Che cos’è un classico?

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Indice

Nota

9

Parte prima Classico e barbarie I barbari

15

Dietro un titolo: Aspettando i barbari di Costantino Kavafis (e Montale)

18

Nessuno è incolpevole

25

Un’oasi nel deserto

26

Due Imperi (tra Kavafis e Coetzee)

31

Un uomo allo specchio

34

Cercatore di tracce

36

Contro l’interpretazione

39

Tutto il resto è dubbio

43

I fiori della civiltà

48

Dov’è l’uomo?

50

Sapere di non sapere

54

Come si scrive la storia

56

Cecità

61

Transizioni

63


Indice

Parte seconda Classico e umano Il classico è un abbraccio

67

Due sorelle

73

Cos’è un classico?

82

Scoperte del classico

91

Una mano tesa per tenere la morte a debita distanza

94

Un barbaro nel giardino

101

La lira e il coltello

106

Perché i classici

115

Epilogo

121

Riferimenti bibliografici

131


Nota

1. Nelle pagine che seguono rifletto sul problema del ‘classico’ attraverso la scrittura di John M. Coetzee, nato nel 1940, premio Nobel per la letteratura nel 2003. 2. Esaminare grazie e con Coetzee il concetto di classico è stato un esercizio intellettuale assai proficuo per una classicista di mestiere. Cosa è un classico? I classici svolgono un ruolo concreto nella vita? Per quale mistero hanno la capacità di sostenere il cuore umano a resistere contro poteri politici aberranti? Perché attraverso i classici accettiamo meglio la malattia e l’avvicinarsi della morte? Sono questi alcuni degli interrogativi a cui Coetzee tenta di dare una risposta; essi d’altro canto accompagnano costantemente chi trascorre la vita studiando i classici antichi e la loro permanenza in epoche e contesti lontanissimi dalla loro produzione. 3. Perché proprio Coetzee? Coetzee ha vissuto i primi sessantadue anni della sua esistenza da bianco in Africa del Sud, e la maggior parte di questi sotto l’apartheid. La sua narrativa è un coraggioso atto d’amore per il suo paese di cui racconta impietosamente la storia sanguinosa e le contraddizioni. L’Africa resta però nella scrittura di Coetzee il continente dell’altrove culturale, una terra ineludibilmente diversa e lontana. Le radici dello scrittore affondano infatti in Europa e i suoi romanzi e saggi si confrontano con gli autori canonici nell’educazione europea. I classici rappresentano insomma una trincea nella quale lo scrittore combatte per una nuova idea dell’Africa e in generale per una nuova idea di mondo. Ogni classico, infatti, ci insegna che cosa sia l’‘umano’, e solo attraverso la difesa strenua dell’‘umano’ è possibile opporsi alle ‘barbarie’ di ogni genere. Lungi dal rappresentare un rifugio e solo un rifugio,




Nota

il classico è per Coetzee un’istituzione morale, un invito all’azione, una condanna della vigliaccheria e dell’inerzia. 4. I classici sono però oggetto di studio infinito, sottolinea Coetzee. Il classico infatti può anche conquistarci in un’illuminazione subitanea, ma dopo l’attimo della rivelazione ogni classico, per entrare davvero a far parte della nostra vita, deve essere compreso lentamente e costantemente con le armi affilate della critica storica. Il classico ci sfida, ci esorta a eguagliarlo o a superarlo, a ingaggiare con lui, come con un padre, la più buia delle battaglie. 5. Il problema del classico, dunque, si incastona nel tessuto complesso della filosofia della scrittura di Coetzee, e si dipana nel dialogo continuo tra lavoro critico-letterario e attività narrativa. Misurarsi con tale filosofia significa adottare diversi metodi d’analisi, dalla linguistica alla critica letteraria sul post-colonialismo alla filosofia morale, particolarmente significativa per un autore che considera la dimensione estetica inscindibile da quella etica. Questo libro si addentra solo parzialmente nei meandri della filosofia della scrittura di Coetzee: e pertanto deve considerarsi provvisorio. La ormai copiosa bibliografia su Coetzee non contempla comunque, che io sappia, interventi specifici sulla nozione di ‘classico’. Fa eccezione il colloquio internazionale tenuto a Limoges nel 2005 su ‘Coetzee e i classici’, i cui atti, a cura di Jean-Paul Engélibert, costituiscono finora, credo, il contributo più importante sull’argomento (Engélibert 2007). Tuttavia i saggi lì raccolti si occupano piuttosto del rapporto intertestuale tra Coetzee e i classici (Kafka, Dostoevskij, Beckett, gli autori greci e romani, ad esempio) che del concetto stesso di classico, al centro invece del mio discorso. 6. Questo libro raccoglie le lezioni tenute in due corsi nelle Università tedesche di Freiburg e di Lüneburg, rispettivamente nel semestre estivo 2012 e nel semestre invernale 2013. Moltissimo devo alle discussioni seminariali con gli studenti e ai loro lavori. Il tono orale è mantenuto anche in questa versione scritta, in cui i rinvii bibliografici sono ridottissimi. Perché ho deciso di pubblicare queste lezioni? I tentativi di definizione del classico dati da Coetzee (il classico: ‘ciò che resta’, ‘ciò che ci aiuta a sopravvivere’, ‘ciò che sempre va sottoposto alla critica’), ed


