GOOD LIFE. La magia continua

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Il piatto è del ristorante Gong e si chiama Mosaico di pesce

Foto: Ioris Premoli
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Con una particolare attenzione al Food travel

LL'oste fine dining

’umanità nell’alta ristorazione è sparita. E anche l’oste. E’ da qui che iniziano i problemi dei ristoranti così detti creativi, qualsiasi cosa significhi la parola.

Da tempo mi stavo chiedendo: dov’è stato il cortocircuito che ha fatto diventare antipatici alcuni chef ed i loro risto ?

Cosa ha fatto allontanare le persone con una buona disponibilità economica? Cosa ha reso questi locali irritanti come la sabbia nelle mutande?

L’altro giorno ho avuto la risposta, mentre mi trovavo da Vissani. Ad un certo punto, dopo la mezzanotte, prima che andassimo a dormire, ha chiesto a me e a chi mi accompagnava: “Cosa vi faccio domani a pranzo? Volete uno spaghettino? Dai vi faccio uno con tonno, pomodoro e polvere di caffé, vi piacerà da matti”.

Il giorno seguente non ci ha dato tregua. “Volete qualcos’altro? Una insalata?”, per poi aggiungere, a fine pasto: “Avete mangiato poco, cos’altro vi preparo? Volete un po’ di prosciutto?”. Poi ha chiamato il maitre, lì con lui dal 1987 (a proposito della sparizione dell’umanità al giorno d’oggi), dicendogli di prepararne un piattino. Non ci crederete, ma con il prosciutto (un Mangalitza dell’azienda Solobrado, che dista pochi chilometri da lui e fa dei salumi e dei prodotti fantasmagorici, ma questo ormai lo sapete già) è arrivato anche del pane appena sfornato.

Ecco, è sparita l’umanità ed è sparito il cuoco che era anche oste. Lui lo è ancora, ma ha 73 anni e fa parte della vecchia guardia.

Oggi se chiedi un’alternativa ti dicono che non si può e ti guardano come ti guardava l’inquisitore tanti secoli addietro.

Manca solo che ti diano delle bacchettate sulle dita per aver osato di stravolgere l’andazzo prestabilito. Questa rigidità la respiri ovunque, in alcuni locali. Parte dal menù degustazione per tutti i commensali, altrimenti fuori dai cojoni, e va fino alla mancanza di reale interesse sul come ti trovi lì da loro.

Il cuoco ha perso umanità ed è diventato un po’ sergente e un po’ Sua santità, perché quando entra in sala a fare il giro dei tavoli se ne sbatte altamente di come tu abbia mangiato, te lo chiede solo perché sicuro di essere adulato. E qui interviene il secondo fattore. Se osi rispondere con poco entusiasmo ti guarda con disprezzo. Tu, che magari sei amministratore delegato, imprenditore che hai due master o via dicendo, devi stare come uno scolaretto e sentire un pippone sul come non capisci la sua cucina.

Ecco, la mancanza del fattore umano ha fatto sì che le persone con una buona disponibilità economica tornassero nei ristoranti classici, con una cucina italiana e riconoscibile e dove ti chiedono “Cosa ti faccio da mangiare?”.

Piccola nota. Vissani passa fra i tavoli e chiede a tutti: da dove arrivate, vi fermate qui, cosa festeggiate, siete sposati?

E’ il cuoco di una volta, che faceva anche l’oste. La gente ama questo. Per il Papa si va in Vaticano, non al ristorante.

DOV’È STATO il cortocircuito che ha FATTO DIVENTARE ANTIPATICI alcuni CHEF

ED I LORO RISTO ? Cosa ha fatto allontanare LE PERSONE CON UNA BUONA DISPONIBILITÀ economica? Cosa ha reso questi locali irritanti come

LA SABBIA NELLE MUTANDE?

No 2
Editoriale

Accoglienza cinque stelle l lusso è sorridere I

AL RIVOIRE LE CAMERIERE, che indossano

DELLE DIVISE COME NEGLI ANNI

D’ORO della RISTORAZIONE, portano

IL CAPPUCCINO come se ti portassero

LA LEPRE ROYALE

“F

are il cameriere non vuol dire portare un piatto dalla cucina al tavolo. Fare il cameriere significa capire che in cucina abbiamo creato un piatto che il cliente aspetta con impazienza, perché vuole godersi il momento, vuole vivere l’emozione di quel piatto lì”.

Le parole sono di Bobo Cerea, le ho sentite l’altro giorno ad una conferenza super figa sull’accoglienza e non solo. Se ci pensate é vero. Io uno mi diverto sempre a guardare i movimenti dei camerieri. Alcuni sono così svogliati da voler chiedere loro scusa per aver disturbato. Altri invece scoppiano di passione e di energia ed è bellissimo vederli, sono contagiosi.

Francesco Cerea poi continuava il suo discorso, sostenendo che gli allievi usciti dalle scuole non sono in grando di capire il mestiere del cameriere e che non hanno sufficienti nozioni da poter iniziare a lavorare da loro. “É per questo che abbiamo creato una nostra Academy, per insegnarli cosa significa far parte del gruppo Cerea”. Se ci pensate é vero. Le scuole sono solo delle scuole e sappiamo bene che manchino di entusiasmo e di ambizione. Basta vedere un maestro, non importa cosa insegna, e capisci al volo che non ha mai la voglia di lavorare, ti fa sempre un favore se si presenta. Figuriamoci se riesce a trasmettere entusiasmo e dei valori simili.

Quello che fanno i Cerea é sacrosanto ed è l’unica strada percorribile se si vuole avere una sala all’altezza della cucina.

Ieri sono entrato da Bulgari e all’ingresso c’erano tre ragazzi sorridenti che mi hanno salutato, dandomi il benvenuto. Non conoscevo nessuno di loro,

semplicemente avevano il piacere di accogliermi come se fossi un loro cliente affezionato: in pratica non ci mettevo piede da anni. Sorridevano a me come sorridevano a quelli che in pratica vivono li.

Entrato nella hall la scena si è ripetuta con altre tre ragazze che si trovavano alla reception.

Probabilmente oggi il lusso è questo, trattare gli ospiti con gentilezza. Se ci pensate, è un gesto che non costa denaro, però piace tantissimo ai clienti occasionali e non. Ora sono a fare colazione nel mio solito posto, al Rivoire, in Brera. Le cameriere, che indossano delle divise come negli anni d’oro della ristorazione, portano il cappuccino come se ti portassero la lepre royale. Danno importanza al gesto, sorridono, mettono al loro agio il cliente che non parla italiano e perfino me, che in fin dei conti spendo solo pochi euro.

Sono gesti che ti mettono in pace con il mondo e soprattutto sono gesti che possono fare tutti.

Chi riesce a capirlo vivrà davvero bene questa professione e forse farà anche carriera, pur sapendo che la strada per diventare maitre è assai lunga e tortuosa.

No 3

Guadagni e visioni Rivoluzione classica

Il classico ristorante borghese con una ricca e gustosa cucina tradizionale italiana. La rivoluzione è questa, perché ormai è questo che manca in Italia e soprattutto è questo che la gente vuole.

Certo, il discorso vale se vogliamo parlare seriamente di attività commerciali e del gradimento della clientela.

Perché la domanda è semplice. Se dovessimo aprire un ristorante inteso come fonte di guadagno, cosa conviene aprire?

Parlo sempre vivendo in centro a Milano, ma penso che il discorso vale pure per altre realtà. Dove vanno a mangiare le famiglie benestanti, dove vanno a mangiare il sindaco, i consiglieri comunali e gli alti dirigenti? La risposta è semplice: nove volte su dieci vanno in un ristorante dove si propongono dei piatti diretti, riconoscibili, fatti bene e gustosi da morire. Ho detto nove su dieci, ma la verità è che siamo al novantanove su cento.

Fateci caso e fatevi due conti, se avete l’intenzione di aprire un risto. Uno classico attira subito il pubblico vasto con una buona disponibilità economica. Avvocati, imprenditori, manager, notai, vari direttori generali e via dicendo, famiglie ovviamente comprese: persone dai gusti sicuri, poco sofisticati, che esigono un buon servizio e dei piatti fatti con delle materie prime ottime.

L’altro giorno mi è capitato di chiedere a due donne sulla trentina cosa preferiscono mangiare. Piatti classici, mi hanno risposto senza esitazione alcuna.

La vera rivoluzione è questa, pensare al cliente e guadagnare a manetta.

Vale anche per le pizzerie: sette su dieci prendono la margherita: sono numeri, poi ognuno fa quello che meglio crede.

Certo, è un discorso che i gastromorenti depressi e i giornalisti senza lettori non gradiscono. Cercheranno di convincervi con modi schifati di essere retrogradi, superati, poco ambiziosi e per nulla lungimiranti e aperti al mondo.

Chiedete invece ai vostri amici, clienti e parenti che tipo di cucina apprezzano e prediligono. E’ così che vi farete un’idea precisa sul target di riferimento, non leggendo cosa scrive un branco di frustrati disperati con il complesso di superiorità e con la scopa del deretano. Passate a leggere il menù dei ristoranti che fanno il pieno ogni sera e spesso ad ogni pranzo. Parlo dei locali con scontrino medio alto, facciamo 100 euro: avete

indovinato, sono i ristoranti classici, i così detti ristoranti borghesi, dove per borghese non si intende un mondo ottocentesco, ma il mondo benestante di oggi. Cosa propongono? Pochi piatti, tutti classici, appunto. Per cui la rivoluzione per il vostro conto corrente sarebbe questa: badare al sodo e andare incontro ai gusti delle persone benestanti. Accontentate loro e le loro famiglie e non sbaglierete mai.

A proposito. Gli scandinavi non prendono spunti dalla cucina italiana, gli spagnoli nemmeno e i francesi men che meno. Noi invece pendiamo sempre dalle loro labbra.

DOVE VANNO A

MANGIARE le famiglie

BENESTANTI, DOVE VANNO

A MANGIARE il sindaco, I

CONSIGLIERI COMUNALi e gli alti dirigenti? LA RISPOSTA È SEMPLICE

No 4

Napoli Caruso Nuovo

a Milano

Se volete fare un tuffo nel mare di Napoli vi sussurro le coordinate. Via Manzoni. Di fronte ad Armani. Angolo Via Montenapoleone. Milano. Ristorante Caruso nuovo.

Turisti di livello alto, residenti upper class, come dicono quelli bravi. All’ora di pranzo, clientela business. Posizione strategica. Dominante. Conquistata nel tempo, perché il Grand Hotel et de Milan è qui da un secolo e mezzo.

Di conseguenza, i due ristoranti dell’albergo ne approfittano e si adeguano al contesto. Don Carlos, molto classico e borghese, uno di quei luoghi sacri dove si viene per vivere una serata d’antan. Caruso invece vorrebbe essere (vorrebbe, sulla carta) più ciarliero e spensierato. E’ stato appena rifatto, ma cominciamo dai punti più alti, ovvero la cucina partenopea di Gennaro Esposito. Certo, c’erano delle perplessità. Nel posto più milanese possibile arriva uno chef del sud. Che è un po’ come proporre cucina meneghina nel centro di Napoli. Va detto però che non ha tolto i piatti vanto della capitale economica d’Italia. Semmai ha aggiunto qualcosa, più di qualcosa.

Facendoci assaggiare il mare nel pieno centro milanese. A proposito, come valutate la bontà di un piatto? Per me è semplice. Se il giorno dopo mi sveglio con la voglia matta di riaverlo, è un buon segno. Anzi, il segno. La minestra di pasta mista con pesce di scoglio la mangeresti anche a colazione. E’ completa. Perfetta. E’ un piatto amoroso. Dieci e lode allo chef resident, Francesco Potenza, che è un bon bon d’uomo. Sorridente, rassicurante e soprattutto bravo forte. Un autentico made in Napoli venuto su che meglio non si può.

Il piatto è una dichiarazione d’amore, nel senso che se siete follemente innamorati non potete non portarla qui ad assaggiarlo. E’ il manifesto dello slow life, si assaggia con infinita lentezza.

Idem l’insalata di mare, che detta così suona un po’ anonimo e invece è come una canzone dei Coldplay, va sempre super bene. Il tonno e il carpaccio di ricciola ti fanno volare. Mortali. Letteralmente mortali, idem gli altri gioiellini che compongono l’insalata E’ un piatto giovanile, per donne solari e sofisticate. Certo, la parola insalata sa di sciatteria e tristezza, di cupezza e di morte della passione. Difatti il piatto dovrebbe chiamarsi Euforia di mare.

L’unica nota dolente del ristorante è il restyling. Troppo contorto, senza un pensiero limpido, un insieme di concetti che non si sposano fra di loro. Gli autori sono gli architetti di Dimorestudio. Forse è gente che non esce mai a cena. Di sicuro non sanno cosa vuole la clientela. Ovviamente la stampa ha acclamato il loro lavoro. Ma quando mai la stampa non acclama. Comunque non importa, quando venite con la vostra donna avrete occhi solo per lei e per i piatti di Francesco.

LA MINESTRA di pasta

MISTA CON PESCE DI SCOGLIO

LA MANGERESTI anche a colazione.

E’ COMPLETA. PERFETTA. E’ un piatto amoroso. DIECI E LODE ALLO

CHEF RESIDENT, Francesco Potenza, che è UN BON BON D’UOMO

No 5

TSedersi da soli avolo per uno

Ristorante. Pranzare oppure cenare da soli. Toglie qualcosa? Aggiunge qualcosa al piacere?

Ci si sente in difetto? Ci si sente strani? Sfigati? Al settimo cielo? Leggeri? Sollevati? Ci si vergogna?

Quante domande. Però ognuno di noi si fa almeno un paio di queste, una volta che si è seduto da solo. Perché ammettiamolo, è il primo pensiero che ci passa per la mente: cosa penseranno di me quelli dei tavoli vicini. Oppure, come mai sono finito a mangiare da solo? E’ una mia scelta, oppure non avevo alternative?

Certo, dipende dal contesto, dalle situazioni, dall’età, da quanto tu sia in pace con te stesso, risolto e via dicendo. E’ argomento da psicanalista, nessuno pretende di risolverlo definitivamente in una pagina. Confesso che se vado per scrivere, recensire o per capire qualcosa di quel ristorante preferisco andare da solo. Essendo un maschio, non riesco a fare due cose contemporaneamente: per cui o parlo con chi sta davanti a me, o mi concentro sul risto e sull’ambiente, sui piatti e sulla sala. E’ risaputo quanto l’uomo sia limitato. Aggiungo, va bene così.

IN INGHILTERRA

pare che CI SIANO PIÙ LE

DONNE ad apprezzare UN PRANZO, oppure una cena da sole. Certo, LÌ SONO

PIÙ DISINIBITE, il che in SITUAZIONI del GENERE

AIUTA

Detto ciò, in Inghilterra pare che ci siano più le donne ad apprezzare un pranzo, oppure una cena da sole. Certo, lì sono più disinibite, il che in situazioni del genere aiuta, non avendo alcun tipo di pensiero negativo che passi per la mente. Dicono che negli ultimi quattro anni il numero dei coloro che mangiano da soli sia cresciuto del 160 per cento e che rispetto al passato il maitre e i camerieri non li tratta come se fossero degli appestati, tradotto un tavolo dove si spenderà poco. Anzi, la sensazione è che si è arrivati da soli per gustare appieno i piatti di quel ristorante e che si sta così bene da non avere il bisogno di intrattenersi con un altro commensale. In più, sostiene un ristoratore, se vai da solo puoi ordinare quello che ti piace, senza sentire le lamentele degli altri, del tipo “io non mangio ostriche, io non mangio carne” e altre frasi che rischiano di guastarti il pranzo o la cena. Volendo, anche la vita. Molto è cambiato, compresi i così detti tavoli sociali, che io personalmente non amo, temendo conversazioni non richieste e persone invadenti: accade sui treni, figuriamoci dove si mangia, posto ideale per una non ben precisata convivialità (lo è se si va con degli amici: se incontri degli sconosciuti, dobbiamo piacerci). Ad altri invece piace da morire, senza minimamente pensare di tediare il vicino di sedia. Per cui tavolo sociale no, mangiare da soli sì.

Volendo, è una specie di regalo a te stesso. Ti regali del tempo. Se sei consapevole di quanto possa valere un paio di ore del genere, capisci che sei super fortunato. E torni a farlo.

No 6

Toscana tristellata Jonathan il grande

Jonathan Gold, premio Pulitzer. Nel 2007. Poi fu finalista quattro anni dopo. Fin qui, direte, pieno il mondo. Alt. E’ stato l’unico ad averlo vinto facendo il critico gastronomico. Nient’altro. Per cui fermatevi per due minuti e leggete le sue parole. Il concetto è di una semplicità disarmante. Eppure ci sta sfuggendo di mano.

Certo, per molti di voi nulla cambierà. Però diamine, state perdendo la trebisonda. Siete così ossessionati da sembrare sofisticati che sì, vi rendete ridicoli, questo è certo, ma vi allontanate pure dalla vita vera.

Sentite Gold, uno che di ristoranti ne sapeva a pacchi (sì, molto più di voi). L’uomo si è ammalato e poi ci ha lasciati nel 2018. Per mesi, prima del triste epilogo, gli avevano fatto la stessa antipatica domanda: il miglior pranzo, o la miglior cena della sua vita, visto che, purtroppo, per lui era arrivato il tempo dei bilanci definitivi.

