Dissensi & discordanze

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Corina Casanova Pietro Bellasi Gilberto Isella Gianfrancesco Beltrami Giancarlo Kessler Moreno Bernasconi Walter Leimgruber Fabio Bombaglio Giorgio Margaritondo Mario Botta Vincenzo Pacillo Rino Cammilleri Gianfranco Palazzoli Maurizio Canetta Lorenzo Planzi Ludovica Carlesi Manusardi Silvio Raffo Alfio Caruso Remigio Ratti Aldo Cazzullo Robi Ronza Marina Cavallera Gianbattista ‘Titta’ Rosa Cesare Cavalleri Jacques Rummelhardt Mario Cervi Anna Ruchat Cesare Chiericati Carlo Severgnini Italo Cucci Alberto Siccardi Mauro della Porta Raffo Cornelio Sommaruga Antonio Di Bella Giangiorgio Spiess Gianfranco Fabi Giovanni Maria Staffieri Adriano Fabris Nenad Stojanovic Sofia Fraschini Mauro Suttora Fabio Fumagalli Danilo Taino Luciano Garibaldi Nico Tanzi Michele Gaslini Enzo Tosi Paolo Granzotto Silvio Valisa Stefano Grazioli Teresio Valsesia Raymond Gremaud Marcello Veneziani

Svizzera + Schweiz + Suisse + Svizra + Schwiiz Anno III

Numero Speciale aprile 2015

Pubblicazione indicativamente semestrale ideata, diretta, edita da Mauro della Porta Raffo



Perché la Svizzera? MAURO DELLA PORTA RAFFO In pochissime parole? Semplice, perché da sempre è per noi del Nord, ma certo non solo, un sogno. Perché anche solo passare dall’altra parte della frontiera comporta un cambiamento e in meglio, naturalmente. Perché questi benedetti svizzeri sono in gamba (la qual cosa sta invero sulle scatole a qualcuno) e sanno come governare. Ricordo una oramai antica intervista a Indro Montanelli. Chiesero al toscanaccio quale mai passaporto, non fosse stato italiano, avrebbe voluto avere. “Quello svizzero”, rispose con naturalezza. Concordo. Concordiamo in tanti davvero!


DISSENSI & DISCORDANZE Pubblicazione indicativamente semestrale

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ideata, diretta, edita da MAURO DELLA PORTA RAFFO Numero Speciale | aprile 2015

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Design grafico e impaginazione PAOLO MARCHETTI www.paolomarchetti.net

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Numero Speciale aprile 2015

Pubblicazione indicativamente semestrale ideata, diretta, edita da Mauro della Porta Raffo

Ringraziamenti? Ai numerosi, di grande rilievo, competentissimi, intelligenti contributors che nelle pagine che seguono hanno tanto bene indagato, spiegato, sognato della amata Svizzera nonchĂŠ, in particolare, a Gianfrancesco Beltrami che ha animato e sostenuto questo progetto.


Si dice, si scrive, si afferma che nel 1832 Alexandre Dumas abbia effettuato, usando differenti mezzi di trasporto, un lungo giro della Svizzera. A riprova, tra il 1833 e il 1837, la pubblicazione di una serie di brillanti ed esaustivi articoli sotto il comune titolo ‘Impressions de voyage – en Suisse’. A quel che rammento, però, il grand’uomo, presentando in pubblico l’opera, ebbe a dire:

“Spero di venderne molte copie e di ricavare così il denaro che mi consentirà di visitare davvero i luoghi della terra elvetica dei quali ho narrato senza averli mai visti!” Alexandre Dumas



Contributors PIETRO BELLASI: sociologo dell’arte, docente universitario. Fra le mostre da lui curate, ‘Enigma Helvetia: arte, riti e miti della Svizzera moderna’ e la recente ’Segantini: ritorno a Milano’ a Palazzo Reale. GIANFRANCESCO BELTRAMI: avvocato con studio legale e notarile in Ascona, attivo in campo politico e sociale a livello locale e nazionale, presidente della Commissione Internazionale dei Giovani DC in Svizzera. MORENO BERNASCONI: giornalista e saggista, ha pubblicato studi sulla Svizzera e le sue istituzioni politiche. Già consigliere di fondazione di Pro Helvetia, siede nel Consiglio dell’Istituto svizzero di Roma. FABIO BOMBAGLIO: autore per diletto di noterelle di costume di valore, è avvocato in Varese e autorizzato dalla Camera per l’Avvocatura e il Notariato della Repubblica e Cantone Ticino ad esercitare nel cantone svizzero italiano. È altresì membro del Consiglio di Presidenza del World Trade Center di Lugano. MARIO BOTTA: architetto di fama mondiale. Ha realizzato opere nei cinque continenti. In Italia vanno ricordate, fra l’altro, il restauro della Scala di Milano, il MART di Rovereto e la Chiesa del Santo Volto di Torino. RINO CAMMILLERI: giornalista, scrittore, saggista, scrive sui giornali e cura da tempo una celebre rubrica quotidiana su ’Il Giornale’. Ha pubblicato coi maggiori editori nazionali oltre quaranta libri tra saggi e romanzi, molti tradotti all’estero. MAURIZIO CANETTA: giornalista, grande appassionato di sport, ha diretto i Dipartimenti sport, cultura e informazione della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana, di cui attualmente è il direttore.

ALDO CAZZULLO: giornalista e scrittore, ha lungamente lavorato a ‘La Stampa’ prima di approdare al ‘Corriere della Sera’. È particolarmente attento alle questioni politiche e sociali che ha trattato e affronta non solo sui quotidiani avendo pubblicato un notevole numero di libri d’inchiesta. MARINA CAVALLERA: insegna Storia Moderna all’Università di Milano. Si occupa di temi alpini, di problematiche migratorie e di mobilità, di confini e di documentazione cartografica. Numerose le sue pubblicazioni in Italia e all’estero. CESARE CAVALLERI: dirige le Edizioni Ares e il mensile ‘Studi cattolici’ dal 1965. Collabora ad ‘Avvenire’, di cui è stato anche critico televisivo, fin dal primo numero. Tra i suoi libri predilige la traduzione ritmica del ‘Libro della Passione’, del poeta e teologo cileno José Miguel Ibañez Langlois. MARIO CERVI: giornalista, inviato speciale tra i più grandi per il Corriere, saggista, è stato direttore de ‘Il Giornale’ che ha fondato con Indro Montanelli. Con lo stesso Indro ha scritto molti volumi della celebre edizione per Rizzoli della Storia d’Italia. CESARE CHIERICATI: giornalista professionista, ha lavorato all’Arnoldo Mondadori editore, al Giorno e alla Radio Televisione della Svizzera italiana. Ha diretto il quotidiano luganese ‘Il Giornale del Popolo’. ITALO CUCCI: giornalista, scrittore, editorialista, docente universitario, è stato direttore di numerose testate sportive (‘Guerin Sportivo’, ‘Stadio’, ‘Corriere dello Spor, ecc.) e di QN che raggruppa le testate ‘Il Giorno’, ‘Il Resto del Carlino’ e ‘La Nazione’.

LUDOVICA CARLESI MANUSARDI: laureata in fisica nucleare e giornalista e si occupa in particolare di temi scientifici. Tra le sue opere, ‘Il genio italico. L’eccellenza italiana nella fisica negli ultimi cinquant’anni’ e ‘Riciclare: idee anticrisi in cucina e in casa’.

MAURO DELLA PORTA RAFFO: reduce da un vita agitata, da poco più di vent’anni saggista, scrittore, editore, ‘il Gran Pignolo’, come è stato battezzato da Giuliano Ferrara, ha collaborato con le più importanti testate di lingua italiana. È il massimo studioso degli USA dal punto di vista storico/politico/istituzionale.

ALFIO CARUSO: giornalista, fu tra i fondatori de ’Il Giornale’ (il più giovane tra tutti). Oltre ai mille articoli vergati anche per il Corriere, ha pubblicato libri di vero interesse occupandosi di sport come della sua Sicilia e dei siciliani.

ANTONIO DI BELLA: è capo dell’ufficio di corrispondenza Rai da Parigi. Dal 2001 al 2009 è stato direttore del TG3 e poi direttore di Raitre. In precedenza già corrispondente da New York. Ha di recente pubblicato ‘Je suis Paris’, raccolta di indirizzi parigini.

CORINA CASANOVA: Cancelliera federale, responsabile della pubblicazione delle leggi federali svizzere. Giurista, nata nel Cantone dei Grigioni, parla sei lingue: retoromancio, italiano, francese, tedesco, inglese e spagnolo.

GIANFRANCO FABI: giornalista, prima ad ‘Avvenire’ e al ‘Il Giornale del popolo’ di Lugano, poi dal ’79 al 2009 al ‘Sole 24 Ore’ dove è stato per vent’anni vice-direttore.

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Contributors Direttore di Radio 24 dal 2008 al 2010. Docente di economia per il giornalismo alla Cattolica. ADRIANO FABRIS: professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa, dove insegna anche Filosofia delle religioni ed Etica della comunicazione. Dirige la rivista ‘Teoria’. Fa parte del Consiglio Scientifico della Fondazione Eranos (Ascona). SOFIA FRASCHINI:giornalista, dopo una breve esperienza alla cronaca di Milano de ‘Il Giornale’, ha lavorato per otto anni a ‘Finanza e Mercati’. Collaboratrice di ‘Panorama’, inviata per ‘L’Aria che Tira’ su La7, da due anni scrive per la redazione economica de ‘Il Giornale’. FABIO FUMAGALLI: critico cinematografico e giornalista, già membro della commissione artistica e del CdA del Festival internazionale del film di Locarno, nonché del gruppo di programmazione della Mostra cinematografica di Venezia. LUCIANO GARIBALDI: giornalista e saggista, è autore di oltre quaranta libri prevalentemente incentrati su fascismo, seconda guerra mondiale e anni di piombo. Il suo ‘Un secolo di guerre’ è stato tradotto in otto lingue, tra cui il cinese. MICHELE GASLINI: esule varesino riparato a Gorizia, dove l’eco della grandezza passata di un impero scomparso ancora aleggia lieve, ai piedi del Santuario ove riposano le spoglie mortali dell’ultimo legittimo Re di Francia, è docente di diritto pubblico all’università di Udine. PAOLO GRANZOTTO: chiamato da Indro Montanelli del quale ha scritto la biografia, fu tra i fondatori de ‘Il Giornale’ nel 1974 ed è da allora una delle più prestigiose firme del foglio milanese. Inviato, editorialista, uomo di cultura, da molti anni tiene una seguitissima rubrica dedicata ai colloqui con i lettori. Molte le sue pubblicazioni. STEFANO GRAZIOLI: si è spostato all’inizio sulla Sprea e da oltre vent’anni si muove tra Reno e Danubio, dalla Moscova al Volga, dal Dnepr al Mar Nero, raccontando quello che sta accadendo nello spazio postsovietico. Ha scritto qualche libro e se non avesse fatto il giornalista avrebbe potuto essere una grande ala destra. RAYMOND GREMAUD: corrispondente parlamentare a Palazzo federale per trent’anni, acuto osservatore della politica svizzera, si è dedicato allo studio del folclore della sua regione d’origine, la Gruyère, e della Confederazione elvetica. GILBERTO ISELLA: poeta e saggista poliedrico, è autore di diverse raccolte poetiche pubblicate in Italia e in Svizzera. Collabora con riviste e con quotidiani. Si è occupato e si occupa di letteratura, di cinema e di critica d’arte. GIANCARLO KESSLER: dopo il periodo di formazione a Berna e Madrid lavora come diplomatico a Berna, a Parigi alla Delegazione Svizzera presso l’OCSE e all’Ambasciata

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a Roma. Nel 2010 è nominato Ambasciatore e Capo della Divisione delle Politiche estere settoriali a Berna. Dall’agosto 2014 diventa Ambasciatore di Svizzera a Roma. WALTER LEIMGRUBER: professore ordinario di scienze culturali e etnologia all’Università di Basilea, conta fra i maggiori specialisti delle tradizioni, dei miti e dell’identità nazionale svizzera. GIORGIO MARGARITONDO: nato a Roma, fisico di fama internazionale, è professore ordinario di fisica applicata al Politecnico di Losanna, dove ha co-diretto le riforme strutturali che hanno spinto l’ateneo ai vertici del ranking mondiale. VINCENZO PACILLO: è professore associato di ‘Law and Religion’ nell’Università di Modena e Reggio Emilia, dove insegna anche Diritto dell’immigrazione. È stato visiting Professor nell’Università di Leicester ed ha insegnato, per contratto, Diritto ecclesiastico svizzero nella Facoltà di Teologia di Lugano. GIANFRANCO PALAZZOLI: gentleman driver tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta con lo pseudonimo di Pal Joe, successivamente direttore sportivo in Formula 1 e opinionista TV, è tra i maggiori esperti del mondo dei motori. LORENZO PLANZI: storico e ricercatore, si occupa di storia svizzera e regionale all’Università di Friborgo e per il Fondo nazionale svizzero per la ricerca. Collabora con il ‘Giornale del Popolo’ e il ’Popolo e Libertà’ di Lugano. SILVIO RAFFO: docente, narratore, poeta, traduttore, drammaturgo, ha pubblicato romanzi da uno dei quali, volumi di poesia che hanno vinto premi prestigiosi (Montale, Cardarelli, Gozzano). L’opera per cui è più noto è la monumentale traduzione delle poesie di Emily Dickinson per i Meridiani Mondadori. Dirige il centro culturale ’La Piccola Fenice’ e ha fondato il Premio Morselli. REMIGIO RATTI: economista, professore universitario e specialista di economia regionale e dei trasporti, è autore di saggi sulla Svizzera. Già direttore della Radiotelevisione svizzera e Consigliere nazionale. ROBI RONZA: giornalista e scrittore, editorialista del quotidiano ticinese ‘Giornale del Popolo’. Già inviato speciale del settimanale ’Il Sabato’ e capo redattore del mensile ’Bell’Italia’. Suoi libri si ritrovano nei cataloghi di Jaca Book, Mondadori e Rizzoli. GIANBATTISTA ’TITTA’ ROSA: laureato in filosofia del diritto, direttore del personale in aziende multinazionali, liberale classico per formazione e vocazione, occasionale pubblico amministratore per punizione. JACQUES RUMMELHARDT: diplomatico di carriera, laureato all’ENA, già ambasciatore a Panama, in Bulgaria, in Tailandia, in Belgio, è stato altresì ambasciatore di Francia in Svizzera, Paese che ama. È stato anche consigliere diplomatico del governo francese.


ANNA RUCHAT: nata a Zurigo, figlia dell’architetto Flora Ruchat, è traduttrice di grandi scrittori svizzeri come Dürrenmatt e Frisch. Ha ricevuto il premio Schiller e il premio Chiara per la sua opera di scrittrice.

Corrispondente da New York, columnist di ‘Newsweek’, autore di molti volumi tra i quali ‘Pannella&Bonino’, ‘No Sex in the City’, curatore del diario (autentico) di Claretta Petacci: ‘Mussolini segreto’.

CARLO SEVERGNINI: commercialista in Milano. Esperto di equitazione, di turismo equestre e di viaggi, su questi temi ha pubblicato diversi articoli e titoli. Cultore della poesia, nel 2013 ha dato alle stampe la raccolta ‘Per un Tempo più Lento’.

DANILO TAINO: è corrispondente da Berlino del Corriere. In passato si è occupato della City di Londra, di Asia, soprattutto di India, e molto di economia. È anche stato responsabile di ‘Corriere Economia’. Prima, è stato a ‘Reporter’, quotidiano vissuto solo un anno, e a ‘Mondo Economico’, settimanale un tempo glorioso ma poi chiuso: sostiene che in ambedue i casi non è tutta colpa sua.

ALBERTO SICCARDI: industriale da lungo tempo operante nel Canton Ticino, coltiva interessi nel campo sociale e non disdegna incursioni nella teoria politica. Ama la Svizzera d’un tempo per la quale nutre nostalgia. CORNELIO SOMMARUGA: avvocato e diplomatico svizzero, è stato presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa dal 1987 al 1999. La sua attività in campo sanitario e assistenzialistico a livello mondiale è ancora oggi cospicua essendo a capo di organizzazioni internazionali aventi come riferimento il diritto umanitario GIANGIORGIO SPIESS: avvocato svizzero di fama internazionale ha coltivato molteplici interessi in campo economico. Appassionato fra l’altro di calcio, già presidente del Lugano, ha ricoperto incarichi di rilievo nell’UEFA. È stato in particolare membro del comitato esecutivo del massimo organismo calcistico europeo dal 1996 al 2007. GIOVANNI MARIA STAFFIERI: di antica famiglia ticinese originaria di Bioggio. Studi economici e sociali all’Università di Zurigo; dal 1969 fiduciario professionista fino al 2009. Cultore e pubblicista di storia, storia dell’arte, numismatica, letteratura, politica. Deputato dal 1983 al 1995. NENAD STOJANOVIC: docente di scienze politiche alle università di Ginevra, Losanna, Lucerna e Zurigo. È autore di ’Dialogo sulle quote. Rappresentanza, eguaglianza e discriminazioni nelle democrazie multiculturali’ edizioni Il Mulino. MAURO SUTTORA: giornalista professionista, capo degli esteri al settimanale ‘Europeo’ fino al 1995, poi a ‘Oggi’.

NICO TANZI: dopo la laurea in lettere a Pavia ha lavorato per diversi quotidiani fra cui ‘Il Giorno’ e ‘La Regione’. Si è occupato di editoria, arte contemporanea, fotografia, pubblicità, marketing, social media. È communication designer alla RSI. ENZO TOSI: operatore da ripresa e direttore della fotografia, ha lavorato con alcuni tra i più importanti registi italiani. Conosce in specie il continente africano per avervi girato molti documentari. Oggi è docente presso la Scuola Cinema Milano e Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni Busto Arsizio. SILVIO VALISA: è nella diaspora dei nativi di Luino, dove ha avuto la ventura di nascere. Si è fermato a Varese, ma la sua attività gli ha fatto fare molti mestieri, studi vari, incontri ed esperienze. Di (quasi) tutto ha una buona memoria che considera il suo patrimonio più caro: a volte, con qualche esitazione, ne espone in pubblico un pezzetto. TERESIO VALSESIA: alpinista e giornalista, già vicepresidente del CAI, collabora con riviste alpinistiche e quotidiani in Svizzera e in Italia. Fra le sue molte pubblicazioni: ‘AlpiAlps’ e ‘Tour Monte Rosa-Cervino’. MARCELLO VENEZIANI: giornalista, saggista di forte vena polemica, è considerato uno degli esponenti di maggior peso nell’ambito della destra italiana. Ha collaborato con le maggiori testate, con varie tv, con Radio Rai, ha fondato e diretto settimanali, ed è attualmente editorialista de ‘Il Giornale’.

Berna

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Sommario ADRIANO FABRIS

—DISSENSI&DISCORDANZE— CORINA CASANOVA

La Svizzera parla molte lingue GIANCARLO KESSLER

È oggi la Svizzera sotto assedio? Se così è, riuscirà a resistere? GIOVANNI MARIA STAFFIERI

La Svizzera in cinque quadri e quattro principi fondanti

Alle pendici del Monte Verità 15

LUCIANO GARIBALDI

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MICHELE GASLINI

Noi e loro: la mappatura delle diatomee FABIO BOMBAGLIO

La terra con la quale condividiamo luce e colori

RINO CAMMILLERI

L’unica è andarsene in Svizzera ALFIO CARUSO

Una terra pronta ad accogliere gli sconfitti

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Mia nonna ascoltava Monteceneri LUDOVICA CARLESI MANUSARDI

La sfida elvetica alle nanotecnologie 28

VINCENZO PACILLO

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ROBI RONZA

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ANTONIO DI BELLA

Un mondo futuro, desertificato e popolato solo da svizzeri GIANFRANCO FABI

Immaginate la Svizzera

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ROBI RONZA

Lingue e federalismo svizzero Cosa fanno gli svizzeri dopo le sei di sera? Il potere della democrazia diretta

MAURO SUTTORA

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Andiamo a vedere cosa fanno lì MAURO SUTTORA

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La Svizzera è un bene da conservare ENZO TOSI

MARIO CERVI

Dichiarare guerra alla Svizzera

All’origine del federalismo svizzero

CARLO SEVERGNINI

ALDO CAZZULLO

Il fascino della patria alpina

Il ruolo della religione nella costruzione dell’identità svizzera

GIANBATTISTA ’TITTA’ ROSA

CESARE CAVALLERI

Svizzera? No grazie!

La tenuta democratica della Svizzera STEFANO GRAZIOLI

MARINA CAVALLERA

Frugando nella memoria

Il modello svizzero italiano

PAOLO GRANZOTTO

LA SVIZZERA, COME VISTA O SOGNATA DAGLI ITALIANI MAURO DELLA PORTA RAFFO

Il valore militare degli svizzeri

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Un elevato orgoglio nazionale SILVIO VALISA

Anni Quaranta/Settanta, gli svizzeri a Luino MARCELLO VENEZIANI

Arrenditi, Svizzera, sei circondata

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72 75 77

79 82 85 87 89

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ALBERTO SICCARDI

LA NOSTRA TERRA: LA SVIZZERA VISTA DAGLI SVIZZERI

Svizzera, un modello da difendere NENAD STOJANOVIC

WALTER LEIMGRUBER

Tradizioni e Italianità: la cultura popolare in Svizzera

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RAYMOND GREMAUD

GIORGIO MARGARITONDO

Un paese unico per i suoi investimenti nella materia grigia

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Il Paese delle montagne 106

MORENO BERNASCONI

La Svizzera nell’era postnazionale

Svizzera profonda: ovvero i misteri di un sottopassaggio REMIGIO RATTI

San Gottardo, ferrovia d’Europa – Caleidoscopio

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FABIO FUMAGALLI

GIANFRANCESCO BELTRAMI

I miti viventi della Svizzera. Crollo e rinascita

PIETRO BELLASI

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MAURIZIO CANETTA E NICO TANZI

Da Scacciapensieri al web: dietro e oltre ‘la Svizzera’ (nel senso della tv)

Città e campagna in Svizzera: contrasto o continuità? TERESIO VALSESIA

GIANGIORGIO SPIESS

Svizzera Paese di accoglienza? E il calcio?

La Svizzera, Paese di tradizioni viventi LORENZO PLANZI

ANNA RUCHAT

La (letteratura) Svizzera: Un sogno? Una visione? Una chimera? Viaggio nella Svizzera degli svizzeri che hanno scritto

Non solo federalismo. Come i referendum hanno unito la Svizzera plurilingue

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Il cinema e la Svizzera

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LE RIFLESSIONI DI UN EX AMBASCIATORE DI FRANCIA IN TERRA ELVETICA JACQUES RUMMELHARDT

La macchia bianca sulla carta geografica dell’ Europa

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LO SPORT ROSSOCROCIATO MAURO DELLA PORTA RAFFO

Il grande tennis svizzero ITALO CUCCI

La Svizzera nel pallone: il ‘catenaccio’ MAURO DELLA PORTA RAFFO

Il mitico sci svizzero CESARE CHIERICATI

Ferdy Kùbler

CESARE CHIERICATI

Hugo Koblet

CESARE CHIERICATI

Il ciclismo svizzero

MAURO DELLA PORTA RAFFO

Tour de Suisse e Tour de Romandie

156 160 164 170 175 178 181

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MAURIZIO CANETTA

Il glorioso pugilato svizzero

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MAURIZIO CANETTA

La lotta svizzera

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MICHELE CASTELLETTI INCONTRA GIANFRANCO PALAZZOLI

Clay Regazzoni

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Il Comitato Internazionale della Croce Rossa e il diritto internazionale umanitario MARIO BOTTA

Le Corbusier, da La Chaux-de-Fonds alla cultura mediterranea GILBERTO ISELLA

Paul Klee

MAURO DELLA PORTA RAFFO

Albert Gallatin, ministro del tesoro degli Stati Uniti d’America

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Antoine-Henri de Jomini

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A CURA DI SOFIA FRASCHINI

Eduard Locher: la cremagliera del Pilatus ma non solo

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SILVIO RAFFO

Robert Walser

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SILVIO RAFFO

SVIZZERI EMINENTI DI IERI E DI OGGI CORNELIO SOMMARUGA

MAURO DELLA PORTA RAFFO

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Annemarie Schwarzenbach, angelo devastato e imperdonabile

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Rolex

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D&D INCONTRA IL DIRETTORE HANS WIEDEMANN

202

206 209

Il Palace Hotel di St Moritz

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Reto Mathis, un’eccellenza svizzera d’oggi

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Maura Wasescha

236

Saint-Cloud, 19 febbraio, anno 11° della Repubblica francese...

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Cronologia svizzera

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Dissensi & Discordanze

La Svizzera parla molte lingue CORINA CASANOVA CANCELLIERA DELLA CONFEDERAZIONE SVIZZERA

«Jeu haiel dus lungatgs-mumma.» e «Eu n’ha duos linguas maternas.», ma «Eigentlich habe ich sogar drei Muttersprachen.»

C

hi scrive queste frasi sostenendo di avere tre lingue madri si sta forse servendo di un fantasioso linguaggio babelico? No, le frasi citate descrivono la realtà svizzera. L’autrice del presente articolo è cresciuta con tre lingue: due idiomi del romancio (sursilvan e vallader) e il tedesco. La sua patria sono i Grigioni, un cantone in cui sono di casa anche altre lingue: tre altri idiomi romanci (sutsilvan, surmiran, puter) e l’italiano. Oltre a caratterizzare i Grigioni, il plurilinguismo contraddistingue tutta la Svizzera. Il nostro paese è attraversato dalle Alpi. Al nord si parla soprattutto il tedesco, al sud l’italiano. Il Gottardo collega queste due regioni fungendo da confine linguistico. Nella Svizzera occidentale è di casa il francese, in quella sudorientale regna il plurilinguismo dei Grigioni appena descritto. Il pluralismo linguistico è espressione delle diverse appartenenze culturali del popolo svizzero e si rispecchia anche nell’organizzazione statale. Noi Svizzeri possediamo lo charme francese, numerose virtù tedesche – lascio ai benevoli lettori il piacere di immaginarsele – e una vivace italianità. Non siamo forse la migliore miscela di tutte le belle qualità dei grandi popoli europei? Nella sua molteplicità la struttura dello Stato svizzero rispecchia le diverse lingue e culture. La Svizzera ha una struttura federalista poiché soltanto così può rimanere unita. Ed è questa struttura che la rende forte. La volontà di coesione porta all’unità nella diversità. Per la Svizzera identità significa convivenza nella diversità.

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Tutti e ventisei i Cantoni hanno bisogno di autonomia, e la meritano. Non sono unità amministrative astratte, bensì pilastri della Confederazione Svizzera ed elementi di identificazione. È questo il terreno fertile su cui cresce e prospera il plurilinguismo svizzero. L’appartenenza cantonale e linguistica è un elemento d’identificazione importante per ogni cittadino e lo Stato fa molto per promuovere questo legame. Tedesco – francese – italiano – romancio: tutte sono riconosciute come lingue nazionali e sostenute dallo Stato. Circa il sessantacinque per cento della popolazione parla il tedesco, il ventitre per cento il francese, più dell’otto per cento l’italiano e meno dell’uno per cento il romancio. Lo Stato le promuove in vario modo: a livello federale le tre lingue maggiori (ossia il tedesco, il francese e l’italiano) sono considerate lingue ufficiali paritarie. Tutte le pubblicazioni ufficiali e gli atti normativi sono redatti in tre lingue; nessuna prevale sulle altre, nessuna è considerata una mera traduzione. In caso di divergenze nel contenuto, ai fini dell’interpretazione corretta si confrontano tutte e tre le versioni. Nella corrispondenza con le autorità e nei dibatti parlamentari ciascuno può scrivere o parlare nella propria lingua. Anche la società svizzera per la radiotelevisione dà grande rilievo al plurilinguismo. Il gettito del canone e i ricavi dalla pubblicità non sono distribuiti sulle regioni linguistiche in proporzione al numero di abitanti; una parte notevole dei ricavi realizzati nella Svizzera tedesca sono messi a disposizione delle emittenti in lingua francese e soprattutto di quelle in lingua italiana. Indipendentemente dalla loro dimensione, occorre garantire che le tre regioni linguistiche possano usufruire di programmi equivalenti. Seppure in misura leggermente ridotta, anche il romancio ha i propri programmi radiotelevisivi. Va inoltre detto che i programmi della Svizzera italiana trovano grande riscontro anche in Italia. Si tratta di un fatto positivo, poiché, per quanto riguarda la lingua, l’Italia e la Svizzera sono legate da una comunanza di destini. A parte San Marino, la Città del Vaticano e piccole regioni in Slovenia e Croazia, non esistono altri Paesi in cui l’italiano assuma una tale importanza come lingua ufficiale. Durante il boom economico degli anni Sessanta molti Italiani sono emigrati in Svizzera dove hanno trovato lavoro e tanti vi sono rimasti per sempre. L’italiano non è quindi soltanto la lingua del Ticino e delle val-

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li meridionali dei Grigioni, ma pure, anche se solo parzialmente, una lingua della Svizzera tedesca e della Svizzera francese. Nonostante l’immigrazione dall’Italia non sia più ai livelli degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con una quota pari al sedici per cento gli Italiani continuano a essere il gruppo più folto di stranieri in Svizzera. E anche i figli e i nipoti, in parte naturalizzati, degli immigrati curano la loro ’italianità’, contribuendo alla molteplicità culturale al nord delle Alpi. Le ‘little Italy’, ossia i quartieri di immigranti italiani che sono nati in molte città nordamericane, da noi non esistono. In Svizzera l’italianità – la cucina, il design, la moda e lo stile di vita – si è diffusa ovunque. Anche questo fa parte del ‘melting pot Svizzera’: nonostante una quota record di stranieri, pari quasi al venticinque per cento, il nostro paese è finora riuscito a integrare immigrati provenienti da ogni parte del mondo, impedendo la nascita di ghetti. Ovviamente il plurilinguismo non è perfetto. Nonostante tutto domina la lingua tedesca e le altre lingue devono costantemente difendere la propria causa: il francese nei confronti del tedesco, l’italiano nei confronti del francese e del tedesco, il romancio sempre e comunque. A tutto questo si aggiunge la sfida costituita dall’inglese. Nell’insegnamento scolastico delle lingue, il francese e l’italiano devono lottare contro la concorrenza dell’inglese, che diventa sempre più importante anche come lingua della scienza. Con l’affermazione dell’inglese, gli ottimisti vedono confermata l’apertura della Svizzera verso il mondo, i pessimisti, invece, temono che presto le nostre diverse regioni linguistiche potranno comunicare tra di loro soltanto in inglese. La sfida è particolarmente ardua per l’italiano, la meno diffusa delle nostre lingue ufficiali. Oltre a quella dell’inglese, nella Svizzera tedesca e francese la lingua di Dante subisce pure, e in misura sempre maggiore, la concorrenza dello spagnolo. Anche se – o forse proprio perché – pizza e pasta fanno da tempo parte della loro vita quotidiana, molti studenti liceali e universitari sembrano più attirati dallo spagnolo, ‘lingua mondiale’, che dall’italiano, lingua nazionale. È quindi tanto più importante che la Svizzera continui ad avere la forza di mantenere e promuovere il proprio plurilinguismo, di considerare le proprie diversità e le numerose minoranze un punto di forza e di rimanere una nazione basata sulla volontà, che fonda la propria identità sulla diversità. —


Dissensi & Discordanze

È oggi la Svizzera sotto assedio?

Se così è, riuscirà a resistere? GIANCARLO KESSLER AMBASCIATORE DELLA SVIZZERA IN ITALIA

O

rmai è passata l’epoca in cui gli ambasciatori potevano affermare di essere i rappresentanti ‘straordinari’ e ‘plenipotenziari’ del loro governo con pieni poteri e facoltà di negoziare e firmare trattati internazionali per conto del proprio stato. Viviamo ora un’epoca in cui la comunicazione è pressoché immediata in un contesto economico e culturale globalizzato. I capi di governo e i ministri si conoscono personalmente, s’incontrano più volte l’anno. Gli eventi sono riportati immediatamente dai media. Il Dipartimento degli esteri a Berna è a volte informato prima del personale diplomatico che si trova all’estero. Inoltre l’opinione pubblica del paese di residenza può facilmente farsi un’opinione sulla Svizzera o su eventi particolari utilizzando i vari canali d’informazione, radio, televisione e internet. Questo non vuol dire che il mestiere del diplomatico o il ruolo dell’ambasciatore sia diventato obsoleto, semplicemente esso è evoluto. Se una volta un diplomatico si concentrava nel difendere gli interessi e i valori svizzeri, ora si è passati a un’attività multifunzionale. Si svolge una costante funzione di ‘analista/traduttore’ che deve spiegare ai propri interlocutori, in patria e nel luogo dove si è accreditati, il perché di certe situazioni o reazioni, affinché le due parti si capiscano meglio, collaborino e possano trovare le migliori soluzioni ai problemi. Un altro ambito di attività è anche la diplomazia pubblica. Oggigiorno è necessario sfruttare le opportunità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione per meglio far conoscere le qualità e particolarità svizzere, siano queste inerenti al sistema politico, a quello economico, alla ricerca, al sistema educativo, alla cultura o al turismo.

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UNA PARTICOLARITÀ SVIZZERA Una particolarità che determina il modo di lavorare del diplomatico svizzero è il fatto di provenire da un paese ‘costruito dal basso’. Basta pensare alla storia svizzera, che ha visto la Confederazione svilupparsi grazie alla volontà di popolazioni locali di aggregarsi, al sistema politico costituzionale in cui vige il primato della sussidiarietà o, ancora, al modo in cui vengono concepite le leggi, che prevede una larga consultazione, a livello politico, istituzionale e della società civile, prima che esse vengano presentate in parlamento. Questa caratteristica peculiare influenza grandemente il modo in cui un diplomatico svizzero svolge il proprio lavoro e lo differenzia, in alcuni casi sostanzialmente, dai colleghi che rappresentano altri paesi all’estero. Quando negoziamo, spesso non abbiamo un piano predefinito, stabilito dall’alto a tavolino. Dobbiamo prima informarci su cosa pensa l’opinione pubblica e le parti coinvolte. Su questa base si cercano soluzioni pragmatiche. Man mano che i negoziati progrediscono, è necessario consultare le parti interessate per affinare le posizioni e definirne i dettagli. LA SVIZZERA SOTTO ASSEDIO? La Svizzera, sulla base della sua neutralità e forte della sua tradi-

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zione umanitaria, ha potuto vivere un periodo relativamente tranquillo durante il dopoguerra. La politica estera era sovente quella dei buoni uffici, la Svizzera era apprezzata per il suo ruolo di mediatore. Dopo la fine della guerra fredda alcuni capisaldi sono venuti meno. Ne sono seguite revisioni storiche sul ruolo della Svizzera durante la seconda guerra mondiale e le questioni legate al segreto bancario. In particolare, in seguito al rafforzamento della sua economia e allo sviluppo della sua importante piazza finanziaria, la Svizzera si è trovata a competere internazionalmente e, talvolta, ad intaccare interessi di altri paesi. La situazione geopolitica multipolare e la crisi finanziaria globale ci hanno progressivamente posto di fronte a nuove sfide. L’Unione Europea non è più quella composta di sei o nove membri ma si estende su tutto il continente ed i rapporti di forza sono cambiati. Parte della popolazione si chiede dove sono finiti i nostri amici? Ma già Charles de Gaulle diceva che “gli stati non hanno amici, hanno solo degli interessi”. DOBBIAMO RESISTERE? Non credo che resistere sia la parola giusta. La Svizzera ha sempre saputo far fronte alle sfide della storia dando delle risposte pragmatiche, trovando la giusta miscela tra mante-


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nimento di quel che funziona e adattamento alle nuove realtà. Si tratta per noi di portare avanti una politica che ci permetta di continuare a prosperare nel rispetto dei nostri valori fondamentali. Per questa ragione, la collaborazione con i nostri vicini è di capitale importanza. Come piccola economia aperta, la Svizzera ha interesse che gli scambi internazionali avvengano nel rispetto dei principi promossi dalle organizzazioni internazionali e contemplati dal diritto internazionale affinché si possa avvalerci della forza del diritto. Se le relazioni internazionali sono determinate esclusivamente da rapporti di forza, più alto è il rischio per un paese piccolo di essere l’oggetto di possibili pressioni e del libero arbitrio. Questo vuol anche dire che per approfittare della globalizzazione dobbiamo rispettare le regole del gioco che valgono per tutti. E sarà nostra premura vegliare a che le regole vengano anche da tutti applicate. Per far fronte alle sfide odierne la Svizzera non deve perdere di vista i principi su cui si basa il suo successo: un’economia liberale, aperta verso l’estero e la concorrenza; un sistema educativo e della ricer-

ca competitivi, che mirano all’eccellenza e quindi per definizione sono aperti ai migliori talenti, siano essi professori o ricercatori; delle condizioni quadro che permettono alle imprese di svilupparsi e premiano l’iniziativa e l’innovazione; una legislazione coerente e comprensibile e un’amministrazione della giustizia efficace e rapida; una politica interna ed estera improntata a sani principi (e non ad un comportamento opportunistico), che mettono al centro della loro azione il rispetto della libertà, la pratica democratica, la convivenza pacifica, la solidarietà ed il rispetto dell’ambiente. È in conformità a questi principi e di una loro coerente applicazione che la Svizzera è rispettata e ascoltata anche dalle grandi nazioni. A questo proposito, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan affermò che “Switzerland is punching above its weight”. Se sapremo mantenere la rotta e non cadremo in facili soluzioni di ripiegamento su noi stessi, sono convinto che riusciremo a superare le difficoltà attuali e continuare a far valere le nostre qualità sia a livello economico che politico. —

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La Svizzera in 5 quadri e 4 principi fondanti GIOVANNI MARIA STAFFIERI

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NASCITA E SVILUPPO DELL’ALLEANZA PERPETUA 291 – principio del mese d’agosto: “Nel nome del Signore, amen” le comunità di Uri, Svitto e Untervaldo, riunite in assemblea sul prato del Grütli, firmano un patto perpetuo di mutuo sostegno e difesa. Sono tre fiere comunità rurali, libere e democratiche che, pur riconoscendosi formalmente parte del Sacro Romano Impero, rifiutano ogni limitazione della loro sovranità. Qui stanno le origini storiche della Confederazione Svizzera; qui è consegnato il suo primo principio fondante: libertà e democrazia. Da allora, e fino al 1513, altri dieci comunità o cantoni entrano a far parte del patto costituendo la Lega dei tredici cantoni; sono veri e propri piccoli stati con attive relazioni politiche ed economiche con le grandi nazioni europee, cui fornivano ben addestrate milizie mercenarie. La Lega dei “Signori svizzeri” non era esente da ambizioni territoriali e giunge fino a occupare l’intero Ducato di Milano dal 1512 al 1515, anno in cui la sconfitta del suo esercito alla battaglia di Marignano la fa rientrare nei confini storici trattenendosi le terre dell’attuale Cantone Ticino quale paese soggetto ma nel pieno rispetto delle autonomie amministrative locali. Questa situazione istituzionale dura per secoli, fino allo scoppio della Rivoluzione Francese che sconvolge l’intera Europa. Con la Pace di Westfalia del 1648, che conclude la Guerra dei trent’anni, la Lega Svizzera diventa anche formalmente indipendente dal Sacro Romano Impero. COLLASSO E DISSOLUZIONE DELL’ANTICA LEGA I tredici cantoni sovrani riuniscono periodicamente i loro rappresentanti in “Diete” che emanano decisioni giuridicamente vincolanti per tutti.

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Napoleone, Imperatore di Francia e Re d’Italia, Protettore della Confederazione del Reno e Mediatore della Svizzera. Claude-Louis Desrais, stampa, Bibliothèque nationale de France, département Estampes et photographie

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Nei secoli i governi di alcuni di essi, in particolare quelli di Berna e Zurigo, assumono un carattere spiccatamente oligarchico e dominante in seno alla Lega. La fine della monarchia assoluta francese a seguito della rivoluzione del 1789, la fondazione della Repubblica sui concetti di libertà, eguaglianza, fratellanza e la sua difesa da parte di un esercito repubblicano agguerrito, motivato e aggressivo suonano come un campanello d’allarme per la Lega dei tredici cantoni. Nel febbraio 1798 l’esercito francese del Direttorio entra trionfalmente nell’Elvezia. La Lega è impreparata all’invasione e tutto il suo territorio, compreso quello dei paesi soggetti, è occupato dalle truppe francesi. Viene sciolta politicamente la Lega dei tredici stati, sono soppressi i governi oligarchici e instaurata la “Repubblica Elvetica, Una ed Indivisibile”, centralista, sul modello di quella francese, con una propria costituzione, suddivisa in ventidue “Cantoni” nel senso di Prefetture dipendenti dal governo centrale o Direttorio. Inizia un quinquennio non di pace e benessere, ma di continua e violenta guerra civile tra la fazione degli “unionisti” filofrancesi e quella dei “federalisti” sostenitori delle autonomie locali. Una situazione a lungo andare insostenibile anche da parte della pesante tutela francese, da cui uscirà tuttavia, grazie al genio

politico di un toscano, quella soluzione istituzionale ottimale che regge tutt’oggi la Svizzera. LA MEDIAZIONE E LA CREAZIONE DEL FEDERALISMO ELVETICO Con il colpo di stato del 18 brumaio (9 dicembre) 1799 il generale Napoleone Bonaparte, nato in Corsica da una famiglia di origine toscana, rovescia il Direttorio francese, scioglie il Parlamento (Consiglio dei cinquecento), costituisce un triumvirato di Consoli ed assume ogni potere in qualità di Primo Console della Repubblica iniziando la sua irresistibile (fino al 1814) carriera politica. Non è questa la sede per esprimere un giudizio storico globale sul Bonaparte, ma ci preme ricordare in senso positivo quello che concerne il comportamento, assolutamente geniale e lungimirante (ancorché, ovviamente, finalizzato agli interessi francesi), da lui in persona assunto nei confronti della esplosiva situazione creatasi con la fondazione della Repubblica Elvetica. Di fronte alla guerra civile generalizzata nella Repubblica Elvetica, il 30 settembre 1802 Napoleone annuncia la sua “mediazione” e ordina la convocazione a Parigi della Consulta dei deputati dei cantoni – prefetture per dare un assetto istituzionale stabile e definitivo all’Elvezia.

Entrata del generale Bonaparte nella città di Basilea, 24 novembre 1797. Ludwig Friedrich Kaiser, stampa, Bibliothèque nationale de France, département Estampes et photographie

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Johann Peter Krafft, prima del 1828, Ingresso dell’imperatore Francesco II a Vienna dopo la Pace di Parigi il 16 giugno 1814

Il 10 dicembre 1802 si tiene la seduta costitutiva della Consulta, alla quale il Primo Console rivolge un vibrante messaggio che costituisce il manifesto politico-ideologico della sua visione di una nuova Elvezia federalista, affermando fra l’altro: “La Svizzera non assomiglia a nessun altro Stato... La natura ha fatto il vostro Stato federalista: volerla violare non può essere da uomo saggio... La neutralità del vostro paese, la prosperità del vostro commercio e un’amministrazione famigliare sono le sole cose gradite al vostro popolo e che possono mantenervi vitali...”. Due giorni dopo, irritato di fronte al rinascere in seno alla Consulta Elvetica delle rivalità fra rappresentanti unionisti e federalisti, Bonaparte convoca nella sua residenza di Saint Cloud una delegazione ristretta di cinque di loro pronunciando, a braccio, un lungo e articolato discorso in cui è ancora più esplicito e categorico: “Il ristabilimento dell’antico ordine di cose nei Cantoni democratici è ciò che vi ha di più conveniente e per voi e per me. Questo è quello che vi distingue nel mondo e vi rende interessanti agli occhi dell’Europa. Senza queste democrazie, voi non presentereste nulla che non si trovi altrove: voi non avreste niente di colore particolare: riflettete bene all’importanza di avere tratti caratteristici: questi allontanano l’idea d’ogni rassomiglianza cogli altri Stati, di confondervi con essi o di incorporarvi... Lo so bene, che il regime di queste democrazie è accompagnato da molti inconvenienti, e che urta coll’esame della ragione; ma infine esiste da più secoli: ha la sua origine nel clima, nella natura, nei bisogni e nelle abitudini primitive degli abitanti: esso è conforme al genio dei luoghi, e

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non è necessario invocare la ragione a fronte della necessità... Allorché l’uso e la ragione si trovano di fronte, è il primo che prevale”. Sono parole d’impressionante attualità, ma anche l’espressione della volontà ferma e convinta di giocare una carta politica vincente nel tempo. Ai deputati della Consulta non rimane a quel punto – per nostra fortuna – che accettare la mediazione del Primo Console, il quale fa allestire dai suoi collaboratori il testo definitivo dell’Atto di Mediazione, firmato e promulgato a Saint Cloud il 19 febbraio 1803: “In nome del Popolo Francese” e così intitolato: “Atto di Mediazione del Primo Console per la Svizzera, che contiene l’atto federativo della Repubblica e le costituzioni particolari dei diciannove cantoni”. La Repubblica Elvetica è così liquidata senza rimpianti e la Svizzera entra nella storia moderna: si afferma e si consolida il principio del federalismo svizzero. Come vedremo, l’edificio istituzionale della mediazione napoleonica durerà nella sua struttura essenziale oltre la fine della parabola storico-politica dell’imperatore dei francesi. Va altresì ricordato che con il 1803 il Cantone Ticino riceve finalmente la sua unità territoriale e la sua autonomia politica e amministrativa. Ai cantoni è parimenti concesso il diritto di battere moneta propria e la maggior parte ne fa uso fino al 1848. 1815-1848-1874: LA RESTAURAZIONE E LA RIGENERAZIONE Il Congresso di Vienna del 1815 seguito al bellicoso periodo


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napoleonico e dominato dalla Santa Alleanza imprime una svolta restauratrice agli stati europei ma, per quanto concerne la Svizzera, non solo lascia intatto l’edificio istituzionale federalista creato dal Bonaparte, ma lo accresce di altri tre cantoni: Ginevra, Neuchâtel e Vaud, portando a ventidue componenti la Confederazione, pur favorendo in seno agli stessi dei regimi marcatamente autoritari e proclamando la neutralità perpetua armata del Paese. In Ticino è il periodo dei “Landamani” dominato dalla forte personalità di Giovanni Battista Quadri, ma anche dall’unificazione del codici civile con il codice penale e dalla realizzazione di importanti opere pubbliche (rete stradale). Con il 1830 parecchi Cantoni, fra cui il Ticino, varano costituzioni di stampo liberale e nel 1848, dopo la “guerra del Sonderbund”, il cruento conflitto armato tra cantoni cattolici e riformati, una nuova Costituzione Federale liberale abolisce l’antica Dieta legislativa dei deputati dei cantoni e istituisce il sistema bicamerale perfetto dell’Assemblea Federale composta dal Consiglio Nazionale (camera del popolo) e Consiglio degli Stati (camera dei Cantoni), mentre il governo è affidato a un Consiglio Federale di sette membri: questa impostazione è rimasta immutata fino ad oggi: è il momento della “rigenerazione”. La capitale è fissata a Berna, viene unificata la moneta, la difesa nazionale, la posta: insomma sono centralizzate parecchie funzioni pubbliche lasciando sempre ai cantoni un’ampia autonomia politica e amministrativa. La successiva revisione costituzionale del 1874 accentua in senso laico radicale la riforma del 1848, specie nel campo dei rapporti tra Stato e Chiesa ma gettava anche le prime basi dell’unificazione del

diritto civile e penale, compiuta parecchi decenni dopo. La Svizzera riesce poi a superare indenne, ma con non poche sofferenze a livello popolare ed economico, il conflitto franco-prussiano del 1870, la Prima (1914-1918) e la Seconda (1939-1945) Guerra mondiale: la pace religiosa e la pace sociale ne sono la primaria garanzia. LA SVIZZERA MODERNA E CONTEMPORANEA Dopo il 1945 la Confederazione entra nella storia contemporanea: nell’ambito continentale non aderisce all’Unione Europea pur sviluppando con essa intensi rapporti attraverso trattati bilaterali. Questa è la volontà del popolo, cui spettano le decisioni fondamentali, ed è la posizione del Consiglio Federale cui compete il compito di eseguirle. 1978 – scorporato dal Canton Berna, germanofono è creato il Canton Giura, francofono, ventitreesimo e ultimo. 1999 – 18 aprile: il popolo accetta la nuova Costituzione Federale “In nome di Dio Onnipotente”. Comunque la si giudichi, la volontà popolare va rispettata da tutti dentro e fuori la Svizzera perché non è altro che l’espressione chiara e concreta dei principi collaudati e consolidati che reggono la Confederazione da oltre due secoli: • Libertà e democrazia diretta; • Federalismo e solidarietà; • Neutralità perpetua e difesa nazionale; • Pace sociale e religiosa. —

Veduta di Berna in occasione della visita ufficiale di Guglielmo II di Sassonia, 1912, Bibliothèque nationale de France

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La Svizzera, come vista o sognata dagli Italiani


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Noi e loro: la mappatura delle diatomee MAURO DELLA PORTA RAFFO

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e diatomee sono alghe unicellulari non flagellate. Rappresentano una delle più importanti classi di microalghe in ambiente marino e di acqua dolce. Ora, se e quando una persona annega in un fiume, in un lago, in mare, nell’autopsia, esaminando i liquidi ingurgitati e in particolare appunto le diatomee necessariamente introdotte nell’organismo con l’acqua, si arriva a determinare il luogo preciso nel quale il mal destinato è morto. Questo in ragione del fatto che le predette diatomee differiscono tra loro e quelle, che so?, di Portofino (per andare al famoso caso delle contessa Augusta Vacca) sono distinguibili da quelle di qualsiasi altro braccio di mare. Così, nei fiumi, ansa per ansa, e nei laghi, riva per riva. Tutto ciò, se si conoscono le diatomee di ogni braccio di mare, di ogni ansa di fiume, di ogni riva di lago. Ebbene, gli svizzeri hanno da tempo ’mappato’ le diatomee dei loro corsi o bacini d’acqua. Non solo, aggiornano regolarmente tale mappatura con particolare cura e attenzione. Ecco, ammesso che in Italia – diciamo, solo in Lombardia, per restringere il campo – si decidesse di fare altrettanto, potremmo mai arrivare a una mappatura seria, affidabile? Chi mai, davvero, provvederà sia a realizzarla con precisione sia ad aggiornarla? È come sempre questione di educazione e istruzione e conseguente metodicità. Gli ’svizzerotti’, – come spesso si dice per mettere in luce la loro da noi supposta minore elasticità, la loro ’semplicità’ -, sono educati, istruiti materia per materia e metodici. Noi, e ce vantiamo!, no. —

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Lugano vista da San Salvatore (1890-1900)

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La terra con la quale condividiamo luce e colori FABIO BOMBAGLIO

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er chi è nato e cresciuto in mezzo ai laghi, Svizzera è cosa diversa che per gli altri italiani: è terra con cui si condividono luce e colori, collegata da vie d’acqua percorse da secoli. Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, parlava dei nostri siti descrivendoli come “...paesaggio moderato, civile, invitante al riposo, adatto per la riflessione, non senza una punta di severità e qualche richiamo illusorio ai piaceri romantici della vita in natura. Le ville fanno subito da correttivo inquadrando quel sogno idillico. Le colline boscose lasciano scorgere tra i varchi le Prealpi lombarde, così meste e meditative, e la catena delle Alpi lontane, se lo spazio si allarga; ma il panorama è sfumato anche se è vasto, e l’arte della velatura qui eccelle. Sette piccoli laghi interni, due grandi laghi, il Verbano e il Ceresio, che bagnano la provincia, il Lario a pochi passi, con il loro riverbero mantengono nell’aria una lucentezza molle”. Con la nostra Svizzera di prossimità, con la “vicina Svizzera“ illuminata della stessa lucentezza molle, abbiamo sempre avuto rapporti dialettici ma, in fondo, questioni di campanile interne al Ducato di Milano. La Svizzera è stata parte della nostra storia dell’Ottocento e del Novecento. Da terra della libertà per i fuorusciti del Risorgimento a corridoio temuto, durante la prima guerra mondiale, quando pensavamo che la Germania potesse violarne la neutralità e invadere la Lombardia, a luogo sicuro per tutti quelli che vi trovarono rifugio durante e dopo la guerra civile del 1943–1945. Un anno cruciale fu il 1947: il governo presieduto da Alcide De Gasperi, e per esso il Ministro degli Interni Mario Scelba, il 27 novembre 1947 destituì il Prefetto di Milano Ettore Troilo (nominato dal CLN) con un atto di normalizzazione burocratica che apparve ostile al PCI.

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Ne nacque una vera e propria insurrezione guidata dall’On. Pajetta e culminata – il 28 novembre 1947 – nell’occupazione della Prefettura di Milano. Tutto finì con le dimissioni che l’Avv. Troilo rassegnò di lì a qualche giorno, ma le strade per i valichi di Chiasso, Gaggiolo e Ponte Tresa erano state invase da berline blu e nere e la grande borghesia milanese aveva riscoperto Lugano, vicino rifugio italofono, come ipotesi di soluzione per eventuali tempi difficilissimi. Il Canton Ticino era diventato, se non un’alternativa, almeno una soluzione possibile per tempi grami. Spero che i miei amici ticinesi mi ascoltino e, prima o poi, dedichino all’On. Pajetta almeno una piazza. Insomma il nostro interesse ai tabacchi lavorati, alla benzina e alla saccarina per i diabetici, nella metropoli si trasformava in qualcosa di molto più importante. Con il boom economico italiano, daccapo: casseforti capienti in cui rifugiare denari concupiti dal governo di centro – sinistra che ben presto si riempirono fino a scoppiare e banche e finanziarie che diventarono attrattive non solo per gli italiani sensibili all’argomento del risparmio fiscale. Intendiamoci la Svizzera Svizzera (Ginevra, Berna, Zurigo) assommando in sé neutralità economica a neutralità politica, era sempre stata il caveau delle case regnanti e delle élite economico-finanziarie del mondo, ma, ancora una volta come in passato, dimostrava di essere capace di far tesoro della democratizzazione di un’ esigenza. Con l’ingresso nel terzo millennio c’è stata un’altra svolta che le autorità italiane si ostinano a non voler capire: in Ticino non vanno più solo soldi ma imprese che trascinano un popolo di circa sessantamila persone – i frontalieri – soggetto a ordinamenti giuridici diversi secondo le ore del giorno.

Giancarlo Pajetta, membro della direzione del PCI, 1949

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Insomma il confine che separava l’area di produzione della ricchezza dal salvadanaio sembra sempre più quello tra l’area di produzione e di custodia della ricchezza e la residenza di prestatori d’opera e subfornitori. I cugini ticinesi non hanno dormito sugli allori e, dagli anni Cinquanta a oggi, si sono messi a offrire servizi (finanziari, assicurativi, legali, ecc.) molto sofisticati. Sono diventati glocalisti (globale/locale): interlocutori del mondo, cosmopoliti orgogliosi della loro autenticità come non potranno mai esserlo i cosmopoliti finti. Oltre il (la) Tresa non succede di sentir infarcire un italiano approssimativo d’improbabili espressioni anglofone: si parla la lingua del cliente e non la si sfoggia come espressione di esotismo.


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La si possiede come strumento: un fatto, non un ornamento. Lavorano in inglese o francese o tedesco o in italiano ma alle diciotto tornano a parlare il loro (il nostro) dialetto. Qualcosa che ricorda le splendide città del Mar Baltico: secoli e secoli di contatti con i mercanti stranieri, città poliglotte ma non esterofile, orgogliose della loro originalità linguistica. Insomma, mi sembra che i cugini ticinesi abbiano avvicinato da protagonisti tutto quanto c’è di nuovo e di emergente non solo senza travestimenti ma con profondo rispetto per i nonni (loro e nostri) che se anche legavano al collo il tovagliolo hanno percorso le vie del mondo da ambasciatori d’indiscutibile eccellenza lavorativa.

