«Il lino delle fate», di Annapaola Digiuseppe

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Indice

La storia, la narrazione, la luce di Davide Canfora

I.

Giugno 1793

II.

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Il sogno, la masseria, la raccolta del grano

Luglio 1794

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La trebbiatura, padre e figlio, il lutto

III. Agosto 1795 La pittura, la raccolta delle mandorle, il matrimonio

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IV. Settembre 1796 Il Conservatorio, il sogno, la fiera di Cisternino

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V.

Ottobre 1797

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La città, l’incontro, la semina

VI. Novembre 1798 La spezieria, i dissensi popolari, la festa patronale

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VII. Dicembre 1799 L’Albero della libertà, il sacco di Martina, il battesimo

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VIII. Gennaio 1800 Il brigante Cappanera, il medico, l’agguato

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IX. Febbraio 1801 L’anello di pietra, nonna Lena, la proposta

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X.

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Marzo 1802 Il sogno premonitore, il messaggio, la malattia

XI. Aprile 1803 La speziale, donna Isabella, Lauretta

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XII. Maggio 1804 La lettera, ritorno alla masseria, un nuovo inizio

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Ringraziamenti

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I contenuti supplementari di seguito elencati sono scaricabili in formato pdf dal sito www.paginasc.it o inquadrando il qr Code qui sotto. Contenuti extra: Sinossi dei capitoli / Schema dei personaggi / Personaggi storici / Bibliografia

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La storia, la narrazione, la luce di Davide Canfora

Cos’è un esordiente? Difficile definire con precisione questa categoria. Chi ha scritto dentro di sé intimamente e a lungo, tentando e ritentando, pensando, approfondendo, meditando, è esordiente agli occhi del mondo: non però davanti alla pagina bianca. Il lino delle fate si presenta al lettore con la forza di un libro scritto per anni nel silenzio del pensiero, prima di prendere forma concreta. Letture e ricordi vivi si intrecciano e sorreggono la penna dell’autrice: il suo racconto è come la quercia che cresce lenta e imponente sulle colline pugliesi dove la storia è immaginata. Un film tra i migliori di Gabriele Salvatores, Mediterraneo, si conclude con il ritorno del tenente Raffaele Montini, a distanza di anni, nell’isola greca dove egli, con i suoi soldati, era rimasto sospeso per mesi fuori dallo spazio e dal tempo durante la Seconda guerra mondiale. Montini, sbarcando, trova che ormai quasi tutto è cambiato: il porto è pieno di turisti, di frastuono, di movimento. Eppure la luce è rimasta la stessa: la luce dell’Egeo che aveva convinto il più impacciato dei soldati di Montini, l’attendente Antonio Farina, a rinunciare al rientro in Italia, alla fine della guerra, per rimanere accanto all’amata Vassilissa. Così anche l’autrice di questo romanzo ha preso le mosse dalla luce. La luce intensa di un Sud arretrato, ma forte e pensoso. La luce di luoghi che attenderanno sempre un pieno riscatto. La luce con cui Foscolo circondava la nascita di Venere nel sonetto A Zacinto. La luce che abbacina gli occhi nei giorni di estate, quando le cicale sovrastano le voci e i pensieri. La luce che l’autrice del Lino delle fate ha visto da sempre attorno a sé, nei propri luoghi di origine, è stata la macchina

