Il fascino discreto della tradizione. Annibale Ruccello drammaturgo, di Dario Tomasello

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Il volume di Dario Tomasello ripercorre criticamente l’intera opera teatrale del drammaturgo napoletano Annibale Ruccello. Scomparso prematuramente nel 1986, all’età di trent’anni, il giovane autore partenopeo ha comunque dato vita ad una notevole produzione drammaturgica, caratterizzata da toni a volte esplicitamente comici e grotteschi altre volte decisamente magniloquenti e gravi: ad ogni modo una produzione unica nel suo genere. L’autore analizza questa unicità, rintracciandone le radici nella tradizione teatrale napoletana (da Viviani a Eduardo), ma provando ad inquadrare la figura di Annibale Ruccello nel complesso del teatro italiano novecentesco. Dario Tomasello è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Messina. Le sue principali pubblicazioni sono: Il romanziere è panteista. Ideologia e stile nella prosa di F.D. Guerrazzi, Bulzoni, Roma 1998; Oltre il futurismo, Bulzoni, Roma 2000; Poesia di narratori. Alvaro, Delfini, Landolfi, Centro interdipartimentale di studi umanistici, Messina 2004; La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore, Olschki, Firenze 2005. Sempre per i tipi di Olschki ha curato, nel 2006, l’edizione degli Atti del convegno Viaggio verso qualcosa di preciso. Percorsi della poesia di Bartolo Cattafi.


Dario Tomasello

Il fascino discreto della tradizione Annibale Ruccello drammaturgo

edizioni di


Prefazione di Roberto Alonge

È cosa buona e giusta incoraggiare la pubblicazione di libri dedicati alla drammaturgia di Annibale Ruccello. C’è poca roba in circolazione, sostanzialmente saggistica, e per lo più di respiro giornalistico o municipalistico, tra la memoria e l’aneddoto, anche per l’effetto della sua precoce morte in un incidente automobilistico. Mentre Annibale è un grande, e merita ricerche impegnate. Mi sembra anche opportuno – come si cerca di fare in questo libro – stabilire prima di tutto l’orizzonte dei legami con la tradizione napoletana (da Eduardo a Viviani), anche se la scelta del dialetto tende a perdere il rapporto consueto con la questione del realismo. Con Ruccello, e in generale con l’intera scuola napoletana, si impone indubbiamente la dimensione dell’irrealtà, dell’incubo, anche per il rinforzo di un ossessivo proliferare della tematica erotica. Ruccello, per parte sua, è uno straordinario poeta dell’eros, di un eros violento, irrefrenabile, dionisiaco. La sua fantasia è sfrenata, a tratti imbarazzante. Penso alla reiterata fellatio che sigilla il secondo e il terzo quadro del primo tempo di Weekend, o all’estremo visionario di una maternità oltraggiata di Notturno di donna con ospiti, in cui Sandro accarezza fra le cosce Adriana «incinta di cinque o sei mesi», per arrivare poi a sfilarle le mutandine. Certo, Ferdinando (1985) è un capolavoro assoluto, in una declinazione ricca di varianti erotiche: dall’eterosessuale all’omosessuale, dall’orgiastico-vitaliVII