Sono ancora vive le tradizioni che ci accomunano e che si riassumono nella capacità di godere di cose semplici (il crotto, la passeggiata in montagna, la gita in battello sui laghi...). Adesso sono gli altri che vengono in Ticino ma neppure questo gli ha “dato alla testa”: mantengono bene quel che hanno con la meticolosità di chi ne misura l’importanza sul prezzo costato a chi è venuto prima. Le istituzioni sono vicine e senza pennacchi: gli inevitabili contrasti restano discussioni in famiglia, mai liti tra estranei. Nella capacità di essere più che di apparire dei nostri Svizzeri vicini a volte mi sembra di ritrovare insieme una parte dei miei nonni e una parte del futuro che mi piacerebbe per i miei figli. —

Lugano vista dall’alto

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L’unica è andarsene in Svizzera RINO CAMMILLERI

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anto tempo fa, in una galassia lontana lontana, quando non esistevano il telefono cellulare e le mail, ero in corrispondenza d’amorosi sensi con una cittadina svizzera e, dati costi delle interurbane, le scrivevo. Lettere. Abituato ai tempi delle poste italiane, per essere sicuro che ricevesse la missiva entro la settimana mi servivo dell’affrancatura ‘espresso’. Dopo qualche giorno mi telefonò dicendomi di desistere, perché in Svizzera gli ‘espressi’, appena varcata la frontiera, venivano recapitati subito. Cioè, anche di notte. Fu il mio primo impatto (ero giovane) con un – letteralmente – altro pianeta. Un pianeta efficiente, in cui le cose funzionavano, senza pressappochismi, circiterismi e buffonate ‘all’italiana’. Quando diventai uno scrittore professionista pubblicai un Elogio degli italiani per Mondadori, seguito, poco tempo dopo, da un più corposo Doveroso elogio degli italiani, Rizzoli, che mi valse molte copie vendute, sì, ma anche una minaccia di querela per plagio da parte di chi? Di un italiano, naturalmente, che però risiedeva, per sicurezza, all’estero. La minaccia, campata in aria, rimase appunto in aria, ma fu la goccia che fece traboccare un vaso che, nel frattempo, si era riempito. Infatti, quei miei libri erano più che altro descrizioni di un grande passato. Mentre sotto gli occhi avevo, sempre più, uno squallido presente e nessun futuro. Quando cessò la grandezza italiana? Con il Risorgimento, nome pomposo e ridicolo e, ovviamente, autoattribuito. Al di là delle fanfare nazionalistiche, fu Dostojewskij ad accorgersi che quel che era

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sorto da una guerra civile non era che un “piccolo regno di terz’ordine”, la famosa Italietta, buona solo a fabbricare emigrati. So che è politicamente scorretto dirlo, ma da allora l’unica invenzione italiana di rilievo internazionale è stata il fascismo, non a caso imitato da mezza Europa ed elogiato perfino da Lenin (e addirittura da Churchill). Diversamente dai tedeschi e dai giapponesi, l’Italia plebiscitariamente fascista divenne di colpo plebiscitariamente antifascista (“della prima ora”!) non appena le cose si misero male. Ma questo lo sanno tutti. Poi, gli ex nostri alleati divennero potenze economiche mondiali (la Trilaterale kissingeriana comprendeva – si noti – Usa, Cee e il piccolo Giappone). La Germania, che aveva combattuto ben due guerre da sola contro l’intero mondo ed era stata ridotta alla pastorizia, asfaltata e, per sicurezza, divisa in due, oggi eccola lì di nuovo a comandare. L’Italia? Un Paese litigioso che non riesce nemmeno a darsi un governo decente, che non riesce a fare arrivare in orario nemmeno i treni ad alta velocità. E non serve prendersela coi politici, perché siamo noi che li votiamo. È vero, ogni tanto li cambiamo, ma se le cose non migliorano mai, anzi peggiorano, vuol dire che il problema sono gli italiani, ed è inutile girarci intorno. Diceva Orson Welles ne L’infernale Quinlan che la Svizzera in sei secoli di pace ha dato solo cioccolata e orologi a cucù, mentre l’Italia ha dato Leonardo e Michelangelo. Ma è questo il punto: l’Italia ha già dato ed è da troppo tempo che non dà più. Nessuno di noi saprebbe neppure nominare un solo politico

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svizzero, eppure la Svizzera funziona, è ricca, ci si sta bene, si pagano le giuste tasse e pure volentieri. In Svizzera serve un traforo? Se lo fanno, e pure in fretta. Qui da noi l’unica cosa che sorge in fretta sono i No Tav, No Ogm, No Tutto e via scassando. Da noi è ormai cronicamente pericoloso pure andare a vedere una partita di calcio. Galassia anarcoide che periodicamente sfascia tutto impunemente? Da noi. Magistratura politicizzata? Da noi. Porte aperte a mezza Africa? Da noi. Scioperi continui dei mezzi pubblici? Da noi. Potrei continuare se lamentarsi, in Italia, servisse a qualcosa. In Italia non serve a niente nemmeno darsi da fare, perché trovi sempre qualcuno che rema contro e ti sega le gambe, così che l’inconcludente prevalga e l’imbecillità dilaghi. L’unica è andarsene e lasciare il campo agli imam, ai vù cumprà e allo sfinimento parolaio. E dove? In Svizzera, Paese serio in cui decide davvero il popolo. E in cui talvolta il popolo decide che, per esempio, di immigrati ne ha troppi, e se ne frega se la Ue gli boicotta l’Erasmus (e sai la perdita). Svizzera, Paese senza comunisti e senza preti. Un paradiso. Se non fossi ormai troppo vecchio, avrei chiesto la cittadinanza e/o asilo politico. —


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Una terra pronta ad accogliere gli sconfitti ALFIO CARUSO

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l primo ricordo della Svizzera è vecchio di quasi sessant’anni. Si lega al filmato della finale mondiale di Berna (4 luglio ’54) tra la Germania e l’Ungheria. A differenza del Nord Italia, la televisione in Sicilia sarebbe arrivata tra un anno e mezzo e le uniche immaginate erano quelle regalate dal cinegiornale Luce programmate durante l’intervallo tra i due tempi di un film. Così in autunno a Catania si poté assistere alla colossale rapina dei tedeschi super dopati a spese della meravigliosa, e altrettanto presuntuosa, Ungheria.

La finale del 4 luglio 1954 tra Germania Ovest e Ungheria

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Nino Manfredi in ’Pane e cioccolata’ interpreta Giovanni Garofoli, emigrato in Svizzera, 1973

Dallo schermo traspariva una domenica grigia, umida, inBenché la Svizzera ci abbia castigato nel ’54 e complifreddolita che niente di estivo mostrava. cato la vita nelle qualificazioni per il mondiale ’94 negli Colpiva l’enorme pubblicità Cinzano svettante sulla torre Usa. dell’orologio, non a cucù. E forse non è un caso che il catenaccio, con il nome di Con la scuola, con lo studio della Storia, del Risorgimento ‘verrou’ (chiavistello) sia stato l’invenzione del commissarebbe venuto il tempo, prima che la cantasse Gaber, di sario tecnico austriaco della Svizzera nel torneo iridato ‘Addio Lugano’ bella, malinconica nenia degli esuli, all’inizio del ’58. quelli di un’Italia ancora da fare, se sono vere le notizie sulla Inutile dire che il primo ‘libero’ della rappresentativa rossocroromanza composta intorno al ciata, e quindi, fosse un oriundo 1830, poi gli anarchici di fine italiano, Severino Minelli. Ottocento. D’altronde il più conosciuSi formava così il mito di una to e apprezzato telecronista terra pronta accogliere gli della televisione svizzera itasconfitti d’Europa. liana, quando la si poteva Nessuno parlava ancora di vedere anche in Lombardia, banche, di segreti, d’immensi è stato un altro emigrante patrimoni inabissati nei fordi lusso, Giuseppe Albertini, zieri. romano di Testaccio. Anche l’emigrazione appariva Nel novero avrebbe figuraun tema lontano, finché non to, per personale capriccio, ci sarebbe stato il conoscente pure Giuseppe Prezzolini. sciagurato, costretto a cercare Nell’82 ci si mise in viaggio un lavoro oltre frontiera, finito assieme a Montanelli diretti a nelle baracche di un cantiere e Lugano: c’erano da festeggiamorto per l’attacco di peritonire i cent’anni di ‘Prezzo’. te non diagnosticato in tempo. Così capitò di assistere alla Vent’anni dopo ci avrebbe trattativa per il passaggio a pensato un regista già dimen‘Il Giornale? di uno dei poticato, Franco Brusati, a racchi considerati da Indro suo contare drammi e speranze dei ‘maggiore’. tanti italiani riversatisi nella Prezzolini pretendeva lo stesso Confederazione. mezzo milione di lire ad articoCon l’interpretazione di un lo (circa ottocento euro), che gli memorabile Manfredi ’Pane e garantiva ‘Il Resto del Carlino’. cioccolata’ colpisce i cuori: anMalgrado l’enorme stima, che nel film la ribellione coinMontanelli giudicava la riGiuseppe Prezzolini cide con un successo della nachiesta eccessiva e non se ne zionale di calcio. fece alcunché. —

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Dissensi & Discordanze

Frugando nella memoria MARINA CAVALLERA

C

ome fa uno storico di mestiere a raccontare senza ricorrere a tutto il suo abituale armamentario di fonti edite e inedite... di cronache e memorie, a trasformarsi per una volta in chi invece alla propria memoria personale deve fare ricorso per documentare ciò che ha visto e vissuto di persona? Non senza qualche imbarazzo vengo a esaudire la richiesta di un amico, Mauro della Porta Raffo, al quale, forse un po’ incautamente, ho promesso di raccontare qualche cosa di me e della mia esperienza a proposito di quel rapporto peculiare con le contigue terre d’oltre confine, della Svizzera, che caratterizza gli abitanti di Varese e dintorni, nonché quegli assidui altri frequentatori di tali luoghi, che sono i ‘Milanesi’. A quest’ultima categoria apparteneva la mia famiglia: io, milanese, come tanti altri milanesi ho infatti trascorso gran parte delle mie estati e, nel corso dell’anno, dei fine settimana, nella nostra casa di villeggiatura alle pendici del Sacro Monte. Solo in seguito al pensionamento dei miei genitori sarei diventata anch’io una varesina, almeno d’adozione. All’epoca del boom economico italiano, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo passato, nascevano e si sviluppavano da ciò, da un assiduo pendolarismo tra Milano, Varese e Lugano, meta favorita delle ‘gitarelle’ estive, le mie prime percezioni dirette sui nostri vicini, alacri benzinai, cioccolatai e giocattolai: tale è stata la mia visione infantile degli Svizzeri. Una visione ancora decisamente limitata e sicuramente un po’ anomala rispetto ai soliti luoghi comuni, così come, per altro, del tutto particolare resta sempre la lettura dell’altro per chi vive a ridosso del confine dove la condivisione delle molteplici e un poco camaleontiche realtà fra noi e loro, si esprime in modo peculiare e a volte ambivalente, legato come è alle esperienze personali e ai rapporti individuali, soggettivi e umorali; dove, tanto il loro modo di sentirsi Svizzeri, quanto il nostro di sentirci Italiani a volte si accentua, ma altre volte si confonde e si perde. In effetti percezione della diversità e percezione di una comune identità prendono l’una sull’altra il sopravvento a seconda dei casi e delle circostanze... o delle convenienze. Da loro, in fondo, davvero poco ci separa, anche perché per noi gli Svizzeri s’identificano in primo luogo con gli abitanti del Canton Ticino, con i quali condividiamo una stessa lingua (o quasi se non vogliamo dare peso alle rispettive inflessioni dialettali), una stessa cultura (almeno in origine) e stesse tradizioni religiose.

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Eppure proprio nei loro confronti, in quei confini sfrangiati che ci separano, molti di noi hanno imparato a incrociarsi con l’alterità e a cercare le diversità. A ben guardare dovrebbe trattarsi nel nostro caso di diversità impalpabili nelle quali comuni interessi e convenienze, legami amicali e alleanze famigliari avrebbero sempre dovuto stemperare e ammorbidire eventuali forme di tensione. Indubbiamente le connivenze non sono mai mancate: sotto il profilo economico le diverse scelte normative e daziarie si sono sempre trasformate in altrettanti motivi di guadagno, che hanno alternativamente avvantaggiato i commercianti dei più svariati prodotti dall’una come dall’altra parte dei confini. Anche nei ricordi d’infanzia di chi come me negli anni Sessanta - Settanta abitava a Milano e veniva a Varese soltanto temporaneamente, ritornano le immagini di quelle interminabili code ai valichi: a Gaggiolo, a Ponte Tresa o a Porto Ceresio. Si andava a fare il pieno di benzina oltre confine e per i bambini tenuti a bada nella snervante attesa da madri, padri e zie con la promessa dei dolciumi, dei famosi ’moretti’, la Svizzera aveva il profumo delle erbe degli alpeggi trasformate in caramelle e biscotti e soprattutto rappresentava il miraggio di colate morbide di cioccolata. ...Ma tutto ciò non aveva nulla a che fare con l’antica fiaba nordica dei fratelli Grimm, quella di Hänsel e Gretel, perché quello che ci andava a ospitare brevemente era un luogo privo di pericoli, così almeno lo si percepiva. Era infatti la terra divenuta felice grazie a Guglielmo Tell, il luogo dove tutti erano liberi. Io poi non avevo ancora capito bene se anche quella fosse solo una

fiaba come le altre o non avesse un fondamento di realtà. Cos’altro fosse la Svizzera, a noi bambini era stato spiegato sommariamente attraverso la sua riproduzione in miniatura di Melide, forse un po’ noiosa perché sempre uguale a se stessa, dove ogni tanto ci portavano i nostri genitori, pensando forse di renderci felici. Ma molto più felici noi eravamo invece quando a Lugano potevamo entrare nel grande negozio di giocattoli, traboccante di animali di pezza, di bambole di celluloide e di trenini elettrici, soprattutto quando la trepidazione per il Natale in arrivo c’imponeva di essere buoni. Si dovevano allora scrivere lunghe lettere sia a Gesù Bambino, sia a Babbo Natale: meglio a tutti e due, tanto per non sbagliare. Lungo l’altrettanto snervante percorso di rientro dalla Svizzera quando nell’auto surriscaldata ogni motivo d’insofferenza sembrava ormai sciogliersi nella nuvola di fumo delle sigarette aspirate lentamente dagli adulti - noi bambini, ormai placati, assaporavamo delizie dolciarie svizzere e, insaziabili, rimanevamo a lungo intenti nella silenziosa operazione di recupero di altri dolciumi che sovente in estate, sotto il sole, si scioglievano e che noi, aprendo proditoriamente le loro confezioni, con la maggiore accuratezza di cui eravamo capaci ci impegnavamo a “salvare” dalla loro totale liquefazione. Quel mondo dolce, festoso e liquefatto è scomparso con l’infanzia. * * * * * Nella frescura del Varesotto, sognando viaggi avventurosi in luoghi lontani, ho trascorso la mia giovinezza.

Veduta di Lugano, anni Sessanta

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Villeggiature d’altri tempi: ma non mi sarei mai considerata una privilegiata. Io piuttosto pensavo a Lugano e all’’oltre confine’ come al primo passo verso una grande avventura. Isolati, senza mezzi di trasporto, anche altri nelle mie stesse condizioni si sentivano soli in quei lunghi giorni d’estate in cui non restava che dedicarsi alla lettura: ho amato molto i romanzi dell’Ottocento. Mi affascinavano e li divoravo un poco alla rinfusa, presa dalle passioni romantiche dei protagonisti e dai miti risorgimentali: a poco a poco sono passata dai racconti per ragazzi ai romanzi di Salvator Gotta, a Manzoni e a Fogazzaro. Ho soprattutto avuto il tempo di spulciare tra i vecchi libri delle biblioteche di casa mia e di quelle altrui, incuriosendomi per le opere del Praga, avvicinandomi alla storia con Cesare Cantù, frugando fra i libri già del Formentini, posseduti da un’amica... fino a scoprire infine Emilio Gadda e a cercare il senso della vita e la tradizione di quei ‘gran lombardi’, che in qualche modo sentivo essere anche mia. Come e quanto era stata presente in quegli autori, nella loro vita, prima ancora che nelle loro opere, la Svizzera? Molti dei loro racconti m’invogliavano a saperne di più sul nostro Risorgimento. Ne conoscevo i luoghi-simbolo presenti sul nostro territorio e desideravo saperne di più anche su uomini per i quali la Svizzera aveva rappresentato a quei tempi il rifugio accogliente e sicuro: il luogo della libertà. E così ho imparato a conoscere meglio e a guardare con occhi nuovi anche oltre il confine. Ma era ancora una libertà romanticamente sognata, la mia, come solo la possono sognare gli adolescenti. * * * * * L’avere finalmente la possibilità di spostarsi sul tanto sospirato motorino avrebbe consentito a me e a quello sparuto gruppuscolo di amici che si era costruito attorno a comuni un po’ variegati interessi: il tennis, la botanica, le letture, le passeggiate... ad avere un poco più di autonomia. Il motorino ci avrebbe infine aiutati molto.

Per noi che amavamo i Beatles, i cantautori italiani e il jazz, ma non molto le discoteche, solo diventando maggiorenni, avremmo potuto varcare da soli la frontiera e dunque essere infine liberi. Non a caso, meta frequente del nostro vagabondare alla ricerca di cose nuove erano Lavena Ponte Tresa, Brusimpiano: ci fermavamo a guardare le bellezze del Ceresio e ci confidavamo le nostre fantasie. Non soltanto a me la Svizzera appariva il luogo romantico della fuga e della libertà. Quanto tempo sia passato da allora ce lo dice la straordinaria e precipitosa evoluzione della società, sia al di qua che al di là dei confini; mutamenti sono avvenuti i tutti i campi e soprattutto dentro di noi. Le disillusioni, l’inasprirsi dello scontro politico che entrava nelle aule universitarie; poi lo scontro ancor più duro con la realtà di un mondo del lavoro sempre più complesso e difficile ha segnato tutti. Abbiamo visto l’evolvere dei fenomeni migratori interni e le ragioni degli conflitti sindacali. È stato allora un osservatorio composito quello a cui abbiamo avuto accesso noi varesini, a un tempo area di immigrazione - ma anche ’di confino’ -, e al tempo stesso anche noi emigranti da sempre; noi stessi transfrontalieri del lavoro oltre confine. Siamo gente del Nord per gli immigrati; siamo gente del Sud per gli Svizzeri; siamo artefici e al tempo stesso oggetto di pregiudizi e di discriminazioni. Ora il tempo della mia generazione sembra essere sempre più prossimo a scadere: questo nuovo millennio portatore della globalizzazione e di una velocissima e violenta evoluzione tecnologica dovrà dare spazio ad altre generazioni chiamate a risolvere problemi nuovi. Quali sono oggi i confini e dove sono? Ora si parla di Regio Insubrica: si vorrebbe dare corpo a una realtà transfrontaliera dialogante e più interattiva... Ma siamo davvero pronti a farlo? In questo mondo ’liquido’ che i nostri figli e i nostri nipoti ereditano, toccherà a loro trovare un sempre più difficile equilibrio tra locale e globale, senza perdere la loro identità, mantenendo vive radici e tradizioni... e dunque non dimenticando la propria storia. —

Il Sacro Monte di Varese

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Jorge Luis Borges

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Svizzera? No, grazie! CESARE CAVALLERI

A

chi gli chiedeva come mai avesse preferito la Svizzera per trascorrervi i suoi ultimi anni, Jorge Luis Borges rispondeva: «Porqué no se sabe quien es el presidente». È vero, non si sa chi è il presidente della Svizzera, anche perché la presidenza è a stretta rotazione e non si fa in tempo a memorizzare il nome, e la scelta di Borges, che coi presidenti argentini aveva avuto i suoi problemi, è più che comprensibile. Ma la Svizzera, nonostante l’anonimato del presidente, è davvero un Paese in cui si vive liberamente? A me sembra di no. È un Paese occhiuto, in cui per ridipingere la facciata di casa tua devi avere il permesso dei vicini, ti senti continuamente osservato, in ogni cittadino c’è un poliziotto che ti denuncia se ti vede gettare a terra un pezzetto di carta; un Paese in cui tutto è previsto dalla legge, ogni trasgressione è punita, e se un cagnolino si avventura sull’erba di un parco pubblico, sono guai. Certo, ci sono anche dei vantaggi. I tram di Zurigo sono così puntuali che per sapere se sei arrivato alla tua fermata basta consultare l’orologio, senza bisogno di guardare fuori dal finestrino. La Svizzera è pacifista o, meglio, neutrale. Dopo la battaglia di Marignano (Melegnano) del 13-14 settembre

La battaglia di Marignano

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1515, i mercenari svizzeri al soldo di Francesco Sforza ebbero una tale batosta dall’esercito franco-veneto di Francesco I, che decisero di non lasciare mai più le loro valli alpine. Fu una vera ecatombe. Il Guicciardini la chiamò ’la battaglia dei giganti’, e scrisse: “Il numero de’ morti, se mai fu incerto in battaglia alcuna, come quasi sempre è in tutte, fu in questa incertissimo; variando assai gli uomini nel parlarne, chi per passione chi per errore. Affermorono alcuni essere morti de’ svizzeri più di quattordicimila; altri dicevano di dieci, i più moderati di ottomila, né mancò chi volesse ristringergli a tremila; capi tutti ignobili [cioè plebei] e di nomi oscuri”. Fatto sta che, da allora, di svizzeri in armi non se ne videro più né a Milano né altrove. Eppure, a tutt’oggi, la Svizzera ha l’esercito più attrezzato d’Europa, tutti i cittadini maschi hanno l’obbligo di prestare servizio militare (le donne sono ammesse come volontarie), con periodici richiami dopo il congedo, e gli svizzeri si tengono in casa il fucile, pronti a combattere Tartari buzzatiani che da cinquecento anni non sono all’orizzonte. La letteratura svizzera è affidata soprattutto alla saga della piccola Heidi, inventata da Johanna Spyri, celebre in tutto il mondo per la trasposizione in cartoni animati. Ideale per i coperchi delle scatole di formaggini. L’unico Premio Nobel svizzero è toccato nel 1919 al dimenticatissimo Carl Spitteler. Ma non dimentichiamo che Jean-Jacques Rousseau è svizzero, come il grande Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) e il grandissimo Max Frisch (1911-1991), entrambi dediti all’intrigo e al grottesco per dimenticare la loro patria. Lo svizzero Blaise Cendrars (1887-1961), che, arruolatosi nella Legione straniera, perse l’avambraccio destro nella prima Guerra mondiale, ha dovuto trasferirsi in Francia per affermarsi come poeta. Quanto ai pittori, è significativo che il capolavoro di Arnold Böcklin (1827-1901) sia l’Isola dei Morti, di cui esistono parecchie versioni: neppure i frequenti soggiorni in Italia (morì a Fiesole) gli fecero trovare il sorriso. Del resto, il massimo scultore svizzero, Alberto Giacometti (1901-1966) con le sue tormentate eppur monumentali statuette, rende bene la malinconia svizzera, sul ciglio della disperazione. Insomma, non so perché sto scrivendo questa frettolosa rassegna di svizzeraggini. Anzi, lo so: è per trovare pezze d’appoggio all’istintiva e ingiustificata avversione che nutro per la Svizzera, Paese che mi deprime per il suo perfettismo, copertura possibile per inconfessate nefandezze: la Svizzera non è forse all’avanguardia in fatto di aborto, di eutanasia, di evasione fiscale e riciclaggio, anche se in quest’ultimo campo le cose si stanno aggiustando sotto la pressione degli Stati Uniti? Per quanto mi riguarda: Svizzera? No, grazie. —

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Dall’alto, Max Frisch, Blaise Cendrars ritratto da Amedeo Modigliani, il premio Nobel Carl Spitteler. A sinistra, L’homme qui marche, 1960, opera di Alberto Giacometti


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Allan Ramsay, Jean-Jacques Rousseau in costume armeno, 1766

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Giovanni Segantini, Mezzogiorno sulle Alpi (particolare), 1891, Museo Segantini, St. Moritz

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Il fascino della patria alpina ‘ ’ ALZO CAZZULLO

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a ragazzo non amavo la Svizzera. Mi pareva il luogo dell’ipocrisia: se gettavi una cartaccia ti tagliavano la mano, ma se portavi i soldi della mafia o anche semplicemente dell’evasione fiscale te la baciavano riconoscenti. Sull’evasione fiscale e sull’inopportunità del segreto bancario non ho cambiato idea. Però con il tempo ho imparato ad apprezzare il fascino della “patria alpina”, come la chiamava Giorgio Bocca: la terra della moderazione e delle regole, della tolleranza e della buona educazione (non a caso Cavour adorava la Svizzera). Una patria totalmente sconfitta dal Mediterraneo: in Italia la guerra civile non l’hanno vinta i bersaglieri ma i briganti. E se sarebbe difficile dire dove sia oggi Cavour, è facilissimo dire dove sono i Borboni: dappertutto. Viva la Svizzera, dunque, e viva soprattutto i frontalieri italiani che hanno contribuito a farla ricca e prospera con il loro lavoro. —

Camillo Benso conte di Cavour

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Dichiarare guerra alla Svizzera MARIO CERVI

L’

idea che Montanelli e io avevamo della Svizzera - e non l’ho cambiata - fu sintetizzata da un famoso ’controcorrente’ di Indro. In una delle tante e ricorrenti fasi di marasma della vita pubblica italiana, Montanelli scrisse che l’unico modo per cavarci dai guai era dichiarare guerra alla Svizzera. Così gli svizzeri avrebbero vinto, ci avrebbero amministrato loro e saremmo stati a posto. Ma su questa ipotesi gravava una terribile incognita. E se per caso avessimo vinto noi? Poveri noi e poveri gli svizzeri. Non ho nulla da aggiungere. —

Indro Montanelli

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Un mondo futuro desertificato e popolato solo da svizzeri ANTONIO DI BELLA

P

aradiso fiscale, cioccolato, orologi. Quanti luoghi comuni, quanti pregiudizi negativi in Italia sulla Svizzera. Ma anche quanti pregiudizi positivi: organizzazione, pulizia, benessere, democrazia diretta. Così vicini e così sconosciuti nonostante tutti, anche per noi, i cugini di Lombardia. Io stesso, che ho cominciato a fare week end in Svizzera con i calzoni corti, posso dire di non essere mai riuscito a penetrare davvero il mistero dell’identità svizzera. Eppure ci sono stato tante volte per il mio lavoro di giornalista. E ogni volta ho riportato a casa un pezzetto di realtà ma mai tutti questi pezzetti sono riusciti a formare una visione d’insieme organica. Il mio primo servizio, appena assunto alla Rai di Milano nel 1979, fu andare a Chiasso a documentare l’esodo di automobilisti e camionisti italiani a caccia di benzina meno cara oltre confine. Svizzera miraggio, opportunità economica.

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La magia del colore di quelle strane e bellissime banconote, magia che continua ancora adesso: l’uniformità un po’ triste (cromaticamente) dell’euro fa risaltare ancora di più l’eleganza e il colore delle banconote elvetiche. Anni dopo sono stato inviato a Ginevra: dal carcere di Champ Dollon era evaso Licio Gelli. Raccontai per filo e per segno la ricostruzione ufficiale della polizia: mi permisero addirittura di mettere le mani e mostrare in TV il pigiama con il quale era scappato e che aveva abbandonato durante l’evasione. Era tutta una messa in scena. Altro che fuga in pigiama: Gelli era comodamente uscito dalla porta principale a bordo di un furgone ’alouette’ grazie alla complicità di una guardia carceraria. Il mito della incorruttibilità svizzera era sfatato. E ancora, la scoperta che la Germania nazista aveva progettato di invadere la Svizzera ma rinunciò di fronte all’efficienza meticolosa della rete di bunker, rifugi e postazioni militari (alcune dissimulate dietro innocue villette e visitabili ancor oggi) che avrebbero costretto le truppe dell’Asse a un dispendio di uomini e mezzi giudicato eccessivo rispetto all’importanza dell’obiettivo strategico. Altro che terra mite di orologi e cioccolato! E infine: un’inchiesta per il TG2 sui rifugi antiatomici svizzeri. Un mondo sconfinato e inimmaginabile: tutto pronto a scomparire sotto terra in pochi minuti, i tunnel delle autostrade chiudibili ermeticamente. La scelta consapevole e cinica che non tutti potranno essere salvati. L’idea curiosa di un mondo futuro immaginario desertificato e popolato solo dagli svizzeri, unici superstiti. Chissà se sarebbe un paradiso o no. Certo vedendo l’Italia di oggi... —

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Immaginate la Svizzera GIANFRANCO FABI

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I

mmaginate un Paese al primo posto per l’indice di competitività mondiale (l’Italia è al quarantanovesimo) con un settimo posto per le istituzioni e un sesto posto per le infrastrutture (l’Italia è rispettivamente al centoduesimo e al venticinquesimo). Immaginate un Paese in cui i cittadini possano essere chiamati a votare sull’aumento per legge di salari e stipendi... e decidano che è meglio lasciar fare al mercato e alla contrattazione tra le parti. Immaginate un Paese dove l’IVA sia all’otto per cento (in Italia è al ventidue) e dove la pressione fiscale totale è al trenta per cento (mentre in Italia è oltre il quarantacinque). Immaginate un Paese che ha quattro lingue, cinque religioni, ventisei cantoni, due modi di cuocere le patate (Il Roestigraben frontiera del roesti - è chiamato il confine tra la Svizzera francese e quella tedesca. In quest’ultima il piatto tipico è il “roesti”, lo sformato di patate in padella), ma con un forte sentimento di unità nazionale. Immaginate un Paese che ha solo sette ministri, un Parlamento che si riunisce di tanto in tanto e in cui il popolo ha sempre l’ultima parola. Immaginate un Paese dove il Governo si riunisce tutti i mercoledì alle nove, decide a maggioranza, comunica le proprie decisioni alle tredici in una conferenza stampa tenuta dal Cancelliere. E in cui i giornalisti non inseguono i ministri per le scale o mentre salgono in macchina (anche perché i ministri in gran parte vanno a casa a piedi). Immaginate un Paese in cui solo nel 1971 le donne hanno ottenuto (dagli uomini) il diritto di voto, e in cui in alcuni piccoli Cantoni il potere legislativo è in un’assemblea di tutti i cittadini (la Landsgemeinde). Immaginate un Paese che ha aderito all’Onu solo nel 2002 anche se ospitava fin dagli anni Cinquanta a Ginevra la seconda sede delle Nazioni Unite (nel Palazzo dove aveva sede negli anni Trenta la sfortunata Società delle Nazioni). Immaginate un Paese dove si sta realizzando il più lungo tunnel ferroviario del mondo (la Galleria di base del Gottardo), un tunnel che andrà a vantaggio soprattutto di Italia e Germania.

Il roesti, lo sformato di patate in padella

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Immaginate un Paese dove non esistono i notai, dove non serve il commercialista per compilare la denuncia dei redditi, dove se si compra una casa non si devono pagare le imposte (di registro, ipotecaria, catastale, l’IVA, il bollo, e così via...). Immaginate un Paese dove per dire che un cosa andrà sicuramente bene si dice “va come una lettera alla posta”. Immaginate un Paese dove non ci sono scioperi, dove i sindacati difendono sia i lavoratori sia le imprese, dove i salari sono i più alti del mondo. Immaginate un Paese dove gli imprenditori non sono visti come i nemici del popolo, dove per creare un’impresa bastano un giorno e quattro firme, dove l’amministrazione non fonda i suoi rapporti sul sospetto... Immaginate un Paese dove la compagnia aerea di bandiera può fallire e lo Stato non interviene per aiutarla, tanto non può che sorgere un’altra compagnia con altri padroni (Swissair ora Swiss, tutto il contrario del caso Alitalia). Immaginate un Paese dove non esistono i caselli autostradali, dove non pagate pedaggi (se non una irrisoria tassa annuale per un piccolo contrassegno) nemmeno sulle strade di montagna. Immaginate un Paese dove i limiti di velocità sono rigorosamente rispettati (e fatti rispettare), dove si da la precedenza ai pedoni sulle strisce pedonali, dove i semafori vi avvisano che sta per scattare il verde (con la luce gialla insieme al rosso) per rendere il più possibile fluida la circolazione. Immaginate un Paese che ha la funicolare più ripida del mondo, la più densa rete ferroviaria e dove gli autobus delle poste raggiungono almeno una volta al giorno i più sperduti villaggi. Immaginate un Paese dove le previsioni del tempo sono il pro-

gramma più seguito della televisione, dove i telegiornali parlano di politica in modica quantità, dove le radio non hanno pubblicità. Immaginate un Paese dove lo sport nazionale è l’hockey su ghiaccio, dove (d’estate) si può fare il bagno nei laghi e nei fiumi, dove le piste ciclabili non sono un’eccezione. Immaginate un Paese che vota per limitare l’immigrazione, ma che ha una nazionale di calcio formata per quattro quinti da giocatori originari, tra gli altri, del Kosovo, della Serbia, dell’Albania, del Ghana, di Capo Verde e anche dell’Italia. Immaginate un Paese il cui inno nazionale, su di una musica che ricorda ‘God save the Queen’, inizia con le parole: “Quando bionda aurora il mattin c’indora l’alma mia t’adora re del ciel!” e in cui esiste una Società Svizzera di Pubblica Utilità che ha lanciato un concorso per cambiarlo. Immaginate un Paese in cui l’Associazione dei Mastri Panettieripasticceri organizza tirocini per i giovani sempre al completo e in cui esiste una Confraternita dei Cavalieri del buon pane che premia ogni anno i migliori panifici. Immaginate un Paese dove è stata fondata la Croce Rossa Internazionale e dove il soccorso sulle strade e in montagna è affidato agli elicotteri di una società (la Rega, Guardia Area Svizzera di Soccorso) privata, di pubblica utilità, e che vive con le quote pagate volontariamente dai cittadini. Immaginate un Paese che dal 1500 fornisce i suoi uomini per prestare servizio in un corpo d’armata straniero, quello che protegge il Papa con spade e alabarde. Immaginate un Paese fondato sulla mela di Guglielmo Tell, sugli orologi, sulle banche e sulla neutralità. Immaginate la Svizzera. —

La Rega, Guardia Aerea di Soccorso

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Alle pendici del Monte Verità ADRIANO FABRIS

C’

è un modo in Ticino d’intendere l’esperienza religiosa che, invece di fare riferimento alle forme di spiritualità solitamente conosciute, è alla ricerca di possibili espressioni alternative. Sto parlando di quanto per oltre un secolo è stato vissuto alle pendici del Monte Verità, ad Ascona; mi sto riferendo a ciò che, sempre ad Ascona, ha caratterizzato la tradizione di ricerca, altamente qualificata, dei Colloqui di Eranos. Da italiano che del Ticino è spesso ospite, e che presso la Facoltà teologica di Lugano ha promosso un Istituto per il dialogo interreligioso – l’Istituto Re.Te.: ‘Religioni e teologia’ – sono stato fortemente attratto dalla vivacità e dalla ricchezza spirituale di queste manifestazioni, che per alcuni aspetti versi hanno anticipato alcune delle forme in cui si articola il sentire religioso contemporaneo. Si è trattato in entrambi i casi della ricerca di strade alternative per giungere a un’esperienza vera di sé e a un’autentica relazione con il divino. Certo: quest’esperienza e questa relazione venivano ottenute per vie diverse: dalla meditazione alla danza, dalla teosofia alle pratiche esoteriche. E questo si verificò soprattutto sul Monte Verità. Come si può vedere dalle testimonianze raccolte nel Museo di Casa Anatta, tuttora purtroppo ancora in fase di ristrutturazione, esso fu considerato nel corso del Novecento come un luogo privilegiato di esperienze spirituali.

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Vi vissero artisti, scrittori, pensatori, uomini e donne di spettacolo: tutti interessati a esprimere in varie forme il legame fra microcosmo e macrocosmo, fra parte e tutto, fra singolo individuo e mondo. L’esperienza del Monte Verità fu segnata inizialmente dalla presenza di Helena Petrovna Blavasky, prolifica scrittrice significativamente chiamata la ’Contessa cosmica’. Ma molti altri sono i personaggi significativi che vi passarono, trovando nell’ospitale Ticino non solo rifugio, ma soprattutto quella possibilità di esprimere liberamente posizioni anticonformiste che altrove era loro negata. Ne parla dettagliatamente il libro Eranos, Monte Verità, Ascona a cura di E. Barone, M. Riedl. Nel 1933 iniziò invece l’avventura di Eranos: un’occasione privilegiata d’incontro, che si protrae fino ai nostri giorni, fra il pensiero occidentale e quello orientale, e fra diverse esperienze religiose considerate secondo i loro archetipi di riferimento. I colloqui di Eranos vennero fondati da Olga Froebe-Kapteyn, furono celebrati regolarmente ogni anno, anche durante la guerra, nella sua casa sulle rive del Lago Maggiore svizzero e videro, ad esempio, la presenza costante del padre della psicologia analitica Carl Gustav Jung e di suoi vari discepoli. Ma ospiti regolari della Froebe-Kapteyn furono anche nomi di spicco degli studi religiosi, come Gershom Scholem, Karoly

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Kerényi, Mircea Eliade. Tutti si riunivano ad Ascona, consapevoli che altrove non sarebbe stato possibile vivere un’esperienza analoga. Ecco perché a Eranos, nella terrazza che dava sul lago, i partecipanti eressero un piccolo monumento con l’iscrizione: Genio loci ignoto. Oggi Eranos continua i suoi Colloqui, sotto la guida di Fabio Merlini e con il sostegno del Cantone e del Borgo municipale di Ascona. E pure sul Monte Verità si susseguono varie iniziative, a testimonianza di un’intensa e produttiva attività culturale. Si tratta di eventi che hanno un’audience sempre numerosa e partecipe: un’audience internazionale, che in molti casi viene in Ticino appositamente per partecipare a queste iniziative. Il motivo del loro successo è dovuto a un crescente bisogno di spiritualità, che oggi è alquanto diffuso dal momento che le varie scienze non sembrano in grado di dare risposta a tutte le domande che inquietano l’essere umano. Emerge dunque un’istanza di senso che induce al recupero di simboli, atteggiamenti ed esperienze di tipo religioso. E dunque in questo quadro, dominato da un’esigenza di salvezza sempre più marcata, tanto la ricerca di Eranos quanto le vicende che si sono svolte sul Monte Verità, sono testimonianze emblematiche di quella necessità di approfondimento e di ricerca che caratterizza nel profondo l’essere umano. —


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Il valore militare degli Svizzeri LUCIANO GARIBALDI

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a leggenda degli svizzeri pacifisti, borghesi, nemici delle armi e amici della speculazione bancaria è facilmente smontabile. In realtà, nella tradizione svizzera giganteggiano gli episodi legati al valore militare, allo spirito battagliero, all’onore per la parola data. Episodi che trovano il loro culmine in due date fondamentali della Storia d’Europa: il 14 luglio (presa della Bastiglia e festa nazionale francese), e il 20 settembre (breccia di Porta Pia e festa nazionale italiana fino al 1929). Con decine di strade e piazze intitolate, ancora oggi, in Francia e in Italia, a quelle due date che videro – anche se nessuno ne parla – il sacrificio di un pugno di giovani svizzeri in nome dell’onore, della tradizione, dell’ordine e della fede. In realtà, si sente il bisogno di un libro dedicato alle vicende militari che videro protagonisti, per secoli, i soldati svizzeri. A partire da Guglielmo Tell. Chissà che un giorno non mi succeda di cimentarmivi? Guglielmo Tell, dicevo. Gli scettici di professione avanzano persino dubbi sulla sua reale esistenza, dato che non vi sono lasciti concreti (carte, armi, documenti). Ma esiste una letteratura assolutamente credibile, e talmente antica da poter escludere che sia parto di fantasia. Agli inizi del 1300 la Svizzera era soggetta agli Asburgo e anche alle soglie del Gottardo, dove Guglielmo era nato e viveva, tutti i cittadini che passavano dinnanzi al cappello imperiale issato in segno di dominazione erano obbligati a inchinarvisi in segno di sottomissione ed obbedienza. Un giorno Guglielmo evitò vistosamente quell’obbligo. Arrestato e processato, fu sottoposto alla ‘prova della balestra’. Con una freccia, doveva centrare una mela posta sul capo del figlioletto Gualtiero.

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Se l’avesse mancata (ma anche se, per disavventura, avesse colpito il bambino) sarebbe stato ucciso. Guglielmo fece centro, colpì la mela e poi, con la stessa balestra, uccise il ‘balivo’ Gessler, vassallo degli Asburgo nella zona del Gottardo. Fu l’inizio della rivolta che libererà per sempre la Svizzera dal dominio asburgico.

Raffaello, Papa Giulio II, 1512 ca. National Gallery, Londra

La parola stessa (soldati) nasce in Svizzera. E sta per ‘assoldati’, cioè ‘ingaggiati a pagamento’. Siamo sempre nel XIV secolo, ovvero quel 1300 segnato dalle imprese di Guglielmo Tell, che è divenuto ben presto un mito in tutti i cantoni. I soldati sono mercenari che si mettono in luce per il loro valore e la determinazione sui campi di battaglia di tutta Europa, come pure per la loro assoluta fedeltà verso chi li aveva ingaggiati. Ben presto, segneranno la superiorità della fanteria sulla cavalleria che era stata l’arma privilegiata del Medio Evo. ‘Mercenari’ perché si battono in cambio di una ‘mercede’. Già nella ‘Guerra dei Cent’anni’ si erano messi in luce per il loro coraggio e la loro audacia. Re Luigi XI ne arruolerà seimila nel 1480, guidati da Guglielmo di Diesbach, per addestrare il suo esercito. Con Papa Giulio II animeranno la Lega Santa. Fu lo sviluppo degli eserciti permanenti a porre fine all’era dei mercenari svizzeri. Soprattutto con la nascita della cosiddetta ‘leva obbligatoria’, pa-

Bertel Thorvaldsen, Monumento del leone morente, 1820-21

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rola che nasce dalla ‘levée’, figlia della Rivoluzione francese (che sta per ’levata’, ovvero i ragazzi sottratti, levati, portati via con la forza alle famiglie e ai genitori). Sistema indecoroso e violento, subito imitato da tutti gli Stati europei, compresi quelli monarchici. Infatti, costava assai meno mandare a morire i ragazzi del proprio Paese che ingaggiare, a suon di monete d’oro, i pur valorosi ed imbattibili svizzeri. Dopo la Restaurazione seguita alla parabola napoleonica, i mercenari svizzeri ancora disponibili continueranno a servire in Francia la monarchia fino alla caduta di Luigi Filippo nel 1848, e, in Italia, il Regno delle Due Sicilie con un Reggimento battutosi valorosamente contro Garibaldi alle battaglie del Volturno e del Garigliano. A ricordo di quella epopea che vide gli svizzeri combattenti per antonomasia, vale ricordare che, oltre alla fedeltà assoluta nei confronti dei ‘datori di lavoro’, una caratteristica essenziale della loro natura era il rifiuto totale della viltà, al punto da contemplare la soppressione di chi fuggiva volgendo le spalle al nemico. Valga, in proposito, questa citazione da ’Il Principe’, di Nicolò Machiavelli, capitolo XII: “...Così, la maggior paura vince la minore. E per paura di vergognosa morte, non si teme una honorata morte”. Ampiamente comprensibile e giustificato, dunque, il detto: “Pas d’argent, pas de Suisses”. A Lucerna giganteggia la celebre statua del leone morente con la scritta in latino ‘Helvetiorum fidei ac virtuti’. Un motto che sintetizza in maniera perfetta le qualità degli svizzeri guerrieri: la fede e il valore. Gli autori del capolavoro marmoreo e delle scritte che lo circonda-

no pensavano sicuramente a quei soldati svizzeri che sacrificarono le loro vite per difendere l’ultimo Re di Francia dai furori giacobini. Accadde a Parigi martedì 14 luglio 1789, allorché la folla istigata dai ‘sanculotti’ di Robespierre, di Marat e di Danton assaltò l’Hotel des Invalides, deposito di armi dell’Armata francese, impadronendosi di ben ventottomila fucili e di dodici cannoni. Mancavano però le cartucce e la polvere da sparo per le bocche da fuoco. Erano custoditi alla Bastiglia, fortezza simbolo dell’autorità reale, difesa dalle guardie svizzere comandate dal sergente Hulin. I soldati francesi erano spariti. L’Armata aveva fatto causa comune con il popolino e il generale Besenval, abbandonato dai suoi uomini, era fuggito a Versailles, per raggiungere re Luigi XVI. Unici a restare fedeli al sovrano erano stati gli svizzeri. Governatore della Bastiglia era il marchese Bernard de Launay, che ordinò di resistere. La folla (migliaia di assatanati) urlava: “En bas la troupe!”. Alle 13,30 si scatenò l’assalto con l’abbattimento, a colpi d’ascia, del ponte levatoio. Gli svizzeri aprirono il fuoco. Da tutti i quartieri di Parigi iniziarono ad accorrere gruppi di armati che ben presto ebbero la meglio. Il governatore De Launay e il prevosto Jacques de Flesselles furono decapitati, le loro teste issate sulle forche e trascinate in corteo per le vie di Parigi. Le trentadue guardie svizzere che avevano cercato di fermare la folla furono massacrate e decapitate. Ancora oggi la Francia celebra quella orribile giornata come ‘festa nazionale’. Ma il sacrificio e l’eroismo degli svizzeri non era finito.

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Luigi XVI e la sua famiglia, il 6 ottobre 1789 erano stati costretti a lasciare Versailles ed erano stati rinchiusi alle Tuileries, una sorta di ‘arresti domiciliari’. Tentarono la fuga la sera del 20 giugno 1791, ma furono catturati a Varennes e ricondotti alle Tuileries. Il 10 agosto la folla assaltò il palazzo e, dopo avere massacrato le ultime guardie svizzere rimaste a difendere il Re, costrinse Luigi XVI a rifugiarsi all’Assemblea Legislativa, dove lo attendeva la sua sorte: la condanna a morte votata dalla maggioranza dei deputati. Il 29 settembre 2012, in occasione della festività di San Michele Arcangelo, patrono della Gendarmeria vaticana, il principe Sforza Ruspoli, che l’aveva ereditata dai suoi avi e la custodiva con cura e amore, donò al Pontefice Benedetto XVI la bandiera sotto la quale le truppe pontificie si erano battute contro gli invasori dell’esercito piemontese in difesa dello Stato Vaticano a Porta Pia. Un evento di rilevante portata storica, ancorché ignorato nella maniera più totale da tutti i mezzi d’informazione. Sotto quella bandiera, infatti, erano caduti gli ultimi difensori della sovranità della Chiesa, tutti svizzeri: gli zuavi del generale Kanzler, che lasciarono sul posto, dilaniati dai cannoni, sedici morti e quarantanove feriti. Per decenni, fino ai Patti Lateranensi del 1929, il 20 settembre è stato, in Italia, festa nazionale. Il 20 settembre del 2008, in occasione dell’anniversario della presa di Roma (o della sua liberazione, a seconda dei punti di vista), scoppiò una polemica che ebbe una vasta eco sui mezzi d’informazione con titoli di questo tipo: ‘Porta Pia, ricordati solo i caduti del Papa’. Le cronache (frettolose e imprecise) riferivano che, durante la cerimonia, un generale aveva fatto i nomi dei sedici zuavi uccisi dai

bersaglieri di La Marmora, mentre i nomi dei caduti italiani erano finiti nel silenzio. In proposito fece colpo, per la sua limpida schiettezza, la lettera di precisazione inviata dal generale in questione, Antonino Torre, comandante dei Granatieri, al Corriere della Sera. Dopo avere messo i puntini sulle “i” (avere cioè ricordato che i bersaglieri erano stati doverosamente ricordati dal generale Giancarlo Renzi), il generale Torre così precisava: La lettura dei nomi dei ‘famigerati’ soldati pontifici caduti è stata da me fatta d’intesa e su sollecitazione dell’Associazione Bersaglieri. C’è da tener presente, a tale proposito, che per i militari che possiedano il senso dell’onore, esistono e sono degni di rispetto anche i vinti, ai quali viene riconosciuto l’onore delle armi pure se sono stati avversari, nemici. I veri militari non odiano il nemico, che rimane tale fino alla fine delle ostilità, per poi diventare un ‘commilitone’ sconfitto. Il perpetuarsi dell’odio, forse, fa comodo solo a chi, sulle disgrazie di una nazione, sui lutti e le sofferenze di tanta povera gente, ha fondato e mantiene in vita le proprie fortune politiche. A destra e a sinistra. Limpide e bellissime parole che non possono non essere condivise e che, a distanza di anni, continuano a conservare la loro carica di attualità. Quanto finora ho scritto va ad onore degli svizzeri in armi, predecessori e antenati dell’attuale, piccolo ma agguerrito esercito elvetico, formato da duecentoventimila soldati di età fino ai trent’anni, con periodo di servizio dalle diciotto alle ventuno settimane e con sei richiami di tre settimane ciascuno. Soldati che continuano a mostrare il loro valore anche nella partecipazione alle missioni militari internazionali dell’ONU. —

Il Palazzo delle Nazioni Unite (ONU) a Ginevra

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Il modello svizzero italiano MICHELE GASLINI

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uelle emozioni e quelle sensazioni che, nel corso della prima infanzia, persone, luoghi e accadimenti vengono a suscitare in noi, giungono spesso ad intrecciarsi, ricomponendosi nella trama di un ricordo lieve, sulle cui forme, nei momenti di quiete, la memoria ama talora attardarsi, per un poco, con un velo di nostalgico rimpianto, per un tempo che, ormai, s’è irrimediabilmente congedato e che non ci sarà mai più dato d’incontrare ancora. È certamente fra le pieghe di questo patrimonio di suggestioni che, per me, anche l’immagine della Svizzera giunge talvolta a tralignare; di una Svizzera certamente irreale, piccina, limitatissima, parziale, come oggi si userebbe dire, addirittura alquanto minimale; si tratta, insomma, soltanto di quella Svizzera che, come tale, poteva essere compresa e percepita da un bambino di Varese. Un’immagine, forse, in gran parte irreale e vagamente misteriosa, ma, non per questo, meno evocativa e sentita, pur nella distanza di così tanti anni. La mia prima percezione della Svizzera si era potuta riassumere in una visione notturna, quasi onirica, composta di doganieri col berretto tondo e l’uniforme grigia e di distributori di carburante, regolarmente affiancati dagli annessi negozietti di confine, che emanavano fragranze di caffè, di tabacchi, di dolciumi e cioccolato (quest’ultimo, però, non mi veniva mai acquistato, poiché i genitori si dicevano convinti che procurasse l’appendicite). Per me, la Svizzera costituiva, dunque, essenzialmente un punto d’approdo; la meta finale di un viaggio notturno (che mi pareva lunghissimo) il quale, quasi ogni settimana, dopo aver percorso una Varese serotina (semideserta e con un volto che le fredde luci dei lampioni valevano a rendermi quasi estraneo), superava Belforte, indi si dipanava nella buia discesa alla Folla di Malnate, per poi inerpicarsi, fra i boschi che facevano di contorno ai tornanti della strada che, finalmente, conduceva, dal Valico del Gaggiolo, sino alla Svizzera. Ben poco, anni più tardi, avrebbe aggiunto qualcosa a quelle originarie emozioni la mia prima visita a Lugano, per la solenne

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occasione dell’acquisto di un Tissot d’acciaio da polso, il mio primo orologio; una città quasi deludente, nella sua sostanziale somiglianza alla natia Varese, anche se, probabilmente, di quest’ultima un poco più pulita ed ordinata (ma, forse, una tale impressione mi era stata inconsciamente inculcata dalle considerazioni dei genitori). Quantunque, nei limiti accennati, fossi pervenuto a formarmi una qualche personale idea della Svizzera, pure, qualcosa d’importante ancora mi mancava: una precisa percezione degli Svizzeri e, a questa mia gravissima carenza, in prosieguo di tempo, sopravvenne a supplire, in certo qual modo, la televisione. A un punto della mia giovinezza, infatti, dopo una pluriennale resistenza (era fermamente convinto si trattasse di un marchingegno instupidente), il babbo aveva finalmente ceduto alle reiterate suppliche dei familiari e si era dunque potuto procedere all’acquisto di un apparecchio televisivo. Sin quasi da subito, in casa, implicitamente ci si avvide di come, rispetto alle smaglianti produzioni irradiate dalla Rai, i programmi trasmessi dalla Televisione della Svizzera Italiana (di certo, assai più modesti e dal taglio pressoché casalingo), riuscissero a riverberare, nei nostri confronti, una sensazione di maggiore vicinanza; non si trattava, tuttavia, di una vicinanza che si limitasse ad esaurirsi su di un piano meramente psicologico, giacché, ad esempio, anche le previsioni del tempo indicate da quell’emittente elvetica, se riferite a Varese, parevano sempre rivelarsi alquanto più azzeccate, rispetto a quelle suggerite dalla Rai. Sotto il profilo antropologico, poi, quello ‘Svizzero Italiano’ che le trasmissioni contribuivano a rappresentare si riassumeva in un complessivo modello il quale, con qualche tratto vagamente arcaicizzante, appariva manifestarsi come del tutto analogo, rispetto ai più genuini fra i consueti archetipi varesini; insomma,

Ph. Oliver Fluck

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la voce dell’ annunciatrice che s’esprimeva con la stessa cadenza della ‘Schüra Rosa’, che gestiva il banchetto di verdure nella Piazza del Mercato, od il Consigliere Federale che usava degli stessi modi di dire del ‘Schür Renzo’, l’indimenticabile gastronomo di Casbeno (la Castellanza dei miei nonni), mi parevano comporre un’ovvia propaggine degli aspetti della mia più ordinaria e consueta vita quotidiana. Un’ultima sensazione ancora; i programmi della Televisione Svizzera, ad un certo punto, riuscirono, per me, a tradursi, addirittura, in una sorta di motivo di conforto spirituale. Giacché, mentre in Italia, a seguito delle influenze d’ascendenza sessantottina, ci si andava sempre più riducendo a limitare le capacità di ragionamento, con l’attenersi a degli schemi preconcetti, deduttivamente mutuati dai rigidi stereotipi di certe ideologie (che non mi ritrovavo, e che tutt’ora non mi ritrovo, a poter condividere), al contrario, almeno per qualche anno ancora, l’emittente elvetica era riuscita, d’altronde, a continuare a produrre programmi e notiziari, ispirati a quella logica comune dettata dal più naturale buon senso: insomma, una boccata d’aria fresca, in un clima sempre più intristito dal condizionamento ammorbante delle dottrine più cupe. Era proprio in quell’epoca, fra l’altro, che, capitando a transitare per Lugano, Locarno o Bellinzona, mi ritrovavo a rimirare ammirato i muri intonsi dalle deturpanti scritte a vernice e le strade libere da sgangherate manifestazioni o da vocianti cortei, e mi scoprivo, così, a viepiù rammaricarmi, per quel diverso destino ‘non svizzero’ toccato in sorte alla mia povera Varese, in dipendenza di un mero frutto del caso, di un accidente della Storia o, forse, addirittura (se vogliamo dar credito a certi eccessi della retorica più patriottarda), in ragione di un superiore Disegno d’impronta divina... —


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La tenuta democratica della Svizzera PAOLO GRANZOTTO

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iccome crocianamente parlando ammetto di non potere non dirmi svizzero, per tener alto il dibattito mi riferisco dapprima alla adesione ai princìpi d’una nazione che ha fatto strame del giacobinismo elitario. Lo stesso che si arroga il diritto di interpretare, come la cartomante il futuro, il bene comune procedendo di conseguenza. E così riducendo a simulacro la democrazia che infatti, in loro mani, s’è mutata in oligarchia. La tenuta democratica della Svizzera si manifesta, invece, nella pratica di sottoporre iniziative, programmi e progetti politici – ‘della’ politica - che dovessero coinvolgere gli interessi, il tornaconto materiale e ideale del popolo (sovrano), a referendum. Dalla concessione a edificare liberamente nuove moschee (bocciato) alla realizzazione dell’autostrada del San Gottardo (bocciata), dal salario minimo da ventidue franchi l’ora (bocciato) alla introduzione di un tetto all’immigrazione (approvato) fino allo spinello legale (bocciato). Basterebbe questo, ma c’è altro di più spiccio che mi fa sentir sorella la Confederazione elvetica. Ed è un anacronismo, apprezzato da chi ama ancora la flânerie, fare due passi (attività estetica che s’oppone a quella utilitarista del footing, jogging e altre solerzie maratonetiche): la salvaguardia del pedone. In altri Paesi, il nostro uno di questi, dove s’è incistato il mito futurista della velocità e della fretta come conquista sociale, il pedone è considerato meno che niente, al più un bighellone. Uno che non sa stare al passo, è proprio il caso di dire, coi tempi. Che intralcia, rallenta, ostacola l’arrembaggio al successo, al pecunio e al potere. Essendo il pedone un di più, in tali contrade la società dinamicamente motorizzata ha preso possesso del suo, suo del pedone, spazio vitale: il marciapiede. Sul quale, quando non protetto dai cavalli di frisia rappresentati dai ‘panettoni’, accomoda arrogantemente il proprio veicolo, fosse a quattro o a due ruote.

