Pigi Colognesi, L'umana avventura

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Indice

Introduzione

V

Scrittori Henrik Ibsen. La ricerca dell’io

3

Il gelo di Brand, p. 5 • La leggerezza di Peer Gynt, p. 9

Oscar Wilde. Dal profondo

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L’insegnamento della sofferenza, p. 16 • Il peccato di superficialità, p. 19 • Cristo, il vero artista, p. 21

Oscar Milosz. Amorosa iniziazione

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Ricercatore inesausto, p. 26 • Il «Miguel Mañara», p. 32

Sigrid Undset. Cristianesimo e neopaganesimo

37

Una battaglia epocale, p. 41 • La morte cristiana, p. 45

Maria Barbara Tosatti. Senza rinunciare al desiderio

48

«Canti e preghiere», p. 51 • Ardente, p. 53 • «Resurrezione», p. 56

Vasilij Grossman. «Vita e destino»

58

Cosa è successo?, p. 61 • La vita e il destino, p. 64

Poeti dissidenti russi. I ragazzi di piazza Majakovskij Siamo giovani, p. 72 • La rivolta dell’umano, p. 75

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Teologi Johann Adam Möhler. La Chiesa è un corpo vivo

87

Oltre l’Illuminismo, p. 88 • Oltre il protestantesimo, p. 91 • Una pagina di Möhler, p. 93

Aleksej Stepanovicˇ Chomjakov. «Sobornost’»

97

Conoscenza comunionale, p. 101 • Una pagina di Chomjakov, p. 103

Alphonse Gratry. Alle sorgenti

106

Il metodo educativo, p. 109 • Una pagina di Gratry, p. 112

Robert Hugh Benson. La necessità del segno

118

Pastore anglicano, p. 121 • Verso Roma, p. 123 • Una pagina di Benson, p. 126

Fulton Sheen. Passione e comunicazione

129

Uno sguardo positivo, p. 131 • La Chiesa nella storia, p. 132 • Il ritmo della storia, p. 134 • Una pagina di Sheen, p. 138

Josef Zveˇrˇina. Segno di contraddizione

140

L’incomprensibile letizia, p. 145 • Una pagina di Zveˇrˇina, p. 146

Artisti Chartres. Dell’architettura

151

Il velo della Vergine, p. 152 • Il portale reale, p. 154 • Contro le eresie, p. 157 • Chiesa militante, p. 159

Botticelli. Della pittura

162

Le Madonne, p. 163 • Il priore di San Marco, p. 165 • A Babilonia, p. 168 • Natività mistica, p. 169

Antoní Dvorˇák. Della musica

172

Violinista di villaggio, p. 174 • «Bohème» praghese, p. 175 • «Stabat Mater», p. 178 • «Dal Nuovo Mondo», p. 179 • Josefina e l’insegnamento, p. 181

Profili

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Introduzione

Quel che conta nella vita non dipende dai libri, ma dagli incontri personali. Certo, tra le cose importanti che una persona ti dice può esserci anche il suggerimento di un libro. Però allora vai a leggerlo non per pura curiosità intellettuale, ma nella speranza che riaccada, anche nella lettura, un po’ del fascino che chi te lo ha proposto ti ha destato. Così è stato, per me, nel mio rapporto con don Luigi Giussani. Una delle cose che più mi impressionava del suo insegnamento in Università Cattolica erano le innumerevoli citazioni letterarie. Egli sapeva supportare il limpido e stringente ragionamento sul senso religioso, sulla persona di Cristo o sulla Chiesa con citazioni folgoranti. E spesso inattese. Fin dalle prime lezioni familiarizzavamo col suo amato Leopardi. Ma poi arrivavano frasi inaspettate di Pavese o di Pasolini, di Lagerkvist o di Camus. Poi ancora una serie di nomi sconosciuti, che don Giussani estraeva soprattutto dalle sue letture giovanili in seminario: Gratry, Benson, Möhler e tanti altri. Questi nomi sono rimasti nella mia memoria e, per molti anni, V