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del tempo che le ha permesso di immaginare quegli stessi luoghi e gli uomini secoli prima. Azioni apparentemente distanti da noi, eppure così familiari: i gesti di un mondo sempre in bilico tra paganesimo e bigotteria, arretratezza e modernità, magia e ragione, conservazione e speranza di rinnovamento. Un mondo irrisolto, immobile, dolente. L’espressività magnifica di Isabel Allende, a sua volta narratrice di una realtà sempre sospesa tra innovazione e caparbio attardarsi, si salda alla capacità di costruire dialoghi e scenari che evocano le pagine di De Roberto e Tomasi di Lampedusa. E soprattutto la capacità di comprendere colpisce nelle pagine del Lino delle fate: la capacità di indagare e comprendere il perché di quella conservazione che cozza contro il cambiamento. Paragonabile in questo, il nostro romanzo, alla profondità straordinaria del Novantatré di Hugo: il sommo scrittore francese, cantore solenne delle grandi conquiste rivoluzionarie, non condannava, ma investigava e penetrava il mistero della reazione in Vandea, del rifiuto del progresso, dell’istinto a diffidare della ragione. La letteratura diventa così narrazione della complessità umana: di quell’eterno oscillare tra utopia ed egoismo, tra altezza e miseria, che è la sintesi dell’animo individuale e della storia intera. Il lino delle fate, si deve aggiungere in ultimo, è senza dubbio un romanzo storico. Nella nostra tradizione, per il nostro immaginario, questa appare una pretesa che lede la maestà delle istituzioni. Il romanzo storico, per noi, è Manzoni: il Manzoni che nessuno, o quasi, ormai legge; ma che tutti siamo pronti a citare. Eppure non si può parlare di questo libro senza far riferimento alla sua vocazione storica. Davvero l’autrice si pone in continuità, con discrezione ma in modo infallibile, con l’antica indicazione aristotelica, che – variamente modulata – attraverso i secoli è giunta fino appunto a Manzoni e poi ai veristi e si prolunga fino a noi: il narratore colma gli spazi lasciati vuoti dallo storico. Ciò che lo storico non può conoscere, perché i documenti (diceva Marc Bloch) non raccontano mai tutto, deve essere raccontato dal romanziere. Il lino delle fate si fonda su documenti, appunto. E allo sfondo documentario aggiunge il verosimile delle vicende personali: che diventano, grazie alla penna felice dell’autrice, espressione di sentimenti intimi che si mescolano allo spirito collettivo.

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Il lino delle fate



Capitolo I. Giugno 1793 Giugno è il mese della raccolta del grano e della tosatura. Nel 1793 il duca di Martina è Francesco III

il sogno

la masseria

la raccolta del grano

Guardava la campagna dall’alto, sorvolando la terra rossa e pietrosa, i sarmenti intrecciati delle viti, le chiome dei fragni, le anse disegnate dai sentieri spinosi, le mandrie oziosamente al pascolo e le pecore sparse nella radura erbosa come sassolini bianchi lasciati cadere dalla mano di un gigante. Si spostava fendendo un cielo denso che le opponeva attrito e le rallentava il volo. Nonostante la luce intensa che filtrava tra le ciglia, impedendole di tenere gli occhi del tutto aperti, aveva una percezione nitida di tutto ciò che scorreva sotto di lei. Vedeva ondeggiare il grano scosso dal fiato del vento, una lucertola smeraldo strisciare rapida tra le pietre di un muretto a secco, un’ape staccarsi dalla sua arnia e gettarsi a capofitto tra i petali di un fiore. Silenzio. Poi lo schiocco di un tordo, l’imbrunire repentino, il volo interrotto, la caduta tra i rami di un mandorlo, le braccia e le gambe incagliate tra le fronde. Ancora silenzio. Solo il respiro della terra e il ritmico rintoccare del cuore come una vanga sulle zolle aride. Virgilia spalancò gli occhi e inspirò forte, riacquistando la percezione del corpo sotto il lenzuolo. Compensata la sensazione di apnea,

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rimase immobile in attesa che gli occhi si abituassero al buio e tornassero a disegnare i contorni della stanza. Il freddo iniziò lentamente a scorrere via, scivolando lungo le spalle. Ormai completamente sveglia, lasciò che la quiete della notte calmasse l’agitazione causata dal sogno, mentre il suo sguardo iniziava a enumerare meticoloso e abitudinario le pietre multiformi del cono del trullo, sospeso sul suo letto come una campana senza battaglio. Ogni pietra una chiave di volta, ogni singola pietra una rampa che innalzava la successiva in una spirale ascendente, ogni pietra cesellata in funzione della salita al vertice, metafora inconsapevole dell’umana aspirazione al divino. Virgilia, però, inseguiva altri pensieri nel fissare ossessivamente quelle familiari facce litiche, come quando giocava con le nuvole, individuando figure favolose nelle masse candide, che via via si deformavano, mutavano e si ricomponevano in forme sempre nuove. Le nuvole, però, nella precarietà e nell’imprevedibilità delle loro alterazioni, spesso si rivelavano inquietanti. Le pietre del suo trullo, invece, erano statiche, solide, confortanti. Negli anni Virgilia aveva attribuito un simbolo a ognuna di esse, aveva scorto un’immagine attraverso le sporgenze e le cavità di ogni pietra, e passarle in rassegna era per lei come sfogliare le pagine di un libro illustrato, come ascoltare i colorati racconti delle contadine sull’aia, come accarezzare i capelli grigi della nonna Lena e sentire scorrere sotto le dita anche tutti i suoi anni, le sue esperienze, la gioia, la fatica, l’amore, le lacrime, il lavoro. Così, scontornate dalla fantasia di Virgilia, le pietre sprigionavano nella stanza figure tridimensionali che si raccoglievano intorno al cono del trullo come in una vorticosa danza: un gatto, una dama, un nano, un grappolo d’uva, un viso imbronciato, una capra, un carro, un occhio maligno, un geco. Pian piano la concentrazione di Virgilia si allentò, portando via con sé i bordi di quelle immagini e lasciandole dissolvere come il