So già le vostre risposte se la domanda fosse stata rivolta a voi: prevedibili e irritanti come il gesso sulla lavagna. Il tristellato dove ci sentiamo di casa, il bistellato di Kyoto, il danese che ti cucina erbe a 500 euro e via dicendo. Ora provate l’ebbrezza di non pensarvi i più intelligenti del mondo (no, non lo siete, spiace) e cercate per un momento di dare retta a uno che ne capisce più di voi (sì, ce ne sono: spiace ancora).

Dovete arrendervi, c’è gente che ha preso il Pulitzer raccontando di ristoranti: certo, per dei motivi sconosciuti non siete voi, qualcuno vi ha remato contro. Ascoltate dunque Jonathan Gold, conosciuto in Italia per aver fatto la fortuna di Franco Pepe, quando scrisse su Food and Wine che la sua pizza fosse la migliore del mondo.

In pratica il critico (un vero critico) sceglieva come miglior pasto della sua vita un lungo pranzo toscano, per di più in un agriturismo dove i polli passeggiavano felici fra le sue gambe.

Seduto ad una tavola di legno, sorseggiando il Chianti della casa e mangiando i salumi, il pecorino e le salsicce della fattoria, il prosciutto arrosto, così come le melanzane ed i peperoni grigliati, poi i pici fatti a mano, il ragù e ovviamente la fiorentina. Come si chiama il posto?

Costachiara, vicino Montevarchi.

Se ci pensate bene, la vita reale, quotidiana, è questa. Un uomo sano di mente apprezza, voi gastrodepressi e

addetti ai lavori no. Parlate solo di nomi altisonanti, ma solo perché convinti di sembrare superiori. E le fattorie sono rozze, prive di spunti. Vero? Che errore. Quello per davvero superiore, che ha vinto anche il Pulitzer, ama il tavolo di legno e il pranzo opulente della campagna. Niente lussi, niente comunicati stampa sull’architetto e la sua visione, nessun viaggio di ispirazione per lo chef.

Come dicono quelli bravi, giudicate voi.

SEDUTO ad una tavola di legno, SORSEGGIANDO il Chianti della casa e mangiando I SALUMI, IL

PECORINO e le salsicce della fattoria, il prosciutto arrosto, così come LE MELANZANE ED I PEPERONI

grigliati, poi i pici FATTI A MANO, il ragù e OVVIAMENTE LA FIORENTINA

No 7

Deliri gastromorenti

n ginocchio dallo chef I

Una sega allo chef. E’ questo il prossimo passo. Next step, una sega allo chef. Già me li vedo: “Vabbè, lo chef ce l’aveva barzotto, mi ha chiesto una gentilezza, sarebbe stato inelegante dire di no”. Ecco, inelegante: dietro questa parola ruffiana si nascondono tutti quelli senza personalità, orgoglio e amor proprio.

Non avendo il coraggio di scrivere quello che pensano, non avendo il coraggio di voler sentire le urla isteriche dell’ufficio stampa e ancor meno avendo voglia di rinunciare ai complimenti finti dello chef stesso e ai suoi inviti per un pasto gratis, si nascondono tutti dietro la parola inelegante, come se si dovesse essere per legge gentili con gli chef. Sono gli stessi fenomeni da baraccone della critica costruttiva, altra espressione ruffiana che gli fa sentirsi superiori. Ma poi, quale chef ama le critiche, anche costruttive? Ti dice comunque schifato che tu non capisci.

E’ divertente guardare questa continua prostituzione che loro scambiano per eleganza. Jay Rayner, uno che fa un mestiere inesistente in Italia, ovvero il critico gastronomico, mi diceva che lui deve vendere giornali non ristoranti. Quando l’avevo scritto per la prima volta, i cultori della sega allo chef hanno iniziato a urlare, dando perfino lezioni di giornalismo a Jay (non è una barzelletta, è successo per davvero).

Dall’alto della loro posizione di megafono dei cuochi hanno perfino attaccato la giornalista americana che si era permessa di criticare il pranzo nel ristorante dello chef che spesso si esibisce con le mutande leopardate.

Invece di difendere lei e l’orgoglio di fare la giornalista, hanno urlato alla blasfemia. Cos’è questa storia che abbiamo dei pareri negativi? Se lo chef si deve soffiare il naso noi corriamo con il fazzoletto, dimostrando di essere lesti e ligi al dovere.

E’ incomprensibile questa prostituzione in cambio di un pasto gratis, ma è incomprensibile per noi umani. Chi non ha orgoglio e amor proprio è ben felice e non vede l’ora di dirci che è stato invitato ad assaggiare il nuovo menù. Ci sono delle signorine che addirittura scrivono “sono una ragazza fortunata”, ignare dal fatto che ogni loro frase balzana in un italiano incomprensibile fa il giro degli amici su Facebook. Idem per le sue frasi sui post degli altri dove si parla di bellezza femminile, oppure quando professionalmente si strizza le tette in palestra (è così sbertucciata nell’ambiente che ormai ogni giorno viene presa per i fondelli).

Chi è nato ridicolo vive da ridicolo e pare che il settore gastronomico abbia la funzione di raccogliere tutti questi.

La loro massima aspirazione è di essere invitati per un pasto gratis. In cambio sono disposti a tutto. Da lì alla sega il passo è breve. Mica puoi essere così inelegante da non togliere una voglia ad uno chef che ti ha offerto il pranzo.

NON AVENDO il coraggio di SCRIVERE QUELLO

CHE PENSANO si nascondono

TUTTI DIETRO LA PAROLA

INELEGANTE, come se si dovesse essere per legge GENTILI CON GLI CHEF

No 8

Autem da sballo La stella, subito

L’uomo è uno spettacolo. Un misto fra Luciano Pavarotti da giovane e un frate francescano. Il classico buonuomo, sornione e leggermente sovrappeso. In cucina, un mago con il tocco felpato.

È simpatico, e tanto. Visto che oltre a fare lo chef si diverte anche a fare l›oste, il carattere aiuta.

Il ristorante in sé è un gioiellino. Via Lattuada al civico due, una traversa di Via Montenero, due passi dalla Porta Romana. Il ritmo del locale è cool. Lento, rilassato, come piace a alla clientela ideale.

Il ristorante di Luca Natalini pare uscito da una serie tv americana. Tipo And just like that, il sequel di Sex and the City. Elegante senza essere ingessato, tavoli rotondi e tovaglie ben stirate, intimo e rilassante, Autem è il posto perfetto quando vuoi mangiare bene in un ambiente piacevole.

La cucina è a vista, senza vetri divisori. I piatti sono diretti, con un tocco di sofisticatezza che non disturba e non annoia, anzi. Le animelle con l’anguilla trasmettono una potenza pazzesca, oltre ad avere un gusto intenso che ricorderai a lungo.

Il vitello tonnato un po’ rivisitato pare accarezzato da una mano divina.

Cosa dire poi delle salsicce, fatte come dio comanda? Morbide come la seta e gustose come il paradiso. Di cavalla, con grasso della stessa e varie spezie mirabolanti. Non punitive, non magre, perché poi che diamine di salsiccia è una che sembra plastilina? Chi fa oggi delle salsicce volgari e veraci? Nessuno. Quelle di Autem sono formidabili, ti spaccano il cuore, il palato, il cervello. Sono semplicemente le salsicce di una volta. Te ne stai qui e pensi che in fin dei conti la ristorazione non è così difficile: basta avere le idee chiare, il che poi è quello che frega la gran parte degli chef. La voglia di strafare, di voler dimostrare chissà cosa a chissà chi annebbia i pensieri, mentre Luca si vede che ha la testa leggera, sa cosa piace alla clientela.

Ti fa straripare di gioia e urlare per il piacere: qui si deve aprire una parentesi, indirettamente legata alla cucina gustosa e scanzonata di Luca.

Non so se avete caso, però i seguaci di Redzepi non sorridono mai. Sono anche molto permalosi, guai a dire qualcosa sul luppolo trifolato.

Luca invece cucina con le mani e soprattutto cerca il gusto. Ecco, abbiamo rinunciato con troppa facilità ai nostri gusti intensi per sposare usanze lontane e fredde.

Per di più con dei risultati insoddisfacenti e che la clientela non premia. In troppi pensano che se qualcosa va bene a Copenhagen allora per forza di cose deve funzionare a Roma o Milano. Diamine loro sono nordici e freddi, ma per usare un luogo comune, le svedesi corrono a fare all’amore con gli italiani come Luca e non con Olaf.

COSA DIRE poi delle salsicce,

FATTE COME DIO COMANDA?

Morbide come la seta e gustose

COME IL PARADISO. Di cavalla, NON PUNITIVE, non magre, CON GRASSO DELLA STESSA e varie

spezie MIRABOLANTI

No 9

Casa Vissani L a fuga amorosa

Questo è un post per gli uomini decisi, dai gusti sicuri e dai sentimenti ancor più sicuri verso le loro donne fiabesche.

Se state già pensando ai prossimi weekend, visto che il mese di ottobre è magico, so dove mandarvi, anche perché vi sento: il romanticismo impera, la passione urla, il desiderio di portarla lontano da tutti e stare insieme diventa ossessione. Sì, le classiche fughe amorose che volete rendere indimenticabili.

L’altra sera ho visto una coppia come voi. Entrambi belli come il sole. Giovani, sui 35, abbronzati e raggianti. Era il compleanno di lui. Lei, un sorriso caldo e smagliante, da donna felice, perché le donne felici le vedi lontano un chilometro (anche quelle infelici, ma lasciamo stare gli aspetti meno esaltanti).

Stavano cenando a Casa Vissani, per poi passare la notte nelle stanze al primo piano e fatemi dire che sono di gran lunga più belle di quelle di un cinque stelle patinato. Ve lo dico subito: non esiste meta migliore per passare una serata e una nottata formidabili, per non parlare della colazione. Non so nemmeno da dove iniziare il racconto e comunque sarebbe sminuente rispetto all’intensità del posto. Già dal cancello, in ferro battuto, come i castelli francesi, hai la sensazione che si aprono le porte di una fiaba. E’ un posto isolato, lontano da tutto, in una specie di bosco. Ecco, si dovrebbe chiamare Bosco Vissani e non Casa. Il resto è un continuo di sorprese piacevoli, fra salette, oggetti e un servizio degno del Dowton Abbey. Il cuore batte all’impazzata, non riesci a capire dove ti trovi. Un’eleganza casalinga, chiamiamola così. La cucina è di una bellezza folle, pare quella di una casa di campagna, ovviamente venti volte più grande. Quando ti siedi a tavola sei già avvolto da un calore pazzesco. Ovviamente piatti e piattini di Herrmes ovunque, anche per il pane. Ecco, i grissini sono di gran lunga i migliori mai assaggiati. Ti arrivano caldi, appena sfornati, e ditemi se non è

GIÀ DAL CANCELLO, in fERRO BATTUTO, COME I

CASTELLI FRANCESI, hai la sensazione che SI APRONO LE

PORTE DI UNA FIABA. E’ un posto isolato, lontano da tutto, IN UNA SPECIE DI BOSCO

lusso questo. Caldi e buoni, friabili, gustosi. Hai quella sensazione che sono stati preparati per te e solo per te. Non mi dilungo sul resto, perché l’intento era di farvi convincere di portarla lì, fatemi solo accennare alle opere di Lalique su ogni tavolo, una trovata pazzesca, altro che centrini finti. Le stanze, dicevo, sono meglio del Four Seasons e la colazione ti fa sognare, perché è tutto preparato dieci minuti prima. Caldo il pain au chocolat, le brioche, le torte.

Certo, non è vicino alle grandi città, a parte Roma, però se dovessi scegliere per una fuga amorosa sceglierei Casa Vissani anche se dovessi fare mille chilometri.

Life is now

No 10

L angosteria da record Parigi, che affare

Numeri. Tre mesi di attesa per un tavolo nel weekend, una settimana invece per il resto dei giorni. 200 coperti a sera, 14 milioni di fatturato l’anno, il che lo rende il ristorante con più incassi della capitale francese.

Morale? Enrico Buonocore (per la cronaca non vado mai li e non abbiamo alcun rapporto, per cui piano a pensare che io possa avere degli interessi o tornaconti) ha sempre badato al sodo, cercando in maniera ossessiva la qualità del servizio e della materia prima, puntando su dei piatti fatti benissimo, però facili da capire e immediati nel mangiare. Non ha mai parlato dell’orto del suo balcone e del chilometro zero, anche perché in fin dei conti è un capriccio e volendo una scelta come un’altra, di sicuro non un obbligo oppure un merito, ancor meno un vanto.

Si è concentrato sul da farsi e sul cliente, lasciando i discorsi improbabili sulla sostenibililillita’ al flaccidi con il pippino moscio e alle sciure che si sdraiano a priori pur di avere un pasto gratis.

La ristorazione è sempre più una attività imprenditoriale com’è giusto che sia, per cui se volete seguire dei modelli vincenti fatevi un giro da lui e non da chi piace ai fenomeni da baraccone che hanno come passatempo preferito guardarsi il prepuzio piccolo, sperando invano che sentire un discorso floscio sulla barbabietola raccolta nel vasetto sul terrazzo possa portare ad una flebile erezione.

Ai master dedicati alla ristorazione devono parlare i Buonocore, i Minutelli, i tre fratelli della famiglia Liu, poi Luca Guelfi e altri che dimentichiamo, non pallidi invasati che adooorano i discorsi finti.

La ristorazione vive un ottimo momento e andrà sempre meglio se si seguirà chi ha messo il cliente al centro di tutto, se si seguirà chi fa numeri e fatturato, perché questa la ristorazione è ed è questo che vuole la gente. L›operetta anche no, grazie.

A Parigi, come a Milano, la clientela pareva contenta e felice per come ha mangiato e per come è stata trattata, per il resto arrivederci alla prossima.

La ristorazione è questa, il successo anche, la vita pure. Seguite quelli veri e pieni, non quelli spenti e vuoti. Forse è per questo che hanno così tanto tempo per disquisire su temi pelosi e termini che piacciono agli impotenti rumorosi.

Ci sarà sempre qualche grossa azienda che per non avere rogne promuoverà qualche tavolo rotondo dove correranno a parlare i profeti del nulla, tant’è vero che sono gli stessi che non pronunciano mai le parole gusto e piacere, come se la ristorazione dovesse essere punitiva e ministeriale.

La Langosteria è piena a Parigi e Milano e mai nessun cliente si è preso la briga di chiedere delle spiegazioni sulla provenienza dell’astice o della sua infanzia.

AI MASTER dedicati ALLA

RISTORAZIONE devono parlare

i Buonocore, i Minutelli, I TRE

FRATELLI DELLA FAMIGLIA

LIU, POI LUCA GUELFI e altri

CHE DIMENTICHIAMO, NON

PALLIDI INVASATI che adooorano

I DISCORSI FINTI

No 11

l futuro è suo I Un vero Masterchef

Valerio Braschi. Ristorante Vibe, che dovrebbe chiamarsi semplicemente Braschi. Anche perché tutto gira attorno a lui, e gira bene, diamine se gira bene.

Ne vale la pena andarci a cena? Decisamente sì. Ho assaggiato nove piatti, più il pane e le amuse bouche. Ed i grissini, che per me sono fondamentali e va detto che ne mangeresti senza limiti e pudori.

I suoi piatti sono molto gustosi. Per nulla facile da realizzare, pur essendo all’apparenza semplici. Il pesce lo cucina come se fosse dio. Croccantino e morbido. Una poesia. Ci riesce perché usa il fuoco e le pentole, niente bisturi e camice bianco. Cucina per davvero, con le sue mani.

Fiamme, pentole e una voglia pazzesca di prendersi il mondo: lo farà, senzadubbiamente. In quattro ore non è mai uscito dalla cucina e non ha mai alzato gli occhi dai fuochi. Sono in due, niente brigata. In due per una trentina di coperti. Visto che quasi tutti chiedono il

menù degustazione, i conti si fanno subito: in totale fa uscire più di 400 piatti, se includiamo il pane e le amuse (da migliorare, perché può farlo: Valè, stupiscimi con le amuse la prossima volta).

L’uomo è una macchina da guerra e un bijou di ragazzo. Ha solo 25 anni, ma va avanti come un treno: non la freccia dei ritardi, ma i Maglev giapponesi, i così detti treni proiettile. Il paragone non è casuale, vista la passione di Valerio per il paese del Sol Levante. Difatti il pesce gatto e il moro oceanico sono uno sballo: l’intingolo di rubia gallega non l’avrei messo accanto al moro, un bocconcino così prelibato e così bene cucinato da non aver bisogno di nulla nei dintorni. E’ come se il moro dicesse “vai via da qui, mi fai ombra”. Sono sciocchezze. Il ragazzo è uscito da Masterchef, non è stato il sous chef di una mezza dozzina di tristellati: si è fatto quasi da solo, per cui qualche leggero dettaglio da limare c’è. Si mangia come in un ristorante con una stella, ma se faccio i conti di alcuni stellati sopravvalutati posso dire con certezza che da qui a un paio di anni Vibe dirà la sua. Il ristorante in sé è l’unica pecca, ma è stato fatto e aperto in fretta. Manca un tocco femminile, perché va ricordato che i ristoranti devono incantare le donne, a noi maschi va bene più o meno tutto, basta che ci sia un effetto wow. Due, tre tocchi magici, qualche leggero miglioramento per la mise en place, forse un posto più prestigioso e diventerà l’attrazione della città. Già lo é. Il ragazzo è di una umanità commuovente, di bravo è bravo forte, ha un entusiasmo contagioso. E ha solo 25 anni.