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Ma questo è niente. Sempre ivi il marciapiede è stato promosso ad arteria di scorrimento veloce della parte ecologista e dunque più politicamente corretta (e sgarbata) del popolo in movimento meccanico: i ciclodotati. Sordi, per guarentigia ambientalista, al codice della strada e a quello dell’educazione civica. E le strisce? Da noi, quando l’attraversi l’incombente automobilista non rallenta, non allarga: ti punta. Per far capire che il passaggio pedonale è una concessione della quale non conviene abusare. In Isvizzera, diversamente, l’automobilista che scorge il pedone

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che s’accinge ad attraversare inchioda la propria auto a cento metri di distanza. E attende a ripartire che il passante sia fermamente coi due piedi sul marciapiede opposto. Marciapiedi sul quale, in Isvizzera, nemmeno alle biciclette, nemmeno ai monopattini è consentita la sosta o meno che mai la circolazione. Tutto ciò a magistrale conferma che nella scala della gerarchia urbana in Isvizzera il pedone sovrasta il meccanizzato. Chiaro segno, questo, di civiltà, di umanesimo. Di signorilità, aggiungo. E senza offesa per chi non lo è, a me piace stare fra signori. —


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Mia nonna ascoltava Monteceneri STEFANO GRAZIOLI

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vizzera. Per un valtellinese è quasi come essere a casa. Se si pensa oltretutto che siamo stati sotto i Grigioni per un paio di secoli. Poi è arrivato Napoleone a mettere tutto a soqquadro, gli Austriaci hanno impedito in seguito il ricongiungimento e l’entrata nel Regno d’Italia ha messo le cose in chiaro una volta per tutte. Sondrio al di qua delle Retiche, al di là Sankt Moritz. All’inizio degli anni Settanta ero un bambino e una delle gioie più grandi era ritornare a casa dalla tradizionale gita a Livigno passando sul passo della Forcola e attraversando un po’ di Svizzera: giù per i tornanti del Bernina fino alla frontiera a Tirano con la tappa obbligatoria per fare scorta di Ovomaltina. Papà faceva benzina, e via tutti contenti. Oggi il pieno a Poschiavo non conviene più e a Sondrio si trova il cioccolato ucraino Roshen. Che non sarà eccelso, ma visto che lo fa il nuovo presidente a Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko, fa molto trendy, un po’ come il Cioccovo di una volta. That’s the globalisation! Sarà, ma la Svizzera è sempre lì. I termini di paragone sono cambiati, ma l’erba del vicino continua a essere quella più verde. Prendiamo il terreno in cui mi muovo, i media: già mia nonna ascoltava Monteceneri lamentandosi della Rai. Roba di quarant’anni fa. La Rsi è oggi un modello d’informazione. Per capire quello che succede nel mondo bisogna ascoltare il radio-

giornale su Rete Uno, guardare il tg de La1 e gli approfondimenti di Falò. La ‘Neue Zuercher Zeitung’ ha le migliori pagine di esteri in Europa. Certo sono in tedesco, ma non si può avere tutto. E poi, la cosa fondamentale: la Meteo. Scritta con la maiuscola, perché si tratta di cosa sacra. L’inaffidabilità delle previsioni italiane, tv, radio, internet, è notoria. La Svizzera ci azzecca sempre, un mito, altro che gli orologi coronati che costano un occhio della testa e vanno come vogliono loro. La Valtellina è troppo a nord per rientrare nelle previsioni italocentriche, per cui via con teletex o app per controllare in tv o sullo smartphone che tempo farà, con la sicurezza di non prendersi un temporalone quando si è per funghi in Valmalenco. —

Lo studio di “Falò”. Sopra, una schermata di un’app del meteo

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Immagine IBM che rappresenta la strumentazione per realizzare particolari nastri magnetici a basso costo con elevatissima densitĂ di memoria (86MB per pollice quadrato)

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La sfida elvetica alle nanotecnolgie LUDOVICA MANUSARDI CARLESI

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a Confederazione Elvetica non cessa di stupire. Non ospita infatti solo eccellenti banche, laghi blu, montagne e festival musicali di grande richiamo, ma si colloca tra i primi posti nei settori della formazione e della ricerca avanzata. Ben conosciuti al mondo sono in particolare il Politecnico e l’Istituto Superiore Federale di Tecnologia (ETH), ente fondato nel 1855 presso il quale hanno studiato numerosi premi Nobel tra cui Einstein e Roentgen. Nel 2008 questo istituto ha stipulato un accordo con Ibm per affrontare le sfide nei settori della nanotecnologia. Una fertile collaborazione tra industria e accademia, un modello di partnership che nel nostro paese fatica a decollare, ma che ovunque nel mondo è seguito e dà ottimi risultati. Il nuovo centro – Nanoscale Exploratory Technology Laboratory – situato nei dintorni di Zurigo, occupa una superficie complessiva di seimila mq di cui mille dedicati a laboratori specializzati. La sua principale caratteristica sta nel fatto che si tratta del primo complesso di ricerca europeo a schermatura totale. La sfida più ambiziosa si gioca sui sistemi d’isolamento e i criteri con cui sono state realizzate le aree dedicate alla ricerca e alle postazioni di lavoro. Gli esperimenti su nanocomponenti, cioè su oggetti di dimensioni comprese tra dieci-cento miliardesimi di metro (un capello ha uno spessore quattrocento volte superiore) sono delicatissimi: una minima vibrazione, una variazione di temperatura, un debole campo magnetico sono devastanti ai fini dei risultati quando, come in questo caso, si lavora con atomi, elettroni in moto e molecole. Per arrivare a una schermatura efficace è stato concepito e realizzato per la prima volta in Svizzera un sistema con infrastrutture a isolamento globale. Schermatura dalle vibrazioni di qualunque tipo – meccaniche e acustiche – dotando ogni laboratorio di un banco di lavoro montato su blocchi antisismici a smorzamento pneumatico e istallato su una piattaforma sospesa; isolamento magnetico da agenti

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esterni – effetti di disturbo dovuti a temporali e alla presenza di oggetti metallici massicci come rotaie e simili – ottenuto mediante particolari rivestimenti metallici delle pareti e del soffitto (limite accettabile un decimillesimo dell’intensità del campo magnetico terrestre), e isolamento da campi magnetici generati all’interno dei laboratori stessi. Infine un sofisticato sistema di circolazione dell’aria per mantenere la temperatura tra venti e ventisei gradi centigradi e l’ umidità tra il trentacinque e il cinquanta per cento. Tutte precauzioni indispensabili quando si opera alle delicate dimensioni di dieci-cento nanometri. Accanto a queste innovazioni sono stati attuati moderni criteri di risparmio energetico e sostenibilità. Primo fra tutti quello di standard di energia minima con il quale IBM ha deciso di confrontarsi. In diversi modi: ricorrendo a forme di energia rinnovabile, prodotta in parte da un moderno sistema fotovoltaico, e in parte da un insieme di scambiatori di calore capaci di produrre un surplus di potenza da inserire nella rete; utilizzando nella costruzione materiali particolari ad alto coefficiente d’isolamento termico con il preciso obiettivo di non superare il limite d’impiego energetico di quaranta KWh/mq, circa la metà dei consumi attuali per un laboratorio tipo. Quali sono i traguardi e gli obiettivi di questo centro? Cinque aree d’interesse: salute e bioscienze, informazione e comunicazione, conversione e immagazzinamento dell’energia, strumentazione e sensoristica, ingegneria di processo e di controllo. Semplificando, le frontiere della ricerca si articolano sul miglioramento delle prestazioni dei chip che sono alla base di tutti i com-

ponenti elettronici, dai cellulari alle televisioni, dai PC ai sensori. Quindi transistor più potenti, più veloci, più piccoli con meno dissipazione e consumo di energia. Tutto possibile grazie all’impiego di quel fantastico strumento che è il microscopio a scansione elettronica e alla scelta di materiali diversi dal silicio come i nanotubi di carbonio, i nano-fili, e il passaggio a quella che è definita elettronica molecolare e spintronica, dove è il singolo elettrone o la singola molecola a funzionare da interruttore on-off o da amplificatore di corrente: più preciso, più affidabile, meno dispendioso in termini energetici. Di qui computer più potenti e veloci per la realizzazione non solo di modelli complessi e simulazioni, ma anche, perché no, per il settore dei giochi. Poi le applicazioni in biologia, con microattuatori magnetici per lo studio e il controllo di particolari organismi, la trasmissione d’informazioni intracellulari e rilascio di farmaci. Ma anche nuovi sistemi per il recupero energetico alla scala atomica realizzati mediante nano-termocoppie. Come sostiene Paolo Milani – ordinario di Struttura della materia all’Università di Milano – le nanotecnologie sono uno strumento con elevatissime potenzialità che richiede non solo interdisciplinarietà tra medici, fisici, chimici, ingegneri, informatici, ma anche un nuovo modello di sviluppo nel quale combinare le singole parti non come una semplice somma di elementi, ma integrandole in un diverso contesto produttivo e normativo con proposte innovative per rispondere alle crescenti esigenze dei cittadini di domani. Tutto questo per un mercato, quello delle nanotecnologie, in continua espansione che nei prossimi dieci anni potrebbe assestarsi tra mille e i milleduecento miliardi di dollari. —

Il Nanotechnology Center nel campus IBM Research a Zurich. Ph. BGS Architekten GmbH

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Pre-Visioni Dissensi & Discordanze

Il ruolo della religione nella costruzione dell’identità svizzera VINCENZO PACILLO

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o stemma svizzero è costituito da una croce bianca in campo rosso, l’inno nazionale della Confederazione è un salmo e la Costituzione federale elvetica si apre con un’invocazione a Dio onnipotente: basterebbero questi tre elementi per evidenziare come la religione cristiana abbia giocato un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità svizzera. Ruolo, per vero, non sempre pacifico (l’ordinamento federale presenta ancora tracce evidenti della preoccupazione – dopo il conflitto del Sonderbund del 1847 – di evitare una nuova guerra confessionale), ma senz’altro fervido, tanto che, come ha ben posto in luce lo storico Urs Altermatt, l’esperienza religiosa ha attraversato la storia dei Confederati illuminandone la vita quotidiana e dando alla ’Nazione – volontà’ un patrimonio di valori comuni che ha saputo superare le barriere linguistiche e culturali. Questo non vuol dire, naturalmente, che la Svizzera sia uno stato confessionale: il Tribunale Federale di Losanna ha chiaramente posto in luce il carattere laico della Confederazione, la quale garantisce in via generale la libertà di credo e di coscienza, la libertà di espressione e la generale libertà morale anche per una serie di comportamenti contrari all’etica cristiana (garanzia delle convivenze extramatrimoniali, tutela giuridica delle unioni omosessuali, interruzione volontaria della gravidanza nei casi stabiliti dalla legge). Pare piuttosto di poter affermare – non dissimilmente da quanto evidenziato dal giurista Peter Saladin – che i riferimenti pubblici al

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Zsigmund Bubics, Santuario della Madonna del Sasso (Orselina), 1870

cristianesimo operati dalla simbologia e dall’ordinamento svizzero costituiscono la volontà di cristallizzare un preciso sistema di valori, preesistente alle decisioni della maggioranza e centrato sulla concezione occidentale e cristiana dell’uomo e della sua dignità. In questa prospettiva, i valori portanti del cristianesimo (rispetto per la dignità umana, solidarietà, uguaglianza tra uomo e donna, libertà di coscienza, ripudio della violenza – solo per citarne alcuni) assumono una dimensione ’secolarizzata’, capace di costituire una grammatica etica essenziale di riferimento per tutti i consociati a prescindere dalla loro appartenenza confessionale: essi danno vita ad una sorta di ’religion civile’, trasversale e dunque non divisiva. La croce federale, il salmo svizzero e l’invocazione a Dio hanno perciò una funzione simbolica di riaffermazione di tali valori all’interno del sistema sociale e istituzionale; funzione diretta alla piena realizzazione di essi in modo inclusivo, e non escludente, e pertanto da operarsi nel rispetto del panorama multireligioso della società elvetica. Queste riflessioni saranno inevitabilmente da verificare, in futuro, alla luce della secolarizzazione che la Svizzera sta attraversando: il censimento del 2010 ha posto in luce una marcata contrazione del numero di cattolici e protestanti, e un’evidente impennata di coloro che si dichiarano senza appartenenza confessionale (tanto che, in alcuni cantoni, questi ultimi costituiscono la maggioranza della popolazione).

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La ’scristianizzazione’ della Svizzera potrebbe portare a una ridiscussione in merito ai simboli e ai valori fondamentali che la rappresentano? Difficile dirlo. Di certo, da parte di diversi settori della società è stata avanzata la proposta di modificare l’inno nazionale, assumendo che un salmo (seppur profondamente intriso di patriottismo) non sarebbe più in grado di rappresentare la società elvetica. Per altro verso, c’è il rischio che la secolarizzazione enfatizzi il carattere politico-identitario del cristianesimo in chiave escludente: le recenti votazioni contro l’edificazione di minareti in territorio federale e contro la possibilità di portare indumenti come il burqa ed il niqab in Canton Ticino sono espressione di movimenti sociali compiuti lungo un segnavia controverso, in cui l’affermazione popolare di principi inderogabili è sempre chiamata a confrontarsi con la libertà di religione che deve essere garantita a tutti gli individui. Di certo, le recenti votazioni che in diversi cantoni hanno continuato a garantire l’attuale assetto di finanziamento delle Chiese di maggioranza attraverso l’imposta di culto hanno confermato una attestazione di utilità sociale generale nei confronti di queste ultime: attestazione che impegna i pubblici poteri ad un ruolo attivo nella promozione e nella tutela del loro operato. Il fatto che, sia a Friborgo che nei Grigioni, esponenti di differenti


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forze politiche abbiano individuato nella Chiesa cattolica romana e nella Chiesa evangelica riformata due gruppi di evidente utilità sociale costituisce la riprova che – in diversi cantoni della Confederazione – la presenza delle religioni tradizionali non è un affare meramente privato, ma si articola in una serie di rapporti di interesse generale che fornisce ad esse una dimensione pubblica. Al fondo di tale dimensione pubblica – riconosciuta sia alla Chiesa cattolica che a quella evangelico-riformata, ma in altri cantoni anche ad altri gruppi confessionali del ceppo giudaico-cristiano – vi è l’idea che le istituzioni cantonali debbano reagire alla globalizzazione riconoscendo e sostenendo il ruolo del cristianesimo come vettore e custode dei valori che rappresentano le radici della civiltà elvetica.

Si assiste così a una rivoluzione copernicana rispetto al vecchio Costantinismo. La Chiesa cattolica e quella evangelica non chiedono allo Stato privilegi, ma invitano i pubblici poteri a riflettere su quanto il riconoscimento delle radici cristiane e l’accettazione della presenza di un principio morale immutabile ed eterno, creatore di una legge etica valida per tutti, possano costituire il fondamento della tradizione culturale occidentale e la salvaguardia dei valori su cui essa si fonda. In quest’ottica, il rapporto tra libertà religiosa e laicità si sviluppa attraverso il processo di costruzione di un linguaggio comune, che consenta – tra laici e credenti – una reciproca comprensione e un reciproco rispetto. —

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All’origine del federalismo svizzero ROBI RONZA

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eppure a una scala piccola, tuttavia nient’affatto minuscola, la Svizzera è una persistente attuazione – di evidente successo – del modello politico alternativo allo Stato moderno. Considerato che lo Stato moderno (di cui lo Stato italiano è un esemplare particolarmente mal riuscito) sta affondando sotto il peso della sua strutturale crisi finanziaria, buon senso vorrebbe che l’esperienza elvetica venisse da noi attentamente studiata, tanto più che per farlo non occorre sormontare alcuna barriera linguistica. Viceversa un po’ per ignoranza e un po’ per pregiudizio questa occasione viene in larga misura sprecata. Osserviamo in via preliminare che la grande capacità che la Svizzera ha di attirare capitali e patrimoni stranieri non spiega nulla del successo del suo modello politico. La Svizzera dispone di una pubblica amministrazione di alta qualità a basso costo, e di un ambiente molto favorevole agli investimenti, non perché può far conto sugli ingenti depositi sulle sue banche di capitali e patrimoni stranieri. È vero piuttosto il contrario: attira dall’estero grandi capitali e patrimoni perché la sua pubblica amministrazione è di alta qualità e di basso costo, e perché le condizioni d’insieme della sua economia sono favorevoli agli investitori (ma anche ai lavoratori). Vale allora la pena di andare a vedere come mai. E per questo non basta esaminare la sua struttura istituzionale e la sua cultura amministrativa. Occorre andare più in là cercando di capire la visione del mondo che ne sta alla base nel profondo. A tale riguardo meritano di essere scavalcati i luoghi comuni oggi consolidati che fanno in pratica coincidere la nascita della Svizzera con il travaglio compreso fra l’imposizione napoleonica della Repubblica Elvetica e la costituzione federale del 1848. In effetti la Svizzera è il frutto di una vicenda storica che inizia nel 1291 e giunge fino a noi sviluppandosi nei secoli senza alcuna sostanziale interruzione. È dunque un’esperienza di origine medioevale che via via si è

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aggiornata senza mai abbandonare la propria matrice originaria. Una matrice tanto forte da resistere con successo alla pressione del modello dello Stato moderno malgrado l’incombente vicinanza della Francia. E tanto radicata nel suo popolo da costringere Napoleone a fare l’unico passo indietro da lui mai fatto senza che vi fosse costretto a viva forza, ovvero la rinuncia alla Repubblica Elvetica centralizzata e unitaria. Anche se ciò non piace agli svizzeri “laici”, che perciò non amano ricordarlo, tale matrice è chiaramente cristiana, e trova un’altissima eco simbolica nel fatto che la bandiera federale altro non è che lo stendardo medioevale della Passione di Cristo, e che simboli cristiani e colori riferiti alla liturgia o al Sacro romano impero ricorrono negli stemmi di ventuno dei ventisei Cantoni e Semi-cantoni. Sono esclusivamente “laici” soltanto gli emblemi dei Cantoni di fondazione napoleonica, Ticino, Argovia e Turgovia; e poi di Neuchâtel e di San Gallo. In sintonia con tale ispirazione c’è nell’esperienza politica svizzera una sostanziale fiducia nella libertà e nella responsabilità della persona e del popolo; quindi un rifiuto di quella presunta soggettività dello Stato che sta alla base dell’idea di Stato moderno. Quel principio, oggi noto col nome di “principio di sussidiarietà”, la cui moderna formulazione risale ai secoli XIX e XX, non ha mai smesso insomma di stare alla base dell’esperienza politica della Svizzera (e, seppure in varia misura, anche della sua esperienza sociale). In estrema sintesi le ragioni del successo dell’esperienza elvetica stanno tutte qui. Ciò detto possiamo soffermarci in breve su alcuni elementi-chiave dell’odierno federalismo svizzero.

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In primo luogo il suo carattere radicalmente democratico, che è bene espresso da questo dettaglio di grande valore simbolico: a ogni livello in Svizzera il “primo cittadino” non è il capo del governo bensì il presidente dell’assemblea rappresentativa. Dunque ad esempio il “primo cittadino” di un Comune non è il sindaco bensì il presidente dell’assemblea o consiglio comunale. Da ciò deriva che col voto l’elettore non delega in modo incondizionato il proprio potere politico all’eletto. E infatti in ogni momento se lo può riprendere mediante l’uso del referendum popolare. In secondo luogo il suo carattere autenticamente federale: le competenze dei vari livelli di governo non sono “condivise” bensì ben distinte, e ciascun ente di governo territoriale ha piena responsabilità fiscale. Ciò significa identità tra luogo della decisione sulla spesa e luogo della decisione sul prelievo fiscale (“chi paga comanda, e chi comanda paga”); e concorrenza fiscale, ovvero chi spende meglio può tassare meno i propri cittadini. Sono questi i meccanismi che senza inutili bizantinismi legislativi e amministrativi garantiscono il controllo democratico della spesa pubblica. In terzo luogo una legislazione di tipo non prescrittivo (ovvero, per ogni cosa ti dico che cosa devi fare) ma invece di tipo proscrittivo (ovvero ti fisso dei limiti entro i quali puoi fare ciò che vuoi). La pressione fiscale svizzera, inferiore di circa venti punti percentuali rispetto alla nostra, le pensioni più alte con oneri sociali più bassi, la detassazione delle famiglie con figli a carico, la grande competitività dell’economia dipende da tutto questo. Poi però ovviamente la Svizzera non è il paradiso terrestre. Anche lì il peccato originale fa la sua parte, ma questo è ovvio. —


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Lingue e federalismo svizzero ROBI RONZA

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ome l’esemplare completezza del federalismo svizzero così anche la politica elvetica in campo linguistico è prima di ogni altra cosa l’esito di una filosofia, l’esito di quella concezione della comunità politica di matrice sostanzialmente medioevale, pre-moderna su cui ci siamo soffermati in ‘All’origine del federalismo svizzero’. Secondo la logica dello Stato moderno portato a compimento dalla Rivoluzione francese, i cittadini devono parlare la lingua delle istituzioni, e non le istituzioni la lingua dei cittadini. Secondo la logica che malgrado ogni ulteriore indebolimento sta invece alla base della Confederazione elvetica è lo Stato, sono le istituzioni, il governo federale che devono parlare la lingua o le lingue dei cittadini. La pretesa che siano i cittadini a parlare la lingua dello Stato, che perciò deve essere una sola, nasce appunto con la Rivoluzione francese. Nella Francia pre-rivoluzionaria si parlavano e anche si scrivevano quasi trenta lingue diverse. L’attuale pressoché totale monolinguismo della Francia contemporanea è il prodotto artificiale di un potente processo di imposizione della lingua di Parigi in tutto il territorio nazionale con il conseguente annichilimento di tutte le altre lingue, a partire dalla seconda più parlata, che era la lingua d’hoc. È un processo che inizia alla Convenzione quando, respingendo ogni proposta in contrario, viene stabilito che le leggi siano pubblicate solo nella lingua di Parigi (il francese). È con tale scelta che nasce la questione delle lingue, della lingua ufficiale, delle minoranze linguistiche e così via: un problema che poi emergerà ovunque in seguito si affermerà il modello dello Stato nazionale (con conseguenze particolarmente tragiche in aree strutturalmente mistilingui come i Balcani). Una questione che prima non c’era, come dimostra il fatto che riguardo a epoche precedenti non se ne trova la minima traccia documentaria. L’uomo tende naturalmente al plurilinguismo.

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Ridurre popoli interi al monolinguismo è un’impresa lunga e difficile. Fino alla sua scomparsa nel 1918 oltre alla Svizzera persisteva in Europa un altro e anche ben maggiore caso di soggetto politico di matrice medioevale, l’Impero asburgico. Tenuto conto di quanto le due realtà fossero differenti istituzionalmente, tanto più è significativo osservare la loro straordinaria prossimità in tema di politica delle lingue. I membri della famiglia imperiale ne parlavano di regola cinque (tedesco, ungherese, italiano, ceco e francese) e le amministrazioni dei vari territori facevano uso esclusivo delle lingue locali. Lo confermano gli archivi della Lombardia austriaca dove tutti i documenti sono in italiano, compresa la corrispondenza ufficiale con Vienna. L’Impero asburgico stava insieme in forza del principio di lealtà dinastica, e non di comunanza di lingua. Quindi non sentiva affatto il bisogno di imporre come lingua ufficiale unica la lingua di Vienna. Nella sua ricerca di un’alternativa sia alla storia che tanto più alla lealtà dinastica, la Francia rivoluzionaria s’inventa la “nazione” intesa come insieme di persone che parlano la medesima lingua e hanno diritto a un territorio fissato da dei perentori confini “naturali” in quanto definiti dalle linee di spartiacque. L’esempio tipico di questo modello è ovviamente la Francia stessa, ma l’Italia in ciò la segue da vicino, essendo stata politicamente costruita a sua imitazione. La Svizzera invece si basa su un’idea di nazione, peraltro ben più vicina al significato originario della parola, che è fondata sulla comunanza non di lingua bensì di luogo, di ambiente di nascita: un insieme composto non da chi parla una medesima lingua bensì da chi condivide una medesima terra nativa da cui derivano comuni eredità storiche e comuni interessi.

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Ben diversamente infatti da quanto cominciarono a sostenere i giuristi al servizio del re di Francia nel secolo XVII, per le terre alte la linea di spartiacque non è affatto un confine “naturale”. Anzi la sua trasformazione in confine disarticola le società e le economie di montagna provocandone la marginalità e il declino. Per rendersene conto basta confrontare la situazione della Svizzera, che ha saputo sfuggire a tale disarticolazione, con quella di tutto il resto dell’arco alpino (come pure di altre grandi aree montane, dai Pirenei al Kurdistan). Ponendo la punta di un ideale compasso sul massiccio del San Gottardo e descrivendo grazie ad esso un cerchio che racchiuda il territorio elvetico, si scopre facilmente che al di sopra di una certa quota si è svizzeri a prescindere dalla lingua che si parla. Si scopre cioè che sulle terre alte il confine naturale non è la linea di spartiacque bensì una curva di livello; quella cioè al di sopra della quale clima, natura dei luoghi e ruolo internazionale in tema di gestione dei passi imposero un certo tipo di società e di economia. Con tutto questo la lingua c’entra ben poco, tanto e vero che in Svizzera si parla di “lingue nazionali” al plurale: un’espressione che alle orecchie di un francese o anche di un italiano risulta assai sorprendente. Da tale stato di cose deriva poi la salutare necessità del plurilinguismo come strumento di coesione nazionale che oggi, nel mondo globalizzato in cui viviamo, si risolve anche in un forte vantaggio; ma è solo una conseguenza. Adesso alla scala dell’Unione Europea l’esempio svizzero in materia sarebbe più che mai da seguire. Invece finora è tutto un dilagare di un’inglese d’accatto, ridotto a rudimentale “lingua franca”, anche a causa del quale paradossalmente la comprensione reciproca dei cittadini dei vari paesi dell’Unione invece di crescere non cessa di diminuire. —


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Cosa fanno gli Svizzeri dopo le sei di sera? GIANBATTISTA ’TITTA’ ROSA

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erso la Svizzera ho un sentimento composto per due terzi d’amore e per un terzo di smarrimento, cementato da strane ricorrenze: ho amato moltissimo una fidanzata di nome Ginevra, abitato a lungo in Via Losanna, e tifato ardentemente, pur senza un perché, per l’Ambri Piotta. Ho lavorato per una multinazionale svizzera, la Nestlè, per quasi dieci anni. Nelle mie frequenti visite a Vevey ciò che più mi stupiva e un poco anche turbava, era il coprifuoco che alle diciotto inevitabilmente cadeva sulla cittadina e nei paesi vicini, dove disperatamente in cerca di una qualsiasi emozione mi spingevo con qualche attonito collega straniero. Già alle venti era impossibile trovare un ristorante aperto, e il paesaggio era tanto sereno e ben curato quanto silenzioso e deserto. La domanda che mi saliva alle labbra, e che ancora ogni tanto mi genera un sottile disagio, è: ma cosa fanno gli svizzeri dopo le sei di sera? Né la cucina né la televisione locale, mi suggerisce la mia modesta esperienza, sembrano ispirare passioni tanto forti da inchiodarti per ore. Non ho in questo, purtroppo, esperienza specifica, ma oso insinuare che anche tra le lenzuola l’attitudine svizzera sia piuttosto distaccata, educatamente e facilmente soddisfatta piuttosto che impetuosa o sofisticata. La conversazione, poi, se dobbiamo credere a Durrenmatt e agli altri descrittori d’interni elvetici, raramente decolla e svolazza su vette lontane da una certa qual prosaicità. Non abbiamo nemmeno notizie di una dedizione particolare, da parte del riservato popolo d’Oltralpe, a scoppiettanti e frequenti feste e convivi. Cosa fanno dunque gli svizzeri dopo le sei? Mistero! Eppure... Eppure... la sensazione che la vita si ritiri, che l’homo faber svizzero di Max Frisch, come vampiro alla rovescia al calar

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del sole si abbandoni a una quasi Quando poi abbiamo approfonmorte è certamente fallace, perdito il funzionamento dei sistemi ché chi li conosce sa che gli svizzepensionistico e sanitario, con una ri sono in qualche modo “densi”, base decorosa ma limitata solidaforti, reali. le e obbligatoria, e tutto il resto È semplicemente che, come non lasciato al mercato, nonché la toraramente accade, essi sono vittitale libertà di licenziamento, che me del loro stesso successo. non a caso si sposa con una disocE qui veniamo ai due terzi d’amore. cupazione da decenni al tre per È stato Gianfranco Miglio a dare cento, abbiamo capito il perverso forma alla mia ammirazione legame tra apparente apatia degli istintiva, assoluta per il modello individui e miracolosa funzionalielvetico, per questo federalismo tà del sistema. saggio e pragmatico che dimostra Non scopro io che è spesso la che l’uomo può addomesticare la fame ad aguzzare l’ingegno. storia e imparare da essa, per eviSono i problemi, gli accidenti, tare di aggiungere pasticci e disagli imprevisti, la battaglia quanstri suoi a quelli che già la natura do tutti remano contro, le canaci provvede. gliate, che raffinano le multiforAmo questo misto d’individualimi abilità umane nel sapersela smo e comunitarismo che ti lascia cavare, ne esaltano la creatività, molta libertà ma non ti concede di l’energia, la determinazione, la viverla alle spalle degli altri, che ti polivalenza. ricorda che far parte di una comuNoi italiani siamo i più ingegnonità implica più doveri che diritti, si perché viviamo in un paese con ma ti lascia padrone di decidere strutture collettive di merda, e davvero con il tuo voto se vuoi i periremmo se non riuscissimo a Franco Clivio, design anonimo turchi in casa, o anche un postino compensare: non per nulla i nain più, ma con il costo relativo. poletani sono più ingegnosi dei Ho amato la Svizzera di amore professionale profondo quando, placidi lodigiani o degli operosi lecchesi. pochi anni fa, dovendo per un’azienda italiana aprirvi una filiale, Gli svizzeri non hanno bisogno di essere brillanti, per campare alla ho preso contatto con le autorità ticinesi per le pratiche relative. grande: non capitano loro le trentasette rotture testicolari quotiDovendo esportare una dozzina di dipendenti, temevo l’elvetica diane, dovute a uno Stato invadente dove non serve e assente dove burocrazia, da qualcuno descritta pignola, spietata. serve, che tengono i nostri neuroni frizzanti anche nella tomba. Telefono all’ufficio del lavoro a Bellinzona, spiego il mio problema, e Basta loro essere saggiamente conservatori, non però ottusamente un po’ stupito mi sento dire “Le passo il Viceministro”, il quale ascolta reazionari: si fa manutenzione costante di una nave progettata con e risponde “Bene bene, vediamoci dunque che mi spiegate tutto”. cura, la si dota di tutte le moderne diavolerie, ma si rifiutano tutte Chiedo quando, e quello dice “dopodomani va bene?” le sciocche mode che vanno contro i segreti della navigazione. Dopodomani??? E dove gli svizzeri, lodevoli inventori della Croce Rossa, sono soli “Sì, mi spiace ma domani mi è impossibile...”. e impareggiabili, è nella capacità di non farsi infinocchiare dall’uNon oso dire che mi aspettavo qualcosa come “fra tre settimane”. manitarismo falso e ipocrita che ha corroso il resto dell’Occidente. Arriviamo il dopodomani, e il viceministro, senza alcun tirapiedi A un europeismo che sa di poco, hanno detto no. o segretaria, ci fa accomodare e si presenta così: “Benvenuti, che A mettere un tetto agli stipendi dei manager, demagogia cretina bella notizia che volete portare qui una società, ditemi cosa posso che avrebbe fatto scappare le aziende, i talenti e i contribuenti più fare per voi”. succulenti, hanno detto no. Ad accordare un salario minimo per Meno di mezz’ora dopo uscivamo con tutte le informazioni per legge agli operai (pari allo stipendio di un quadro intermedio in assumere e trasferire i nostri dipendenti, l’autorizzazione a iniziare Italia...) hanno detto ancora di no, sapendo che l’effetto sarebbe le attività mentre le formalità burocratiche venivano espletate, e la stato partorire inflazione e lavoro nero, e non certo pagare uno sensazione di avere avuto a che fare con un consulente e non con spazzino come un neurochirurgo. Ancora non so cosa fate dopo le un burocrate. sei di sera, ma, cari svizzeri, vi adoro. —

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Il potere della democrazia diretta CARLO SEVERGNINI Verso In nome di Dio Onnipotente, Il Popolo svizzero e i Cantoni, Consci della loro responsabilità di fronte al creato, Risoluti a rinnovare l’alleanza confederale e a consolidarne la coesione interna, al fine di rafforzare la libertà e la democrazia, l’indipendenza e la pace, in uno spirito di solidarietà e di apertura al mondo, Determinati a vivere la loro molteplicità nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci, Coscienti delle acquisizioni comuni nonché delle loro responsabilità verso le generazioni future, Consci che libero è soltanto chi usa della sua libertà e che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri, si sono dati la presente Costituzione. [...]

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orse per tentare di comprendere la nostra vicina Svizzera bisogna andarsi a rileggere l’incipit della loro costituzione. In queste poche parole è racchiuso il senso più profondo della comunità elvetica: la difesa dell’autonomia e libertà individuale che trova il proprio limite solo in quella del vicino e dell’interesse comune. La rigida applicazione di questi pochi principi consente al paese di gestirsi con poche o nulle deleghe al potere politico. Incredibilmente la Confederazione non s’identifica nel suo presidente o nel primo ministro come qualunque altro paese. Anche per il Lussemburgo, il più piccolo dei paesi europei, l’entità statale si collega immediatamente al granduca o al primo ministro, chiunque essi siano in un dato momento. Per la Svizzera no. È politicamente indistinta, vagamente fa riferimento al Consiglio Federale, ai Cantoni, ai Comuni, ma difficilmente ricollega una di queste figure a un soggetto fisico. Potere della democrazia diretta. E non dobbiamo credere che sia solo perché la Svizzera è piccola. È una realtà articolata e complessa con interessi, forze economiche, partiti, lobby, esigenze di ceti più e meno fortunati, esattamente

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come qualunque altra nazione anche di grandi dimensioni. Anzi, per le sue peculiarità è al centro d’interessi internazionali da cui riesce comunque a non farsi schiacciare e condizionare. La capacità di questo paese di gestire e mediare fra interessi particolari e interessi comuni è la cosa che più sorprende, soprattutto per la naturalità con cui questo avviene. Diatribe anche violente possono scatenarsi su posizioni contrapposte. Si discute accanitamente con comizi di piazza per l’autorizzazione alla costruzione di moschee e minareti, per il taglio di una pianta in riva al lago di Lugano o per l’acquisto di aerei militari (in quest’ordine di importanza...), ma quando “il Popolo” si esprime tutti si adeguano senza recriminare. Ai nostri occhi d’italiani d’oggi questa può apparire quasi una stravaganza da villaggi rurali, abituati come siamo alle infinite diatribe prima, durante e dopo le decisioni del nostro parlamento che regolarmente sono applicate con poco o nullo effetto per la società civile. E ancora per come siamo costretti nella nostra quotidianità a dover difendere il nostro piccolo spazio dalle costanti aggressioni che sentiamo intorno sia dal nostro prossimo, sia da uno Stato che ha perso il senso del benessere collettivo. Basterebbe però rileggere le vecchie delibere comunali della Milano tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo scorso per scoprire che un tempo non eravamo molto diversi dai nostri vicini svizzeri di oggi!

Certo sorridiamo quando sentiamo raccontare di fatterelli quotidiani svizzeri dove si può discutere nelle assemblee condominiali fino a che ora la sera sia concesso fare la doccia per non disturbare i vicini, ma è questo rispetto apparentemente pedante anche delle piccole regole che dà la certezza dei diritti, dei conseguenti doveri e quindi la serenità della convivenza. Nelle piccole come nelle grandi cose. Pochi anni fa nella nostra bella decaduta Milano ci furono una serie di disordini in alcuni quartieri della periferia meno fortunata. Scontri fra bande sudamericane si disse allora. In quell’occasione un parroco del quartiere fece un accorato appello: “La gente di questo quartiere non è come quella che appare sui giornali! È gente che fatica ogni giorno, portando avanti con dignità una vita difficile ma onesta. È che la violenza, oggi nelle strade e sui media, inizia sul pianerottolo di casa. La prevaricazione nella più modesta quotidianità di chi non è fermato dalla forza pubblica e dalla giustizia costringe chi deve subirla a rinchiudersi in casa. I prepotenti spadroneggiano e si crede che tutti siano come loro”. Quel parroco invocava più ordine e controllo del territorio a iniziare dalle più modeste infrazioni al codice, proprio per arginare e confinare i prevaricatori, lasciando spazio alla gente per bene. Forse sarebbe ora di rincominciare anche noi a pensare che una semplice doccia a tarda ora potrebbe essere di disturbo al nostro vicino... —

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Andiamo a vedere cosa fanno lì MAURO SUTTORA

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uando avevo quattro anni, i pedalò sul lago a Lugano. E la parola Monteceneri scritta sulla grande radio a valvole di mio padre. Quarant’anni dopo, Fox Town e Serfontana. Questa è la Svizzera che ci fa sognare. Noi lombardi che almeno una volta abbiamo votato Lega sperando che, senza la zavorra Roma+Sud, la Lombardia diventi un grande Canton Ticino. Noi cinefili che ogni agosto ci siamo consolati delle mancate vacanze correndo una sera a Locarno per una magica proiezione in piazza. Noi ecologisti che festeggiammo il no svizzero alle centrali atomiche nel referendum del 1990 (Vittorio Feltri, allora mio direttore all’Europeo, nuclearista disarmante: «Radioattività? Tanto di qualcosa bisogna morire»). Noi anarchici sulle orme di Bakunin e Kropotkin, noi libertari in pellegrinaggio steineriano al monte Verità. Noi federalisti che ammiriamo l’autonomia dei cantoni (Glarus può decidere addirittura che non desidera immigrati slavi). E perfino noi grillini (scettici), studenti di democrazia diretta negli unici due posti al mondo dove si vota in piazza alzando la mano: Glarona e Appenzello. Poi, ovviamente, abbiamo anche letto Jean Ziegler, e sappiamo che le banche svizzere “lavano più bianco”. Abbiamo passeggiato nelle città elvetiche dopo le sei del pomeriggio o al sabato, la domenica: c’è più vita in un cenotafio. Ma l’amore per la Svizzera resta immenso. Da trent’anni, una volta al mese, come giornalista propongo: “Andiamo a vedere come fanno lì”. Così feci vincere un premio a Gianfranco Moroldo, fotografo di Oriana Fallaci, che riuscì a inquadrare un soldato svizzero appostato accanto a una mucca durante una nostra inchiesta sull’esercito ’di popolo’. Poi, nel 1999, il beatle George Harrison che scelse Lugano per farsi curare il tumore.

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Due anni fa un’altra occasione triste: visita alla clinica della dolce morte dove Lucio Magri si fece eutanasizzare. Ogni volta che posso, mi faccio invitare dalla mia amica Januaria Piromallo nella sua villa di Gstaad. Lì, acquattati negli hotel, stanno tutti i miliardari greci che, se riportassero i loro patrimoni a casa,

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risolverebbero la crisi del loro Paese. Durante l’ultimo viaggio, aprile 2014, una fantastica scoperta: l’ascolto guidato, alla Radio Svizzera italiana, di una sinfonia di Mendelsohn. Sono questi i piaceri della vita, oltre all’erba rasata a zero e i fiori perfetti nelle aiuole. —


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la Svizzera è un bene da conservare DANILO TAINO

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ui rischiamo di perdere la Svizzera. Qualche settimana fa, un economista di Bombay raccontava che l’infatuazione del cinema indiano per la Confederazione e per le sue Alpi sta declinando a grandi passi, sfidata da altri paradisi. Sin dagli Anni Ottanta, centinaia di film di Bollywood hanno avuto i duetti d’amore e gli happy ending girati tra le nevi o sui prati delle valli elvetiche. Comprensibile, per un Paese arso dal sole, coperto di polvere e aspirante allo chalet della borghesia emergente e romantica.

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Prima, le troupe salivano verso le vette e i boschi del Kashmir, ma questioni di sicurezza li dirottarono verso Berna e dintorni, lungo una strada aperta nel 1985 dal grande regista Yash Chopra, il quale introdusse l’interludio in cui i due eroi dai capelli corvini ballano alla musica di Bollywood davanti a sfondi alpini. Da allora, il Cut to Switzerland diventò quasi un obbligo per ogni produzione importante di Bombay, un’ossessione, e per anni, tutti i Novanta e oltre, tra i laghi e i laghetti della Svizzera finirono almeno una dozzina di carovane cinematografiche indiane all’anno. Ora siamo a non più di due o tre, ha confidato al Wall Street Journal un funzionario dell’ente del turismo elvetico, Urs Eberhard. Un po’ è che anche gli indiani cambiano gusti, ora preferiscono vedere danzare le loro star su un tetto di Londra e in un parco di New York, piuttosto che attorno a una baita di montagna. Ma soprattutto è che la concorrenza è diventata aggressiva. Il Tirolo austriaco ha un programma di incentivi per attrarre i registi indiani. Una serie di proposte sono state avanzate dalla Polonia e accettate a Bombay. Il Tajikistan si è fatto avanti. E Dubai ha già strappato qualche produzione alla Svizzera. È la globalizzazione al lavoro: gli svizzeri dovranno trovare il modo di riprendersi i film di Bollywood, non tanto per il business in sé, neanche in fondo per gli oltre trecentomila indiani che vanno in gita e in luna di miele nelle location che videro in azione i loro divi: è soprattutto una questione di reputazione, di questi tempi non ti puoi permettere di essere abbandonato, di risultare meno attraente. Chi perde è perso e l’effetto domino può essere fatale. Anche in un’attività ben più rilevante degli spezzoni di cinema, infatti, la Confederazione zoppica. In uno studio sulla ricchezza pubblicato di recente dalla società di consulenza Boston Consulting Group, si dice che oggi la Svizzera è ancora la maggiore piazza finanziaria offshore per la gestione del denaro dei ricchi del pianeta, con circa duemilatrecento (2.300) miliardi di dollari in gestione, il ventisei per cento (26%) di tutti i capitali detenuti offshore. Ma si aggiunge che il Paese è sotto la forte pressione delle autorità dei Paesi industriali avanzati – da cui buona parte dei denari nei forzieri delle banche elvetiche proviene –, impegnate in una grande guerra all’evasione fiscale. “Nel lungo periodo – dice lo studio – la posizione della Svizzera come maggiore centro offshore del mondo è sfidata dalla crescita di Singapore e Hong Kong, che attualmente detengono il sedici per cento (16%) dei patrimoni offshore” e attraggono oggi più denaro di Zurigo, Ginevra, Lugano eccetera. Ora, non è che gli svizzeri siano ingenui e incapaci di reagire. Negli Anni Ottanta, quando i giapponesi invasero i mercati con gli orologi al quarzo, sembrava che la patria dell’orologio a cucù dovesse rassegnarsi al tramonto.

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La reazione fu invece brillante: sia grazie alla Swatch, low-cost, sia grazie alle alleanze di marketing tra i produttori storici di qualità, high-end. Con il risultato che in fatto di orologeria gli elvetici hanno mantenuto, forse incrementato, il primato. Ma anche di recente hanno dato prova di freddezza. Nonostante il populismo avanzi in tutto il mondo, l’anno scorso, a uno dei tanti referendum, gli svizzeri hanno sì detto che agli stipendi dei manager è legittimo mettere un tetto, ma hanno rifiutato l’idea che a stabilirne l’altezza sia lo Stato: è una questione – hanno fatto sapere con il voto – che spetta agli azionisti, cioè ai proprietari delle aziende. Una decisione che con referendum in altri Paesi probabilmente non sarebbe stata presa e che garantisce, almeno in parte, che le tante multinazionali che hanno la testa in Svizzera la tengano lì. Siamo di fronte a un popolo piuttosto saggio, dunque. La quale circostanza, combinata con un sistema democratico ammirevole, in genere produce ottimi risultati. Basta attraversare il confine per notarlo. Ciò nonostante, il problema oggi s’impone: riusciranno gli svizzeri a fare fronte alle pressioni dei governi di mezzo mondo affinché, in sostanza, smantellino la loro piazza finanziaria? O riusciranno a modificarla in modo accettabile per la comunità internazionale? Sapranno rispondere alla concorrenza indotta dalla globalizzazione, si parli di Bollywood o di cassette di sicurezza? Non sono fatti solamente loro. È vero che la confederazione e le sue banche sono spesso state benevole – per interesse – con molti dei dittatori più odiosi e con i loro patrimoni rubati, è vero che la criminalità internazionale ha spesso approfittato della segretezza dei conti correnti cifrati. Tutte questioni che le autorità elvetiche devono risolvere. Senza la Svizzera, però, il mondo sarebbe un luogo peggiore. Un’isola di libertà e di diritti di proprietà certi nel cuore dell’Europa, infatti, è una garanzia per i valori – intesi come ideali – dell’Occidente. I conti riservati, in fondo, sono un’eredità di lungo periodo degli ugonotti perseguitati in Francia e riparati in Svizzera. Non a caso conti correnti odiati dai nazisti che in ogni modo cercarono di metterci becco. E, ancora oggi, un Paese serio ed efficiente, fondato su regole certe, che difenda il denaro quando dorme, come in qualche caso, o quando non dorme, come quasi sempre, è un’alternativa che frena gli eccessi interventisti degli Stati, anche di quelli in teoria più democratici, i quali senza la concorrenza della Svizzera sarebbero un po’ più tentati di mettere antenne nelle nostre case e le mani nelle nostre tasche. Non è politicamente corretto dirlo, ma la Svizzera è un bene da conservare. —


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Un elevato orgoglio nazionale ENZO TOSI

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uggerisco di non ricorrere al “sognata”, in quanto gli italioti non sognano la Svizzera. Forse la sognavano i poveri italiani che negli anni Cinquanta, in cerca di lavoro, vi andavano a dormire, accolti nelle baracche. La sognavano come possibile fonte di sostentamento. Gli italioti oggi immaginano che la Svizzera sia un Paese di miserabili ricchi, gretti e micragnosi, spregevoli cioccolatai. Io ne ho immagine diversa, sulla quale posso rilasciare la mia impressione qui e subito. La Svizzera è un Paese composto da comunità etno-linguistiche le quali nel resto d’Europa fino pochi decenni addietro erano solite massacrarsi, mentre all’interno della Confederazione sono convissute pacificamente.

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Questo Paese, pur nelle sue dimensioni relativamente ridotte e pur nella divisione in almeno quattro raggruppamenti linguistici ufficialmente riconosciuti (tedeschi, francesi, italiani e ladini), mostra fierezza e orgoglio per l’Unità nazionale. In nessun altro Paese, neppure in un Paese patriottardo e nazionalista come gli USA, si vedono esposte tante bandiere nazionali, ogni giorno dell’anno e ad ogni edifico, finestra o balcone. La Svizzera fu neutralizzata del conte di Metternich e dal Trattato di Vienna, poiché le sue bande di mercenari tosti (era Paese povero e montanaro) per secoli avevano costituito un fattore d’instabilità in Europa. Da allora la Confederazione ha saputo mantenere un elevato orgoglio nazionale senza mai accompagnarlo al minimo segno di aggressività verso l’esterno. That’s Tosi’s opinion. —


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Anni Quaranta/ Settanta: gli Svizzeri a Luino SILVIO VALISA

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acchito, il tema mi riporta ai miei anni verdi a Luino, dagli ultimi ’40 ai primi ’70. Ci sarebbero anche gli anni precedenti, la radio Monte Ceneri (o Beromunster), ascoltata da mio padre di nascosto, il primo cioccolato della mia vita arrivato di contrabbando, e i gruppi di persone sconosciute che per un certo periodo – probabilmente l’autunno inverno 1943 – ho visto passare per un sentiero davanti a casa diretti alla salvezza in Svizzera, i ricordi comico/avventurosi degli internati, su tutti l’inarrivabile racconto di Chiara sul suo soggiorno – brevissimo per la verità – in un campo di raccolta svizzero.

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Ma c’era la guerra che, con la sua ottica terribile e distorta, rendeva tutto giustificabile. Luino, città di frontiera, enorme stazione addirittura con un treno svizzero che tuttora arriva fino a metà con la corrente ’svizzera’ appunto. Solo l’altra metà ha o aveva corrente italiana, con tensione diversa per i treni italiani. La gente luinese aveva intensi contatti umani, anche se in genere di non eccelso livello, soprattutto con i ticinesi. C’erano ad esempio i clienti della Mamma Rosa - personaggio reale oltre che letterario ne ‘Il piatto piange’ - la cui casetta rossa con le persiane verdi serrate (la Svizzera non aveva mai avuto bisogno, nel bene e nel male, di leggi Merlin), comportava sempre qualche macchina targata TI parcheggiata nelle via adiacenti. La discrezione dei proprietari era vanificata dal tipo di auto, spesso grandi e vistose americane, consentite oltrefrontiera dal vilissimo prezzo della benzina e dai ‘franc’. Poi, i corrispondenti elvetici dei contrabbandieri italiani, quelli che facevano trovare le bricolle confezionate appena al di là della rete. Me ne ricordo uno in particolare con un soprannome tipo ‘il tordo’ (ul dörd) che periodicamente si vedeva in Guzzi per le strade o a confabulare nelle osterie. Ancora, la maxistazione luinese in quegli anni era uno scalo importante per l’importazione di animali vivi, bovini soprattutto e cavalli. Gli addetti italiani e svizzeri, ma c’erano anche olandesi e danesi, erano mandriani e contadini riciclati, le bettole presso la stazione –

molto frequentata una con significativo soprannome ‘il moscaio’ - li vedevano protagonisti di epiche bevute. Anche i frequentatori del mercato il mercoledì, pur non solo ticinesi, oscillanti nel comportamento tra l’ingenuo e il taccagno, tipica difesa di tutti i turisti nel mondo dalle furbizie dei mercanti, non miglioravano l’immagine degli ‘svizzeri’ presso i luinesi. I ticinesi parlavano schiettamente e sempre il loro dialetto, praticamente identico al nostro salvo le varianti locali, ma in Italia parlare dialetto non ‘faceva fino’. Da noi madri e maestre si prodigavano per l’estinzione della lingua degli antenati. E si finiva per dire che gli svizzeri italiani erano solo una minoranza italica di serie B, che solo la neutralità, preservandoli dalle guerre, li aveva arricchiti e resi ancor più cafoni. Correntemente, se si sentiva aria di fregatura, c’era chi proclamava “...non sono mica svizzero” o “mi prendi per uno svizzero?” Si trattava di una di quelle cantonate che ogni tanto prendono le comunità come gli individui o forse anche di una difesa, un mettere avanti le mani, perché anche i meno avveduti capivano che la Svizzera e gli svizzeri, quali che potessero sembrare superficialmente, erano ben altro. Era che noi non eravamo soltanto rimasti indietro per via delle guerre che loro non avevano fatto. Il divario era altro, era grande grande, a tratti addirittura indefinibile. Del resto l’ostentata certezza degli svizzeri come semplici ‘italiani

Caroline von Schlieben, Luino, da Viaggio pittorico ai tre laghi di Friedrich e Caroline Lose, 1818, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano

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arricchiti’ mostrava enormi crepe: oltre alla occasionale plebe puttaniera e contadino/contrabbandiera/turistica a Luino c’era una fiorente comunità svizzera costituita in primis dai dipendenti delle Dogane e Ferrovie svizzere. C’era addirittura una scuola svizzera e i dipendenti della Confederazione abitavano una autorevole ‘Casa Federale’ sul Viale della Stazione. Un episodio significativo capitato ad un mio conoscente che lavorava all’acquedotto comunale: l’amministratore della suddetta ‘Casa Federale’, un distinto signore svizzero, aveva rilevato un errore nella bolletta dell’acqua ed aveva concordato con il mio amico impiegato una versione corretta, redatta seduta stante in bozza, salvo approvazione, per lo svizzero, della sua direzione di Berna. Il giorno dopo l’utente elvetico era tornato in ufficio: aveva la bozza della bolletta vistata da Berna con la richiesta di un piccola correzione prima del pagamento. L’ufficio italiano non aveva neppure ancora stampato definitivamente la fattura, mentre la copia svizzera - in tempi di carta e basta – nell’arco di ventiquattrore, una decina lavorative, aveva viaggiato da Luino a Berna e ritorno. Il mio conoscente si era immaginato la stessa pratica in Italia, con una pratica che da vistare a Roma... Svizzeri – tedeschi – erano stati nell’800 i fondatori delle grandi industrie tessili luinesi, dalle quali gli italiani avrebbero derivato le loro con il meccano tessile.

Un industriale svizzero aveva fondato la gloriosa ‘Banca Popolare di Luino’, poi anche ‘di Varese’, il cui centenario ha visto un volume celebrativo curato da Piero Chiara, azionista e appassionato estimatore. Gli ultimi amministratori, quelli dello sputtanamento definitivo, erano tutti buoni italiani. Avrei molti altri ricordi, anche familiari, molto interessanti e cari per me, ma credo sia inutile tirarli fuori; le conclusioni, a livello di microstoria, sono analoghe alla storia della bolletta. Ormai da una vita la Svizzera, come nazione, è un mio sorvegliato speciale. Ho fatto sulle montagne svizzere le mie migliori gite e sciate, da anni, fortunosamente – per via dei ripetitori - sono un fedele spettatore della TV svizzera, assisto a una politica, magari un po’ noiosa, ma dialettica restando seria e corretta, la piena occupazione imperterrita da anni, il deficit nei bilanci – pubblici o privati – assolutamente eccezionale e comunque dichiarato correttamente e chiaramente corretto. Il territorio preservato come una risorsa, il PIL che mantiene la crescita in tempi di crisi mondiale, il debito pubblico a livello d’inesistenza. È inutile elencare, sono pur sempre un italiano, ogni tanto anche orgoglioso si esserlo, in un tempo lontano la mia famiglia ha consapevolmente scartato l’ipotesi di ‘elvetizzarsi’ e non se n’è pentita. Però, la Svizzera, la Svizzera... —

Confine italo-svizzero, Luino, 1973. foto di Uliano Lucas. (Mostra fotografica ’Il lungo addio’, a cura del Credito Valtellinese, 2006)

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Arrenditi, Svizzera, sei circondata MARCELLO VENEZIANI

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altro giorno ero in treno e al mio fianco avevo una specie di piccolo Buddha in versione napoletana. Il piccolo chiattone (pingue) non aveva dieci anni, e chiedeva alla madre, chiattona pure issa, notizie sulla crisi economica in atto e come mai nessuno riesce a risolvere la situazione. Dopo aver assunto tutte le notizie utili ha emesso un responso che mi ha lasciato di stucco: perché non invadiamo la Svizzera? Il piccolo Buddha, o se preferite il piccolo Hitler o il piccolo Stalin, faceva un ragionamento diabolicamente ineccepibile.

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Ci mancano i soldi, la Svizzera ha tante banche, è neutrale, non fa guerra e dunque non oppone resistenza; dunque perché non ci pigliamo la Svizzera? Ecco la soluzione ai nostri problemi. Favolosa. Altro che secessione, meglio l’annessione. Anchluss. E poi è assurdo che un’Europa nata a immagine e somiglianza della Svizzera, intorno alla moneta e alle banche, debba avere questo buco nero in pieno centro Europa. Arrenditi, Svizzera, sei circondata. Mi sembra magnifica la soluzione proposta dalla creatura che ragionava come Napoleone, sbrigativo ed efficace. Aggiungerei una sola postilla. Una volta invasa, imporrei alla Svizzera di assumersi lei l’onere di governare l’Italia. Noi non siamo buoni, come dicono a Napoli, non siamo capaci. Sarà la Svizzera Imbecille, come spregiativamente diceva Ardengo Soffici, ma si è costruito un sistema economico-sociale preciso come un orologio, che non ha bisogno dell’Europa e del Fiscal Compact, della Banca centrale e delle vecchie zie delle agenzie di rating, ma fa per conto suo. Ci considerino il loro Cantone inferiore, sotto tutti i punti di vista, il più popoloso e il più rognoso. Il Canton Tapino. Dichiariamo guerra alla Svizzera col proposito di perderla a tavolino e di arrenderci ai loro cioccolati a cucù... Che schiava di Berna Iddio la creò. —


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Italiano o Svizzero? In lui c’è tutto: nord, mare, montagna, Italia e Svizzera. Ernesto Bertarelli

Chris Schmid/Eyemage.ch/Alinghi

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La nostra terra: la Svizzera vista dagli Svizzeri


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Tra le tradizioni alpine e l’italianità: la cultura popolare della Svizzera WALTER LEIMGRUBER

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a Svizzera si presenta al mondo con la finalità di attrarre i turisti o per fare bella figura politicamente, gioca con gli elementi di una cultura prevalentemente alpina, della montagna, dei pastori e delle mucche, dei villaggi pittoreschi e delle usanze arcaiche, dei formaggi e del cioccolato. In questa lunga tradizione si trova la culla del turismo e della cultura politica di oggi. L’INVENZIONE DEL TURISMO Nel 1805, vicino a Interlaken, nell’Oberland bernese, ha luogo la prima festa alpina svizzera, l’Unspunnenfest, per evitare che i contadini si rivoltino contro il potere crescente dei cittadini. La festa con una sfilata di carri, concorsi di canto, gare di tiro a segno, balli, lanci di pietre e il soffiaggio dell’Alphorn è un successo assoluto. Tradizioni quasi completamente scomparse, come il soffiaggio dell’Alphorn, vengono riprese e vivono una rinascita, vengono utilizzati come un elemento della Swissness usata nella quotidianità e celebrata durante le festività, un termine che, però, guadagna in popolarità solo all’inizio del ventunesimo secolo. La successiva festa Unspunnen ha luogo tre anni dopo, nell’agosto del 1808. Anche se le feste sono considerate un grande successo in termini di visitatori, non raggiungono gli obiettivi dei fondatori, infatti,

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Pierre Antoine Mongin, The Unspunnen fest, 1808

alcuni anni dopo la seconda edizione dell’Unspunnenfest si manifestano dei disordini nell’Oberland bernese. Noti artisti, però, come Elisabeth Vigée-Lebrun e Franz Niklaus rappresentano l’Unspunnenfest con immagini idilliache; autori di guide turistiche o scrittrici come Madame Germaine de Staël redigono dei testi sulla festa che attraggono visitatori provenienti da tutt’Europa che vogliono vedere il luogo con i propri occhi. Le feste Unspunnen possono essere descritte come l’inizio del turismo nell’Oberland bernese e contemporaneamente sono anche un segno tipico del rapporto non sempre facile tra città e campagna in Svizzera. L’INVENZIONE DELLA SVIZZERA Oltre alla celebrazione per i cittadini e i turisti, la cultura tradizionale diviene anche una parte importante della politica. Infatti, nel 1848 nasce la Svizzera, così come la conosciamo oggi, come uno stato federale con una costituzione democratica. Tuttavia, la metà della popolazione e dei cantoni, soprattutto quelli più rurali e di una tendenza cattolica-conservatrice, si oppongono a questo nuovo sistema che dona più potere allo stato federale a spese dei cantoni, che prima erano praticamente indipendenti e che devono affrontare una guerra civile, la cosiddetta Sonderbundskrieg, che per fortuna non è troppo sanguinosa, prima di essere sconfitti. Ci vuole quasi mezzo secolo, perché questa parte della popolazio-

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ne venga davvero integrata nel nuovo sistema: nel 1891 il primo rappresentante dei conservatori cattolici viene eletto nel Bundesrat, il governo. Per bilanciare una politica che si caratterizza prevalentemente per la cittadinanza e l’imprenditorialità protestante, liberale e urbana e che per lungo tempo viene dominata esclusivamente da membri del Partito Liberale, si celebrano la cultura della regione alpina e l’immagine di una Svizzera pre-industriale. Mentre da una parte si tenta di mitigare le ferite della guerra civile, dall’altra parte il nuovo sistema politico ha bisogno di una base culturale da tutti accettata. Questa non può essere la celebrazione della lingua, della storia e della cultura comune, perché la Svizzera non è, diversamente da molti altri paesi europei, una nazione in senso stretto, dove il ritorno a una crescente affinità culturale forma la giustificazione e le fondamenta per il sistema politico e la celebrazione delle forme comuni. La cultura del territorio alpino offre una soluzione accettabile, visto che le Alpi attraversano non solo tutte le regioni linguistiche della Svizzera, ma forniscono con la loro cultura, che viene percepita arcaica, anche un terreno ideale, il quale proietta nel lontano passato l’idea di libertà e democrazia, fino ad arrivare a Guglielmo Tell, che, secondo Schiller, si vendicò con l’assassinio del tiranno che gli aveva comandato di colpire la mela posta sulla testa del proprio figlio.


