many to many, attraverso le social community. I nuovi strumenti a disposizione modificano e migliorano tempo e modalità di interazione e selezione; efficientano la capacità di collegare persone e condividere know how. Le regole che caratterizzavano il rapporto tra impresa e persone stanno cambiando velocemente: chi fa parte di un’organizzazione aziendale ha a disposizione un portfolio di strumenti estremamente ricco e potente.
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Nel palmo di una mano si possono ricevere migliaia di informazioni, interagire, condividere e lavorare restando in contatto con una community che ormai non ha più confini. Il tutto 24 ore su 24 e con un’intensità che rende sempre più difficile gestire in modo equilibrato il tempo del lavoro con quello del riposo. In parallelo, un dipendente oggi ha –all’interno della propria organizzazione– moltissime opportunità per conoscere e interpretare le strategie aziendali. Come riportato dall’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, le Direzioni HR delle imprese italiane sembrano essere ormai consapevoli di dover giocare un ruolo da protagonista nella Digital transformation, sotto diversi punti di vista. Il dato più significativo emerso dalla survey dell’Osservatorio, che ha coinvolto 170 Direttori HR di medio-grandi aziende operanti in Italia, è la ormai piena coscienza della necessità di affrontare il processo di trasformazione digitale. Lo sviluppo di cultura e competenze digitali è stata la principale sfida del 2017 (indicata dal 45% delle organizzazioni), mentre nel 2016 era tra le ultime priorità. Il 91% delle Direzioni HR infatti ha già avviato azioni specifiche per supportare il cambiamento e chi non l’ha ancora fatto si accinge a farlo. C’è infatti la consapevolezza che serviranno nuove skill nei prossimi due anni, che in parte andranno ricercate sul mercato (per il 47% servirà nuovo personale), in parte richiederanno l’aggiornamento delle capacità già disponibili all’interno (per il 69% l’acquisizione di nuove competenze riguarderà tutta la forza lavoro). Il recruiting nella Digital transformation L’avvento dei social network, e più in generale della trasformazione digitale, ha portato le organizzazioni a un nuovo livello di trasparenza, sia all’esterno sia al suo interno. È radicalmente cambiato il canale comunicativo del brand, ma non solo: anche la sua forma e soprattutto il contenuto. La barriera che probabilmente ha subìto un annientamento in modo più significativo rispetto a tante altre è quella che manteneva separato chi vive dentro le organizzazioni e il mondo esterno. La comunicazione non è più appannaggio dell’azienda e dei suoi canali. Avviene dovunque e chiunque può veicolare storie dell’azienda: dipendenti, consumatori, stakeholder, candidati. La reputazione dell’azienda viene plasmata da quello che la gente dice. Questo richiede che l’azienda si apra a nuove forme e mindset di comunicazione, per mostrare il più possibile della propria cultura e dei propri punti di forza e facendolo in modo autentico, ovvero sfruttando al meglio i nuovi canali di comunicazione incoraggiando le energie e la partecipazione dei propri stakeholder, dipendenti, potenziali candidati, consumatori, che possono assume-
re un ruolo di ambassador e advocate. Per la maggior parte delle big company ciò comporta una vera e propria rivoluzione, soprattutto per gli impatti inevitabili nel modo in cui fare marketing. Fra gli aspetti HR che vengono impattati da questo scenario, i processi di recruiting sono quelli più evidentemente coinvolti dal ripensamento delle attività HR. Le dimensioni digital offrono, infatti, spazi di incontro differenti dal passato, aprendo un’interazione diretta tra candidati e aziende, che mettono in crisi i modelli più tradizionali. Diventa sempre più importante il coinvolgimento e l’engagement dei propri dipendenti nell’attrazione dei candidati; è sempre più evidente l’ibridazione fra HR, Comunicazione e Marketing nelle strategie di Employer Branding efficaci. I Responsabili di Selezione si sono accorti della necessità di avviare nuove pratiche e i più orientati al cambiamento e all’innovazione si stanno attrezzando per rivedere la propria funzione all’interno del nuovo scenario in cui osservare, scrivere, condividere e interagire con i nativi digitali è di fondamentale rilevanza. Inoltre non è più pensabile trascurare la dimensione mobile, dal momento che è ormai consolidata abitudine fare tutto con il proprio