Nota



anche di ridimensionarne la funzione (nessun ‘classico’ può sostituirsi alla vita, sebbene il classico sia l’ ‘umano’) scavano nel cuore dei suoi lettori. Le parole di Coetzee sanno dire una volta di più cosa è la poesia, cosa la letteratura, cosa l’arte e dunque cosa siamo noi, cosa siamo stati, cosa possiamo ancora essere. Esse smuovono abissi di sensazioni: ci inducono a non chiuderci in noi stessi, ma anzi ci esortano a vivere pienamente. Credo che sia il messaggio più importante che la letteratura, la storia letteraria, la critica letteraria possano e debbano dare. Berlino, luglio 2013

 Ringrazio Daniela Summa, lettrice acuta ed esigente, nonché amica impareggiabile. Ed Elvi, che da lontano ha saputo darmi la compagnia che fa bene al cuore.


Epilogo

1. Pomeriggio luminoso di giugno 2013 a Berlino. Riflessi d’oro galleggiano sulla Sprea, specchio di verde. Quartiere di Kreuzberg, nel punto dove passava il confine tra le due Germanie e la città era dimidiata. Di quel passato non molto remoto resta solo un’ombra: una striscia di mattoncini dal percorso irregolare, su cui a intervalli una targa in piombo ricorda: «Muro di Berlino, 1961-1989». Aspetto al botteghino di un teatro, nell’entrata anonima di un condominio degli anni Settanta che contiene uno degli spazi performativi più grandi della città. Il teatro è intitolato al drammaturgo di fine Ottocento Friedrich Hebbel (1813-1863) ed è diviso in tre diversi edifici a un centinaio di metri l’uno dall’altro, tutti nei pressi della riva del fiume. Tre teatri, Hebbel-am-Ufer, ‘Hebbel sulla riva’ numero uno, due e tre, conosciuti con la sigla Hau 1, 2, 3. L’edificio storico principale, la ‘casa’ numero uno, dalla facciata Jugendstil risparmiata dai bombardamenti e tirata a lucido da una decina d’anni, si trova nella Stresemannstrasse, famigerata perché vi era la sede della Gestapo. Le scritte al neon scorrevoli all’entrata di Hau 2 lampeggiano con il titolo dello spettacolo in programma: Aspettando i barbari, dal romanzo di J.M. Coetzee. 2. Dai muri del foyer mi fissano gli occhi intensi degli animali ritratti nelle locandine che pubblicizzano la stagione 2012/2013, tra cui un babbuino, un lama, un lupo: piacerebbero certamente a Coetzee, questi animali dalle espressioni troppo umane. Arriva un uomo bruno il cui sguardo è nascosto da scuri ray-ban di stile militare (analoghi agli occhiali che nel romanzo di Coetzee indossa il colonnello Joll). Mi fa segno di seguirlo, anzi, mi impone di seguirlo; divertita lo faccio.

Dominik Huber / Blendwerk, Warten auf die Barbaren, 20-23.06.2013 / Hau 2, Berlin.