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vapore che usciva in inverno dalla legna umida appena poggiata sul fuoco. Di fianco a lei, nello stesso giaciglio, Silvia dormiva nella sua solita posa composta, le mani intrecciate in grembo, le trecce ordinate lungo il collo e le spalle. Eppure Virgilia sapeva che quell’apparenza soave era una cornice di fiori intorno al bordo di un pozzo. I sogni di sua cugina erano quasi sempre abitati da figure angoscianti e luoghi oscuri. Dietro quelle palpebre immobili la sua mente stava di certo dando corpo a visioni irreali ma capaci di procurare un dolore vero, concreto. Virgilia guardò la schiena della nonna addormentata nel letto accanto, poi si voltò verso la piccola finestra ritagliata come una feritoia nella profondità della parete. Alla fine di quella nicchia imbiancata di calce i battenti schiusi dello scuretto di legno lasciavano entrare il chiarore opaco di una fetta di luna che, insolitamente definita, sembrava uscita da un dipinto dell’Immacolata. Il suo contorno era interrotto solo a tratti dalle fronde dentate del leccio che campeggiava a un lato della corte. Fuori, la campagna taceva assopita, il suo respiro sprigionato dalle essenze delle piante aromatiche. Anche nei mesi più caldi il feudo di Martina di notte si avvolgeva di una salubre frescura che ristorava dall’afa, dalla fatica e dai dispiaceri diurni. Le solide mura perimetrali della masseria stringevano in un abbraccio possessivo il riposo dei pastori, dei contadini spossati, delle donne finalmente immote, dei loro figli trasandati e scalmanati anche nel sonno. L’indomani riservava per ognuno di loro una giornata lunga e faticosa, una giornata di terra, di pietre e di grano. Quando Virgilia e sua cugina Silvia si svegliarono, persuase dalla voce paziente ma perentoria della nonna, che già aveva iniziato a rassettare i letti nell’istante stesso in cui le bambine avevano messo i piedi a terra, il latte appena munto diffondeva il suo aroma di stalla in tutta la cucina e l’intera masseria era ormai in piena attività, uomi-

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ni e animali, ognuno al proprio compito, ognuno schierato nel proprio settore come in battaglia. Sembrava che quel frangente di inerzia notturna non ci fosse mai stato e che niente avesse mai interrotto l’attività solerte dei lavoratori. Era la vigilia della raccolta del grano e tutti erano impegnati nei preparativi che precedevano la mietitura. Virgilia e Silvia, ancora nelle loro lunghe camicie da notte, entrarono in cucina, nel trullo più grande, saggiando il freddo delle chianche sotto i piedi scalzi. Nonostante la stagione estiva, i trulli si mantenevano sempre freschi, grazie alle ridotte dimensioni delle finestre, alla pietra viva dei coni e allo spessore delle pareti, la cui profondità era quasi pari all’altezza. Liberati due sgabelli dagli scampoli del cucito e dall’invadenza di una gallina intraprendente, le bambine si sedettero a consumare il pasto mattutino a base di latte di capra, pane e formaggio. La nonna Lena, senza mai smettere di sfaccendare, le seguiva con occhiate apparentemente distratte, assumendo un cipiglio severo quando incrociava i loro occhi, in un muto rimprovero che ricordava loro gli impegni della giornata. Il cuore, però, tradiva i suoi disciplinari propositi, battendo più forte ogni volta che le sue nipoti riempivano la stanza come fiori in una grasta. Virgilia era la sua nipote diretta, figlia di sua figlia Anna e di Lorenzo. Il padre, morto due anni dopo la nascita della bambina, aveva scelto per lei un nome impegnativo, legato all’amore che nutriva per la sua città e le sue leggende. Martina, feudo dei Caracciolo Pisquizi, era un crocevia di civiltà, in virtù della sua posizione geografica tra Terra di Bari e Terra d’Otranto, e il mito di Virgilia era una delle leggende martinesi più antiche e più controverse: Virgilia, in bilico tra sacro e profano, era insieme santa e maga, vergine pura e guerriera scaltra, benefattrice e dominatrice delle forze oscure. La nonna non sapeva quanto sua nipote avesse assorbito di quella leggenda, fatto sta che Virgilia, appena dodicenne, era una strana bambina, una creatura misteriosa immersa in un mondo esclusivo. Lo sguardo era un groviglio di pensieri e di immagini, uno snodo

