La danza macabra I, di August Strindberg, a cura di Franco Perrelli

Indice

Introduzione di Franco Perrelli

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LA DANZA MACABRA I

Sezione prima Sezione seconda Sezione terza Sezione quarta

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Introduzione di Franco Perrelli

1. Il nuovo secolo si avviò intenso e operoso per il drammaturgo August Strindberg che, dopo molti anni di assenza e di travagli spirituali, nell’estate del 1899 si era ristabilito nella sua Stoccolma. Il 1900 si segnala così per un imponente dramma storico, Gustav Adolf; due pièce in qualche modo in relazione con la vivace vita della capitale, Mezza estate [Midsommar] e Il martedì grasso di Kasper [Kaspers fettisdag]; la sacra rappresentazione borghese di Pasqua [Påsk] e il dittico intitolato La danza macabra [Dödsdansen], che va senz’altro valutato come un capolavoro, soprattutto per la sua prima parte.

Diremo subito che Strindberg ha considerato le parti I e II della Danza macabra in collegamento, quasi come capitoli «di un romanzo, dettagliato»: il primo doveva costituire l’affresco sulfureo dell’infelicità coniugale del capitano Edgar e di Alice, una ex attrice, confinati e quasi sorvegliati a vista nel «piccolo inferno» di una specie di Isola del Diavolo1, nel cui squallido destino s’innestava il coinvolgimento, al limite del sado-masochismo, del cugino Kurt, ispettore di quarantena; il secondo (che in Germania sarà noto come Der Vampir) doveva illustra1 A. STRINDBERG, Samlade verk, a cura di L. Dahlbäck, Almqvist & WiksellNordstedts, Stockholm dal 1981 [d’ora in poi SV], vol. 44, Dödsdansen, commentato da H. Lindström, p. 112.

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re più in profondità l’essenziale «ingrediente» del vampirismo di Edgar e la sua morte, con un finale che intendeva essere «la proclamazione della grande rassegnazione, senza la quale la vita è impossibile»2.

Questa seconda parte – che Strindberg aveva già in mente – fu ulteriormente sollecitata dal traduttore tedesco Emil Schering, perplesso sulle prospettive teatrali del primo dramma e, quindi, con il fine di «attenuare attraverso il gioco dell’amore la tragedia dei vecchi» (E. Schering)3. Tuttavia, lo stesso Strindberg non aveva problemi per una messinscena della sola parte I4, mentre critici molto autorevoli (Martin Lamm in testa) hanno considerato – forse troppo severamente, ma non senza ragione – Danza macabra II «un’aggiunta superflua» al primo magnifico e del tutto autonomo dramma5. In questa continuazione, comunque, ai tre protagonisti del primo dramma si congiungono i destini di Judith (la figlia di Edgar e Alice) e di Allan (il figlio di Kurt), il cui rapporto amoroso fa intravedere inquietantemente in prospettiva il ricostituirsi di un altro inferno coniugale; Edgar muore, ma la sua figura, nell’ultima battuta di Alice, all’insegna di questa ciclicità di fondo, si trasfigura nell’«amore della giovinezza»6.

Pur essendo un caso tutt’altro che unico nella produzione strindberghiana, La danza macabra sembra materializzarsi quasi da un’eruzione. La prima parte fu, infatti, probabilmente composta, a ridosso del dramma Pasqua, in poco più di una settimana, tanto che la sua data di nascita è improvvisamente consegnata a una veloce annotazione del 31 ottobre 1900 sul Dia2 ID., Brev, a cura di T. Eklund e B. Meidal, Bonniers, Stockholm 1947-2001 [d’ora in poi B], vol. 14, pp. 8, 169.

3 ID., Briefe an Emil Schering, Müller, München 1924, p. 36; cfr. B 13, p. 329.

4 Cfr., per esempio, B 15, p. 76.

5 M. LAMM, August Strindberg, Hammarström & Åberg, Johanneshov 19864, p. 281.

6 SV 44, p. 231.

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rio occulto [Ockulta dagboken], insieme alla descrizione della sorprendente rivelazione di un arcobaleno verde e rosato. La seconda parte arriverà alla fine dell’anno e il dittico sarà pubblicato in un unico volume nell’ottobre del 1901.