stico al perverso-trasgressivo, che non arretra nemmeno di fronte alla blasfemia delle tracce di sperma e di sangue mestruale che cospargono i paramenti religiosi del prete. Ma non insisto su questo orizzonte di problemi, e rinvio alle mie pagine della Storia del teatro moderno e contemporaneo (Einaudi, Torino 2001, vol. III, pp. 690-701). Sarà utile piuttosto provare a rileggere Ruccello dall’inizio – come appunto tenta di fare Dario Tomasello –, perché, forse, ci saranno alcune sorprese. Per esempio Le cinque rose di Jennifer, del 1980, in pratica la prima composizione originale dell’autore, mi sembra un testo meno prepotentemente in linea rispetto alla grande fantasticheria erotica, meno inserito, cioè, in questa che pure è sicuramente la vena poetica più autentica di Annibale. L’atto unico – almeno a prima vista – risulta ambientato nel mondo della carnalità e della sessualità. Siamo infatti nel quartiere dei travestiti di Napoli, la radio informa di un serial killer che uccide travestiti, e l’opera ci presenta il travestito Jennifer in una lunga serie di telefonate (intercalate da due dialoghi con un altro travestito, Anna), al termine delle quali Jennifer si spara in bocca. La nota realistica è però pura apparenza, appena si rifletta sul fatto che, per intanto, non esiste, a Napoli, un quartiere dei travestiti. E poi la voce dello speaker del primo comunicato radio mette perfettamente in luce tutte le aporie del presunto giallo: ogni volta c’è «una finestra chiusa dall’interno», e «i mobili accatastati presso la porta d’ingresso», per non parlare di «un colpo di pistola sparato barbaramente in bocca alla vittima, a cui l’arma, ritrovata poco distante dal cadavere, doveva appartenere». Insomma, sembra improbabile pensare a un omicida venuto dall’esterno; è piuttosto evidente che l’omicidio è un suicidio. Non siamo cioè affatto nell’orizzonte realistico di una Napoli notturna di marginali sessuali, ma piuttosto nell’immaginario ossessivo di una umanità di travestiti che proiettano i propri deliri e i propri fantasmi: sognano di abitare in un VIII


quartiere dei travestiti, perché il ghetto – ce lo ha insegnato Eugenio Barba – è comunque il luogo dove è possibile conservare le proprie radici, praticare una solidarietà di gruppo di uguali. Ma l’infelicità della vita, la solitudine disperata, il tormento radicale della propria identità sessuale li spinge a un rituale di autoeliminazione, che si trasmette da suicida a suicida, in una sorta di epidemia crescente e vorticosa, contrassegnata da una cifra che è sempre la stessa: cinque rose rosse cosparse sul cadavere. La rosa – si sa – è simbolo del sesso femminile. Il suicidio collettivo, dunque, quale delirante protesta metafisica contro una identità negata. Ma c’è nel testo una intera impalcatura numerologica (che è sempre l’esatto contrario della dimensione del realismo, appartenendo piuttosto alla simbologia mistico-religiosa) a confermare con ampiezza di dati il tratto tutto mentale della pièce. A cominciare dal titolo, in cui il 5 rinvia ai 5 sensi, il numero della carnalità. Non tanto però nell’accezione della sensualità, di un eros nefasto, ma prima di tutto proprio e solo in quella dell’involucro carnale: la pièce non è altro, a ben vedere, che il dramma del travestito, cioè di qualcuno che non sta bene nella propria carne, che aspira a una carne diversa, a un corpo differente, femminile e non maschile. E accanto al 5, anche tutti gli altri numeri della serie mirifica, il 3, il 7, il 9, il 10. Sono tre mesi che l’amore di Jennifer non si fa vivo al telefono; ma anche lo sconosciuto che per sbaglio parla al telefono con Jennifer è in cerca da tre mesi di una tal Luana, e Anna aspetta da tre mesi la risposta a un annuncio sul giornale. I comunicati radio aggiornano via via che i morti ammazzati sono dapprima cinque, poi sette, poi dieci, quindi quattordici (due volte sette), e con il suicidio finale di Jennifer saranno quindici, triplo di cinque. Ogni cadavere con cinque rose rosse. I dialoghi telefonici di Jennifer sono nove, cifra che indica il viaggio, in nove tappe, non sempre salvifico (verso la conoscenza o la perfezione), qualche volta destinato a concludersi nel falliIX