FIAMME, pentole e una voglia

pazzesca DI PRENDERSI IL MONDO: LO FARÀ, SENZADUBBIAMENTE.

In quattro ore non È MAI USCITO

DALLA CUCINA e non ha mai alzato

GLI OCCHI DAI FUOCHI. Sono in due, NIENTE BRIGATA

No 12

Petronilla, Torino casa di Daniela A

E’il ristorante dove porterei per la prima volta una donna. Non importa se lei ha 20 anni, 35 oppure 52. Sempre qui la porterei.

Il ristorante si chiama Petronilla, anche se mi viene sempre da dire e da scrivere Petronella, forse perché sono fissato con i ristoranti che hanno nome di donna e con le donne in generale. Difatti se ne aprissi uno, avrebbe un nome femminile, so anche quale. Secondo me alle persone piace l’idea, perché rende tutto molto personale e intimo, e al risto si viene proprio per questo, per cercare e trovare un ambiente intimo, accogliente, rilassante.

Tornando a Petronilla, il nome arriva da lontano, è stato lo pseudonimo che Amalia Moretti Foggia usava per pubblicare le sue ricette su La Domenica del Corriere negli anni venti: a quanto pare era un vero mito, oggi forse avrebbe milioni di follower.

Ora invece è il ristorante di Daniela Petrone, in Corso Verona a Torino. Un cortile che pare quello della tua dimora, piatti che sembrano cucinati appositamente per te. Pane fatto in casa, il pollo che arriva da un allevatore vicino, così come la carne. Non so voi, però a me piace molto questa intimità professionale fra il ristoratore e l’allevatore, oppure il mugnaio: ti fa sentire

IL CORTILE E SCANZONATO,

i tavoli idem, NON C’È UN MINIMO DI TENSIONE se ti siedi qui PER LA PRIMA VOLTA

CON LEI, il ghiaccio si scioglie subito, È COME PRENDERE un caffè nella CUCINETTA DELL’UFFICIO

al sicuro, protetto, trattato come uno di famiglia. Il cortile e scanzonato, i tavoli idem, non c’è un minimo di tensione se ti siedi qui per la prima volta con lei, il ghiaccio si scioglie subito, è come prendere un caffè nella cucinetta dell’ufficio. Lei può essere una studentessa, oppure una amministratore delegato, una modella oppure una sportiva, si troverebbe a suo agio, semplicemente perché qui non puoi non trovarti a tuo agio, anzi, se ti fanno male le scarpe le togli pure. Si mangia in maniera casareccia, dunque ottimo. Daniela è come i cuochi che si vedono nei film che ci piacciono: alle sette del mattino è già al mercato, poi arriva al ristorante e inizia a preparare tutto quello che le arriva dai fornitori di fiducia, dalla farina al resto. Scorre tutto liscio, nel cortile c’è sempre un po’ di arietta, il verde rilassa, i piatti piacciono, dal vitello tonnato agli hamburger, anzi, al pochaburger, il must della casa.

Il servizio gentile e amichevole: una delle ragazze indossava una maglietta nera con scritto “Happiness arrives when you stop waiting for it”. Non so se è la divisa del locale oppure no, però la frase vale tanto.

No 13

Kodak moments U n Leon, per favore

Un amaro prima del tramonto. Quando ero giovane si chiamavano Kodak moments. Quelli che amavano e capivano per davvero la vita ti raccontavano di questi istanti di pura felicità, che ti sarebbero rimasti impressi per sempre. Si chiamavano Kodak, oppure Polaroid moments, cartoline che ti restano nella mente.

Certo, sono ancora giovanissimo, ma negli anni ho provato a portare tutto questo ad un livello superiore, cercando di riempire le giornate solo di momenti del genere, solo istanti pieni di pura leggerezza e benessere.

I francesi chiamano questo bonheur, una sorte di felicità rilassata. Se si riesce ad inanellare una serie infinita di momenti piacevoli, beh vivi e cammini a due metri dalla terra.

Se ci fate caso, è semplicissimo. Basta volerlo, scuse non ce ne sono. Non ci vuole molto e non ci vogliono nemmeno soldi. Solo la consapevolezza che la vita è una e che ogni momento passato male non torna indietro, non puoi dire rifacciamo.

Poi, nel 2014 Cigar Aficionado, una delle più belle riviste di sempre, mise in copertina Jeff Bridges. All’interno, nella lunga intervista, l’attore raccontava i suoi rituali quotidiani: salire in collina con un sigaro e un bicchiere di vino, un libro e ascoltare della bella musica. “Me

NON È FORTE

come il whisky E NEMMENO

COME IL BOURBON, però é comunque VIRILE

E MASCHIO: A CERTE

DONNE POTREBBE piacere un mondo. Ti fa vivere in pace con te stesso, è carezzevole, SEPPUR INTENSO

lo accendo, mi siedo e guardo il tramonto”. Mi dissi: diamine, è troppo facile, tutti possono farlo.

Ecco, i rituali. Chi riesce a vivere seguendo i suoi rituali vive rilassato, spensierato e felice, senza sprecare alcun momento della sua vita.

Difatti uno dei miei è uscire sul balcone, con il sigaro ma senza vino, perché non lo bevo. Però guardo il tramonto, da qui lo vivi come se fosse una cartolina. Niente vino, però spesso sorseggio un drink. Ultimamente ho scoperto un amaro che mai avrei pensato mi potesse piacere così tanto. Si chiama Leon, accarezza il palato e regala bellissime sensazioni, quasi come un bacio prolungato. Non è forte come il whisky e nemmeno come il bourbon, che per me sono troppo potenti. E’ comunque virile e maschio: penso che a certe donne potrebbe piacere un mondo. Ti fa vivere in pace con te stesso, è carezzevole, seppur intenso.

Il ghiaccio e i sogni fanno il resto. La prima volta me lo ha fatto assaggiare Alberto Tasinato al suo ristorante, L’alchimia: se non erro la moglie lavora nell’azienda che lo produce, Castagner, o forse è lei stessa la proprietaria, poco cambia. Da quel momento ho iniziato a comprarlo e adesso, ovviamente, non posso e non voglio farne a meno. D’altronde perché dovrei? Godetevi ogni istante, perché la vita passa troppo veloce e privarsi di tali momenti sarebbe un delitto.

No 14

E’una delle più belle puntate di Chef’s Table BBQ. Quella su Lennox e il suo Firedoor di Sydney, ristorante entrato perfino nella 50 best.

L’uomo è un fenomeno. Guardarlo in tv è allo stesso tempo rilassante e affascinante. Ti viene la voglia di comprarti subito gli attrezzi per poterti esercitare con il fuoco e la carne. Non ho ancora i suoi arnesi, però ho sognato per tutta la notte un pranzo a base di carne al fuoco. Quando mi sono svegliato, la voglia era ancor più forte. Fortuna vuole che nel freezer avessi una carne

divina: le rack di Solobrado, ormai mio fornitore di fiducia. Le rack, oppure il carré, anche se il primo nome suona meglio e pare più maschile e intenso. Aspettando le aperture dei vari Nusret , ci possiamo godere il numero sempre crescente di ristoranti di carne eccellente. Quasi quasi fra lui e Lennox mi piacerebbe che arrivasse Lennox: anche perché, se ci pensate bene, il turco pare poco adatto a servire la carne, almeno in confronto con Lennox, uno virile da paura.

Intanto mi godo le rack dei vicini di casa di Vissani, visto che l’azienda si trova a pochi chilometri da lui, a Grotte di Castro, nel viterbese.

Trattoria contemporanea Carne, carne, carne

U n a stella informale L ennox da impazzire

Volevate lo stellato informale? Eccolo. Trattoria Contemporanea, a Lomazzo, poco fuori Milano e poco prima della casa di Clooney. Difatti pare un posto fatto per lui, scanzonato e privo di manierismi superati.

Spazio industriale, tanto verde e mattoni nei dintorni, ampie vetrate, luce ovunque. Ambiente giovane e giovanissimi sono i camerieri, che si muovono veloce come se fossero dei caprioli.

Tanti sorrisi e tantissima gentilezza, la cucina è immensa e a vista.

Il capo cuoco, Davide Marzullo, pare un liceale, non ha nulla dello chef tipo generale Powell.

I grissini sono mortali e già dal colore capisci che sarà uno scherzo finirli in un attimo. Il pane si chiama Giorgio, i motivi mi sfuggono ma fa sorridere. Forse non è una cattiva idea per i panifici, dare un nome ad ogni prodotto.

Servono un gin tonic analcolico, e qui di apre un

Spero di sognarle cucinate sui fuochi di Lennox. Sarebbe un bel risveglio.

mondo. Si chiama Oppure.

La mise en place spartana, forse un filino troppo, soprattutto ora dopo il bacio della Michelin. All’ora di pranzo la clientela è prettamente locale e, visto l’abbigliamento, alcuni scambiano l’informale con la palestra, esagerando. Molti bambini, il che urta alcuni, e giustamente. Va detto che fino all’arrivo della stella, inaspettata, qui era una specie di ritrovo per famiglie: da capire come si evolverà la situazione, cercando di mantenere la clientela di prima e anche la nuova. Intanto da segnalare il piatto che più rappresenta il ristorante, ovvero la linguina di Gragnano. Anche se complessivamente vince il pane, forse anche per l’idea del nome.

No 15

ranzi stampa, orrore P Noia di gruppo

Cene e pranzi stampa di gruppo. L’orrore con la O maiuscola. Questo è un post per quelli che le organizzano e anche per i ristoratori che pensano sia una idea vincente, che in qualche modo possa farli sentire importanti e gratificati. Io uno non ci vado da anni e non intendo più andarci. I motivi sono tanti. Per iniziare, se inviti venti persone in una sera vuol dire che sei messo nel calderone con gli altri e già questo è sminuente e squalificante. Tradotto, invitiamo tot al chilo: che errore.

Quando ancora ci andavo qua e là, c’era sempre la gara a chi stare al tavolo dove si trovava il proprietario. Chi veniva, diciamo così relegato ad un tavolo più lontano, se la prendeva a morte. Una volta accadde che una giornalista se ne andò perché un’altra fu messa accanto al patron. In questo modo le veniva tolta la possibilità (che lei considerava un diritto) di sussurrare

all’orecchio del capo le sue verità, dimostrandogli le sue conoscenze e capacità, ingraziandoselo per bene. O primadonna e attenzioni, o nulla.

Chi organizza queste cene non prende minimamente in considerazione che le giornaliste si odiano fra di loro, ovviamente tutto dietro un ciao bella, ti trovo bene, sei bellissima. Sì, come no. E’ giusto e umano odiare e detestare l’altro, è meno giusto vederti davanti chi ti sta sui così detti.

I giornalisti davvero importanti, quei due o tre, si sentono offesi di essere messi nel calderone e non essere invitati in maniera privata. Tradotto, se ci tieni che io assaggi o scriva, dimostra che mi apprezzi invitandomi da solo. E’ molto corretto. Le cene di gruppo sono tremende, ti senti quasi in trappola fra tante persone senza ricordare cosa tu abbia fatto di male per meritartelo. Spesso veniva invitata una tizia che non ricordo mai il nome, temo faccia ancora la direttrice di una rivista morente di settore. Da sobria è anche mediamente simpatica, il guaio è che al secondo bicchiere perde ogni freno e inizia a ridere in maniera sguaiata, diventando impossibile e ingestibile.

Una volta accadde un episodio divertente (forse è stata l’ultima volta che andai ad un pranzo del genere, sono passati credo sette anni). Scoprimmo che l’invito era per giornalisti e influencer insieme, il che a me faceva piacere: vedere delle belle donne è sempre un motivo per rallegrarsi. Però arrivò un decano dei giornalisti, il quale, orripilato dal contesto, girò i tacchi sdegnato.

Le organizzatrici si difesero dicendo che “per noi è più facile così, chiamare tutti una sola volta”.

Non fa una piega, come non fa una piega rifiutandosi di partecipare. Si potrebbe continuare all’infinito. Di quella volta che il bistellato organizzò due pullman carico di bestiame giornalistico non mi va nemmeno di ricordare, fortuna che risposi di no.

Morale? Capisco la fatica di invitare tutti uno a uno, ma d’altronde non è obbligatorio fare questo mestiere. Se costa fatica, cambiate professione.

No 16

Pizza, e che pizza Confine, Milano

La pizza. La ordinano sette persone su dieci, quando si decide di uscire a mangiare fuori oppure quando si fa un ordine con il delivery. Sul 100 per cento delle persone che scelgono di mangiare la pizza, 99 sono persone sane di mente e si godono appieno la serata. Rimane quell’un per cento che rovina le cene, appesantendole con discorsi e domande fuori luogo legate a lieviti, impasti e simili, come se fossimo ad un convegno. Ovviamente, quel figuro passa per lo scemo del villaggio e la prossima volta non sarà più invitato. Lui non capirà il motivo, ma d’altronde lui non capisce tante cose.

Uno di questi è che la pizza è felicità immediata, è diretta e immediata e così deve rimanere. Il primo morso o è buono o non lo è, tutto il resto sono discorsi buoni per personaggi di Checco Zalone .

Se assaggi e ti si illuminano gli occhi, beh la pizza è buona e ti piace, tornerai e porterai i tuoi amici. La vita è davvero semplice, inutile volerla appesantire, anche se le persone nate pesanti non sanno cosa sia la leggerezza e la spensieratezza e di conseguenza tengono a spiegarti per quelle due ore tutto il processo di produzione, ignari e non sfiorati dal dubbio che agli altri non interessi minimamente.

Confine è una pizzeria appena aperta nel quartiere

CONFINE è una

PIZZERIA APPENA

APERTA NEL QUARTIERE

DELLE 5 VIE, zona molto ricca dietro il Duomo. NON

TROVI MAI un posto. Va detto che FIN DAL PRIMO

GIORNO NE HANNO

PARLATO tutti benissimo e per molti si tratta della migliore PIZZA

IN CITTÀ

delle 5 vie, zona molto ricca dietro il Duomo. Non trovi mai un posto. Va detto che fin dal primo giorno ne hanno parlato tutti benissimo e per molti si tratta della migliore pizza in città, anche se è meglio starsene alla larga da chi fa classifiche ogni santo dì, avendo la presunzione di saperla più lunga di tutti noi (e noi, persone semplici e sagge, diamo loro sempre ragione, sperando ci mollino).

Le pizze sono davvero ricche e gustose, ce ne sono a iosa, perfin troppe, alcune con dei nomi un po’ forzati, tant’è che ho preso la Diavola. Perché? Aveva il nome più breve. L’impatto estetico è forte e piacevole, i gusti eleganti a tal punto da considerarla una pizzeria femminile, e si sa che dove amano tornare le donne i locali sono pieni.

Voto altissimo, senza dubbio.

I due proprietari sono davvero dei bravi ragazzi, entusiasti e con una passione grande così. Mario Ventura e Francesco Capece hanno investito un patrimonio, i lavori sono durati più di due anni.

A onor del vero il nome esatto é Confine, Pizza e Cantina a Milano: ha un senso, visto che abbondano bottiglie di Sassicaia (ci sono quasi tutte le annate), così come vini e bollicine francesi. Davvero bravi.

No 17

Delirio mantovano M eglio di un master

Quattro ristoranti. Mantova. Il tema? La cucina contemporanea. Il risultato? Tutto quello che uno non vuole vedere in un locale. Guardatela, è una puntata molto istruttiva. Didattica. Chi vuole cimentarsi nel settore che prenda appunti sul cosa non si fa.

Una delle quattro, la proprietaria del ristorante Giallozucca, è forse la più antipatica nella storia della trasmissione. Si chiama Sciko (boh) e si vanta di essere una stronza. Chi ben comincia…

Non passa un solo attimo senza che lei si dimostri la più irritante del reame. Per prima cosa, indossa sempre un cappello, sia nel suo locale che nei ristoranti degli altri. Eravamo rimasto che a tavola il cappello va tolto, ma forse ricordiamo male.

Ma è solo l’inizio. Perché così, all’improvviso, a tavola compare un tizio ancor più antipatico di lei. Non si capisce il ruolo di questo qui. Mentre i tre concorrenti più Borghese stanno guardando il menù, arriva questo, sulla settantina, e inizia a molestare. Si presenta con una bottiglia sotto l’ascella, disturba, fa il simpatico, o per lo meno è quello che pensa di

MENTRE i tre concorrenti più Borghese STANNO GUARDANDO

il menù, ARRIVA QUESTO, sulla settantina, E INIZIA A MOLESTARE

Si presenta con UNA BOTTIGLIA

SOTTO L’ASCELLA, disturba, fa IL SIMPATICO, o per lo meno

È QUELLO CHE PENSA DI ESSERE

essere. In pratica è esattamente il contrario, è come la sabbia nelle mutande. Nessuno sa chi sia, ma tanto a lui non importa. Fa battute, vede che nessuno ride, ma continua a farle e non si schioda da lì. Qui sarebbe da allargare il discorso e parlare dei ristoratori invadenti, che si mettono davanti a te e parlano del più o del meno quando tu vorresti stare in santa pace. Senza dubbio, una delle cose più antipatiche al mondo, essere disturbato dallo chef, dal maitre o dal proprietario. Il guaio è che si credono simpatici e interessanti. No, non lo sono.