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L’INVENZIONE DEI CLUB La coltivazione di queste forme culturali è fatta con un mezzo che, per ironia, è collegato strettamente con il pensiero moderno e progressista dell’Illuminismo, il club, che è espressione di libertà di riunione e di opinione, ma anche dell’impegno dei cittadini (le cittadine svizzere non vengono considerate paritarie per tanto tempo e solo nel 1971 ricevono il diritto di voto), della società e dei suoi interessi. Dall’Ottocento la Svizzera diventa il ritrovo dei club, si dice che due svizzeri costituiscono almeno tre club. Questi club si riuniscono durante le cosiddette feste federali e celebrano la loro attività del club, il tiro a segno, il canto, la riproduzione musicale o la ginnastica, oltre che la patria e il patriottismo. I club che ora sono percepiti come tipicamente svizzeri, quelli dei cantanti di jodel, dei lottatori, degli sbandiatori, del corno alpino, tuttavia, spuntano solo più tardi, a cavallo tra il novecento e il ventesimo secolo, in tali associazioni e feste nazionali. La Svizzera appare durante questi eventi sempre come luogo rurale, di agricoltura e dell’artigianato. Si celebra un mondo alternativo alla rapida industrializzazione e urbanizzazione, un luogo di contemplazione e di tradizione contro la rapida crescita e modernizzazione della società e della popolazione. Quotidianamente si vive il progresso, l’industria e il commercio, mentre il giorno della festa si celebra invece la vita rurale, lenta e contemplativa. LA (RI)INVENZIONE DELLA TRADIZIONE Non è sorprendente che ancora oggi siano visibili dei fenomeni simili. Infatti, la transizione verso la globalizzazione, verso l’era dei servizi e la digitalizzazione, intimorisce in modo simile all’industrializzazione d’allora: il timore di perdere ciò che è famigliare, ciò che è

regionale, la patria e l’appartenenza. E così i corsi di canto di jodel trovano grande consenso nelle città, e contemporaneamente le feste federali dei lottatori e degli alpigiani diventano luogo di ritrovo per un pubblico urbano e di tendenza. Allo stesso tempo, queste tradizioni si sviluppano continuamente, liberate dalle restrizioni della coltivazione di costumi che le ha rese rigidi e inflessibili, in modo che sono apparse a molti come obsolete e non più connesse con la loro vita. Una giovane generazione coltiva la musica folcloristica e lo jodel, sperimentando, mischiando o rinnovando, oltre che recuperando forme dimenticate che riprendono vita. Al contempo, la cultura popolare è talvolta teatro di visioni del mondo, soprattutto i populisti di destra reclamano la vera cultura popolare per se stessi, la usano per le loro apparenze politiche e negano a tutti gli altri di essere rappresentanti del popolo. Le tradizioni vengono sfruttate come strumenti di lotta politica, come già visto in tanti altri sistemi, soprattutto quelli autoritari, e devono aiutare a combattere tutto quello come sconosciuto e non-svizzero. Ai valori ottenuti appartiene, agli occhi di questo gruppo, per esempio il segreto bancario. Non è sorprendente, quindi, che qualcuno ironizzi che il segreto bancario potrebbe essere salvato solo se facesse parte del patrimonio dell’umanità nella lista dell’UNESCO come bene culturale protetto. Quello che negli ultimi decenni lascia un’impronta alla Svizzera e alla sua cultura di tutti i giorni in particolare, oltre a questa rinnovata popolarità della cultura tradizionale, sono cose poco spettacolari che generalmente non fanno parte della cultura popolare, ma che tuttavia rendono visibili molto bene il carattere e la comprensione del paese stesso. Tra di loro si trova il Halbtaxabonnement, un abbonamento che consente di utilizzare, con pochi soldi, tutti i mezzi pubblici del paese,

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treni, bus, tram, barca e funivia, per metà prezzo. Praticamente ogni persona in questo paese possiede un Halbtaxabonnement per 175 CHF all’anno, non solo perché i prezzi sono alti in modo esorbitante, ma anche perché ci si affida ai mezzi pubblici. Si è orgogliosi del buon accesso di tutto il paese, della puntualità e dell’affidabilità che vengono considerati come valori e caratteristiche tipicamente svizzeri. Molti hanno addirittura un cosiddetto Generalabonnement, un abbonamento generale, che consente l’uso illimitato di tutti i mezzi pubblici ad un prezzo di circa tremilasettecento CHF nella seconda classe e per seimila CHF nella prima classe; così non solo si va al lavoro in modo conveniente, ma si possono anche visitare tutte le attrazioni turistiche e le feste. L’INVENZIONE DELLA MEDITERRANEIZZAZIONE E quello che lascia un’impronta alla Svizzera è uno sviluppo che potrebbe essere descritto come Mediterraneizzazione: gli italiani che come primi sono emigrati, in gran numero, in Svizzera, e che già nel novecento lavoravano come operai per la costruzione dei tunnel o delle strade e poi in tanti dopo la Seconda Guerra Mondiale come operai per l’industria, e che fino ad oggi sono il più importante gruppo di immigrati, non hanno solo portato la loro manodopera, ma anche la loro cultura e il loro stile di vita. Essi hanno cosi cambiato radicalmente il paese: al posto del cattivo caffè o del surrogato del caffè, come il caffè di cicoria, oggi beviamo l’espresso e il cappuccino; la pizza e la pasta sono tra i piatti più popolari, e non esistono cucine, nelle quali un tempo si cucinava con strutto o olio di canola, senza olio di oliva extra vergine e aceto

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balsamico; il vino e grappa italiani sono oggi cosi scontati come in precedenza la birra e i liquori. Qualche locanda di campagna sonnolenta è diventata una pizzeria popolare, qualche bottega del quartiere è diventato un negozio, qualche piccolo bistrot una paninoteca. Anche la moda italiana e il design italiano influenzano la nostra vita quotidiana. La diversità culturale non solo con le proprie culture, causata dalla mobilità e dalla migrazione è diventata un elemento chiave della Svizzera. Più di un terzo della popolazione ha origini diverse. Oltre agli eventi tradizionali, c’è una varietà di festival internazionali, nelle valli di alta montagna e nelle città: La Street Parade nella cosmopolita Zurigo, il Festival del suono vocale naturale nel Toggenburg idiallico, il famoso festival jazz nella splendida Montreux e molti altri. E non pochi turisti arrivano ovunque, per la festa dei lottatori come per l’open air, in un ristorante regionale come in un locale di tendenza. Varie onde politiche, che vogliono limitare la migrazione e che non sono esenti da toni xenofobi, attraversano il paese. Per quanto riguarda la vita quotidiana, l’italianità e il modo di vita mediterraneo si sono imposti ampiamente. Se tre o quattro decenni fa le piazze e le vie delle città erano vuote ed abbandonate, perchè si stava a casa, oggi sono piene di gente che passeggia e che popola i locali all’aria aperta, lungo i viali e le rive. Solo quando fa freddo ci si deve avvolgere in coperte di lana per onorare questo stile di vita mediterraneo-leggero si nota che si è ancora in Svizzera e non in Italia. —


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Un paese unico per i suoi investimenti nella materia grigia GIORGIO MARGARITONDO ECOLE POLYTECHNIQUE FÉDÉRALE DE LAUSANNE

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ur risiedendovi da venticinque anni, non arrivo ancora a capire perché l’immagine della Svizzera sia così sistematicamente distorta all’estero. Il suo nome può evocare degli elementi positivi o negativi, come gli orologi di qualità e l’ottima cioccolata, oppure i conti segreti. Ma a nessuno viene in mente la triade che meglio dovrebbe caratterizzare, e in modo molto positivo, l’immagine del paese: educazione, ricerca, innovazione. Eppure, i fatti in merito sono concreti e chiarissimi. La Svizzera piazza sistematicamente sei o sette università alla cima delle classifiche mondiali, battendo largamente tutti gli altri paesi. Il suo sistema accademico è forse meno noto di quello americano, con le sue Harvard, Berkeley e MIT. Ma, com’è stato rilevato dal Segretario di Stato Mauro Dell’Ambrogio, un giovane americano ha pur sempre una probabilità molto bassa di poter studiare in un’istituzione di punta. Nella Svizzera, questa probabilità è dell’ordine del cinquanta per cento (50%). Una gran parte del sistema universitario svizzero è orientata verso la ricerca -- il secondo pilastro della triade e un altro straordinario successo. La Svizzera è da anni la prima al mondo per il numero di brevetti per abitante e per l’impatto dei suoi risultati scientifici in rapporto al prodotto nazionale.

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Le sue due macro-regioni Losanna-Ginevra e Zurigo-Basilea si battono alla pari con quelle di Cambridge-Oxford, di Boston e della “Bay Area” per il numero di articoli scientifici in rapporto alla popolazione. I suoi finanziamenti annui per la ricerca sono, come percentuale del prodotto nazionale, fra i più alti: tre volte più dell’Italia ma anche il trenta per cento (30%) più del Regno Unito. Questi fatti creano le basi per l’innovazione e per l’alto tenore di vita, evidenziando legami che sono spesso trascurati dai politici di altri paesi -- ma trovano qui un largo consenso. Da anni, l’indice di competitività della Svizzera è il più alto del mondo, compensando handicaps quali la moneta forte e il corrispondente alto costo del lavoro. Non a caso, il reddito pro capite è sistematicamente fra i primi otto/dieci in tutte le classifiche mondiali. Questa serie di primati non è una situazione statica ma una storia continua di rinnovamento. A Losanna, in dieci anni è stata realizzata da zero una delle migliori facoltà al mondo per le scienze della vita, ed è stato conquistato il più grande progetto di tutti i tempi per la ricerca sul cervello umano. Nel Ticino è stata costruita USI, che si è rapidamente situata alla testa delle classifiche mondiali fra le università di lingua italiana. Questi indicatori quantitativi di un successo e di un impegno nazionale senza pari sono confermati da tantissimi fatti qualitativi, rilevanti quanto largamente ignorati all’estero. Oriana Fallaci, in un suo celebre libro, criticò gli stereotipi antielvetici tipo “gli svizzeri hanno inventato solo il formaggio e l’orologio a cucù” (che non è svizzero). Ma usò degli argomenti sbagliati, dicendo che non c’era nulla di male a fabbricare tali prodotti. Meglio avrebbe fatto a citare i tantissimi contributi elvetici alla scienza e alla tecnologia: Einstein con la relatività e il fotone, Pauli con il principio di esclusione, Ernst e Wuhtrich con la risonanza magnetica, Müller e Bednorz con la superconduttività ad alta temperatura, Binnig e Rohrer con il microscopio a effetto tunnel per vedere i singoli atomi, Miescher con il DNA. E anche l’invenzione di tanti prodotti di largo consumo come il computer mouse, il velcro, il cellophane, la farina lattea, il foglio d’alluminio... e via dicendo. Le conquiste della Svizzera nella triade educazione-ricerca-innova-

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zione non sono degli episodi sporadici ma elementi di una storia continua che dura da un secolo e mezzo. E che si è progressivamente estesa a tutto il paese. La Svizzera romanda, in particolare, era fino agli anni sessanta chiaramente sfavorita per quanto concerne le istituzioni accademiche di alta tecnologia; questo l’aveva portata alla perdita d’industrie storiche come le apparecchiature cinematografiche e quelle di alta fedeltà. Da allora, è balzata ai primi posti con l’insieme delle sue istituzioni accademiche, in particolare l’EPFL. Come si spiega questo enorme e sostenuto sforzo nazionale? Semplice: è uno dei migliori risultati della vera democrazia. In un paese dove ogni decisione può essere contestata dall’arma del referendum, non sono concepibili i tagli ciechi e selvaggi alla ricerca o le forzature che accadono in tanti altri paesi. Questo anche perché il mondo scientifico, cosciente della sua dipendenza dal consenso della popolazione, ha da molto tempo lasciato le sue vecchie torri d’avorio onde spiegare a tutti l’importanza della ricerca per i comuni cittadini. E ha rinunziato alle distorsioni che affliggono la maggioranza dei sistemi accademici europei, come la baronia, la chiusura corporativa a candidati esterni o stranieri e il rigetto snob del trasferimento tecnologico. Non esiste al mondo, adesso, un sistema universitario che sia altrettanto aperto, internazionale e volto alle nuove tecnologie come quello elvetico. Ma allora, perché l’immagine all’estero della Svizzera è ancora dominata dagli orologi, dal cioccolato e dai conti non dichiarati? Certamente, questi elementi sono molto più “sexy” del serio lavoro per la suddetta triade, e quindi “fanno più notizia”. Ma è anche vero che la popolazione svizzera è molto – troppo - timida nel proiettare la vera immagine di se stessa. Questa modestia può essere astrattamente una dote, ma in un mondo in cui tutti urlano per farsi sentire è anche un handicap. Sarebbe forse meglio aumentare la sana propaganda, anche per mostrare che il paese è un ottimo modello per un’Europa così profondamente in crisi. Investire nella triade significa, infatti, investire nella materia grigia della popolazione e in particolare nei giovani, uomini e donne. Gli altri paesi, europei e non, potrebbero approfittare di questa esperienza di grande successo, invece di farsi fuorviare dai luoghi comuni. —


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La (letteratura) Svizzera: Un sogno? Una visione? Una chimera? Viaggio nella Svizzera degli svizzeri che hanno scritto ANNA RUCHAT

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C. F. Ramuz, Lettera a Henri Poulaille, maggio 1924 Sono nato nel 1878, ma non lo dite. Sono nato in Svizzera, ma non lo dite. Dite che sono nato nel paese del Vaud che è un antico paese savoiardo ovvero di lingua d’oc, ovvero francese e sulle rive del Rodano, non lontano dalla sua sorgente. — Max Frisch, Cosa significa ’Svizzera’?, 1970 circa La confederazione come ordinamento interno permette che i confederati producano anche arte. La conseguenza è riconducibile a concetti quali: PITTURA SVIZZERA, ARCHITETTURA SVIZZERA, LETTERATURA SVIZZERA, GRAFICA SVIZZERA, MUSICA SVIZZERA, CINEMA SVIZZERO. Non mancano produzioni di artisti svizzeri in tutti gli ambiti, per non parlare degli scienziati. Solo che da tutto questo non emerge una figura culturale. Nessuno, al di fuori del nostro paese, sa che Le Corbusier, Giacometti, Godard ecc. sono in definitiva dei confederati. E se anche lo si sapesse, non avrebbe importanza: non per la Svizzera. Il che è singolare. La Svizzera senza dubbio è un marchio di fabbrica, ma è altrettanto fuori di dubbio che non si profila come figura culturale nella coscienza del nostro tempo. Perché mai? Si conoscono orologi e turbine e DDT e formaggio e così via, però non si conosce un solo contributo storico a questo secolo, foss’anche un contributo terribile. Si vede soltanto che la Svizzera vorrebbe essere concepita come autorità morale, per il resto appare come un vuoto nella storia contemporanea. L’arte di questo paese può forse nutrire chi la produce, e in talune circostanze può perfino conferirgli una certa fama. Però, così mi pare, non può profilarsi una figura culturale senza lo sfondo rappresentato da una presenza politica del paese. Cosa significa «Svizzera»? Lo ricordiamo malvolentieri: un paradiso fiscale, una zona sciistica di prima qualità, un ideale Mon Repos. Terreno da vendere, un luogo per conferenze internazionali, una casella postale per affari sporchi, una terra d’asilo, anche, la sede classica della Croce Rossa Internazionale, la fabbrica di armi Oerlikon che consegna in tutto il mondo, un cimitero di stranieri famosi. In: Max Frisch/Uwe Johnson, Una difficile amicizia – Corrispondenza 1964-1983, a cura di Mattia Mantovani, Dadò, Locarno 2015 — Friedrich Dürrenmatt, La difficile vicinanza, 1976 In fondo, per la Svizzera, ogni vicinanza è difficile. In fondo la Svizzera preferirebbe essere un’isola. E siccome non lo è, essendo la Svizzera piuttosto una stazione di transito con grandi banche e banche private lungo i marciapiedi, con tanto di segreto bancario garantito e con paesaggi montani in mostra dietro i suddetti marciapiedi e banche, ecco che per la stazione svizzera, sono proprio le stazioni vicine ad essere stazioni difficili, vere e proprie stazioni di testa […].

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In: La Svizzera, teatro del mondo, a cura di Mattia Mantovani Dadò, Locarno 2013 — Alice Ceresa, Svizzera Fin dagli albori della sua storia, si è creduto che la Svizzera, paese arroccato sulle e intorno le Alpi al centro d’Europa, fosse un fatto puramente concettuale e organizzativo, data la sua varia composizione etnica e linguistica nonché religiosa, poco adatta in verità a presentarsi come una unità nazionale. […] Si comincia invece ora a capire come la natura montana del paese, di origine geologica e apparentemente casuale, propagatasi poi anche giù per valli e piane circolarmente diciamo a macchia d’olio intorno ai primissimi rocciosi iniziatori della coesione svizzera, possa aver corrisposto molto più profondamente a una primordiale predisposizione di simili, distinguendosi tutti concentricamente, quale che ne fosse la lingua e l’appartenenza etnica, per una fiera rocciosità interiore. In: Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile , Roma, nottetempo 2007 — Hugo Lötscher, Il corno alpino e il bambù, 1983 Un paese con quattro lingue e quindi quattro culture che convivono pacificamente l’una accanto all’altra, il tutto nel cuore dell’Europa: che caso fortunato della Storia! […] Ma questo ruolo di ponte, al quale la geografia ci aveva così sottilmente destinati, non l’abbiamo svolto. E poi, come potremmo pretendere di svolgere il ruolo di mediatori culturali se la pluralità delle culture costituisce un problema già al nostro interno? […] Dal punto di vista culturale, confinare con gli altri significava non «vivere con gli altri», ma «vivere accanto agli altri». Vivevamo e lasciavamo vivere, senza preoccuparci degli altri, la qual cosa ci ha convinti di essere rispettosi. Abbiamo coltivato un disinteresse creativo che abbiamo fatto passare per tolleranza e liberalismo. In: Se Dio fosse svizzero, a cura di Mattia Mantovani, Dadò, Locarno 2004 — Enrico Filippini, 1987 La Svizzera non si è presentata in me con quella sensazione di amore deluso e di disprezzo e di claustrofobia e di desiderio di fuga che la Svizzera in me suscita facilmente. […] Se la Svizzera mi è estranea e odiosa, la Valle è al riparo. Più di ogni altra volta ho sentito che sono nato lì, che quell’ombra è mia, che quel silenzio è mio. In: L’ultimo viaggio, Feltrinelli, Milano 1991 — Niklaus Maienberg, Elegia sulla casualità della nascita Per Blaise Cendrars Il paese in cui per caso sono sgusciato fuori da mia madre


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espulso, tagliato via, avvolto nelle fasce della madre patria della non immacolata concezione. […] Perché mi ha fatto cadere in questa trappola tra le susine nell’inaudita Suissa? Approdato per caso in questo nonpaese dove i panciuti spiano le teste rase appartato in questo posto di gente zelante in quest’acida striscia di terra ominide tra ominidi

Questo silenzio, questa omissione, mi irritano. Questo nomadismo mi interessa. […] Nel film Il terzo uomo, Orson Welles e Graham Greene affermano, senza verificare molto le loro fonti, che “l’Orologio a cucù” è l’unico contributo del mio piccolo Paese alla cultura occidentale. Grave errore: l’orologio a cucù arriva a noi dalla Foresta Nera (Germania del sud). Mi spiace: quell’uccellino melanconico e stridente che balza fuori dalla sua nicchia per annunciare che un’ora è passata e non tornerà più è l’invenzione degna di un post-romantico nevrotico tedesco, di fronte alla quale ogni vero surrealista che si rispetti dovrebbe inginocchiarsi. Sedentari? Scherzate! Di fatto gli svizzeri sono il popolo più nomade d’Europa. Uno svizzero su sei sceglie di vivere all’estero. Con queste percentuali battiamo persino gli irlandesi.

In: Merian, Die Schweiz, 1975

In: L’échappée belle, Editions Metropolis, Genève 1996

— Ludwig Hohl, Lo stile svizzero Nei grandi svizzeri c’è sempre un residuo indigeribile; è tipico del loro stile. Di Hölderlin si può prendere tutto – a prescindere dal fatto che Hölderlin è più grande di quanto non sia mai stato qualunque svizzero. Ma anche personaggi più piccoli, più confrontabili, sono completamente organici: nei grandi svizzeri invece c’è qualcosa di minerale; una crosta indurita così che somigliano a volte a gamberi o ostriche perché in questi animali semipietrificati la parte rocciosa è ancora molto vicina alla vita, è ancora organica […].

— Flurin Spescha, All’inizio del millennio, 2000 L’anno 2000 è iniziato bene. […] Certo si sente un po’ di tutto: aerei che cadono ancora negli oceani, navi che si capovolgono davanti a fiordi norvegesi, persone che vanno a letto con la carta di credito o un gruppuscolo del Club alpino svizzero che sta lavorando da settimane per erigere accanto al Säntis, sasso dopo sasso, una montagna ancora più alta, così che la Svizzera disponga di almeno una cima non ancora scalata e l’iscrizione nel Guinness dei primati sia garantita. Vi prendono parte diversi maestri di scuola elementare con diploma di insegnamento dello sport, una danzatrice di jazz di Ennetbaden e quattro grigionesi, che avrebbero preferito una variante in ardesia e per giunta nel loro cantone, ma che contribuiscono comunque validamente alla costruzione e vengono apprezzati all’interno del gruppo per il loro dialetto colorito. Gruppo che si ritrova la sera in un’osteria di Wildhaus per contarsi i calli.

In: Von den hereinbrechenden Rändern. Nachnotizen, 205, Suhrkamp 1986 — Friedrich Dürrenmatt, La Svizzera, un carcere, 1990 […] Ecco quindi che alla grottesca tragicità delle sue opere si può contrapporre la Svizzera intesa come qualcosa di grottesco, come un carcere senza dubbio alquanto diverso da quei carceri nei quali è stato gettato lei, caro Havel, un carcere nel quale gli svizzeri si sono rifugiati. Siccome al di fuori di questo carcere tutti si scagliano gli uni contro gli altri, e siccome solo all’interno di questo carcere gli svizzeri si sentono al riparo dalle aggressioni, ecco che gli svizzeri si sentono liberi, più liberi di tutti gli altri uomini: liberi – da carcerati – nel carcere della loro neutralità. In: La Svizzera, teatro del mondo, traduzione di Mattia Mantovani Dadò, Locarno 2013 — Nicolas Bouvier Voglio celebrare qui una Svizzera di cui si parla troppo poco: una Svizzera in movimento, una Svizzera nomade che viene evocata raramente, una Svizzera che da più di duemila anni è presa dalla tentazione di “andare e venire”.

In: Mario Frasa, Tradurre per ricordare: l’identità linguistica di Flurin Spescha Giorgio Orelli, L come LINEA LOMBARDA, 2010-11 La «Linea Lombarda», lo si capisce bene leggendo l’introduzione di Anceschi all’antologia omonima, era un’indicazione come un’altra. Non descriveva principi comuni, programmi. È come se andassi a comprare le scarpe nell’Italia più vicina e guardassi il fumo che esce da una ciminiera e se ne va in giro. Ecco: si potrà dire che quel fumo riguarda me, Sereni, Erba... Ma cos’altro? C’è anche una poesia divertente di Erba sulla linea lombarda: «Adoro i pregiudizi, i luoghi comuni / mi piace pensare che in Olanda / ci siano sempre ragazze con gli zoccoli / che a Napoli si suoni il mandolino / che tu mi aspetti un po’ in ansia / quando cambio tra Lambrate e Garibaldi». In: Quasi un abbecedario, a cura di Yari Bernasconi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2014 —

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Il Palazzo Federale sede dell’Assemblea federale a Berna

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Svizzera Paese di accoglienza? E il calcio? GIANGIORGIO SPIESS

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a Svizzera è una Nazione/Paese situata al centro dell’Europa. Ma anche al centro di molte attenzioni, non tutte benevoli. Le si rimprovera egoismo per non volersi integrare nella sovraburocratizzata Unione Europea, senza porre eccessive condizioni. Ma si disattende qui il profondo animo democratico della Svizzera, e la sua sana struttura federalizzata, difficilmente disposta a conformarsi ai diktat stranieri. Tra i primi a farne le esperienze sono stati gli Asburgo, che hanno perso la sovranità sulla Svizzera a poco a poco a far tempo dal 1291. Le si rimprovera di fondare la sua ricchezza sulla gestione di capitali appartenenti a persone o entità non-residenti in Svizzera, e sulla fiscalità compiacente a favore di imprese transnazionali. Ma si disattende il fatto che è più il capitale che cerca la Svizzera che non l’inverso: tanto è vero che le isole più o meno fiscalmente felici (paradisi fiscali) si collocano e sono equamente ripartite tra l’Europa, l’Asia e gli Stati Uniti (questi ultimi che predicano bene e razzolano molto male). Ma si disattende inoltre il fatto che il prodotto delle attività finanziarie rappresenta a malapena l’undici per cento (11%) del prodotto nazionale lordo della Svizzera, che vive prospera pertanto di attività propria e non di rendite di posizione. Le si rimprovera, storicamente, di essere refrattaria nell’accogliere profughi e migranti, e questo già a far tempo dal periodo della Seconda Guerra Mondiale: profughi ebrei rimandati alle frontiere, la rigidità odierna nell’accogliere migranti africani o asiatici, o nel rimandarli ai sensi del fragile accordo di Dublino (che la Svizzera ha dovuto subire). E qui viene disatteso il fatto che la Svizzera è il Paese d’Europa con il più grande numero di stranieri residenti (ventitre per cento - 23% - del totale della popolazione residente), e con più di duecentoottantamila (280.000) lavoratori stranieri (i frontalieri) che giornalmente varcano la frontiera per lavorare e guadagnare

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in Svizzera a condizioni migliori di quelle possibili nel loro paese di residenza, offrendo comunque un’apprezzata collaborazione in tutti i campi. Si disattende che durante la Seconda Guerra Mondiale la Svizzera fu un’isola militarmente accerchiata da paesi con regimi autoritari dotati di forze militari strapotenti: malgrado ciò venne data accoglienza a decine di migliaia di profughi, con i quali la Svizzera ebbe a condividere le scarse risorse di un’economia di piena guerra. E oggi, proporzionalmente alla popolazione residente, la Svizzera è, in Europa, il paese che offre rifugio al maggior numero di immigrati. A questo punto ci si può chiedere: cosa c’entra il calcio? C’entra e come. Un dato di fatto: la Nazionale svizzera di calcio è stabilmente ancorata nelle prime quindici al mondo sulle duecentosette federazioni di calcio membre della FIFA; ora nella pre-lista presentata per il turno finale dei Campionati del Mondo versione 2014 svolti in Brasile, su un totale di ventisette giocatori inseriti, diciassette erano di origine non-svizzera, ancorché stabilmente ivi residenti, o comunque le loro famiglie per quei giocatori che sono impegnati con squadre disputanti altri campionati europei. Sono i cosiddetti ’Secondos’, cioè nati in Svizzera ma discendenti da famiglie di immigrati, oggi perfettamente integrati. Ancora più integrati sono questi ragazzi che vestono con impegno e fierezza la maglia rossocrociata (tutt’al più, ma in buona

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compagnia, hanno qualche difficoltà a cantare l’Inno nazionale): e pertanto sono diventati molto popolari, perché perfettamente identificati in questo sport, il calcio, che in Svizzera è lo sport di squadra più praticato, anche se spesso la Svizzera viene identificata come la nazione dello sci o del disco su giaccio. L’esempio qui sopra espresso può sembrare molto settoriale, perché riferito ad una situazione che potrebbe anche essere di nicchia. Ma non lo è: la Svizzera è in effetti terra di accoglienza e di integrazione, perché l’esempio del calcio è solo lo specchio di una realtà più ampia e connaturata. Ma forse è situazione sconosciuta ai più, o volutamente ignorata, specie da quelli che vogliono denigrare la Svizzera ad ogni costo, accontentandosi di giudizi superficiali o di luoghi comuni, nascondendo tutto ciò però un malcelato sentimento di invidia. Invidia per un popolo piccolo operoso, basato sulla concordanza, rinvigorito da nuova linfa venuta da fuori e magari anche da lontano, ma appunto perché questa nuova linfa ha trovato accoglienza spontanea, terreno fertile e possibilità di operare. L’esempio della Nazionale di calcio è sintomatico: l’apporto dei ’Secondos’ ha contribuito a forgiare una squadra di tutto rispetto, molto indicativa della qualità della realtà svizzera, a ragion veduta aperta, democratica e coerente: l’hanno potuto fare perché (ed evidentemente non solo i calciatori) chi viene a vivere in Svizzera viene accolto, rispettato e integrato, e messo nella possibilità di dare il meglio. —


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La Svizzera nell’era postnazionale MORENO BERNASCONI

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uardando alle sfide che la Svizzera è chiamata ad affrontare oggi, una domanda si impone: la cultura politica e il modello istituzionale elvetici sono in grado di mantenere la loro specificità e la loro forza in un contesto politico post-nazionale? Per abbozzare una risposta giova illustrare anzitutto alcune peculiarità del sistema politico elvetico. Per molti secoli, la Confederazione svizzera ha avuto una natura puramente contrattuale. Era fondata su un patto (foedus), quindi sul principio del consenso fra le diverse comunità politiche che la componevano. Con l’entrata in vigore della Costituzione federale, il 12 settembre 1848, il patto federale decade. Da quel momento in poi, il principio legale (“la maggioranza impone la propria volontà alla minoranza”) subentra a quello meramente contrattuale. Ciononostante, elementi del principio contrattuale impregnano ancora oggi le istituzioni svizzere ed esercitano un forte influsso sul consociativismo politico elvetico. Quali? Anzitutto va rilevato che la Svizzera odierna poggia su un originale innesto nel ceppo dello Stato moderno elvetico, che corregge le premesse sia della Repubblica elvetica del 1798, sia della Costituzione del 1948. La Repubblica elvetica imposta da Napoleone agli Svizzeri voleva coartare le diversità di storia, geografia, lingue, culture e religioni delle città, campagne e montagne svizzere ingabbiandole in un modello centralistico e omologatore alla francese. Napoleone dovette tuttavia ammettere che ciò non poteva funzionare in un Paese tanto diversificato ed egli stesso ne decretò lo scioglimento nel 1803, dopo soli cinque anni. Quanto alla Costituzione del 1848, pietra miliare della democrazia elvetica, essa fu perfezionata quarant’anni dopo, per estendere la legittimazione popolare e garantire una maggiore integrazione delle diversità profonde del Paese.

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Il diritto di iniziativa popolare (vale a dire quello di proporre dal basso riforme legislative) viene infatti sancito nella revisione costituzionale del 1891 e va ad aggiungersi al diritto di referendum popolare e all’attività legislativa del Parlamento eletto. La democrazia semidiretta elvetica nasce come strumento volto a perfezionare lo Stato moderno elvetico, in modo da salvaguardare e gestire in modo più armonioso le diversità geo-economiche (città e campagne), linguistico-culturali e religiose che fanno la complessità del Paese, impedendo la concentrazione del potere nelle mani di pochi o di un gruppo socio-culturale predominante. A questa saldatura fondamentale dello Stato moderno elvetico vanno ad aggiungersi altri elementi istituzionali che prolungano il principio contrattuale originario. 1. Un bicameralismo dove Cantoni grandi e piccoli hanno un identico numero di rappresentanti nel Consiglio degli Stati (Senato), che ha poteri identici a quelli della Camera del popolo; 2. La doppia maggioranza di popolo e Cantoni è richiesta per le modifiche costituzionali (un meccanismo che di fatto attribuisce al voto dei cittadini dei piccoli Cantoni un peso politico molto maggiore di quello dei cantoni grandi); 3. Il modello di Governo predominante sia a livello federale che su scala cantonale è di coalizione (i maggiori partiti politici sono rappresentati negli esecutivi); 4. La cosiddetta ‘pace del lavoro’ sancisce dal 1937 la concertazione costruttiva permanente fra i partner sociali (sindacati e associazioni padronali) favorendo una stabilità economica; 5. Le riforme legislative avvengono dopo procedure di consultazione capillari presso partiti, associazioni, Governi cantonali. Lo storico Jean Francois Bergier ha parlato, a questo proposito, di un vero e proprio ‘federalismo sociale’, antidoto al deficit democratico del contratto sociale moderno prodotto da quella che Tocqueville chiama ‘dittatura della maggioranza’. La natura del federalismo svizzero – lungi dall’essere privo di difetti – comporta in linea generale meccanismi volti a difendere le minoranze dalla dittatura della maggioranza e a garantire l’espres-

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sione della volontà politica a tutte le diverse componenti presenti nella società. Un esempio concreto di questa particolarità? La Svizzera di lingua italiana beneficia del ventiquattro per cento (24%) dell’insieme degli introiti del canone radiotelevisivo quantunque i suoi abitanti italofoni rappresentino soltanto il sette per cento (7%) della popolazione svizzera. Questa chiave di ripartizione (che applica il principio della ‘discriminazione positiva’) permette alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana di salvaguardare la lingua e la cultura italiane e di garantire una qualità giornalistica apprezzata anche all’estero. A ben guardare, simili meccanismi altro non sono che un’applicazione diffusa del principio di sussidiarietà che dà ai soggetti presenti nella società i mezzi per esercitare una corresponsabilità in ordine al bene comune. Questa concezione della comunità politica ha spinto Ralf Dahrendorf a definire la Svizzera “più che uno Stato, una società civile molto organizzata”. Nel fondo c’è la convinzione che il potere vada fortemente limitato e ampiamente diffuso – come ha sottolineato Jean Starobinski in un suo memorabile discorso, tenuto a Bellinzona nel 1991, in occasione del Settimo centenario della Confederazione elvetica. Per i Confederati, all’inizio del Rinascimento, l’alternativa era proprio questa: rafforzare lo Stato centrale e stabilire una politica estera comune espansiva, oppure mettere tra parentesi quest’ultima salvaguardando le strutture confederali, a cominciare dalle autonomie cantonali e comunali. “Mentre altri popoli” – annota Edgar Bonjour – “investivano le loro energie in guerre di conquista o solcavano i mari per scoprire nuovi sbocchi, i Confederati preferirono fare un passo indietro verso la neutralità intesa come massima di Stato. Fra la libertà e la concezione svizzera della neutralità esiste come un’affinità segreta”. Di fronte al rischio che l’alleanza fra città e comunità contadine aventi caratteristiche diverse saltasse a causa di conflitti e interessi


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contrapposti, nonché delle forti pressioni esterne di segno opposto, la Convenzione di Stans, nel 1481, ribadì il primato dell’alleanza interna fra i Confederati, al di là di ogni alleanza esterna di questo o quel cantone. L’idea di neutralità – proclamata solennemente come massima di Stato dalla Dieta federale elvetica nel 1674 all’indirizzo delle Nazioni europee e sancita definitivamente, nell’interesse del continente rappacificato, dal Congresso di Vienna nel 1815 – è strettamente legata, come si diceva poc’anzi, a una concezione della libertà e delle autonomie propria di uno stato multiculturale e multiconfessionale, basato su una distribuzione calibrata del potere ai livelli federali, cantonali e comunali, come la Confederazione elvetica. Una libertà garantita da un contratto sociale che rinuncia ad una centralizzazione eccessiva del potere, distribuendolo, in virtù del principio di sussidiarietà, ai diversi livelli delle istituzioni e della società dotati di ampi poteri democratici. Anche la collocazione geografica della Svizzera sembra averla predestinata al suo statuto politico. Il grande storico francese Fernand Braudel ricorda che nelle pianure dello spazio mediterraneo gli imperi hanno potuto realizzare facili e speditive conquiste, le scorrerie degli eserciti hanno piegato la resistenza delle popolazioni e i governi hanno assunto talvolta i tratti del dispotismo. In queste terre alte (“con le loro montagne straordinarie, la disciplina collettiva, la qualità dello spessore umano”), la libertà repubblicana ha resistito agli imperi. Il repubblicanesimo alpino è fortemente comunale prima ancora di essere nazionale: traduce in sistema politico l’attenzione ai problemi concreti e minuti di una comunità e il ruolo centrale della mediazione su cui poggia tutta la storia svizzera. Quanto all’economia elvetica, fin dai primordi – e in particolar modo a partire dall’apertura del Passo del San Gottardo ai commerci – ha avuto la possibilità di apprezzare i vantaggi del libero scambio. Ne nasce una cultura politica pragmatica, refrattaria alle grandi visioni volontaristiche calate dall’alto, una cultura del negoziato paziente ma tenace che la Svizzera ha saputo sviluppare fino ai giorni nostri. E non è un caso che la Svizzera – già pilastro dell’Associazione europea di libero scambio – abbia preferito (almeno finora) la via degli Accordi bilaterali con l’Unione europea anziché aderire compiutamente all’Unione. Questa cultura politica e questo modello istituzionale possono vanno considerati superati nel nuovo contesto post-nazionale e globale? Al contrario. La Svizzera dispone di un know how politico, di una cultura della mediazione e del libero scambio oggi più che mai attuali. L’arbitrato e il patto sociale fra partner e interessi diversi che ha sviluppato il crocevia elvetico rispondono in modo interessante ad alcuni dei problemi complessi posti dalla società globale e multiculturale. Nella soluzione delle crisi sociali e politiche provocate dai cambiamenti socio-economici legati alla globalizzazione, sono evidenti il deficit democratico e la necessità di rafforzare la legittimazione delle scelte politiche grazie ad un paziente lavoro di mediazione e

di concertazione fra soggetti e categorie diverse. Quanto ai modelli politici nazionali di stampo rigorosamente centralistico, è sotto gli occhi di tutti la loro difficoltà di far fronte ad una politica sempre più sovranazionale. E anche in termini puramente economico-finanziari, il federalismo o la devoluzione sembrano portare maggiori benefici rispetto ai modelli del centralismo statalista. Quanto alla progressiva configurazione multiculturale delle nostre società, se si vogliono contenere crisi esplosive purtroppo sotto i nostri occhi, dei meccanismi di consultazione, di integrazione e di partecipazione democratica che definiscano le regole di una pacifica coesistenza fra minoranze e maggioranze diverse non possono che giovare, non solo in Svizzera ma ovunque. Nel momento in cui si manifesta dappertutto un divorzio fra le classi dirigenti (politiche ma anche economiche) e i cittadini (basta guardare il moltiplicarsi delle manifestazioni di piazza, in un crescendo di rabbia e di violenza diffusa), invece di deprecare il ricorso alla democrazia diretta elvetica, bisognerebbe guardare con interesse ad uno strumento come quello dell’iniziativa popolare. Seppure imperfetto e non al riparo da conseguenze spiacevoli (ma i Parlamenti sono forse illuminati da divina luce?) questo strumento politico permette di fare due cose: 1. Mantenere il contatto - aggiornandolo continuamente all’emergere di nuove circostanze - fra la classe politica e i problemi reali dei cittadini; 2. Condurre discussioni pubbliche approfondite su temi di grande rilevanza che contribuiscono alla formazione politica dei cittadini e allo sviluppo di un senso di corresponsabilità nei confronti del bene comune. Paradossalmente, anche la spaccatura fra solidi blocchi contrapposti di vincenti e perdenti come quella che si manifesta quando la posta in gioco è elevata, rappresenta un fattore che può rafforzare la maturità politica. In questi casi i cittadini di un Paese possono infatti constatare che - contrariamente a quanto tendono ad affermare i buonisti o i politici che trovano sempre le soluzioni al posto del popolo - la realtà dei fatti è molto più complessa, comprende anche fattori di forte instabilità, sentimenti di ingiustizia e volontà di cambiamento dell’ordine costituito di cui è meglio tener conto piuttosto che fare lo struzzo e negare l’evidenza. Alla fine, ognuno è confrontato a una sfida che accompagna la Svizzera da quando esiste: vale a dire se conviene di più il compromesso e la ricerca di una equilibrata integrazione delle differenze piuttosto che la separazione. Finora, malgrado tutte le traversie e le battute d’arresto, la capacità di integrazione si è rivelata vincente in questo Paese. Referendum e iniziativa popolare come strumento sistematico dell’esercizio dei diritti politici permettono ai Governi e ai Parlamenti di correggere continuamente il tiro della propria attività politica, integrando (e disinnescando così in larga misura il potenziale sovversivo) delle istanze dal basso. In un mondo globale e complesso, in cui le differenze sono la regola, la comunicazione fra i cittadini capillare e globale e le spinte dal basso sempre più forti e talvolta violente, a me pare che una discussione approfondita su forme di partecipazione politica diffusa, come ad esempio la democrazia diretta elvetica, sarebbe molto più utile che non una sua miope condanna. —

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Da Scacciapensieri al web Dietro e oltre ’la Svizzera’ (nel senso della tv) MAURIZIO CANETTA E NICO TANZI

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e telecronache sportive di Albertini e Colotti, il fascino di Mascia Cantoni, le commedie dialettali con Quirino Rossi e Mariuccia Medici, le ‘infallibili’ previsioni del tempo, Cappuccetto a pois, Lupo Lupone, Gatto Arturo, le partite dell’Ambrì. E naturalmente Scacciapensieri, il buffo animaletto a strisce dalla risata contagiosa disegnato da Bruno Bozzetto. È probabilmente questo ciò che, ancora oggi, i più cronologicamente avvantaggiati fra i telespettatori italiani ricorderanno de ‘la Svizzera’ – come veniva familiarmente definita la TSI negli anni in cui la si vedeva fino a Napoli, e oltre. Per molti, la TSI rappresentava l’alternativa al monopolio RAI (almeno fino all’avvento, nel 1976, delle reti private). Solo i più attenti intuivano che dietro quell’offerta televisiva dignitosa e spesso originale c’era tutto un mondo, difficilmente decifrabile guardandolo da lontano. Che non era un caso se questi svizzeri parlavano così bene l’italiano. Che i ‘ticinesi’ erano una piccola parte di un piccolo Paese in cui, nonostante le dimensioni, convivevano quattro anime diverse, ciascuna con una lingua e una cultura propria. Una Willensnation, come si dice in tedesco con sintesi efficace,

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una nazione frutto della volontà e quarto), e l’affermazione dei giornali non dell’obbligo di stare insieme, gratuiti, avvenuta in Svizzera prima che a volte porta all’insofferenza per che altrove. i ‘vicini’ e per lo stato centrale, ma Completa il quadro la crescita dei permette di convivere in maniera portali di informazione online, frampiuttosto armoniosa. mentata in un’offerta che vede un Ciò che da sud era (ed è) più difficile gran numero di attori (‘player’, nel da capire è la complessità dell’orgalinguaggio di tendenza) contendersi nizzazione federale elvetica. un mercato di per sé di dimensioni Una complessità che si riflette nella ridotte. SSR, la Società svizzera di radioteleNon stupisce dunque che sia in corso visione, con le sue quattro aziende una battaglia serrata per conquistare Maurizio Canetta regionali (una delle quali è appunquote di mercato e fatturato pubblito la RSI, che si rivolge al pubblico citario. svizzero di lingua italiana). Una battaglia in cui non c’è più una distinzione netta fra stampa, Ma si riflette anche in un panorama mediatico frastagliato. radio, televisione e online: la convergenza multimediale impone Mentre le tirature di testate di antica tradizione come ‘Neue Züra tutti gli editori di essere presenti sul web, e sia i giornali sia – cher Zeitung’ e ‘Tages Anzeiger’ sono in lento ma costante declia maggior ragione – la radiotelevisione sono tenuti a “sfruttare no, così come quelle dei giornali a pagamento nel loro insieme, l’interazione fra canali tradizionali e internet”, come non a caso si l’evoluzione della stampa elvetica in questi anni si caratterizza legge nella strategia aziendale della SSR. per due tendenze principali: la concentrazione (il gruppo Tamedia Proprio la SSR, e ancora una volta non a caso, è in questi mesi controlla oggi da solo circa metà del mercato, Ringier circa un nell’occhio del ciclone.

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Le quote di mercato delle sue emittenti fanno gola. Molti vorrebbero una radiotelevisione nazionale più debole, per poter accelerare sulla strada dei servizi a pagamento. E possibilmente la vorrebbero senza pubblicità, perché la fetta più consistente della torta pubblicitaria è ancora quella televisiva. Di conseguenza, il servizio pubblico è sotto tiro: iniziative popolari, referendum, campagne di opinione anti-SSR sono temi di discussione quotidiana. Sul tavolo (ed è una prima assoluta) ci sono un referendum sulla nuova legge radio-televisiva - che prevede il passaggio alla tassa sui media - e un’iniziativa che vuole l’abolizione del canone. Che è il più caro d’Europa - è vero - ma perché a pagare sono in pochi (i residenti in Svizzera sono poco più di otto milioni) e produrre programmi in quattro lingue costa, soprattutto dovendo reggere una concorrenza estera forte come quella di RAI e Mediaset, oltre che l’avanzare dell’armata delle ’altre’, quel gruppo di emittenti che raccolgono piccole quote di mercato, le quali, sommate, le trasformano nel principale concorrente. È uno degli effetti più spettacolari della frammentazione dell’offerta in mille rivoli. Questo è uno dei fattori che potrebbe contare al momento del voto, perché il problema è simile in Svizzera Tedesca e in Romandia (la regione di lingua francese), dove si aggiunge la questione delle così dette ‘finestre pubblicitarie’, programmi di emittenti straniere che vendono pubblicità apposta per la Svizzera. Il dibattito ruota attorno al ruolo del servizio pubblico, che resta un baluardo in grado di garantire indipendenza ed equidistanza

nei programmi di approfondimento e d’inchiesta, il genere più caro e difficile da produrre in un paese di queste dimensioni. Una qualità che ci riconosce da sempre il pubblico italiano, che oggi, zone di confine a parte, non può più seguirci in tv, sostanzialmente a causa del costo dei diritti televisivi per i programmi sportivi e di fiction, ma ha la possibilità di restare in contatto con la storica TSI (oggi si chiama RSI) su internet attraverso un portale d’informazione che sta muovendo i primi passi. Si chiama tvsvizzera.it e si rivolge proprio a chi parla italiano al di fuori del territorio svizzero. A volerlo è stata non solo la SSR ma anche il Consiglio federale, cioè il governo svizzero. Che co-finanzia tvsvizzera.it nell’ambito della sua strategia ‘europea’ per valorizzare l’immagine della Confederazione all’estero attraverso la radiotelevisione. In Francia e Germania ciò avviene grazie alla collaborazione con i canali TV5 e 3Sat. A ’parlare svizzero’ agli italiani invece è da un anno questo nuovo sito. La sua redazione ha davanti una sfida difficile, perché l’offerta informativa sul web, come sappiamo, è sterminata. La Svizzera però negli ultimi tempi è di moda (‘trendy’ si scriverebbe nelle riviste pretenziose) e questo è un buon elemento di marketing. In più ad aiutare tvsvizzera.it a farsi conoscere ci sono anche Twitter e Facebook... Ma da qui comincia tutta un’altra storia. —

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ph. Béatrice Devènes / Pixsil

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I miti viventi della Svizzera. Crollo e rinascita GIANFRANCESCO BELTRAMI

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industria orologiera marca ancora sempre il tempo con precisione, il cioccolato è sempre delizioso mentre il segreto bancario è stato distrutto. Nel complesso la sicurezza e il sistema sociale svizzero rimangono obiettivi coerenti e democraticamente condivisi. Ma gli Stati Uniti hanno imposto le loro regole, l’Unione Europea ha partecipato al banchetto e il segreto bancario è sparito. Osservo che le richieste degli USA s’inquadrano nella loro volontà generale di dettare le regole nel mondo, regole che spesso non trovano la dovuta applicazione nel loro mercato interno o nei loro protettorati. Ma gli USA sono uno Stato mentre la natura giuridica dell’UE non è ancora stata definita in assenza di una Costituzione. L’UE ha una politica monetaria unica, ma non una politica fiscale unitaria e tanto meno una politica estera e di sicurezza comune. Eppure Stati Uniti e Unione Europea sono riusciti a imporre le loro idee modificando in un battere di ciglia un sistema e un servizio bancario che la Svizzera aveva faticosamente costruito e consolidato. L’invidia estera nei confronti della Svizzera e alcune maldestre esagerazioni nella gestione di fondi di dubbia provenienza hanno contribuito al rimescolamento delle carte. Quello che mi ha però sorpreso di più non è tanto il cambio delle regole – che può anche essere valutato positivamente per il futuro sviluppo del settore bancario e finanziario svizzero – quanto piuttosto la rapidità delle decisioni adottate. Il nostro Governo ha reagito piuttosto che agito e improvvisamente la Svizzera si è trovata da sola contro tutti, senza alleati. Perché? La Svizzera si è ritrovata isolata e non ha saputo a mio

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modo di vedere rivalutare quelli che fino a qualche tempo fa erano i cardini imprescindibili della nostra presenza all’estero: la neutralità e i buoni uffici della nostra diplomazia. In caso di conflitti o tensioni fra popoli e nazioni i nostri servizi diplomatici erano quasi sempre richiesti per dirimere un conflitto e proporre soluzioni. Abbiamo contribuito in modo importante allo sviluppo dei diritti dei popoli. Un tempo la Svizzera non era soltanto garante del segreto bancario ma di fatto depositaria dei segreti del mondo e dal mondo riceveva protezione e rispetto. Oggi l’ONU funziona meglio e l’UE cerca di rappresentare gli interessi degli Stati membri. I buoni uffici della nostra diplomazia non sembrano più essere richiesti. La via del bilateralismo appare definitivamente tramontata. Eppure la Svizzera vive in pace senza un conflitto interno o esterno da oltre quattrocento anni e abbiamo imparato a sviluppare un

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sistema democratico e sociale che privilegia l’istruzione e la formazione alla volontà di azioni di forza. Un patrimonio serio e dimostrato. La nostra capacità di ascoltare e unire culture diverse dovrebbe essere un esempio da seguire ancora e ancora. Dobbiamo cercare di rivalutare e potenziare la nostra tradizione riguardo alla diplomazia come si è positivamente dimostrato nel caso del recente accordo per l’Iran siglato a Losanna. Se sapremo proporci mettendo a disposizione queste doti naturali riacquisteremo rispetto, ascolto e protezione oltre che comprensione per le scelte d’indipendenza rispetto alla globalizzazione e al tentativo di integrazione europea che facciamo e andremo a fare. La presenza svizzera all’estero deve continuare a manifestarsi senz’altro con l’aiuto umanitario e quello ai Paesi in via di sviluppo ma nel contempo deve rafforzarsi l’impegno politico e diplomatico diretto. L’isolamento e la passività non hanno mai premiato nessuno. —


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Svizzera, un modello da difendere ALBERTO SICCARDI

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l popolo non ha sempre ragione!” È una frase agghiacciante pronunciata da una politicante svizzera alla radio, qualche giorno fa, durante una accesa discussione fra europeisti e contrari alla adesione della Svizzera alla UE. Essa riaccende tutta la angoscia che viviamo in questi anni, noi, svizzeri convinti che andare in Europa sarebbe un disastro politico, sociale e, ciò che è peggio, culturale. Siamo più del settanta per cento contrari all’Europa, e ci battiamo come leoni, a colpi di quello strumento che è la Democrazia Diretta, tanto bello quanto odiato da chi ci governa. Sì, noi possiamo cambiare le loro leggi quando non ci piacciono con dei Referendum molto efficaci, senza le pastoie di quelli italiani, e fare nuove leggi se decidiamo che ne abbiamo bisogno, usando le Iniziative Popolari, arrivando sovente fino a cambiare la Costituzione. E loro ci odiano, odiano il settanta per cento dei loro cittadini in modo profondo e tenace. Politicamente parlando, naturalmente. È guerra aperta e dichiarata. La frase di cui sopra, gridata istericamente da una politicante, dice tutto e ha una sola risposta: “No, il Popolo Sovrano ha sempre ragione!” Il Popolo Sovrano svizzero, così lo chiamiamo qui, ha SEMPRE ragione per definizione, e mi spiego. Votiamo a maggioranza semplice, la decisione che ne scaturisce è la nostra volontà di quel momento. Non è discutibile e anche se poi risultasse sbagliata alla prova dei fatti, nel momento in cui è formulata essa è la migliore perché esce dalla maggioranza, dal cervello di chi è abituato a determinare la propria vita, da chi delega solo con riserva la facoltà di governare a gente a cui non riconosce affatto il diritto di considerarsi né più intelligente né più potente della maggioranza, quando questa li avesse sconfessati con un referendum. Quando poi nasce il dubbio di avere sbagliato, si vota di nuovo, è semplice. In Svizzera si vota almeno quattro volte l’anno e ogni volta su almeno tre argomenti, sia federali che cantonali e comunali, per le cose impor-

tanti e anche meno importanti. Sovente votano meno del quaranta per cento degli aventi diritto, ma anche questa è democrazia, il verdetto è valido anche per chi non ha votato per sua scelta. La signora che ha pronunciato la frase di apertura contraddice la essenza stessa della nostra Costituzione liberale, che dura da secoli. Del resto la Democrazia rappresentativa vigente nella maggior parte dei Paesi non dittatoriali, con mandati inamovibili per anni e la impossibilità di opporsi alle decisioni sovente prese da politici inadeguati, quando non corrotti, ha messo in ginocchio il mondo occidentale. Alcune considerazioni. Il potere finanziario e banche nazionali e sovranazionali tengono in pugno i loro governi perché questi hanno un tremendo bisogno che essi comprino i loro bond per finanziare i loro deficit, coi quali comprano il consenso politico. Questi governi non possono quindi fare leggi che limitino lo strapotere delle banche e ne sono asserviti. Da noi la Federazione, i Cantoni e i Comuni hanno bilanci a volte moderatamente indebitati, sono sorvegliati dai cittadini che temono l’aumento della spesa pubblica perché non voglio aumenti di tasse, affinché le banche, pur potenti, non li condizionino con prestiti enormi. La Svizzera consuma in spesa pubblica poco più del venticinque per cento del PIL e dà ottimi servizi; l’Italia invece divora più del cinquanta per cento del suo PIL e dà servizi scadenti, clientelismo e corruzione trovano asilo proprio nella macchina pubblica. Gli svizzeri controllano il loro paese, il Popolo Sovrano sa che se entra in Europa è finita. Basta libertà politica, tasse moderate, servizi eccellenti, sicurezza, e sviluppo delle attività economiche, che da noi sono non soffocate dalle tasse e dalla burocrazia. La Democrazia Diretta non potrebbe coesistere col diritto europeo, che prevarrebbe. E i nostri politici potrebbero fare tutto quello che vogliono, clientela e consenso comprati, burocrazia galoppante e rallentamento della economia in un mare di tasse. Basta guardarsi intorno in Europa. Il Popolo ha sempre ragione, non esistono gli eletti che, soli, possono decidere per lui. —

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Non solo federalismo

Come i referendum hanno unito la Svizzera plurilingue NENAD STOJANOVIC

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ederalismo e democrazia diretta sono le più importanti istituzioni elvetiche e distinguono la Svizzera da tutte le altre democrazie in Europa e forse anche nel mondo. Solo pochi altri paesi europei hanno infatti un sistema federale e inoltre questo è stato imposto dall’alto (Austria, Bosnia, Germania) oppure si sta sviluppando faticosamente, partendo dall’esperienza di uno Stato unitario e centralizzato (Belgio, Spagna). Solo in Svizzera possiamo parlare di un federalismo genuino, sviluppatosi dal basso. Per quanto riguarda la democrazia diretta, l’eccezione svizzera è senza pari. Dal 1700 al 2014, nel mondo, quasi una votazione popolare su quattro si è tenuta in territorio elvetico (605/2696, vedi www.c2d. ch), senza tenere conto di ancora più numerose votazioni a livello cantonale e comunale. Un altro aspetto, non istituzionale ma sociale, contraddistingue la Svizzera: il plurilinguismo. Ora, è risaputo che la presenza di gruppi linguistici diversi in un solo paese non rende facile la realizzazione di una democrazia stabile. Lo dimostrano gli esempi del Belgio, del Canada e della Spagna dove esistono forti movimenti indipendentisti. Come spiegare allora che la Svizzera sia considerata la più stabile democrazia plurilingue al mondo, senza le spinte secessioniste che osserviamo in altri paesi? FEDERALISMO: UNA FORZA CENTRIFUGA Per spiegare il successo del modello elvetico, la maggior parte dei politologi e commentatori ha messo in evidenza il federalismo. Secondo questa tesi è grazie al federalismo che le minoranze hanno potuto rimanere parzialmente sovrane nei loro territori storici e gestire autonomamente i propri affari. Il sistema federale ha quindi permesso alle minoranze di essere integrate nel sistema politico, creando e rafforzando il loro senso

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di appartenenza al paese e quindi la legittimità dell’intero regime democratico. Questo è senz’altro vero. Tuttavia, in questi dibattiti la seconda istituzione fondamentale del sistema politico svizzero – la democrazia diretta – è stata del tutto trascurata.