li ho collegati anche ad una sola loro frase, senza preoccuparmi di conoscere meglio che tipo di persona ci fosse dietro quelle parole. Poi ho deciso di saperne di più e ho cominciato a leggere quanto mi era possibile di e su quegli autori. Ho sempre incontrato persone con una vita e un’opera eccezionalmente interessanti. E ho voluto raccontarle in una serie di articoli, pubblicati su varie testate dal 2003 al 2007. Ora ho pensato di raccogliere quegli articoli, semplicemente aggiornandoli ove necessario ed uniformando la scrittura. Ne è uscito questo volumetto. Che vorrebbe essere un semplice invito ad «incontrare» quelle persone. La prima parte è dedicata alla letteratura. Vi si espongono alcune opere di Ibsen, Wilde, Milosz, Undset, Tosatti, Grossman e dei giovani poeti del dissenso in Urss. Non sono saggi che abbiano la pretesa di completezza critica, ma tentativi di capire il fascino provocatorio della loro opera, così come mi aveva colpito nelle citazioni che faceva don Giussani. Si tratta infatti (ad esclusione di Wilde, il cui De profundis ho conosciuto per altre vie) di scrittori da lui ampiamente e ripetutamente utilizzati. La seconda parte si occupa, invece, di teologi. Non si spaventi il lettore: qui la teologia non è una dottrina fredda e specialistica. Gli autori presentati (Möhler, Chomjakov, Benson, Gratry, Sheen e Zveˇrˇina) hanno scritto una teologia molto esistenziale, molto partecipata. Di loro ho cercato di dare qualche breve ragguaglio biografico e di mettere in evidenza quell’aspetto che più ha mosso e arricchito la mia fede personale. Per ciascun autore, inoltre, ho scelto una pagina che mi pare esprima bene l’animus della sua ricerca sui misteri del cristianesimo. VI


La terza parte, infine, accenna a tre grandi arti: architettura, pittura, musica. Con la sua insistenza sul bello don Giussani ha acuito in me un amore per l’arte che già nutrivo. Ho qui esposto, quindi, tre momenti per me significativi di «incontro» con il bello artistico: una visita a Chartres, una mostra di Botticelli, l’ascolto assiduo della musica di Dvorˇák. Rileggendo in sequenza questi appunti per ritratti, si possono individuare almeno due costanti. Anzitutto la serietà e la lealtà di tutti gli autori considerati nei confronti del proprio desiderio umano, dell’inestirpabile anelito alla verità, al significato, a Dio. In secondo luogo una concezione «vitale» della Chiesa; essa è molto più che un insieme di teorie o una organizzazione ben compaginata: è un corpo nel quale tutto l’io è coinvolto, valorizzato, accompagnato al suo destino. P.C.

VII


Vasilij Grossman «Vita e destino»*

Egregio Vasilij Semënovicˇ Grossman, mi chiamo Ivan e sono uno studente delle scuole superiori di Mosca. Come compito delle vacanze, la nostra professoressa di letteratura russa ci ha chiesto di individuare, a nostro piacimento, un autore del ventesimo secolo, di leggerne le opere e di preparare una breve tesina da presentare al rientro a scuola dopo l’estate. Mi sono fatto qualche giro in libreria alla ricerca di scrittori contemporanei, ma non ho trovato molto che mi interessasse. Da qualche parte ho sentito che la letteratura russa è, se non morta, almeno in profonda agonia ed effettivamente i romanzi recenti che ho sfogliato non mi hanno avvinto in modo particolare. Poi ho letto di lei su una rivista letteraria nella quale viene descritto come scrittore che era molto in voga negli anni pre* Mi è capitato molte volte di presentare pubblicamente il capolavoro di Grossman Vita e destino e ne ho scritto a più riprese. Per il presente volume ho scelto di riproporre questo articolo, che ha la forma di una immaginaria “tesina di maturità” di uno studente russo di oggi.