Poi, nel secondo ristorante, L’Osteria del gallo, non c’è stato un solo piatto decente. Lo si vedeva in tv: la pasta del tortello era cruda, poi il risotto idem. Se lo dicono tre persone su tre, qualcosa sarà vero. Eppure, perché è questo il problema, in cucina davano la colpa ai commensali. E’ una tara mica da poco, questa mancanza di autocritica. Noi siamo i migliori, sono gli altri a non capire di cucina. E lo dicevano convinti. Pareva tutto così cattivo da venirti la voglia di cambiare canale. In casi come questi sei quasi sicuro che si mangia uguale perfino nei giorni normali, senza la tv che ti entra nel risto. Immaginatevi i poveri clienti che mangiano male e dalla cucina ti dicono di ogni. Il proprietario, Leonardo, giovane molto alternativo, arrogante e saccente, se ne fregava. Anzi, sosteneva che più lo criticano più lui insiste con i suoi modi di fare ristorazione.

Se volete un corso accelerato sul cosa non fare e sul come non comportarsi, guardatevi la puntata.

No 18

Una sera da Felix C artolina a colori

Piove a dirotto. La temperatura è invernale. Sembra di essere a Londra. Difatti il ristorante ricorda le atmosfere calde dei quartieri benestanti della seconda città più ricca al mondo. La via Goldoni, pare pure lei una cartolina inglese. Il portone è invece identico a quello del Downing Street 10.

La musica è molto soft. Mario Biondi, Barbra Streisand.

A proposito di Barbara: la compagna di Felix Lo Basso aspetta un bambino. Il lieto evento e le trombe ad inizio maggio. Si chiamerà Lorenzo. Auguri.

Mi aspetto che il prossimo menù porti il suo nome e quello dopo il nome di Barbara.

A proposito. Il figlio più grande, Samuele, ormai lavora qui con lui.

Intanto mi godo questo, di menù. Nuovo. I viaggi di Felix. Lo so, sono quei concetti sentiti e risentiti, retorici e che non promettono bene. Ma in fin dei conti conta la bontà e il gusto dei piatti, i colori e l’intensità. So bene che sostengo sempre la cotoletta e i mondeghili più altri piatti diretti e immediati.

Ma se un giorno su 30 volete uscire dalla rilassante e rassicurante comfort zone, beh questo è il posto ideale. Piccola annotazione. Non sono un grande fan del banco come unica scelta per poter cenare in un ristorante. Toglie l’intimità e la cena è soprattutto intimità. Il banco è quasi una postazione didattica. Però ha un pregio, soprattutto visti i tempi: elimina la necessità dei camerieri. I piatti vengono eseguiti e ultimati davanti a te dai cuochi. E’ una furbata che a me piace per più di un motivo. Per primo, è un modo assai spontaneo: niente manierismo e rigidità, e solo dio sa quanta impostazione mal eseguita vediamo in alcuni camerieri. Sono atteggiamenti assai anacronistici e non in linea con i tempi nostri. Un po’ di rilassatezza ci vuole. Poi è un modo di servire più veloce e immediato. E infine fa risparmiare soldi al ristoratore.

Tornando alla cena. Dall’altra parte del banco si gode la cena una donna americana di colore. È un misto fra Whitney Houston e Noemi Campbell. È vestita di bianco. Molto business. Sorride, miagola, fotografa i piatti. Uno come Felix manca negli Stati Uniti. Se paragoniamo le loro stelle con le nostre ci vien da ridere. A proposito: un plauso a Daniel Humm. Da quando ha avuto l’idea stramba di non proporre più carne ha perso il 40 per cento del fatturato. Per lo stesso motivo lo hanno cacciato a pedate dal Claridge, London. Hip hip hurraaa. Chi la fa, l’aspetti. Scelta incomprensibile. La clientela, per fortuna, non perdona.

Qui invece si gode da matti. Americani, venite qui, almeno finché Humm torna in sé, semmai lo facesse. Life is now

DALL’ALTRA PARTE

del banco si GODE LA CENA una donna americana DI COLORE È

UN MISTO fra Whitney Houston e Noemi Campbell. È vestita DI BIANCO. MOLTO BUSINESS.

Sorride, miagola, FOTOGRAFA

No 19
I PIATTI

amì batte tutti T Rockstar, ma anche no

Gli chef sono le nuove rockstar. Ricordate alcuni titoli? Pare preistoria. Eppure è successo solo sette, otto anni fa, subito dopo l’Expo. Ora è tutto finito. Nessuna copertina, poche presenze in tv, quasi nessuno che viene scelto per fare da testimonial per un marchio. Non “tirano” più, per non dire di certe situazioni dove la loro presenza sia vista come una certa irritazione. Cos’è successo? Non è successo nulla, o meglio non succede più nulla. Da tre anni non si vede alcuna novità e, come sempre, vale anche per la moda, quando non si hanno più idee si torna al classico, perché la camicia bianca fa sempre il suo effetto. Gli chef hanno esaurito la loro vena creativa? Forse no, è cambiata la percezione degli altri, si è perso interesse verso quel mondo e verso quei modi a tratti indisponenti e megalomani.

Quello che mi preme a dire è che in quegli anni chi continuava a riempire il ristorante e a macinare utili e fatturato veniva quasi deriso, di sicuro veniva guardato con disprezzo e sdegno. Se non eri creativo sembravi un poco di buono, un ferro vecchio. Ricordo come ora. In tanti cercavano di dire che loro lavorano, che hanno i conti in ordine e che si meritano l’attenzione dei media. Soffrivano, o meglio non capivano perché venivano snobbati, quasi emarginati. Cercavo di spiegare loro che si chiama moda proprio perché dura poco e non potevano farci nulla: le novità attirano e affascinano. Nessuno però immaginava che sarebbe durato così poco.

Una sera, di recente, mi è capitato di passato a salutare in un ristorante dove era in atto una cena organizzata per la settimana della moda. Niente chef creativo, niente onanismo e onanisti invasati seduti, niente gelatine e luppolo in salamoia come menù. In cucina c’era Mauro Lazzari, lo chef di una trattoria della Val Trompia, Tamì, mentre il menù proponeva dei piatti mirabolanti che gli invitati hanno spazzato via in un nano secondo: sforma tino con formaggio e tartufo nero, cappello del prete di vitello con polenta bergamasca. Si leccavano tutti i baffi, mentre

qualche anno addietro forse avrebbero assaggiato con la delusione stampata sul viso. Certo, era tutto straordinario, gustoso, sensuale, verace, però poco chic per i coloro che anni fa si credevano superiori non si sa bene per cosa e perché.

Morale? Nessuno mai vieterà o avrà da dire contro la cucina d’avanguardia, nessuno vorrà mai tarpare le ali a chi osa. Solo che i tempi sono cambiati e la clientela, ovvero chi ti paga le fatture e gli stipendi, è tornata ad avere voglia di trattoria verace e non di sesso solitario, che rimane comunque salutare e prescritto dal medico.

NESSUNO MAI

VIETERÀ o avrà da dire CONTRO LA CUCINA

D’AVANGUARDIA, nessuno VORRÀ MAI TARPARE le ali a chi osa. SOLO CHE i tempi

No 20
SONO CAMBIATI

l mago, lei, il vino I Cenare da Ba

MARCO LIU è la gentilezza fatta persona. E’ UN DALAI

LAMA PRESTATO ALLA

RISTORAZIONE. Trasmette

UNA SERENITÀ INCREDIBILE.

Poi è competente

COME POCHI

Marco Spini. Sommelier. Un fuoriclasse pazzesco. Un mago. Un talento incredibile. Parla e suggerisce con dei modi che è quasi impossibile spiegare. E’ felpato, ipnotico e soprattutto fa centro. E’ come la freccia di Cupido. Colpisce all’istante. Certo, le parole non aiutano, uno doveva essere lì, ieri sera. Ristorante Ba. E’ quello di Marco, il più piccolo della famiglia Liu.

Perché quest’uomo ti ammalia.

Quest’uomo è una specie di David Copperfield. Guarda chi ha davanti e poi suggerisce un vino. Funziona, diamine se funziona.

Dovevate vedere gli occhi di chi poi assaggiava. Voi ditemi se esiste qualcosa di più bello del sorriso di una donna felice. Perché lei lo era, appena avvicinava alle labbra il bicchiere. I vini proposti da Marco erano esattamente quello che lei amava di più.

Sembrava una scena di What women want, il film con Mel Gibson e Helen Hunt. Sapeva sempre cosa desideravano le donne perché leggeva nei loro pensieri. Ecco, ieri sera ho guardato per l’ennesima volta il film, solo che mi trovavo al ristorante.

Spini pareva di avere la bacchetta magica. Sicuramente ce l’aveva. Tanto che ad un certo punto la ragazza iniziò a insospettirsi: “C’è qualcosa che non va. O riesce a capirmi al volo, oppure abbiamo gli stessi gusti”. Comunque si chiama magia. Accade di rado, però accade. Poi, i modi. E’ per la prima volta che vedo un sommelier rilassato, sorridente e che ti mette al tuo agio. Era come se ad un bambino avessero fatto il bagnetto con il borotalco. Perfino io, che di vini ne so nulla, ero lì ad ascoltare.

Tre vini, tre tocchi di magia. Non tanto per la bontà dei prodotti, perché ormai è pieno di aziende straordinarie. La magia vera erano gli occhi della bionda. A proposito. Era pieno di coppie e tutte super entusiaste. Quando si dice love is in the air. Quelli accanto innamorati pazzi. Lei di più. Uno spettacolo guardare le coppie felici. Certo, il merito è del ristorante. Attrae e attira chi ha il cuore a mille. La gran parte della clientela di Ba è una fidelizzata. Lo si capisce subito: vengono sapendo già di passare una serata indimenticabile. Nota a margine. Qui la capasanta si è ripresa il mondo. E’ un piatto da lumi di candela e da ristorante con il mare davanti, da veranda soleggiata e da fine dining. Il metro di giudizio sono gli occhi di chi straripava per il piacere. Quel uhmmmmm, il miagolio sussurrato con la testa leggermente all’indietro non ha bisogno di parole. Marco Liu è la gentilezza fatta persona. E’ un Dalai Lama prestato alla ristorazione. Trasmette una serenità incredibile. Poi è competente come pochi. Un fuoriclasse. D’altronde a 19 anni faceva già il direttore. Poi è arrivato l’altro Marco, Spini. Che fa diventare reali i desideri delle persone. Ecco, il grande desiderio del maschio è di vedere brillare gli occhi delle donna che ha accanto. Altrimenti perché mai due dovrebbero uscire insieme?

No 21

uci e colori L Il design, oggi

Mettiamo che state decidendo di aprire un ristorante. Avete deciso il tipo di cucina, avete preso lo chef e lo staff.

Ma il ristorante in sé, come sarà? Oggi è davvero difficile e complicato capire cosa tiri e attiri di più. Per cui, come si sceglie il tipo di risto?

In base alla clientela che vuoi avere? In base ai gusti personali? Vuoi stupire? Vuoi esagerare e fare il fenomeno? Vuoi conquistare il più grande numero di persone possibile? Vuoi tenere alla larga quelli senza una grossa disponibilità di spesa? Ci sono dei colori che attirano un certo tipo di clientela e allontanano altre fasce? Le pareti devono essere scure, oppure luminose?

Fino a qualche anno fa nessuno ci pensava a ciò. I ristoranti erano austeri e molto simili fra di loro, come d’altronde il menù.

Dopo l’Expo è cambiato tutto e sono arrivate perfino le esagerazioni. Poi ci fu la moda del minimal, moda che aveva zero a che fare con l’Italia e che soprattutto allontanava le persone. Troppo fredda, troppo impersonale, difatti non è un caso che sono falliti quasi tutti i coloro che hanno puntato sullo stile nordico. In Italia c’è il sole e ci sono 30 gradi, ma noi abbiamo copiato da qualcuno che vive al buio e sotto la neve. Fa ridere, eppure è successo.

Ora per fortuna è tutto finito, come i locali in ferro e vetro, aperti in vari ex carrozzerie e simili. Ricordate? C’era un rumore pazzesco, un rimbombo irritante che ti faceva uscire come Dumbo. Ovviamente gli architetti non ci pensavano minimamente ad attenuare il casino con dei panelli contro il rumore, tanto a loro interessava toccarsi l’ombelico e mettere pressione sulle varie riviste di settore per pubblicare la propria opera. Piccola parentesi: vedo che i grandi studi di architetti hanno un gran potere sulla stampa e soprattutto riescono ad avere solo articoli celebrativi. Come può accadere? Certo, in Italia qualsiasi articolo è celebrativo, fin qui lo sanno pure i bambini. Ma cosa hanno da guadagnare i giornalisti nell’esaltare uno studio di architettura, beh questo mi sfugge. Ricorderò sempre l’uomo di rara antipatia e presunzione che disegnò il ristorante di Cracco: nel giorno dell’apertura ancora un po’ ed esigeva che gli si

baciasse la mano. Fui tentato di dargli un calcio nel sedere, ma poi pensai allo sforzo inutile.

Tornando a noi. Certo, siamo in tanti e non può esistere un solo modo e un solo design.

Fino a due anni fa si cercava di insistere sui ristoranti con ampie vetrate, in tal modo da avere molta luce all’ora di pranzo, per poi trasformare tutto la sera e puntare sull’atmosfera. Qui però entrano in gioco le luci, che oggi valgono tantissimo e fanno la fortuna oppure sono la disgrazia del locale.

A me uno piacciono i locali caldi, con arredo classico, di valore. In alternativa, quelli in pietra e legno, molto accoglienti, rilassanti e allegri. E a voi?

IN ITALIA c’è il sole e CI SONO 30 GRADI, MA NOI

ABBIAMO COPIATO da qualcuno che vive AL BUIO E SOTTO la neve. Fa ridere, EPPURE È

SUCCESSO

No 22

Nomi e affini

Famolo semplice

Il nome di un ristorante incide sul ristorante stesso, sul come viene percepito? In linea di massima sì. Quando vogliamo fare quelli sofisticati le persone non ci mettono pie de, quando invece pensiamo ai clienti loro, come per magia, vengono volentieri.

Un esempio? In una sperduta località della Calabria c’è un ristorante che, forse pensando di attirare le benestanti milanesi, ha deciso di chiamarsi “Atmosfera versatile”. Alzi la mano chi riesce a capire che tipo di locale possa essere e soprattutto chi ha voglia di andarci. Io uno no, perché avrei odore di fregatura a dei prezzi alti. Già vedo dei piatti tristemente e fintamente creativi. Che sia chiaro: non ci andrei nemmeno se fosse in pieno centro a Milano e non a Paola, sul lungomare calabrese.

Non ho alcun dubbio che se avessi un ristorante porterebbe il mio nome, al massimo lo chiamerei Dom. Non per megalomania, ma per far capire al cliente che il risto è mio e che troverà sempre me, nel bene e nel male. Mettere il proprio nome crea già un legame, trasmette sicurezza. Perché tu Yvonne vieni a mangiare da me, da Dominique. Sono io la garanzia e il garante di quel posto.

Sapere dove vai, da chi vai, ti mette subito a tuo agio, così come si crea un certo distacco quando entri in una catena: è tutto impersonale e non potrebbe essere diversamente.

Non è un caso che il ristorante di Cracco si chiami Cracco e quello di Vissani si chiami Vissani. Quest’ultimo per onor di cronaca si chiama Casa Vissani, il che rilassa ancor di più il cliente, che ha già in mente un ambiente informale. Tante volte abbiamo sentito il desiderio dei ristoratori di voler far sentire i clienti a casa, però senza riuscirci. Se si cominciasse dal nome forse verrebbe loro più facile.

Per cui cercate di evitare dei nomi che a voi possano sembrare sofisticati, chic e via dicendo: non funziona, anzi, trasmettete l’idea del vorrei ma non posso, del trash, del kitch.

La pizzeria di Denis Lovatel s chiama Denis, pizza di montagna. Hai già capito tutto. E’ la pizzeria di Denis e fa un tipo particolare di pizza. Ti fidi, entri subito. Da “Atmosfera versatile” invece non entrerei mai. Forse nemmeno loro sanno bene perché abbiano scelto un

tale nome, però scommetto che i prezzi siano altissimi. Siate voi stessi e verrete ripagati. E comunque se per davvero avessi un ristorante metterei il nome di una donna. Perché è la donna della mia vita e perché un nome femminile attira la clientela del gentil sesso. Sono convintissimo che la ristorazione sia donna per mille motivi, per cui la scelta sarebbe anche un po’ ruffiana.

SAPERE DOVE VAI, da chi vai, TI METTE SUBITO A TUO AGIO, così come si CREA UN CERTO DISTACCO QUANDO ENTRI in una catena: È TUTTO IMPERSONALE e non potrebbe ESSERE DIVERSAMENTE

No 23

Numeri che non possono essere sindacabili, nonostante strepiti e prese di posizione, o meglio dire di rendita. E’ ovvio che i pochi giornalisti rimasti gridino allo scandalo e che portino acqua al proprio mulino, da capire e prevedibile anche le loro solita immancabile spocchia, però ci sono mille però e considerazioni da fare.

Oggi nessun giornale vende più di 100.000 copie, anzi, solo uno arriva a fare quei numeri. Per il resto, la media è di 20.000, toh, 30.000. La regola dice che ogni articolo viene letto da una persona ogni 30-50, ovviamente si fa eccezione per gli articoli davvero importanti, che sono gli editoriali e gli articoli sul calcio.

Per cui viene una media di 1000 lettori per un articolo sul vostro ristorante, oppure bar o quello che è. Di questi 1000, facciamo che il vostro ristorante si trovi a Verona, quanti abitanti della città leggono quell’articolo? 25?