smartphone in tempo reale, facilmente e ovunque; anche candidarsi per una posizione aziendale. LinkedIn prima di tutto, vista la sua esplicita mission, ma anche Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat e YouTube, se correttamente utilizzati, diventano facilitatori, o meglio, alleati dei recruiter. Non si tratta della sostituzione della scientificità del processo con un algoritmo informatico, ma di un’integrazione dei social in grado di velocizzare ed efficientare un’attività che rimane comunque legata a capacità e competenze tipicamente umane. Ciò che diventa fondamentale nel recruiting –nel nostro scenario caratterizzato dal passaggio dalle ‘4 P del Marketing’ (Product, Place, Price, Promotion), alle ‘4 C del Digitale’: Creating, Curating, Connecting e Culture– è l’umanizzazione del processo. Oggi, infatti, la grande sfida della War of Talent è comprendere come riposizionare l’ingaggio dei talenti in chiave di attraction ed Employer Branding sulla base della consapevolezza che l’80% dei candidati cerca lavoro sul web. Tale consapevolezza per le attività di Employer Branding online, come in ogni aspetto relativo al web e ai social media, comporta per le aziende una nuova necessità: imparare a interagire con gli utenti, attivando con loro una conversazione e una relazione simile o uguale a quanto accade nella vita quotidiana. Per raggiungere tale obiettivo, un aspetto che ricopre estrema importanza è il coinvolgimento dei propri collaboratori. Questo significa che i dipendenti come Brand ambassador dell’azienda devono divenire la norma, anche online.
Emerge allora come priorità per le organizzazioni incoraggiare il proprio personale a diventare sostenitori del brand, ingaggiare le proprie persone a raccontare il vissuto personale e professionale all’esterno attraverso un tipo di comunicazione, però, non dettata dall’azienda, ma quanto più spontanea. Questo sulla base di una constatazione: è sicuramente più efficace vedere immagini e video non di alta qualità, ma autentici e raffiguranti momenti interessanti all’interno della vita aziendale (come eventi, celebrazioni, ecc.), che un’intervista strutturata. Siamo ai giorni di TripAdvisor (e di Glassdoor, il ‘TripAdvisor’ che valuta le aziende); si ritengono più attendibili le immagini scattate dai clienti, che quelle scelte dal proprietario della struttura che, per ovvie ragioni, deve rappresentarsi nella sua forma migliore. Web Reputation, Personal Branding ed Employer Branding In un’era di collaborazione e di condivisione delle informazioni, in cui tutti hanno a disposizione canali di comunicazione esterna personali (Facebook, LinkedIn, Twitter, Instagram, ecc.): • sono gli individui che lavorano in un’azienda a costituire il volto autentico del brand, non il contrario; • i brand dei dipendenti e il brand della loro azienda sono indissolubilmente legati (tutti diventano messaggeri); • il personale stesso è parte della strategia aziendale di posizionamento sul mercato (ogni singolo dipendente è diventato un touchpoint, un punto di contatto tra azienda e pubblico); • gli impatti sul business sono immediati: gli attori esterni all’organizzazione, candidati e clienti/consumatori, oggi guardano l’azienda al suo interno. Tutti hanno la responsabilità di comunicare i valori, i prodotti e i servizi dell’azienda. Tutti sono messaggeri. Stiamo vivendo quindi un passaggio dall’Employer Branding all’Employee Branding. Ciò significa che l’Employer Branding è sempre più la somma del Personal Branding delle proprie persone e questo perché: • il web spinge sempre di più a raccontare le proprie esperienze; • il passaparola continua a essere il primo canale di recruiting (e i social network permettono di amplificarlo...); • le persone raggiunte dai social network dei propri dipendenti sono oltre 10 volte più numerose dei follower della propria azienda; • anche se solo il 2% dei dipendenti condivide i contenuti social della propria azienda, questa percentuale genera il 20% dell’interesse complessivo sui social media. Tali evoluzioni richiedono un salto culturale dei dipendenti di un’azienda a tutti i livelli. Diventa quindi fondamentale, per le organizzazioni, la governance