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cedenti la Seconda guerra mondiale e che poi è stato dimenticato. Non la conoscevo e nessuno mi aveva mai parlato della sua opera, ma – mi sono detto – fare la tesina su un autore quasi sconosciuto potrebbe essere un vantaggio: almeno c’è dalla mia parte il fattore novità. Le dico subito che per me leggere il suo Vita e destino è stato come un salutare shock, ha completamente cambiato il mio modo di pensare, mi ha aperto delle prospettive che non avrei mai immaginato. E mi ha fatto piangere. Per questo ho deciso che la mia tesina non doveva avere la forma classica e fredda dell’elaborato asettico; ho cercato una modalità più coinvolgente e ho pensato di scriverle. Ben consapevole che questa mia lettera lei potrà leggerla solo dall’aldilà. Devo ammettere che la lettura dei suoi primi racconti è stata deludente. Certamente lei ha sempre dimostrato una capacità straordinaria nell’uso della parola e una perspicacia non comune nell’analisi dei personaggi. Non mi piaceva, però, il suo totale assenso all’ideologia sovietica. Mi chiedevo come poteva, lei che è persona intelligente e onesta, non rendersi conto dell’ingiustizia del regime, delle violazioni sistematiche della libertà individuale, della distruzione di ogni brandello di umanità che Lenin, Stalin e i loro seguaci hanno perpetrato sistematicamente e che ogni ricerca storica mostra di giorno in giorno in modo sempre più inoppugnabile. Ma come fa questo qui, mi dicevo, a esaltare la collettivizzazione agraria, senza accorgersi (o finge?) che essa è costata la vita a milioni di contadini? Come fa a descrivere la campagna della sua nativa Ucraina come un paradiso terrestre dove scorrono latte e cioccolata e i bambini felici sgambettano nelle tenute ubertose, mentre si sa che quei bambini morivano di fame (o venivano mangiati dai genitori. Proprio così: il cannibalismo era pratica 59


tristemente diffusa nell’Ucraina degli anni Trenta, devastata dalla politica agraria di Stalin)? Come fa, mi chiedevo ancora, a esaltare il grande balzo dell’industrializzazione quando si sapeva che essa era pagata con i lavori forzati di milioni di detenuti e con la devastazione sistematica dell’equilibrio ecologico (le cui conseguenze, tra l’altro, stiamo pagando ancora oggi)? Stavo per abbandonare l’idea di fare la tesina su di lei, se non fosse che il romanzo che avrei dovuto ancora leggere, quello che cronologicamente seguiva le opere cui ho fatto cenno e che non mi erano proprio piaciute, era un romanzo di guerra, e i romanzi di guerra mi hanno sempre affascinato moltissimo. Mi sono fatto forza e ho aperto Per la giusta causa, pubblicato nel 1952. Si vede che lei ha partecipato direttamente dall’immane epopea che fu la Seconda guerra mondiale e infatti mi risulta che, essendo corrispondente del giornale dell’esercito «Stella rossa», ha potuto vedere direttamente molte fasi del conflitto ed in particolare la grandiosa battaglia di Stalingrado, intorno alla quale ruotano i numerosissimi personaggi del romanzo. C’è qualcosa di tolstoiano nello schema da lei utilizzato: una famiglia, nel suo caso i Sˇaposˇnikov, viene descritta nelle sue vicende personali e intime, sempre tenendo presente il grande scenario della guerra e i drammi, le miserie, le scoperte che esso comporta. Anche in questo caso lei si è dimostrato uno scrittore dalle doti non comuni. Tuttavia neppure Per la giusta causa mi ha convinto. Si vede ancora che il suo modo di narrare e di interpretare la realtà è schiavo di regole imposte dall’alto, dall’ideologia del «realismo socialista». C’è qualcosa di freddo, di legnoso, di schematico nel modo con cui le vicende dei personaggi vengono presentate; come se la tesi da dimostrare (l’eroicità del popolo sovietico contro il «male assoluto» rappresentato dal nazismo) le 60


avesse troppo preso la mano e condotto nel vicolo cieco, artisticamente parlando, del romanzo didascalico. Basta, mi sono detto; questo scrittore non fa per me. Poi, fortunatamente, ha vinto la mia curiosità. Sapevo infatti che Per la giusta causa aveva un seguito intitolato Vita e destino, a quel punto, nonostante la mole non indifferente del volume, ho deciso di leggere anche questa seconda parte del dittico, tanto per non lasciare incompiuta l’opera. È stata la folgorazione.