Epilogo 

3. Da quel momento in poi, inizia un percorso nei meandri dell’edificio: corridoi asfittici e dietro ogni porta pesante stanze buie, poi un deposito di strumenti da fabbro e contadino. Cammino attraverso un percorso obbligato; infine sbuco in un cortiletto, dove è stata collocata una tenda come piantata tra le dune di un deserto. Vi entro, a terra c’è sabbia calpestata; posso solo aspettare che qualcuno mi venga ancora a prendere, e attendo a lungo. Si respira male (sì, a Berlino può esser molto caldo, persino soffocante d’estate); echeggia il battito insistente di elicotteri in volo: è una finzione, mi ripeto. Una finzione, sin dalla prima stanza, dove ho subito un interrogatorio: mi han fatto sedere su uno scanno basso, davanti alla scrivania di un funzionario, in un ufficio senza finestre, illuminato da una fioca e tremante lampadina, gli arredi di formica beige; mi interroga un uomo dal volto anonimo, che non riesco a guardare negli occhi, mi chiede chi sono, che faccio, perché sono qui e se so da che parte del confine sto. Dalla parte dell’Impero – rispondo, mentre il disagio cresce mio malgrado (è solo una finzione, una installazione, uno spettacolo). Nessun commento tranne il ticchettio della macchina da scrivere (un anacronismo, chi usa ancora macchine da scrivere?). Brusio in sottofondo, una radio o una ricetrasmittente, ma la lingua non si capisce. La messa in scena ha qualcosa di noto; sicuramente la ricostruzione risponde alla descrizione dell’ufficio di Joll nel romanzo di Coetzee. Ma non è solo questo richiamo ad agitarsi nella mente: il tavolo, la poltrona di similpelle dove mi han fatto sedere, lo scricchiolio del pavimento, il telefono. Si tratta di un ufficio identico a quelli che si possono visitare ai piani superiori del carcere di Hohenschönhausen, a nord di Berlino: un edificio isolato dalla città da mura impenetrabili, difese da alti pioppi e filo elettrico, sconosciuto a qualsiasi carta geografica. Un luogo-nonluogo, un’isola, una città nella città di confine, dove vennero rinchiusi i prigionieri degli occupanti sovietici prima, gli oppositori della Repubblica Democratica Tedesca poi. Se si vuole immaginare la fortezza descritta nel romanzo di Coetzee è a Hohenschönhausen che si può pensare, con i suoi magazzini di mattoni rossi, le mura incorniciate di filo spinato e illuminate a giorno dai fari delle torrette di guardia, i soldati vestiti di beige e il campo annesso per i lavori forzati. Un carcere divenuto adesso monumento, illeso nella sua impeccabile e crudele lucidità.


Epilogo



4. Lucido è l’aggettivo che più si addice, credo, a Hohenschönhausen, costruzione tetra e insieme ariosa, che contiene grandi spazi di raccolta e di movimento. Lì nel 1945 oltre 20.000 uomini furono portati dai sovietici e ammassati in condizioni igieniche insopportabili e almeno 3.000 di essi finirono cadaveri nella collina artificiale del parco vicino, tra i residui della guerra e gli altri corpi, ossa tra ossa e macerie tra macerie. Un carcere che è stato durante il tempo luogo di interrogatori e di tortura, luogo di sospetto: vi arrivarono gli accusati di connivenza col nazismo, di infedeltà alla linea del partito, di difformità dall’Impero (dagli Imperi). Qui i ‘nemici’ erano portati negli scantinati, murati, incatenati e sottoposti a gettiti di acqua gelida, soffocati. Qui erano rinchiusi nella cella dalle pareti di gomma scura, lasciati soli con il buco nero del proprio io, storditi, fatti impazzire senza avere per giorni la percezione spazio-temporale. Anche la cella dalle pareti di gomma oggi è lucida, pulita, ma dalle mura imbottite sembra però che si alzi ancora il grido, la disperazione, il lamento, l’urlo roco del vuoto di coscienza. Affianco, il cellulare dall’apparenza innocua (quasi un furgoncino da panificio), che inghiottiva le persone prese per strada. Nei piani superiori, i corridoi luminosi con le celle, il pavimento di linoleum brillante: un ‘grand hotel’ delle prigioni. Alla fine di ogni corridoio, la stanza degli interrogatori, scrivania, telefono, macchina da scrivere e una finestra senza sbarre, dove si può vedere il cielo libero e sognare la libertà: dove lasciavano credere che si era malati di cancro, che qualcuno di caro era morto, che si stava per partire per un campo di lavoro, e che bastava collaborare, dettare una lista di nomi, per poter tornare fuori, al cielo senza sbarre, al soffitto senza neon, alla vita senza spioncino. 5. Mi viene in mente Hohenschönhausen, mentre sono in un ufficio analogo che però è un’installazione in un teatro (devo riperterlo a me stessa, per convincermene): sono in una performance e non in una prigione. Eppure: non mi sembra più un caso che io abbia cercato e letto il romanzo di Coetzee qui a Berlino, senza conoscere nulla del Sudafrica, della sua cultura, della sua letteratura, senza che io in fondo sapessi dell’apartheid più delle tre righe dei distratti manuali scolastici di troppo tempo fa. La vicenda del magistrato sospettato di essere dalla parte dei nemici, senza che davvero si sappia chi siano i nemici, l’angoscia