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della comunicazione verso l’esterno: le proprie persone sono consapevoli di quello che scrivono su Facebook o su LinkedIn? Hanno ben presente la Social media policy aziendale? C’è coerenza tra valori-cultura aziendale e ciò che le proprie risorse comunicano in autonomia all’esterno? Se questo è un discorso più legato ai rischi, c’è un tema ancora più importante: la nuova opportunità di incrementare, attraverso il coinvolgimento delle persone che vivono l’azienda, la capacità di attraction dell’organizzazione. Per questo motivo sono in costante crescita gli investimenti delle aziende nelle attività di Employer Branding, oggi diventato uno dei principali elementi per costruire l’identità di marca e, soprattutto con i social network, un fattore decisivo per raggiungere il vantaggio competitivo. Come si può dunque pensare il contributo libero e spontaneo dei propri dipendenti, garantendo allo stesso tempo il minor numero possibile di rischi per l’azienda? Tra le soluzioni maggiormente adottate dalle aziende ci sono: sessioni formative atte a illustrare l’utilizzo efficace dei social network (opportunità e rischi reputazionali); workshop finalizzati alla sensibilizzazione degli interni e alla comprensione dell’importante ruolo dei Brand ambassador; coinvolgimento volontario e spontaneo di questi ultimi nelle attività di Employer Branding (video, post, foto, infografiche, ecc); creazione di community interne online. Una rete in movimento: il progetto #GalateoLinkedIn Sulla base di queste riflessioni, a gennaio del 2017 è nato #GalateoLinkedIn, progetto finalizzato a stimolare buone pratiche di networking e condividere suggerimenti rispetto al racconto personale e professionale delle persone sui social network.
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Il web è spesso raccontato come un luogo senza regole, dove ogni utente può dire o fare ciò che vuole. In realtà, le stesse regole di civile convivenza valgono nella vita reale così come sui social network, nelle chat, su WhatsApp, sulle piattaforme aziendali. Come sostenuto nel documento Social privacy. Come tutelarsi nell’era dei social network, non esistono zone franche dalle leggi e dal buon senso. #GalateoLinkedIn è un’iniziativa In-dipendente e non brandizzata, fondata da Valentina Marini e Giada Susca (esperte nel campo delle Risorse Umane, con un particolare focus sull’impatto del digitale nel mondo del lavoro), che ha l’obiettivo di supportare le persone nella comprensione dei vantaggi e dei rischi del social network professionale LinkedIn, nel rispetto di tutta la comunità di professionisti. Coltivare un mondo digitale migliore, con un focus specifico sul mondo del lavoro. Basato su un processo collaborativo e social, che ha coinvolto aziende e migliaia di professionisti –tra cui Digital Officer, CEO, Direttori del Personale, influencer e giornalisti– il progetto in questi ultimi mesi ha portato all’elaborazione finale delle 1+10 buone maniere per il mondo digitale lavorativo: un decalogo che bisognerebbe seguire su LinkedIn e più in generale nella piazza del lavoro online al fine di educare, far crescere insieme gli ‘abitanti di LinkedIn’ in termini di consapevolezza e comprendere che nella ‘vita social’ non dovremmo muoverci diversamente da come faremmo ‘live’. Nel caso specifico di LinkedIn, non dovremmo fare nulla di diverso da ciò che faremmo a un colloquio di lavoro, in ufficio, in una riunione. Dobbiamo avere le stesse accortezze che abbiamo al lavoro quotidianamente: ci presentiamo a sconosciuti, curiamo l’immagine, usiamo solo un linguaggio educato e professionale. In sintesi, prendere atto che LinkedIn, come ogni altro social network, è uno strumento: a guidarlo siamo noi ed esclusivamente da noi dipendono rischi e opportunità. La scelta del nome per questo progetto, ‘galateo’, fa ben intendere che si sono definite, insieme con chi ha desiderato prendere parte all’iniziativa, le modalità e i comportamenti più opportuni e ben accetti sullo spazio pubblico e online del mondo del lavoro. Come per le norme di etichetta, il mancato rispetto del galateo non prevede altra pena che una più o meno marcata ‘disapprovazione sociale’. Come sostenuto da Galateo Italiano “il galateo racchiude in sé tutte le norme e buone usanze che ogni persona dovrebbe seguire nelle varie situazioni pubbliche, siano esse momenti particolari della vita di ogni individuo (matrimoni, feste o lutti), oppure situazioni più comuni, come cene in un ristorante, incontri con un amico, viaggi e doni”. Al giorno d’oggi non esiste più il galateo così come designato da Monsignor Della Casa. I costumi si sono evoluti e, con il passare del tempo, ogni consiglio
Di seguito le restanti 10 buone maniere per il mondo digitale lavorativo.