mento, come in questo caso. Ma persino gli accenni numerici più minuscoli, quasi insignificanti, rinviano a numeri illustri. Si veda infatti questo dettaglio del primo comunicato radio: «Stamane alle nove è stato scoperto un nuovo cadavere in un monolocale al terzo piano del numero sette di via del cespuglio». Corsivi nostri, per sottolineare i riscontri: 9, 3, 7. Potrà sembrare curiosa, tanta simbologia numerologica di ascendenza religiosa, ma in questo primo testo di Ruccello non c’è il palpito di un eros laico, voluttuosamente dispiegato. C’è piuttosto la sofferenza di una grigia esistenza piccolo-borghese che alterna la pratica bassa della prostituzione notturna con le fantasie sentimentali dei rotocalchi e delle canzoni popolari. E c’è soprattutto il sentimento doloroso di una divinità crudele, che sembra puntare in direzione della Gnosi. Ha ragione Arturo Cirillo a vedere nel travestito Anna il doppio di Jennifer. È chiaramente Anna ad aver accoltellato la propria gatta, come tenterà poi di accoltellare se stessa: anticipazione manifesta del suicidio finale di Jennifer. Ma, allora, non è casuale che proprio Anna (cioè il doppio di Jennifer) si confessi testimone di Geova, attento all’istanza religiosa. «Chi ci ha creato!?» esclama Anna, e Jennifer, di rimando: «Eh! Dio, signora! Dio!... C’ha criate e se n’è scurdato!». Un dio minore – come vuole la Gnosi – ha creato il mondo e gli umani, un artefice grossolano che non ha nemmeno saputo scegliere sempre il corpo giusto, e talvolta ha fallato, individuando una prigione maschile per un’anima femminile. Ancora Cirillo – nelle sue note di regia – ha sottolineato felicemente che i personaggi parlano al femminile, si sentono femmine, mentre l’autore, nelle didascalie, li descrive sistematicamente al maschile. È come se Annibale Ruccello da autore si facesse Autore, assumendo – come scrittore – le fattezze impietose del piccolo dio cattivo, ferocemente implacabile nel continuare a evidenziare la radice profonda del male di vivere dei suoi personaggi: anime di donna in pena, costretti dentro corpi di maschi. X


Premessa

Le ragioni di una ricognizione critica su Annibale Ruccello sono molteplici e affondano le loro radici nell’importanza capitale della scrittura teatrale dell’autore stabiese per ciò che concerne le sorti della tradizione napoletana che, secondo la definizione provocatoria dello stesso Ruccello, rappresenterebbe «l’unica drammaturgia nazionale»1. Ci si è posti, in tal senso, il problema di una storicizzazione di quel fenomeno, frettolosamente chiamato sin qui “nuova drammaturgia”, senza troppi riguardi per il chiarimento di un’eventuale, quanto evidente, continuità con il passato di una cultura teatrale, sottoposta alla verifica di una terapia straniante, ma mai dimenticata o rimossa davvero. A ciò si aggiunga il fatto, non trascurabile, che la strategia drammaturgica ruccelliana si colloca nell’alveo di quella particolare schiera di attori-autori che determinano, secondo una formula ormai chiara2, la temperatura caratteristica di una specifica vocazione italiana al teatro. Se il processo di riappropriazione di un percorso tradizionale passa attraverso la scoperta di una propria voce, pur densa di echi e di suggestioni familiari, l’esperienza di Ruccello andrà indagata nel vivo della propria originalità e nel coraggio delle proprie scelte. È per tale motivo che si è scelto di lasciare sullo sfondo i non pochi tentativi ruccelliani riguardanti l’adattamento di opere altrui, pur non trascurando di darne XI


contezza laddove essi possano rivelare cadenze, costanti e ritorni di una strategia molto coerentemente calibrata. Per quanto riguarda il resto, si è proceduto a una disamina diacronica dell’intera produzione drammaturgica ruccelliana, affrontando in particolar modo i testi in cui si esplicita una piena consapevolezza autoriale. Concentrarsi sugli esiti di una produzione drammaturgica, notevole eppure precocemente interrotta, significa verificarne la portata, il timbro giocato su un registro ora esplicitamente comico e grottesco, ora grave e magniloquente, unico, in effetti, nel suo genere. Ecco, proprio l’unicità emblematica della presenza ruccelliana andrà qui considerata, per la prima volta al riparo dai facili schieramenti e dalle definizioni da manuale o dal tono celebrativo, e mesto, delle ricorrenze («Cosa sarebbe stato se non fosse morto così presto?» o, tanto per citare Moscato: «con buona pace di chi vorrebbe sbrigativamente liquidarlo con l’epigrafe para-enciclopedica di “giovane emergente commediografo di Castellammare, presso Napoli, perito in un incidente stradale ad appena trent’anni, gesummio, che peccato!”»), cominciando a chiedersi seriamente cosa sia stato davvero e cosa sia, tuttora, nel novero complessivo della scena italiana novecentesca, la figura del drammaturgo Annibale Ruccello. Alla signora Pina Ruccello va tutta la mia gratitudine per l’affettuosa fiducia accordatami. In Carlo De Nonno ho trovato, più che un testimone puntuale e prezioso, un amico sensibile e sollecito. Un grazie, inoltre, a Enzo Moscato e Lello Guida per il racconto meraviglioso di una grande avventura teatrale. Devo inoltre un sentito ringraziamento a Mariano D’Amora per i proficui suggerimenti teatrografici e a Ciro Giorgini per la sua assistenza relativamente alle teche Rai. Spunti decisivi di questo libro sono state le lezioni tenute durante l’anno accademico 2006-2007 e il confronto, costante ed intenso, con allievi e studenti. D.T. XII