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di conoscenze e di attitudini estranee alla sua età e alle sue dirette esperienze; spesso, come un gatto selvatico, fissava qualcosa che solo lei vedeva, restando immobile con tutti i sensi allertati, oppure muovendo piano la bocca come se bisbigliasse all’orecchio di qualcuno, compiendo enigmatici movimenti nell’aria con le sue mani piccole ma sapienti. Maddalena (per tutti nonna Lena, da quando erano nati i suoi nipoti) era una donna razionale e dotata di senso pratico, sapeva che Virgilia era semplicemente una bambina dall’immaginazione molto viva, ma sapeva anche che i suoi sogni erano “particolari” e che spesso si presentavano come presagi, come messaggi provenienti da chissà chi e chissà dove. Lena lo capiva bene, perché era un dono – o una condanna – che possedeva a sua volta, sebbene preferisse non toccare questi argomenti con la nipote, per non spaventarla. Tantomeno ne aveva mai fatto parola con chiunque altro, per evitare che si diffondessero strane voci sulla piccola: la fantasia dei contadini, sempre a caccia di santi e di demoni, era già fin troppo accesa senza che si desse loro alcun pretesto a cui appigliarsi. Non giocavano, poi, a favore di Virgilia i suoi lineamenti marcatamente mediterranei, in alcuni tratti saraceni, le sue tinte brune, il suo umore lunatico, la sua inconsueta padronanza di sé. Con le iridi dello stesso colore del vino cotto, il volto ovale circondato da una massa di ricci scuri e le gote rosate come bacche di uva spina, Virgilia era una visione sospesa tra l’iconografia sacra bizantina e la rappresentazione cinquecentesca della strega. Ben diversa da lei era Silvia, sua cugina, figlia del fratello di Lorenzo, Antonio. Avevano la stessa età ed erano unite da un profondo affetto, pur avendo caratteri opposti. Silvia era delicata e sensibile, diafana nei colori somatici ed eterea nelle movenze. Sembrava potesse infrangersi da un momento all’altro come una statuina di vetro. Maddalena era in ansia per la sua fragilità almeno quanto lo era per le stravaganze di Virgilia. Emise un sospiro e si fece il segno della croce, chiosandolo con un