Possediamo, tuttavia, diversi appunti e frammenti preliminari che fanno supporre una gestazione sotterranea complessa e relativamente più protratta. Fra le carte di Strindberg (di non facile datazione e, talora, d’indiretta attribuzione al nostro dramma) ricorrono infatti i riferimenti a Dödsdansen e a Döden i dansen [La morte nella danza], a «coniugi che si tormentano a vicenda», con agganci a temi che saranno poi sviluppati in Un sogno [Ett drömspel] nel 1901. Tra questi, l’idea degli uomini nel «carcere» della vita e del loro vicendevole torturarsi appunto «come fanno i prigionieri e i pazzi»7. Ancora, troviamo rubriche che suonano: «Tutto ritorna»; «La lotta con la morte.

(Danse Maçabre) [sic!]. Preparazione alla morte», con battute sparse tipo: «Io non ti ho mai amato!» e annotazioni relative a vampirismo o telepatia da elaborare in un dramma di almeno cinque atti. In merito al centrale tema del vampirismo, si può leggere: «Stadio del vampiro: quando la vita scorre via da lui, incomincia ad attaccarsi alle altre persone e s’identifica con loro, vive la loro vita, cerca di divorare le loro anime; le piega sotto di sé e vicino a sé».

Chissà se, citando la Danse macabre, Strindberg avesse in mente la composizione di Saint-Saëns che Ibsen aveva usato in John Gabriel Borkman nel 1896 o piuttosto la teatrale «sfilata di uomini e di scheletri» tre-quattrocentesca – trattata da Jurgis Baltru&aitis – che «ricorda in ogni momento l’eguaglianza di tutti davanti alla morte», con la sua implicita fatale ritmica ciclicità: «L’apparizione dei trapassati avviene [...] in due tempi: dapprima parlano, si muovono, e stanno anche in piedi, ma non 7 Cfr. LAMM, August Strindberg, cit., p. 281; G. OLLÉN, Strindbergs dramatik, Sveriges Radios Förlag, Kristianstad 19824, p. 363.

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si mescolano ancora alla vita stessa, poi, assai più tardi, invadono il mondo e lo fanno danzare»8. Sappiamo, del resto, che, da Verso Damasco [Till Damaskus, 1898] e La saga dei Folkunghi [Folkungasagan, 1899], l’utilizzo di strutture teatrali riconducibili al medioevo interessava moltissimo Strindberg9.

In un’altra nota, infine, La danza macabra appare più formata: l’ambientazione richiama un luogo di maledizione, il «monte bruciato di Ebal», fra «nude rocce»; Edgar (che «desidera l’annientamento») e Alice giocano a scacchi e sono in attesa dell’ispettore Kurt; litigano e il Capitano si sente male, sviene; si parla di hybris e di nemesi; quando arriva Kurt gli si rimprovera l’abbandono della moglie e dei figli, mentre Alice «parla sempre dell’interruzione della propria carriera di attrice, della borsa di studio a Parigi... e invece solo Copenaghen»; Kurt è «senza pensieri di vendetta e, allorché può vedere tutta la loro miseria, è preso da compassione»; nel terzo atto arrivano i fiori degli allievi della scuola artiglieri per il Capitano ammalato e sembra verificarsi una svolta decisiva.

Noteremo incidentalmente che, alla pubblicazione, La danza macabra non avrebbe comunque presentato alcuna divisione in atti. Nel 1904, Strindberg spiegherà infatti che, «nella nuova drammaturgia, atti e quadri vengono messi da parte; la suddivisione la si lascia al regista in relazione all’allestimento scenico e cose simili»10.

2. Nel giugno del 1896, in piena crisi religiosa, a Parigi, Strindberg aveva ricevuto la visita della sorella Anna e del marito, l’insegnante Hugo Philp, vecchio compagno d’università dello scrittore e impenitente ateo e radicale. L’incontro aveva irritato l’ipersensibile Strindberg che, nei confronti della coppia, aveva del resto sempre provato sentimenti ondivaghi e contrastanti, J. BALTRU&AITIS, Il medioevo fantastico, Mondadori, Milano 19772, p. 233.

Cfr. anche B 16, p. 81.