Ovviamente si fa eccezione per i giornali locali, dove la media di lettori per ogni articolo sale leggermente. Se invece il vostro risto si trova a Milano, facciamo che sono 150 i lettori. Per le pagine locali, 350.

Certo, i giornalisti si considerano superiori e più autorevoli (come?) dei blogger e delle influencer, ma diciamo che esiste gente che si crede Napoleone, per cui ognuno è libero di considerarsi quello che meglio crede. E ora arriviamo ai blogger e agli influencer. Se uno ha 50.000 follower ei fa un post sulla pizzeria Peppiniello, almeno 10.000 vengono a sapere del locale in causa. Per cui, numericamente, sono più forti gli influencer, e badate bene che ho detto 50.0000, ma quasi tutti hanno più di

Copie e follower na lotta persa U

100.000, quando non si parla di milioni. Certo, pure qui vale la logica del dove vive chi ha letto il post, ma almeno i numeri sono più alti.

Qui i giornalisti vengono a disquisire con tenerezza sul valore del lettore del giornale rispetto al follower dei social, fingendo di dimenticarsi che si tratti di una pizzeria, o di una trattoria, di conseguenza non devi avere due lauree per capire il senso di una apertura e ancor meno capire cosa sia una pappardella.

Morale? Numericamente vale di più rivolgersi agli influencer. Mentre se vogliamo parlare di competenze e di qualità della scrittura, di giornalisti esperti in gastronomia e ristorazione saranno in venti, non di più. Per cui, cari giornalisti, fly down e smettetela di considerarvi superiori e più autorevoli. Non lo siete, poche eccezioni a parte. E spesso vi comportate come gli influencer, ovvero pasto gratis in cambio di una recensione positiva. Di differenze non ce ne sono, semmai ci sono a vostro sfavore. E smettetela di considerare la vostra comunicazione migliore rispetto alla comunicazione degli altri. A parte pochissime eccezioni non lo é. Siete celebrativi a prescindere, come gli influencer, ma contate meno. E puntate tutti al pasto gratis in cambio del vostro articolo.

I GIORNALISTI si considerano SUPERIORI E PIÙ AUTOREVOLI dei blogger e delle influencer, MA DICIAMO CHE ESISTE PURE GENTE che SI CREDE NAPOLEONE

No 24

Pellico 3, Parigi Heavy metal al burro

Mi sussurra. “Sono innamorata”. Wow. Così, all’improvviso. Poi però aggiunge: “Dello chef. Lo amo”. Ci sarebbe da restare male se non fosse che pure io la pensi allo stesso modo.

Confesso. Sono uscito da lui camminando sulle acque.

Ristorante Pellico 3, Parigi.

Brevi annotazioni dopo una cena pirotecnica.

I piatti di Guido Paternollo. Molto heavy metal. Tutti con alte punte di acidità. Eppure non ti stanchi mai, anzi. Heavy metal da gustarselo in modalità slow life.

Concetti agli antipodi, ma qui al Park Hyatt di Parigi funziona. O forse siamo a Milano e mi sto confondendo. Il punto è che si respira tanta Francia, nel senso positivo della parola.

Il pane che vedete nella foto è magia al burro. Ti senti davvero nella Ville Lumiére, seduto su una panchina al Parc Monceau, Coulée Verte, Parc de Bagatelle, scegliete voi. E’ già una dichiarazione d’amore. La sua verso il cliente e del cliente verso chi decide di invitare al Park Hyatt: per cui scegliete con cura chi porterete qui un giorno. Nota a margine. Astenersi coppie logore e pallide. Perché l’ambiente qui non aiuta, è assai austero: di conseguenza, le buone vibrazioni degli altri non ti vengono in aiuto. Devi contare sulle tue. Tornando allo chef. Nella gran parte dei piatti che si assaggiano in giro, oggi, manca questo messaggio: le dichiarazioni d’amore. Quelle dirette, decise, che partono non dal cuore, ma dalle viscere del tuo corpo. E che arrivano subito. Si pensa ai tecnicismi e si lascia in secondo piano il gusto, dimenticandosi troppo spesso che vanno esaltate le papille e non il cervello. Ora arrivano gli scienziati a dirmi che papille e cervello sono collegate. Grazie per l’info.

La cucina di Paternollo non pare sofisticata, il che è un pregio. I concetti sono chiari fin dalle amuse bouche. Ecco, a proposito. L’uomo ti vuole far ballare subito: le amuse sono già molto bum bum bum e cha cha cha. Ti sei già tolto la giacca e ti sei arrotolato le maniche. Sei subito in mezzo alla pista.

Difficilmente in un menù completo trovi tutto allo stesso livello: qui accade. La stella tarda ad arrivare, però le sensazioni sono forti e il viaggio vale e vale tanto.

L’uomo è formidabile. L’energia dei piatti la tocchi con la mano. Il percorso ha un senso logico, l’identità è ben chiara, molto chiara. Non banalizziamo il concetto, anzi: è segno di gran carattere e di personalità ben definita. Gli intellettuali direbbero che è uno chef con controcaxxi. Lo é.

Ha ragione lei, ad essere innamorata. E non puoi nemmeno restare male, perché la capisco. E ricordatelo sempre: il ristorante migliore è quello dove lei splende di più e dove i suoi occhi brillano di più. Qui accade.

IL PANE CHE

VEDETE nella FOTO

È MAGIA al burro. Ti SENTI

DAVVERO nella Ville Lumiére, sEDUTO SU UNA PANCHINA

al Parc Monceau, COULÉE Verte, Parc de BAGATELLE, scegliete voi. E’ GIÀ UNA dichiarazione

D’AMORE

No 25

nnocenti Evasioni I Tommaso Arrigoni

La più formidabile trasmissione sul mondo della ristorazione si chiama “Un menù da milionari” e la potete guardare su Netflix, anche se so già che agli amanti della cucina onanistica l’argomento interessa poco, in compenso vale tanto per chi pensa la ristorazione come una attività commerciale e non come un corso di cha cha cha del mercoledì sera dopo il lavoro. In pratica degli investitori seri e preparati, ovvero gente che lavora esclusivamente con i numeri e non rimane incantata dai giochi con il prepuzio, valutano delle situazioni dove, appunto, investire: cercano delle nuove idee per la ristorazione, dallo street food al casual dining. Ogni puntata è più formidabile dell’altra, anche se l’esito è quasi lo stesso per il 95 per cento dei casi: amano i piatti e le idee dei partecipanti, però declinano la possibilità di investire. Il motivo? Non vedono margini di guadagno. Quasi sempre la risposta è: “Il tuo cibo è fantastico, ma non farai mai soldi”. Per chi considera la ristorazione una operetta baldanzosa dove ci si titilla l’ombelico, beh gli investitori sono il lupo cattivo che guarda ai soldi senza commuoversi per il luppolo trifolato sette anni.

Tommaso Arrigoni è uno che piacerebbe agli investitori, se non altro perché da 25 anni cucina, riempie, guadagna e mantiene pure la stella Michelin. Ora ha aperto in un nuovo posto, a Bovisa, il ristorante è nuovo di zecca, ha anche un giardino immenso e all’ora del tramonto i piatti sembrano ancor più piacevoli. Il locale è pieno, nonostante la data della nostra visita, a inizio agosto: coppie giovani e di mezza età, un padre con la figlia (no, scusate, lei lo sta baciando: no, non è la figlia), gruppi di amici, alcuni in pensione, insomma un target trasversale che si sente al suo agio con un menù dove il gambero sa di gambero, il tonno sa di tonno e via dicendo.

Piatti di pesce e carne, pasta fresca, i vini sono di alto livello perché se ne occupa Lucia Gatti, l’ambiente è straordinariamente sereno e la sala piena, o forse è piena perché l’ambiente è straordinariamente sereno. L’uomo parla poco e incassa molto, è uno che sta alla larga dalle formiche nei piatti e pensa tanto a come far passare ai suoi clienti una serata piacevole proponendo risotti, spaghetti, foie gras e la catalana. Ci riesce e si diverte, ora ancor di più perché in sala c’è anche il suo figlio Luca, 16 anni. I tavoli sono tutti rotondi, le tovaglie perfettamente

stirate, pare un ristorante di un albergo cinque stelle. Mancano i flaccidi gastroilluminati, ma nessuno pare sentire la mancanza.

L’UOMO PARLA poco e incassa molto, È UNO CHE STA

ALLA LARGA dalle formiche nei piatti E PENSA TANTO A

COME FAR PASSARE ai suoi

clienti una SERATA PIACEVOLE

proponendo risotti, spaghetti, FOIE GRAS E LA

CATALANA

No 26

Conti e miagolii Chi decide il menù?

Chef, la ricetta perfetta. Ve lo consiglio, ora è anche su Netflix, piattaforma tornata in sé dopo anni tremendi, dove era pieno di film didattici e con dei temi insopportabili e ministeriali, tanto da far giustamente allontanare le persone, desiderose di intrattenimento leggero e non di moralismi aggressivi.

Il film è del 2014, l’avrò visto e rivisto diedi volte, anche perché Scarlett Johansson che aspetta languida sul divano un piatto di pasta cucinato dallo chef non ha prezzo e poi racchiude in un solo gesto tutto quello che rappresenta la ristorazione: miagolare per il piacere, con gli occhi pieni di meraviglia e lo sguardo pieno di desideri.

La scena vale tutto e più di tutto, però il tema è un altro: fino a dove si può spingere il proprietario di un ristorante quando si tratta del menù? Può immischiarsi? Quanto? Può e deve decidere lui in quanto proprietario, con lo chef che si adegua agli ordini?

Nel film, lo chef gli parla chiaro: la cucina è il mio territorio, mentre il proprietario (Dustin Hoffman) sostiene che la cucina fa parte del ristorante e che il ristorante fosse tutto suo, visto che è lui a pagare bollette e tovaglie, personale e attrezzi.

Chi ha ragione e chi ha torto? Il proprietario dice che ha delle idee, che può aiutare in cucina, ovviamente lo

chef si innervosisce e se ne va. Certo, lo schema è facile: se vuoi fare come ti pare ti apri il tuo ristorante, qui il ristorante è mio e decido io perché pago io.

Giorni fa ho assistito ad una scena surreale, con il proprietario di un ristorante che stava per mandare a casa lo chef, colpevole di aver aggiunto una erbetta sul piatto preferito dallo stesso patron. “Qui si fa come dico io”, tuonò come se gli avessero scuoiato vivo il gattino.

Non è facile dire di no a chi paga lo stipendio, è complicato dirgli che non capisce, così come è impossibile dire ad uno chef che i suoi piatti non siano eccezionali. La convivenza deve essere terribile, visto che in pratica si sta insieme ogni giorno.

Spesso ci sono delle esagerazioni, vedi la patron di Palazzo Parigi che sa meglio degli altri qualsiasi cosa, dalle pr alla cucina, dal servizio al resto delle operazioni: d’altronde dava dei consigli a Cracco e abbiamo detto tutto.

Esiste un modo sereno per convivere felici, oppure è una guerra ogni santo giorno?

Nel film, il patron sostiene che il menù non va cambiato, perché il ristorante è pieno e di conseguenza la gente ama quel menù. Lo chef invece, vanitoso, vuole cambiare per impressionare i critici, dimenticandosi della clientela. Certo, i conti valgono più della vanità, ma come diamine se ne esce?

CERTO, in principio lo SCHEMA

È FACILE: se vuoi FARE COME TI

PARE TI APRI il tuo ristorante, qui IL

RISTORANTE è mio e decido

No 27
IO PERCHÉ PAGO IO

Uffici stampa e clienti sterie e solidarietà I

IN TANTI, troppi SCAMBIANO

L’UFFICIO stampa PER UNO

SFOGATOIO. Pagare un ufficio stampa

NON VUOL DIRE SCARICARE

le vostre frustrazioni, lamentarvi, URLARE LORO CONTRO

Mattina. Uno si sveglia rilassato e di buonumore. Non vede l’ora di iniziare la giornata lavorativa. Okay, forse stiamo esagerando, però il concetto pare chiaro, no?

Chiaro a noi e inutile per altri. Davvero inutile. Perché c’è gente che vive per rovinare le giornate altrui. Gente convinta che urlare, lamentarsi e prendere a male parole sia un diritto: no, non lo é nemmeno se si tratta del malcapitato marito.

Qual è il punto? Dove vogliamo andare a parare? Eccoci, arriviamo. Perché abbiamo avuto una illuminazione. Se sei forte- tu ristorante, chef, personaggio televisivo, quello che volete- non hai bisogno di un ufficio stampa, perché é la stampa la prima a chiamarti per intervistarti e sapere la tua. Se invece hai bisogno di un ufficio stampa che vada a disintegrare dieci volte al dì i così detti ai giornalisti per comparire sulle pagine di un giornale o in tv, beh automaticamente vuol dire che conti poco. Vogliamo ammetterlo? Ma certo che no. La colpa è sempre degli altri. Però la verità è che se sei bravo e hai cose da dire un ufficio stampa serve a fare da filtro, per via delle tante richieste. Avrà il grattacapo di selezionare gli interventi, non il dramma di elemosinare un articolo alla pagina 45.

Detto ciò, in tanti, troppi scambiano l’ufficio stampa per uno sfogatoio. Raga, pagare un ufficio stampa non vuol dire scaricare le vostre frustrazioni, lamentarvi, urlare loro contro. Quello è il ruolo del marito, il quale ha promesso davanti a dio di prendersi carico delle vostre isterie e cambi di umore perenni, così per sport. Si legge spesso su Dagospia e simili di show girl furenti, attrice indiavolate, ma vale anche per il settore del

food: una si sveglia si inizia a urlare a destra e a manca, come se fosse un diritto divino trattare male gli altri. Gli uffici stampa non sono il personale domestico, ammesso e non concesso che loro debbano subire capricci e pittoresche isterie ovviamente immotivate. Gli uffici stampa hanno mille difetti, ma di sicuro non esistono per subire vessazioni e richieste a dir poco fuori dal mondo.

Perché se sei ininfluente sei ininfluente, se sei uno forte, ambito e stimato vieni chiamato direttamente. Certo, nessuno di voi si riconosce, le poco e i poco di buono sono sempre gli altri, noi siamo carini, generosi e ragionevoli.

Non faremmo mai l’ufficio stampa. Nel caso, metteremmo nel contratto che sono vietate urla, rotture, lamentele, capricci, sbalzi di umore.

Un ufficio stampa non è un pungiball, non è la vostra latrina. A questo, ripetiamo, serve il vostro baldanzoso marito. Oppure la vostra moglie, perché purtroppo esistono pure dei maschi capricciosi, lamentosi e insopportabili.

No 28

Libri e clienti ietato rilassarsi V

Tutti gli essere viventi scrivono libri sulla cucina e ci tengono a dircelo già quando sono arrivati alla pagina 10. Ci aggiornano sull’andamento e sul blocco creativo, come se ci potesse importar de meno. “Bevo tanto caffè”, aggiungono sempre con enfasi, come voler sottolineare le condizioni di stress e fatica. L’immensità, insomma. Così che ieri mi è venuta un’idea: scriverò anche io un libro. Naaaah. Scherzavo, già così ci sono più libri che lettori, anche se va riconosciuto il giusto apprezzamento a chi porta alla fine una fatica letteraria.

Comunque pensavo che sarebbe bello un libro con vari capitoli, uno per ogni tipo di gastrodepresso. La presuntuosa antipatica, la giornalista saccente sotuttoio, la piacciona, il rompino logorroico, l’invasato ossessionato dei vini e via dicendo. Un capitolo ci sarebbe per la strizza seni convinta di essere una gran donna e una gran intenditrice: parla sempre di sé stessa e di deontologia, difatti sarà per questo che si strizza il reggipetto, disperata di ricevere un qualsiasi commento maschile, ignara di come girino i suoi post e i suoi screenshot.

Va detto che alcuni gastrodepressi vengono in aiuto al libro, commentando la propria visione sulle cene stellate. L’omino qui sotto pare uno spasso, se volete invitarlo a mangiare insieme vi darò il suo nome. Sentitelo come mi rimprovera per i modi leggeri e scanzonati. Paura, eh.

“Parlare di spensieratezza e leggerezza in un ristorante tre stelle o comunque anche dove la cura dei dettagli e le regole per ricevere un prodotto finale di alto livello sono seguite meticolosamente, é unicamente fine a se stesso. Vedete, il fine di questi locali non é far mangiare o rilassare la clientela, ma trasmettere un’esperienza culinaria che faccia breccia nella memoria e che sancisca un momento o più momenti indelebili nel cliente. Queste tipologie di locali non sono alla portata di tutti perché non sono aperte per chi ha le tasche piene e la zucca vuota, quindi ben venga che si svuotano come dice lei perché, si fidi, rimarranno sempre i veri clienti cioè coloro che vanno al di là del semplice pasto, ma ricercano un’emozione. Ricordi inoltre che si il cibo é piacere, ma va anche rispettato

come chi lo prepara. Ripeto ci sono tante trattorie e fast food aperti”.

Ora, alzi la mano chi ha voglia di varcare la porta di un ristorante dove la pensano così. È da aver paura, ma veramente paura.

Una sola domanda: se nemmeno al ristorante si può andare leggeri e rilassati, dove allora? E poi quali sarebbero i così detti veri clienti di un risto del genere? Mi piacerebbe chiedere anche quanti sarebbero, però meglio non infierire.

SE NEMMENO al ristorante si PUÒ ANDARE LEGGERI

E RILASSATI, dove allora? E POI

QUALI SAREBBERO I così detti veri

CLIENTI DI UN RISTO

DEL GENERE?