Il fascino discreto della tradizione


1. Per una nostalgia della tradizione

Racconta Isa Danieli che in occasione del debutto, presso il Teatro di San Severo, di Ferdinando, al termine dello spettacolo, Annibale Ruccello sia caduto ginocchioni piangendo. A chi lo avvicinava, cercando di intuire cosa sussurrasse tra le lacrime, toccò in sorte di sentire: «’o sipario, ’o sipario!»1. È un episodio emblematico, nella sua semplicità, non tanto per l’eventuale contraddittorietà di un artista, cresciuto nelle cantine e nell’ambito della napoletanità borderline (prima oggetto di un sottile scavo antropologico, poi di un’attenzione drammaturgica sottile nella cosiddetta, e discutibile, poetica dei “deportati”2), quanto per la definizione della più autentica vena di uomo di spettacolo irresistibilmente attratto dalla tradizione e dal suo fascino, capace di esplicitarsi sin dall’individuazione delle vestigia più canoniche del teatro all’italiana (“’o sipario”, per l’appunto). È vero anche che in un milieu, com’è quello della cultura teatrale napoletana tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ovvero quello in cui si trova ad operare Annibale Ruccello, è più ovvio, e più funzionale alla formulazione dell’originalità di una propria vocazione teatrale, dichiararsi scevri dall’influenza di un qualsivoglia modello tradi3


zionale o addirittura del tutto orfani di un qualche padre foss’anche putativo: Pochi, in effetti, sanno che i nostri lavori più noti, il suo Ferdinando (premio Idi 1985) e il mio Pièce noire (premio Riccione 1985) sono nati nella più totale e ingenua convinzione dell’orfananza drammaturgica (e globalmente culturale) rispetto a quei padri di cui pur sempre, anche se nostro malgrado, ricalcavamo quotidianamente le faticate impronte a teatro. Nell’assenza di qualunque insegnamento diretto, nell’eclisse addirittura fisica del mitico “maggiore tra i De Filippo”, a Napoli, io, per me, m’ero fatto paternamente adottare da Genet e, come fratello minore, dal cinico scanzonato Copi, ma era un autoinganno. Annibale, invece per parte sua, cercava ascendenze e discendenze in Tennessee Williams e nel cinema “camp” americano, oltre che omaggiare Stendhal e Il Gattopardo di Visconti nel plot di Ferdinando3.

Dunque, sin dal principio, il problema risiede in un conflitto con i propri padri, con i propri “maggiori”, con la loro eventuale assenza, più o meno colpevole, che non basta, tuttavia, a farli fuori del tutto, a chiamarli fuori da un confronto destinato a non escluderli mai, anzi a rievocarli continuamente, eterni revenants, “ritornanti”, per dirla alla Moscato, di un passato che specialmente a Napoli si può rimuovere, con interessanti ricadute sul proprio specifico discorso drammaturgico, non cancellare4. Fino ad ora, tutta la critica ruccelliana (in gran parte formata da sodali, compagni di viaggio e amici del grande drammaturgo: in buona sostanza, per motivi di vicinanza amicale ed affettiva, i più faziosi tra gli esegeti) non ha fatto altro che ripetere la solfa un po’ stereotipata dei numi tutelari ruccelliani, inesorabilmente allotri rispetto al contesto partenopeo: Ma infinite altre sono, del resto, le citazioni letterarie – più o meno dirette, ma tutte di alto profilo – messe in campo nella circo-

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stanza da Ruccello: basta ricordare quelle che lui stesso dichiarava nello scritto “Ferdinando” presentazione alla prima e che vanno da Balzac a Thomas Mann, da Collins a Huysmans al Kammerspiel secondo Strindberg, Ibsen e Bergman5.