Cosa è successo? Ma cosa le era successo? Proprio non riesco a capacitarmi: i personaggi di Vita e destino sono gli stessi di Per la giusta causa, il tipo di racconto è il medesimo, così come il frangente storico narrato (la conclusione, vittoriosa per noi russi, della battaglia di Stalingrado). Anche l’autore è lo stesso. Eppure è tutto diverso. Invece che personaggi ingessati da una tesi da dimostrare attraverso di loro, mi sono trovato davanti a uomini vivi, scarnificati dai propri dubbi, lacerati dai dolori della storia, e indomabilmente animati dalla voglia di vivere, dal desiderio di essere felici. Invece che idee astratte sotto forma di attori di una storia inventata, ecco l’imporsi maestoso e misterioso della «realtà», bella, brutta, quotidiana, semplice e sempre profondissima. La realtà della natura; la realtà degli affetti umani; la realtà dei desideri primordiali e indiscutibili. Di fronte a tanta realtà ogni ideologia crolla, scompare, svanisce. E così lei può – finalmente! – parlare in modo libero e audace della tragedia della collettivizzazione, dello scempio delle purghe staliniane, del Gulag, dei tradimenti e delle meschinità di cui era intessuta la normalità dell’homo sovieticus. Ma cosa le era successo? A questo punto dovevo capire a 61


cosa fosse dovuta una trasformazione tanto radicale e inaspettata. So che lei, assieme a Il’ja Ehrenburg, aveva preparato un Libro nero sul genocidio nazista degli ebrei nei territori sovietici da loro occupati nella prima fase della guerra. Deve essere stato particolarmente terribile, per lei ebreo, ricostruire questa storia di inaudita crudeltà. Ha visto anche il campo di concentramento di Treblinka e, quindi, ha potuto constatare di persona l’acme di quella barbarie. Fedele al dettato socialista secondo il quale lo scrittore è un «ingegnere dell’anima», lei ha coscienziosamente redatto il Libro nero negli stessi anni in cui scriveva, con lo stesso intendimento, Per la giusta causa. Deve, quindi, essere stato particolarmente doloroso accorgersi che il regime sovietico, che lei voleva servire disciplinatamente, non accettava il frutto del suo lavoro. Anzi, contro il suo romanzo si moltiplicavano gli attacchi della critica ufficiale e il Libro nero giaceva non pubblicato in qualche cassetto della Polizia di Stato. Intanto iniziavano strani processi ad ebrei, accusati fantasiosamente di delitti improbabili. È stato allora, credo, che lei ha capito che Stalin, l’immortale vincitore della guerra patriottica che gli stessi suoi scritti avevano contribuito ad esaltare, stava semplicemente raccogliendo da Hitler il testimone della persecuzione antiebraica. E, se non fosse morto nel 1953, Stalin avrebbe portato a compimento anche questa ennesima «purga», così come aveva fatto su altri fronti nei lunghi anni del suo incontrastato dominio. Sono abbastanza certo nel ritenere che questa sia stata la scintilla del suo radicale cambiamento, che a buon diritto si può chiamare «conversione»; ma sono altresì convinto che è stata solo la scintilla che ha dato l’avvio a un ripensamento radicale, totale e coraggioso di tutto quello in cui lei aveva pre62


cedentemente creduto. Un ripensamento tanto profondo che Vita e destino non sembra scritto dallo stesso uomo che aveva firmato i precedenti racconti. Non fatico ad immaginarla nei dieci anni che la composizione del romanzo le ha richiesto, mentre giorno per giorno scopre la menzogna delle idee care al regime e svela a se stesso la maestà delle cose che, al di là di ogni ideologia, fanno di un essere umano un uomo: la sua vita e il suo destino, da cui, credo, il titolo del romanzo. Purtroppo lei, Vasilij Semënovicˇ, non ha potuto veder pubblicato il suo capolavoro. Nonostante la cosiddetta destalinizzazione del periodo di Chrusˇcˇëv, le orecchie del governo, del partito (e le orecchie stesse dei russi) non erano pronte ad ascoltare la sua lezione. Si dice che lei, un po’ ingenuamente, abbia sottoposto il manoscritto di Vita e destino addirittura a Michail Suslov, il garante dell’ideologia «marx-lenin-stalinchrusˇcˇëviana», nella speranza che la fugace primavera poststaliniana ne consentisse la pubblicazione. Si dice anche che Suslov le abbia risposto che sarebbero passati duecento anni prima della pubblicazione di un’opera così rivoluzionaria. Sta di fatto che i poliziotti del Kgb le hanno requisito il dattiloscritto e, per essere sicuri del tutto, hanno distrutto persino il nastro della macchina da scrivere e la carta carbone. Ma una copia è riuscita fortunosamente ad arrivare in Occidente, dove Vita e destino è stato pubblicato nel 1980. Noi in Russia, per leggerlo, abbiamo dovuto aspettare fino al 1989. So che da poco tempo è stata ritrovata anche un’altra copia del dattiloscritto, gelosamente conservata dalla vedova di un suo caro amico. Subito dopo la pubblicazione ci furono vivaci discussioni, che però oggi sembrano già finite, tanto che di lei, nelle nostre scuole e sui nostri manuali, quasi non si parla più. Ed è un peccato, perché la sua scoperta dei limiti dell’ideolo63