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bacio sulla falange dell’indice destro, poi raggiunse le bambine che intanto, finita la colazione, erano tornate nel loro piccolo trullo. «Sisì, hai fatto brutti sogni anche stanotte?», chiese Virgilia a Silvia mentre lavava le mani e il viso, sporgendosi sulla bacinella sorretta dal tripode di ferro battuto. «Stanotte è stato pure peggio del solito», rispose Silvia, versandole l’acqua dalla brocca, «correvo sempre dentro a quella tana lunga lunga, sottoterra, come una casa di serpente, e avevo una paura, Madonna santa, perché lo sapevo, lo sapevo che fino alla fine il buco mi strozzava... ma lo stesso correvo verso il fondo, sempre più stretto, perché da dietro mi sentivo arrivare qualcosa che mi metteva ancora più paura». Virgilia, notando il tremore delle dita di Silvia, si asciugò molto frettolosamente con il panno di tela, poi le tolse la brocca dalle mani e le diede il cambio. «Non capivo cos’era», continuò Silvia mentre teneva i palmi a coppa per raccogliere l’acqua, «ma mi sentivo come un fiato brutto dietro la testa, come il toro quando sta arrabbiato. E non ce l’avevo il cuore di girarmi, perché tenevo spavento di quegli occhi rossi da diavolo dell’altro sogno, e non li volevo vedere di nuovo. Correvo e quello mi tirava dai capelli come l’aria prima dei fulmini... era tutto buio... lo spazio si stringeva, non respiravo più...». Si gettò l’acqua sul viso e sfregò con più energia del necessario, nel tentativo di cancellare quelle immagini come fossero macchie di terra. Rimasero in silenzio, Silvia intenta ad asciugarsi e a ricomporre le ciocche sfuggite dalle trecce, la cugina a riflettere. Virgilia era fermamente intenzionata a porre rimedio agli incubi che infestavano i sogni di Silvia, ci avrebbe provato con le preghiere, con le erbe che stava imparando a conoscere in tutte le loro virtù terapeutiche, con gli amuleti e con le formule magiche che sapeva inventare per ogni occasione, imitando le masciare che a volte aveva osservato in azione, intente a sciogliere l’affascino, a tagghià i virme,

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liberando i bambini dai parassiti intestinali, o a tagghià le jerànere, scongiurando temporali e grandine. Se ne fosse stata capace, sarebbe entrata nei sogni di Silvia, pattugliando i sentieri intricati della sua mente, battendo un bastone per terra per scacciare le presenze insidiose, come il nonno le aveva insegnato a fare nel bosco per allontanare le vipere. Avrebbe fatto ogni cosa per vedere rasserenati quegli occhi verdi come foglie di salvia e arrendevoli come un belato di agnello. Virgilia riusciva a controllare in buona parte i propri sogni, a disciplinarli. Quando loro “le parlavano”, lei stava ad ascoltarli; quando invece le facevano paura, sapeva come uscirne: la via di salvezza era il volo, un volo che la portava lontano da ogni pericolo. Il punto di arrivo, ovunque iniziasse la sua fuga, era sempre lo stesso albero di mandorle, sebbene lei non ne comprendesse la ragione. La sua mente aveva deciso che era lì che doveva sentirsi in salvo, ed era lì che la conduceva ogni volta. Aveva “imparato a volare” da poco tempo e le costava un grande sforzo mentale, che nel sogno si traduceva in vera e propria fatica fisica. Era necessaria tanta concentrazione affinché il corpo perdesse il suo peso e si staccasse dal suolo, allontanandosene sempre più fino a librarsi nel cielo, e ogni minimo movimento esterno o rumore improvviso la faceva precipitare rovinosamente. Ma a quel punto si svegliava, quindi era comunque in salvo dall’incubo. «Bene, devo insegnarti a volare!» disse con convinzione a Silvia. «Sì, sì, certo. Dopo che le hai fatto uscire le ali, insegnale pure a fare le uova, che mi torna più utile», commentò scettica nonna Lena passandole le dita tra i capelli, nel tentativo di districarli. Come ogni mattina, Maddalena provò a disciplinare quella cascata di ricci, per poi concludere puntualmente che sarebbe stato meglio lasciarli liberi di aggrovigliarsi lungo la schiena, perché non vi era alcuna speranza di riuscire a trasformare dei viticci selvatici in trecce ordinate. Le bambine si vestirono in fretta con complice sincronismo, piegarono le camicie da notte riponendole sotto il cuscino e usciro-