Epilogo

dell’arrivo dei barbari, ombre pericolose al di là di un confine che si affaccia su una terra di nessuno, la tortura, l’ansia, i modi di un Impero che continuano i modi di un altro Impero, ha avuto per me qui a Berlino un senso che altrove non avrebbe avuto. È questo che rende il romanzo di Coetzee per me un classico? 6. Lo spettacolo continua e da un interrogatorio si passa ad un altro. Ogni risposta è sbagliata. – Ha con se oggetti pericolosi?, mi chiede una donna algida, bruna di carnagione, dai lineamenti duri. – No, naturalmente, dico. – Non è vero. I lacci delle scarpe lo sono. Ha un accendino con sé? Lo lasci qui. Anche il cellulare. Qualcuno sa che lei è qui? Con chi vive? Da quanto tempo? Perché vuole andare fuori dai confini? Sa che qualcuno l’ha denunciata? Qualcuno che la conosce? L’ha denunciata perché ha fatto qualcosa che non doveva? Vuole raccontarci cosa ha fatto? E mi rendo conto che gli attori (si tratta di attori, vero?) mi hanno portato sulla frontiera invisibile della paura; non so più da che parte sto, e dubito di saperlo anche fuori da questo teatro in cui ho smesso di essere spettatrice e sono diventata protagonista. Quale è il mio ‘Impero’? A quale cultura appartengo e quante volte al giorno devo superare frontiere, ogni volta che digito un pin o una password, ogni volta che devo ‘autenticarmi’ per accedere ad uno spazio virtuale, ogni volta che all’aeroporto passo sotto sconosciuti raggi? Quante volte al giorno trasgredisco confini? Qualcuno ha mai letto le mie mail o i miei sms? Ha violato le mie parole d’amore o di risentimento? Ha attinto ai miei file o al mio conto corrente? Devo difendermi? Posso difendermi? 7. Nell’installazione teatrale niente rinvia all’esistenza dei barbari, e niente alla realtà di un confine vicino, da una stanza all’altra si è accresciuto il senso di solitudine e spaesamento, innocui attrezzi da lavoro appesi ad una parete si trasformano nell’immaginazione in potenziali strumenti di tortura, le domande iniziali (‘Chi sono? Che faccio? Da che parte sto? Perché sono qui?’) non trovano risposte incrollabili, ogni certezza si sgretola, sebbene mi sembri grottesco, è solo uno spettacolo, non è la situazione di chi ogni giorno deve passare il confine in Palestina o in Messico, non sono davvero ad un checkpoint, non sono tra i rifugiati politici che fanno lo sciopero della fame a un chilometro da qui, io sono in una finzione. Non fu una finzione, nel luglio del 1989, mentre ero borsi-