gia e del primato della realtà è una lezione che ritengo fondamentale anche adesso. Certo le ideologie che vanno ora per la maggiore non sono quelle totalitarie che hanno tristemente dominato parte del secolo scorso; ma la tentazione di abolire la realtà in favore di un’idea è permanente, anche se l’idea è più soft, debole e apparentemente indolore, come il nichilismo superficiale e autosoddisfatto che riempie tante pagine dei romanzi che vanno per la maggiore tra i miei coetanei.

La vita e il destino Sono, così, arrivato al punto nevralgico della mia lettera: perché Vita e destino mi ha impressionato così tanto? Mi perdoni se sarò un po’ schematico e se dirò delle cose che lei ben conosce (visto la determinazione con la quale le ha difese dopo averle scoperte), ma accolga le mie riflessioni come un atto di gratitudine di un giovanotto russo del ventunesimo secolo per uno scrittore che gli ha fatto scoprire un mondo nuovo e incredibilmente affascinante. Anzitutto devo ringraziarla per la lucidità con la quale lei smaschera l’inganno dell’ideologia e, ripeto, di ogni ideologia. È un po’ l’uovo di Colombo, ma nessuno mi ci aveva fatto pensare. Cos’è l’ideologia? La prevalenza dell’idea sulla realtà; una prevalenza che diventa necessariamente violenta quando l’idea prende il potere; in questo caso è la realtà stessa che deve piegarsi ai dettami dell’idea e del pensiero. Da lei ho imparato che, invece, il pensiero è servo della realtà, la quale sempre contiene aspetti inattesi e sorprendenti. «Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia» dice Amleto all’amico Orazio, e lei sembra aver umilmente accettato questa straordinaria legge del pensiero e l’ha applicata 64


con coraggio nel suo romanzo. Ecco perché, contrariamente alle prime prove narrative, in Vita e destino gli uomini sono «veri e reali». Ed ecco spiegato come mai lei ha il coraggio – e siamo nel 1960! – di accomunare l’ideologia sovietica a quella nazista: nella loro origine e nella violenza come metodo esse sono gemelle. Come non ricordare, a questo proposito, il dialogo tra il vecchio bolscevico Mostovskoj e il nazista Liss? Questi dice al primo, antico compagno di Lenin, che in fondo nazisti e comunisti sono speculari, vogliono la stessa cosa ed è un peccato che debbano combattersi, visto che in fondo sono radicalmente uguali. Ricordo anche quando Sˇtrum – uno dei protagonisti del romanzo nel quale non è difficile scorgere lo stesso autore – deve compilare un questionario e si accorge che la catalogazione dell’uomo secondo la sua origine sociale in vigore in Urss non è poi tanto differente da quella secondo l’origine razziale vigente nel Terzo Reich. Ma la cosa più bella è come lei parla della vita. Che respiro, che struggimento, che dolcezza nel modo con cui lei descrive i suoi personaggi e il loro attaccamento a questa cosa così semplice, immediata, senza bisogno di definizioni teoriche o astratte che è la vita di ciascuno di noi! Lei mi ha proprio insegnato che la vita è un valore primordiale e che noi le siamo attaccati originariamente. Sembra poco, ma proprio la fedeltà semplice a questo attaccamento elementare ha delle conseguenze incredibili: pietà comprensiva verso di sé e verso gli altri, idiosincrasia per ogni sovrastruttura e ogni violenza, bontà immediata, apprezzamento cordiale di tutto. Come le dicevo all’inizio, leggendo il suo romanzo ho pianto parecchie volte e proprio nei punti in cui questa descrizione della vita si fa più poetica e struggente. Ho pianto quando la madre di Sˇtrum scrive al figlio, dal ghetto dove è rinchiusa, 65