Non c’è che dire: tenendo fede alle dichiarazioni dell’artista, gli si rende un servizio quanto mai scrupoloso se non fosse, però, che quasi mai, nonostante la più acuta consapevolezza di sé, un autore, qualora parli del proprio operato, riesce ad essere del tutto chiaro, per non dire onesto, con se stesso6. Fortunatamente, si potrebbe aggiungere, poiché altrimenti poco spazio e poche parole resterebbero ai suoi interpreti che, per paradossale che possa sembrare, avranno sempre una visione più fredda e imparziale. Ora, il caso di Ruccello è appunto sintomatico di questo paradosso. La storia di un giovane drammaturgo che, nonostante la morte prematura (avvenuta, lo ricordiamo, a soli trent’anni, a causa di un incidente automobilistico, il 12 settembre 1986), riesce a mantenere tutte le promesse di un talento assolutamente nitido e assolutamente (in modalità più o meno consapevoli) radicato in una tradizione partenopea, si presta a numerosi equivoci, agli inganni della mitografia costruita e cresciuta ipertroficamente all’ombra di alcune sue dichiarazioni e degli incontrovertibili testimoni dello sterile dogma di una discontinuità col passato. La partita con la tradizione si gioca sul terreno insidioso, e perciò tanto più affascinante, della rimozione, della negazione, ma è altresì chiaro chi siano i padri da dimenticare in una convulsa corsa alla posteriorità: Raffaele Viviani e, soprattutto, Eduardo De Filippo. Due esempi apparentemente contrapposti (ma anche su questo ci sarebbe qualcosa da dire7), che concorrono, per superamento continuo del modello da essi rappresentato, alla formazione della coscienza teatrale ruccelliana. 5


Il fatto, poi, che s’insista, riguardo alle predilezioni ruccelliane, sulla preminenza dell’ascendente di Viviani, quasi che si possa addurre una sorta di manicheismo con il contraltare di De Filippo, risulta tanto più incerto, ai fini di una chiarificazione del portato autentico dell’opera ruccelliana8. Forse avrà pesato la comune origine stabiese, forse l’interesse, più che per una compresenza di parole e sonorità, per una parola che si fa suono9, ma più di quella di Viviani, la ricerca ruccelliana muove verso l’attuazione di un progetto drammaturgico compiuto, coerente ed esaustivo, sempre meno sensibile all’impasto, di memoria vivianea10, di elementi stilistici diversi. In questo senso si spiega l’originario istinto ruccelliano, incline alle movenze più anarcoidi e popolari, apparentemente irriducibili ad un progetto drammaturgico di natura tradizionale: Allora la nostra drammaturgia è “nuova” perché non parte, non si collega alla generazione precedente dei drammaturghi italiani, quelli degli anni ’50. Scaturisce invece assai più dal lavoro degli anni ’60 e ’70, dalla sperimentazione più che dalla drammaturgia tradizionale. Insomma una generazione che ha fatto drammaturgia di regia più che scrittura scenica, di testo: una drammaturgia sui corpi [...] e per noi che ci consideriamo in qualche modo l’avanguardia degli anni ’80, c’erano due strade: una era quella intrapresa [...] dalla nuova spettacolarità che portava alle estreme conseguenze il discorso di un tipo di teatro d’immagine e di suoni. La seconda era quella di ritorno ad una narrazione [...]. Da qui la giustificazione del termine “drammaturgia”11.