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Intendiamoci: politologi e altri commentatori ne parlano spesso, ma lo fanno in altri contesti e con altri scopi. Per esempio, per dire che in Svizzera il popolo non è solo oggetto ma anche soggetto della vita politica; per spiegare come mai i governi svizzeri sono pluripartitici, ossia di tipo “consociativo”; o persino per dimostrare che gli svizzeri sono un popolo particolar-


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mente “felice” (vedi studi di Bruno Frey e collaboratori). La mia tesi, invece, è che la democrazia diretta svolge un ruolo fondamentale per la coesione nazionale e l’integrazione delle minoranze linguistiche, un ruolo almeno pari a quello del federalismo. Preso singolarmente, infatti, il federalismo è per definizione una forza centrifuga, tendente a rafforzare le entità federate a scapito del potere centrale. A lungo termine esso tende quindi a rendere instabile l’intero assetto istituzionale. DEMOCRAZIA DIRETTA: UNA FORZA CENTRIPETA Un paese federale, per funzionare e diventare una democrazia stabile, necessita anche di forze centripete. In diverse federazioni del mondo (Brasile, Messico, Nigeria, Russia, Stati Uniti) questo ruolo viene ricoperto dal presidente, ossia da un’istituzione eletta direttamente dal popolo, che rappresenta la nazione intera e che quindi controbilancia le forze centrifughe e il potere delle entità federate. In effetti, i paesi federali (Belgio, Canada) o quasi-federali (Spagna, Regno Unito) dove il capo di Stato non è eletto dal popolo bensì è un monarca costituzionale, sono assai meno stabili e conoscono importanti movimenti secessionisti. La Svizzera, tuttavia, non ha un presidente eletto dal popolo. Ma ha qualcosa che possiamo chiamare un “equivalente funzionale”: la democrazia diretta. È questa la principale forza centripeta, potentissima, nel sistema politico elvetico. Soffermiamoci un attimo e riflettiamo. La democrazia diretta viene impiegata come se la Svizzera fosse un paese unitario e centralizzato. Non c’è (quasi) traccia di federalismo: nelle votazioni popolari il voto di ogni cittadino svizzero ha egual peso e ognuno vota nello stesso momento, in un’unica grande circoscrizione comprendente l’intero paese. Il risultato corrisponde alla preferenza della maggioranza dei votanti, senza che sia necessario, come in Italia, avere una partecipazione minima del cinquanta per cento. Non vi sembra un paradosso, che un paese con così tante minoranze linguistiche (e altre) applichi un sistema dove a vincere è la maggioranza? DOPPIA MAGGIORANZA: UN VETO PER LE MINORANZE? L’unica traccia di federalismo presente in alcune votazioni popolari è la necessità di raccogliere non solo la maggioranza dei cittadinivotanti ma anche quella dei cantoni. Si tratta però di un aspetto del tutto secondario, applicato solo in alcune votazioni, quelle che riguardano le modifiche della Costituzione o l’adesione alle organizzazioni internazionali, e che serve a verificare se la maggioranza del popolo corrisponde a quella dei cantoni. Di fatto quasi sempre è così. Del tutto infondate, dal mio punto di vista, sono le tesi che vedono in questa regola della “doppia maggioranza” un meccanismo (chiamato persino “veto”) di protezione delle minoranze. Si può al contrario sostenere che le minoranze linguistiche rischino di essere doppiamente penalizzate sotto questo sistema: oltre ad essere minoritarie in seno al popolo svizzero (oltre il settanta

per cento dei cittadini svizzeri è di lingua tedesca) lo sono anche nell’insieme dei cantoni: solo sette cantoni su ventisei (ovvero ventitre, per quanto riguarda il calcolo della maggioranza dei cantoni) sono prevalentemente di lingua francese o italiana. Paradossalmente, quindi, la democrazia diretta non solo non ha svantaggiato le minoranze linguistiche, ma ha permesso di rendere l’intero sistema democratico più stabile. In che modo? Ci sono diverse spiegazioni possibili (vedi www.bit.ly/DD_centripeta) ma qui mi limito a osservare che la democrazia diretta permette a ogni cittadino svizzero di votare, più volte all’anno, su tutta una serie di oggetti politici che lo riguardano da vicino. A volte perderà. Ma a volte voterà come la maggioranza. E sapere che non si è sempre perdenti e minoritari, e che il sistema politico permette di avere voce eguale nelle decisioni politiche, è un aspetto di straordinaria importanza. Esso rafforza infatti la legittimità dello Stato agli occhi dei cittadini. Dimenticando ciò, faremmo fatica a capire come mai nei sondaggi la stragrande maggioranza degli svizzeri di ogni lingua si dice attaccatissima alla democrazia diretta, nonostante che, non di rado, i mass media e vari commentatori politici mettano in evidenza come in questa o quell’altra votazione i francofoni e/o gli italofoni siano stati battuti dalla maggioranza germanofona. Questo sarà vero nei singoli casi. Ma i commentatori sbagliano nell’attribuire eccessiva importanza a tali discrepanze. Dimenticano infatti che in ognuna di queste votazioni vi è sempre una forte minoranza francofona e/o italofona che ha votato come la maggioranza di lingua tedesca e, soprattutto, che chi è oggi in minoranza potrà essere in maggioranza la prossima volta, in un gioco democratico perpetuo. CONCLUSIONE In questo articolo la mia intenzione era di mettere in luce la democrazia diretta, e non solo il federalismo, e il ruolo che essa svolge nel sistema politico svizzero per quanto concerne la coesione nazionale, l’integrazione delle minoranze linguistiche e la stabilità del sistema democratico. Ciò detto, è evidente che la democrazia diretta è lungi dall’essere un sistema ideale. Essa può diventare anche uno strumento per opprimere o per schiaffeggiare, simbolicamente parlando, le minoranze. In Svizzera ne hanno sofferto non tanto le minoranze linguistiche quanto quelle religiose. La prima iniziativa popolare, accolta nel 1893, proibì la macellazione rituale: il bersaglio era la minoranza ebraica. Il divieto di costruire minareti, accettato nel 2009, è un altro esempio. La democrazia diretta non va quindi idealizzata ed è urgente chiarire quali debbano essere i suoi limiti, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle convenzioni sui diritti dell’Uomo e la libertà religiosa. Ma i suoi vantaggi per tenere insieme un paese plurilingue potenzialmente disunito prevalgono e non vanno sottovalutati. —

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Svizzera, Paese di tradizioni viventi RAYMOND GREMAUD

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en lungi dallo svanire, il folclore svizzero vive momenti di grande popolarità. Combattimenti di regine, Poyas e discese dagli alpeggi, feste dei vignaioli, tornei di lotta, raduni di cantori, di danzatori, di suonatori di corno delle Alpi e di yodels, vivono e godono di affluenze da record. E possiamo dire la medesima cosa per i numerosi carnevali o le inumerevoli manifestazioni vissute sotto l’egida di San Nicola. Il folclore – letteralmente “lo spirito del popolo” - respira a pieni polmoni in questo piccolo paese di ventisei cantoni, quattro lingue nazionali, metropoli e vaste zone di montagna. Sintomatico! Le città non sono da meno, riguardo alle loro tradizioni, rispetto alle campagne. Ne rendono testimonianza le famose feste dell’”Escalade” a Ginevra, la sfilata delle corporazioni a Zurigo in occasione del Sechseläuten, o il celebre carnevale di Bâle. UNSPUNNEN, SIMBOLO D’INTESA TRA GLI SVIZZERI Nel novero delle testimonianze significative per il folclore elvetico è doveroso citare per prima la festa di Unspunnen. Il sito in cui si tiene, prossimo ad Interlaken, si apre nella piega di un pascolo accerchiato dal bosco da cui emerge, nello splendore luminoso dai suoi 4158 metri, lo Jungfrau. Nel 1805, il popolo svizzero vi fu convocato per una festa alpestre. Sette anni prima il paese era stato invaso. Grazie alla mediazione del 1803, Bonaparte rese ai Tredici cantoni dell’epoca la loro autonomia. Ma il momento rimaneva difficile. La festa di Unspunnen divenne il mezzo, voluto, per rafforzare la nazione senza ricorrere alle armi.

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Il 17 agosto 1805, un corteo, gonfaloni al vento, mosse in direzione del luogo della manifestazione, riunendo tiratori, lottatori, suonatori di corno delle Alpi, cantori, danzatori. Si lottò, si cantò, si ballò, si lanciò la pietra di ottantatre chili e mezzo. L’entusiasmo fu tale che i giochi alpestri si ripeterono nel 1808, con un programma e la proposta di istituzionalizzare la festa in modo permanente al fine di “ridurre la distanza tra le diverse classi sociali di tutti i cantoni, di stimolare l’intesa tra gli Svizzeri, di rivalutare i giochi, gli usi e i costumi nazionali, di riportare alla ribalta il canto popolare”. Da visionario, questo programma è divenuto incredibilmente concreto. Dal 1946, la festa si svolge ogni dodici anni circa, dando un grande contributo alla rinascita del corno delle Alpi e allo sviluppo dello yodel, del canto e della musica popolare.

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La nona festa di Unspunnen si è svolta nel 2006 con tornei sportivi, spettacolo e corteo in palio. Ha avuto più di centoventimila spettatori e si è svolta sotto l’occhio attento di cinquecento giornalisti di cui centocinquanta venuti dall’estero. La prossima edizione è prevista per il 2017. GRANDIOSA, LA FESTA DES VIGNAIOLI DI VEVEY Con i suoi quattromilaseicento attori-danzatori-cantori-figuranti, tutti volontari, e più di mezzo milione di spettatori, la Festa dei Vignaioli di Vevey è diventata nel tempo la più grande delle manifestazioni nazionali elvetiche. Dalle semplici parate rievocate dalla cronaca fin dal lontano 1651, alla Festa del 1999 con le sue dodici rappresentazioni, sedicimila posti ciascuna, e i suoi quattro cortei…quanta strada è stata percorsa al ritmo di cinque edizioni al secolo. Concepita come cerimonia di ricompensa per i vignaioli ma spettacolo in sé, la Festa dei Vignaioli è la Festa delle Feste. Mme Béatrix Dussane, de La Comédie Française, la considera “come una manifestazione unica, grande non solo per il numero di partecipanti o gli ingenti mezzi messi in campo, ma anche per il suo carattere di celebrazione tradizionale in cui tutti i cittadini di una stessa area territoriale armonizzano i loro sforzi, con la medesima allegrezza a un tempo fiera e fedele”. Durante la festa del 1999, Vevey è stata una città in cui spettatori e attori si sono confusi e mescolati, incontrandosi, mangiando, ballando e bevendo insieme.


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ph. Jack Shaw

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La prossima edizione, annunciata per il 2019, promette gli stessi ’sapori’. POYA E DÉSALPE La tradizione delle transumanze del bestiame rimane vivace. In Appenzell, al Toggenbourg e nel Gruyère, si incontrano tutt’ora le greggi che raggiungono il loro chalet al ritmo e al suono delle loro campane, inquadrati da pastori in costume regionale. In Gruyères, i paesi di Charmey, Albeuve o Sâles, accolgono la discesa dagli alpeggi di numerose greggi splendidamente decorate e guidate da ’armailli’ (pastori tipici delle Alpi del friburgese) in perfetta tenuta e divisa. Questo genere di manifestazione, ravvivata dal corno delle Alpi, le musiche tradizionali e i prodotti del territorio, attira fino a ventimila spettatori, di cui molti stranieri. Questo evento merita uno spostamento. Chi si sofferma ad osservare non fosse che i ’colli’ delle mucche (rîmo) usciti dalle mani esperte di artigiani e la varietà delle campane, può constatare che la maggior parte delle greggi viaggiano con una vera fortuna addosso : un tesoro dell’arte regionale! Cicliche e istituite nel 1956, le feste de La Poya, à Estavannens onorano il rito delle salite all’alpeggio. L’edizione dell’anno 2000 ha visto riunirsi un ’gregge’ di trentaquattro razze, in maggioranza d’importazione dai paesi limitrofi, Inghilterra e Irlanda. Escluso il grande gregge nero e bianco del villaggio, ogni razza (toro, mucca e vitello), era accompagnato dalla musica tradizionale della propria regione d’origine. Unico in tutt’Europa, questo «Incontro di greggi e di uomini» ha catturato più di cinquantamila spettatori fieramente accolti in questo villaggio di soli trecento abitanti. CAMPANE OVUNQUE Le campane, oltre che nel momento delle transumanze e delle manifestazioni sportive, hanno un ruolo primario in questo paese alpino. È così nelle tradizioni di San Nicola à Küssnacht am Rigi (Schwytz) o a Kägiswil (Obwald). I cortei di San Nicola si snodano in notturna al suono ossessivo di una gran quantità di pesanti sonagli guidati nel ritmo da solidi giovanotti. Questi sono cortei spettacolari, illuminati da centinaia di mitrie episcopali rischiarate e illuminate dall’interno con delle candele. Queste mitrie, reali opere artistiche che raggiungono i due metri

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di altezza, sono portate da personaggi in tunica bianca e sono loro, con le fiaccole e le cantilene ipnotizzanti dei campanacci, a conferire a questa tradizione un carattere magico. Sonagli e campanacci hanno à Urnäsch, in Appenzell, il medesimo ruolo determinante. A San Silvestro e il 13 di gennaio, le Kläuse, in cerchio, agitano le loro campanacce al ritmodel canto, una sorta di jodel, per augurare un nuovo anno benefico. Indossando abiti e maschere di tipo rafinato ma anche di tipo selvatico, dipende dai gruppi, si spostano di fattoria in fattoria, offrendo visioni misteriose nella natura inevata. Per i visitatori…autenticità ed esotismo assicurati ! LO SCOMPIGLIO DEI CARNEVALI Re dei carnevali? Quello di Bâle che risale al 1376, in occasione del torneo dei cavalieri. Si è certamente poi evoluto ma allo stesso tempo conserva qualcosa di immutabile nel tempo. A cominciare da questo tempo di inizio che è il lunedì che segue il mercoledi delle ceneri, alle quattro del mattino. È il momento in cui i tamburi rompono un silenzio impressionante, seguiti poi dai pifferi. Dodicimila partecipanti mascherati, numerosi Guggenmusik e un centinaio di gruppi (Schnitzelbank) che recitano satire, assicurano la buona riuscita di questo carnevale. Il carnevale di Bellinzona (Rabadan), non meno importante, attira bene o male centocinquantamila visitatori all’anno. Anch’esso è animato da scintillanti Guggenmusik. Dotato di installazioni capaci di accogliere quarantamila persone si distingue per una gigantesca distribuzione di risotto e “luganighe”. Dal numero dei carnevali si intuisce di che genere è il gusto per il divertimento e la trasgressione della mentalità svizzera. Solo nel Tessin possiamo enumerare altri centotrenta carnevali locali. Questa proliferazione spiega quella dei Guggenmusik. Con duemila associazioni di musica per ottoni, la Svizzera offre un potenziale formidabile di giovani musicisti per le bande musicali che hanno per vocazione quella di disarticolare gli spartiti e creare, in fanfara, il più festoso dei fracassi. In Svizzera, più della metà degli abitanti sopra i quattordici anni d’età, è membro di almeno una associazione. Il mondo delle tradizioni gode a piene mani di questo impegno. È un ’dovere’, per i visitatori interessati, respirare un po’ di quest’aria folcloristica che dà profumo al paese. —


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Città e campagna in Svizzera: contrasto o continuità? LORENZO PLANZI

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a Svizzera non sono i Waldstätten (ovvero i cantoni primitivi forestali), bensì la campagna et la città», osserva nel 1914 lo storico e scrittore elvetico Gonzague de Reynold. Un secolo più tardi, la frontiera ideologica tra città e campagna sembra simbolicamente rimpiazzare, nella Svizzera di oggi, le secolari divisioni linguistiche tra cantoni di lingua tedesca e francese. Culturalmente il multiculturalismo è innegabilmente privilegiato dalle realtà urbane, mentre l’identità tradizionale è maggiormente radicata nelle realtà rurali. Sensibilità diverse che si riflettono, da almeno cinquant’anni a questa parte, nel fossato politico tra centri e periferie che s’impone regolarmente nelle votazioni federali: dallo spazio economico europeo ai caschi blu, dalla rinuncia all’energia atomica alla politica degli stranieri. Ma quali sono le radici di questo scontro politico contemporaneo tra città e campagna? È dagli anni Sessanta che le loro interrelazioni sono al centro di studi storiografici approfonditi, sul piano economico ma ugualmente culturale. Guardando a tali interazioni, dal Medioevo all’epoca contemporanea passando per quella moderna, la spuntano – tra città e campagna – i contrasti o piuttosto le continuità? All’epoca medievale della fondazione delle città, la vita vi si organizza diversamente che nelle campagne. Il commercio, l’artigianato e il mercato da una Giovanni Segantini, Costume Grigionese (particolare), 1887, olio su tela

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parte, l’agricoltura e la pastorizia dall’altra. Nel XV secolo l’élite della Confederazione s’identifica ancora, però, con la figura del “pio e nobile contadino”. Non si segnalano contrasti importanti tra le due realtà, a causa del libero accesso alla cittadinanza e della forte fluttuazione della popolazione. È nella letteratura, nei saggi di scrittori come Heinrich Wittenwiler e Felix Hemmerli, che germinano i primi dissidi ideologici tra campagna e città, tra nobiltà e contadini: le campagne si ritrovano progressivamente, con la formazione di signorie territoriali come i baliaggi, in rapporti di crescente sudditanza nei confronti dei cantoni urbani. E l’accresciuto potere delle città sulle campagne provoca, a cavallo tra XV e XVI secolo, un aumento delle rivolte contadine. Complessi anche i rapporti in ambito religioso: nel tardo Medioevo diversi ordini religiosi prediligono la solitudine rurale al frastuono urbano. Le rivolte contadine diventano ancor più frequenti all’epoca moderna. Ma se al tempo della Riforma protestante le realtà rurali fondano sulle antiche tradizioni la loro opposizione alle innovazioni imposte dai cantoni cittadini, è al tramonto del XVIII secolo che alcune campagne accolgono curiosamente le nuove idee politiche dell’Illuminismo, contrapponendole all’Ancien régime. Quanto alle relazioni economiche, gli abitanti della città si procurano cibo e legna nelle terre circostanti, mentre l’indebitamente agricolo nei confronti dei creditori cittadini raggiunge dimensioni enormi. Divari emergono anche in materia ecclesiastica e scolastica. La Riforma provoca, in un primo tempo, un crescente autonomismo delle regioni favorevoli alla nuova fede, ma successivamente l’organizzazione delle chiese cantonali nonché l’origine urbana della maggioranza dei predicatori rafforzano il carattere gerarchico delle relazioni religiose fra città e campagna. E la scuola? Vere e proprie scuole superiori come licei ed accademie esistono all’età moderna quasi unicamente nei centri urbani, mentre le scuole delle campagne si limitano ad insegnare a far di conto e a leggere la Bibbia. Questa crescente distanza culturale fra centri e periferie si traduce in testimonianze letterarie del XVIII secolo: viaggiatori cittadini alla scoperta della campagne considerano estranei gli abitanti della Alpi ma trasmettono nel contempo un’immagine idilliaca della quotidianità nelle campagne. L’urbanizzazione caratterizza, all’epoca contemporanea, le relazioni fra città e campagna. Ma quest’ultima perde, secondo alcune ricerche, il suo senso costituzionale all’inizio del XIX secolo, a favore dello statuto di “regione di montagna” oppure di “cantone alpino”. L’esodo rurale è particolarmente massiccio a cavallo tra XIX e XX secolo: la popolazione urbana passa dal sei e quattro per cento nel 1850 a un massimo al quarantacinque e tre nel 1970. Dai sixties in avanti è curioso osservare come il flusso migratorio s’inversa: la popolazione si trasferisce dai nuclei cittadini alle fasce degli agglomerati urbani. Una separazione spaziale fra comuni residenziali e sedi lavorative urbane s’impone progressivamente, con il conseguente

pendolarismo giornaliero. Le statistiche demografiche rivelano nel contempo differenze non trascurabili: in città si segnala una presenza crescente di donne, anziani e stranieri, mentre un surplus di uomini si registra nelle campagne. Si attenuano invece i confini tra realtà urbane e contadine: le cinte murarie sono eliminate nel XIX secolo, mentre nel XX secolo si formano agglomerati sempre più estesi e dai confini sempre meno chiari. Il contesto politico dei rapporti fra città e campagne è dato dall’abolizione di ogni sudditanza nonché dei privilegi urbani nel 1848. Il divario resta però reale sul piano economico. L’inarrestabile crescita economica e urbanistica, accompagnata dall’emergenza di problemi sociali nuovi, aumenta la distanza ideologica e mentale nei rapporti tra città e campagna. All’immagine di una Svizzera sempre più urbanizzata sono contrapposti la protezione della natura e del patrimonio nazionale. Ed ancora i paesaggi dipinti da Ferdinand Hodler, in stridente contrasto con le modifiche paesaggistiche in atto all’epoca. Le città, invece, affrontano in modo realistico i propri problemi infrastrutturali. Con teatri, musei e scuole superiori rafforzano progressivamente le loro funzioni di centro anche in materia culturale ed educativa. Ed in ambito confessionale? Nel 1929 le scrittore romando Léon Savary scrive che nei cantoni rurali cattolici «versa lacrime a compieta e prende sul serio i fasti della liturgia», mentre nei cantoni protestanti, come a Ginevra, «la Chiesa cattolica sembra straniera. Si costruiscono chiese, le statistiche segnalano progressi costanti di Roma. Ma, sino ai piedi dell’altare, intravvedo ancora l’ombra del riformatore Calvino». La tendenza s’inversa dagli anni Venti/Trenta, quando la minaccia totalitaria e la crisi economica mondiale fanno scattare sforzi di cooperazione nazionale fra città e campagna, rispecchiati dalla Difesa spirituale e particolarmente visibili anche nel “servizio del lavoro agricolo” o nel Piano Wahlen. Dal 1950 la motorizzazione e gli svaghi portano simbolicamente all’avvicinamento o addirittura alla parziale fusione delle mentalità urbana e rurale. Anche la frontiera confessionale tra città e campagna sembra cancellarsi progressivamente con l’avanzata di quella rivoluzione silenziosa che è la secolarizzazione. Se un certo contrasto, o meglio contrapposizione, rimane oggettivamente reale per quanto concerne il posizionamento politico, che riflette i valori culturali, sul piano sociale come economico s’impone tra città e campagna una sorta di continuità. Significativo è che, attualmente, il quaranta per cento degli Svizzeri non vive né nei centri urbani né nelle campagne, bensì in zone intermedie. Capiamo così le funzioni di centro svolte da nuclei urbani piccoli, da borghi e villaggi oppure la situazione dei sobborghi e delle moderne periferie. Malgrado qualche discordanza città e campagna restano unite – e questa è la vera ricchezza della Svizzera – dalla coesione nella diversità. —

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ph. Fabio Berni

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Il Paese delle montagne TERESIO VALSESIA

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l Cervino è l’icona della Svizzera. Lo si trova sulla pubblicità dei prodotti alpinistici, ma anche sui manifesti delle compagnie aree, dei cioccolati e delle banche. Ed è la montagna più fotografata del mondo. La sua immagine non ha perso lo smalto dell’attrazione. Basta andare a Zermatt qualsiasi giorno d’estate e d’inverno per vedere comitive di giapponesi, cinesi e indiani che lo omaggiano, armati di macchine fotografiche. In realtà non solo il Cervino, ma la montagna nel suo complesso deve essere assunta come simbolo della Svizzera, che non sarebbe tale senza il reticolo, la varietà e la complessità dei suoi rilievi orografici. La genesi della sua storia, sbocciata nel 1291, è costituita infatti dal fulcro di tre minuscoli cantoni che si sono uniti nel cuore centrale della catena alpina: Uri, Svitto e Untervaldo. E con loro, Guglielmo Tell, montanaro-doc. Sulle montagne si sono forgiati i migliori soldati di ventura, comprese molte delle guardie svizzere pontificie, il cui museo si trova a Naters, piccolo paese del Vallese. E anche grazie alle barriere naturali che si intersecano e si sovrappongono, la Confederazione elvetica ha potuto conservare cinque secoli di libertà e di indipendenza. La radici dell’appartenenza a un’unica Patria, nonostante quattro lingue, hanno trovato linfa e conferma anche nei valori tradizionali legati alla montagna che hanno plasmato gli individui. La formazione della “svizzerità” nasce già negli anni delle scuole con escursioni collettive, prestazioni di servizi gratuiti a favore dei montanari e vacanze nelle “terre alte”. Quest’anno si ricorda il centocinquantesimo della prima ascensione al Cervino. Merito dell’inglese Edward Whymper e di due guide locali, i Taugwalder padre e figlio: gli unici tre che sono sopravvissuti alla tragedia compiutasi sulla via del glorioso ritorno. Questa estate l’”Expo” alpina più affollata sarà ai piedi del Matterhorn (Corno di Matter, ossia del prato). Del resto l’antico toponimo di Zermatt era Pratumbonum… Il più nobile scoglio d’Europa (per dirla con l’alpinista francese Gaston Rébuffat) era rimasto in sonno fino al termine del Settecento.

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I primi a visitare la reil traffico stradale, ma gione del Cervino non tutti gli occhi sono confurono dei precursori centrati su quel Corno dell’alpinismo, ma due solitario e catalizzatore. botanici: scambiati per Niente semafori, niente ladri di pecore, furono inquinamento fonico. salvati dal linciaggio Solo contemplazione. grazie al provvidenziale Oltre cent’anni fa la liintervento del parroco nea ferroviaria è prosedi Zermatt. guita da Zermatt fino Prima del Cervino erano agli oltre tremila metri già stati raggiunte moldel Gornergrat, di fronti altri “quattromila” te al versante nord del della Svizzera, che ne monte Rosa, uno scenaannovera ben quaranrio ininterrotto di cantotto, ossia oltre la metà didi ghiacciai. di quelli incastonati nelCapita che le marmotte Zermatt le Alpi. vadano ad assopirsi sui Il Monte Bianco era stabinari riscaldati dal sole to violato nel 1786 da un medico e da un guida di Chamonix, ma e il manovratore arresti le carrozze per deporle al sicuro, fra i click l’ispiratore e l’animatore dell’impresa veniva da Ginevra, Horace dei turisti divertiti. Bénédict de Saussure, un nobile e uno scienziato dell’illuminismo Non solo Zermatt, ma tutto il Vallese è una destinazione di che è considerato il padre dell’alpinismo delle Alpi occidentali. prim’ordine per i cultori delle grandi montagne. Arrivata in ritardo, la “Gran Becca” che svetta fra Zermatt e È facile da raggiungere passando dal Sempione o dal Gran San Cervinia, ha però recuperato in fretta il terreno della memoria Bernardo, ma anche da Berna grazie alla Tav attraverso i trentasmarrita. quattro km della galleria del Lötschberg. Il modesto villaggio di Pratumbonum aveva un’unica locanda, che Da contadini e pastori a operatori turistici. era la disadorna abitazione del medico. Le Alpi svizzere sono piene di ferrovie d’alta quota. Oggi vanta una costellazione di hotel da cinque stelle e il trenino La più famosa e la più alta è quella che sale da Grindelwald allo rosso scodella decina di migliaia di turisti al giorno nella cittadina Jungfraujoch (3454 metri), dapprima fra le praterie modellate del dove le auto sono ancora “verboten” e non si corrono pericoli per fondovalle, poi nelle viscere oscure dell’Eiger.

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Una breve fermata di quella schiettamente altre minuti permette ai pina. viaggiatori di guardaMolte altre aree protetre da una finestrella la te scandiscono le monstrapiombante parete tagne svizzere che sono nord che ha collezionato tuttora largamente fetante vittime prima di condate dalla secolare essere costretta alla resa attività degli agricoltoda una cordata tedesca ri, sostenuti concretanel 1938. mente come autentici Fu un grande even“giardinieri” del paesagto promozionale per il gio che devono conserQuarto Reich. vare e tutelare nella sua Grindelwald è la staintegrità anche come zione turistica più imbaluardo contro alluvioportante dell’Oberland ni, frane e smottamenti. Bernese che sul versanLa rete complessiva dei White turf a St. Mortiz te vallesano protende il sentieri si stende capilmaestoso tentacolo del larmente per settanghiacciaio dell’Aletsch, il più lungo delle Alpi, (ventitre km), patamila km, corredati da segnavia bianco-rossi e bianco-blu (per trimonio dell’Unesco. quelli più impegnativi). Il terzo polo più importante delle Alpi svizzere è quello dell’EnNon solo attività salutistica: c’è anche la gratificazione di tanta gadina, che evoca, a San Moritz e dintorni, i paesaggi severi, ma natura e cultura in centri attrezzati e in piccoli villaggi, come Juf, rilassanti, del grande Segantini ed è stata luogo d’ispirazione per che si raggiunge deviando a destra nella discesa dal San BernardiNietzsche, Wagner, Hesse, Mann, Strauss e Proust. no verso Coira: è a 2126 metri di quota, in mezzo alle marmotte. Nella bassa Engadina c’è l’unico parco nazionale svizzero: terra Ha solo trenta abitanti ed è il Comune più altro delle Alpi, abitato wilderness per migliaia di stambecchi, camosci, cervi e caprioli che tutto l’anno. vivono liberi e felici da oltre un secolo. Il museo più alto si trova invece sul Passo del San Gottardo, a Ora sono in progetto altre due zone protette a livello federale: la 2100 metri. Sotto lo storico valico che è stato per secoli la “via Greina (un altopiano solare fra l’alto Ticino e i Grigioni), e le valdelle genti”, nel 2017 sarà aperta la galleria dell’alta velocità più li del Locarnese dove la vegetazione mediterranea si coniuga con lunga dl mondo: cinquantasette km. —

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Svizzera profonda Ovvero i misteri di un sottopassaggio PIETRO BELLASI 1 L’elettrotreno, nuovo di fabbrica, rallenta miagolando e plana dentro la clorofilla intensa di un vasto prato sulla cui frescura è poggiata una minuscola, antica cappella seminascosta dal cappuccio di tegole e di muschio. A fianco della cappella, su di un fazzoletto di plastica ballano dodici figuranti, uomini e donne, in costume tradizionale. La vastità del paesaggio circostante e soprattutto l’imponenza remota delle montagne all’orizzonte producono un curioso effetto di straniamento prospettico e di perversione dimensionale su quella scenetta di assoluta e scontata ovvietà elveticofolkloristica. Ti aspetteresti il tintinnio di un carillon, mentre il nostro treno è come un giocattolino fermo in pochi centimetri di un bel plastico. Con intelligenza (e genialità organizzativa) gli ideatori di “Artransit” il 15 novembre 2014 avevano realizzato un viaggio da Milano a Zurigo e ritorno nell’ambito del progetto “Via–Vai” di eventi di scambio culturale transfrontaliero Italia–Svizzera. Il treno che aveva effettuato la navetta tra le due città era una sorta di Carro di Tespi che, affollato di artisti e di performer in azione, si era arrestato qua e là sui tornanti della linea del Gottardo, dove si svolgevano azioni del tipo descritto; il rimbombo dei corni di montagna costituiva la colonna sonora. 2 Insomma, ancora una volta, con grande autoironia, si affrontava il tema della nostra “eccentrica” identità o, piuttosto, della percezione che, soprattutto fuori dai nostri confini, si ha “ancora” di questa identità: fantomatica, banalmente esotica, infarcita di leggiadrie kitsch e di pregiudizi forse come per nessun altro paese o cultura. Bisogna dire però che anche l’immaginario aggredito dalla corrosione ironica di “Artransit” appartiene ormai a una Svizzera certamente morta, ma soprattutto “sepolta”; vedremo perché. Nel catalogo della mostra Enigma Helvetia: Arti, riti e miti della Svizzera moderna del 2008 a Lugano, l’avevo definita come “l’isola dell’altrove”. Un “altrove” iniziato con quella “invenzione del paradiso” (per

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carità, non ancora fiscale), illustrato dal libro–documentario del grande e compianto regista cinematografico Daniel Schmid in collaborazione con Peter Christian Bener, Die Erfindung vom Paradies: quell’Eden che aveva costituito uno degli epicentri culturali, mondani e storici della Belle Epoque. Era quanto poi coincideva con un’altra “invenzione” (più ancora di una semplice “scoperta”) della montagna alpina e dei suoi sport: ultima riserva di genuinità esistenziali, di rudi onestà, di felicità rousseauiane, di salubrità di aria e di acque per gli esausti, depressi sovrani e per gli annoiati borghesi in cerca di rischi controllati, prima dell’immane tsunami bellico. Questo tema affascinante è stato ripreso molto recentemente e con malcelato empito nostalgico dal bel libro–album di Michael Lütscher, Snow, sun and stars. How the British and the Swiss invented winter tourism (Neue Zürcher Zeitung Publishing, 2015). Del resto, questa Svizzera in miniatura, riassemblata con le pinze della nostalgia tutta dentro la bottiglia di un sogno passatista grazie a un bricolage di resti, di frammenti più o meno incongrui di antiche e vecchie culture in dissolvimento, è stata l’oggetto delle analisi antropologiche magistrali di Bernard Crettaz, a partire dall’esempio–metafora del Village Suisse costruito a Ginevra in occasione della Esposizione Nazionale del 1896: Une Suisse miniature ou les grandeurs de la petitesse; e, di seguito, La beauté du reste: sur la perfection et l’enfermement de la Suisse et de Alpes. 3 Proprio col riferirmi alle ricerche di Crettaz, nel saggio di Enigma Helvetia avanzavo l’ipotesi che la miniaturizzazione e il processo di enjolivement, di riduzione a microarmonie, vorrei dire di “geranizzazione” della icona–Svizzera avesse le sue radici anche in quella grande scelta così antica e radicata, ideale e pragmatica a un tempo, a volte drammatica e ambigua, della neutralità. Come ricordavo allora, in una delle cappelle votive dedicate nelle vicinanze di Sarnen al Santo protettore della Svizzera Nicolao della Flüe, dopo la fine della Prima guerra mondiale è stato dipinto uno smisurato ex–voto che rappresenta un oceano in tempesta con ondate di scheletri appiedati o a cavallo, vestiti con le uniformi degli eserciti del mondo, che cercano di tritu-


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rarsi reciprocamente, uccidendosi dopo la morte. Nel bel mezzo di quella “ossificina” si erge una piccola isola montagnosa, piena di giardini, sentieri, panchine, pascoli e belvedere, abitata da esseri umani ancora “in carne”, pure vecchi e bambini, immersi in una quotidianità serena, nitida e impassibile. Come accade spesso, una espressione artistica, anche di non eccelso valore estetico, può veicolare importanti testimonianze e intuizioni. In questo caso una metafora inconsapevolmente e squisitamente antropologica che rivelava timori, terrori e la radicalizzazione immaginaria di una scelta strategica storico–politica che avrebbe investito e permeato di sé, capillarmente, il farsi e lo svolgersi della socialità quotidiana fino nei recessi apparentemente più remoti del costume e delle sue banalità. 4 La difesa contro la grande Storia temuta come “la follia di tutti gli altri” (rivelatasi presto anche come esclusione e persino esilio doloroso) comportava il rifugiarsi nel covo all’apparenza tranquillo di una “vita quotidiana” (la every–day–life, ovvero der Alltag dei sociologi) come sospesa nella eternità immobile di un tempo ciclico senza sorprese, permanentemente rianimato dalla ripetitività di riti, micro–miti e convenzioni. La cura meticolosa, “miniaturistica” di ogni minimo aspetto del tran-tran quotidiano, il suo enjolivement, la sua estetizzazione quasi maniacale, la logica perfezionistica della finizione e della manutenzione, l’eternizzazione degli stessi oggetti “di consumo”, sono ben affermati luoghi comuni che continuano ancora oggi a lucidare lo smalto della cartolina svizzera. Per mio conto ho sempre sostenuto che questo elemento della vita quotidiana, oltre alle banalità citate, aveva segnato e caratterizzato in modo assolutamente decisivo esperienze fondamentali di artisti svizzeri in campi diversi e di differente estrazione. Ma allora qui il messaggio non è certo tranquillizzante; anzi è drammatico, se non spesso tragico. La quotidianità non è più uno spazio di vita, ma piuttosto una intercapedine claustrofobica alla periferia del mondo e dell’esistenza dove la solitudine consuma tragedie individuali quasi nostalgiche di quelle, certo immani, di collettività geograficamente e culturalmente confinanti. Fino dall’inizio del Novecento (forse dallo stesso Ferdinand Hodler), ma soprattutto dopo il 1910, molti artisti svizzeri pendolari tra il Ticino e i cantoni interni sono accomunati da uno stile assai omogeneo che avevamo definito “un certo espressionismo” per le mostre di Ferrara e di Locarno del 1990 e 1991. Con la maggior parte di loro la denuncia della vita quotidiana come allucinazione autistica, intrisa dal senso di morte di quanto Freud chiamava “la coazione a ripetere”, spesso come impotente ripiegamento su di sé fino all’estremo autolesionismo, si sublima in capolavori altissimi, dotati anche di una originalità sorprendente. Dovuta questa, certo, anche alla singolarità tutta svizzera di una tale esperienza di “quotidianità”. Così i freddi squallori montani di Ferdinand Hodler, le allucinazioni rarefatte degli alpi di Fritz Pauli, le vertigini tettoniche di Hermann Scherer, le rivoluzioni fallite di Otto Baumberger, la pazzia lucida di Louis Soutter, la tanatofilia triviale borghese di Kurt Wiemken; e ancora proprio la minacciosa, cupa e violenta claustrofobia domestica di Ignaz Epper.

5 È una denuncia della “normalità” e dei processi di normalizzazione, tra le più mirate e radicali delle arti contemporanee europee, che impegnerà per molti anni e in certi casi fino a oggi gli artisti svizzeri più conosciuti. È persino ovvio richiamare per la letteratura un Max Frisch come un Friedrich Dürrenmatt o un Fritz Zorn; ma è forse meno evidente ricordare la sorpresa di quella grande vague di allora giovani registi cinematografici svizzeri che, tra gli anni ’60 e ’70 tracimarono le sale d’essai di tutta Europa con una serie impressionante di veri capolavori, nati dentro uno sguardo lucido e disincantato ai cieli immobili delle quotidianità urbane e rurali della oleografia elvetica: Claude Goretta, con il suo L’invitation o Le fou; Alain Tanner e La salamandre o Charles mort ou vif; Thomas Koerfer con La morte del direttore del circo delle pulci; Daniel Schmid con Paloma, Questa notte o mai, Beresina... Ma è il momento di tornare al nostro trenino elettrico fermo sul prato della cappella. A pensarci bene è, esso stesso, la metafora di una Svizzera che non c’è più; dicevo “sepolta” e adesso aggiungo: sotto le tonnellate di roccia trivellate per aprire, con “Alptransit”, il “sottopassaggio”più lungo del mondo. Così, necessariamente la tecnologia più avanzata eclissa con la vecchia linea del Gottardo un tracciato sacro di quel mito fondatore della Svizzera che è stata la ferrovia: allora una tecnica “buona” che, senza violentarla, accarezzava la natura costeggiando i laghi, arrampicandosi sulle rocce e i ghiacciai, rendendo persino omaggio processionale al San Gottardo, per tanti aspetti “montagna sacra” degli svizzeri. Sono convinto che, nel bene e nel male, questa logica del “sottopassaggio”, forse finalmente, sta eliminando per sempre le nostre manie identitarie legate a un marché aux puces di nostalgici detriti. 6 Alptransit, il secondo “tubo” del traforo autostradale, le altre decine di gallerie che stanno trasformando il nostro in un paese di pianura, persino l’anello sotterraneo del Cern: nelle viscere del nostro piccolo territorio si trapiantano metafore rigorose di modernità inesplorata e rischiosa e di una temporalità lineare antitetica a ogni ciclicità abitudinaria. In superficie, mentre molte delle nostre “ridenti” cittadine si trasformano in non–luoghi di transiti, raccordi, transazioni di auto, di tir e di finanze, la grande Storia della globalizzazione spazza via, con l’ormai famigerato segreto bancario, uno dei contrafforti simbolici più consolidati della gelosa privacy quotidiana elvetica. Ma se persino qui “la quotidianità” è morta, allora ci si può chiedere: c’è più posto o tempo per un’arte in qualche modo “svizzera”? —

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San Gottardo, ferrovia d’Europa Caleidoscopio REMIGIO RATTI

(1935) “La notte era scesa presto, quasi di colpo, come tipicamente avviene in Leventina1. Cumuli di nubi, stracciate dalla bufera altissima, venivano a sciogliersi in basso in bave di nebbia. Dalla Tremola, dalla Valle Bedretto, ad intervalli quasi regolari, s’incrociavano sul villaggio di Airolo rabbiose raffiche ghiacciate. Per un attimo scomparivano uomini e cose, avvolte nel turbine della neve gelata. «U Chiüssa» mi disse il capostazione, assumendo il servizio notturno... E s’incomincia. Ai treni serali viaggiatori non è comparso il variopinto, solito gruppetto di paesani che viene, dopo cena, a far due chiacchiere sotto la pensilina della stazione, mentre si osserva chi va e chi viene. Le strade spazzate dalla gelida bufera sono trasformate in una pericolosa pista ghiacciata, sì che nemmeno l’immancabile manipolo di fanciulle, che ha l’obbligo di controllare chi è il berretto rosso di turno, non si fa vivo”. (2016) L’11 dicembre è domenica, primo giorno di apertura al traffico secondo orario della galleria ferroviaria più lunga del mondo, di cinquantasette chilometri, sotto il massiccio del San Gottardo. Gli spazi metropolitani di qua e al di là delle Alpi potranno integrarsi meglio, senza l’ostacolo della montagna. D’alto della torre di controllo di Giornico, davanti a decine di schermi, un manipolo di operatrici ed operatori, in ambiente asettico e senza berretto rosso, dirigeranno i treni dal confine italo-

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svizzero di Chiasso fino alle porte di Zurigo. A una velocità tre volte superiore ma ancora relativamente modesta (250 km orari) di colpo il tragitto intermetropolitano guadagnerà fino a un’ora di viaggio. (1853, diatriba tra l’Ing. la Nicca e l’Ing Lucchini2) La Nicca: “Da Wassen in sù, il signor Lucchini conta di vincere l’asprissima e lunga stretta delle così dette Schöllenen, mediante un piano inclinato affine di alzarsi all’altipiano di Andermatt. Ma secondo un profilo che trovasi nelle mie mani, il Thalweg della Reuss ha ivi un acclivio naturale dell’undici per cento, ed essendo la detta stretta per tutta la sua lunghezza incassata fra alte, quasi perpendicolari rupi, o fra scoscese frane seminate da macigni staccatisi dall’alto, non arrivo a comprendere in quale guisa il signor Lucchini3 intenda traversarla con piani inclinati... quando nella sua giusta posizione il San Gottardo... lo rendeva a mio avviso non meno difficile degli altri passaggi, per cui quello del Lucomagno poteva venir preferito”. (2020) Scolaresche da tutta Europa e dal continente asiatico ma tanti sono pure gli adulti di ogni classe di età - fanno a gara per prenotare un viaggio e una visita lungo quella valle descritta dal la Nicca per vivere l’esperienza unica di risalire la montagna entrando in quelle geniali gallerie elicoidali inventate nell’Ottocento; gallerie costruite per farti vedere da tre angolature diverse la chiesa di Wassen, degne per questo di entrare nel patrimonio

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universale dell’Unesco? No, si era semplicemente smentito il pessimismo di la Nicca e superato i limiti dei piani inclinati fino ad alte quote (addirittura millesettecento metri s/m) di Lucchini per far finalmente salire merci e viaggiatori fino ai millecento metri di Airolo e Goeschenen, i portali dei quindici chilometri della galleria ferroviaria del 1882, quella dell’Ing. Louis Favre. Il successo di questo itinerario mette in risalto il San Gottardo, non solo quale spartiacque dei quattro fiumi che dal S. Gottardo si dirigono verso tutti i punti cardinali e in altrettanti mari d’Europa, porta a riscoprire il suo ruolo nello scenario delle “Alpi per l’Europa”4, la sua centralità e le sue imponenti montagne, che la galleria di base AlpTransit non ha e non deve cancellare. (1941) I traffici di transito ferroviario attraverso la Svizzera raggiungono - e siamo nel pieno della seconda guerra mondiale - un record, con otto milioni di tonnellate (in gran parte treni di carbone), esaurendo in pratica la capacità della linea del San Gottardo ma, soprattutto salvando la linea dall’invasione del Reich e la sua neutralità (almeno fino a quel momento). Com’è stato possibile? Essenzialmente per due importanti regole del gioco e solo grazie alla possibilità di combinarle. La prima, la convenzione dell’Aja del 1907 sui diritti e doveri dei paesi neutrali, le vietava di lasciar passare in transito materiale bellico, truppe o deportati in caso di guerra, ad eccezione dei convogli umanitari.


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La seconda, risalente alla convenzione del San Gottardo del 1909 permetteva alle ferrovie di agire pragmaticamente e quindi ai due stati dell’Asse di far valere diritti storici legati al loro contributo (due terzi) al finanziamento della linea ottocentesca. Quando la Svizzera, nel 1909, incluse la linea gottardiana nella rete delle Ferrovie Federali - Germania e Italia rinunciarono intelligentemente al rimborso delle sovvenzioni versate, in cambio di consistenti riduzioni tariffarie (la metà rispetto alle tariffe interne) e stabilendone una reciproca dipendenza strutturale. (1992/1998) Il periodo appena citato che salva la Svizzera e la sua neutralità - contrariamente a Svezia, Norvegia e Finlandia non è comunque un episodio. Al contrario, la piccola Svizzera deve da sempre la sua esistenza al gioco di equilibrio tra forze esterne - l’interesse dei “potenti” di ogni epoca è stato quello di tenere il cuore delle Alpi libero, dall’una o l’altra egemonia politica - e intraprendenze interne, fatte di autonomie conquistate e regolate dal principio di sussidiarietà e dal federalismo. Una geopolitica sempre difficile, tra aperture, interessi e difese identitarie. Cosi si spiega - ma la storia dirà se a ragione o no - dapprima il rifiuto di misura (cinquanta e tre per cento) del popolo svizzero (6.12.1992) del trattato d’adesione allo Spazio Economico Europeo (il regime UE per Norvegia, Islanda e Liechtenstein); poi, per quel che ci riguarda, nel 1998, la ratifica popolare per un finanziamento - questa volta completamente autonomo - delle nuove gallerie ferroviarie attraverso le Alpi. (2040/50) Il modello svizzero di finanziamento dedicato e deciso dal popolo ha dato i suoi risultati: le “gallerie di pianura” sotto il Loetschberg, tra Berna e Vallese (37 km, in servizio dal 2007), quella citata del San Gottardo (57 km; 2016) e quella del Monte Ceneri, fino a Lugano (16 km, 2019), costate in totale 20 miliardi di Euro, precedono gli altri trafori, del Brennero (57 km, 2025?), per non parlare della Torino-Lione. Rovescio della medaglia della decisione autonoma: malgrado gli accordi internazionali, gli accessi - sia a nord sull’asse renano, sia a sud, il tratto svizzero da Lugano a Chiasso e quello dal confine fino a Milano - sono in ritardo o meglio rimandati come nel caso della Lugano-Milano al 2040/50. La “ferrovia d’Europa” attraverso la Svizzera mantiene anche per il XXIo secolo il proprio ruolo, ma è proprio il caso di avere nella rete

dei “buchi”, dei “missing links” condizionanti per i prossimi decenni? (2025/30) L’Egitto avrà inaugurato il raddoppio, meglio, il nuovo canale di Suez. Le gigantesche navi portacontainer che fanno la spola tra Sud-est asiatico, Europa e Nord America avranno l’interesse a fare scalo nei porti del Mediterraneo, guadagnando fino a una decina di giorni rispetto agli itinerari odierni che fanno capo ai porti del nord (Rotterdam; Anversa) e i porti liguri si stanno preparando o sono pronti, come Savona. Se fosse ancora in vita uno storico come Bruno Caizzi certamente avrebbe già messo in cantiere - dopo il suo “Suez e San Gottardo”, pubblicato nel 19855 - una nuova ricerca, poiché la globalizzazione apre e rimette in causa molti elementi del vecchio scenario: una possibile inversione o riequilibrio dei volumi dei flussi via terra, oggi più forti nel senso nord-sud, da Rotterdam verso l’Italia; ma anche, in assenza di una adeguata risposta logistica (retroporti) e infrastrutturale, un forte rischio di un servizio via gomma del nuovo bacino di mercato. Suez e le interconnessioni tra spazi metropolitani a sud e nord delle Alpi bussano ancora una volta al San Gottardo, ferrovia d’Europa. Un gruppo pubbico-privato (PPP) e controcorrente rispetto alle attuali posizioni istituzionali - denominato LuMi, come il segmento mancante - ne ha sposato la causa. Sarà pronto per presentare all’Expo 2015 (il 6 giugno) un progetto da realizzare entro il 2030? “Nutrire il pianeta, energia per la vita” significa anche superare le frontiere e pensare a sistemi in reti, all’altezza della sfida della globalità. — da “Vita di un berretto rosso - Notte sulla linea del San Gottardo” di Giovanni Ratti, pubblicato in “Il mio servizio - Il mio orgoglio”, Ed. Zeli, 1941/42, p.127129. 2 da “Ferrovia attraverso le Alpi - Terza memoria dell'Ingegnere in Capo Lucchini in appoggio al suo Progetto pel S. Gottardo”, Bellinzona, Dalla Tipografia e Litografia del Verbano, 1853, p. 8. 3 Progetto di una Strada-Ferrata attraverso il San Gottardo onde collegare le Ferrovie d’Italia con quelle della Svizzera Centrale dell’Ingegnere in capo Pasquale Lucchini, Bellinzona, dalla Tipografia e Litografia del Verbano, 1853. 4 È questo il titolo felice (Lugano 19985) di un ampio percorso di rilettura multidisciplinare storica e prospettiva delle Alpi promosso sin dal 1973 da Piero Bassetti; v. Togni R.(a cura di) (2013), “Le Alpi. riflessioni e integrazioni di convegni, seminari, interviste 1973-2012”, Giampiero Casagrande Editore, Lugano. 5 Caizzi, B., (1985), “Suez e San Gottardo”, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano. Ripubblicato nel 2007 da Giampiero Casagrande Editore, Milano-Lugano 1

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Fredi Murer

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Il cinema e la Svizzera FABIO FUMAGALLI

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el corso del Novecento il mondo ha progressivamente preso coscienza dei fermenti artistici e culturali in atto nella piccola Svizzera. Nelle arti figurative Böcklin, Anker, Hodler, Segantini anticipano l’irradiazione epocale dei Klee, Giacometti, Arp,Tinguely. In campo letterario svizzero–tedesco, dopo Robert Walser occorrerà attendere la seconda metà del secolo e le due personalità imperiose di Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt per schiudere i confini alla generazione dei Bichsel, Suter, Muschg. Assai prima, risalteranno internazionalmente le personalità romande di Charles Ferdinand Ramuz e Blaise Cendrars. Ma non dimentichiamo quanti svizzeri hanno inciso drasticamente nel secolo, da Le Corbusier a Arthur Honegger, da Carl Gustav Jung a Jean Piaget, a un certo Albert Einstein. Ci si può chiedere, allora, la ragione per la quale un’arte come il cinema - che si è nutrita da sempre di tutti quei filoni culturali, che è vissuta come poche altre degli scambi sempre più frequenti fra le idee e le genti - sotto etichetta rossocrociata abbia dovuto attendere fino a pochi decenni fa per affrancarsi della famosa perfidia di Orson Welles: “L’Italia, sotto i Borgia, ha avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e ha prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. La risposta non è più da sfumare con elvetica circospezione: fino alla metà degli Anni Sessanta il cinema nazionale non è praticamente esistito. Considerato folcloristico all’estero, citato quasi con ironia, invendibile e comunque ignorato dal pubblico, la sua è stata una genesi lunghissima. Anche se un pioniere come Louis Delluc già agli inizi degli Anni Venti progettava di aprire una casa di produzione a Ginevra; o, pochi anni dopo, lo scrittore Ramuz aveva risolto un’idea in forma di sceneggiatura. Ancora vent’anni dopo, dalla presenza di registi di fama mondiale rifugiati a Ginevra come Jacques Feyder e Max Ophuls non nascevano che pochi minuti di un progetto subito abortito. Persino il mitico Eisenstein, proveniente dalla Russia e soffermatosi nel 1929 a Losanna e quindi a Zurigo con varie proposte, era subito entrato nell’occhio delle varie autorità.