La reputazione online è frutto di una narrazione tessuta da tanti attori diversi che contribuiscono, con pari dignità, alla definizione dei tratti salienti della nostra identità digitale
scritto dall’uomo sembra essere stato superato. Questo, però, non vuol dire che non esistano più regole da seguire: l’etichetta è in continua evoluzione e riesce a unire nuove esperienze con vecchi usi. Sebbene cambi nella sua sostanza, lo scopo del galateo resta sempre lo stesso: il rispetto del prossimo, una convivenza gradevole tra individui e una società più armoniosa per il benessere di tutti. Un progetto quindi che fa parlare le persone tra loro e insieme trova una terza via, per superare gli stereotipi ‘non ci sono regole’ e ‘si fa così’. Le regole si fanno insieme, ognuno portando il proprio contributo. Il Manifesto di #GalateoLinkedIn Il lavoro finale, il Manifesto di #GalateoLinkedIn, parte da un assunto di base: “Quality is king”. Sono io il responsabile dei contenuti che propongo su LinkedIn, se presto attenzione alla qualità di ciò che scrivo e verifico le fonti delle informazioni che condivido, creo un mondo digitale migliore e porto valore al mio Personal Branding. E non si tratta di una formalità, visto che il confine tra mondo digitale e mondo reale sta sempre più sfumando e quello che accade sul web è una componente ormai fondamentale della nostra vita. Non a caso, quindi, questa buona norma rappresenta proprio quel ‘1+10’. L’enfasi sta a indicare che senza questa premessa, le altre ‘buone maniere’ sarebbero sicuramente meno efficaci. Tale lavoro, approvato da una Commissione di professionisti d’azienda ed esperti del tema, vuole essere di supporto all’attività che ogni utente svolge per aggiornarsi, sviluppare relazioni e ricercare opportunità su LinkedIn.
I fondamentali • L’importante è partecipare Se ho un profilo LinkedIn, ma sto alla finestra, non succede nulla. Se invece partecipo attraverso un’attività costante, metto in circolo valore e opportunità: per me e per l’intero network. • LinkedIn non è Facebook Sono su una piattaforma professionale, il cui perimetro è il lavoro. Richiedo collegamenti, presento progetti, commento articoli, valuto posizioni aperte: indovinelli, meme e selfie stanno bene altrove. • La forma è sostanza Su LinkedIn non siamo amici, al massimo colleghi. Perciò mi esprimo in tono pacato e assertivo, nel rispetto delle norme di buona condotta di un contesto lavorativo. Non aggredisco, non insulto, non ‘blasto’. La mia identità nella rete professionale • La vetrina cattura La headline è la prima chance che ho per esprimere professionalità. In modo sintetico, senza descrizioni enigmatiche, evidenzio il mio ambito di competenza e le mie esperienze, valorizzando le parole chiave utili per i motori di ricerca. • Il racconto funziona Uso il riepilogo per raccontarmi in modo efficace e professionale, caratterizzandomi al meglio, ma senza dimenticare di essere me stesso. Perché anche l’autenticità fa curriculum. • L’immagine è parte del racconto Per il profilo, scelgo una fotografia aggiornata, adeguata a un contesto professionale e coerente con il mio obiettivo lavorativo. La relazione con gli altri • Ogni conversazione è un’opportunità Dietro ogni scambio può esserci una collaborazione, una persona di valore, un lavoro, uno scambio di idee. Per questo sono trasparente, aperto e collaborativo in ogni relazione che instauro. • L’ascolto viene prima di tutto Prima di intervenire nelle discussioni o interagire, è opportuno capire. Investo un po’ del mio tempo per analizzare il contesto, le informazioni, l’identità degli interlocutori. • Il perché guida le relazioni Quando invio una richiesta di collegamento, la personalizzo spiegandone il motivo. E quando ricevo una richiesta, la valuto sempre. • La reputazione è la moneta del presente Siamo tutti qui per costruire relazioni autentiche. I feedback positivi sono i benvenuti; gli endorsement da o per sconosciuti, no.