Il testo di quest’intervista è di un interesse estremo per la corretta ridefinizione dell’itinerario ruccelliano. A partire, infatti, dalla lungimiranza con cui l’artista individua in una scrittura scenica, in una drammaturgia dei corpi, in sintesi in una “drammaturgia dell’attore”, l’esito più funzionale al6


la nouvelle vague drammaturgica, si chiarisce come tutto dentro la tradizione stia il suo tentativo12. Una tradizione, magari negata violentemente e poi vagheggiata con nostalgico furore. Una tradizione cresciuta, in filigrana soprattutto alla stagione aurea della Commedia dell’Arte, sulla centralità dell’attore-autore13. Se si aggiunge a tutto questo, il riferimento quasi oracolare di Ruccello alla narrazione, la nostra sorpresa sarà ulteriormente accresciuta dal verificare come l’artista stabiese avesse in modo mirabile indovinato un passagio, di lì a poco verificatosi, epocale per le sorti della drammaturgia italiana. È inutile, infatti, negare come soprattutto negli anni Novanta, sarà la presenza del narratore14, dell’affabulatore, dell’one man show, a restituire linfa vitale al discorso drammaturgico più originale, riportando in tal modo prepotentemente l’attenzione sulla centralità e sull’indipendenza dell’attore dai lacci e lacciuoli di un, precocemente invecchiato, teatro di regia. Tutto questo, Ruccello lo anticipa e lo prevede col proprio lavoro, con una pratica drammaturgica, forgiata sul corpo dell’attore, sul proprio impegno attoriale, distinguendosi una volta per tutte, in questo senso, da Manlio Santanelli, artefice di una drammaturgia più testuale e letteraria, e soprattutto da Enzo Moscato15, il quale ha percorso un cammino diametralmente opposto a quello di Ruccello. Tanto, infatti, Ruccello si è spinto sino alla costruzione di una propria strategia stilistica e di una propria lingua, perfettamente lineari e comunicative, come vedremo più avanti, tanto Moscato ha organizzato con sapiente e meravigliosa sophistiké la dissoluzione di un sistema formale drammaturgico, andando incontro ad un’opera di scomposizione atonale del linguaggio e del discorso, sempre più simile non a caso ad uno scenario, ad una Partitura16 musicale. Se è vero che l’artista stabiese calibra con attenzione una 7


lingua sempre più sapientemente elaborata, sempre più irta ed eterogenea, ciò non andrà letto in una direzione antitetica rispetto al tragitto eduardiano, come è stato recentemente sostenuto da chi ha ribadito, di Ruccello, la sua «diffidenza verso la lingua della commedia, il suo napoletano antico che non è il napoletano di Eduardo»17. Come se la questione della lingua eduardiana, e per converso quella dei suoi eredi, potesse essere ridotta al rango di mero stereotipo o di cifra perennemente uguale a se stessa18. Opportunamente, invece, nel volume einaudiano della Storia del teatro moderno e contemporaneo, la voce dedicata alla drammaturgia napoletana di fine Novecento è stata intitolata I figli di Eduardo, aggiungendo tra parentesi e i nipotini di Pirandello per quel che di pirandelliano è passato attraverso il vaglio eduardiano, riconoscendo una volta per tutte, in termini perentori, chi sia il maggior fabro19 dell’ultima generazione partenopea e come Eduardo sia il padre autentico, e autenticamente ripudiato, anche di questa tradizione più recente del teatro napoletano. In particolare, l’ultimo Eduardo, l’Eduardo della Tempesta20 per capirci, pone il problema non tanto di una svolta linguistica, quanto dell’emersione di un portato erudito e denso di napoletanità antica che è evidentemente rimasto allo stato latente nei decenni della cosiddetta produzione “piccolo borghese”21. Lo testimonia questo intervento dedicato alla stesura de La tempesta eduardiana e contenuto in un’intervista con Isabella Quarantotti De Filippo realizzata da Paola Quarenghi: PQ. La scelta di usare un napoletano antico per la traduzione è stata scontata fin dall’inizio? IQDF. Penso lo abbia deciso subito, perché non me ne ha mai parlato. Infatti prima di ogni altra cosa volle leggere le favole dell’Abate Sarnelli e il poema comico di Lombardi, La ciucceide, perché

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desiderava rifarsi l’orecchio alla musica dell’antica lingua napoletana. Leggevo io ad alta voce, per molte ore al giorno. C’erano un sacco di parole che non capivo, così gli chiedevo continuamente spiegazioni, e mi stupiva che non solo ne conoscesse il significato, ma anche l’origine. Per esempio, l’espressione “puca d’oro”, che poi fa usare a Prospero per chiamare Miranda, significa “spiga d’oro” e proviene da una civiltà contadina che considerava il grano come ricchezza. Insomma, anche filologo era! Confesso che a poco a poco finii per innamorarmi di quella lingua piena zeppa di vocaboli. Pensa: in una novella di Sarnelli c’è una ragazza che apre una cassa di biancheria e l’elenco del contenuto continua per tre o quattro pagine22.