10 B 14, p. 349.

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sicché, acido, aveva scritto a un amico teosofo che il cognato gli era sembrato «il tipo d’uomo che ha risolto tutti gli enigmi dell’universo senza sforzarsi troppo»11. Già in questo cenno c’è quasi una battuta di Kurt («Ha discusso di religione come uno studentello, ma con la pretesa di aver risolto gli enigmi dell’universo!»)12, che connota la figura del Capitano della Danza macabra, che Strindberg modellerà ampiamente su Hugo Philp.

D’altronde, anche la sorella Anna darà non poco ad Alice: era infatti un carattere imperioso e una valente violinista che, sposandosi (e il matrimonio pare fosse piuttosto turbolento), aveva dovuto rinunciare a una brillante carriera artistica.

Su questi modelli si sovrappose un’altra coppia che Strindberg conosceva bene: lo scrittore (realista e radicale) Gustaf af Geijerstam e la moglie Nennie, ex attrice. Anche con i Geijerstam Strindberg ebbe rapporti (soprattutto letterari) contrastati e, alla fine, sarebbe rimasta famosa la sua corrosiva caricatura del collega raffigurato come il vampiro Zachris, nel romanzo Bandiere nere [Svarta fanor, 1904], che, nel XVIII capitolo, presenta una potente scena di danza macabra, nella quale la moglie del personaggio, Jenny, poco prima di morire e ormai convertita allo spiritualismo, denuncia lo smarrimento morale dei positivisti, «uomini disperati»13. Osserveremo che, nel Diario occulto, in una nota del 14 gennaio 1900, in relazione alla «Signora G af G» e a un misterioso «strano incidente», appare segnata fra parentesi quadre l’indicazione: «Dödsdansen». Ai primi di maggio dello stesso anno, Nennie af Geijerstam morì e, in dicembre, Strindberg avrebbe rotto definitivamente con il «vampiro» Gustaf («Avverto nella tua persona qualcosa di morboso che mi opprime e minaccia di rendermi morboso»)14.

Con i Geijerstam e ancor più con la famiglia della sorella, doB 11, p. 212.

SV 44, p. 80.

13 SV 57, p. 197.

14 B 13, p. 358.

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po il suo ritorno a Stoccolma nel ’99, Strindberg aveva avuto varie occasioni di frequentazione e persino di vacanza. Le relazioni erano state piuttosto tempestose e in particolare con Hugo Philp, che apprezzava scrittori come Oscar Levertin (che, vedremo, non amava affatto Strindberg) e – proprio come fa Edgar con Kurt nella Danza macabra – soleva rimproverare al cognato un colpevole disinteresse per i figli, dopo la dissoluzione del primo matrimonio15. Strindberg aveva potuto comunque osservare i suoi parenti e studiarli nell’intimità; aveva persino avuto modo di seguire da vicino la malattia circolatoria, abbinata al diabete, che aveva colpito Hugo Philp nel 1900. Nel Diario occulto, nota del 19 gennaio, leggiamo: «Hugo un po’ meglio. Conversazione sulla morte», e ci si chiede se questo colloquio non possa avere qualche analogia con quello che avviene, dopo l’apparizione della vecchia Maja (personificazione della Morte), nella parte I della Danza macabra16.

Non sarebbe peraltro l’unico dettaglio colto dal vivo e fedelmente incastonato nel dramma. Anche il cenno alla celebrazione delle nozze d’argento che chiude La danza macabra I coinciderebbe con la stessa ricorrenza (cui Strindberg non partecipò) festeggiata dai Philp nel mese di ottobre, poco prima della stesura dell’opera. Pare, insomma, che Hugo Philp fosse così disturbato dai fitti e riconoscibili riferimenti alla sua vita privata che bruciò il dramma non appena poté leggerlo. Vero o falso che sia, emozioni e dettagli osservati si scaricarono indubbiamente nella repentina scrittura della Danza macabra, ma non senza coinvolgere – com’è tipico in Strindberg – una disparata e dilatata gamma di altri modelli. Fra i tanti, andrebbe menzionata almeno l’egocentrica vanitosa figura dell’ispettore di quarantena Ossian Ekbohrn, che lo scrittore aveva frequentato negli anni Settanta e immortalato in una vivisezione del 1894, Nemesis divina (scritta in un non impeccabile francese), nella qua15 16

SV 44, pp. 45 sgg.

Ivi, p. 76.