Epilogo



sta della Germania comunista; mi presentai al Checkpoint Charlie di Berlino munita del passaporto italiano con la richiesta ingenua di passare dall’altra parte per una ‘passeggiata’. Il volto senza un’ombra del ‘poliziotto del popolo’ era incredulo; passi pure, mi disse, non so dove vuole andare, non le assicuro che rientrerà. E così Berlino Ovest, paradossalmente, è rimasta per me l’altrove sino a qualche anno dopo la caduta del Muro. 8. Confini di ogni tipo: dopo l’attesa nella tenda del cortile, arriva un uomo vestito da soldato e mi fa entrare in una roulotte. Qui sono posta di fronte ad un altro confine, un vetro trasparente, dietro al quale una donna bionda, giovane, bella (una ‘barbara’? potrebbe essere rumena o ucraina) si trucca, si spoglia, si specchia e nello specchiarsi mi guarda (lo sa che sono qui, e mi provoca. Sa che sono una donna? Oppure sa solo che un indefinito spettatore sta al di là del vetro?). Cosa provo nei suoi confronti? Paura, necessità di difendermi? Un’attrazione insidiosa, inammissibile, la repressa curiosità di scoprirla mentre si passa sulle labbra il rossetto, si prepara forse all’amore? Desiderio di vederla mentre fa l’amore? Voglio essere lei? Voglio essere bella come lei o un’attrice come lei? Di cosa mi parla? Muove le labbra ma non capisco. Qualche parola in inglese, l’accento straniero ma indistinguibile, domande a cui non aspetta risposta. A quali sensazioni inconfessate riesce a fare appello mentre avvicina la sua bocca allo specchio (sa che io sono qui), sussurrando ‘vieni, vieni, vieni’? Vieni dove? I desideri sono anch’essi confini fragili come vetro? Di quanto coraggio abbiamo bisogno per specchiarci in un altro? Di quale forza per abbandonarci ad un abbraccio? 9. Lo spettacolo finisce d’improvviso, con una porta che si apre nell’uscita di sicurezza, scale che portano fuori, dove tutto è immutato. Il rumore del traffico affannoso del venerdì sera. Berlino, di nuovo. Una Berlino che non dorme, che sogna anche quando è giorno, aperta come gli Spätkauf, i negozi notturni, 24 ore su 24, arrogante come un ubriaco, in movimento come i suoi marciapiedi, Berlino che dimentica costruendo di nuovo sulle rovine e ricorda finanziando il progetto del Castello che fu di Federico il Grande. Berlino, in continuo trasloco.


Epilogo 

10. Nell’ormai tardo pomeriggio rovente, mentre un altro spettatore fuma e attende che qualcuno lo venga a prendere, passa veloce una bicicletta con una ragazza dal vestito lungo nero e il velo sul capo. Le donne di fede islamica assomigliano a farfalle dalle ali nascoste, sono spesso insieme spingendo passeggini, fanno jogging coi passi impediti dall’abito o addirittura si tuffano in piscina con il camicione nero e il velo. Le vedi che finalmente ridono e si spogliano tra loro nell’hammam, un inatteso frammento di Turchia in un brutto condominio in cemento armato a cui si accede da un cortile trafficato da camion che caricano bibite da un venditore all’ingrosso, tra una palestra per arti marziali e un dubbio locale da Karaoke. Istanbul-Berlino un biglietto che non porta a nulla, perché nulla cambia. Basta suonare alla porta di ferro pesante, e si entra in un mondo ovattato di musica orientale e vapori, di divani soffici e teli di lino a quadretti, di profumo di lavanda e cedro. Ho attraversato il confine? Sono dalla parte dei barbari? O sono io la barbara in un giardino che non conosco? 11. Nel momento in cui trovo queste domande (non la risposta, ma la proposizione di queste domande) in un libro che non le pone esplicitamente, la cui lettura richiama immagini e situazioni a me più vicine, come una musica richiama un volto, un dipinto richiama un’emozione, un paesaggio evoca un ricordo, nel momento in cui queste domande sono una parte di me e per cercare di rispondervi so di poter ricorrere alle pagine di quel libro nel mio scaffale, che posso rileggere quando voglio e sento, in quel momento ho incontrato un classico. Classico, non tanto perché posso rispecchiarvi me stessa, i miei dubbi, le mie irrisolte questioni; classico, non solo perché vi ricorro nei momenti difficili o in quelli dell’esaltazione; classico, non perché mi innamora e sconvolge o rompe il mio ghiaccio interiore. Classico perché vi si specchia l’umano. L’umano in tutti i suoi abissi e le sue crudeltà, i suoi demoni. L’umano nelle sue possibilità – ma anche nelle incapacità. L’umano nel suo cuore oscuro, il male, che va raccontato, nella sua nudità se possibile, perché lo si possa, se non evitare, prevedere, presentire, conoscere. 12. Una postilla ancora, in quest’epilogo che non è un epilogo, su una delle conferenze tenute dalla protagonista del romanzo omonimo, Elisabeth Costello, Il problema del male: in essa la fittiva scrittrice austra-