No 29

Carne, carne, carne e ancora carne. Il periodo d’oro non ha limiti e confini, evviva. Aperture di ristoranti, hamburgerie e ora anche macellerie con cucina, una gran figata di idea, un’idea con un grande presente e un enorme futuro.

Ridete felici mentre sorseggiate cocktail e guardate il tramonto, fate l’amore e sognate, perché abbondano le idee degli imprenditori del settore, le carni e i prodotti migliorano, per cui il mondo era già roseo e ora ancor di più.

Prendete per esempio l’idea di Gianmarco Venuto

Il Mannarino

Profitto. Lo scopo di un ristorante è il profitto. Guardate Michel Roux nella formidabile trasmissione Five Star Chef. C’è una incessante ricerca di piatti che possano piacere alla clientela in tal modo da venderli ad un prezzo alto. In sei puntate non esiste alcuna delle parole che avvelenano e intorpidiscono i comunicati stampa e le parole degli chef nostrani, ovviamente parole forzate e dette senza convinzione. Ci si concentra sul creare e comporre un menù che possa garantire il guadagno. Tutte quelle parole da operetta balzana non le trovi. Nessun chilometro zero o ventisette, niente culturaaaaaa, niente orti, niente sostenibililitiriidirità. Profitto. Guadagno. La trasmissione è un master, più di un master. Far conquistare i clienti alto spendenti con dei piatti che per davvero possano valere la somma spesa. A

e Filippo Sironi. Il concetto sa di cartolina anni sessanta, il periodo d’oro dove non esistevano parole impronunciabili e tenere militanze, fenomeni da baraccone e isterie noioselle, anche se chi diamine sta a dar retta quando puoi acquistare un pezzo di carne per poi fartelo cucinare davanti a te e azzannarlo seduto a tavola.

Si chiama Il Mannarino, Macelleria con cucina, si legge felicità assoluta.

Finora hanno aperto a Torino, Como e ora a Busto Arsizio, probabilmente in breve vedremo le nostre città piene dei loro locali, vivaddio.

Costate, manzi tonnati, bombette e polpette, il cuore che va a mille e la voglia di ballare il cha cha cha in ambienti molto casalinghi, rilassanti e goderecci. Sono tutti contenti, macellai e clienti, sono tutti felici.

Master Five Star Chef in ristorazione Macelleria con cucina

guardare i clienti che si sedevano al The Langham, nessuno pareva interessato ad un simposio sulla provenienza delle materie prime. Ad un certo punto Roux lo dice esplicitamente: non si fanno impressionare dalla quantità o dalla qualità, ma di come proponi il tutto, di cosa sai fare.

Sei puntate e nessun onanismo, solo gente concreta, perché la ristorazione è una attività commerciale e il ristorante è un’azienda. Almeno al The Langham. Certo, se si organizza un convegno appiccicoso e inutile con i soldi del ministero, beh allora ci sta che ci corrano cento invasati balzani che si titillano il flaccido ombelico. Ma nella vita reale non c’è spazio per mollaccioni pallidi e noioselli tediosi.

No 30

Parole e progetti a felicità. Punto L

Confesso e ammetto. Pubblico di rado, troppo di rado le parole di Luca Guelfi. Le sue riflessioni sono dei veri e propri editoriali o, se volete, dei manifesti emozionali, oltre che delle spinte a osare e volare.

E’ motivazionale e ispirazionale. Per cui leggetelo e fate tesoro.

“Sono ancora a Formentera. Da ormai un mese. E non ho proprio voglia di tornare. Ho concluso una trattativa lunga e difficile, alternata da qualche ora di spiaggia.

Due nuovi locali che apriremo qui a marzo del 2024. Si, a marzo. Una lunga stagione che durerà quasi un anno. Otto mesi per la precisione. Due locali al porto. Il porto della Savina. Due ristoranti che puntano non solo ai turisti, ma anche ai residenti del posto. Uno é l’osteria romana Volemose Bene, l’altro un nuovo format di alta cucina messicana con mezcal bar. Un messicano metropolitano in stile losangelino.

Ritorno a Formentera perché sono convinto che l’isola sta tornando quella di una volta.

Con questi due progetti si chiude il cerchio. La mia ricerca della felicità finisce qui, l’ho trovata definitivamente.

Ho scelto le località dove aprire nuovi locali. Le ho scelte perché ho voglia di passarci del tempo in questi posti. Ma in vacanza e basta non sono capace di starci. E allora in quei posti ci apro un ristorante. Per non sentirmi in colpa, per far intendere a tutti che lavoro.

Ecco allora il perché dei locali in Sardegna, a Los Angeles e adesso a Formentera. Tre luoghi che amo. Ma stare in un posto solo mi stufa. Invece andare via per qualche mese, mi fa venire la voglia di tornarci. Godermi la vita e lavorare in un luogo che amo.

A Milano ogni tanto ci torno, ma in questo momento mi mette un pò di negatività.

I ristoranti lì funzionano bene anche senza di me. Negli anni ho creato format che non necessitano della mia presenza. E questo era un altro dei goal che sono riuscito a raggiungere. La mia presenza nella gestione non é più fondamentale. Si certo, sento i miei collaboratori tutti i giorni. Ma più per fargli capire che non sono sparito. I risultati ci sono e continuano ad esserci. Perché sono tutti molto preparati e forse qualche cosa hanno preso dalla mia visione.

Mi sono posto obbiettivi. Li ho raggiunti. Adesso mi godo la vita.

E spero tanto che anche tu abbia raggiunto i tuoi obbiettivi, o ci stai lavorando perlomeno.

O magari te li devi ancora creare. Fallo in fretta. A qualsiasi età. Obbiettivi che ti rendono felice. Come lo sono io adesso”.

HO SCELTO le località dove APRIRE NUOVI LOCALI. Le ho scelte PERCHÉ HO VOGLIA DI PASSARCI del tempo in questi posti. Ma in vacanza e BASTA NON SONO capace DI STARCI. E allora IN QUEI posti CI APRO UN RISTORANTE

No 31

T Joselito e dintorni ecniche e strategie

In Italia abbiamo dei prosciutti alla pari del Joselito? Sono irraggiungibili? Cosa hanno in più? Dove sono più bravi, se sono più bravi? Io uno non lo so. Però lo chiedo a chi di mestiere fa il norcino.

Ovvero a Fabrizio Nocci, toscano che da anni alleva, accarezza e vive insieme ai maiali di mangalitza a Solobrado (confesso: mi sono innamorato), azienda a due passi dal ristorante di Vissani. Avvertenza: in questo numero potete leggere di loro in altri due articoli. “Gli spagnoli sono irraggiungibili per quello che stanno facendo dal punto di vista del marketing e del packaging. In più loro hanno delle scuole dove si insegna il taglio del prosciutto a mano a 3 centimetri, così come si insegna la presentazione del piatto. Avete fatto caso a come te lo portano a tavola? Ecco, loro sono troppo avanti. Poi, parlando del prosciutto in sé e del gusto, beh, se si facesse una degustazione alla cieca potrebbero esserci dei dubbi e in tanti ne hanno avuti. Va detto però che le differenze ci sono soprattutto nel processo di produzione e non solo. Un esempio? Per una questione di costi in Italia molti prosciutti vengono messi sul mercato dopo

sei mesi di stagionatura, perché così facendo guadagni un ciclo, se invece lo tieni per 12 mesi è ovvio che perdi dei soldi e molti qui da noi non possono permetterselo. Da noi si fatica a superare i14 mesi, i nostri mangalitza arrivano a 18-19, certi prodotti anche di più, quelli spagnoli invece vengono stagionati per 3 anni.

Continuando con le differenze, loro stagionano a 40 gradi, noi invece a 22, perché è così la tradizione. Cosa cambia? A 40 il grasso viene aggredito in maniera forte, facendo esaltare quel gusto amarognolo che è poi dovuto alle ghiande che mangiano. Per questo i nostri hanno un grasso, diciamo così, più pulito.

Nessuno qui ha mai pensato di imitarli, sarebbe inutile. Perché?

Perché lì hanno tante praterie, noi di meno, non abbiamo i loro spazi: lì si nutrono di solo ghiande, ma vi assicuro che nemmeno i loro vivono in uno stato proprio brado. I loro maialini sono poi più piccoli, hanno sui 100 chili, così che un prosciutto raramente supera i 6 chilogrammi e questo fa tutta la differenza del mondo. Una curiosità? I nostri mangalitza sono più ricchi di Omega 3.

Detto questo, se i nostri costano 60 euro al chilo, mentre i loro 90, beh la gran parte di questi 30 di differenza la fa il marketing. Volendo trovare un paragone, è come con lo champagne e il Franciacorta: il fascino dello champagne è irresistibile, anche se poi scopri che alcuni nostri prodotti sono dello stesso livello”.

GLI SPAGNOLI sono irraggiungibili PER QUELLO

CHE STANNO FACENDO DAL PUNTO di vista del marketing

e DEL PACKAGING. In più loro HANNO DELLE SCUOLE

DOVE si insegna il taglio del prosciutto A MANO A 3

CENTIMETRI

No 32

TVini e rincari utto a caso

IN UN RISTORANTE

fine dining, OPPURE COSTOSO, SI FA

MENO FATICA nell’alzare i prezzi e di ACCETTARE CIÒ

Problema spinoso e antipatico, perché in tanti danno del cialtrone al ristoratore. Non esiste una regola, per cui impossibile avere un risposta unica, esatta ed esaustiva.

Però ci ha sempre intrigati la frase: “Gli stranieri non sono come gli italiani, prendono vini costosi, mentre l’italiano guarda il prezzo”. Ci ha intrigati perché non abbiamo mai capito se lo straniero va bene in quanto fesso, oppure in quanto generoso. Se avete fatto caso, i ristoratori parlano con entusiasmo quando si tratta del cliente d’oltre confine. Forse perché essendo in vacanza è più propenso a spendere con spensieratezza, chissà. Fatto sta che per un ristorante pieno prima e dopo la pandemia la differenza di fatturato la fa proprio l’acquisto o meno di bottiglie diciamo così pregiate. Lo ammettono tutti: senza stranieri si incassa di meno, perché non si vendono i vini costosi.

Di conseguenza, con i piatti non si guadagna, con i vini sì. Per fare un esempio, chi ordina due menu degustazione ma non beve è quasi un danno per il ristoratore. Tornando ai rincari, ci sono due filosofie. Quella del rincaro basso, che magari facilita l’acquisto di una seconda bottiglia, (“il vino deve correre”, dicono) e poi quella del rincaro alto, secondo la teoria del “come altro vuoi che copra le spese?”. C’è anche una aggiunta deplorevole per chi incoraggia il rincaro alto: “se non puoi permetterti di venire in un posto come il mio stai a casa”. La si sente spesso, tradotto sarebbe “se non vuoi farti fregare stai alla larga da me”. Manca solo dire “pezzente, crepa”. Va anche detto che il più delle volte non si torna dove ti senti raggirato dal rincaro. Anche perché finora nessuno è riuscito a spiegare bene perché carica così tanto.

La forbice va dal 2,5 fino al 4, spesso anche in base al prezzo di partenza.

Vero è che il cliente abituale italiano conosce bene i prezzi e storce il naso se si sente preso in giro. Da parte sua, il ristoratore non ama quando gli si fanno i conti in tasca e reagisce male. Per evitare, basta mettersi nella situazione di essere in linea con il mercato. Non abbiamo idea se e quanto si vende di meno se il rincaro va oltre la media, di sicuro qualcosa succede.

Per i rincari alti e altissimi, escludendo night e discoteche, pare che superata la soglia dei 100 euro non esistono più freni e limiti.

Morale? In un ristorante fine dining, oppure costoso, si fa meno fatica nell’alzare i prezzi e di accettare ciò. Mentre nei ristoranti con lo scontrino medio sotto i 60-70 se sgarri di due euro rischi di essere “punito” dal cliente. Ne abbiamo sentiti tanti dire “carica troppo sui vini”, e si stava parlando di tre euro, al massimo cinque. Paradossalmente puoi mettere la cotoletta a 30, ma sui vini nessuno ti perdona nulla. Per cui nella fascia media state attenti, rischiate di perdere un cliente solamente perché voi stessi siete stati in un ristorante di fascia alta e avete visto come si rincara a volontà. Però non tutte le situazioni sono uguali. E se la vostra idea è “da quello ho visto robe assurde, da me rompono per tre euro”, beh state sbagliando strategia.

No 33

La carne degli dei icanha da Varrone F

Ficanha, mi amor. Con la F. Che trovata. Involontaria, poi. Ficanha. Se apro un ristorante di carne, beh questo sarà il nome. Femminile, incisivo, intrigante, malizioso, sognante. Da brividi di piacere.

Sentite che musicalità. Fiiiiicannnhaaa. Perché mangiare è godere. E’ piacere. E anche musicalità. E’ successo per caso. A Cena. Varrone. Pienissimo, come sempre. Un centinaio di persone che parlano animatamente, perché dove si mangia bene c’è chiacchiericcio, energia, adrenalina, entusiasmo. Dove c’è silenzio assordante, beh quelli stanno chiudendo e non si capacitano per il motivo. O forse non ci arrivano. Oppure non vogliono arrivarci, il che è probabile assai.

Rumore di forchette, piatti, camerieri che corrono come il vento. A proposito, voto 10 al servizio, nel senso di velocità e di voglia di farti passare una serata goduriosa al cubo. Certo, è il dna del patron, ne abbiamo parlato mille volte

e altre mille ne parleremo: a proposito, Massimo Minutelli sta per aprire una nuova trattoria a casa sua, a Lucca. Della pizzeria a Milano, via Faruffini o giù di lì, potete leggere nelle pagine accanto. Oltre a Massimo il merito va anche a Toni, il direttore. Pare uscito di un film americano degli anni settanta: baffi, sorrisi, saper fare, gesticolare. Little Italy, insomma.

Il rumore, dicevo. Per questo la ragazza di fronte aveva capito ficanha invece di picanha. E’ giovanissima, ci sta, non conosce ancora le prelibatezze. Difatti suo padre l’ha portata per farle capire cos’è il paradiso terreste, come e dove si mangia divinamente. L’inizializzazione ai piaceri. Perché, sì, la carne è il cibo degli dei e anche di noi umani che aspiriamo alto, ma dall’altra parte Varrone è ormai un ristorante fine dining. C’è tanto oltre le carni. Si danno per scontate le prelibatezze più eccellenti e rare di questo mondo, ultima della lista il prosciutto di mangalitza dell’azienda Solobrado. Accanto al patanegra fa una figura davvero principesca, la clientela apprezza e divora. Per la cronaca, ora lo serve perfino Vissani, a colazione. Il consiglio è di andare da Varrone per gli antipastini, più che per la carne: certo, se riuscite a mangiare tutto, meglio per voi. Io faccio fatica, ingordo come sono di bontà. Comunque, arriva la picanha. La ragazza, viso genuino e occhi da cerbiatta, rimane ammaliata dal colore e inebriata dal profumo della carne. Che cos’è, chiede con un sorriso botticelliano. Picanha, gli sussurra il padre, seduto accanto Come, ficanha?

Ecco, la serata poteva finire qui. Aveva già un senso. Invece è continuata, perché è impossibile e impensabile alzarti dalla tavola. Vorresti non finisse mai.

PERCHÉ, SÌ, LA

CARNE è il CIBO DEGLI

DEI E ANCHE di noi umani che ASPIRIAMO ALTO, ma dall’altra parte Varrone È ORMAI UN RISTORANTE fine dining. C’è tanto

OLTRE LE CARNI

No 34

Gong, Milano a scatola dei desideri L

Ad un certo punto, uno dei commensali cominciò a volare. Un altro a cinguettare come se fosse un usignolo. Di fronte a me un maschio ha preso il microfono e si è messo a cantare, sembrava Chris Martin dei Coldplay. La donna di fronte si morsicava le labbra esattamente come a letto, con gli occhi socchiusi e il corpo che fremente. La sentivo, con quel mmmmmmmm appena sussurrato. E cosa dire dell’altra che dopo aver assaggiato il piatto che vedete si è mangiata pure il rossetto color baciami subito?

Io avevo perso i sensi e cercavo di ricordare un momento simile, per piacere e intensità: fu quando la accarezzai per la prima volta, con il nostri corpi che vibravano dal desiderio. Quando il cucchiaino ha poi toccato il fondo della scatoletta nella foto, beh lì è stato come il primo istante nel quale abbiamo fatto l’amore, quello vero: la tartare di scampi, fresca e invitante, ti apriva dei territori sconosciuti.

Tutto questo per dirvi che un piatto formidabile è formidabile per qualsiasi persona. Non c’è bisogno di alcuna spiegazione, non devi essere un esperto, che poi di esperti non esistono, perché si tratta di piacere e non di matematica per oxfordiani only. E poi al ristorante andiamo noi con le nostre fidanzate e mogli, vogliamo farle e vederle felici, tutto qui.

Chi vi vuol far credere che un piatto va spiegato e capito è solo un idiota e come tale va trattato. Se vi piace quello che state degustando non c’è alcun bisogno di altre parole: sarebbero solo dannose, farebbero sparire la magia. Quando baci una donna e ti senti in paradiso, con il cuore che batte a mille, c’è bisogno che un tizio ti spieghi qualcosa? No. Che ti faccia un discorso sulla serotonina e simili? No. E’ uguale al ristorante. Il piacere o è immediato o non lo é. Non esistono piatti difficili, cucine difficili, esistono solo dei deficienti che non sanno gustarsi la vita e vogliono guastare anche la vostra vita, oltre la loro.