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le sembra già prefigurata la psicologia di Edgar. Ekbohrn viveva infatti su un’isola «avec sa femme sans commerce avec le monde», odiato da tutti per il suo dispotismo; la moglie aveva confidato a Strindberg la sua «manie de grandeurs»: «Ça y est!

Il croit être un Napoléon relegué [sic!] à l’île de St. Hélène»17.

La danza macabra e il resto della drammaturgia strindberghiana sarebbero allora degli indiscreti regolamenti di conti con congiunti e conoscenti antipatici? Se così fosse, non ce ne occuperemmo di certo, ma il metodo di Strindberg – fin dal suo primo grande romanzo, La Sala rossa [Röda rummet, 1879] – era comunque quello dello studio in vivis18 o meglio della rielaborazione, fusione, contaminazione di modelli tratti dall’esperienza, con un procedimento creativo di serrata trasfigurazione umorale. Al di là di tutti i suoi modelli, ciò che colpisce è l’abilità dello scrittore di comporre «un mosaico con la vita propria e altrui»19, nonché di indagare a fondo gli esseri che vengono assemblati da molteplici impressioni, individuando peculiari dimensioni umane e «scoperte» psicologiche, che, nello specifico della Danza macabra, Strindberg non esita a rivendicare con orgoglio. Il dramma, infatti, offrirebbe autentiche «scoperte nel campo della vita dell’anima (= il vampirismo), ci sono la lotta e la morte senza veleno e pugnale»20. All’autore non interessava il melodramma d’intrigo (con veleni e pugnali) e, da un’altra lettera, apprendiamo che avrebbe persino potuto fare a meno delle scene erotiche fra Alice e Kurt21, ma mai avrebbe rinunciato a penetrare «nel campo della vita dell’anima», della sua psicologia e anche della sua metafisica. Quella era la sua area d’indagine e di creazione privilegiata.

17 A. STRINDBERG, Vivisektioner, a cura di T. Eklund, Bonniers, Stockholm 1958, pp. 40 sgg.

18 Cfr. B 2, p. 205.

19 B 15, p. 356.

20 B 14, p. 222.

21 Ivi, p. 170.

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3. Strindberg aveva, giustamente, un’alta opinione della Danza macabra, ma gli sforzi immediati di interessare ad essa le scene svedesi si dimostrarono vani. Né Emil Grandinson che, al Teatro Reale, aveva magistralmente allestito Verso Damasco nel novembre 1900, né l’attivo impresario Albert Ranft diedero segnali positivi e all’autore non restò che constatare che «La danza macabra aveva scarse prospettive di essere rappresentata» in patria22.

L’attenzione si rivolse allora alla Germania, dove operava il fido traduttore-agente Emil Schering che propose il copione al Kleines Theater di Max Reinhardt, ma i primi approcci convinsero Strindberg, al principio assai riluttante, a stendere, nel febbraio-marzo del 1902, versioni rielaborate e più sintetiche dei due drammi23. Si pensava a Emanuel Reicher per il ruolo del Capitano, ma i tentativi con i teatri berlinesi non ebbero esito, sebbene l’autore continuasse a insistere, ancora nel 1904, con Max Reinhardt, ritenendo che La danza macabra, con la sua «scenografia unica e tre personaggi», fosse repertorio elettivo del Kleines Theater24.

Bisognerà aspettare il 27 settembre 1912 (Strindberg era morto da pochi mesi) per vedere il debutto della famosa regia reinhardtiana del dramma (le due parti assieme) al Deutsches Theater di Berlino con un grande, rozzo e vitale Capitano affidato a Paul Wegener che, nella scena della danza, attingeva vertici di grottesco e di orrore; Gertrud Eysoldt era Alice (ruolo che in seguito passerà a Rosa Bertens) e Paul Biensfeldt Kurt.

Tre anni dopo, lo spettacolo fu portato in tournée in Svezia, dove fece profonda impressione. I critici trovarono la Bertens «una vera furia, l’odio impersonato», anche se forse priva di quel fascino che giustificherebbe le azioni di Kurt da un certo punto in poi, mentre pare che la Eysoldt fosse stata particolarIvi, p. 82.

Ivi, pp. 170, 174.

24 B 15, p. 45.

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mente dolente ed estranea al carattere selvaggio del personaggio come alle sue maniere da attrice. La regia cominciava e finiva con la medesima scena: Edgar e Alice seduti, distanti, di spalle al pubblico a fissare il vuoto.