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Per ripartire in breve tempo per il lessere nascosto sotto il benessere, i Messico del suo cammino finale. comportamenti perbene di una auto Quasi incredibilmente, anche gli anni soddisfazione privilegiata e presupche separano la fine della Seconda posta eterna. guerra mondiale e il 1960 si traducoNon solo i nomi concorrono ovviano nel vuoto cinematografico. mente a questa seppure tardiva forProspera la Svizzera dall’economia mazione, ma l’avvento della televipreservata, ma il cinema è visto ancosione con il suo enorme apporto alla ra dalla politica e dalle banche come diffusione, formazione e finanziamenun’espressione a rischio di sovversioto; il consolidamento dei festival interne, uno sguardo pericoloso volto a nazionali, l’attività dei cineclub, l’acAlain Tanner - ph. Loreta Daulte scrutare sé stesso. cresciuta professionalità della critica. Non sono tanto i tradizionali condizionamenti finanziari a frenare Ma, prima di concludere nel grande salto alla contemporaneità di la nascita delle pellicole: dopotutto, cineasti come Vigo, Siodmak questa sintesi non di certo esaustiva, va almeno ricordato il nome o Billy Wilder avevano sfondato con pochi soldi. del grande poeta (accanto a Daniel Schmid) del cinema nazionale, E nemmeno territoriali: Paesi dalle dimensioni contenute e lingue Fredi Murer. emarginate come Svezia o Danimarca avevano visto una tradizione Nel 1985 il suo Höhenfeuer (Falò-fuoco alpino) è il film che la Svizzepluri-centenaria di fermenti letterari, teatrali e culturali permettera potrebbe spedire alla cineteca dell’isola deserta. re la nascita dei Molander, Stiller, Sjöberg, Bergman. La cronaca di un dramma incestuoso in una famiglia di alpigiani, Nella Svizzera, l’eredità culturale e intellettuale si trasforma al vista con l’autenticità di un occhio verista; ma nel contempo la tracontrario in un limite: imposto da tre etnie, tre lingue diverse che sformazione di questa realtà nel soprannaturale, nel meraviglioso guardano a Berlino, Parigi o Roma, piuttosto che a loro stesse. universale. Un’opera che svetta su una carriera troppo riservata, In epoca di trasformazioni sempre più veloci, ma in un territorio il modello ineguagliato di una identità esemplare che il cinema ancora provinciale, un’espressione artistica dallo sviluppo altretsvizzero fatica oggi ancora a proporre. tanto repentino come il cinema non trova il tempo di formarsi. Non è infatti che problematiche come quelle citate siano scomparLa situazione è clamorosa nella Svizzera tedesca: dove un cinema se nel tempo. accademico soffre crudelmente il confronto con la grande espanAll’interno di una tradizione cinematografica non proprio spresione teatrale e grafica che proietta i Frisch e i Dürrenmatt alla giudicata, di una diffidenza dell’abbandonarsi al piacere, se non al reputazione internazionale. delirio nell’uso della cinepresa, persistono le difficoltà legate alla Bisognerà attendere il 1972-73 per assistere a una partenza, e non coesistenza fra le diverse aeree linguistiche, quelle nell’affrontare solo nel documentario: con Daniel Schmid e il suo Heute Nacht oder temi che non siano consensuali e apprezzabili solo dal mercato renie, l’eredità dell’espressionismo tedesco applicata in un discorso gionale, le esitazioni nel rivolgersi alle tematiche scottanti, prima liberissimo alla corrosione del cliché borghese nazionale. fra tutte quella dell’immigrazione. Seguiranno allora i Koerfer, von Gunten, Koller, Imhoof, Dindo. Ed è proprio in questo ambito che l’attualità più scottante sembra Ma la vera rottura con il silenzio avviene nella Svizzera romanda; e minacciare una volta ancora lo sviluppo di una cinematografia già non solo perché nel 1959 in A bout de souffle, Jean-Luc Godard ha incrinata dalla crisi globale, dalla diminuzione dell’affluenza nelle imposto al mondo un nuovo modo di filmare che segnerà il futuro, sale e nelle vendite di dvd, dalla diffusione illegale su internet e un tono dissacrante che imporrà la Nouvelle Vague francese. dalla banalizzazione del suo uso, ecc. Nel 1964 una serie di cortometraggi realizzati da Henry Brandt La votazione del 9 febbraio 2014 che ha approvato l’iniziativa iniziano a far comprendere al mondo politico, economico ma ancontro la libera circolazione in vigore con l’Unione Europea si è che culturale di casa il potenziale di un cinema fatto non solo di tradotta nella classica porta in faccia nei confronti di una produpastori su sfondo di cime innevate. zione elvetica che sempre di più deve la propria sopravvivenza alla Ma capace di affrontare i grandi temi della contemporaneità, depossibilità di farsi conoscere all’estero. grado ambientale, espansionismo economico, immigrazione e xeScomparsa degli accordi Media, che consentivano di concorrenzianofobia, alloggio e demografia, insegnamento e assistenza. re le pellicole internazionali dai grossi budget grazie a un sostegno Alain Tanner (il suo, Charles mort ou vif, proporrà nel 1969 il tema reciproco nella produzione e diffusione di pellicole europee d’autosempre seguito in futuro, quello del retroscena dell’apparente fere, crescente impossibilità di accedere a programmi di formazione licità appagata dello svizzero) assieme a Claude Goretta importainternazionali. no la preziosa lezione del free cinema britannico; Alexandre Seiler Un freno, da molti ritenuto drammatico, alla promozione estera, filma gli operai immigrati in Siamo Italiani, Michel Soutter con la alla partecipazione a festival di prestigio, soprattutto ai vitali, irrisua grazia impertinente, Francis Reusser, Yves Yersin, Jean-Louis nunciabili accordi di coproduzione. Roy, Jacqueline Veuve e altri ancora si affacciano ai festival interÈ sempre accaduto nel corso della sua storia: il cinema è uno degli nazionali. specchi più fedeli dei tempi che attraversa. Attingono alla lezione della Nouvelle Vague francese, ma liberanMalgrado le difficoltà, che non sono solo della settima arte, non dola da molti cascami intellettualistici, attirano l’attenzione su resta allora che attendere la venuta di future pellicole, magari indei linguaggi finalmente dotati di una vera identità, destinati a fiocchettate dai spesso derisi happy end. tradurre l’indifferenza nei confronti del mondo circostante, il maChissà che gli specchi non funzionino allora a ritroso. —

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“L’Italia, sotto i Borgia, ha avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e ha prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Orson Welles



Le riflessioni di un ex ambasciatore di Francia in terra elvetica


Jean-Baptiste-Camille Corot, Une rue du village, Dardagny, 1852-1863, Metropolitain Museum of Art, New York

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La macchia bianca sulla carta geografica dell’Europa JACQUES RUMMELHARDT, AMBASCIATORE DI FRANCIA IN SVIZZERA (2003/2005)

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ulla carta geografica d’Europa appaiono due macchie bianche oppure nere. Non si tratta di errori cartografici o di stampa. Si tratta di Kaliningrad e della Svizzera. L’Enciclopedia Britannica, nell’edizione del 1950, definiva la Svizzera: “Svizzera, piccolo Paese dell’Europa centrale, situato a ovest dell’Europa”. La Svizzera è un buco nero o una macchia bianca. Tuttavia è così vicina. Si pensa, in generale, di sapere e capire ciò che vi accade. È eterogenea, difficile da penetrare, compito ingrato il farlo. Cosa ce ne viene? Spesso i vicini vi rinunciano e senza suscitare la delusione degli Svizzeri che senza dubbio traggono vantaggio da tale ignoranza. Ogni essere, ogni paese è un mistero. Ciò che segue sono impressioni, parti di un puzzle. Alcune si adattano le une alle altre. Non hanno alcuna pretesa di esaurire il mistero svizzero. La Svizzera ha un segreto di fabbricazione: per vivere felici, viviamo nascosti e fra di noi. La Svizzera è un paese prospero, disoccupazione al 4%, nessuna inflazione, una crescita discreta. Quando la stampa elvetica scrive che il franco svizzero è minacciato, è perché sale troppo in rapporto all’euro e al dollaro americano. Più di un terzo del risparmio privato mondiale si trova in una cassaforte svizzera. Gli uffici europei dell’ONU, dell’OIT, dell’OMC, della World Meteorological Organization (WMO), della World Intellectual

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Property Organization (WIPO), del World Council of Churches (WCC), dell’International Committee of the Red Cross (ICRC), del Comité International Olympique (CIO), della Fédération Internationale de Football Association (FIFA), dell’Union of European Football Associations (UEFA), dell’Union Postale Universelle (UPU), della Bank for International Settlements (BIS), tra gli altri, hanno le loro sedi e le loro amministrazioni in Svizzera. Stesso fenomeno per le società private internazionali. Gli stranieri sono soddisfatti, in Svizzera; cassaforte finanziaria, diplomatica e politica, un po’ costosa da mantenere, è vero, ma anche comoda. Eppure, gli Svizzeri, sono recalcitranti nei loro rapporti con gli stranieri se non per quelli consolari o strettamente commerciali. La prima ambasciata svizzera, naturalmente all’estero, fu creata nel 1957. Prima, esistevano solo legazioni. La Svizzera conosce perfettamente l’esistenza di una società internazionale ma non vi s’impegna se non messa alle strette. Per questo la Svizzera è stata assente dal Consiglio d’Europa per quattordici anni, dal GATT con sede a Ginevra per diciannove anni, dalle istituzioni finanziarie e bancarie di Bretton Woods per quarantasette anni e atteso, dalla Fondazione delle Nazioni Unite, cinquantasette anni per diventarne membro. Senza alcuna energia fossile, la Svizzera presenta paesaggi pittoreschi che non sono molto adatti all’agricoltura. Perciò gli Svizzeri hanno bisogno degli stranieri e pur tuttavia, ne diffidano. Più che di profitti, ahimè necessari, lo straniero è visto come fonte di problemi. Effetti collaterali, gli errori e le follie degli stranieri a volte si sono trasformati in beneficio per la Svizzera: dall’abolizione dell’Editto di Nantes alla persecuzione ebraica. Ma loro, gli Svizzeri, non hanno mai organizzato o fomentato disordini all’esterno. Lo straniero non è un modello. Non suscita ispirazioni negli Svizzeri. Gli stranieri non sono affidabili. Per diventare svizzero ci vuole una certa educazione e cioè occorre del tempo, oppure pagare cash. ••• DIVENTARE SVIZZERO È DIFFICILE. Il 25% della popolazione che vive in Svizzera non è svizzero. La maggior parte, tuttavia, vi abita da molto, si è congiunta con uno svizzero o vi è nata. Una votazione (referendum) nel 2005 preconizzava una procedura accelerata per l’acquisizione della nazionalità per i nati in Svizzera e i cui genitori fossero nati in Svizzera. La proposta fu democraticamente rigettata. La naturalizzazione è diversa a seconda dei cantoni. Alcune procedure, soprattutto nella Svizzera centrale, richiedono che la popolazione di un borgo o di un paese si pronunci nominativamente per ogni persona richiedente circa la sua capacità di essere svizzera. Un film svizzero tedesco degli anni Settanta, “I fabbrica Svizzeri”, aveva descritto con derisione e talento questa situazione. In fatto di sentimento di superiorità una certa xenofobia certamente incide, ma sopratutto è un sentimento di differenza a essere decisivo. Non vale la pena “assorbire” degli stranieri, non sono come noi, non hanno la stessa storia, non diventerebbero svizzeri se non col passare del tempo e con molti sforzi, è più caritatevole risparmiarli. Dopo il Congresso di Vienna del 1815, la Svizzera

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avrebbe avuto l’occasione di annettersi il paese di Gex, poco distante da Ginevra. Il Cantone e la Repubblica di Ginevra vi si opposero: una corte siffatta, rurale e cattolica non avrebbe mai potuto stare allo stesso livello democratico e responsabile della città di Calvino. Oggi, il Cantone di Ginevra ha 110 km di frontiera con la Francia e 7 con la Svizzera. Dopo la Prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero austro-ungarico, una larga maggioranza della popolazione del Vorarlberg chiese, per via plebiscitaria, di far parte della Confederazione. Berna declinò l’onore di questa annessione che avrebbe creato un enorme cantone cattolico privo della lunga e necessaria pratica della democrazia. Alla fine, su ventitre selezionati dalla Nati (squadra nazionale di calcio), sette sono certamente nati in Svizzera ma da genitori di cui almeno uno dei due era stato migrante. I talenti, anche i più diversi, possono farti svizzero. ••• IL VOTO. Il referendum è una delle chiavi del sistema sociale svizzero. Le votazioni possono farsi su iniziativa dell’esecutivo o anche di un gruppo di cittadini e sono molteplici, su scala federale, cantonale, municipale, e anche di quartiere o di una strada. Raramente la partecipazione supera il 55%. Qualunque sia il margine, il verdetto non si discute. Il popolo, denominato Sovrano, ha parlato. La contro esperienza, in Francia e in Olanda, è stata quella dell’adozione parlamentare del trattato costituzionale europeo già cassato al referendum. Il pronostico di un voto è incerto. Succede che tutti i partiti politici, i sindacati padronali e dei salariati, la stampa, si prefigurino un risultato e che il Sovrano decida diversamente. Le pressioni suscitano una reattività dei cittadini che non vogliono essere condizionati. Il voto è presentato come una garanzia per la democrazia. È anche una scusa degli esecutivi. L’agente pubblico può senz’altro confermare la propria adesione al progetto che il suo interlocutore gli presenta ma che non potrà portare avanti per il timore di un invito al voto da parte di persone malvolenti, ignoranti, concorrenti. Senza dimenticare che questi tratti possono essere cumulativi. ••• LA CONCORDANZA. Il sistema del potere esecutivo, che sia federale, spesso cantonale e municipale, si fonda sulla concordanza. Equivale a dire che tutti i partiti sono rappresentati e sono solidali con le decisioni dell’esecutivo. I dibattiti si tengono a porte chiuse, i contenuti non debbono essere resi pubblici, malgrado la pressione della stampa che cerca la fuga di notizie ; le indiscrezioni sono rare e quasi mai sono di utilità agli indiscreti. La decisione è collettiva, deve essere accettata da tutti o non può essere presa. Si crea un blocco, si può rinviare, è vero, ma questo genera disordine. Eppure i partiti politici hanno programmi differenti. Il membro di un esecutivo che decide contro il programma del proprio partito, si autoesonera invocando la concordanza e perché questa funzioni, il modo di procedere più comune è quello del compromesso. La Svizzera è uno di quei rari paesi democratici in cui l’opposizione non esiste. Il governo (consiglio federale) è composto da sette ministri (consiglieri federali) eletti dalle due Camere in spirito di concordanza. Questo governo non può cadere. Lo scioglimento delle


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Camere è impossibile. A ogni elezione generale, ogni quattro anni, i ministri sono sottoposti individualmente al voto del Parlamento e, fatte salve alcune eccezioni, sono rieletti. Di solito rimangono in carica per una piccola decina d’anni. Vorrebbero pur sempre “continuare a dare il loro indispensabile apporto alla Nazione soprattutto nelle difficili circostanze attuali”. Ma non si fa. Un exministro non ha più alcun ruolo nella vita politica. Il Presidente della Confederazione cambia ogni anno per rotazione d’anzianità dei ministri. Durante la presidenza conserva il suo portafogli ma non ha un proprio ufficio. Come ogni ministro, non ha un alloggio per la sua funzione. Alcuni vivono in albergo. Gli eletti, locali o cantonali, non sono dei professionisti. Non godono di un indennizzo sufficiente. Hanno tutti un loro lavoro che deve essere fuori dall’ambito pubblico tranne che, e solo in alcuni cantoni, per l’insegnamento. Hanno pochi mezzi da gestire in autonomia. Non hanno nulla in comune con gli “stafers” del Congresso americano. Dipendono dalle associazioni, gruppi di pressione, interessi privati. Il presidente della Confederazione non è il primo cittadino svizzero. Questa posizione protocollare è del presidente del Consiglio nazionale (camera bassa). Anche lui cambia ogni anno. In Svizzera è difficile esista il culto della personalità che non possa essere rimpiazzata, quello del divo trionfante. Le vocazioni, pure, esisterebbero, ma le istituzioni non lo permettono. ••• LEI PARLA SVIZZERO? Gli Svizzeri francofoni (i Romandi) parlano francese. Gli Svizzeri italiofoni (i Ticinesi) si esprimono in italiano. Gli Svizzeri tedeschi, il 72% della popolazione, scrivono in tedesco

(il 91% dei testi dell’amministrazione federale sono scritti dapprima in tedesco), ma parlano in dialetto. La stampa scrive in tedesco, così pure le informazioni radiotelevisive sono date in tedesco, mentre il resto degli audiovisivi, compresa la pubblicità, parlano il dialetto. Il dialetto, da loro, è diversificato, non codificato. Alcuni sognano di fare del dialetto una lingua, così com’è successo all’olandese dopo la nascita dello stato dell’Olanda. Se lo straniero germanofono per nascita si rivolge a un abitante della Svizzera tedesca in tedesco, lo Svizzero gli risponderà tendenzialmente in tedesco. È probabile che parli questa lingua meglio del suo interlocutore dato che non ha la pratica orale del tedesco scritto. In Svizzera tedesca non si dice “in buon tedesco” ma tedesco scritto. Fra di loro e specialmente nel dominio degli affari, gli Svizzeri oramai tendono a non utilizzare che l’inglese. Il parlamento, i consigli dei ministri sono isole di resistenza dove il tedesco scritto è anche parlato. ••• BERE E MANGIARE. Si mangia meglio nella Svizzera tedesca che in Germania. Nella Romanda e in Ticino l’arte culinaria propone ciò che si degusta in una provincia francese o italiana. Il vino estero aveva prezzi esorbitanti. Il vino svizzero non aveva una buona reputazione. I beveraggi esteri adesso costano meno e il vino svizzero migliora e raggiunge livelli di eccellenza, soprattutto per quanto riguarda il Pinot nero del Valais, i vini bianchi secchi di Vaud e Neuchâtel e qualche pepita del Ticinese. La regolamentazione agricola è federale tranne che per il vino; diventa cantonale dato che i cantoni fanno ciò che reputano vantaggioso e vogliono tutti avere il proprio vino. Ne risulta che quasi tutti i cantoni producono

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vini, per la maggior parte bianchi. Queste bevande non fanno male, si possono bere con piacere, come omaggio alla creatività dell’industria chimica svizzera. ••• L’ESERCITO. La Svizzera gode di un’immagine di pacifismo. La realtà vera indica che la Svizzera sia una nazione armata e in armi. Nessun soldato straniero ha mai potuto metter piede sul suolo svizzero da più di duecento anni, e non stiamo parlando di un’isola. I cittadini tengono le armi nei loro domicili nel caso il paese subisse un attacco a sorpresa. Fino verso il 2000 i maschi fino ai 42 anni d’età si esercitavano annualmente ad un periodo di leva. Avercela con l’Esercito è una sorta di blasfemia. Gli uomini fanno bella mostra dei loro gradi nell’esercito di riserva allo stesso titolo dei loro gradi universitari. Le società di tiro sono molto potenti non solo per l’allenamento all’utilizzo delle armi ma anche per l’organizzazione e l’animazione di riti patriottici. Ogni anno, di solito a Zurigo, la giornata in cui si organizza una gara di tiro diventa una giornata di ferie. Ai vincitori è riservato un trattamento da star olimpica con intervista e foto in prima pagina di ogni giornale. Spesso il vincitore è una giovane ragazza. ••• IL RIDERE. Lo humour non è certo un tratto che si possa attribuire spesso agli Svizzeri. Eppure ne sono molto dotati ma non lo

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mostrano con disinvoltura agli stranieri e evitano di manifestarsi tali. Le storielle prendono di mira la vanità, la mancanza di senso pratico, il provincialismo, la ristrettezza mentale. Il bersaglio privilegiato degli Svizzeri sono altri Svizzeri: lo zurighese presuntuoso a confronto con il bernese lento, il basilese taccagno e l’appenzellerese bassotto; da parte romanda il friburghese che non si lava, il valdese serio come il bernese, il ginevrino pieno di sé come un francese e il vallesano imbroglione. ••• RELIGIONE. Dio si trova ovunque: nelle costituzioni, nei cantici, nelle cerimonie. Cattolici e protestanti si sono tollerati. Non che dovessero sopportarsi ma non avevano modo di eliminarsi a vicenda; l’ebreo ha goduto di una libertà interstiziale. I ricordi sono intatti, certo, ma i rapporti sono ormai distesi. Come altrove, la pratica religiosa è molto diminuita; svolge una funzione eminentemente sociale. Ma l’Islam è arrivato, non soltanto come clienti nei grandi palazzi, negli acquisti di lusso e nelle banche. Il risultato elettorale che ha negato la costruzione di minareti ne è l’illustrazione. Fino all’inizio del XX secolo era proibito avere una cappella cattolica, anche piccola, a Zurigo. La città di Calvino è, oggi, a maggioranza cattolica. La bandiera svizzera, l’unica bandiera nazionale quadrata e non rettangolare, è costituita da una croce bianca su fondo rosso. Con la globalizzazione degli scambi, la croce non rappresenta ormai altro che il segno +, il segno della positività.


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Se ciò non fosse vero, è comunque un’ottima versione diffusa a beneficio dei paesi arabi.

vole collettiva per capire i suoi problemi alimentari o di altro tipo. Si tratta di una forma di controllo, a monte, dei consumi.

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MAL GLIENE INCOLGA A CHI DÀ SCANDALO. I veri ricchi non si vantano della propria situazione. Dato che vivono in una società democratica sanno essere molto discreti. I veri ricchi stranieri residenti in Svizzera non sempre sanno esserlo. La macchina può essere rivelatrice. Alcuni cantoni permettono che i proprietari di più automobili abbiano una sola targa d’immatricolazione. La targa, utilizzata per la “macchina di tutti i giorni”, potrà essere posizionata sulla vettura di gran lusso allorquando il suo proprietario si rechi all’estero o in una grande stazione climatica. Si tratta solo di non farsi notare. Gli automobilisti svizzeri rispettano scrupolosamente, in casa propria, i limiti di velocità. Insieme agli Olandesi sono tra gli stranieri che in terra francese li rispettano di meno. In Svizzera non bisogna vivere pericolosamente. In Svizzera esistono anche i poveri. Non si tratta di una povertà implorante ma di un fastidio percepibile. I barboni, in Svizzera, sono per definizione stranieri. Il fastidio di cui sopra si svela, per esempio, alla caffetteria del Migros a metà giornata per il pranzo. Gli Svizzeri non pensano di essere poveri ma chi appartiene alla classe media può incontrare delle difficoltà circostanziali. Le categorie più coinvolte sono quelle della terza età - che godono di pensioni fisse ma di premi assicurativi sulla malattia in parte privatizzati e quindi in rialzo -, le madri single poco qualificate, condannate a un lavoro a tempo determinato, in un Paese senza nidi per l’infanzia e scuole materne. L’ostentazione dei costumi rimane nei limiti della discrezione, eppure malgrado ciò essi sono radicalmente mutati. Le coppie si compongono e si disfano come ovunque. Ma non si vede. Tutto pare normale. Le donne conservano il loro cognome di nascita. L’utilizzo del termine “signorina” è in via d’estinzione e, in alcuni cantoni tedeschi, è perfino proibito. Diventa davvero difficile sapere se la coppia è veramente sposata oppure se lei o lui sono divorziati. Casi - certo pochi ma oramai significativi - sono quelli dell’uomo che, su catalogo, sceglie una compagna in prova, meglio se asiatica per i Tedeschi, meglio di colore per i Romandi; mostrano la loro curiosità culturale e il loro interesse per il Terzo mondo. Nessuno scandalo per una situazione concreta attuale che nella società di sessant’anni fa avrebbe scatenato fulmini e tuoni.

LIBERALISMO E PROTEZONISMO. Esistono due economie svizzere. Una si rivolge all’esterno. Si tratta dei grandi gruppi. Vivono di esportazione, predicano i lilberalismo, senza temere la concorrenza. L’altra è quella che lavora all’interno. È molto chiusa. Le norme e i regolamenti cantonali abbondano. Il mercato interno europeo è molto più liberalizzato rispetto al mercato interno svizzero. Un cittadino di Vaud o di Berna, per esempio, non può comprare un caffè nel Vallese se la preferenza cantonale, ai sensi della preferenza nazionale del Fronte Nazionale francese, non ha potuto esprimersi. Vent’anni fa un avvocato del foro di Ginevra non avrebbe potuto perorare a Losanna. Le differenziazioni cantonali si esplicano nei domini più diversi. Ad esempio, uno studente italiano non pagherà per l’iscrizione ad un’università francese più di un Francese stesso, ma uno studente del cantone di Zoug, pagherà molto di più di un Bernese per iscriversi all’università di Berna. Sulla stessa onda, il codice penale è federale ma quello di procedura penale è cantonale. Tutti i cantoni hanno dei tribunali che condannano, ma non tutti possiedono delle prigioni. Perciò spediscono, se ci sono posti disponibili e a un costo competitivo, i loro condannati nelle prigioni degli altri cantoni. Sul passaporto svizzero è indicato il cantone di origine e non obbligatoriamente quello di residenza.

••• DEMOCRAZIA E CONTROLLO SOCIALE. La generalizzazione del principio che regola le votazioni fa sì che i regolamenti siano vissuti come espressione della volontà democratica dei cittadini e non come scelte del potere superiore, pur illuminato. I cittadini stessi divengono i custodi dei regolamenti, dal più onorevole al triviale. Vignetta sul pattume. Certo, deve essere differenziato, ma a seconda dei cantoni, del prezzo, del colore dei sacchi, della natura dei rifiuti. I vicini osservano. Se qualcuno si ostina a non utilizzare che dei sacchi a buon mercato, diverrà l’oggetto di una visita amiche-

••• PROSPETTIVE DELLA SVIZZERA RISPETTO ALL’UNIONE EUROPEA. Gli Svizzeri sono eccellenti nell’interpretazione del loro “leit motiv”: la potente e gloriosa Europa non può umiliare la piccola Svizzera, laboriosa e pacifica. La realtà è il contrario. I vicini più prossimi della Svizzera hanno un grosso surplus commerciale con questo paese. Non faranno nulla per modificare questo squilibrio. Circa duecentomila Tedeschi e centoventimila Francesi lavorano in Svizzera, rientrano nel loro Paese ogni giorno, vi consumano con i salari svizzeri, vi educano i loro figli, vi alloggiano e si fanno curare. In un’economia globale in crisi, a ben vedere d’accattonaggio, la piccola Svizzera tiene l’Europa dalla gola. Ne ottiene ciò che desidera. Quando l’Europa vuole imporre condizioni inaccettabili secondo le concezioni degli Svizzeri, giunge una votazione che annulla questo svantaggio svizzero. Poi non succede nulla che possa essere di danno per la Svizzera. Essi sono anche eccellenti negoziatori: riescono sempre a dar l’impressione di essere vittime e che l’altro sia il vincitore. Forse la Svizzera non sarà per sempre una macchia bianca sulla carta dell’Europa. Un cambiamento porterebbe una qualche prosperità in Svizzera e soprattutto una forte crescita in Europa. Mi piace molto vivere con gli Svizzeri. Cerco di capirli. Spesso li ammiro. —

Traduzione a cura di Chiara Del Nero

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Lo sport rossocrociato


Martina Hingis, ph. Thomas Buchwalder

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Il grande tennis svizzero MAURO DELLA PORTA RAFFO

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RIMA DI FEDERER. Certo, e chi potrebbe negarlo, è con l’apparire di Roger Federer che il tennis elvetico ha raggiunto vette assolute. Il basilese è il massimo nello ’sport dai gesti bianchi’, come lo chiamava Gianni Clerici e uno tra i big di sempre nello sport in genere. Ne parlerò, ovviamente. Ma, prima di lui, con la racchetta, i rossocrociati come se la cavavano? Beh, in campo femminile sono stati capaci di trovare quel vero genio che è stata (e, in doppio, ancora è) Martina Hingis. Chiamata Martina in onore della Navratilova, la Hingis naturalizzata svizzera da piccola, nel 1997, nel singolo, ha rischiato di compiere il ’grande slam’. Vinti gli Australian Open, ha perso incredibilmente la finale del Roland Garros per poi tornare ad imporsi sia a Wimbledon che a Flushing Meadows. In totale, quanto ai quattro tornei dello slam, Hinghis ne ha riportati cinque nel singolo e nove nel doppio (e in quest’ambito può

Patty Schnyder

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ancora imporsi) non tralasciando di portarsi a casa il misto degli open australiani nel 2006. In più, si è imposta due volte (1999 e 2000) nel WTA championship. Mille volte chapeau a una delle più intelligenti tenniste mai viste in azione. Per il vero, sempre tra le ragazze, non male Patty Schnyder, spesso in palla e capace di catturare in singolo, a cavallo tra gli anni Novanta del trascorso Novecento e i primi del nuovo millennio, undici tornei, sia pure minori. Quanto ai maschietti, un bel numero di ottimi doppisti: a cominciare da Heinz Gunthardt, finalista degli US Open 1981 con Peter McNamara, vincitore del Roland Garros nello stesso anno e di Wimbledon nel 1985 in coppia con l’ungherese Balazs Taroczy. Nel medesimo ’85, giocando con Martina Navratilova, si impone anche nel misto del Roland Garros e in quello di Flushing. Un anno davvero magico! Ricordato il ceco naturalizzato Jacob Hlasek che vinse il doppio a Parigi nel 1992, veniamo a Marc Rosset. Non solo ottimo nel doppio (come dimostra la vittoria conseguita con il citato Hlasek al Roland Garros nel 1992), ma anche fortissimo nel singolo, in grado di vincere le Olimpiadi ancora nel 1992 e di giocare, purtroppo soccombendo, la finale di Coppa Davis nello stesso anno sconfiggendo l’allora numero uno Jim Courier. ••• ROGER. 1 luglio 2001, Wimbledon. Quarti del singolo maschile. Il sette volte campione sull’erba londinese Pete Sampras

Roger Federer

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affronta un giovane svizzero di belle speranze. L’americano ha vinto gli ultimi trentuno incontri disputati a Londra e in totale, dal suo primo apparire, ha perso solo una volta. Si va al quinto e l’elvetico si impone 7/5! E’ il vero cambio di testimone: nessuno lo sa con certezza, qualcuno lo immagina, ma è da quel momento che Roger Federer si rivela (anche a se stesso), è da quel momento che si avvia alla luminosissima carriera che percorrerà per anni e anni. Siamo a fine 2014, con la sua Svizzera il basilese ha appena conquistato la Coppa Davis. È la prima volta per la squadra elvetica, è la prima Davis per Federer che, trasformato il match point che assicura la vittoria, si commuove. È capace ancora di piangere di gioia, Roger, dopo avere vinto in carriera quasi tutto e dopo avere mantenuto per centinaia di settimane e più di ogni altro il numero uno del ranking mondiale. Facciamo i conti (al momento, perché in futuro, a partire dal 2015, i dati possono migliorare): Diciassette titoli individuali dei tornei dello slam: quattro Australian Open, un Roland Garros (quello che nel 2009 gli ha permesso di ottenere il ’carreer grand slam’), sette Wimbledon, cinque United States Open. Ottantadue titoli conquistati, slam inclusi. Si aggiungano sei ATP World Tour Finals e la medaglia d’oro olimpica nel doppio. Ho scritto “dopo avere vinto in carriera quasi tutto” e, per il vero, al più grande tennista di sempre mancano la medaglia d’oro olimpica in singolare e i Master 1000 di Montecarlo e Roma. Certamente, proverà con la tenacia che, unita alla inarrivabile classe, ne fa un campionissimo a colmare questa lacune.


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DOPO ROGER, SOLO (E PER QUANTO?) WAWRINKA? Medaglia d’oro nel doppio con Federer a Pechino, vincitore della Coppa Davis 2014 ancora col basilese, capace di riportare l’Australian Open a Melbourne battendo sia Novak Djokovic che Rafael Nadal, vittorioso nel Master 1000 di Montecarlo dove in finale ha sconfitto proprio Roger, il losannese Stanislas Wawrinka è un magnifico giocatore. Dal vivo - lo so per averlo visto in azione – è in grado di dare emozioni uniche in particolare col suo incredibile rovescio a una mano (Mats Wilander sostiene che si tratti del miglior rovescio della storia del tennis!). Ma, come sa essere grande, Stan può all’improvviso essere piccolo.

L’incostanza è la sua caratteristica. Dovesse superare questo handicap, benché non più giovanissimo, potrebbe togliersi molte altre soddisfazioni. Detto di Wawrinka, dove si nascondono i prossimi campioni? Parrebbe, da nessuna parte. Fra gli uomini, al momento, un vero deserto. Fra la donne, un paio di speranzielle e nulla di più. Del resto, quando una nazione, all’improvviso, propone un fuoriclasse assoluto come Federer (nei fotomontaggi, già lo collocano al posto di Guglielmo Tell!) è giusto che per qualche tempo, per così dire, paghi pegno. Fossi smentito dai fatti, me ne compiacerei. —

Stanislas Wawrinka

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Losanna, 26 giugno 1954: la Svizzera si ferma ai quarti di finale contro l’Austria (7-5 il risultato finale)

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Il ’catenaccio’ ITALO CUCCI

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a cronista ho cominciato a interessarmi del calcio svizzero per una sorta di scherzo che si faceva a ’Stadio’ quando veniva a farci visita una vecchia gloria del calcio felsineo, l’allenatore ungherese Giulio Lelovich, che un giorno era apparso in redazione salutandoci con un “Visto Grasshoppers?!” indirizzato a un vecchio collega che un giorno aveva deriso le ’Cavallette’ di Zurigo reduci da una goleada. Giulio era un signor tecnico al quale si doveva anche la scoperta di Bulgarelli, il vicino di casa che da ragazzino giocava in strada sotto la sua finestra. E noi, impietosi, a sfotterlo con quel “Visto Grasshoppers?!”. Finché un giorno Aldo Bardelli ci riprese severamente: “Ignoranti, sarà ora che impariate cos’è il calcio svizzero...”. Bardelli era il nostro capo che di calcio internazionale ne sapeva, visto che aveva fatto parte della commissione tecnica azzurra con Ferruccio Novo, il presidente del Torino, guidando la Nazionale al Mondiale del ’50 (ci si ricorda di lui soprattutto perché portò l’Italia in Brasile in nave, ancora spaventato dalla tragedia di Superga).

Karl Rappan, l’inventore del Catenaccio (verrou)

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“Chi di voi ha visto il Mondiale del ’54 giocato di Nervesa della Battaglia’ allenava la Salerniin Svizzera?” tana a cavallo della seconda Guerra Mondiale. Avevo quindici anni, non m’interessavo di calBardelli - come Brera - rispettava il Catenaccio ma quel Mondiale l’avevo visto perché era cio, duramente osteggiato dalla Scuola Napoentrato per la prima volta nelle nostre case graletana di Antonio Ghirelli e Gino Palumbo: zie alla neonata televisione. “Con tutto il rispetto per il mio amico Gipo, Unico dettaglio per me memorabile, la finail catenaccio è arte svizzera. Si chiama verrou, le Germania-Ungheria con i tedeschi vincitori in francese catenaccio, appunto. L’ha inventato perché - vox populi - erano dopati. nel ’32, quando allenava il Servette...”. Guidato da Bardelli, rispolverai le due sconfitGli odiatori del calcio italiano, quelli che ci te patite dagli azzurri: Svizzera-Italia 2-1 il 17 sfottono dandoci dei catenacciari - soprattutgiugno 1954 a Losanna (il gol azzurro di tale to gli spagnoli capaci di digerire lo stucchevole Boniperti...), Svizzera-Italia 4-1 nello spareg’tikitaka’ - non sanno nulla di Rappan, della gio giocato a Basilea il 23, arbitraggio vergosua idea meravigliosa e semplice: prese un giognoso del brasiliano Viana, violente proteste di catore dalla mediana e per rinforzare la dife’Veleno’ Lorenzi. sa, composta di due terzini e uno stopper che Lo spareggio Svizzera-Italia 4-1 Il nostro ct era l’ungherese Czeizler, il loro l’aumarcavano a uomo, lo mise davanti al portiere, del 23 giugno 1954 striaco-svizzero Karl Rappan. libero da marcature, ultimo baluardo difensi“Cosa sa di Rappan?” - mi chiese Bardelli. vo prima del guardiano, primo costruttore del Niente. gioco di rimessa, alias contropiede. “Cosa sa del Catenaccio?” Viani per coprire il ruolo di libero - definizione ufficializzata da Qualcosa raccontai, anche perché avevo conosciuto Gipo Viani, Gianni Brera - rinunciava a un attaccante; Nereo Rocco, primo a l’inventore del ’Vianema’, quel modulo nato quando ’lo sceriffo utilizzare il libero in una squadra di prestigio, il Milan, era un mae-

La Nazionale Svizzera ai Mondiali di Francia, 1938

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stro di catenaccio anche schierando quattro punte. Mezzo secolo dopo, José Mourinho ha esaltato il verrou/catenaccio senza che i suoi adoratori lo sapessero. Karl Rappan ha diffuso universalmente la sua idea meravigliosa fin dal Mondiale del ’38, quando guidava i rossocrociati che portò ad essere protagonisti anche in Svizzera nel ’54 e in Cile nel ’62, con prestazioni molto più importanti di quelle dell’Italia. L’Italia, adottando per prima il suo intelligente modulo, ha vinto tutto,

Mondiali e Coppe, adottando di volta in volta correttivi con Trapattoni, Bearzot, Capello e Lippi, sempre esibendo difese di grande valore ed esaltando il contropiede. Don Fabio ha formulato il modulo ideale, nove-uno, summa filosofica del ’Calcio all’Italiana’. Oggi anche gli schizzinosi si adeguano: gli inglesi adorano Mourinho, gli spagnoli rispettano obtorto collo Ancelotti. Spero che almeno José e Carlo si ricordino del Maestro austrosvizzero Karl Rappan, il Von Karajan del pallone. “Visto Servette?!”. —

José Mourinho

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Lara Gut

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Il mitico sci svizzero MAURO DELLA PORTA RAFFO

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a sempre, direi da quando ho aperto gli occhi, gli sciatori svizzeri sono stati tra i migliori se non i migliori al mondo. Parlo dello ’sci alpino’, cioè di discesa libera, slalom, gigante, superg e combinata, naturalmente. Uomini e donne, a bizzeffe. Mondiali, Olimpiadi, Coppe del Mondo, Coppa Europa e chi più ne ha più ne metta. (Talmente tanti i ’grandi’ che più sotto ne fornirò un elenco in qualche modo ’tagliato’, non potendo davvero in poche pagine ricordarli tutti). Niente o quasi, di contro, nello ’sci di fondo’. Niente o quasi fino alla metà del primo decennio di questo terzo millennio. Fino, cioè, alla improvvisa apparizione di un campione direi immenso, DARIO COLOGNA. Il Nostro, ancora in piena attività e si spera per lunghi anni a venire, è un dominatore, talmente forte che quando non vince ci si chiede come sia potuto accadere.

Dario Cologna

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Prima riga da sinistra: Lise-Marie Morerod e Marie-ThÊrèse Nadig. Seconda riga: Erika Hess e Michela Figini. Terza riga: Maria Walliser e Vreni Schneider

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Tre ori olimpici, uno mondiale, cinque Coppe del Mondo generali e due Coppe del Mondo ’ di distanza’... le affermazioni che, così, d’acchito mi vengono alla memoria. Un ’ago in un pagliaio’ per il fondo elvetico, una rarità? L’ho detto, ma la nascita di un ’grande’ è sempre di stimolo (si pensi, nel tennis, a Stanis Wawrinka, ottimo sulle tracce dell’immenso Roger Federer) e può darsi che da qui a non molto... Ma torniamo a bomba, e cioè al classicissimo sci alpino. A parte le competizioni incluse nelle Olimpiadi invernali - che si svolgono dal 1924 (già nel 1928, furono organizzate a Sankt Moritz in Engadina) -, a parte i Campionati mondiali - che hanno luogo ogni due anni -, a parte, dicevo, queste pur importantissime gare che peraltro si svolgono per ogni disciplina (slalom, discesa...) in un sol giorno, il trofeo internazionale di maggior prestigio è dal 1966/67 la Coppa del Mondo che incorona sia in generale che per ognuna della specialità il dominatore di una intera stagione agonistica. È quindi – essendo obbligato a limitare i ’grandi’ da segnalare specificamente – guardando alla citata Coppa che per cominciare mi soffermo su alcuni nomi.

FRA LE DONNE (HANNO VINTO PRIMA E SONO PIÙ NUMEROSE): LISE-MARIE MOREROD, trionfatrice in classifica generale nel 1976/77. MARIE-THÉRÈSE NADIG, vincitrice nel 1980/81. ERIKA HESS, prima sia nel 1981/82 che nel 1983/84 (e sei volte campionessa del mondo, come non rammentarlo?). MICHELA FIGINI, due volte in cima a tutte, nel 1984/85 e nel 1987/88. MARIA WALLISER, dominatrice nel 1985/86 e nel 1986/87. VRENI SCHNEIDER, la più grande, tre volte trionfatrice, nelle stagioni 1988/89, 1993/94 e 1994/95. FRA GLI UOMINI: PETER LUSCHER, il primo elvetico a imporsi nella generale, accadeva nel 1978/79. Il grandissimo PIRMIN ZURBRIGGEN, vittorioso quattro volte, nelle stagioni 1983/84, 1986/87, 1987/88 e 1989/90. PAUL ACCOLA, in prima posizione nel 1991/92. CARLO JANKA, ultimo elvetico a trionfare, nel 2009/10.

Prima riga da sinistra: Peter Luscher e Pirmin Zurbriggen. Seconda riga: Paul Accola e Carlo Janka

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Va bene, ma non posso certamente fermarmi qui. Come non ricordare, per esempio, tra i vecchi campioni i plurititolati David Zogg e Rudolf Rominger? Tra i maschi discesisti, che so? Franz Heinzer, Peter Muller, Jean Daniel Daetwtiler, Rolland Collombin, l’impeccabile stilista Bernard Russi, Bruno Kernen, Daniel Mahrer, il dominatore della Streif di Kitzbuhel Didier Cuche, per dire? Fra i gigantisti, almeno Heini Hemmi, Joel Gaspoz e Michael Von Grunigen? Fra gli slalomisti, un po’ pochini per il vero e neppure straordinari, Dumeng Giovanoli e Didier Plaschy. Ed è forse possibile trascurare fra le signore le ’pioniere’ Rossli Streiff, Amy Ruegg, Hedy Schlunegger, Ida Schopfer, Madelei-

ne Berthod tutte una o più volte campionesse del mondo quando Berta filava o pressappoco (alcune, per il vero, anche olimpioniche) e Annerosli Zryd e Chantal Bournissen a noi più vicine? Infine, perché non citare i campioni olimpici, magari poco o mai più in grado di vincere in coppa, ma comunque appunto medaglie d’oro? Eccoli: Didier Defago, Roger Staub, Max Julen, Edi Reinalter, Sandro Viletta, Yvonne Ruegg, Renée Colliard e Dominique Gisin. Oggi, per il vero, non molte soddisfazioni vengono ai tifosi dalla montagna innevata. Una sola e grande eccezione: la ticinese Lara Gut, discesista, supergigantista e gigantista di forza, in grado di sostenere da sola il peso che deriva da una grandissima scuola un po’ in difficoltà. —

Didier Cuche

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Didier Defago

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Ferdi Kübler CESARE CHIERICATI

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uel pomeriggio di domenica 2 settembre 1951 appena sceso di sella dopo il suo sprint mondiale all’Ippodromo delle Bettole di Varese, sorridendo, ripeteva ai cronisti che lo circondavano: “Io in volata essere andato molto forte, molto contento per Ferdi”. Nel suo pittoresco italiano sintetizzava, semplificandola, la sua straordinaria volata. L’essenza ultima di uno sprint, ieri come oggi, è racchiusa nella scelta di tempo che il velocista di razza sa operare obbedendo a un istinto felino che gli permette di cogliere, nei momenti di grazia, il treno per la vittoria. Quell’istinto apparteneva indubbiamente a Kübler, era un dono degli dei del ciclismo, un talento ricevuto in dote che egli seppe affinare e spendere nel suo tempo ciclistico con l’applicazione e l’impegno del grande professionista. Il segreto di quel successo iridato è tutto racchiuso nella frazione di secondo con cui seppe anticipare lo scatto di Magni che aveva peraltro speso molte forze nel recuperare ai fuggitivi cinque minuti e quarantacinque secondi in soli quarantacinque chilometri. Fu un lampo di energia esplosiva che lasciò il toscano a due biciclette di distanza. Sulla linea d’arrivo un sorriso illuminò il suo profilo da rapace d’alta quota mentre con la mano destra allentava il punta piedi. Quel giorno il campione zurighese, trentadue anni appena compiuti, mise il sigillo su due annate d’oro per il ciclismo svizzero. Nel 1950 Ugo Koblet si era aggiudicato il Giro e Kübler il Tour, l’anno dopo a Koblet il Tour e a Ferdi il titolo mondiale dopo il terzo posto a Milano nel Giro dominato da Magni. All’appuntamento di Varese era giunto dopo una preparazione severa e alcune “dolorose” rinunce finanziarie. Dicendo no al Tour, lui vincitore dell’edizione precedente, mise di fatto un tratto di penna sui contratti milionari dei circuiti e delle kermesse francesi e belghe che seguivano come un rito la “grande boucle”. Per sei settimane si sottopose ad allenamenti durissimi – raccontano i suoi biografi nel volume Ferdi Kübler, le fou pedalant, Peter Schnyder editore, Zurigo 2007 – affrontando un giorno sì e un giorno no la strada che dalla sua residenza di Adliswil, nei dintorni di Zurigo, via Altdorf e il passo del Klausen, lo portava fino a Glaris e ritorno. Ma questa era soltanto la parte conclusiva della sua giornata che in realtà iniziava alle quattro e trenta del mattino con la ginnastica e una lunga corsa a piedi nei boschi. Dopo la bici i massaggi, un pasto frugale nel tardo pomeriggio e poi a letto alle diciannove.

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Il 19 agosto, per riprendere data alle dieci e due minuti confidenza con le competizioni, da Achille Joinard, presidente prese parte al Campionato nadell’UCI. zionale a Ginevra. L’aquila di Adliswil, otto ore e Vinse ma quel successo non mezza più tardi, metterà i suoi modificò la sua marcia di avviartigli sul trofeo così tenacecinamento a Varese. mente inseguito. Finalmente il 31 agosto, con la Del resto la tenacia fu uno dei moglie, raggiunse Lugano da tratti caratteristici della persodove, in bicicletta, si trasferì nalità di Kübler: fin da bama Varese nella casa di via Dalbino decise infatti che sarebbe mazia del suo luogotenente e stato corridore e non perdeva amico Emilio Croci Torti, moloccasione di misurarsi coi rato vicina all’Ippodromo delle gazzi di Marthalen, il villaggio Fausto Coppi e Jean Robic sull’Alpe d’Huez, Tour de France 1952 Bettole. zurighese dove nacque il 24 luLì, fu raggiunto dal massaggiaglio 1919. tore milanese Italo Villa e dal suo medico di fiducia Max Mettler. “Ho sempre voluto fare il ciclista: occhiali, capellino, mazzo di fioFu un soggiorno all’insegna della tranquillità e di una dieta leggera ri. Da bambino era il mio grande sogno, un’idea fissa - ha raccona base di minestrone di verdura e filetto di manzo con riso bianco. tato in una lunga intervista alla Televisione della Svizzera italiana Cercarono i dirigenti elvetici di convincerlo a raggiungere il resto – e vincevo sempre io anche contro gli amici più grandi di me”. della squadra all’Albergo Ticino ma senza risultato. Vincere divenne un’abitudine anche nelle categorie inferiori, priFu una fortuna per lui perché la squadra rossocrociata fino alla ma del passaggio a ventuno anni al professionismo, nel 1940. vigilia fu divisa da rivalità e contrasti. Grazie alla neutralità della Svizzera nella Seconda guerra mondiaDomenica 2 settembre per Ferdi la sveglia suonò alle cinque e le, la sua attività agonistica conobbe poche pause. trenta. Da professionista la prima vittoria arrivò nella “Attraverso LosanAlle nove in punto i quarantasei atleti selezionati in rappresenna”, poi vinta altre quattro volte. tanza di dieci nazioni si trovarono sulla linea di partenza che fu “Gara a cronometro, adatta a lui come quelle in linea, sul passo e

Il campione svizzero insieme a Germain Derycke, 1954

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anche in salita – ha scritto Gianpaolo Ormezzano – e come anche quelle per velocisti, destinate a concludersi con uno sprint finale: perché molto semplicemente, Ferdi Kübler sapeva fare tutto bene, persino in pista”. Questa sua eccezionale versatilità agonistica, garantita da un fisico asciutto, nervoso, potente, supportata da una notevole intelligenza in corsa, gli fece salire rapidamente le scale dell’Olimpo ciclistico mondiale dove dovette misurarsi con i maggiori campioni dell’epoca: Bartali, Coppi, Magni, Van Steenbergen, Ockers, Shotte, Bobet. E naturalmente il grande rivale di casa, Ugo Koblet, pure lui zurighese, bello come un arcangelo - fu soprannominato pedaleur de charme - dotato di limpidissima classe che catturò al ciclismo legioni di donne giovani e meno giovani. E anche lui, come Ferdi, plurivittorioso nelle più grandi competizioni internazionali, tra cui, come detto, nel 1950 il primo Giro d’Italia vinto da uno svizzero. Era l’Anno Santo e lui protestante ebbe l’onore di essere ricevuto in udienza da Pio XII. Insomma i due K, come allora venivano chiamati, dominarono con gli italiani gli anni a cavallo della metà del Novecento, un’epoca in cui in Europa il ciclismo superava in popolarità il pur titolatissimo calcio. Complice la radio e la prosa spruzzata di retorica dei giornali, accendeva l’immaginazione popolare.

I calciatori si battevano dentro un rettangolo verde secondo regole codificate, i ciclisti erano invece cavalieri su due ruote che sfidavano le cime, le intemperie, le insidie infinite della strada. Kübler fu senza dubbio fra i migliori interpreti di questo copione cavalleresco. Sul piatto della bilancia metteva anche la sua enorme comunicativa che l’ha reso un personaggio intramontabile dentro e fuori il ciclismo. Alla vigilia dei secondi mondiali varesini datati 2008, nella sua casa adagiata nel verde delle morbide colline zurighesi, parlava ai microfoni della Tsi di Bartali, di Coppi, di Koblet con appassionata lucidità. “Bartali è stato il mio modello. Nel 1938 vinse il Giro di Francia mentre nel 1937, fu costretto al ritiro dopo una grave caduta. Come detto tornò per trionfare. Per me fu il più grande esempio da seguire. Essendo di cinque anni più anziano di me era un punto di riferimento assoluto”. Seguiva, il buon Ferdi, il film della sua vita di campione per poi fermare le immagini di due compagni grandi e sfortunati: Coppi e il connazionale Koblet. “Coppi non era estroverso come Gino - diceva - si teneva sempre un po’ in disparte. Era estremamente difficile capire cosa stesse tramando. Quando era in giornata era imbattibile. Coppi era un genio, un talento assoluto, in corsa era molto intelligente.

Gino Bartali al Tour de France 1950, vinto poi da Ferdi Kübler

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Poteva essere in giornata no e l’indomani in splendida forma. Magari ti lasciava vincere per poi attaccarti e staccarti il giorno dopo quando tu eri un po’ calato. Mi è capitato spesso con lui. Quanto a Hugo Koblet, affermare che Kübler è un lottatore e Koblet no, è falso. Ha sofferto come me, si è ferito gravemente durante le corse. Era grandioso, bello, popolare. Aveva talento, come me era un lottatore. È tra i più grandi di tutti i tempi. Rispetto a lui ho avuto il privilegio di una carriera migliore perché più lunga, la sua è durata solo quattro-cinque anni. Ciò non toglie che fosse un corridore eccellente, formidabile”. La carriera di Ferdi Kübler conobbe il suo epilogo nel dicembre del 1957, indossando i colori della Carpano–Coppi Punt e Mès.

Con questi colori l’anno prima l’ultimo trionfo nella Milano–Torino, davanti a Germain Derycke e a Roberto Falaschi. Si chiuse così un palmares formidabile: da professionista ha fatto sue la bellezza di centoventuno corse e cinquantasei criterium. I successi più significativi furono: Il Tour de France 1950, il Giro della Svizzera del 1942, 1948 e 1951, cinque titoli nazionali, il Gran Premio Industria e Commercio di Prato del 1950, due Giri di Romandia, due Liegi–Bastogne–Liegi (1951 e 1952), due Frecce–Vallone (1951 e 1952), il Campionato del Mondo a Varese 1951, la Roma–Napoli–Roma (1951), la Bordeaux–Parigi (1953) e una maratona di 573 km, con partenza all’una di notte, poi cancellata dal calendario. Ottimo pistard, vinse tre titoli elvetici dell’inseguimento e fu primatista nazionale dell’ora; nel 1945 fu anche campione svizzero di ciclocross. —

Hugo Koblet vince il Tour de France 1951

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Hugo Koblet CESARE CHIERICATI

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e le classifiche della storia del ciclismo non fossero redatte privilegiando soprattutto il numero delle vittorie e dei piazzamenti ottenuti in carriera da un determinato atleta, l’elvetico Hugo Koblet, zurighese come il suo grande rivale Ferdy Kübler, occuperebbe senz’altro uno dei primissimi posti. Del resto Mario Fossati, impareggiabile narratore delle due ruote, lo aveva collocato tra i primi dieci della sua personale graduatoria. Di lui ha scritto: “Negli anni 1950–51 è stato tutto per il ciclismo. Eleganza del gesto, purezza di classe, un campione di fair play”. Qualità mirabilmente riassunte da uno chansonnier francese dell’epoca che lo aveva definito ’le pedaleur de charme’, un appellativo che lo accompagnerà lungo tutta la sua bruciante carriera, giustificato anche dal fatto che prima di concedersi a miss e fotografi si detergeva il viso da attore e si pettinava i biondi ondulati capelli. Ha venticinque anni quando balza all’onore delle grandi cronache sportive durante il Giro d’Italia del 1950, anno proclamato Santo da Papa Pacelli, Pio XII. Corre per la Learco Guerra con una bici adattata in qualche modo alle sue misure di poderoso longilineo. Favorito numero uno della corsa rosa è ovviamente Fausto Coppi vincitore l’anno prima del Giro e del Tour, primo atleta della storia a realizzare una simile impresa. A metà Giro, Hugo indossa la maglia rosa grazie a una condotta di gara sfrontata e coraggiosa. Mostra di non temere i rivali più titolati. Sul passo e contro il cronometro è sui livelli di Coppi, in salita è sempre con i primi, in discesa è un tornado montato su due ruote, aggredisce curve e rettilinei senza mai sfiorare i freni. Gianni Brera lo battezza ’falco biondo’. La critica di parte italiana lo attende sulle Alpi, lì scrivono i suiveurs più accreditati si vedrà chi, tra lui e il campionissimo, è al momento il più forte. A Primolano, durante la prima tappa dolomitica Vicenza - Bolzano, una banale caduta toglie dalla corsa Coppi: frattura del bacino. Ormai padrone indiscusso del Giro, Koblet porta a Roma la maglia rosa, primo straniero in assoluto a vincerlo. Non solo, lui di fede protestante fu ricevuto in udienza privata dal Papa. Nel ricco firmamento del ciclismo post bellico è nata una nuova stella che incanta la competenza e conquista al ruvido sport delle due ruote legioni di donne. Luigi Cairati, collaboratore di Guerra dichiara: “È più un divo che un ciclista”. Diversamente da Kübler, di sei anni più anziano, non coltiva miti patriottici. Un giornalista svizzero ha scritto che dopo i suoi successi invece dell’inno nazionale di sicuro sarebbe stato a lui più gradito un pezzo jazz.

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A renderlo immortale nella storia del ciclismo è il Tour del 1951. Si trova di fronte la solita pattuglia di assi tra i quali un Coppi avvilito dalla morte del fratello Serse e non ancora del tutto ristabilito dal gravissimo incidente di Primolano. Comunque sia lo zurighese nell’undicesima tappa la Brive–Agen di 177 km. compie un’impresa fra le più memorabili del ciclismo: va via in solitaria dopo 37 km e non viene più raggiunto nonostante il furibondo impegno del plotone. Lungo i 140 km di fuga il distacco tra lui e il gruppo rimane pressoché costante sui due minuti e mezzo. Sul traguardo a complimentarsi con lui c’è Ray Sugar Robinson, campione mondiale dei pesi medi, uno dei più

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grandi boxeur di tutti i tempi. Il Tour è ipotecato. Sul Mont Ventoux, ricorda il campione francese Raphael Geminiani, di averlo attaccato per ben diciotto volte. Invano. Al Parco dei Principi, il velodromo di cemento rosa, è acclamato come una star del cinema. Firma contratti milionari, lo reclamano gli organizzatori di mezza Europa, anche in pista fa valere le sue immense doti di passista vincendo la bellezza di nove Sei Giorni, sette delle quali in coppia con lo specialista elvetico Armin Von Buren, suo abilissimo partner. È generoso in corsa ma anche nella


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vita, “troppo” dicono gli amici più fidati. Respinge ai mittenti il rilievo replicando che è certo di non arrivare alla vecchiaia, dunque perché risparmiare, accumulare ricchezza? Nella stagione successiva, il 1952, non si conferma ai livelli precedenti. È di nuovo Coppi a egemonizzare il ciclismo. Tuttavia stupisce ancora tutti, le pedaleur de charme, accettando di fare il padrino del Giro del Messico dilettanti. Non si limita però al ruolo di mossiere, scommette con gli organizzatori, pur consapevole di una preparazione approssimativa, che è in grado di fare da lepre al gruppo: parte venti minuti prima dei giovani colleghi che si dannano l’anima per raggiungerlo. Arriva con lo stesso vantaggio con cui era partito. Uno sforzo spropositato, folle, che gli provoca una dilatazione anomala del cuore, da quel momento sopra i 1.500-2.000 metri di altitudine il suo rendimento non sarà più lo stesso. Nel 1953 alla terzultima tappa perde il Giro dopo un epico duello con il campionissimo sullo Stelvio. Replica lo stesso piazzamento l’anno successivo dopo aver favorito in ogni modo l’inopinato successo del suo gregario Carlo Clerici. Tra i favoriti al Tour in entrambe le edizioni, 1953 e 1954, è vittima di rovinose cadute che lo obbligano al ritiro. Qualcosa è saltato nel suo prodigioso talento di ciclista. Nel 1955 vince il suo terzo Tour de Suisse. Il Criterium di Locarno nel 1958 è l’ultima vittoria poi il doloroso passo d’addio al Tour de Romandie, a soli trentatre anni. Di fronte al falco biondo si aprono nuove interessanti strade.