Il consiglio è sempre lo stesso: mangiate senza limiti e pudori, vivete per i piaceri e tenete lontani i guastafeste. A proposito, il piatto magico è di Gong. Visto così forse non rende, la tartare di scampi è invisibile nella foto, però appena la assaggiate iniziate a volare e a cantare. E’ uno di quei piatti che alla vista suscita tanta curiosità e poco desiderio, poi dopo la prima cucchiaiata ti dimentichi di tutto e l’intero corpo viene travolto e rapito dalle forte sensazioni. Perché andiamo al ristorante per essere stupiti, non per una lezione sull’evoluzione della cucina.

CHI VI VUOL far credere

CHE UN PIATTO va spiegato e CAPITO È SOLO UN IDIOTA e come

tale va trattato. Se vi piace QUELLO

CHE STATE DEGUSTANDO

non c’è alcun bisogno DI ALTRE

PAROLE: SAREBBERO SOLO

dannose, farebbero SPARIRE LA MAGIA

No 35

onsulenze, perché sì C Andrea Berton

“L

avoravo da Ducasse. Un giorno venne in visita Paul Bocuse. Ero giovanissimo. Gli chiesi: chef, mi scusi, ma quando lei è via, chi cucina al suo posto? Mi rispose: gli stessi che cucinano anche con me presente”.

Andrea Berton mi aveva subito cazziato per aver scritto contro le consulenze dei grandi chef, considerandole dei bancomat. Non ero convinto allora e non sono molto convinto adesso. Lui invece ci crede. Ovviamente gli ho detto che ci crede perché è parte in causa e perché più consulenze si hanno, più si guadagna.

Mi aspettavo due sberle, difatti sono stato furbo e ci siamo sentiti al telefono. Ecco il suo punto di vista.

“Il mondo si evolve, guardate Ramsay e Ducasse. Hanno ristoranti ovunque e nessuno si sogna di contestare la loro mancanza fisica. Noi in Italia siamo ancora legati alla figura del cuoco sudato ai fornelli. Per carità, è una immagina che ci sta, però il mondo si è evoluto. Intanto, è sbagliato decidere di non venire a cena se lo chef é altrove. Ramsay è un maestro in questo, i suoi ristoranti sono sinonimo di qualità, ovunque.

Tutto dipende da come riesci a gestire le situazioni. Noi forse non siamo ancora pronti dal punto di vista culturale, siamo prevenuti, non accettiamo i cambiamenti, si va avanti con gli stereotipi, siamo troppo legati ai concetti tradizionali e rigidi: il cuoco grasso e sudato, un po’ grezzo.

Oggi viene tutto codificato, ci sono dei metodi di lavoro che, se applicati come si deve, funzionano. Un ristorante dove metti il nome senza essere sempre presente non va considerato un bancomat, bensì una attività operativa che fa parte del sistema di lavoro che hai generato. E’ un ramo d’azienda. Io uno vado alle Maldive due volte l’anno, non di più: e tutto funziona. Dipende da come organizzi e gestisci il lavoro. Nel 90 per cento dei casi funziona benissimo. Alcuni sostengono che se lo chef manca il rischio è che gli altri si rilassino: è falso. Come diceva Bocuse, hai sempre un braccio destro che comanda, anche in tua presenza.

Forse l’errore è anche nostro, degli chef, dovremmo insistere su questo punto, spiegare e raccontare come si lavora, sfatare i luoghi comuni. Quando prendi una consulenza, oppure apri un secondo ristorante, il metodo è identico alla tua prima apertura: devi avere un metodo di lavoro. Certo, non puoi aprire da oggi a domani: hai bisogno di tempo, di fare formazione, di organizzarti in maniera perfetta. Se poi non hai un metodo, amen.

Poi devi capire bene dove ti trovi: una è avere un ristorante all’interno di un albergo, un’altra è averlo in riva al mare, ogni consulenza è diversa, però il valore aggiunto è proprio questo, saper esaltare le proprie conoscenze in base alle esigenze”.

Va bene, chef. Ora ci penso.

NOI FORSE non siamo ANCORA PRONTI

DAL PUNTO di vista culturale, SIAMO PREVENUTI, non accettiamo I CAMBIAMENTI, si va avanti con gli stereotipi, SIAMO TROPPO LEGATI al concetto DEL CUOCO GRASSO e sudato, UN PO’ GREZZO

No 36

Cinque stelle a Milano aura del vuoto P

La ristorazione gode di ottima salute e soprattutto è al centro del mondo come mai prima. Anni fa gli alberghi cinque stelle lusso cercavano di convincere gli stilisti super star ad aprire i loro negozi negli spazi commerciali degli hotel: ora invece si ha la convinzione che sono i ristoranti fine dining a poter far salire il fatturato complessivo. La moda soffre, il food no: e soprattutto è evidente che un albergo con un ristorante stellato ha molte più possibilità di essere scelto dalla clientela, in primis quella straniera, che è anche la più danarosa.

Difatti le cifre dei risto e degli alberghi con risto sono in costante aumento. I ristoranti dei cinque stelle sono ormai sempre pieni anche a pranzo, pur senza le tante sospirate stelle (Magna Pars, Four Seasons, Park Hyatt, Ferragamo, Bulgari, Grand Hotel du Milan, dove è appena approdato come consulente Gennaro Esposito), mentre gli stellati vanno mediamente bene (Mandarin, per esempio).

Il problema è che stanno per aprire molti cinque stelle nel pieno centro milanese e di chef di grido che possano attirare un numero alto di clienti non ce ne sono: bel guaio.

A furia di ripetere che solo a Milano si possa fare un certo tipo di ristorazione si è perso il senso della realtà: non esistono chef con un tale seguito da garantire un fatturato di livello.

Nei prossimi mesi ci saranno tante aperture e tutti vorranno farsi belli presentando i ristoranti lussuosi: i soldi ci sono, mancano gli chef. Chi investe è assai intelligente da non cedere alle autocandidature di gente che ha fallito e fatto andar male le cose ovunque. Va bene che un hotel non vive di ristorazione e possa andare in leggera perdita, ma oggi nessuno vuole vedere un risto con tre persone sedute. Succedeva anni fa, ora non più, si punta ad un venti, venticinque per cento di fatturato grazie al food.

Visto che i Cerea e Bartolini non possono essere ovunque, diteci voi chi oggi garantisce un fatturato alto e il pienone. I nomi con la rassegna

stampa piena sono quelli che hanno i ristoranti vuoti, per cui non vanno bene: piacciono solo a chi si definisce critico, però la gente sana deride questi figuri e detesta gli chef esaltati dai così detti gastroilluminati. Le consulenze tri o bistellate a distanza sono un bagno di sangue, oltre a non convincere la clientela, che sente da lontano odor di farsa. Potrebbe funzionare un bistrot come quello di Bottura a Firenze, oppure un risto di Cannavacciolo (con la grande incognita della sua presenza, alquanto improbabile) per il resto è buio pesto. Perché quando si arriva ai numeri e al concreto, beh, lì non puoi mentire. Anche se in tanti sono bravi a farlo.

NEI PROSSIMI

mesi CI SARANNO TANTE

APERTURE e tutti vorranno

FARSI BELLI PRESENTANDO i ristoranti lussuosi: I SOLDI ci sono, MANCANO GLI CHEF

No 37

aciami qui B

Alto ristorante

Quassù qualcuno ti ama. Quel qualcuno si chiama Fabrizio Latino, lo chef del ristorante Alto, all’ottavo piano di un palazzo tutto vetri alle spalle del Duomo, in Largo Augusto, oh yeah. Pare una cartolina di un film londinese, oppure newyorkese, la differenza la fanno le guglie, la Madonnina e soprattutto i piatti di Fabrizio, appena tornato da Sankt Moritz, cittadina svizzera dove i simpatici vorrei ma non posso vengono esclusi a priori, vista la distanza da Milano e dintorni. Ho appena letto su Dagospia che va di moda prenotare nei ristoranti chic per sedersi e fare dieci selfie, poi inventare una scusa e lasciare il tavolo: a me pare follia pura, Cristiana Lauro invece ha visto ciò con i suoi occhi e lo ha scritto. Il ristorante dove lavorava Latino è appena entrato nella Michelin svizzera, lui invece ormai è qui, fiducioso che pure la rossa italiana gli farà visita. Con lui Alessio Truddaiu, un altro ragazzo ex Sankt Moritz che ho conosciuto esattamente dieci anni fa, al Bistrot Les Gitanes, posto incantevole che ai tempi scriveva la storia per via dell’ambiente e dell’atmosfera. Erano i tempi della modella argentina, ricordo una sera di metà settembre quando arrivò dopo di me e al suo

ingresso il ristorante si fermò, l’intero mondo si fermò per guardarla, tanto era bella.

Nessun amarcord, la vita va avanti, le donne di oggi sono ancor più belle, difatti questo è un post per voi uomini che volete conquistare ragazze sognanti: è aperto anche a pranzo, i piatti sono decisi e ben realizzati, vince a mani basse il raviolo quadrato ripieno di caciocavallo silano e nduja, roba da far tremare i polsi e rombare il sangue nelle vene. E’ un piatto maschile, deciso, decisissimo, paragonabile al viagra, ovviamente per i gourmand e non per fini maliziosi, perché dio se siete maliziosi.

Per le donne invece i ravioli al nero di seppia ripieni di cernia e cipollotto fondente, poi gli uramaki di wagyu e il lingotto di salmone arrostito ed affumicato.

Si mangia davvero bene, la vista è la classica polaroid di una volta, si può stare anche fuori, perché il riscaldamento spinge forte durante l’inverno. E’ un posto allo stesso tempo moderno e d’antan, nel senso che volendo puoi accenderti un sigaro in terrazza, senza dar fastidio ai salutisti e ai moralizzatori non richiesti.

E’ in pieno centro, si mangia seriamente, la vista è questa, difficile dire se è meglio passare all’ora di pranzo oppure la sera, dipende da come vi piace vivere. Forse durante l’inverno vale una visita in solitaria per un piatto veloce alle 13, mentre la sera, beh, è posto da grandi promesse e grosse aspettative. Il risto può fare da preambolo amoroso, l’ascensore può isolarvi dal mondo, poi vedete voi. Life is now

E’ APERTO anche a pranzo, i piatti SONO DECISI E BEN

REALIZZATI, vince a mani BASSE

IL RAVIOLO quadrato RIPIENO DI

CACIOCAVALLO silano e nduja, ROBA

DA FAR TREMARE i polsi e rombare

IL SANGUE NELLE VENE

No 38

Alzati e scappa iamo quello che mangiamo S

MANGIAMO SEMPRE

e ci innamoriamo spesso, PER QUESTO

LA CENA È L’ESAME PIÙ FACILE E

VELOCE: in due ore hai GIÀ CAPITO

TUTTO su chi volevi PORTARTI

A CASA

Quello che mangiamo racconta molto di noi? Certo. Quello che mangia chi abbiamo di fronte a noi influisce sul nostro giudizio su di lui? Certo. Influisce sul nostro desiderio di frequentarlo? Dipende, ma forse sì. Si accendono delle lampadine appena lo sentiamo o la sentiamo fare certi discorsi? Naturalmente sì. I due aspetti sono sempre più legati fra di loro. Chi mangia in maniera punitiva difficilmente si dimostra espansivo nell’arco della giornata, ancor più difficile lo vedi vestirsi in maniera curata e scintillante, spesso manca di entusiasmo e spirito d’iniziativa, a letto come altrove. Uno del genere solitamente è sciatto, nella conversazione e quando si tratta di lussuria carnale. Sono scelte, ci mancherebbe, ognuno a modo suo, si può vivere in mille modi e poi non deve piacere a noi come ha deciso uno di passare la sua esistenza: nessun giudizio. Qui si tratta di lampadine che si accendono. Per cui prima uscite insieme a mangiare, prima capirete chi volete far muovere i lombi dentro di voi. Mangiamo sempre e ci innamoriamo spesso, per questo la cena è l’esame più facile e veloce: in due ore hai già capito tutto su chi volevi portarti a casa.

Oggi quello che mangiamo dice molto su di noi. Quando affermiamo di essere vegani, carnivori o altro abbiamo già dato un’idea ben chiara. Dal punto di vista ideologico, politico, senza aver nemmeno toccato l’argomento politica in sé.

Lo si sa, sono ormai situazioni molto divisive, che portano subito a delle discussioni interminabili, sena vinti e vincitori: si perde solo del tempo ed è un peccato. Riuscite ad immaginarvi accanto ad una persona così lontana dalle vostre abitudini e soprattutto dai vostri piaceri culinari? Certo che no. Anche perché, al di là delle discussioni spiacevoli, dietro alle scelte alimentare si nascondono altre verità e modi di essere o di fare che sicuramente vi faranno allontanare. Chi sostiene che gli opposti si attraggono dice una inezia: non funziona, a partire dal mangiare. Immaginatevi con lui o con lei in vacanza, a fare colazione: non mangio quello, come fai a mangiare il croissant con burro e via discorrendo fino alla cena: una vita infernale.

Leggete qui: “Se al ristorante giapponese, davanti a una portata di sashimi, lui ti confida che va pazzo per i fagioli di soia, alzati e scappa.

Se al termine di una cena galante, rigorosamente soia free, invece di sfilarti la camicetta, insiste nell’esaltazione delle proprie doti culinarie, come se tu cercassi uno chef a domicilio e non un maschio, non pensarci una seconda volta: gira i tacchi e scappa”

Le parole sono di Annalisa Chirico, ma sembrano il vangelo. Per cui non prolungate l’agonia e non perdete tempo. La vita è breve.

No 39

Chiusure e menzogne Se sei bravo, riempi

Se volete aprire un ristorante, fatevi un giro nei ristoranti sempre pieni, ma anche nei ristoranti sempre vuoti. Si impara più da quelli sempre vuoti

Chiudono solo i ristoranti dove si mangia male e dove si sta peggio.

I pessimisti e quelli che fingono di non vedere la realtà dei fatti urlano sulle chiusure senza mai pronunciare i veri motivi. “C’è la crisi, chiudono un sacco”. Oppure “ci sono toppi ristoranti in giro, per questo alcuni vanno male”. A me piacciono quelli che sbrodolano dall’alto la fesseria delle fesserie, ovvero “Possono aprire tutti, per questo i professionisti di una volta chiudono, perché a tutti è permesso di aprire”. Studi

di settore, dati e associazioni che però non vanno mai nella profondità del discorso: difatti se uno si mette a pensare inizia a credere che tutto ciò servono solo a creare allarmismo.

Bene, ora diventiamo seri: avete mai visto un ristorante dove si mangiasse davvero bene ad aver chiuso? La risposta è semplice: no.

E poi scusate, i così detti professionisti della ristorazione non dovrebbero essere quelli che lavorano meglio? Lo so, avete la menzogna pronta, come sempre: la gente non capisce nulla, non sa apprezzare la qualità (certo, la sa apprezzare solo quando va da voi). Fatto sta che in tanti non riescono ad essere all’altezza, in tanti non riescono ad avere la giusta opinione di loro stessi, convinti come sono di essere bravi, di sicuro più bravi degli altri. Qui si apre un altro filone, quello dei “Non ho mai capito come riesce a riempire quello”.

Alcuni hanno chiuso perché, dopo decenni, non hanno più energie e nemmeno la voglia: ci sta, eccome. Sono quei ristoranti che hanno fatto i soldi fra gli anni sessanta e ottanta, quando non c’era una concorrenza spietata come oggi, quando la clientela era più o meno la stessa e quando non esistevano fatture, scontrini, controlli e nemmeno la cassa: il contante era l’unica forma di pagamento, con tutto quello che comporta. Si aggiunge il fatto che a quei tempi ogni sabato si organizzava un matrimonio, un battesimo: si narra che un mese del genere faceva sì che tu potessi comprarti una casa in montagna. Ecco, alcuni hanno pian piano mollato, non hanno più avuto l’energia per rinnovarsi, modernizzarsi, stare al passo. Così che il ristorante è diventato sciatto, polveroso e la cucina pure. Sono le uniche chiusure che hanno un senso: cessione di attività.

Qui però parliamo di quelli che chiudono perché la gente non ci va, e se non ci va un perché ci sarà: il menù, il servizio, l’arredo, l’insieme. Quando le persone inizieranno a non mentirsi, vedranno quello che vediamo tutti: quelli bravi lavorano, quelli meno bravi no.

Morale? Se volete aprire un ristorante, fatevi un giro nei ristoranti sempre pieni, ma anche nei ristoranti sempre vuoti. Si impara più da quelli sempre vuoti.

No 40

Toast, mon amour Goduria e passione

Che cos’è la felicità, che domanda inutile, quando la felicità pura si trova proprio davanti a te, ad un morso rapace di distanza. Accade da Ile Douce, pasticceria con chiare impronte francesi, anche se il burro è sempre troppo poco per i miei gusti, pur abbondando rispetto ad altri locali dove i pasticceri si sono sostituiti ai medici, offrendoci dolci punitivi, perché loro ci tengono che morissimo con il colesterolo perfetto, difatti sulla lapide verremo ricordati con i valori degli esami medici. Dominique Antognoni, 1968-3067, ci ha lasciati con ottimi indici, è morto in salute, complimenti.