Epilogo



liana vuole dimostrare la tesi che «ci siano cose che non è bene leggere né scrivere» (EC, p. 127). L’obiettivo polemico è un romanzo (realmente pubblicato nel 1980), The Very Rich Hours of Count Von Stauffenberg dello scrittore americano Paul West, che racconta le ultime ore, prima dell’esecuzione, del generale von Stauffenberg, la mente del fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944. Di quell’episodio, West ricostruisce senza attenersi alla documentazione storica i momenti estremi, la crudeltà del boia con i condannati, i particolari raccapriccianti dell’esecuzione che Hitler volle lentissima: lo strangolamento con una corda di pianoforte. L’impiccagione fu filmata per divertimento suo e di Goebbels (il quale, pare, si coprì gli occhi per non guardare). Il racconto utilizza tutti i particolari di un film pulp (ad esempio: «la merda che sarebbe colata giù per le vecchie gambe rinsecchite e l’ultimo fremito del pene floscio, da vecchi»: EC, p. 111). La tesi di Elisabeth Costello è che si tratti di un libro osceno, dal quale bisogna difendere i potenziali lettori. Un libro da cui mettere in guardia, portatore del pericolo di far ritornare il male evocato nel momento in cui lo rende oggetto estetico e si usa il fascino voyeristico, terribile, dello spettacolo della violenza inaudita. Il romanzo di West pone il problema di quale sia il confine da rispettare tra finzione e storia: il conte von Stauffenberg non è una figura eroica inventata, ma un uomo realmente esistito, impiccato nella maniera più umiliante e terribile – però non in uno scantinato, come scrive West, ma in un luogo deputato all’eliminazione degli oppositori politici. Gli attentatori del 20 luglio che non furono fucilati subito, nel cortile del Ministero della Difesa, subirono un processo farsa e finirono impiccati in maniera brutale in una specie di magazzino costruito nel cortile del carcere berlinese del Plötzensee. La prigione è ancora attiva, il luogo delle esecuzioni è divenuto un monumento nazionale. Sin dal 1933 centinaia di persone sono state lì uccise con un’organizzazione impeccabile, tutti detenuti politici, sospettati di far parte della resistenza, tedeschi soprattutto, ma anche polacchi, ungheresi e di altre nazionalità, uomini e donne, quest’ultime sempre ghigliottinate. L’impiccagione era riservata in special modo ai militari accusati di alto tradimento, perché era più lenta, atroce, umiliante. I cadaveri sparivano, non erano sepolti, anche per non dar adito a disordini oltre che per sfregio, e venivano messi a disposizione per gli esperimenti anatomici. Per gli attentatori del 20 luglio si usarono speciali ganci da macellaio e si spettaco-


Epilogo 

larizzò l’esecuzione (l’uomo che la filmò si dette dopo per disperso e probabilmente si tolse la vita). Ma il romanzo di West non si interessa della realtà storica, e del resto nel 1980 i tempi non erano maturi per una esaltazione della resistenza tedesca da parte americana (il film con Tom Cruise Operazione Valchiria, che racconta lo stesso episodio, è del 2008). Non è la presenza del male che mi turba, ma che il male sia legato ad un episodio realmente accaduto che non è narrato nel rispetto della storia. Perciò è condivisibile il dubbio che West usi la fascinazione del male a spese della memoria. Ad esempio Stauffenberg non era un ‘vecchio’, come scrive West (e Coetzee), ma un ufficiale di 37 anni, che sopportò con dignità irritante per Hitler sia il processo-farsa che le successive torture. È lecito rappresentare quel male estremo? – questa la domanda posta da Elisabeth Costello. Lo è se non rappresenta un’istigazione al male, anche se può esserlo involontariamente. Lo è se la rappresentazione del male può diventare, col suo suscitare paura e pietà, un deterrente, oppure un atto purificatorio. Le domande di Elisabeth Costello restano aperte, perché il confronto che la scrittrice cerca con il suo collega scrittore autore del romanzo su Stauffenberg, casualmente presente alla sua conferenza, non ha luogo. E tuttavia mi sembra che la domanda della Costello una risposta ce l’abbia, e non negativa: non solo alla letteratura e all’arte non deve essere imposto alcun limite, ma il male (che è una componente dell’umano) non può essere ignorato o censurato. Il male compare, del resto, nella letteratura europea sin dagli inizi. L’Iliade è il racconto di stragi continue, ed ha al centro una passione violenta, letale, malata, l’ira di Achille, che ha conseguenze mortali per i soldati del suo esercito, di cui nessuno ricorderà il nome. 13. La lettura del capitolo Il problema del male da Elisabeth Costello ha avuto per me un significato totalmente diverso a Berlino, rispetto alla prima lettura, anni prima, quando di resistenza tedesca non sapevo nulla. Eppure le parole di Coetzee mi erano rimaste nella memoria e il suo libro, infatti, era nel mio scaffale. A Berlino però il romanzo Elisabeth Costello è diventato per me un classico. 14. È il momento di tirare le somme oppure, con un’espressione di Coetzee, ‘doppiare il capo’, nella consapevolezza che si tratta pur sempre di un atto provvisorio. È il momento di elencare quei punti dove sono