Si trattò di uno spettacolo determinante per l’affermazione europea di Strindberg che, del resto, fra il 1912 e il 1927 (con un’emblematica depressione nella successiva epoca nazista), diventerà un autore pressoché tedesco. Di fatto, proprio Totentanz, nelle statistiche teatrali della Germania, compare (dopo Camerati [Kamraterna]) come il secondo dramma strindberghiano più rappresentato, con ben 1165 repliche verificabili fra il 1905 e il 1927. Il debutto (delle due parti separate in giorni successivi) avvenne, infatti, il 29 settembre 1905, a Colonia, grazie all’allestimento dovuto all’attore Fritz Krempien, con Elimar Striebeck e Helene Riechers. Lo spettacolo toccò 30 città tedesche nel corso della stagione, senza però portare a Strindberg benefici economici25, a causa delle forti perdite del pionieristico tentativo. La sola prima parte fu, tuttavia, già ripresa da Josef Jarno nell’autunno del 1906 a Vienna, avviando la consuetudine del suo scorporamento dal blocco dell’opera26.

Perché mai in Svezia la versione di Reinhardt fece tanta impressione? A prescindere dall’indubbia eccellenza artistica del regista, anche perché era agli antipodi di quella che aveva mostrato lo stesso Strindberg, a Stoccolma, con il suo Intima Teatern, l’8 settembre (parte prima) e il 1° ottobre 1909 (parte seconda). Fra il 1902 e il 1907, il drammaturgo aveva conosciuto in patria una delle sue periodiche crisi di popolarità e, per far rappresentare La danza macabra, poté affidarsi solo alla piccola scena che gestì, fra il 1907 e il 1910, insieme al giovane attore August Falck.

Si può immaginare, infatti, che le recensioni che avevano accolto l’opera stampata avessero reso guardinghi i teatri svedesi.

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Cfr. ivi, p. 221.

Cfr. OLLÉN, Strindbergs dramatik, cit., pp. 369 sgg., 379.

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Non molti critici si erano espressi favorevolmente sulla Danza macabra e quasi un classico della stroncatura è rimasto l’articolo del noto letterato Oscar Levertin, pubblicato su «Svenska Dagbladet» il 18 ottobre 1901. Strindberg – vi si legge – non ha mai scritto un dramma «più orribile e desolante»; l’opera verte sulla psicologia dell’infelicità coniugale, un argomento sul quale l’autore – «autentico professore di “matrimoni falliti”» – dovrebbe avere acquisito ormai «una fama internazionale di specialista». Anche Il padre [Fadren] del 1887 trattava della stessa patologica materia, ma Levertin pare avere qualche considerazione per questo vecchio dramma naturalista; La danza macabra invece è, per lui, priva della «quasi antica semplicità e grandezza» con cui Strindberg era riuscito in passato a illuminare la lotta dei sessi. Di contro, nella sua ossessiva variazione del tema, sembrano incrementate «la brutalità a livelli inauditi, la banalità ai limiti dell’insopportabile con la meschina, plebea baruffa che affoga tutti i pensieri e i sentimenti in una disarmonia senza fine, esasperata e plumbea». I temi più originali, «ai quali allude il titolo», del ritorno alla vita dei morti e del vampirismo avrebbero potuto, se trattati con un minimo di poesia, risollevare l’opera e, infatti, Strindberg, «come Poe, ama l’orrore, però non ha l’anima satura di triste sognante bellezza del grande americano». Le sue figure vampiresche, così, sono prive di «verità artistica», tanto più che «questa Danza macabra è una volgare, lenta e barbosa danza cafona, incapace di attrarre e conquistare». Vivida, in un dramma che è un «impasto di odio e di follia», appare solo «la malvagità». Maturando, non s’indulge più a giudizi ottimistici sugli uomini e la vita e dalla poesia non si pretende certo una bellezza a buon mercato; anche Ibsen ha parlato di una scrittura come «giudizio su se stessi», ma qui manca il benché minimo tentativo di un «superiore sguardo» sulle cose, c’è solo e, «ormai insopportabilmente, una furibonda querimonia, nella quale si evidenzia proprio il trionfo del basso e del meschino, mentre si esprimono soltanto l’odio e l’egoismo».

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