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INTERVISTE
Valorizzare il personale e i fornitori L’importanza di creare un dialogo Intervista a Simone Mariani, CEO del Gruppo Sabelli A cura della Redazione Il Gruppo Sabelli è oggi uno dei leader nel settore caseario nazionale, con un fatturato che nel 2016 ha raggiunto circa i 148 milioni di euro. Affonda le radici della sua produzione direttamente nel territorio, che viene valorizzato sia attraverso il talent recruiting sia nel supporto e sostegno ai numerosi fornitori locali. Con un dialogo aperto e costruttivo, il Gruppo Sabelli punta alla crescita aziendale senza dimenticarsi del benessere di chi ci lavora. Fondato nel 1921 in Molise da Nicolangelo Sabelli e dal figlio Archimede, l’omonimo caseificio riprese l’attività nel Dopoguerra incentivando gli agricoltori a convertire i loro allevamenti bovini ai prodotti della zootecnia e crebbe fino ad aprire l’attuale stabilimento ad Ascoli Piceno. Oggi, Sabelli Spa è una realtà industriale consolidata, guidata dalle famiglie Sabelli, Galeati e Mariani, che vanta tecnologie avanzate e un eccellente sistema logistico e distributivo di proprietà, attraverso le piattaforme Sabelli Distribuzione Srl e Sa.Ca. Srl. Nel corso del 2016 ha acquisito, inoltre, Trevisanalat e la sua controllata Ekolat, divenendo il polo italiano della mozzarella Made in Italy. L’azienda affonda profondamente le proprie radici nel territorio d’insediamento, dato che l’industria agroalimentare trasforma prodotti provenienti dal mondo agricolo o zootecnico, i quali hanno una produzione concentrata localmente. Ancora oggi come in passato, Sabelli Spa raccoglie latte da oltre 200 aziende agricole dislocate nel Centro Italia tra Marche, Abruzzo, Lazio e Umbria: circa il 90% del latte lavorato è di provenienza italiana e di raccolta locale, il che ha permesso a Sabelli di diventare il leader di mercato nella GDO con le sue referenze storiche e, soprattutto, con le nuove specialità casearie. I prodotti Sabelli –14 mila tonnellate nel 2016– sono distribuiti con marchio proprio nelle primarie catene GDO in Italia, e all’estero. Persone&Conoscenze ha chiesto a Simone Mariani, CEO del Gruppo Sabelli, di raccontarci qualcosa di più in termini di welfare e personale, inquadrando la situazione aziendale nel territorio, partendo anche dal sisma del 2016 che ha colpito il Centro Italia. D’altra parte l’imprenditore ha un passato da Presidente in Confindustria giovani Marche e Vice Presidente nazionale sempre per gli Under 40 e dal 2015 è alla guida di Confindustria Ascoli: proprio in
Simone Mariani Simone Mariani dal 2007 è Amministratore Delegato di Sabelli Spa, storica industria di famiglia giunta alla quarta generazione e oggi tra i più importanti player nazionali del settore caseario; da ottobre 2016 è AD anche di Trevisanalat Spa ed Ekolat d.o.o., acquisite da Sabelli. Mariani vanta un passato da Presidente in Confindustria giovani Marche e di Vice Presidente nazionale sempre per gli Under 40; dal 2015 è alla guida di Confindustria Ascoli. Attivo nel progetto di rilancio dello sviluppo economico e sociale del Piceno, Mariani è stato promotore di un ‘patto sociale’ che vede in prima fila, tra gli altri, le amministrazioni locali.