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no sulla corte. Su quell’ampio spiazzo si affacciava gran parte del complesso di trulli e di costruzioni dai tetti a lamia o a falde inclinate che, aggregati come pendenti di un’asimmetrica collana e accomunati dalle medesime coperture in chiancarelle, costituivano l’impianto edificato della masseria Biasi, i cui punti focali, separati dagli altri corpi di fabbrica, erano rappresentati dall’imponente casa padronale e dalla chiesetta dedicata al culto della Madonna Odegitria. Antonio era intento a passare in rassegna i carri per il trasporto del grano. Giugno era un mese impegnativo e cruciale. Nei giorni che precedevano la mietitura era sempre in tensione e vagava per la masseria come un’anima inquieta nel Purgatorio, supervisionando il lavoro dei suoi dipendenti. Da quando suo fratello Lorenzo era morto, era tutto sulle sue spalle e non poteva permettersi di lasciare niente al caso. Era il responsabile della conduzione della masseria, che dirigeva con pieno controllo amministrativo ed economico. Don Filippo Biasi, proprietario del complesso edilizio e dei vasti terreni che lo circondavano, compresi il frutteto, il giardino, la vigna, il pascolo, l’uliveto, i campi coltivati e il bosco, gli aveva accordato totale fiducia. Il galantuomo, che oltretutto vantava origini aristocratiche, non aveva né le competenze per occuparsi personalmente di coltivazioni e allevamenti, né l’intenzione di dedicarsi ad attività non all’altezza del proprio rango e lontane dalla vita cittadina: preferiva affidarsi al genio imprenditoriale dell’abile Antonio, percependone gran parte dei frutti della produzione agricola e pastorale, tramite un contratto di mezzadria a carattere continuativo. Sulla fertile collina martinese, nel versante sud-occidentale, quasi a ridosso dell’area boscosa conosciuta come Pianelle, le vaste proprietà della famiglia Biasi erano il risultato di anni di silenziosa e costante usurpazione del territorio demaniale: nell’arco di tutto il Settecento il ceto egemone locale, anche attraverso l’appadronamento e la

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chiusura delle aree a uso collettivo, era riuscito a concentrare nelle proprie mani gran parte della ricchezza del paese. La politica di appropriazione e accentramento attuata dai facoltosi proprietari terrieri, seppure a discapito dei piccoli contadini e delle classi più povere, aveva reso possibile lo sviluppo di grossi poli produttivi, ma il merito di aver trasformato quei fondi in imprese efficienti e floride era tutto dei massari: Antonio e la sua famiglia, affiancati da una rete di collaboratori, fissi e stagionali, erano a tutti gli effetti la struttura portante dell’economia di quella realtà rurale autonoma e autosufficiente che riusciva, all’interno del suo nucleo aggregativo, a produrre tutti i beni di prima necessità. La pastorizia e l’allevamento di cavalli, asini, muli e suini, accanto alla coltivazione di grano, viti, fieno, avena, orzo, ulivi, fave e piselli, garantivano un certo benessere per tutti, sebbene strappato alla terra con la fatica quotidiana, la parsimonia e la tenacia. Antonio sapeva che la mietitura era una delle fasi produttive cruciali della masseria e che nulla andava lasciato al caso nei giorni che la precedevano. Aveva già ingaggiato la manodopera supplementare, che sarebbe confluita dal paese e dai dintorni dell’agro, e aveva fatto predisporre per l’occasione dei dormitori temporanei, tra la stalla e i pagliai. «Buongiorno, papà» sussurrò con reverenziale rispetto Silvia, mentre Virgilia salutava lo zio con un cenno della mano, ma Antonio neanche si accorse della loro presenza, continuando a esaminare minuziosamente la ruota della sciarretta, che gli sembrava sconnessa. Stefano, suo fidato collaboratore, gli urlò da lontano: «Compa’... sono sempre due e rotonde, pigliati pace!». Antonio sorrise, consapevole della propria eccessiva apprensione, e rispose «Sì, Fanuccio, due e rotonde come ’sti...» poi notò le bambine e lasciò a Stefano l’ovvia interpretazione del seguito. Silvia e Virgilia percorsero una spianata di roccia affiorante dove razzolavano polli e galline, attraversarono un arco in pietra e raggiunsero l’aia. A un lato di quell’area, lastricata da spesse chianche