Epilogo



stati cuciti i fili della nostra riflessione, in una trama tutta ancora da tessere. Il classico è l’umano. Lì dove la dignità umana viene difesa e tutelata, dove si denuncia la violenza e la tortura, dove l’uomo, il ‘terribile’ (cfr. Sofocle, Antigone, vv. 332-333), si rivela nelle sue capacità di pensare, sentire, amare, lì siamo in presenza di un atto estetico e morale che si può definire ‘classico’. In questo senso, dunque, classico è tutto ciò che si oppone alla barbarie del cuore umano. Classico è quel gesto che abbraccia l’umanità nella sua interezza e l’atto d’amore è il culmine dell’abbraccio. Saper abbracciare, concedersi, abbandonarsi all’amante è un atto difficile: dall’amore ci si difende, dal troppo amore ci si protegge, si ha paura di cadere nei buchi profondi del cuore, lì dove si annida l’inspiegabile. L’arte che riesce a raccontare un abbraccio d’amore è classica. 15. Tuttavia la mimesi perde l’agone con la realtà: l’arte resta in secondo piano rispetto alla vita. Come talora ci si può innamorare dell’idea dell’amore, dell’idea di una persona invece che di una persona, così il classico può restituire l’idea dell’umanità, ma l’amore è racchiuso nell’odore, nella carne, nella concretezza dell’essere amato, e il riflesso dell’uomo che è dato dall’arte resta un riflesso, e non può e deve trasformarsi né in un ideale né in un modello. 16. La qualità principale, costitutiva, del classico è il suo perdurare, la sua resistenza. Classico è quel che supera le tempeste della storia e i suoi orrori, che è sopravvissuto ad esempio ai campi di concentramento e all’apartheid, che ha sfidato i secoli e ha conservato la dignità dell’uomo anche nei momenti in cui solo la vergogna poteva prevalere. Perciò il classico ha la capacità di parlare oltre la storia, perché il linguaggio dell’umano (che va al di là dell’interpretazione) si ascolta oltre le epoche e gli spazi geografici. Perdura. 17. Il classico è epidemico. Chi l’ha colto e inteso nella sua forza immensa di resistenza cerca di trarne quella forza, di usarla per superare la propria stessa morte. Scrivere, creare: una maniera per tenere a debita distanza la morte. Un’illusione? Anche. Il classico, del resto, ha neces-


Epilogo 

sariamente una dimensione onirica. Non si esce però immuni dalla necessità di scrivere. Ci si mette in discussione, svendendo la propria vita e soprattutto la vita degli altri. Un atto vampiresco, ingiusto, forse, per cui le figure che attraversano la nostra esistenza sono trasformate in personaggi letterari e per questo violate. Ma senza questa violazione non sarebbe stato scritto nessun classico. 18. Non basta però l’impulso a scrivere e il desiderio di sopravvivere con la scrittura perché si formi un classico; come non basta ascoltare Bach per diventare un compositore. C’è un processo storico di verifica non solo del tempo, ma anche di persone specializzate che vagliano e decidono che cosa sia classico o no, cosa debba restare oppure no. Non si sfugge ai verdetti della storia. Classico è quel che viene tràdito in una catena specifica di ricezioni. 19. Troppe parole per non rispondere alla domanda che dà il titolo a questo libro, Cosa è un classico? Tentiamo un atto estremo. Classico: ciò che è umano, ciò che resiste e aiuta a resistere, ciò che passa al vaglio del tempo e di giudici competenti. Classico: il cuore che cerchiamo in un mondo spesso senza cuore.


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