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Una fase della lavorazione nello stabilimento di Sabelli
questo ruolo è attivo nel progetto di rilancio dello sviluppo economico e sociale del Piceno, essendo il promotore di un ‘patto sociale’ che vede in prima fila, tra gli altri, le amministrazioni locali. Iniziamo dalle attività per sostenere il territorio: tra queste ci sono quelle messe in campo per far fronte al terremoto che ha colpito il Centro Italia e anche la vostra realtà. Purtroppo ne abbiamo risentito sotto molteplici punti di vista. Ovviamente, il problema principale è stato il sisma, seguito poi dalle settimane di neve. Il terremoto è stato un problema molto grave: abbiamo avuto sia dipendenti diretti colpiti e, non meno importante, centinaia di allevatori che si sono ritrovati con stalle inagibili o quasi. In che modo vi siete attivati per aiutarli? Abbiamo cercato di supportarli il più possibile, mettendo a disposizione dei dipendenti i nostri mezzi aziendali. Poi abbiamo utilizzato il camion della raccolta latte per portare acqua potabile nelle stalle, considerato che molti allevatori hanno dovuto affrontare settimane senza acqua né energia elettrica. I generatori hanno risolto il problema dell’elettricità, ma per far sopravvivere i bovini abbiamo dovuto per forza fornire acqua potabile. Inoltre, non c’è stato giorno in cui non ci siamo impegnati a raccogliere il latte prodotto dalle aziende agricole. Va sottolineato che non è affatto secondario, perché essendo il latte un prodotto altamente deperibile, deve venir raccolto quotidianamente, altrimenti si deve buttare; per gli allevatori sarebbe stato un danno importante.
Insomma vi siete presi cura anche dei fornitori… Assolutamente sì: per esempio utilizziamo solitamente una tabella qualitativa con cui remuneriamo la qualità dei prodotti che ci forniscono gli agricoltori; s’è deciso, a causa delle difficoltà causate dopo il sisma, di utilizzarla solo in senso premiante. Se ci è stato fornito un latte di qualità inferiore, abbiamo garantito un prezzo minimo e non abbiamo applicato le solite penalizzazioni, perché ci siamo resi conto che la priorità in
Un particolare di lavorazione di uno dei prodotti di Sabelli
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quei mesi è stata –giustamente– sopravvivere e gestire al meglio l’allevamento. Aggiungo anche che abbiamo avviato una raccolta fondi, creando un formaggio semi-stagionato: per ogni chilo venduto abbiamo raccolto un euro con l’obiettivo di realizzare delle aree di gioco e divertimento –per esempio mini-parchi nei diversi Comuni colpiti dal terremoto– per provare a riportare dei luoghi di svago e spensieratezza. Sempre in tema di cura delle persone, parte del suo tempo è dedicata alle relazioni sindacali: quali sono i rapporti con i rappresentanti dei lavoratori? Da circa 10 anni seguo il tema sindacale da vicino: si tratta di un aspetto a me caro, visti anche gli incarichi in Confindustria. Ho sempre ritenuto il rapporto con i collaboratori e i sindacati un aspetto fondamentale per garantire quella coesione interna che negli anni ci ha consentito di affrontare sia i momenti difficili sia i momenti in cui potevamo concedere di più in maniera condivisa. Sono realmente convinto che il dialogo sindacale e quello con i collaboratori sia la formula più corretta per impostare un rapporto sano e costruttivo: deve diventare una via obbligata per le aziende che vogliono crescere ed essere in grado di produrre valore e reddito. Come si è sviluppato il dialogo con i sindacati? Cinque anni fa abbiamo stretto un primo accordo integrativo di secondo livello molto ben formulato e sfidante; in seguito, alla scadenza dopo tre anni, abbiamo sottoscritto un secondo accordo integrativo e abbiamo
Lo stabilimento di Sabelli è ad Ascoli Piceno
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cercato di conciliare le esigenze di flessibilità dell’azienda agroalimentare, spesso soggetta alla stagionalità. Per esempio, nel periodo estivo dobbiamo affrontare picchi produttivi in cui si raddoppiano le quantità e questo, di conseguenza, richiede un impiego maggiore di personale. Oppure, di contro, abbiamo spesso scarsità di lavoro nel periodo invernale. Un’altra problematica è stata il dover coniugare orari di lavoro molto lunghi dato che, per completare un lavoro o un turno a volte sono necessarie fino a due ore di straordinario: abbiamo pensato, discutendo gli accordi, che fosse giusto ricambiare la disponibilità che il personale ci aveva sempre offerto. Le negoziazioni e le trattative sono state piuttosto articolate e hanno portato ad accordi integrativi di reciproca soddisfazione. Avete sviluppato piani di welfare aziendale? Abbiamo le prime soluzioni di welfare, ma non in senso stretto, perché non abbiamo convenzioni sui vantaggi fiscali. Per fare qualche esempio, abbiamo istituito la possibilità di beneficiare di circa 100-150 euro al mese di spesa gratuita presso i nostri punti vendita aziendali; anziché in moneta contante, dunque vengono forniti questi incentivi. Mettiamo anche a disposizione una serie di sconti importanti (fino al 20%) sugli acquisti che vengono fatti su altri indirizzi di proprietà dell’azienda. Proseguendo, abbiamo istituito –cinque anni fa– una serie di borse di studio che premiano le migliori pagelle dei figli dei dipendenti; si tratta di circa 1000 euro cadauna per i giovani che vogliono continuare a studiare e andare all’università.