Non sappiamo se, nella biblioteca personale di Ruccello, ci fosse spazio per questo postremo De Filippo, quel che è certo, però, è che il riferimento etno-antropologico alla tradizione contadina campana, il vistoso ricorso a Pompeo Sarnelli della Posilicheata (1684)23, fanno di questa Tempesta napoletana un impressionante, ancor che conclusivo, anello di congiunzione tra l’ultimo Eduardo24 e l’ultimo Ruccello. Se la questione della lingua è la spia di uno straniamento, della ricerca di uno straniamento, più ancora della verifica di una condizione straniante25, essa rivela, appunto, il senso di un’oltranza, la denuncia di una lacerazione, la nostalgia per una tradizione ambiguamente perduta e ancora vivente26. Certo, a questo punto, occorre aggiungere un fatto particolarmente cruciale. Non avesse scritto Ferdinando, probabilmente, senza nulla togliere alla produzione restante, Ruccello graviterebbe, a torto o a ragione, nella sfera dei molti bohémiens partenopei, dei cantori dei Quartieri (dei Quartieri spagnoli, s’intende), ma non sarebbe il casus belli, che è, della drammaturgia contemporanea. Siamo certi, infatti, che Ferdinando sia la logica prosecuzione di un cammino già intrapreso, da un lato, e, dall’altro, 9


il primo episodio di un nuovo corso tragicamente interrotto27. Sull’unicità di Ferdinando, sul fatto che costituisca il momento più importante, e più alto, della produzione ruccelliana, c’è un’unanimità pressoché totale.28 Ferdinando è, a partire financo dalla sua contestualizzazione storica, un hapax: il testo più scopertamente classico di Ruccello29, quello in cui emergono sorprendenti le citazioni eduardiane30, in cui si ostenta, nel ricorso al trauma più grave subito nella storia del Meridione d’Italia (l’offesa della conquista savoiarda), la metafora di una minaccia odierna: Non mi interessava minimamente realizzare un dramma storico [...] la chiave della vicenda di carattere più metaforico [...] allude ad un mutamento di valori e ad un salto generazionale e culturale molto vicino e molto simile a quello attualmente operante nella nostra società, dove ai vecchi comportamenti e alle vecchie ideologie si vanno sostituendo nuovi modi d’azione, ancora più brutali nella loro assenza di coordinate storiche31.

Sul disfacimento di una civiltà, prima indagato con la lente dell’antropologo e poi con l’asciutta disperazione dell’«allestitore»32, scende l’ombra cupa della morte di quella tradizione che rimane il punto di riferimento della prepotente nostalgia di un autore, tanto più lontano da essa quanto più vi appare intricato in un indissolubile abbraccio.

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Indice

Prefazione di Roberto Alonge Premessa 1. Per una nostalgia della tradizione 2. Gli esordi e le radici: mito e morte della tradizione

VII XI

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1. Il mistero dell’ex antropologo, p. 11 - 2. Nel segno di Eduardo: Il rione, p. 31 - 3. Il sonno di Pulcinella genera... L’ereditiera, p. 45

3. Jennifer e le altre: sogni e incubi della tradizione

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1. Delitti e segreti nel rione dei trans, p. 54 - 2. Il giardino nascosto e gli intrusi, p. 71 - 3. Divoratrici di uomini, p. 82 - 4. La Mamma è sempre la mamma, p. 96

4. Ferdinando: la revanche della tradizione

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1. La vicenda di una «generazione senza futuro», p. 108 - 2. Ferdinando: il volto ambiguo dell’Arcangelo Michele, p. 118 3. Clotilde: la memoria tradita, p. 125 - 4. Gesualda: l’eros sotto mentite spoglie, p. 131 - 5. Don Catello: la necessità del peccato, p. 136

Appendice

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Intervista a Enzo Moscato, p. 145 - Intervista a Carlo De Nonno, p. 148 - Intervista a Lello Guida, p. 150

Teatrografia Bibliografia Note

155 163 167


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