l’ultima lettera della sua vita; non si può restare indifferenti di fronte alla sua descrizione degli aspetti minuti e apparentemente banali dell’esistenza che acquistano una dignità e una grandezza quasi cosmiche se li si osserva con sguardo aperto e dal punto di vista dell’imminenza della morte. E, infatti, quella mirabile lettera finisce con l’invito più profondo e semplice che una madre, che pur sta per morire, possa rivolgere a un figlio: «Vivi! Vivi! Vivi per sempre!». Ho pianto quando Sof’ja Levinton, accompagnando alla camera a gas il piccolo David, un orfano conosciuto nel vagone blindato che li portava a Treblinka, scopre una maternità impensabile per lei che aveva dato al lavoro socialista tutte le sue energie di donna. Ho pianto quando Grekov, il capitano della «casa sei/uno», l’avamposto sovietico violentemente preso d’assalto dai tedeschi, capisce che il più giovane dei suoi soldati e la centralinista si amano e decide, lui cui la legge bellica avrebbe dato qualche diritto di spassarsela con la ragazza, di salvare ad ogni costo i due innamorati, affascinato dalla quantità e qualità di «vita» che il primo amore giovanile porta con sé. Ho pianto, ancora, leggendo l’episodio incredibile della vecchietta che osserva i tedeschi che riportano in superficie i cadaveri dei prigionieri della Gestapo. Ricorda la scena? Siamo alle ultime pagine del romanzo; i russi hanno ormai vinto la battaglia di Stalingrado. Si deve sgomberare la sede della famigerata polizia politica nazista; ovviamente sono incaricati della triste incombenza dei prigionieri tedeschi, che lentamente scendono negli scantinati e riportano sulla strada i corpi dei russi da loro arrestati e uccisi; tutt’intorno una folla sgomenta e ansiosa di vendetta. Un sottufficiale nazista attira particolarmente l’attenzione degli astanti e quando egli riporta in superficie il cadavere di un adolescente, la folla grida strazia66


ta e inferocita; una donna raccoglie da terra un mattone e si avvicina minacciosa verso il prigioniero tedesco; nessuno si muove nell’attesa spasmodica che la giusta vendetta si consumi. Ma la vecchia, invece di ammazzare il tedesco, gli offre un pezzo di pane (bene prezioso in quei tempi) e, riflettendo poi sul suo operato, commenta: «Scema ero e scema sono rimasta». Ma sono proprio questi «scemi» – gli eroi di quella che lei chiama «bontà irragionevole» – i veri uomini, i giusti che il suo collega Solzˇenicyn chiamerà le colonne sulle quali si regge l’universo. Eccola qui la vita che si oppone all’ideologia. So che lei non ha mai fatto aperta professione religiosa e anche la sua ascendenza ebraica non ha implicato una adesione alla fede del popolo di Abramo. Eppure è evidente che tutto il romanzo è attraversato da un potente afflato religioso. Non la religiosità che diventa a sua volta ideologia, ma quella elementare, cordiale, che fa aprire la mente al destino misterioso da cui proveniamo e verso cui andiamo. Destino, infatti, è la seconda parola determinante il romanzo fin nel titolo stesso. Destino non sono le «magnifiche sorti e progressive» del comunismo (e tanto meno la ferocia nazista), destino non è una logica o un calcolo. Destino è una domanda aperta. Me ne sono accorto leggendo l’ultimissima pagina del romanzo, quando la vecchia Aleksandra Sˇaposˇnikova ritorna nella sua casa distrutta dalla guerra. Allora ripensa ai figli, ai nipoti, agli amici; passa in rassegna il cammino, complicato e affascinante, di ciascuno e si chiede, nella consapevolezza che nessuna forza può distruggerne l’umanità: «Che ne sarà di loro?». Ecco, in questa domanda così semplice c’è tutta la forza del romanzo. E del suo autore, che come una madre amorevole e consapevole si piega su tutte le brutture e le bellezze della vita e si chiede: «Che ne sarà?». Aprendo, con questa semplice 67


domanda, una prospettiva infinita, nella quale un uomo che voglia rimanere tale trova un orizzonte adeguato ai suoi desideri. Come è successo a me leggendo quelle memorabili pagine. Per questo, carissimo Vasilij Semënovicˇ, le sarò sempre, immensamente riconoscente.