Alla nostra salute pensiamo noi, grazie, siamo adulti consapevoli, siamo noi a scegliere il batticuore o la morte delle papille, difatti qui ormai mi conoscono e sanno che la goduria sia in cima ai miei valori, anche se va detto che Ile Douce ha la fila fuori proprio perché pensa alla felicità delle persone e non al referto medico. Unica osservazione, il pane lo avrei tostato e dorato con più burro, in tal modo da sporcarmi le mani, di vederle unte, perché così avrei apprezzato ancor di più la volgarità del toast, il suo essere verace e avrei avuto la consapevolezza di vivere un momento davvero intenso e indimenticabile.

C’è una scena a dir poco straordinaria nel film “Chef, la ricetta perfetta”, sì, quello dove Scarlet Johansson assaggia miagolando un piatto di pasta cucinato dal cuoco: lui prepara per suo figlio un toast sulla piastra piena di burro, così che diventa dorato e croccante da volerlo mangiare tu stesso. Il formaggio sfuso ti ipnotizza, alzi la mano chi non ha desiderato in quel preciso istante di alzarsi e di andare a prepararsi uno in cucina.

Perché il toast può essere pallido oppure pieno di vibrazioni, dipende tutto da cosa vuoi trasmettere e come vuoi far sentire i tuoi clienti. Spesso il toast sa di tristezza e sciatteria, di sesso matrimoniale fatto solo il sabato sera dalle 23 alle 23.03, come da protocollo cardinalesco e usanza fra coniugi stanchi e obbligati di vivere insieme per meri calcoli economici e soprattutto esigenze sociali.

Invece guardate qui, pare un pranzo ai tempi di Vatel.

Morale? Esagerate, mettete la passione al primo posto, ma anche al secondo e al centesimo, perché è lì che si fa tutta la differenza del mondo, vale per la vita sentimentale e per quella a tavola, ammesso e non concesso che ci siano delle differenze.

È per questo che uno ha la fila fuori e altri no: il cliente, cioè noi, percepiamo al volo dove impera la passione e vogliamo quello e solo quello, per i piatti punitivi ci sarà sempre tempo.

Life is now

IL TOAST può essere

PALLIDO OPPURE pieno di vibrazioni, DIPENDE

TUTTO DA COSA vuoi

TRASMETTERE E COME

VUOI FAR sentire I TUOI CLIENTI

No 41

L’atmosfera trasversale

Cosa cercano i clienti?

Di fronte a me, sul treno, una ragazza giovanissima. Penso non abbia più di 20 anni. È identica a Gwyneth Paltrow. Bionda, codino lungo, sorride sempre. Stupenda, davvero. Viso sognante e rilassante. La guardo e mi torna in mente il ristorante di Luca Natalini, Autem. Perché una sera a cena da lui mi sono reso conto che il ristorante ideale è quello dove puoi invitare la ragazza 20enne che incontri sul treno, così come l’imprenditrice 40enne, l’avvocatessa 35 enne e via dicendo. Può amare il cibo sofisticato oppure i piatti diretti e immediati, la cucina classica oppure quella sorprendente, di sicuro qui si sentirà a suo agio e mangerà con infinito piacere e voluttà.

Ecco, se pensi che tutte si sentiranno al loro agio, indifferentemente dall’età e dalla condizione sociale, vuol dire che in quel ristorante si sta da dio e che si mangia altrettanto bene. Per cui cari maschi, prendete carta e penna e annotate il nome del ristorante Autem, che fra l’altro è già entrato nella mia short list di posti dove si torna con immenso piacere. È ideale per un primo appuntamento e anche per la decima uscita insieme. È figo, punto.

Perché se te la immagini sorridere, seduta di fronte a te, vuol dire che in quel locale hanno pensato al cliente e non a loro stessi.

Sono pochi i ristoranti dove hai una sensazione del genere così netta. Autem lo è. Di Luca Natalini e del suo ristorante ne parlo anche nelle pagine accanto: è insolito e forse strano vedere due articoli sullo stesso protagonista nello stesso numero della rivista, però al di là che i temi sono diversi, il ragazzo se lo merita, eccome.

Perché da lui nessuno potrà sentirsi fuori luogo: è un oste nato, trasmette buonumore e voglia di mangiare. Il suo è un posto studiato per farti sentire rilassato e leggero, è il manifesto della convivialità intesa non come retorica, bensì come modo di passare le due ore in un ristorante. Pare banale, ma non lo è: lo scopo primo dei ristoranti dovrebbe essere questo, far deliziare e star bene i clienti, purtroppo in tanti se lo dimenticano. Piccola parentesi: l’esercito sguaiato di gastrofighetti petulanti non ha mai dedicato mezza parola all’atmosfera di un locale. Ossessionati come sono da loro stessi, concentrati come sono nel farsi complimenti da soli e accarezzare il proprio ombelico, complessati e malati di protagonismo, non provano alcun piacere che sia uno quando vanno al ristorante. Speriamo non vadano mai da Autem. Guasterebbero l’atmosfera, la intossicherebbero con la loro energia negativa e i cattivi propositi.

Qui c’è posto solo per Gwyneth Paltrow felici e sorridenti.

AUTEM È IDEALE

per UN PRIMO APPUNTAMENTO e anche per la decima uscita insieme.

È FIGO, PUNTO.

Perché se te LA IMMAGINI

SORRIDERE, seduta di fronte a te, VUOL DIRE che in quel locale

HANNO PENSATO al cliente e non A

No 42
LORO STESSI

La migliore al mondo Varrone Pizza

Si percepiscono le mie endorfine? Il mio corpo ne rilascia ormai senza soste. Chissà quando smetterà e semmai smetterà. Ma poi perché smettere? In fin dei conti viviamo per questo.

Quello che non potevo immaginare è che la pizza fosse un gigantesco pozzo di endorfina. Fatto sta che se continuo ad andare da Varrone pizza rischio di vivere un’euforia continua. Chiamalo rischio.

Gli scienziati sostengono che la principale fonte sia l’orgasmo. Poi, le forti emozioni. Tradotto, la marinara di Varrone.

Certo, nemmeno la margherita scherza. So bene che ho l’innamoramento facile, e meno male. Mi accendo spesso e raramente mi spengo.

Ora. La foto, come sempre rende poco. Vi assicuro che il rosso del pomodoro, e soprattutto l’intensità, siano introvabili da altre parti. Nitroglicerina.

Qualche anno fa Jonathan Gold, l’unico giornalista gastronomico ad aver vinto il Pulitzer (lo ripeto spesso perché non sia mai che i palloni gonfiati si credano troppo bravi), andò da Franco Pepe e sentenziò che la sua fosse la miglior pizza al mondo. Se vivesse ancora, probabilmente cambierebbe idea: anzi, tolgo il probabilmente. Sicuramente.

Il profumo del pomodoro ha invaso le mie narici all’istante. A più di dodici ore di distanza, il profumo persisteva. Per ricordare una sensazione simile dovrei tornare indietro di quattro anni. Il nome del

MASSIMO

MINUTELLI è un edonista, per DI PIÙ È VANITOSO, nel senso che impazzisce per la voglia DI VEDERTI su di giri nei suoi locali. Ha spinto i gusti al massimo PERCHÉ VUOLE vederti estasiato, VIVE per lasciarti A BOCCA APERTA

suo profumo non mi entrerà mai nella testa, ma lo riconoscerei fra mille altri. Come quello del pomodoro scelto da Massimo Minutelli per le sue pizze. Lo spalmerei sul corpo di una donna e poi lo mangerei tutto, con infinita lentezza.

Il cornicione pare un croissant francese. Ho chiesto all’esperta come si arriva ad un impasto del genere, ma è chiaro che io sia negato per i tecnicismi. Aggiungo, meno male. Monica Peroni mi ha spiegato per bene i vantaggi del poolish, ma dopo un nano secondo i miei pensieri venivano rapiti dal profumo del pomodoro e dalla leggerezza del cornicione. Si studia a scuola, al ristorante si mangia, si gode e si sogna.

Mai nella vita avevo percepito una tale passione dalla parte di un ristoratore: accade perché Minutelli è un edonista, per di più è vanitoso, nel senso che impazzisce per la voglia di vederti su di giri nei suoi locali. Ha spinto i gusti al massimo perché vuole vederti estasiato, vive per lasciarti a bocca aperta. E ci riesce. La tua gioia è la sua. Non saprei cos’altro scrivere. L’intensità e la bontà sono tali da lasciarti senza parole. Avevo letto da qualche parte che un piatto fortissimo ti trasmette dei poteri magici e che ti spinge di dirle che la ami da morire. Peccato che ieri era ero con una coppia di amici. Sarà per la prossima volta.

Andateci. La vita è troppo breve per non mangiare da Varrone Pizza.

No 43

Host, la scoperta Oven, che bontà

La vita è un bocconcino prelibato, anzi, uno dietro l’altro, senza limiti, pudori, rimpianti e rimorsi, semmai morsi pieni di voluttà, ingordigia pura.

Guardate qui e poi ditemi se la vita non è una affascinante goduria, per di più a portata di tutti.

Lo scatto e il fatto accadono ad Host, fiera stupenda, allo stand di X Oven, azienda che produce forni straordinari, sembrano delle fotocopiatrici e invece sono dei macchinari per cuocere la carne, il pesce e anche le verdure, e solo dio sa quanto fatico a scrivere, oppure pronunciare la parola verdure. Perfino loro, cibo solitamente triste e per le anime pallide, trovano un senso se toccate dalla magia dei forni appena nominati. Per la cronaca, a Milano c’è un risto molto chic, Dry Aged, dove tutto si cucina solo e solamente con i forni di X Oven: un caso raro, soprattutto se si mangia prevalentemente carne, ovvero non un posto dove i filetti e gli entrecote fanno le comparse.

Ora torniamo alla foto, ai piaceri selvaggi che poi sono quelli che ci fanno sobbalzare e pompare energia vitale. Alzi la mano chi non vuole subito questo bocconcino, chi non lo sogna e chi non prova un colpo al cuore per non averlo guardato, accarezzato, mangiato e divorato. Lo provo pure io per averlo fatto, figuriamoci chi si è perso una meraviglia del genere.

A proposito, torno con uno dei miei tasti preferiti, ovvero il fatto che gli allevatori, i macellai e i produttori di salumi e prosciutti devono tirare fuori l’orgoglio, camminare con il petto all’infuori ed essere fieri di quello che fanno. Il consumo di carne è in aumento, i ristoranti a tema sono sempre di più, per cui lasciate stare che le riviste di settori fingono di ignorarvi, facendovi sentire quasi dei poco di buono. La stampa è una, la vita è tutt’altra cosa, per capirlo sarebbe bastato vedere gli occhi di chi assaggiava il bocconcino della foto, preparato da Mattia Chiesa allo stand di X Oven, al padiglione 5. La carne è passione, battito di cuore, é sesso e amore, é gioia e vitalità, è tutto.

Se vi sembro leggermente più infuocato del solito é

perché più guardo la foto e più aspetto di tornare domani all’Host e ripetere il gesto, prendere fra le dita questo gioiello e farlo mio.

La foto è di Ioris Premoli, uno che nella classifica dei più bravi non può partecipare perché fuori categoria, però vi assicuro che dal vivo è tutto ancor più intenso, più godurioso e poi c’è il profumo della carne e la sua succosità infinita.

La carne è felicità.

ALZI LA MANO

chi NON VUOLE SUBITO

QUESTO bocconcino, chi non LO SOGNA e chi non PROVA UN COLPO AL CUORE per non averlo guardato, ACCAREZZATO, MANGIATO E DIVORATO

No 44
X

Verità di coppia

D omande e sorrisi

Usciamo a cena in due per inerzia di coppia, per il protocollo della stessa (“fine settimana andiamo fuori a mangiare” ), per timbrare il cartellino della buona creanza oppure per esplodere di felicità?

Avvertenza. Post che farà storcere il naso a chi si mente ogni santo giorno e lo fa perfino con convinzione, stile e nonchalance. Perché in fin dei conti ci si abitua e ci si sta perfino bene.

Per puro caso, di recente mi è uscito fra i ricordi un testo di Alessandro Piperno. Pazientate, lo metto alla fine, perché l’argomento dell’articolo non sono gli infelici, bensì quelli felici.

Poi la stessa sera, a cena da Gong, davanti a me c’era una coppia di giovani, ma non giovanissimi. Vedevo solo lei. No, stavolta non vi racconterò della donna mozzafiato, bensì di una ragazza molto carina, con un sorriso grande così, ma soprattutto con gli occhi che esplodevano di felicità. Era al settimo cielo perché si trovasse lì con lui, si capiva lontano un miglio che quello fosse l’unico posto dove voleva essere, l’avrebbe notato perfino il più infelice degli umani. Viso pulito, capelli lunghi, neri, ondulati. La classica brava ragazza. Il suo corpo pareva carico di una forza sovrannaturale che lo spingeva verso di lui, si vedeva che sognava di stare fra le sue braccia e non a mezzo metro di distanza. Forse era la loro prima volta insieme al risto, forse la millesima, chi lo sa. Fatto sta che erano felici di trovarsi lì, il suo visino era il manifesto della ragazza pazzamente innamorata.

Ed è qui che iniziano i malumori, perché la domanda è proprio questa. In quanti ieri sera, oppure l’altra sera o domani uscirete con la voglia pazza di guardare l’altro e stare assieme a lui?

I ristoranti sono un termometro straordinario per misurare la febbre del vostro rapporto, ovviamente se vi interessa farlo.

So anche la risposta: no. Però se per puro caso e miracolo avrete la voglia di vivere un attimo di sincerità, provate a farlo.

Perché se non vi interessa vivere serate e momenti dove il vostro corpo straripi di gioia, se non morite dalla voglia di guardare l’altro e stare con lui, beh forse si potrebbe evitare di uscire a cena e forse anche di stare insieme. La vita è breve, non accontentatevi.

Per la cronaca, il testo di Piperno era questo: “Perché le donne sono sempre deluse dagli uomini? Questo proprio non riusciva a capirlo. Non aveva amici delusi dalle mogli, tutt’al più un po’ scoglionati. E invece non gli veniva in mente una sola moglie che, opportunamente sollecitata, non finisse per confessare la propria insoddisfazione per l’ignaro consorte. Due sono le cose: o gli uomini sono di norma più deludenti, o le donne si caricano di troppe aspettative”.

IN QUANTI ieri sera, OPPURE L’ALTRA SERA o domani uscirete con LA VOGLIA

PAZZA DI GUARDARE l’altro e stare assieme a lui? I RISTORANTI

SONO UN TERMOMETRO straordinario per misurare la febbre del vostro rapporto, ovviamente se vi INTERESSA FARLO

No 47

“T

A casa, voi due Fuochi di passione

CUCINARE per lei SIGNIFICA INVECE PASSARE PIÙ TEMPO

INSIEME. Aprire una bottiglia, VEDERLA

CHIACCHIERARE SORRIDENTE e rilassata mentre tu prepari la cena, I PROFUMI DEL FORNO, il rumore delle padelle e DEL FUOCO

i va di cucinare per me?”. Ammettiamolo. E’ una frase che a noi maschi piace molto e infiamma tanto. E’ una dichiarazione d’amore, perché le donne la pronunciano con parsimonia: è dedicata a pochi, è intima. E’ un regalo. In pratica, è una promessa, é un preambolo passionale, un invito alla felicità.

Quando il cinema veniva pensato e realizzato per il pubblico, i film erano pieni di scene con lei che suonava il campanello presentandosi con una pelliccia e sotto nulla. Spero che da qualche parte possa ancora accadere. Di sicuro l’immagine incendia i pensieri, però la frase “Ti va di cucinare per me?” vale di più, presupponendo una serata, oppure una giornata intera. Vederla con la pelliccia e sotto niente intriga in maniera diversa, il che, siamo sinceri, a molti va meglio ed è un vero sollievo: sesso veloce e poi se ne va.

Cucinare per lei significa invece passare più tempo insieme. Aprire una bottiglia, vederla chiacchierare sorridente e rilassata mentre tu prepari la cena, i profumi del forno, il rumore delle padelle e del fuoco. Ora con il freddo tutto prende una dimensione ancor più coinvolgente.

Invitarla a mangiare fuori è eccitante, averla a casa tutta per te lo è molto di più. Non devi aspettare la fine del

pasto, in fin dei conti cucinare è solo un pretesto. Io uno sono per il sesso prima del mangiare, chi diamine riesce ad aspettare così tanto per spogliarla? Lo so, non esclude anche il dopo, per quanto in tanti considerino cheap e superato il fare all’amore. Loro hanno dei valori più alti e profondi: non infieriamo, sorridiamo e passiamo oltre. L’altro giorno una ragazza mi raccontò del perché a lei piace così tanto andare a casa del suo uomo e vederlo cucinare:

“Io adoro andare a mangiare a casa di colui che, in quel momento, ha il suo posto nel mio cuore. Adoro osservarne l’intimità dei suoi spazi, la cura con cui prepara i piatti per me quasi fosse un dono fatto a mano, la naturalezza del suo muoversi fra le sue cose. Osservo e conservo, felice di essere lì e di portare via con me quando me ne andrò. Contemplo rapita chi e ciò che mi si dedica. Il mangiare insieme è per me uno dei momenti più intimi di una storia fatta di innamoramento e passione”.

Ora con il freddo e il buio presto tutto ciò vale ancor di più: il caldo vero solo in casa, con i caloriferi che vanno a tremila, poi il profumo suo e quello delle pietanze che si mescolano, il silenzio e tutto il resto. Sì, la felicità è questa. Non perdete tempo, anche perché la vita passa così veloce.

No 48

Biologica.

il

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No 52
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