Il Gruppo Sabelli è uno dei leader nel settore caseario nazionale: ha chiuso il 2016 con 148 milioni di euro di fatturato
Come venite incontro alle esigenze delle persone a fronte delle particolari necessità? Nel nostro settore, l’attività estiva è il periodo di maggior picco lavorativo, quindi le imprese hanno la facoltà di non concedere ferie nel periodo estivo. Noi invece, con i già citati accordi sindacali che abbiamo stipulato, siamo stati in grado di garantire ad agosto le due settimane consecutive più la terza a tutti gli assunti a tempo indeterminato, con la consapevolezza che questo periodo sia un valore aggiunto abbastanza importante, nonostante devo ammettere che crei parecchi disagi organizzativi e di efficienza, perché dobbiamo inserire tante persone per sostituire gli esperti. Parlando di flessibilità oraria invece, abbiamo messo a disposizione delle neo mamme gli orari agevolati: per i primi 12-24 mesi, hanno turni agevolati che consentono alle signore di gestire meglio i rapporti con i bambini, anziché turnare sugli orari come fa solitamente il personale. Queste sono le soluzioni che abbiamo al momento, ma nulla toglie che in futuro si possano strutturare altri processi, integrando le facilitazioni che a oggi offre il mercato. Sul tema formazione quali sono i vostri progetti? In questi anni abbiamo stanziato anche del budget crescente per la formazione delle prime e seconde linee: principalmente corsi executive, qualche master, attività di coaching personalizzate. Crediamo
che, in parte, la sfida della crescita personale passi attraverso la formazione, che diventa indispensabile soprattutto per le persone che hanno avuto meno opportunità in fase scolastica. In questi casi c’è bisogno di lavorare ancora di più per poter fornire gli strumenti adeguati e aggiornati per interpretare il tempo che viviamo. Riuscite a reperire le competenze necessarie sul territorio? In caso contrario, cosa fate per ovviare al problema? Fortunatamente, fino a oggi siamo riusciti a provvedere in modo soddisfacente a queste ricerche di personale, solo in qualche caso abbiamo cercato le competenze di cui avevamo bisogno attraverso selezioni specifiche e dirette. Va detto che questo è un tema sempre caldo: per esempio capita che a volte ci sia l’esigenza di coprire certe posizioni e non si riesca a trovare nessuno. C’è sicuramente la necessità importante di avere un territorio che fornisca figure con maggiori competenze. Tuttavia c’è un piccolo bacino cui ci rivolgiamo –l’Istituto Superiore Adriano Olivetti (Istao)– fondato ormai circa 50 anni fa: riconosco che sono in grado di fare una buona selezione di laureati e possiamo quasi definirla la ‘business school’ delle Marche. Certo, avere altre scuole vicine sarebbe una ricchezza, ma io sto puntando sull’Istao affinché ogni anno siano formati manager competenti e motivati.
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RISORSE QUASI UMANE Axel Scapin
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