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sono di più difficile reperibilità. Consiglio l’ascolto dei quattro Cd della collana «Spirto gentil» iniziata da don Luigi Giussani: Stabat Mater op. 58 e Leggende op. 59; Trio n. 4 in mi minore op. 90; Quintetto con pianoforte op. 81 e op. 5; Serenate op. 22 e op. 44. Alphonse Gratry (1805-1872) è stato educato al di fuori di ogni interesse spirituale. L’incontro, a diciotto anni, con un eccezionale educatore ha però riaperto nel suo cuore e nella sua mente la problematica religiosa e lo ha convinto a riabbracciare il cattolicesimo. Divenuto sacerdote, si è prodigato per realizzare un vasto programma educativo, caratterizzato da estrema apertura intellettuale e rigore metodologico; il tutto teso ad affermare la centralità della rivelazione cristiana e la capacità della fede di illuminare ogni aspetto della cultura umana. Per lunghi anni ha vissuto a Strasburgo in una comunità che condivideva i suoi ideali. Tornato in Francia vi ha ricostruito la Congregazione dell’Oratorio. È stato annoverato tra gli immortali dell’Accademia di Francia nel 1867. L’unica sua opera attualmente in commercio in Italia è La filosofia del credo (Cantagalli, Siena 2002). Da ricercare in biblioteca sono invece la sua autobiografia Diario della mia vita (Vita e Pensiero, Milano 1966), Le sorgenti (Città armoniosa, Reggio Emilia 1977) e il monumentale Commento al Vangelo di san Matteo (Paoline, Milano 1958). Vasilij Semënovic Grossman (1905-1964) è nato a Berdicˇev, in Ucraina, da una famiglia ebrea. Dopo gli studi di ingegneria, si è dedicato alla carriera letteraria, favorito dal convinto appoggio di Maxim Gorkij, ottenendo successo di pubblico e benevola accoglienza nel mondo politico. Durante la Seconda guerra mondiale è stato inviato al fronte dal giornale dell’esercito «Stella ros189


sa». Al seguito delle truppe sovietiche che avanzavano verso ovest dopo la vittoria di Stalingrado, è entrato nel campo di concentramento di Treblinka, che ha descritto in un racconto divenuto celebre. Dopo la guerra Grossman si è dedicato contemporaneamente alla stesura di un grande romanzo epico su Stalingrado (Per la giusta causa) e alla raccolta del materiale per un Libro nero sulle violenze dei nazisti contro gli ebrei in territorio russo occupato (la madre stessa di Grossman era stata rinchiusa nel ghetto di Berdicˇev e poi uccisa). I censori di regime, però, non hanno apprezzato il suo lavoro: il romanzo è stato criticato su esplicito suggerimento di Stalin e il Libro nero è rimasto inedito. Queste difficoltà hanno rappresentato per Grossman l’invito a un ripensamento radicale. Il risultato è stato il suo capolavoro Vita e destino. Lo scrittore ha tentato di farlo pubblicare durante il timido disgelo chrusˇcˇëviano, ma il Kgb ha sequestrato il manoscritto. Grossman è morto nel 1964 senza veder stampato il romanzo. Una copia del manoscritto è però riuscita miracolosamente ad arrivare in Occidente e Vita e destino ha visto la luce a Losanna nel 1980. In Urss occorrerà aspettare il 1989. Il capolavoro di Grossman è reperibile in italiano (Jaca Book, Milano 2005), mentre la sua prima parte, Per la giusta causa, non è ancora stata tradotta. Sono disponibili anche La Madonna di Treblinka (Medusa, Milano 2007), il Libro nero scritto con Il’ja Ehremburg (Mondadori, Milano 2001), Anni di guerra (L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999), Fosforo (Il Nuovo Melangolo, Genova 1991) e Tutto scorre (Adelphi, Milano 1987). Nel 2006 il Centro Culturale Pier Giorgio Frassati di Torino ha organizzato una mostra su Vita e destino e, in contemporanea, un convegno internazionale, i cui atti sono raccolti nel volume Il romanzo della libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2007. Henrik Ibsen (1828-1906) nacque da un’agiata famiglia borghese, in Norvegia, ma un crollo finanziario del padre commerciante costrinse il quindicenne Henrik a lavorare come garzone in una farmacia. Le prime opere teatrali di Ibsen appartenevano ancora ai modelli classici e al repertorio 190


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