retail&food 2012 03

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La pulce nell’orecchio

di Simone Filippetti

Benetton,

il futuro senza Borsa

A

metà degli anni ’80, un giovane fotografo si impose con delle campagne che hanno fatto la storia della pubblicità e segnato una svolta nei costumi sociali. Immagini all’epoca scioccanti e provocatorie che fecero di lui un’icona pop e dell’azienda che reclamizzava un marchio del Made in Italy: suore e preti che si baciano, malati terminali di Aids, neri e bianchi. Il fotografo era Oliviero Toscani e l’azienda Benetton, una piccola industria tessile che fino ad allora una delle tante pmi tessili del Nord-Est. Grazie al fortunato sodalizio Benetton divenne un brand mondiale. C’erano poi i maglioni dai colori sgargianti che ben identificavano un’epoca, gli anni ‘80 degli yuppie dell’Italia da bere che divennero un simbolo in tutto il mondo. Ma quelli erano gli anni ‘80 e nel frattempo sono passati 30 anni. Il sodalizio è finito e da allora il marchio Benetton si è appannato. Su un mercato che prima era una prateria dove scorazzare indisturbati, sono arrivati concorrenti agguerriti. Zara, H&M, Mango, Custo. L’offerta di moda giovane, con un brand a prezzi accessibili, dove Benetton era stato un pioniere, si è moltiplicata e mentre gli altri correvano, Benetton rimaneva ferma e il vantaggio del pioniere è svanito. Il gruppo veneto fattura due miliardi di euro, Zara, il marchio della spagnola Inditex cinque volte tanto e senza 30 anni di storia alle spalle del marchio. Benetton ha perso appeal: avere un capo Zara fa figo, costa poco e puoi cambiare il tuo guardaroba ogni stagione senza dover spendere una fortuna. Il marchio italiano, invece, non riesce più ad avere la stessa presa di un tempo sui consumatori. Il solo ritornello del Made in Italy, della sartorialità e del gusto inimitabile di un capo italiano, è un karma che non basta più: la moda, specie nel segmento dove opera Benetton che è la fascia medio-bassa, è un mercato sempre più competitivo dove i margini si assottigliano perché le basse barriere all’ingresso e l’aggredibilità dei marchi porta i prezzi al ribasso. Una maison del lusso può permettersi di sparare prezzi folli, ma sul

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retail e sul mass-market, soprattutto in uno scenario di polarizzazione dei consumi, se non insegui la politica di prezzo dei concorrenti sei fuori gioco. Ma questo comporta guadagni sempre più risicati. In più con la recessione in arrivo, i consumi resteranno compressi e il contesto sarà ancora più difficile. Volendo c’è anche una lettura più politica: i Benetton hanno costruito una fortuna sull’abbigliamento ma poi hanno iniziato a far altro. Oggi sono i padroni degli aeroporti e delle autostrade italiane. Siedono nei salotti buoni dell’alta finanza: nel tempio dei poteri forti Mediobanca, nelle Assicurazioni Generali, nella Pirelli di Marco Tronchetti Provera, e nel Corriere della Sera, il quotidiano dove ogni imprenditore in Italia sogna di entrare. Il fatto è che questo “altro” si è rivelato molto più redditizio dello storico business dell’abbigliamento. E oggi, da un punto di vista reddituale (basta vedere le performance di Borsa), il marchio Benetton è l’anello debole di tutta la galassia. Così, all’improvviso, a inizio anno hanno annunciato l’addio alla Borsa, dopo 26 anni di onorata presenza. Perché andarsene da Piazza Affari? Vendere è difficile che venderanno, perché l’azienda di famiglia ha un valore affettivo enorme per

la dinastia di Ponzano Veneto. Però si vede che la famiglia è distratta da altro. La girandola dei manager in Benetton è il segnale che qualcosa non va per il verso gusto e il bilancio ne è la riprova: nel 2011 gli utili sono caduti del 30% a 70 milioni. Nel 2008 i profitti erano 155 milioni, in tre anni si sono dimezzati. Sia chiaro: stiamo pur sempre parlando di un gruppo che fa utili ed è presente in 120 paesi. Solo che il razzo ha spento i motori. E se dovesse continuare questa tendenza di erosione dei margini, tra altri tre anni di profitti potrebbero non essercene più. Allora ha fatto bene la famiglia a decidere di togliere l’azienda dal mercato. La Borsa si nutre di aspettative e premia le aziende che mostrano di saper crescere. Non c’erano più le condizioni a che il mercato apprezzasse l’azienda. Già oggi il titolo è fortemente deprezzato e sottovalutato. Con circa 700 milioni di capitalizzazione, il gruppo vale meno dei soli immobili che possiede. Paradossi dei mercati: come se il marchio valesse zero. Fuori dalla Borsa, la famiglia ha più spazi di manovra per rilanciare l’azienda. La sfida è dura: c’è da ripensare un business e ritrovare quella spinta creativa e glamour degli anni ‘80. Oppure un partner: magari la stessa Zara o H&M? •


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