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quadrangolari lavorate a martello, trovarono il nonno Leo chino a estirpare le erbacce cresciute tra i chiamenti. Leonardo, che tutti chiamavano nonno Leo per distinguerlo dall’omonimo nipote, si sollevò a fatica, poggiando una mano sui reni e salutando le nipoti con l’altra, ancora stretta a pugno intorno a un ciuffo di gramigna sradicata. Aveva le sue solite brache legate in vita con un cordone e risvoltate sul bordo superiore, nelle quali era ben calzata la maglia di lana grezza lavorata ai ferri, da cui non si separava mai, neanche con la calura estiva. Le bambine gli svolazzarono intorno, giocando con il suo cappello dalle tese rivolte in su. «Nonno, stasera suonerete il calascione per noi?» gli chiese Silvia. «Su, nonno... per favore!» incalzò Virgilia. Nonno Leo fece il prezioso, lasciando che insistessero ancora un po’, sia per gioco, sia per evitare di apparire troppo arrendevole – suo figlio Antonio aveva ereditato da lui il carattere orgoglioso e una certa supponenza – ma in realtà era molto lusingato dal loro apprezzamento per i suoi stornelli accompagnati dal suono aspro del liuto a tre corde. Nonna Teresa, seduta sul bordo di un muricciolo basso a pochi metri dall’aia, dov’era intenta a curare le sue piantine di camomilla, non si fece sfuggire l’occasione di punzecchiarlo: «Beh, Leonà, è inutile che ti fai pregare tanto. S’è mai visto il porco che rifiuta la ghianda?». Nonno Leo si finse offeso, ma era sempre divertito dalle provocazioni di sua moglie. Nonna Teresa si alzò, staccò un paio di rametti da una pianta di citronella e andò a intrecciarli tra i capelli delle bambine, compensando l’eccessiva indulgenza del gesto con una secca esortazione a darsi da fare per rendersi utili come tutti gli altri: «Guardate che Angelo, il figlio del pastore, sta in piedi da prima che s’alzava il sole, che già ha aiutato suo padre a raccogliere la legna, a mettere fuoco a quella sorta di caminetto nel lamione, a bollire il latte munto ieri sera e a preparare la ricotta salata. Ha pure pulito tutti

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gli attrezzi e si è fatto il sacco del cibo, per dopo. Che va al pascolo appresso al gregge, lui, mica a suonare il piffero!». Di fronte a tale resoconto, Silvia e Virgilia cominciarono a guardarsi intorno per cercare un’occupazione altrettanto degna di lode, mentre nonna Teresa, soddisfatta del colpo mandato a segno, dopo una scrollata al grembiule e una rassettata ai sottili capelli grigi raccolti sulla nuca, tornò a dedicarsi alle sue piante aromatiche. Le bambine raggiunsero i tre fratelli di Silvia, impegnati a ripulire per bene il deposito del grano, e si offrirono di aiutarli. Leonardo, il più grande dei figli di Antonio e Cosima, si strofinò una mano sulla camicia che aveva tolto, arrotolato e annodato sui fianchi, poi frugò nelle tasche del suo pantalone e si chinò davanti a Virgilia, nascondendo le mani dietro la schiena e chiedendole: «Indovina, piccola masciara, in quale mano ho nascosto il tesoro?». Virgilia rise divertita, ma subito dopo lo fissò negli occhi assumendo d’un tratto un’espressione così seria e indecifrabile che Leonardo ne ebbe soggezione. Le sue pupille da gatta divennero per un secondo lucide come specchi d’acqua. Poi tornò a sorridere e con assoluta sicurezza scelse la mano sinistra, dove in effetti Leonardo aveva stretto nel pugno il dono per lei. Il ragazzo, che conosceva la cugina e che l’adorava proprio per quelle sue peculiarità un po’ inquietanti, si passò incredulo una mano tra i capelli, costringendosi a pensare a un ennesimo colpo di fortuna. Le porse, quindi, una piccola pietra levigata e cristallina che alla luce del sole brillava come la rugiada sui fili delle ragnatele. Virgilia ne fu subito rapita e la prese tra le dita delicatamente, come fossero ali di farfalla, che lei sapeva ricoperte di una polvere magica in grado di farle volare, perciò da preservare con estrema attenzione. Ricompensò il cugino con un sorriso che gli scaldò il cuore e imbracciò con solerzia plateale la scopa di saggina, nell’intento di affiancarlo nella pulizia del locale destinato a conservare il grano trebbiato. Leonardo aveva cinque anni in più di Virgilia e per lei era il padre che aveva perduto, il fratello che non aveva avuto e la voce della co-