Suo ammiratore da sempre Enrico Mattei, padre fondatore dell’ENI, gli propone il ruolo di testimonial aziendale in Venezuela, un mercato petrolifero molto promettente. Con la moglie Sonja Bühl, un’indossatrice bellissima, si stabilisce a Caracas. Rientra due anni dopo quando l’Agip decide di affidargli la gestione di un grande distributore di benzina accanto al velodromo di Oerlikon. Accetta anche il ruolo di commentatore, accanto a Marco Blaser, per la Radio svizzera. Poi, incomprensibilmente, rinuncia alla proposta di diventare commissario tecnico della nazionale. Si dedica con triste applicazione al distributore. Luigi Guerini suo meccanico ciclista ricorda: “Andavo a far benzina da lui e mi puliva anche il vetro, ci sono andato due volte, alla terza ho lasciato perdere, non ce la facevo a vederlo così...”. Il fuoriclasse zurighese appare sempre più sfiduciato e solo, anche il matrimonio con Sonia non ha retto. Il 2 novembre 1964 una Giulia Alfa Romeo si schianta contro un albero lungo la strada che collega il villaggio di Esslingen a Monchaltdorf. Dalle lamiere estraggono il corpo agonizzante di Hugo Koblet, sulla strada la Polizia non trova tracce di frenata. Morirà pochi giorni dopo all’Ospedale di Uster. Ha solo trentanove anni. Quattro anni prima se ne era andato Fausto Coppi il suo grande rivale e amico. Un incidente mai chiarito su cui è sempre gravata l’ombra di un possibile suicidio. Remo Pianezzi, ticinese, suo fedelissimo gregario, quando parla di Koblet si commuove e dice che il mito del “genio e della sregolatezza” nel pedaleur de charme si era pienamente compiuto. —

Manuel Löwensberg e Sarah Bühlmann interpretano Hugo Koblet e la moglie Sonja Bühl nel docufilm svizzero “Hugo Koblet, pédaleur de charme” (2010)

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Oscar Egg, 1912

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Il ciclismo svizzero CESARE CHIERICATI

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ochi sanno che il primo corridore a essere definito dagli esperti un ’fenomeno’ fu uno svizzero nato a Schlatt (Cantone Turgovia) nel 1890. Il suo nome era Oscar Egg. Fu lui il 18 agosto 1914 a superare per la prima volta, sulla pista di Parigi–Buffalo, il muro dei quarantaquattro chilometri in un ora chiudendo un lungo duello a distanza con il pistard francese Marcel Berthet. A partire dal 1912 per due volte si erano strappati vicendevolmente il record delle specialità inaugurata da Henry Desgrange nel 1893 con 35,325 km in sessanta minuti. Per la precisione l’elvetico scese di sella dopo aver coperto 44, 247 km., un record che rimarrà imbattuto fino al 1933. Quella di Egg, un autentico caposcuola, fu un’impresa straordinaria considerando che la scorrevolezza dell’anello parigino non era certo paragonabile a quello dei velodromi che dalla metà degli anni Trenta ospiteranno i tentativi di migliorare i primati della micidiale specialità. Tanto meno le biciclette che subirono una rapida evoluzione verso la modernità meccanica. Tuttavia Oscar Egg non fu soltanto un grande pistard – brillava in tutte le discipline compresa la velocità – ma anche un ottimo stradista conquistando, sempre nel 1914, la Parigi–Tours; due tappe al Tour de France (tredicesimo nella classifica generale ); un quarto posto alla Parigi Roubaix; una tappa al Giro d’Italia del 1919, e la bellezza di otto Sei Giorni tra Europa e Stati Uniti. Non essendo il ciclismo rossocrociato ancora ben strutturato a livello organizzativo, Egg vestì prima a lungo il colori della Peugeot francese e poi della Bianchi. Chiuse la carriera nel 1926 lasciando un vuoto che solo negli anni Quaranta del secolo scorso riuscì a colmare Hans Knecht. Atleta giocoforza autarchico – nel tempo di guerra si continuò a correre solo nella Confederazione - entrò di diritto nella storia delle due ruote vestendo la maglia iridata sia da dilettante (1938) sia da professionista (1946), un’impresa riuscita solo ai belgi Jean Aerts e Eddy Merckx. Quest’ultimo successo fu ottenuto a Zurigo su un circuito selettivo che vide Bartali e Coppi, grandi favoriti, annullarsi a vicenda per poi abbandonare la corsa ormai compromessa. Un copione che si ripeterà altre volte ai mondiali su strada. A incrociare i ferri in patria con Knecht fu Paul Egli che brillò soprattutto nelle competizioni mondiali dilettanti ma che si fece onore anche da professionista sia pure nell’ombra lunga dei due

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Vélodrome Buffalo 1912, la partenza del Bol d’Or (100 km): da sinistra, Marcel Berthet, Léon Georget, Gustave Garrigou e Oscar Egg

giganti del ciclismo elvetico, Kübler e Koblet. Pure loro dovettero fare i conti con un terzo uomo coriaceo come Fritz Schaer. Una situazione quasi simmetrica a quella di Bartali e Coppi. Poi la meteora Carlo Clerici che, per una serie incredibile di concomitanze favorevoli, riuscì a vincere il Giro del 1954 segnato dallo storico sciopero inscenato dai corridori sul passo Bernina. All’età dell’oro dei due K, rivali ma mai nemici, seguì una lunga stagione opaca senza atleti di primissimo livello fino all’apparire,nella seconda metà degli anni Ottanta, di Tony Rominger, un campione autentico tre volte di seguito primo alla Vuelta, maglia rosa finale al Giro del 1995, secondo al Tour del 1993, alle spalle del sommo Indurain, vincitore di numerose corse in linea, bronzo nella crono dei mondiali di Lugano del 1996. Lo tolse di scena un brutto incidente l’anno dopo. Con lui e dopo di lui due altri ciclisti di qualità Alex Zulle e Oscar Camenzind travolti dagli scandali a ripetizione del doping. A riportare il ciclismo svizzero in prima pagina, soprattutto nelle grandi classiche in linea, sarà Fabian Cancellara, un Moser cresciuto sulle rive dall’Aare, il fiume che abbraccia Berna. Passista e cronoman di altissimo livello ha finora fatte sue tre Parigi–Roubaix, tre Giri delle Fiandre (l’ultimo nella primavera 2014), una Sanremo, un Giro della Svizzera; quattro maglie iridate e tre bronzi nella cronometro individuale ai campionati mondiali, un oro alle Olimpiadi di Pechino. Nel suo futuro prossimo dovrebbe esserci l’assalto al record dell’ora. —

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Fabian Cancellara


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Tour de Suisse e Tour de Romandie MAURO DELLA PORTA RAFFO

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ue vere ’classiche’ per quanto riguarda le corse a tappe per così dire minori dato che, contrariamente a Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta, si svolgono in un arco di tempo decisamente inferiore alle tre settimane. Il Tour de Romandie nasce nel secondo dopoguerra, si articola in cinque/sette frazioni, si svolge ovviamente in Romandia ed è unanimemente considerato il prologo migliore per quanti intendano correre la corsa a tappe italiana. Nel suo albo d’oro compaiono praticamente quasi tutti i nomi dei più importanti e forti ciclisti a partire appunto dalla fine della seconda guerra mondiale.

Tra i tanti, Gino Bartali, Ferdy Kubler, Hugo Koblet, Eddy Merckx e Bernard Hinault. Più antico – nasce nel 1933 – e decisamente più importante il Tour de Suisse che ha luogo dopo la fine del Giro d’Italia e prima del Tour. I battuti della corsa italiana lo affrontano in cerca di rivincita, quanti preparano la Grande Boucle in cerca di rifinitura della preparazione. Tecnicamente per il solito maggiormente impegnativo in particolare per il percorso spesso montagnoso, il Suisse si articola quasi sempre sulle dodici tappe. Nell’elenco dei vincitori davvero il fior fiore delle due ruote. A quanti più sopra citati - escluso Hinault – vanno aggiunti quantomeno i nomi di Fabian Cancellara e del tre volte vincitore Rui Alberto Faria da Costa. —

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Frank Erne, 1908

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“Ti ricordi di Fritz Chervet?” Ho provocato Maurizio Canetta. L’ho fatto scrivendogli un ‘Ti ricordi di Fritz Chervet?’ Di seguito, le mie righe e la sua bella, esaustiva risposta

MAURO DELLA PORTA RAFFO

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novembre 2014, Ascona, sul lungolago. Una bella giornata, leggero anticipo di Estate Indiana o di San Martino, dipende dai continenti. A pranzo, si parla di questo e di quello. Guardo i commensali con un qualche dispetto: quasi tutti fumano a man salva e io no. Ma va bene così. Scopro che le due passioni sportive più forti di Maurizio Canetta - direttore della mitica RSI, per i non addetti, Radio e Televisione della Svizzera Italiana - sono il calcio, e lo sapevo, e il pugilato. La fuggevole trama delle belle chiacchiere da tavola m’impedisce di approfondire il tema boxe. Ci torno adesso, caro Maurizio. Ti ricordi di Fritz Chervet? Certamente. Un peso mosca davvero forte. Bernese, attivo dai primi Sessanta alla metà leggermente abbondante dei Settanta, sfidante sfortunato per ben due volte al titolo mondiale. Purtroppo per lui, il tailandese Chartchai Chioinoi era più forte... Ebbene, sono convinto, anche se non trovo riscontri, che decenni prima di Chervet un altro svizzero arrivò a catturarla la benedetta cintura. Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarne nome, periodo e categoria. Spero, mi auguro tu possa aiutarmi. È stato bello ieri ad Ascona. Là e altrove, sicuramente ci ritroveremo.

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Caro Mauro, un cognome mi ronzava nella testa: Erne. La magia tecnologica del cervello che fa sì che in un clic la memoria si attivi ed è tornata alla luce una scheda conservata in una mappetta con scritto sopra ’boxe’. Il resto l’ha fatto boxrec.com. Frank Erne è il miglior pugile svizzero di tutti i tempi, anche se le sue imprese risalgono ai decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Lui veniva da una famiglia svizzera emigrata a Buffalo. Nel 1896 conquistò la corona mondiale dei pesi piuma, battendo tale Dixon ai punti in venti riprese. L’anno dopo la perse contro lo stesso Dixon, sempre ai punti, ma le riprese furono venticinque. Poi salì di categoria e divenne campione dei leggeri, titolo che difese due volte, prima di provare a catturare la cintura dei welter. Nel giro di un anno (1901-1902) si giocò tutto: battuto da Ferns per ko dopo nove riprese (welter), fu annientato in un round da Gans e lasciò quindi sul quadrato anche il titolo dei leggeri. Questo è il pre-Chervet, il post invece si chiama Ruby Belge, capace di conquistare una cintura mondiale negli anni duemila, anche se ormai si parla dell’era delle molte sigle e dei titoli che vanno pesati con il bilancino. Quanto a Chervet, oggi ha settantadue anni e da sette è in pensione dal suo lavoro, che era quello di commesso presso il parlamento federale. ’Fritzli’ ha smesso di boxare a trentaquattro anni e poi si è messo la livrea verde e ha portato buste e scortato uomini politici e consiglieri federali durante le sessioni del parlamento.

All’inizio era ovviamente un’attrazione, poi la memoria dei suoi match vincenti contro Atzori e di quella notte all’Hallenstadion quando Chioinoi spense il sogno mondiale si è affievolita e solo pochi aficionados riconoscevano sotto la giacca di velluto verde il fisico del piccolo pugile che divenne grande, quasi grandissimo. Con lui c’era un altro mito della boxe svizzera: Charly Bühler, pugile dilettante che a ventitré anni decise di diventare allenatore e fu dal 1955 il titolare della palestra più vittoriosa della Svizzera, quella del Boxe Club di Berna. In quell’angusta sala a due passi dalla Piazza del Parlamento ha sudato e sofferto Chervet, così come altri cento campioni nazionali. E - con molta fatica - anche un sacco di dilettanti puri, gente che voleva solo tirar giù qualche chilo oppure provare a capire e carpire qualche segreto di quel mondo fatto di fumo (a quei tempi), sangue e fascino che avvolge le dodici corde. Tra quei frequentatori per qualche mese anch’io. Il maestro Charly ci spiegava che stare tre minuti sul quadrato è un esercizio zen, che la leggerezza si conquista con la mente libera dalla paura, ma che la paura è l’unica molla che spinge un uomo - anche una donna - a salire quasi nudo su un ring. Oggi Bühler vive in Francia e da quindici anni ha lasciato la palestra del Boxe Club Berna. È un uomo raffinato Charly Bühler, ama l’arte e il jazz, anche se ha scritto pagine di storia dello sport più bello e più difficile da capire.

Charly Bühler con il Console federale Pierre Aubert e Antoine Montero, ex campione d’Europa (1992)

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Maurizio Canetta —


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La lotta svizzera MAURIZIO CANETTA

C’

è un toro che se ne sta tranquillo nella sua stalla improvvisata all’esterno dell’arena dove si combatte. Centinaia di persone lo vanno a guardare, poi due volte al giorno il proprietario lo porta a passeggiare nel catino dello stadio fra i commenti ammirati degli anche quarantamila spettatori che dal mattino alle sette si assiepano sulle tribune. Adrian andrà in premio al vincitore della festa di lotta, il colosso che vincerà lo “Schlussgang”, la finale di un torneo fra migliori lottatori, praticanti di una disciplina che nella Svizzera tedesca è vissuta come un rito collettivo dalle radici antiche. Il toro è tradizionalmente il premio per le feste più importanti, quelle che attirano decine di migliaia di persone in un week-end. La Festa Federale si svolge ogni tre anni ed è un po’ come le Olimpiadi, ma anche altri tornei hanno un' importanza enorme nel mondo della lotta svizzera. Il pubblico non lascia mai la presa, come i lottatori in pantaloni di juta, segue con passione e dedizione i combattimenti che si svolgono sui cerchi di segatura al centro dello stadio. Ogni tanto esplode un applauso accompagnato dall'urlo liberatorio del vincitore. Un “kurz” – mossa rapida eseguita con uno sgambetto – eseguito alla perfezione ha messo con la schiena nella segatura un lottatore. Il vincitore pulisce dalla segatura la schiena dello sconfitto, come impone il rituale. Chi vince un combattimento con un “Plattwurf ”, un colpo secco portato dalla posizione eretta, incassa dieci punti. Il perdente ne prende solo nove. C’è anche il pareggio (quando nessuno dei due lottatori finisce con entrambe le spalle nella segatura, si chiama “Gestellt”) e ci sono varianti di punteggio che i giudici possono decidere, il tutto per comporre una classifica finale dopo otto turni di combattimenti. Alla fine solo i due migliori affronteranno l’estenuante “Schlussgang”, che può durare anche quindici minuti, un’eternità. Le mosse catalogate sono un centinaio, le regole solo apparentemente semplici. Le feste di lotta hanno un padrone, che si chiama Obmann, ed è colui che stabilisce gli accoppiamenti. Non è un tabellone di tipo tennistico, nei primi turni i migliori

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Auguste Baud-Bovy, Lotta svizzera, 1887, Musée d’art et d’histoire de Genève

combattono con i migliori, puoi trovare il corrispettivo di un Nadal-Federer alle sette del mattino. Man mano che la classifica si compone, il gruppo si screma, chi arriva alla fine è certamente il migliore di giornata. Il calendario delle feste di lotta è impressionante, ogni fine settimana gli appassionati si spostano da un luogo all’altro per vivere un nuovo capitolo di una storia che raccoglie le pulsioni profonde del mondo contadino e prosegue immutata negli anni.

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Tutto sa di antico, di difesa aspra dei valori tradizionali, di chiusura alla modernità. Non c’è un lottatore del quale si possano sospettare origini diverse da quelle puramente svizzere. La Svizzera multietnica non esiste nei cerchi di segatura, anche se turchi e slavi hanno tradizione eccellente negli sport di lotta. Non accedono però ai club di “Schwingen”. Eppure qualche lampo di concessione al nuovo che avanza si riesce


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a trovare. La ragazza di origini indiane vestita in costume tradizionale appenzellese che attraversa lo stadio per consegnare al presidente della Confederazione lo spartito originale della marcia composta per l’occasione (come successo alla Festa Federale a Berna qualche anno fa) rappresenta forse un’immagine futuribile per l’ambiente: anche i più accaniti conservatori dovranno un giorno o l’altro arrendersi ad accettare ragazzi di origine turche o slave che si sporcheranno di segatura come i figli dei contadini del Mittelland bernese. Il futuro non sembra essere la preoccupazione maggiore, troppo grande è la fiducia nelle radici, nel valore assoluto delle tradizioni. Anche la lotta svizzera ha dovuto comunque concedersi alla modernità, cum grano salis, ovviamente. Nell’epoca della globalizzazione e dello sport trasmesso in televisione da ogni angolo del mondo, questa disciplina sta vivendo un momento d’oro. In Svizzera Tedesca e in parte di quella romanda è diventata un fenomeno di grande successo. Una festa federale ha un budget di venti milioni, gli sponsor accorrono, anche se all'interno dell' arena non c’è uno striscione o una pubblicità. È il paradosso della tradizione che trionfa quando tutto si omogeneizza, un'affermazione di identità che ha superato i confini della Svizzera contadina e nella quale si mescolano orgoglio e nostalgia, fierezza e conservatorismo. In un week end anche centomila persone affollano lo stadio e il barnum di bancarelle costruito attorno: ristoranti e mercatini, nei quali l'aria è intrisa di profumi e sapori che vanno dalle salsicce al formaggio fuso, ma anche dal kebab al chili. Per ora è solo la segatura a rimanere sacra. In mezzo a tutto questo si vedono pochi poliziotti, la sicurezza è assoluta, nemmeno chi ha bevuto troppo dà fastidio, anche se la birra scorre a fiumi. Bisogna andare in un luogo come il Brünig o nel bosco di Interlaken per capire come mai questa parte di Svizzera è diffidente verso gli stranieri, diventa intollerante alla microcriminalità, è pronta a sostenere iniziative anti-stranieri. “Ma come?”, sembrano dire donne e uomini di questa Svizzera profonda che portano con orgoglio i costumi tradizionali, “Noi

ci troviamo in decine di migliaia, festeggiamo, beviamo, lottiamo e nulla turba questa oasi di pace. Però a casa nostra dobbiamo chiudere a chiave le porte e mettere gli allarmi antifurto”. Oggi i migliori lottatori si devono allenare tre-quattro volte alla settimana, curano forza e agilità perché per sopravvivere nel “Sägemehlring” (il cerchio di segatura) ci vogliono muscoli d'acciaio e capacità di battere sul tempo l’avversario, curano l'alimentazione come qualsiasi altro atleta di punta. Si sussurra che qualcuno tenti di barare e utilizzi gli anabolizzanti per gonfiare i muscoli. Il controllo antidoping è stato introdotto da pochi anni, perché la lotta svizzera non può permettersi passi falsi. Se parli di questo con gli “schwinger” ricevi solo risposte secche: “Siamo puliti, ci mancherebbe altro”. Come in tutti gli sport però per emergere bisogna andare al massimo e la sola identificazione patriottica non può bastare per garantire la correttezza assoluta. L’arrivo dei controlli ha rappresentato un piccolo shock attorno ai cerchi di segatura, dove l’abbigliamento è ancora incontaminato: maglietta e pantaloni di panno bianco per i “turner”, gli esponenti delle società di ginnastica, camicia a quadri e pantaloni scuri per i “Sennen”, gli eredi dei contadini di montagna. La lotta svizzera è nata negli alpeggi, era il passatempo di chi passava le serate attorno al fuoco dopo aver accudito greggi e mandrie. Poi è scesa al piano, è stata codificata e all'inizio dell’Ottocento è diventata addirittura simbolo patriottico, quando nel 1805 a Unspunnen si celebrò la festa nazionale di tradizioni alpine e i cantoni svizzeri sotto dominio francese vollero riaccendere lo spirito di una nazione. Fino all’inizio del Novecento le sfide fra “turner” e “sennen” erano veri e propri derby, scontri di culture oltre che di muscoli. Oggi si combatte allo stesso modo dappertutto, anche se la rivalità fra federazioni concorrenti resta altissima. Non provate ad esempio a dire a un bernese che i migliori lottatori nascono nella Svizzera Centrale, vi stenderebbe con un “Brienzer”, una mossa micidiale che potrebbe abbattere un toro. —

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Clay Regazzoni MICHELE CASTELLETTI INCONTRA

GIANFRANCO PALAZZOLI

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ra il 1955 quando la Svizzera - in seguito al grave incidente alla 24 ore di Le Mans che costò la vita a ottantatre spettatori e causò il ferimento di altri centoventi colpiti dai frammenti della Mercedes di Pierre Levegh, anch'egli deceduto - decise di vietare le gare di velocità con veicoli a motore aperte al pubblico. Potrebbe quindi sembrare strano che da allora gli svizzeri abbiano continuato a gareggiare negli sport motoristici e che oggi ci sia addirittura una squadra elvetica presente nel campionato di Formula 1... Eppure, uno tra i più grandi protagonisti dell’automobilismo degli anni Settanta è proprio originario della Svizzera, e più precisamente di Lugano. Mi riferisco a Clay Regazzoni (all’anagrafe Gian Claudio) cha ha segnato la Storia dell’automobilismo e soprattutto quella del ‘Cavallino’. Regazzoni, classe 1939, sin da giovane inizia a lavorare nella carrozzeria di famiglia e, spinto dal padre e dall’amico Silvio Moser, all’età di ventiquattro anni fa il suo debutto nelle corse, disputando alcune cronoscalate. Verso la metà degli anni Sessanta viene ingaggiato in Formula 3 e successivamente in Formula 2, categoria in cui ottiene il titolo di campione europeo nel 1970 con la Tecno. Nel 1970 con la Ferrari partecipa alla 24 Ore di Le Mans e sempre nello stesso anno debutta in Formula 1 alla guida di una vettura della scuderia di Maranello: dopo sole quattro gare ottiene il suo primo successo vincendo il Gran Premio d’Italia a Monza.

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In totale, in un decennio, ha disputato centotrentadue Gran Premi in Formula 1 sotto le insegne di varie scuderie: Ferrari (dal 1970 al 1972 e ancora dal 1974 al 1976), BRM (1973), Ensign Ford (1977 e 1980), Shadow Ford (1978) e Williams Ford (1979). Ha collezionato cinque vittorie: quattro con la Ferrari (1970 GP d’Italia, 1974 GP di Germania sul mitico circuito del vecchio Nurbürgring, 1975 GP d’Italia, 1976 GP degli Stati Uniti) e una con la Williams (1979 GP d’Inghilterra a Silverstone). Nel 1974 ha sfiorato la vittoria del titolo mondiale, occasione mancata nel Gran Premio degli Stati Uniti a Whatkins Glen dove Clay arriva prima della gara a pari punti in classifica campionato con Emerson Fittipaldi. Regazzoni conclude la gara all’undicesimo posto a causa di problemi meccanici e Fittipaldi con un quarto posto lo scavalca in classifica ottenendo il titolo iridato. Dopo lo spaventoso incidente di Long Beach nel 1980, che lo costringe su una sedia a rotelle, si ritira dalla Formula 1, partecipando comunque in seguito a competizioni motoristiche minori. Purtroppo nel 2006, all’età di sessantasette anni, rimane coinvolto in un incidente lungo l’autostrada A1 dove perde la vita. Ho pensato di porre a Gianfranco Palazzoli, amico di Clay Regazzoni alcune domande sul grande campione. Di seguito le sue risposte. Come ha conosciuto Clay Regazzoni? Ho sempre frequentato l’ambiente delle corse. Nel 1955, a ventun’anni, appena maggiorenne e contro la volontà di mia madre, ho iniziato a correre in moto e sono diventato collaudatore di una azienda costruttrice di motociclette. Poi c’è stata una crisi economica simile a quella che viviamo ora e quindi sono stato costretto a sospendere le corse. Ho ripreso nella metà degli anni Sessanta a correre con le vetture, usando

lo pseudonimo ‘Pal Joe’, nelle categorie Turismo (Campionato italiano e Campionato europeo), Gran Turismo, Sport e Sport Prototipi. Successivamente ho avuto incarichi come direttore sportivo in alcuni team di Formula 1 tra i quali Team Merzario, Tyrrell, Osella, Benetton e Fondmetal. Ho commentato per anni i Gran Premi di Formula 1 per la Rai, insieme a Mario Poltronieri ed Ezio Zermiani. Fino agli anni Ottanta l’automobilismo era molto diverso da oggi: mi piace definirlo come un gruppo di amici che giravano l’Europa (e il Mondo) per gareggiare con le auto, nostra grande passione comune. Ma le rivalità erano solo in pista: una volta scesi dalla vettura eravamo tutti amici. Ho avuto così modo di conoscere Clay. Abitando io a Varese e Clay a Lugano si è creato un rapporto di amicizia: in più grazie alla somiglianza dei nostri dialetti - varesino e ticinese - avevamo la possibilità di trasmetterci spesso le nostre opinioni e impressioni appunto in dialetto. Che persona era Clay Regazzoni? Clay è stato un trascinatore di pubblico e di appassionati perché era il classico pilota “di quell’epoca”. Un pilota cioè che trasmetteva esattamente la sua passione per quello sport e anche “quel pizzico di follia” che ci voleva per essere più veloce degli altri. Era un personaggio particolare. Tra le altre cose giocava molto bene a tennis. Questa sua definiamola “esuberanza” l’ha dimostrata in un sacco di situazioni: se si avesse l’occasione di parlare con qualche guardia di confine di allora potrebbe raccontare alcune avventure capitate nelle dogane, o ancora gli amministratori dei comuni del circondario potrebbero ricordare le battaglie con lui per la velocità con cui attraversava i centri abitati in auto. All’epoca si correva quasi sempre in Europa e così si facevano tre o quattro macchine e si viaggiava tutti insieme. Oppure, per le gare oltreoceano, si viaggiava in aereo e si noleggiavano poi le auto all’aeroporto. Si arrivò al punto che a certi nominativi venivano rifiutati i noleggi dell’auto:

Clay Regazzoni su Shadow Ford a Monaco, 1978

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Clay Regazzoni e Niki Lauda compagni di scuderia

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era sempre una gara dall’aeroporto all’autodromo. Per non parlare poi di quando si andava in Germania, dove sull’autostrada non esistevano limiti di velocità... Ora tutto è cambiato e anche in Formula 1 l’ambiente è più “ingessato”, i rapporti umani contano meno rispetto a quei tempi. Clay, sollevava entusiasmo e interesse non solo nei tifosi italiani ma anche in quelli svizzeri. Lui, ticinese, infatti piaceva molto anche agli svizzeri più ‘germanici’ per la sua spontaneità, per questo suo modo di vivere e di esprimersi, per la capacità di essere comunicativo e non ultimo grintoso in pista. Purtroppo questo suo stile lo ha portato anche a conseguenze tristi. Mi riferisco al Gran Premio di Long Beach del 1980. L’urto è stato terribile. Aveva perso il controllo della sua Engine a causa di un guasto e si era scontrato contro una Brabham ferma a bordo pista. Dopo l’incidente sono andato subito in clinica dove era stato ricoverato: era in condizioni veramente gravi. Poi, con molta grinta, si è ripreso. Chiaramente doveva girare in carrozzina. Ma grazie alla sua forza ha riacquistato indipendenza: guidava tranquillamente e si spostava in autonomia. E poi quel giorno che avuto l’incidente sulla nostra autostrada... Non si conosce ancora cosa sia successo di preciso… è stata una brutta cosa... Aveva uno spirito incredibile e non voleva assolutamente mollare. Reagiva alle difficoltà in modo meraviglioso. La sua gara più bella? Molti tifosi ricorderanno la prima vittoria con la Ferrari a Monza nel Gran Premio d’Italia del 1970 e sicuramente le gare più belle della sua carriera sono state quelle con la Ferrari. Adesso per vincere in Formula 1 ci vogliono una gran macchina, la mentalità adeguata e lo staff giusto. All’epoca era tutto diverso.

Le doti di guida di Regazzoni in fatto di velocità erano fantastiche. A volte però ha esagerato e ha perso delle gare che non avrebbe dovuto perdere. Era noto in tutto il mondo per il suo modo di guidare: faceva delle manovre da lasciarti con il fiato sospeso fino a quando lo vedevi uscire indenne, e ne eri molto felice. Le sue grandi qualità di pilota esperto sono confermate anche dal fatto che è stato lui a suggerire a Enzo Ferrari di assumere Niki Lauda. Clay ha aiutato tantissimo Niki, che, grazie alla sue doti e alla capacità di metterci la testa quando guidava, gli è passato davanti. Questo dimostra che aveva visto giusto. Regazzoni ha passato sei stagioni in Ferrari. Com’era il suo rapporto con il Grande Vecchio? Regazzoni piaceva molto a Ferrari. D’altra parte anche Enzo Ferrari aveva corso da giovane ed era un appassionato dei motori che aveva trasformato questa sua passione in un lavoro. Amava tantissimo questi piloti che ci mettevano del loro e spesso andavano oltre i limiti. A Ferrari piaceva molto Clay, forse anche per questo loro aspetto comune. C’è poi da dire che il patron del Cavallino ha sempre avuto una predilezione per questo tipo di piloti: successivamente ha voluto Gilles Villeneuve, all’epoca praticamente uno sconosciuto in Formula 1. A Silverstone, nella sua gara d’esordio, Villeneuve su una McLaren alla prima curva era già arrivato lungo e a Ferrari non dispiacevano i piloti che osavano. Però alla fine bisogna ricordare che lui dopo tutto aveva anche un’azienda da mandare avanti e se nell’arco delle stagioni non arrivavano i risultati per forza di cose era obbligato a cambiare. Ha mai corso contro Regazzoni? Ho corso non contro, ma insieme a Clay. Io ho gareggiato in dodici edizioni della 1000 km di Monza, Clay ha partecipato solo a un paio di edizioni. La 1000 km era una gara molto

Monza 1975: Clay Regazzoni precede Niki Lauda, entrambi su Ferrari 312T. Vincerà il pilota austriaco davanti a Regazzoni

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particolare... Io correvo con le vetture Sport Prototipi di cilindrate inferiori e Gran Turismo, categorie che contro le Sport Prototipi delle maggiori cilindrate avevano poco da fare. Quindi in classifica assoluta era molto difficile per me competere con la sua categoria: in classifica di classe invece ne ho vinte alcune. Va ricordato che all’epoca erano più importanti le gare di vetture Sport e Prototipi rispetto alla Formula 1. Se Regazzoni vivesse in questo momento correrebbe esclusivamente in Formula 1. A quei tempi invece si dividevano, fra una gara e l’altra, tra formule e prototipi. C’era anche la Formula 2 in cui tutti i grandi hanno corso e alcuni, come per esempio Jim Clark, hanno perso la vita. Quindi queste gare avevano molto più appeal per gli spettatori e ne accrescevano ancora di più l’entusiasmo perché si potevano apprezzare le capacità del pilota mentre correva in Formula 1, Formula 2 o Prototipi. In più vedevano anche il pilota che s’interessava personalmente della sua vettura insieme ai tre o quattro meccanici che aveva al seguito e in alcuni casi addirittura anche lavorandoci sopra. Era una cosa completamente diversa da adesso, dove il pilota esce dall’abitacolo della vettura e guarda il monitor, gli ingegneri non gli chiedono nulla e il pilota stesso si esprime poco

per paura di fare figure scoprendo che le prestazioni non buone potrebbero essere causate da un suo errore, svelato dalla telemetria e dalle immagini. Il ricordo più bello di Clay? Andando indietro con la mente non saprei definire un momento in particolare. Essere in giro con il Clay era sempre una cosa speciale. Quindi erano tutti momenti belli. Ricordo che c’è stato un periodo in cui aveva una Lancia Aurelia Coupé con guida a destra ed era divertente girare con lui perché ti chiedeva se poteva sorpassare o no, dato che con la guida a destra, se sei dietro a un altro veicolo, non hai la visuale per il sorpasso. Quando ero seduto di fianco - e quindi essendo a sinistra avevo la visibilità - lui si affidava a me chiedendomi in perfetto dialetto ticinese: «Pala, l’è bona?» E appena c’era via libera io gli dicevo «Fora!» E lui si buttava fuori superando allegramente gli altri veicoli. Ci son stati momenti belli e momenti brutti. Era una grande persona. Su di lui potevi sempre contare. —

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Svizzeri eminenti di ieri e di oggi


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La Croce Rossa

Il comitato internazionale e il rispetto del diritto internazionale umanitario CORNELIO SOMMARUGA GIÀ PRESIDENTE DEL COMITATO INTERNAZIONALE DELLA CROCE ROSSA (1987-1999)

S

ono un giurista dell’‘Alma Mater Thuricensis’, che dopo una carriera professionale specialmente dedicata alla diplomazia economica, si è trovato chiamato a coprire una delle cariche – che si dice essere – fra le più delicate del mondo contemporaneo, quella di ‘Presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) a Ginevra’, l’organo responsabile di portare protezione e assistenza a tutte le vittime dei conflitti armati, che siano internazionali o no. Ruolo delicato sì, in quanto, come diceva uno dei miei predecessori, il Presidente del CICR è un nuotatore solitario nell’oceano della politica mondiale, che deve essere sufficientemente accorto e forte per non bere, non abboccare alle tante esche, che lo porterebbero senz’altro ad affogare, perdendo la sua credibilità di intermediario umanitario neutro, indipendente ed imparziale. È così che diventa comprensibile il mio motto per la presidenza del CICR: costanza, rigore, umiltà! Effettivamente questa istituzione – organizzazione internazionale sui generis – che trae il suo mandato dalle Convenzioni di Ginevra è un’‘Associazione secondo il Codice civile svizzero composta da quindici a venticinque membri di cittadinanza svizzera’, che vengono cooptati, senza alcuna ingerenza da parte del Governo svizzero. Dall’Associazione dipendono i circa tredicimila delegati e collaboratori a Ginevra e in settanta paesi, delle nazionalità le più diverse, che hanno come obiettivo di proteggere ed assistere le vittime di conflitti armati. Il finanziamento è specialmente quello di Governi, senza alcuna chiave di ripartizione, che raggiunge oggi un preventivo di oltre un miliardo di franchi svizzeri. Ma il CICR – non dimentichiamolo - è anche il ‘guardiano del Diritto internazionale umanitario’, la cui elaborazione è stata largamente sua responsabilità sin dalla sua fondazione nel 1863; il CICR si è dato come vocazione di promuoverne lo sviluppo e di vegliare alla sua applicazione ed al suo rispetto. È proprio su questo rispetto, sfida permanente del CICR e non solo di esso, che vorrei mettere qui di seguito l’accento.

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Jean-Louis-Ernest Meissonier, Napoleon III alla Battaglia di Solferino, 1863

Il Diritto umanitario non è un diritto che si invoca regolarmente nella solennità dei pretori. Nato dalla guerra, è nei conflitti armati che vuole far sentire la sua voce. Protesta contro la forma estrema di violenza che mette Stati contro Stati o contro movimenti armati di opposizione, non ha come scopo di giudicare delle motivazioni che hanno portato l’uno o l’altro dei belligeranti a ricorrere alle armi. La sua portata di ‘ius in bello’ è altrove: sono altre giurisdizioni che avranno eventualmente da giudicare sul ‘jus ad bellum’. L’obiettivo del Diritto umanitario è più immediato e più elevato: davanti alle sofferenze causate da conflitti armati, ricorda ai belligeranti il dovere comune di umanità; nel chiasso delle armi costruisce un’ultima barriera alla violenza dell’uomo contro l’uomo. Fu la battaglia di Solferino (nella Seconda guerra di Indipendenza d’Italia) nel 1859 che indusse Henry Dunant, oltre a portare soccorso ai feriti nella Chiesa maggiore di Castiglione delle Stiviere, a prendere l’iniziativa di elaborare una convenzione per migliorare la sorte dei militari feriti negli eserciti in campagna. Era un postulato già avanzato dal chirurgo napoletano Ferdinando Palasciano, quello stesso che aveva curato Garibaldi per la sua ferita sull’Aspromonte. È così che nacque la prima Convenzione di Ginevra nel 1864. Il Diritto umanitario sarebbe rimasto teorico se i redattori della Convenzione non avessero avuto la preoccupazione di dare alla protezione dei feriti e del personale di assistenza un’espressione

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concreta. Adottando l’emblema della croce rossa come simbolo visibile riconosciuto dell’immunità, avevano anche dato alla Convenzione lo strumento operazionale della sua applicazione. È questo senso del realismo e questa dinamica di messa in opera che danno al Diritto umanitario i mezzi della sua autorità, in quanto – il Comitato internazionale, attivo in tanti conflitti, lo sa meglio di chiunque – per soccorrere e proteggere le vittime di guerra non bastano formule altisonanti che restano lettere morte. Nel frattempo gli emblemi protettori sono tre: oltre alla croce rossa, le Convenzioni prevedono la mezzaluna rossa (1929) e il cristallo rosso (2005). Le Convenzioni sono ormai quattro, universalmente ratificate nei loro testi del 1949, ma molto importanti sono i due Protocolli aggiuntivi del 1977 che hanno, per conflitti internazionali e interni, rinforzato la protezione ed il rispetto della popolazione civile, già largamente prevista dall’articolo tre comune alle quattro Convenzioni che declama le regole assolute di umanità da rispettare in ogni circostanza. Giuristi e politici s’accordano per definire il Diritto umanitario come espressione d’equilibrio tra gli imperativi militari e le esigenze dell’umanità. Non è quindi da meravigliarsi che nel secolo scorso il Diritto internazionale umanitario abbia conosciuto le tappe le più importanti del suo sviluppo, a causa dei drammi delle due guerre mondiali, della guerra civile spagnola, delle numerose guerre di liberazione nazionale e dei vari conflitti interni specialmente africani, come il genocidio del Ruanda, le varie guerre nell’ex Jugoslavia o il caotico conflitto della Somalia, che


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persiste. Durante questi scontri armati gli equilibri umanitari stabiliti precedentemente sono spesso stati messi in causa dall’evoluzione della guerra verso una forma sempre più totale, a causa dello sviluppo delle armi, del razzismo e delle ideologie totalitarie. Da tre decenni sono soprattutto i conflitti interni, e il terrorismo in seno a questi conflitti, che – tristemente – stimolano la nostra riflessione. Già le Convenzioni del 1949 introducevano una disposizione (l’art 3 comune) che fa obbligo ai protagonisti di un conflitto interno di comportano danni gravi e durevoli trattare con umanità i civili che non contro l’ambiente naturale sono partecipano alle ostilità, i feriti, i espressamente proibiti. In questo malati e i prigionieri. senso, una delle disposizioni del Sono i principi fondamentali del Primo Protocollo aggiuntivo, che Diritto umanitario che penetrano resta di perfetta attualità, merita all’interno delle frontiere degli stati Henry Dunant di essere ricordata. per fondare un vero diritto dell’uEssa dice (art. 35,2) “è vietato l’immanità in virtù del quale la persona piego di armi proiettili e sostanze, nonché metodi di guerra capaci umana, la sua integrità fisica, la sua dignità devono essere rispettadi causare mali superflui o sofferenze inutili”. te in nome dei principi morali che oltrepassano i limiti di un DiritQueste disposizioni hanno servito, quale base a molti negoziati sui to internazionale fino allora confinato ai soli conflitti fra Nazioni. limiti di uso di determinate armi convenzionali e le ho personalMa era una timida apertura, in quanto gli Stati erano reticenti ad mente invocate quando nel febbraio del 1994 lanciai l’appello per la accettare dei meccanismi atti a garantirne il controllo e l’applicaproibizione assoluta delle mine antipersona. zione. Come l’importante studio del CICR sul Diritto internazionale Ma anche la lunga Conferenza diplomatica dal 1974 al 1977, duumanitario consuetudinario, ancora da me lanciato nel 1996 su rante la quale furono negoziati i Protocolli aggiuntivi, non è verainiziativa della Conferenza internazionale della Croce Rossa e Mezmente riuscita ad eliminare questa ipoteca. zaluna Rossa del 1995 lo sottolinea, queste disposizioni relative Il CICR resta ancora oggi nei conflitti interni largamente tributaal limite dell’uso e dello sviluppo industriale di determinate armi rio dei propri negoziati per riuscire a proteggere e assistere i civili convenzionali sono parte del diritto consuetudinario ed applicabili ed altre vittime ‘hors de combat’. per conflitti internazionali e non internazionali a tutti gli Stati firQuesta Conferenza diplomatica ha tuttavia avuto il merito di asmatari delle Convenzioni di Ginevra. sociare per la prima volta ai suoi lavori molti paesi da poco indiCiò è particolarmente importante, tenuto conto che i Protocolli pendenti (erano centoventiquattro nel 1977 e solo cinquantanove aggiuntivi non sono per ora universalmente ratificati. nel 1949), facendo in modo che il dibattito umanitario tendesse a Il Primo Protocollo aveva anche voluto rinforzare le disposizioni di oltrepassare le differenze politiche, culturali, storiche ed economiapplicazione del Diritto umanitario e del suo rispetto. che, per raggiungere una concezione convergente delle esigenze È così che il controllo è devoluto a delle Potenze protettrici e che dell’umanità. è istituita (con partecipazione facoltativa) una Commissione interOltre ad avere rinforzato considerevolmente, per conflitti interni nazionale di accertamento dei fatti. e internazionali, la protezione della popolazione civile, i Protocolli Lo stesso Protocollo prevede poi, in caso di violazioni gravi delle aggiuntivi del 1977 sono riusciti a integrare e completare le dispoConvenzioni, di agire collettivamente od individualmente in collasizioni del “diritto di guerra” (il cosiddetto Diritto dell’Aia), dando borazione con le Nazioni Unite e conformemente alla Carta. al Diritto internazionale umanitario una coerenza ed una globalità Eppure le speranze sull’efficacia di queste misure nel contenere le che lo sviluppo dell’industria bellica ed i metodi di combattimento violazioni del diritto, o anche all’applicazione dell’articolo primo rendevano imperativamente necessarie. comune delle quattro Convenzioni, che fa obbligo alle Parti conDiverse disposizioni adottate quasi quaranta anni fa obbligano le traenti di rispettare e far rispettare in ogni circostanza le disposiparti belligeranti di fare costantemente la distinzione tra popolazioni convenzionali, non si sono veramente realizzate. zione civile e obiettivi militari. Confrontati all’ampiezza dei drammi di cui siamo testimoni, posGli attacchi contro i civili e i beni indispensabili alla loro sopravvisiamo seriamente domandarci quanti appelli le vittime di guerra venza, come anche quelli diretti a sbarramenti, dighe, centrali nudebbano ancora lanciare per essere sentite. cleari per produzione di energia elettrica, come pure attacchi che

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Non bisogna mai tralasciare di denunciare l’immensa sofferenza delle vittime, la scalata della violenza, dell’orrore, della barbarie conflittuale e terroristica, in cui i principi fondamentali di umanità sono ignorati in via assoluta. Effettivamente la guerra è oggi quasi dappertutto. Popolazioni civili intere sono costrette a fuggire le loro terre, vittime di rappresaglie, tormentate, minacciate di mancanza di sussistenza, di acqua potabile, colpite da bombardamenti indiscriminati. Donne di ogni età sono violentate, detenuti torturati, prigionieri costretti a lavorare sul fronte, sottoposti a ogni tipo di mercanteggiamento ed altri ancora sono oggetto di esecuzioni sommarie. Le organizzazioni umanitarie sono troppo spesso impedite di portare soccorso e protezione (vedi Siria) e talvolta sono, esse stesse, bersaglio di attacchi, anche letali. È con emozione e grande tristezza che i responsabili di azioni umanitarie, protette dall’emblema della croce rossa o della mezzaluna rossa, sono testimoni di tali comportamenti: la perdita di colleghi è una dura realtà, ma quella di essere confrontati ad ostacoli alla protezione ed assistenza dovute alle vittime è almeno altrettanto umiliante. In tutte queste situazioni è il rispetto delle regole umanitarie esistenti che avrebbe permesso di salvare decine di migliaia di vite e di evitare che popolazioni civili intere siano forzate ad emigrare per cercare in terra di asilo la protezione e l’assistenza di cui hanno bisogno.

Vorrei proclamare alto e forte che non è più tollerabile che in tutti questi conflitti, le cui conseguenze valicano in un modo o l’altro le frontiere, la sorte delle vittime resti tributaria della buona e passeggera disposizione delle parti interessate. Dobbiamo far sapere con maggiore fermezza ai belligeranti e altri fomentatori di violenza armata, che sono responsabili dei loro atti davanti alla comunità internazionale. L’articolo primo comune delle Convenzioni di Ginevra, già citato, non permette alcuna ambiguità: i Paesi firmatari (e ormai è l’assoluta totalità degli Stati) sono tenuti a far rispettare il diritto umanitario in ogni circostanza. È un precetto giuridico evidente che deriva innanzitutto dalla responsabilità individuale degli Stati, ma che s’iscrive in un quadro più largo, ogni Stato essendo tenuto di far rispettare questo stesso diritto. Questo significa che quando uno Stato in conflitto viola l’impegno preso al momento di aderire alle Convenzioni, tutti gli altri ne diventano ugualmente responsabili, se si astengono dall’agire per mettervi fine. È dunque una responsabilità collettiva di proclamare che il Diritto internazionale umanitario ratificato nelle Convenzioni di Ginevra da duecento Stati deve essere rispettato e applicato. Adoperiamoci in questo senso perché è la società civile che ha la forza di rendere responsabili i Governi! —

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Le Corbusier

Da La Chaux-de Fonds alla cultura mediterranea MARIO BOTTA

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el 1907, un giovanissimo artista svizzero appena ventenne, Charles Edouard Jeanneret, partì da La Chaux-de-Fonds per intraprendere un primo viaggio. Alla Scuola di belle arti della sua cittadina sull’Altopiano svizzero, patria della manifattura orologiera ed esempio unico di pianificazione urbanistica rigorosamente razionale, aveva ricevuto da L’Eplattenier i primi insegnamenti artistici, insegnamenti che avrebbe successivamente approfondito a Parigi negli anni Venti coi pittori del Purismo, Ozenfant e Léger e del cubismo, Picasso, Gris e Braque, nella convinzione che l’integrazione delle arti rappresenti un vero e proprio traguardo: “L’événement plastique s’accomplit dans une ‘forme une’ au service de la poésie”, annota nella sua ultima pubblicazione ‘Dessins’ curata da Jean Petit nel 1965. Quel primo viaggio lo portò - e non è un caso - in Italia (Milano, Pavia, Genova, Pisa, Firenze, Siena, Lucca, Ravenna, Ferrara, Mantova, Verona, Padova, Venezia) alla ricerca dei significati più profondi della sua identità europea. Furono i territori, i monumenti, la storia di quel primo viaggio a gettare le basi affinché quel ragazzo potesse diventare più tardi Le Corbusier. Nella primavera del 1911, dopo aver abbandonato l’esperienza di disegnatore nello studio berlinese di Peter Behrens, e dopo aver a lungo vagabondato attraverso l’Europa e ultimati due itinerari tedeschi, egli mette a punto con il compagno di avventura, l’antiquario fiammingo Auguste Klipstein, un programma per un viaggio verso i confini dell’Oriente. Questo viaggio, durato quasi sette mesi, risulterà un’indagine complessa e attenta di un mondo estraneo agli interessi che la cultura architettonica di quel momento stava affrontando, lontano dai problemi della ‘modernità’ che affioravano nel dibattito e nella ricerca del movimento architettonico internazionale. Il giovane Jeanneret a ventiquattro anni affrontava, dopo l’esperienza del viaggio in Italia di cinque anni prima, un itinerario che, di fatto, coincideva con l’incontro del mondo della antichità.

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Le condizioni preindustriali di quelle culture, lasciavano segni e tracce di civiltà remote che non potevano sfuggire all’osservazione e all’indagine di colui che sarebbe divenuto il ‘maestro’ dell’architettura del ventesimo secolo. Quel mitico ‘Voyage d’Orient’ che porta Jeanneret da Berlino al Danubio, a Istanbul e ad Atene, per poi rientrare a Parigi attraverso l’Italia fu una vera e propria scoperta continua di quelle matrici etiche e estetiche che hanno sorretto la ‘ricerca paziente’ durante cinquant’anni nella elaborazione di una dimensione più umana per lo spazio di vita dell’uomo, come affermò più tardi egli stesso nei ‘Carnets’ che portano quel nome: “...trovai infine anch’io la mia via di Damasco...” una sorta di intuizione folgorante di ciò che è l’architettura... I dubbi, le ansie, le incertezze circa la futura attività d’architetto si confrontano con momenti di speranza e di fede di fronte alle meravigliose testimonianze del passato. Sono i segni del lavoro umano che colpiscono il giovane Charles Edouard Jeanneret che annota e disegna testimonianze anche mi-

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nute, con un’attenzione e a volte una commozione straordinarie. Sono i segni del passato, i palazzi, le chiese, le moschee che vengono colte nella loro geometria elementare, ma anche i segni più umili, la casa semplice del povero, la baita della puszta, le skite dei monaci dell’Athos, le osterie, i mercati, le dimore più umili, i conventi e i recinti che sono colti nel loro significato primario di presenza dell’uomo e di necessità dell’uomo di trasformare la terra. Vi sono appunti di dettagli architettonici che ritroveremo quasi intatti nel loro candore primitivo, nelle opere architettoniche della maturità, nelle realizzazioni architettoniche di Ronchamp, Firminy, di Chandigarh. Il travagliato percorso è sorretto da una tensione continua, da una ricerca incessante, da un bisogno immenso di sottrarsi alla povertà e alla banalizzazione del “moderno” (“...ti dico che noi, noi altri civilizzati del centro, siamo dei ‘selvaggi’...”), ma anche dalla volontà di far partecipe di queste emozioni gli amici più intimi (numerose le lettere, le cartoline e i resoconti inviati)


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Dioniso Gonzales, Venice Hospital di Le Corbusier (interpretazione)

con la consapevolezza sempre più chiara, via via che il viaggio si arricchiva, di non poter più eludere l’incontro-confronto con l’architettura. Dalle prime descrizioni letterarie sulle bellezze del paesaggio e le meraviglie della natura i ‘Carnets’ di viaggio denunciano, sempre più interessi e osservazioni sulla luce, sull’organizzazione dello spazio, la tecnica costruttiva, la matrice geometrica e infine le dimensioni che ritornano quasi ossessive a ‘confermare’ in termini ‘matematici’ proporzioni e rapporti di ogni manufatto. Il paesaggio è allora riletto anche nella sua dimensione lirica ma in rapporto al costruito confrontato con la presenza e con la testimonianza dell’uomo. È una metamorfosi straordinaria di un percorso che ha trasformato un artista in un architetto. L’ineluttabilità dell’architettura seguita al ‘Voyage d’Orient’ non ha più dato requie a un uomo che ha intuito fin dall’inizio di un’epoca come non fosse possibile testimoniare il proprio tempo senza ritrovare le matrici delle proprie origini. Per Le Corbusier questo problema era presente al momento della nascita di un’epoca, quella cosiddetta ‘moderna’. È significativo che con l’ultimo suo progetto (1964), Le Corbusier torni in Italia, in una città unica come Venezia. Il Maestro era già avanti negli anni, probabilmente anche stanco e certamente amareggiato dopo tante battaglie. Ma davanti all’invito di confrontarsi con la città più “inverosimile e straordinaria” subiva ancora una volta il suo fascino e si lasciò coinvolgere in questo impegno. La rilettura dell’ultimo progetto di Le Corbusier, quello per l’ospedale di Venezia, rivela aspetti nuovi, attuali, che si offrono come momenti di confronto con i nostri problemi, le nostre preoccupazioni, le nostre speranze. Dal progetto emergono infatti: un atteggiamento chiaro del rapporto che intercorre fra architettura e città; un ruolo preciso che l’architetto assegna al manufatto architettonico come strumento per la costruzione del ‘luogo’; un dialogo fuori dal tempo e dagli ‘stili’ nel rapporto nuovo insediamento-tessuto antico; la ricerca di una ‘misura di intervento’ (l’échelle per dirla con Le Corbusier) che vuole dire innanzi tutto capacità di

relazionarsi e di interpretare il contesto urbano; il ribaltamento delle priorità nella gerarchia dei valori che tende a ricuperare e a privilegiare l’aspetto ‘umano’ rispetto agli elementi ‘tecnici’ dei nuovi programmi e delle odierne strutture. Accanto a questi dati mi pare opportuno accostare e ricordare la condizione di lavoro e di ricerca nella quale il progetto si è generato: quelle condizioni di ‘modestia e umiltà’ che si raggiungono “attraverso la conoscenza dei problemi, prendendo il giusto atteggiamento verso le nuove condizioni...”, dove “non si potrà essere altro che umili davanti al bisogno di ricercare... e non per paura...” come lo stesso Le Corbusier ha voluto ricordare nel corso della sua ultima intervista. L’attenzione e il rispetto per la città luogo di massima concentrazione delle fatiche e delle espressioni dell’uomo sono il dato emergente, l’indicazione di lavoro e di ricerca testimoniati da questo progetto. Attenzione e rispetto della città tuttavia, non equivalgono ad abdicazione creativa e subordinazione a una presunta superiorità o supremazia del contesto esistente rispetto alle nuove esigenze di intervento, anche e perfino nel contesto eccezionale di Venezia. L’indicazione dell’ultimo lavoro di Le Corbusier, il progetto per il nuovo Ospedale, appare innanzitutto un atto di fede e di coraggio nell’esperienza creativa e nell’esigenza, al di là della ragione, dell’espressione dell’uomo e dell’artista. Se, come architetto, ricompongo le tessere e le differenti componenti di questo progetto, mi ritrovo di fronte un atto creativo straordinario, che non può che commuovere per la generosità degli intenti e per le indicazioni che suggerisce per perseguirli. La realtà del fatto poetico, la consapevolezza della sua ineluttabilità per la vita dell’uomo, sono esigenze che nessuna componente tecnica o economica o funzionale, riuscirà mai ad annientare. E l’architettura, oggi, è anche e soprattutto resistenza verso quelle tendenze che vedono l’espressione del lavoro umano solo come ‘servizio’, come passaggio forzato per altri fini, e che rinunciano in tal modo alla possibilità di apprezzare e di gioire della sapienza e dell’invenzione nel grembo del proprio mestiere. È questo il valore che ci lascia il viaggio intellettuale e artistico di questo grande maestro - svizzero di nascita e universale - del Novecento. —

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Paul Klee, Ventriloquo, colui che grida nella brughiera (Bauchredner und Rufer im Moor), 1923, he Metropolitain Museum of Art, New York

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Paul Klee GILBERTO ISELLA

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aul Klee (nato a Berna nel 1879 e morto nel 1940 a Locarno, Canton Ticino) è unanimamente riconosciuto come una delle massime figure dell’arte contemporanea. Il Centro Klee di Berna, realizzato dall’architetto Renzo Piano, ospita dal 2005 la più grande collezione esistente dell’artista (quattromila opere circa, tra olii, tempere, acquerelli e disegni). Al crocevia delle avanguardie artistiche del primo Novecento (dal cubismo sintetico all’astrattismo), Klee è riuscito a creare un discorso visivo proprio, di grande coerenza e originalità. Mentre l’esperienza giovanile (vedute, ritratti, impressioni di viaggio, disegni illustrativi e caricature) è ancora impregnata del clima liberty e secessionista fin de siècle – oltre che dalla lezione di Cézanne - a partire dagli anni Dieci del Novecento, in cui egli frequenta il gruppo ‘Der Blauer Reiter’ (Marc, Macke, ecc.), la sua produzione acquisisce una cifra stilistica inconfondibile. Ecco capolavori come Cava di pietre (1915) Architettura con finestra (1919) o Il funambolo (1923), i quali fanno emergere i tratti distintivi (spesso dialoganti tra loro) di una scelta estetica del tutto personale: da un lato il formalismo geometrico (vedi il motivo dei quadrati magici, o la pavimentazione a losanga) e la sperimentazione del colore, dall’altro l’ideazione di figure fantastiche di volta in volta pensose, ludiche o ironiche – collocate in scenari narrativi o teatrali appena abbozzati - che molto devono all’espressività infantile e alle suggestioni dell’arte ‘selvaggia’. Da questo accattivante amalgama di razionalità e fantasia nasceranno a getto continuo nature morte, interni, piante e animali,

Paul Klee, Cava di pietre (Steinbruch), 1915, Zentrum Paul Klee, Berna

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cui si assommano composizioni di varia specie svincolate dalle leggi prospettiche, tendenti alla stilizzazione o al graffitismo. Le suggestioni tardoromantiche, ereditate da Klee attraverso molteplici letture (dai libri della swedenborghiana Blavatsky a Nietzsche e Klages), sono destinate a confrontarsi con il rigoroso razionalismo del Bauhaus, la celebre accademia multidiscipinare di Weimar poi trasferita a Dessau, fondata dall’architetto Gropius e in seguito soppressa dai nazisti. Klee vi tenne corsi di disegno e teoria artistica dal 1921 al 1931, fianco a fianco con Kandinsky, Itten, Moholy-Nagy e altri ancora. Il suo genio, per nostra fortuna, volava sopra i dogmi accademici: “Per noi valgono altri punti di vista, che riguardano solo in parte quelli della scienza”. E tuttavia Klee non ha mai rinunciato a riflettere sui fondamenti dell’arte, come testimoniano i suoi numerosi e densi scritti teorici. Riflessioni che, si tenga presente, s’inscrivono in una cornice ineludibilmente cosmologica. Occorre partire, al riguardo, da questo assioma: “L’arte non riproduce il visibile, essa rende visibile”. Vale a dire: sotto la scorza del reale si annidano le energie primarie e il processo evolutivo della natura, tutto ciò che alla normale percezione rimane nascosto.