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scienza che non avrebbe mai voluto ascoltare, ma a cui non riusciva a sottrarsi, suo malgrado. Lui era il primo a rimproverarla, quando era il caso, ma anche a soddisfare la sua innata voglia di conoscere e di imparare. Mentre Silvia amava disegnare, sua cugina Virgilia voleva capire i pesi, le misure, le distanze. Leonardo le aveva insegnato tutto ciò che a sua volta aveva appreso dal padre, ma lui aveva dovuto attingere e assimilare da Antonio ogni singola informazione con fatica, osservandolo giorno dopo giorno e lavorando al suo fianco, senza mai ricevere istruzioni dirette, né particolari attenzioni. Antonio era sempre stato troppo impegnato e troppo assorto nel proprio lavoro per dedicare tempo e spiegazioni al figlio; non sapeva leggere ma era abilissimo a far di conto e gestiva l’amministrazione della masseria con una precisione infallibile, eppure non aveva mai trasferito direttamente queste conoscenze a Leonardo, il quale aveva dovuto di sua iniziativa imparare a tradurre in nozioni e in competenze ogni gesto del padre. In compenso, Leonardo si era sempre avvalso dei consigli e degli insegnamenti di Saverio, U jalantomme. Lo chiamavano tutti così, in masseria: il galantuomo. Non era ben chiaro quale fosse il suo passato e quali vicissitudini l’avessero condotto lì nella campagna martinese, ma era certamente di estrazione differente da quella di tutti gli altri contadini. L’accento ne rivelava la provenienza dalla città di Napoli o dintorni. Era giunto alla masseria anni addietro per mettere il pastino, perché a Martina pochi conoscevano la tecnica per impiantare le viti a regola d’arte, e alla fine vi si era stabilito come collaboratore fisso. Sapeva leggere e scrivere, possedeva libri, pergamene e inchiostro: roba stravagante, insomma, inserita nel contesto di una masseria. Saverio aveva spiegato a Leonardo che ogni forma di conoscenza, anche quando può sembrare un esercizio inutile, rende l’uomo un po’ più padrone e un po’ meno schiavo. Gli aveva detto, anche, che si poteva condurre una vita umile, ma scegliendola, non subendola. Leonardo non aveva capito i sottintesi di quel discorso, tuttavia

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aveva attinto a piene mani dalle sue conoscenze, rivelandosi anche particolarmente ricettivo. Antonio non gratificava mai i progressi del figlio e dava sempre per scontate le abilità che gli vedeva mettere in campo. In quell’atteggiamento Leonardo coglieva un chiaro segnale di disinteresse nei suoi confronti, un distacco che lo feriva ogni volta, una pungolata che non si leniva con l’abitudine. Per Virgilia, però, sarà diverso, si era ripromesso. Lei non avrebbe dovuto elemosinare insegnamenti, non avrebbe dovuto arrancare dietro la spavalda sicurezza di qualcun altro, avrebbe imparato da lui tutto ciò che le sarebbe potuto tornare utile. Virgilia e Silvia, coperti i capelli con dei fazzolettoni piegati a triangolo e annodati dietro la nuca, iniziarono a spazzare per bene il granaio, mentre Leonardo passava ad altre occupazioni, dopo aver indugiato per un solo secondo di troppo nell’osservare i riflessi cobalto dei lunghi riccioli di Virgilia. Battista e Damiano, i fratelli minori di Leonardo, approfittando della collaborazione imprevista, sgattaiolarono sul retro della lamia per giocare alla campana, armandosi di due sassi piatti e tracciando per terra, con un legnetto bruciato, una serie di quadrati contigui nei quali avrebbero dovuto saltare in equilibrio su una sola gamba. Non fecero in tempo a lanciare il primo sasso che subito vennero stanati dal nonno materno, che con una vanga poggiata sulla spalla e un paniere appeso al braccio si dirigeva verso il frutteto. Piuttosto che sgridarli per il fatto che stessero trascurando il lavoro, nonno Donato preferì canzonarli per la scelta di un passatempo così poco virile: «Alla vostra età io faticavo e, se proprio mi distraevo, era giusto per il sedere di una bella contadina, non per un giochino da mammocci!». La tattica sortì immediatamente il suo effetto: le parole colpirono nel segno come neanche due sonori ceffoni di Antonio avrebbero potuto fare. Battista lanciò via il sasso, imbronciato mise le mani

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