Ogni opera va di conseguenza interpretata come tavola di riscrittura dell’ordine cosmico, il cui alfabeto grafico-pittorico consiste in punti, linee, curve e spirali che si svilupperanno in superfici. Partecipando “alla creazione di opere che sono una parabola dell’opera divina”, l’artista è un demiurgo. Una dimostrazione eloquente di questi princìpi la troviamo nel dipinto tardivo Senza titolo (o Composizione con frutti) del 1940, un fantasioso arabesco biomorfo dove possiamo intravedere l’evolversi delle entità elementari, un flusso che ricorda il bergsoniano slancio vitale. L’arte di Klee aborrisce la pesantezza. La creatura umana, radicata nella terra (“metà angelo, metà prigioniero”) lotta senza posa per sfuggire alla stasi. Nell’opera visiva forme e colori cercano trasparenze insolite, dando vita a un mondo immaginale che coincide con l’intervallo tra il terrestre e il sovraterrestre. Il Klee poeta ci informa poi che l’uomo – soggetto del desiderio – dimora in una vallata posta tra due montagne, quella degli animali e quella degli dèi: “Se uno leva lo sguardo in alto/ è pervaso da un vago, insopprimibile desiderio/ – egli che sa di non sapere – di quelli che non sanno di non sapere,/ di quelli che sanno di sapere”. —

Paul Klee, Scena davanti a una città araba (Szene vor einer arabischer stadt), 1923, The Metropolitain Museum of Art, New York

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Albert Gallatin Ministro del tesoro degli Stati Uniti d’America MAURO DELLA PORTA RAFFO

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al 1801 al 1814. Sotto due presidenti, Thomas Jefferson e James Madison. La più lunga e maggiormente produttiva permanenza al ministero del tesoro USA è vanto di uno svizzero!!! Nato a Ginevra nel 1861 e arrivato nel 1880 negli Stati Uniti, il Nostro si dimostrò da subito uomo politico di grande spessore e capacissimo economista. Eletto senatore, fu nominato segretario al tesoro da Jefferson. Per mandato proprio del terzo presidente, che considerava il debito nazionale “un cancro morale”, riuscì a ridurlo da ottantatre a quarantacinque milioni di dollari.

Attuò, poi, drastiche diminuzioni della spesa pubblica tagliando in particolare gli investimenti per l’esercito e la marina. Fu però in difficoltà a guerra del 1812 tuttora in corso, a seguito del sostanziale fallimento anche per l’opposizione del congresso degli atti da lui compiuti per ottenere finanziamenti a sostegno delle spese derivanti dal conflitto. Lasciato l’incarico ministeriale, fu a capo della delegazione USA che concluse il Trattato di Gand col quale si poneva termine alla predetta guerra. Con lui, altri due, importantissimi in futuro, uomini politici: John Quincy Adams e Henry Clay. Fu in seguito ambasciatore americano prima a Parigi e poi a Londra. Uno svizzero capace davvero di farsi onore in America. —

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Antoine-Henri de Jomini Il grande stratega e storico

militare svizzero e la Guerra di Secessione americana MAURO DELLA PORTA RAFFO

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erché Carl von Clausewitz sì e Antoine-Henri de Jomini no? Infinite le possibili ragioni. Fatto è che, ove si prescinda dal mitico cinese Sun Tzu, se si deve citare uno stratega militare di altissimo profilo è abitualmente al prussiano che si fa riferimento. È un errore? Certamente, dappoiché il coevo ed assai più longevo svizzero Antoine-Henri de Jomini (1779-1869) è quantomeno al medesimo livello. Vodese di buona famiglia, fin da giovanissimo il Nostro sognò la vita militare non tanto per l’ansia della battaglia quanto per poterne conoscere nei dettagli, studiare e spiegare tattiche, tecniche, strategie. Autore da subito di geniali opere appunto sull’arte della guerra, arrivò ben presto a servire, meglio coadiuvare, il maresciallo di Francia Michel Ney. Dipoi, eccolo da Napoleone che aveva letto i suoi scritti e lo apprezzava grandemente. Deluso, alfine, per i mancati riconoscimenti (i grandi uomini sanno di esserlo e le loro aspettative sempre altissime non devono essere tradite!), nel 1813 passerà al servizio dello zar di tutte le Russie Alessandro. Tutta la scuola russa di guerra è alle sue idee e ai suoi insegnamenti profondamente debitrice. Molto altro potremmo dire e scrivere qui e adesso dello Jomini in particolare guardando alla lunghissima collaborazione avuta e portata avanti addirittura fino alla Guerra di Crimea con la famiglia zarista. Di lui, prima di passare al nostro dunque accennato nel titolo, vanno peraltro almeno ricordate le principali opere: ‘Traité de grande tactique’, 1805, ‘Histoire critique et militaire des guerres de la Révolution’, 1810,

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‘Vie politique et militaire de Napoléon, 1827 e ‘Précis de l'art de la guerre’, 1838. Ma veniamo al dunque. Stati Uniti d’America, Guerra di Secessione. Ecco quanto ebbi a vergare nel mio ‘I signori della casa Bianca’ poi ripreso in ‘Americana’. Trattavo allora il tema della sostanziale, documentatissma incapacità militare USA nel tempo: “Il massimo (o il minimo), però, si ebbe all’epoca della Guerra di Secessione, allorché, per oltre un anno, i due eserciti contrapposti (ovviamente, quello nordista e quello sudista) si scontrarono senza che l’uno o l’altro riuscisse davvero a prevalere. Fatto è che alla guida degli schieramenti in campo erano ufficiali superiori tutti provenienti dalla celebre Accademia di West Point e tutti allievi del medesimo maestro: Dennis Hart Mahan. Questi, fervente ammiratore dello storico e stratega di origini svizzere (anche se la sua carriera militare ai più alti livelli si svolse dapprima in Francia e poi in Russia) barone Antoine-Henri de Jomini, alle sue teorie si ispirava e solo quelle insegnava. Necessariamente semplificando (le pagine in merito sono millan-

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ta), Jomini sottolineava in combattimento l’importanza della conquista del territorio e la necessità della presa della capitale del nemico. Aveva il barone delineato una situazione di battaglia nella quale i due eserciti erano schierati su linee opposte, una difensiva e l’altra offensiva, e aveva predisposto una serie di dodici diagrammi che illustravano i possibili ordini da impartire ai combattenti. Visto che in ben cinquantacinque dei sessanta maggiori scontri armati di tutta quella guerra i generali di entrambi gli eserciti erano stati allievi da Hart Mahan, si comprende come l’uno avesse sempre in mente cosa intendesse fare l’altro e riuscisse facilmente a contrastarlo. Da quella situazione si uscì solamente dopo la battaglia di Antietam – 17 settembre 1862 – quando finalmente si comprese che era necessario un differente metodo di conduzione della guerra. Le armate del Nord, affidate di li a poco al futuro presidente Ulisse Grant, presero il sopravvento e, malgrado la strenua ed eroica resistenza, il Sud secessionista, a corto soprattutto di uomini e di armi, fu alla fine sconfitto”. —


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Eduard Locher: la cremagliera del Pilatus ma non solo A CURA DI SOFIA FRASCHINI

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n principio furono il vapore, la ruota e l’idea di sfidare fisica e meccanica per raggiungere la vetta. Prende le mosse da qui il sistema a cremagliera più rivoluzionario e rapido del mondo, quello del monte Pilatus nelle Prealpi svizzere, per il quale Eduard Locher è ricordato come un genio dell’ingegneria. Secondo di tre figli, Eduard nacque a Zurigo nel 1840 fondando, insieme al fratello, la Locher e C. (1872) che eseguì grandiosi lavori, tra cui il traforo del Sempione dall’imbocco settentrionale (1898-1906). A lui, in particolare, si deve però un’opera d’ingegneria molto affascinante e che permette ancora oggi a migliaia di turisti di risalire sulla vetta del Pilatus, altura un tempo abitata solo da pastori celti, e inaccessibile per molti anni a causa di una leggenda. Secondo la credenza, infatti, l’anima del governatore romano Ponzio Pilato, che condannò a morte Gesù, trovò rifugio in uno dei laghetti della zona. Nel 1387, la paura del fantasma - che si pensava potesse causare violente tempeste - spinse l’allora Consiglio di Lucerna a vietare la scalata del monte. Una proibizione che Eduard Locher decadde soltanto secoli dopo

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quando crebbe l’interesse dei turisti per le meraviglie del luogo. E Locher decise di realizzare una cremagliera per darvi risposta. Un progetto per il quale, allora, quasi tutti lo presero per pazzo. Ma nel 1899, quando furono inaugurati i quattro chilometri e seicento metri da Alpnachstad al Pilatus Kulm, quella che era solo un’idea divenne realtà, rivoluzionando per sempre la tecnologia ferroviaria. “Stay foolish” avrebbe detto, un secolo più tardi, Steve Jobs. E la “follia” di Eduard Locher fu quella di realizzare un’infrastruttura che sfidò pendenze del quarantotto per cento e oltre duemila metri di altezza: un sistema a cremagliera che si basa su due ruote orizzontali con un ingranaggio dentato posto a lato, anziché sopra le rotaie, che si incastra con le due ruote della locomotrice, evitando che i denti fuoriescano dalla loro sede. Meccanica a parte, la follia visionaria di Locher diventa ancora più evidente quando salendo con il “trenino” in vetta si vede con i propri occhi la parete di roccia grigia, un costone che scoraggerebbe il più intrepido degli alpinisti. Eppure, dente dopo dente, il treno si arrampica senza fatica. Con uno stato maggiore composto di venti persone tra ingegneri e tecnici, Locher diresse personalmente i lavori che occuparono, oltre a centoventi/duecento operai locali, anche seicento operai italiani. L’impresa fu estenuante. Basti pensare che furono usati quattro chilometri e seicento metri di placche di granito per le fondamenta, e altrettanti per le parti in acciaio dei binari lunghe tre metri ciascuna. E che grosse sezioni dell’opera furono costruite su tratte impraticabili con operai in bilico sulle pareti rocciose. L’opera, super tecnologica per l’epoca ed immaginabile solo nei libri di Jules Verne, fu terminata in quattrocento giorni e il 27 agosto 1888, una locomotiva raggiunse per la prima volta la vetta, il che rappresentò un avvenimento sensazionale. Il suo sistema divenne così noto che fu addirittura presentato all’Esposizione mondiale di Parigi del 1889. E fa ancora più specie pensare che la cremagliera del Pilatus non sarebbe forse mai esistita se Locher non avesse perso il padre in età giovane. Questo lutto ne cambiò definitivamente il destino. Eduard, dopo aver frequentato le scuole industriali di Zurigo,

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entrò infatti nel mondo del lavoro con l’intenzione di dedicarsi all’industria tessile. La morte prematura del padre, impresario di costruzioni, lo costrinse però ad assumere nel 1861 la direzione dell’azienda familiare e, in unione col fratello, nel 1872, fondò la società Locher e Co. Tornando alla cremagliera, il suo funzionamento regolare ebbe inizio il 4 giugno 1889. E il suo successo fu immediato. Malgrado il prezzo esorbitante della risalita - dieci franchi, lo stipendio settimanale di un operaio - i biglietti andavano a ruba. Nei primi sei mesi di esercizio si registrarono trentasettemila passeggeri, quattro volte di più del previsto. Ai tempi della trazione a vapore, tra le trentamila e le cinquantamila persone ogni anno si fecero trasportare in vetta e, con la conversione della linea all’elettricità, nel 1936, questo numero aumentò toccando quota duecentocinquantamila (fatta eccezione per gli anni della guerra). Dal 1956, la vetta del Pilatus è raggiungibile anche dall’altro lato della montagna, cioè partendo da Kriens, vicino Lucerna, grazie a una cabinovia panoramica fino a Fräkmüntegg e di là con una grande funivia a due cabine da quaranta persone ognuna. Così è diventato possibile l’anello d'oro, un’escursione circolare in cremagliera e cabinovia, abbinata a una crociera sul Lago dei Quattro Cantoni, che non manca di entusiasmare ogni estate le migliaia di turisti che visitano la regione di Lucerna. Ancor oggi, la ferrovia del Pilatus è la cremagliera più ripida del mondo (9-12 km/h) e non smette di attrarre i turisti. Anche per l’opera di ingegnereia ferroviaria che rappresenta. Oltre al Pilatus, Locher è ricordato per aver costruito edifici (Stadttheater, Museo nazionale), viadotti ferroviari, gallerie (galleria elicoidale Gurtnellen-Wassen, 1878-82; galleria del Sempio-

ne, 1898-1906), linee ferroviarie e tranviarie (Biberbrugg-Goldau, valle della Sihl, Dietikon-Bremgarten, valle del Sernf, StansstadEngelberg) e centrali idriche. In particolare Locher fu incaricato dello studio del progetto che riguardava la parte nord della Galleria del Sempione, tratta ferroviaria che collega l’Italia (val d’Ossola) con la Svizzera (alta valle del Rodano). Un traforo i cui lavori presentarono molte difficoltà, sia per la notevole lunghezza dell’opera, sia per la caratteristica delle rocce (a volte durissime e a volte friabili). Inoltre durante lo scavo si continuavano ad incontrare sorgenti d’acqua, sia calda che fredda, che creavano ulteriori ostacoli all’avanzamento dei lavori. Gli operai impegnati alla sua costruzione erano sottoposti a notevoli sbalzi di temperatura, soprattutto d’inverno. All’interno della galleria, infatti, la temperatura poteva raggiungere anche i cinquantacinque gradi centigradi. E proprio a Locher, ancora una volta, si deve un’idea chiave: costruire gallerie parallele al traforo per favorire la ventilazione e raffreddare l’aria mediante docce d’acqua e grandi ventilatori. Una soluzione che velocizzò i lavori e abbassò la temperatura aiutando notevolmente le maestranze: “Se la salute degli operai fu sempre ottima, se il famoso anchilostoma duodenalis del Gottardo non si sviluppò al Sempione, lo si deve alla abbondante e fresca ventilazione del tunnel” si legge in un articolo del tempo. E così in poco più di sei anni furono conclusi i lavori con un avanzamento medio di otto virgola sessanta metri al giorno, contro i cinque e cinquanta del Gottardo e i due giorni e mezzo del Cenisio. Merito delle fatiche di tantissimi uomini, e del genio di uno, in particolare. —

Il traforo del Sempione

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erché Il divino dono della leggerezza - in latino “levitas”, contrario di “gravitas” - è concesso a pochi, sia nella vita che in letteratura. Molti scrittori, anche grandi, non la possiedono. Manzoni non la possiede, Tolstoj nemmeno, Dostojevskij ne è baciato solo ne “Le notti bianche”... Robert Walser sembra che con la leggerezza abbia un’affinità congenita. È come se non aderisse al suolo della scrittura, come se scrivesse con due piume o con due ali anziché con due mani. Gli anni in cui vive sono quelli della più feconda stagione della narrativa nordica, gli anni di Franz Kafka, Hermann Hesse, Robert Musil, di Marcel Proust, James Joyce, Virginia Woolf. Qualcosa di fondamentale sta cambiando nel romanzo, non si sente più il bisogno di trame possenti, di impalcature architettonicamente maestose, tutto sembra incrinarsi in una sottigliezza inquietante, in una specie di frantumazione dell’io, che si sgretola insieme a tutti i valori e i punti di riferimento della cultura borghese tradizionale. In più, nel caso di Walser, ci sono gli elementi dell’elveticità e della follia. La Svizzera, il paese che Guido Morselli ha definito con la consueta arguzia “repubblica platonico-alberghiera”, ha a che fare più che ogni altro paese con la immobilità e la sospensione del nulla, e Robert Walser aggiunge a questa stralunata extravaganza una personale propensione al fantastico visionario incastonato nella più elementare quotidianità. Leggere Walser equivale a entrare in una dimensione parallela a quella reale - ma questo accade invero con ogni scrittore che meriti tale nome - per meglio dire equivale a entrare in una “no man’s land”, in una sorta di enorme bolla di sapone, con la stessa facilità con cui si entra in una stanza dalla porta aperta. All’inizio sembra tutto assolutamente naturale, banalmente naturale: le situazioni descritte sono di una semplicità disarmante (un artista seduto alla scrivania, un giovane studente nella sua camera di collegio) poi alla seconda pagina ci troviamo già rapiti da un improbabile incantesimo: il giovane artista esce per una passeggiata in un villaggio che ha tutte le caratteristiche di un libro per bambini, il giovane studente dichiara di frequentare una scuola in cui non si insegna nessuna disciplina ma solo l’arte del servire. Sto parlando di un racconto, “La passeggiata”, e di un romanzo, “Jakob von Gunten”, in cui si condensa mirabilmente tutta la poetica walseriana. Nel racconto incontriamo un irriducibile “flaneur”, un “passeggiatore”: uno di quei personaggi che non “vivono” l’umana vicenda con tutti i suoi travagli, ma la “rasentano”, appunto, camminando in un aereo compiaciuto distacco da tutto ciò che potrebbe arrecare disturbo. Lasciata la sua camera, o “stanza degli spiriti”, l’innominato protagonista, in cui è legittimo anzi ovvio riconoscere Walser stesso, si concede il lusso di una promenade del tutto disimpegnata per le strade del suo villaggio fino al parco, e incontra un limitato numero di persone, tutte molto rispettabili e molto insignificanti; alla fine della passeggiata, nel parco, raccoglierà un mazzo di fiori per una non identificabile fanciulla, e sarà colto improvvisamente da un’amara riflessione sull’“infinita vanità del tutto”. Nel romanzo, il giovane Jacob von Gunten, dopo averci

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descritto i suoi strani automatici compagni, si inoltra nei labirinti del collegio sotto la guida della misteriosa signorina Benjamenta, sorella del preside col quale alla fine della storia fuggirà in un (metaforico?) deserto. Che cosa è accaduto, nel corso del racconto e del romanzo? Sostanzialmente nulla, e nello stesso tempo tutto. (“Todo es nada”, si sa: è scritto anche sul soffitto di una stanza del Vittoriale di d’Annunzio). Nulla, perché di tutti i fatti esposti nessuno ha costituito un’esperienza che si possa definire “reale” o “normale”; tutto, perché l’essenza del “reale” è stata misteriosamente penetrata, “attraversata” e assorbita da un io che non può darne spiegazione alcuna e si dissolve insieme a ciò che ha visto e (non) vissuto. “Svanire è la ventura delle venture”, Montale docet. L’una e l’altra opera sono proiezioni narrative e simboliche della parabola esistenziale. E l’elemento che le rende diverse dalle opere di qualsiasi altro narratore è proprio la leggerezza del tono, la sua disorientante evanescenza. Ne “I fratelli Tanner”, altro capolavoro walseriano, il giovane Simon vaga alla ricerca della propria identità tra boschi e città; ne “L’assistente” il protagonista - il solito nullafacente-vagabondo specchio dell’autore - viene assunto da un ricco mercante di orologi per assisterlo nel lavoro e al fallimento del padrone resta a fare il damo di compagnia alla di lui consorte, albagiosa signora annoiata della vita. Ci troviamo sempre di fronte a personaggi privi di qualsiasi autorità,


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ma anche di qualsiasi “volontà”; eppure non si tratta di apatici-abulici-inetti, non c’è alcuna pretesa di psicologismo: sono semplicemente delle ombre. Ma non è forse quello di un’ombra il passo dell’uomo lungo il cammino dell’esistenza? Un’altra caratteristica che rende Walser unico è il fatto di riuscire in modo parimenti perfetto sia nella narrazione di romanzi che nella narrazione di racconti. La misura breve, spesso brevissima, dà risultati sorprendenti sia nella forma del piccolo “diario di viaggio” (come nei brani de “La rosa”) sia in quella della “favola” o del “tema in classe” (“I temi di Fritz Korcher”) come pure nelle innumerevoli prose poetiche (“Vita di poeta”) e nelle minime improvvisazioni teatrali. Qualsiasi angolo di paesaggio è un’isola del tesoro, qualsiasi figura un personaggio che viene voglia di disegnare, tanto ci risulta subito simpatico e familiare. Qualsiasi asperità si stempera in una catatonica, irreale gentilezza. Qualsiasi inconveniente o dolore si trasforma in una curiosità incantata e incantevole: è il miracolo della pura poesia. Perché poesia e non altro fu l’esistenza di Robert Walser, questo incorreggibile “sfioratore” della vita che non seppe mai cosa fosse una casa, una relazione d’amore, una famiglia, e restò sempre prigioniero della propria fantastica meraviglia. Dopo più di trent’anni trascorsi nel manicomio di Herisau, luogo in cui si trovava decisamente a suo agio, una notte di Natale uscì per una passeggiata dalla quale non sarebbe più tornato: una coltre di neve candida e copiosa ricoprì il suo corpo nel fitto della boscaglia in cui si era avventurato inseguendo la labile fantasmatica sembianza di qualche fata. Forse, prima dell’ultimo battito del suo cuore fanciullo, gli riuscì di vederla, e fu felice di rifugiarsi e svanire nell’unico abbraccio a lui concesso dalla sorte. Robert Walser, narratore e poeta “assoluto”, testimonianza del luminoso miracolo della Scrittura che sostituisce la vita. —

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Annemarie Schwarzenbach, angelo devastato e imperdonabile SILVIO RAFFO

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n un’ipotetica hit parade di ‘bad girls’ della letteratura, dovremmo collocarla senz’altro ai primi posti. Bad girl nel senso di ‘imperdonabile’ nell'affermare se stessa, la sua ardente urgenza di vita, la sua rivolta contro un mondo assurdo e contrario alla bellezza. Annemarie Minna Renée Schwarzenbach nasce il 23 maggio 1908 in una famiglia tra le più ricche e potenti della Svizzera (suo padre è forse il più facoltoso produttore di seta del mondo). A Bocken, la tenuta sul lago di Zurigo chiamata da tutti “il castello”, la sua infanzia trascorre spensierata, in interminabili scorribande coi fratelli fra prati colline e torrenti. La madre, Renée Mille, discendente da una contessa di Bismark, è una donna orribile, una lesbica nazista con una passione sfrenata per i cavalli, che preferisce nettamente a qualsiasi essere umano. Detesta con tutta se stessa una figlia così intelligente ed estrosa, e fa di tutto per rovinarle la vita (distruggerà anche molti dei suoi scritti per invidia e timore che contengano allusioni a lei e alle sue mostruosità). Fin da piccola Annemarie predilige abbigliamenti maschili (i pantaloni di cuoio che Renée le ha portato da Monaco diventano presto la sua divisa, e sono anche l'unico legame concreto che possa avere con la madre). Il padre Alfred, “colto, riservato e superiore” è più spesso assente che presente, si reca ogni anno negli Stati Uniti per controllare l'andamento delle fabbriche e non si oppone alla relazione di sua moglie con una nota cantante. Da questo paradiso-inferno natale Annemarie si allontanerà per una serie di viaggi, soprattutto in Oriente, che altro non sono se

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non fughe alla ricerca del suo baricentro vitale: il viaggio più significativo sarà senza dubbio quello in Persia con Ella Maillart: è la prima volta che due donne - Thelma e Louise ante litteram - compiono da sole in automobile un viaggio del genere (siamo ancora negli anni Trenta). Di queste infaticabili esplorazioni in luoghi “alla fine del mondo”, che sono per lei metafora dell'alterità ancestrale in cui abita da sempre il suo spirito selvaggio, Annemarie dà un rendiconto dettagliato, insieme realistico e romanzesco, in più di un libro e in un buon numero di saggi giornalistici: il suo si rivela uno stile "liricorapsodico" da un lato, e fortemente critico dall'altro. La difficoltà di rapporto con l'altro - che deriva dalla difficoltà di rapporto con il suo io e ancor più col suo sé - causerà scontri, allontanamenti, relazioni effimere e assurde: con Ella litigherà violentemente e la separazione sarà inevitabile, ai due figli di Thomas Mann (che di lei aveva detto “Peccato non sia un ragazzo, sarebbe stata un bellissimo efebo”) sarà legata morbosamente negli ultimi anni, divenendo vittima delle loro angherie - sia Klaus sia Erika, in modi diversi, la danneggeranno in modo irrepa-

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rabile - arriverà perfino a unirsi in matrimonio con un uomo di cui non le importa in realtà nulla e col quale rimarrà pochissimo tempo, e il tunnel della droga - prevedibile approdo di un'esistenza lacerata e raminga come la sua - sarà il capitolo finale. (Molto appropriato il titolo della biografia di Areti Georgiadu, ‘La vita a pezzi’). Il nomadismo è per Annemarie una sorta di vocazione: ai viaggi in Oriente (Persia, Russia, India, Afganisthan) fa da contraltare la ‘grande mela’, dove trova altro materiale per le sue fotografie (arte coltivata come alternativa alla scrittura, con esiti di sorprendente modernità) e per le sue avventure sentimentali: particolarmente intensa quella con la scrittrice Carson McCullers, altra ‘bad girl’ dalla personalità geniale e ‘imperdonabile’ ribelle. La dipendenza dalla morfina rende la vita di Annemarie sempre più difficile, ma non viene mai meno il suo estro creativo: la narrativa le risulta congeniale sia nella forma del racconto (‘La gabbia dei falconi’) sia in quella del romanzo (il suo capolavoro è forse ‘Sibylle’, raffinatissima vicenda di amore, inganni e solitudine tra le luci e le ombre di una Berlino sull'orlo del dopoguerra, agli


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inizi degli anni Trenta). Un destino come quello di Annemarie Schwarzenbach, “angelo devastato” dal demone dell’autodistruzione, non può certo contemplare una vita lunga e munifica di doni. La banalità dell'incidente che causa la sua morte resta comunque beffarda e quasi incredibile: nella nativa Svizzera, a Sils Maria, (il buon retiro anche di Friedrich Nietzsche) per cedere il posto in carrozza a un’amica usa per un tratto di cammino impervio l’amata bicicletta, da cui cade finendo malamente sul selciato e picchiando la testa. A casa - e qui alla beffa subentra l'orrore - la madre la lascia praticamente morire senza farle avere le cure necessarie. Leggiamo da una pagina di Sybille un brano di sottile, feroce introspezione, in prima persona maschile: “Mi sto abituando a essere solo. Tutto è irreale e diverso, assai lontano dalle solite cose. Vorrei essere liberato da qualcosa, ma ho paura di fare un respiro profondo. Vedo sempre e soltanto i prati, le colline gri-

gio-brune e gli alberi nel bosco, e non penso al fatto che esistono altre regioni, campagne o città, dove ritornerò. Non voglio saperne. Si può vivere da soli? È possibile sottrarsi alle solite forme dell'esistenza?” Domanda di abissale profondità quest'ultima: lacerante e terribile. Annemarie ci ha provato: ha provato a combattere il grigiore e la durezza di una vita arida e convenzionale, ha provato a evadere dalla gabbia di un sistema soffocante e di un universo in crisi, ma ha trovato solo disperazione e follia, incomprensione e falsità. Ma nella scombinata labirintica babele di cui è stata protagonista, in un’intensissima esplorazione delle più disparate esperienze ‘proibite’ dal filisteismo del suo mondo, si è mantenuta sempre fedele a un diktat: “Bisogna riconoscere certe necessità della vita. Ciò non ha nulla a che vedere con i pregiudizi sociali, ma con la nostra anima, con il nostro rapporto con Dio”. —

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Rolex Il testo dell’articolo è basato sul contenuto dell’intervista concessa dal presidente del consiglio di amministrazione di Rolex Bertrand Gros a Bastien Buss, intervista pubblicata su ’Le Temps’ il 14 giugno 2014.

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entodieci anni. La storia di Rolex, marchio dell’orologeria svizzera che ancora oggi fa sognare gli appassionati delle lancette, parte da molto lontano. Eppure questo business – che è prima di tutto un’idea – ha l’anima e il carattere del ’qui e ora’. Così, pur nell’innovazione, paradossalmente per Rolex il tempo sembra essersi fermato. Non a caso, parlando del ’mito’ dell’orologeria svizzera, il presidente del consiglio di amministrazione Bertrand Gros cita tre uomini che sono stati determinanti nella storia dell’azienda: Hans Wilsdorf , André Heiniger e Patrick Heiniger. Il primo, che insieme al fratello fondò nel 1905 Rolex, era “un uomo del tutto eccezionale, ha inventato l’orologio automatico e impermeabile (a tenuta stagna).

Roger Federer. © Rolex/Sophie Ebrard

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E aveva, come filo conduttore, un’ossessione per l’eccellenza e la performance. Basti pensare che legò il proprio nome a imprese sportive come la scalata al monte Everest, la discesa nella fossa delle Marianne, la traversata a nuoto della Manica. Valori che tutt’oggi ci ispirano e sono il fondamento del nostro marketing”. Il presidente Gros parla nel “sancta sanctorum” della società – all’undicesimo piano della gigantesca sede di Rolex nel quartiere Le Acacie di Ginevra – e ricorda altresì come “il signor Wilsdorf volesse orologi sportivi, eleganti, chic e che resistessero a tutte le intemperie”. Idee chiare e una base solida che, negli anni Sessanta, sposarono una scelta strategica vincente. “Proprio quando l’orologeria si orientò prevalentemente all’elettronica e agli orologi al quarzo, l’amministratore delegato dell’epoca, André Heiniger, vi si oppose con fermezza intuendo quanto l’orologio meccanico rispecchiasse appieno le capacità dei nostri artigiani orologiai” spiega Gros a mezzo secolo di distanza riscontrando come, alla fine, il tempo “gli abbia dato ragione”. Una scelta controcorrente che all’epoca apparve forse folle, ma che ha dato a Rolex un vantaggio concreto: “ci ha concesso di precedere di anni i nostri concorrenti che, in seguito, hanno poi fatto marcia indietro rispetto all’orologio meccanico”.

Placido Domingo. © Rolex/Mario Testino

Una situazione che come una sorta di ’selezione naturale’ nell’evoluzione del settore ha messo fuori gioco diverse aziende incapaci di tenere il passo. Nei primi anni Novanta ad Andrè Heiniger, succedette il figlio Patrick, la cui intuizione fu quella di capire che Rolex aveva bisogno di continuare ad essere una maison completamente verticalizzata a livello produttivo, recuperando i fornitori più strategici per integrarli nelle strutture del gruppo.

La sede centrale di Rolex a Ginevra

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Memorie Dissensi & Discordanze

In quegli anni, racconta Gros, sono stati poi “modernizzati e allargati i siti di produzione per permettere al gruppo di avere un’autonomia, una flessibilità oltre misura, indispensabile alla nostra espansione”. Una storia fatta dunque di grandi uomini, di scelte, ma anche di un pizzico di ’mistero’ visto che lo stesso Gros ammette di sorprendersi ancora, a volte, della straordinaria notorietà universale di Rolex. E chissà che ad alimentare il mistero non contribuisca anche la strategia ’low profile’ adottata dall’azienda sia dal punto di vista della comunicazione, sia a livello finanziario. Se, infatti, a livello pubblicitario sono predilette la dimensione sportiva o culturale e i programmi filantropici come ’Mentors e Protégés’ e ’Prix Rolex allo spirito d’impresa’, a livello finanziario la società ha scelto di non essere quotata e, quindi, di tenere completamente al corrente dei numeri del business solo l’azionista, la Fondazione Hans Wilsdorf. Dettagli a parte, Gros rileva comunque come quello appena trascorso sia stato un anno record. Un dato che fa notizia visto che proprio nel 2014 tanti marchi della moda di lusso - che finora avevano resistito alla crisi economica – hanno iniziato ad essere intaccati dal calo della domanda anche nei mercati a più forte crescita. Guardando con fiducia al futuro, nel 2015 ci sarà anche un cambio al vertice: Gian Riccardo Marini, da 4 anni Direttore Generale, passerà il timone a Jean-Frédéric Dufour. Non tanto perché l’azienda abbia oggi bisogno di nuovi manager visto che “va tutto per il meglio nel migliore dei mondi possibili”,

spiega Gros citando Candide, “Ma perchè dobbiamo dare forma alla futura generazione che dovrà dirigere l’azienda nei prossimi quindici o vent’anni”. D’altra parte il brand Rolex ha un secolo di storia alle spalle e oltre diecimila dipendenti nel mondo e tutto ciò non si inventa da un giorno all’altro senza programmazione e senza individuare in anticipo le sfide: “A partire dalla Cina, dove Rolex si muove con cautela, fino ai Paesi emergenti che qualche preoccupazione destano nel medio termine . In generale”, aggiunge Gros, “i mercati tradizionali si comportano comunque bene. Negli Stati Uniti le performances sono addirittura in crescita”. La stella polare resta comunque sempre quella che “ci ha insegnato il nostro fondatore. Noi coltiviamo il senso dell’esclusività e di una certa rarità” per cui l’obiettivo resta quello di produrre non più di ottocentomila orologi l’anno. Come resta immutata l’idea di presenziare in più mercati, ma senza avere boutiques e privilegiando il target di negozi multimarche con l’idea di offrire più scelte ai consumatori. “Sta a noi convincerli e quando optano per un Rolex è una vittoria”. Una strategia che sembra dare costantemente i propri frutti. Per Rolex era ed è ancora una questione di immaginario collettivo tra una generazione e l’altra. Così, “se gli alberi non salgono fino al cielo, possiamo tuttavia pensare che il marchio continui su questa strada. D’altronde”, conclude Gros “lo status symbol del marchio, il nostro spirito innovativo, la nostra cultura d’impresa dovrebbero continuare a colpire le nuove generazioni in modo universale”. —

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Vista dell’hotel-simbolo di St Moritz. Nell’altra pagina, rendez vous sul ghiaccio davanti al Badrutt’s Palace (1900)

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Il Palace Hotel di St Moritz D&D INCONTRA IL DIRETTORE HANS WIEDEMANN

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l Palace Hotel è l’albergo simbolo di St Moritz; che cosa comporta mantenere la tradizione e allo stesso tempo essere al passo con le richieste sempre nuove della clientela? Il Badrutt Palace Hotel è un hotel leggendario, la famiglia Badrutt è da sempre pioniera nel campo dell’hotellerie. Johannes Badrutt convinse un piccolo gruppo di turisti inglesi che frequentava St Moritz durante l’estate a tornare nei mesi invernali, promettendo sole, sport e divertimento: questi furono entusiasti dell’idea e apprezzarono moltissimo la vita invernale sulle Alpi. Fu così che nacque il turismo invernale! Credo che il segreto sia non scordare mai la nostra storia, la tradizione e il senso del luogo, tutte cose che i nostri ospiti riconoscono e apprezzano molto. Ma allo stesso tempo siamo i grado di evolverci e rispondere a nuove domande ed esigenze. Basta pensare per esempio alla nostra area Benessere: l’abbiamo totalmente rinnovata fra il 2007 e il 2010 in tre fasi e ora siamo in grado di offrire un’area unica dove i nostri ospiti possono godere di trattamenti esclusivi, rilassarsi, fare ginnastica o anche semplicemente goderne. Amiamo stupire i nostri clienti con qualcosa di unico. Quest’inverno abbiamo aperto il nuovissimo ristorante La Coupole/ Matsuhisa@Badrutt’s Palace nell’area dove nel 1913 fu costruito il primo campo da tennis indoor da Hans Badrutt. Cosa vuole dire dirigere uno dei più’ famosi ed importanti

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L’area wellness coperta

hotel del mondo? È un onore lavorare al Badrutt ed è una grande soddisfazione vedere i nostri graditi ospiti tornare negli anni. Il nostro hotel ha il settanta per cento di ospiti affezionati e questo è per l’intero organico motivo di vanto. Come è cambiata la clientela negli anni? Fin dalla sua apertura nel 1896, il Badrutt Palace ha sempre goduto di una clientela internazionale. Questo non è cambiato negli anni e siamo sempre lieti di accogliere clienti provenienti da tutto il mondo. Com’è cambiata St Moritz negli anni? Fin dall’inizio del turismo invernale nel 1864, St Moritz è stata una delle mete piu’ ricercate e ambite al mondo, amata per l’ospitalità, gli sport, la cucina, il divertimento e gli eventi di qualità superiore come la Coppa del Mondo di Polo o il leggendario White Turf.

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Ciò non di meno, rimane sempre un piccolo villaggio nel cuore delle Alpi, un nido di tranquillità fra i laghi cristallini e le punte innevate delle montagne... Ecco perché generazioni e generazioni di clienti si susseguono. Quali i progetti per il futuro? Stiamo continuando a investire in prodotti per i nostri ospiti. Dopo aver rinnovato negli ultimi due anni, il quinto, il sesto e l’ottavo piano, continueremo quest’anno con il settimo e il prossimo con il quarto. Siamo alla ricerca di un hotel sul mare, un progetto che mi sta molto a cuore. L’obiettivo è quello di trovare una destinazione estiva e marittima per i nostri clienti offrendo i medesimi servizi ed esperienza che loro stessi conoscono del Badrutt Palace Hotel di St Moritz. Un altro progetto è quello di avere un giorno una nostra fonte d’acqua ed essere in grado di servire la nostra acqua fresca di montagna ai nostri ospiti. —


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Sopra, la suite Hans Bradutt

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ph. Roberta De Paoli

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Reto Mathis, un’eccellenza svizzera d’oggi Chef appassionato e imprenditore gastronomico di successo

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er oltre venti anni, i fans del gourmet e le celebrità si sono incontrati con gli appassionati di sport invernali e le rispettive famiglie da Reto Mathis a Corviglia, s St. Moritz, ad un’altitudine di 2.486 metri. “Sempre qualcosa di straordinario in una fantastica location” è il motto di Mathis. L’imprenditore gastronomico di successo e pioniere della cena di classe in montagna è certamente uno dei personaggi più famosi in Engadina, oltre che nel mondo, per essere il co-fondatore e presidente del Gourmet Festival di St. Moritz. L’arte culinaria appartiene a Reto Mathis fin dalla nascita. Nel 1967, suo padre, Hartly Mathis, decise di trasferirsi in montagna, dopo aver lavorato come chef personale dello Scià di Persia e come chef de cousine presso l’hotel a cinque stelle Suvretta House a St. Moritz, oltre che al Badrutt’s Palace e al Kulm Hotel. Con l’apertura del suo primo ristorante di montagna per gourmets volle dimostrare che un rifugio per sciatori può offrire più di qualche salsiccia e un piatto di spaghetti. Portò sulle vette la cucina d’autore, con squisite creazioni che non persero mai quel tocco particolare della realtà circostante. La Marmite di Corviglia divenne rapidamente il luogo d’incontro di ospiti illustri, che diedero un grande contributo alla ben nota fama di St. Moritz. Prima di subentrare al ristorante del padre nel 1994, migliorandone costantemente il livello culinario, Reto Mathis aveva già accumulato importanti esperienze durante gli anni della formazione, lavorando presso istituzioni di prestigio. Dopo l’apprendistato presso l’Hotel Palace di Lucerna con Otto

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Schlegel e Anton Mosimann, terminò la Lausanne Hotel School e lavorò per sei mesi presso il Dorchester Hotel di Londra. Frequentò poi l’American University of Hotel Administration di Cornell. In seguito, lavorò come assistente di direzione presso l’Hotel Schweizerhof di St. Moritz e infine accettò un incarico biennale presso il ristorante Alt Muenchen in Togo. La forte nostalgia per la montagna lo riportò, subito dopo, dal padre a Corviglia. Per più di venti anni, lo chef ha ricevuto ospiti da tutto il mondo, con calorosa accoglienza ed un’eccellente cucina, migliorata di giorno in giorno e impreziosita con innovazioni. Ciò accade da Mathis Food Affairs’, in un posto magico a Corviglia, dove appassionati gourmets e celebrità si mescolano agli amanti degli sport invernali e dell’arrampicata, alle famiglie e ai buongustai di ogni genere. Reto Mathis ama offrire esperienze culinarie dalle componenti esotiche, basandosi però sui piatti tipici dell’Engadina. Particolarmente famose sono le sue specialità al tartufo e caviale che gli sono valse il soprannome de ‘Il matto della montagna’. “La qualità del prodotto unita alla creatività innovativa sono le mie priorità assolute. Voglio che gli ospiti percepiscano le mie nuove ispirazioni, senza però abbandonare l’autenticità della mia cucina”, sostiene Reto spiegando la sua filosofia. “Naturalmente, un servizio perfetto deve accompagnare ogni

esperienza gastronomica per far sentire gli ospiti a proprio agio”. Altrettanto acclamata è la sua ‘Contemporary Alpine Cuisine’ presso il Cascade Restaurant & Polo Bar, in stile art deco, che Reto Mathis gestisce dal 2013 a St. Moritz. L’esperto imprenditore gastronomico organizza anche eventi esclusivi, come il St. Moritz Gourmet Festival e il St. Moritz Music Summit o l’ International Cooking Summit Chef Alps a Zurigo. Gli organizzatori di eventi di maggior rilievo, e società quali Audi, FIFA, o la Coppa del Mondo di Polo sulla neve di St. Moritz, così come le compagnie aeree Swiss e Lufthansa, si affidano alla sua esperienza e alla sua straordinaria fama di imprenditore gastronomico e fornitore di servizi catering, per gli eventi a cui partecipa un esigente pubblico internazionale. Fra una stagione e l’altra, Reto Mathis si ispira per nuove creazioni, viaggiando in tutto il mondo. Si tiene inoltre occupato, partecipando, ad esempio, come chef ospite, al festeggiamento della festa nazionale svizzera del 1 agosto, al Central Park di New York, con più di cinquemila partecipanti. Con il motto ‘Delizie per chi apprezza il vero gusto’ lo chef gourmet ha anche lanciato la sua linea di specialità gastronomiche, con prodotti selezionati, come l’olio al tartufo, tapenades o la marinata per barbecue a base di spezie ricercate. I prodotti delle ‘Specialità gastronomiche di Retho Mahis’ sono in vendita presso punti vendita selezionati o presso lo shop online al seguente indirizzo: www.delicatessen-rm.ch. —

Il St Moritz Gourmet Festival, appuntamento imperdibile per i palati fini

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Maura Wasescha V

ictor Hugo diceva che da una casa si può capire chi è il suo inquilino. Così, per il principio opposto, se una casa la vuoi vendere devi capire in primis chi è “l’uomo” giusto che la possa fare sua. E quali sono le sue esigenze profonde. Una mission che Maura Wasescha conosce bene quale protagonista, da 36 anni, di un mercato immobiliare stra-ordinario: quello di lusso in un Paese particolare come la Svizzera. Un nome, quello di Maura Wasescha, diventato brand delle dimore di alto livello. E non solo. Il suo business, nel tempo, si è allargato ai servizi alla persona unendo il gusto italiano alla perfezione elvetica. “Dolce far niente a Portofino. Neve candida sulle Alpi svizzere.
 Qualsiasi cosa desideriate: noi lo realizziamo. Non importa dove e
cosa desideri: noi lo realizziamo. Affinché abbiate tempo per il
vero piacere”. Una filosofia – quella che campeggia sul sito online della sua luxury service – che parte da lontano, sul finire degli anni Settanta, quando Maura entra nel mercato svizzero per salvare il posto di lavoro ad una cugina e inizia a conoscerlo dal profondo, lavorando prima alla stazione di St Moritz, poi come donna di pulizie e guardiana di case, dato che nessun diploma di studi estero era/è riconosciuto in Svizzera. L’approdo al mercato immobiliare svizzero è per Wasescha la svolta, una grandissima opportunità che oggi la posiziona in vetta a un settore che, lasciata alle spalle la mera compravendita, è soprattutto consulenza a tutto campo per il benessere del cliente. Che esigenze ha chi si rivolge a lei? Altissime, non fanno compromessi, è cambiata molto la clientela rispetto a vent’anni fa. Oggi, più che in passato, il cliente sa esattamente quello che vuole, soprattutto i miei che, viaggiando mediamente 150-200 volte l’anno, vedono tantissime cose e sanno sempre cosa vogliono. Quali sono state le richieste più strane che ha dovuto soddisfare? A livello di vendita ci sono richieste esaudibili che hanno riguardato per lo più mobili particolari, quadri o elettrodomestici. Quando si è trattato di affitti, invece, e di situazioni temporanee, non sono mancati personaggi che

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hanno chiesto parrucche, cappellini, baffi, e oggettistica varia da mettersi in viso per non farsi riconoscere. Altri clienti – in particolare dello show business – hanno richiesto, ad esempio, un’acqua che non è in vendita in Europa facendo viaggiare aerei fino a New York per procurarsela. Sempre dalla Grande Mela non sono poi mancate candele particolari, e bottiglie di vino d’annata. Dulcis in fundo: il manager che, scordatosi all’ultimo minuto del compleanno della moglie, chiama alle dieci di sera per farsi prendere il regalo. Fortunatamente conosco molti negozianti a St. Moritz che mi fanno favori anche a tarda sera. Qual è il suo cliente tipico, quindi? Devo dire che non c’è un cliente tipico. Sicuramente posso dare un’indicazione sull’età, persone dai 40 anni in su e famiglie. Per la maggior parte si tratta di una clientela internazionale. La sua scelta di occuparsi di un target di lusso che cosa comporta? Devi essere molto chiaro sugli obiettivi che vuoi raggiungere, se vuoi un certo tipo di clientela devi assolutamente puntare su un target alto. E non puoi avere compromessi, devi essere molto chiara sul traguardo. Quali requisiti deve avere una casa per essere nel suo portfolio?

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Deve superare i 300 mq e ogni stanza deve avere il proprio bagno dedicato. Non esiste più da almeno un decennio avere due stanze con un bagno da condividere. Se invece hai una casa grandissima dove puoi offrire 8/10 stanze da letto allora puoi scendere a compromessi per le stanze dei bambini o degli ospiti. Quali cose non dovrebbero mai mancare in una casa di lusso? Prima e importantissima è la cucina grande, la seconda è la sala grande magari divisa con qualche biblioteca, dipende anche dalla località, se sei al mare dovresti avere una piscina, un bel giardino e magari l’attracco della barca. In montagna si punta molto sulla posizione, una bella vista è indispensabile. Un’altra cosa fondamentale è la stanza padronale, ogni casa deve avere solo una stanza padronale di almeno 60/70 mq. Quando ha iniziato a occuparsi di mercato immobiliare com’era la situazione? Di lusso non si parlava, specialmente a livello di appartamenti non esisteva, ed era un mercato intoccabile e solo per pochissimi eletti, la situazione è molto cambiata in tutti questi anni, specialmente negli ultimi venti. Quali sono le località nella quali opera più spesso? Naturalmente St. Moritz con tutta l’Engadina, poi troviamo Zurigo, Gstaad e Ginevra a livello svizzero.


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A livello internazionale possiamo trovare l’Italia con le località di mare e montagna più famose oltre che la Francia, Spagna con qualche eccellenza anche oltre oceano. Quali sono i progetti immobiliari che le hanno dato maggiore soddisfazione? Diciamo che ogni progetto immobiliare mi fa provare l’ebbrezza di sentimenti ed emozioni, ma non è il prezzo che ti fa provare questa sensazione. Quale appeal ha oggi la Svizzera a livello immobiliare? Devo dire che siamo il miglior paese al mondo, a livello di sicurezza, qualita’ di vita,organizzazione ed economia. Non vedo quale altro paese possa essere meglio della Svizzera. A oggi chi investe qui, punta non solo sull’immobile, ma anche sul futuro. Cosa pensa si dovrebbe fare in Svizzera per mantenere sempre alto il mercato del lusso? Esattamente quello che ha fatto la Svizzera fino ad ora, anche se è stata criticata dai paesi confinanti. Quindi: una politica protezionistica non troppo esasperata che sia sempre finalizzata ad un target di prodotto medio alto.

Se dovesse individuare un mercato immobiliare emergente che potrebbe essere interessante per i suoi clienti, a quale guarderebbe? In questo momento guarderei l’est, Thailandia, Nuova Zelanda dove c’è tantissima possibilità di fare investimenti immobiliari. Che cos’è per lei il lusso? Il lusso come lo vedo io è la libertà di potersi permettere quello che si vuole quando si vuole e senza dare troppo nell’occhio, perché le persone che hanno molte possibilità economiche non le vedi per la strada, e sono persone che sanno valorizzare e rispettare il lavoro di una persona. Il lusso non è eccesso. Che idee ha per il futuro? Il mercato immobiliare è molto in movimento, ho cominciato con amici un’altra attività dove trattiamo architettura di interni, aiutiamo le persone che lo desiderano a fare la casa dei proprio sogni, sono affiancata da professionisti di fama internazionale con esperienza trentennale e cerchiamo di accontentare il cliente in tutti i suoi desideri creando spazi e ambienti molto speciali. Il nostro motto è “Maximum Wellbeing”. Ma una cosa è certa, mai una casa sarà uguale ad un’altra. —

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Il costume della


Guardia Svizzera

Immagini tratte dal volume “La guardia svizzera a Roma e gli svizzeri al servizio pontificio�, 1506-1527 di Robert Durrer Edito da Cosimo Fattizzo e Denis Smirnov


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Saint-Cloud, 19 febbraio, anno 11° della Repubblica francese Bonaparte, primo Console e Presidente ai Deputati dei diciotto cantoni della Repubblica elvetica

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ittadini Deputati dei diciotto cantoni della Repubblica elvetica, la situazione della vostra patria è critica: per salvarla sono necessarie la moderazione, la prudenza e il sacrificio delle vostre passioni. Ho preso l’impegno, di fronte all’Europa, di essere un mediatore efficace. Ottempererò a tutti gli impegni che questa alta missione mi impone ben sapendo che ciò che è difficile senza il vostro apporto diventa semplice con la vostra assistenza e la vostra influenza. La Svizzera non somiglia a nessun altro Stato sia per gli avvenimenti che vi si sono succeduti nei secoli sia per la sua posizione geografica e topografica, sia per i suoi differenti linguaggi, le differenti religioni e la grande, quasi estrema, differenza nei costumi e nelle tradizioni delle sue diverse parti. È la natura che ha fatto del vostro Stato una federazione. Volerla disconoscere non sarebbe saggio. Le circostanze e lo spirito dei tempi andati avevano dato forma, tra voi, a popoli sovrani e a popoli sudditi; nuove circostanze e lo spirito nuovo di un nuovo secolo, più in accordo con la ragione, chiedono di aprirsi all’idea di uguaglianza dei diritti tra ciascuna delle parti che compongono il vostro territorio. Parecchi stati tra i vostri hanno seguito per secoli le leggi di una reale democrazia: in altri sono salite al potere alcune famiglie e ci

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sono stati, perciò, sudditi e sovrani. L’influenza e lo spirito generale dell’Italia, della Savoia, della Francia, dell’Alsazia, che sono tutt’intorno a voi, avevano essenzialmente contribuito a stabilire, in questi ultimi, quel tipo di governo. Lo spirito di questi paesi è cambiato: rinunciare a tutti i privilegi è la vostra prima necessità e il vostro primo diritto. Ecco in tre punti ciò che considero sia il vostro desiderio, l’interesse della vostra nazione e dei vasti stati che vi circondano: 1° Uguaglianza dei diritti tra i vostri diciotto cantoni; 2° La rinuncia volontaria e sincera ai privilegi da parte delle famiglie patrizie 3° Una organizzazione federativa in cui ogni cantone possa organizzarsi secondo la propria lingua, la propria religione, i costumi, gli interessi e le opinioni proprie. Ciò che è più importante fare è stabilire e fissare l’organizzazione adatta a ciascuno dei vostri stati. Fissata che sia l’organizzazione dei diciotto cantoni ci resterà solo da stabilire le relazioni che devono avere tra di loro e da quel momento in poi ci si potrà occupare dell’organizzazione centrale, molto meno importante, in realtà, dell’organizzazione cantonale. Finanze, organizzazione militare, amministrativa, da voi nulla può essere uniformato. Non avete mai sostenuto l’arruolamento di truppe militari, non avete grandi risorse finanziarie, non avete neanche mai avuto in modo continuativo agenti diplomatici accreditati presso le diverse potenze. Posti in cima alla catena montagnosa che separa la Francia, la Germania e l’Italia, voi fate parte e condividete lo spirito che anima queste differenti nazioni. La neutralità del vostro paese, la prosperità del vostro commercio e l’amministrazione di una buona famiglia sono ciò che piace al vostro popolo e ciò che vi serve per vivere. Questo è ciò che ho sempre detto a tutti i vostri deputati quando mi hanno consultato per i loro problemi. Mi è sempre parso un discorso ragionevole e perciò spero che, senza che sia necessario un intervento straordinario, la sola natura delle cose vi condurrà a riconoscerne la verità e la fondatezza. Ma proprio gli uomini che parevano comprenderne la verità erano coloro che, per interesse, tentavano di mantenere in vita il sistema dei privilegi di alcune famiglie e che, avendo sostenuto con gli auspici e le armi i nemici della Francia, avevano tendenza a cercare l’appoggio alla loro patria altrove che in Francia. Alcuna organizzazione, stabilita da voi e contraria all’interesse della Francia potrebbe esservi di reale beneficio. Dopo avervi detto ciò che conviene a un cittadino svizzero, devo parlarvi come magistrato di due grandi paesi e non nascondervi che mai la Francia potrà accettare che da voi venga stabilito un sistema di governo di natura tale da favorire i suoi nemici. Il riposo e la tranquillità di quaranta milioni di uomini, vostri vicini, senza i quali non potreste vivere né come individui né come Stato, contano molto sulla bilancia della giustizia generale. Che nulla sia ostile, da voi, nei loro riguardi ma piuttosto in armonia e che, come nei passati secoli, il vostro primo interesse, la vostra politica prevalente, il vostro primo dovere, siano di non permettere nulla e di nulla lasciar fare sul vostro territorio che, direttamente o indirettamente, possa nuocere agli interessi, all’onore e,

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in generale, alla causa del popolo francese. Se il vostro interesse, la necessità di chiudere le vostre questioni interne non fossero state sufficienti a determinarmi a un intervento presso di voi, l’interesse delle Repubbliche alleate, anche soltanto questo, sarebbe bastato. In effetti i vostri insorti sono stati guidati da uomini che avevano fatto la guerra contro di noi; e i primi atti dei loro comandanti sono stati un appello ai privilegi, una negazione dell’uguaglianza e un insulto manifesto al popolo francese. Occorre che, nel vostro paese, nessun partito trionfi e soprattutto non quello che è stato battuto. Non deve e non può esserci una contro-rivoluzione. Sono motivato a parlarvi e vi ripeterò spesso queste stesse idee perché soltanto quando i vostri concittadini ne saranno convinti allora le vostre idee potranno finalmente conciliarsi e il vostro popolo vivere felice. La politica della Svizzera, in Europa, è sempre stata considerata facente parte della politica della Francia, della Savoia e del Milanese dato che il modo stesso di esistere della Svizzera è interamente legato alla sicurezza di questi Stati. Il primo dovere, il compito davvero essenziale del Governo francese, sarà sempre quello di vegliare acciocché tra voi non prevalga un sistema ostile e che uomini al servizio dei suoi nemici non arrivino mai a porsi alla testa dei vostri affari. Conviene non soltanto che non esista alcun motivo di inquietudine circa i territori lungo la nostra frontiera che è aperta e sulla quale potete stare ma anche che possiamo essere rassicurati del tutto che, nel caso fosse in pericolo la vostra neutralità, il buon intendimento del vostro Governo e l’interesse della vostra nazione vi ponesse al fianco degli interessi della Francia e non contro di essi. Mediterò su ogni progetto, su qualsiasi osservazione che collettivamente o individualmente o attraverso un deputato cantonale vorrete farmi pervenire. I senatori Barthelemy, Fouché, Rœderer e Desmeunier, che ho incaricato di raccogliere le vostre opinioni, di studiare i vostri interessi e di accogliere i vostri punti di vista, mi trasmetteranno tutto ciò che vorrete dirmi o farmi pervenire. — Firmato BONAPARTE Per il Primo Console: Il Ministro per le relazioni estere Ch. – Mau. Talleyrand Il segretario di Stato Hugues- B.Maret

Traduzione a cura di Chiara Del Nero


Dissensi & Discordanze

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bonaparte, Premier Consul, 1803

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Cronologia svizzera Ci sono voluti secoli perché la Svizzera e i territori che la compongono formassero il Paese che conosciamo oggi. Con il tempo, la Svizzera si è trasformata da alleanza tra Stati autonomi a moderno Stato federale. La collaborazione tra i futuri cantoni inizia nel corso del medioevo. Obiettivo comune: ottenere spazi di autonomia rispetto ai centri di potere dell’Impero, del quale formalmente i cantoni svizzeri continueranno ancora a lungo a far parte. La storia svizzera è stata fortemente segnata dalla Riforma e dalle guerre tra cattolici e protestanti che ne sono seguite. Verso la fine del XVIII secolo la Francia rivoluzionaria occupa la Svizzera e instaura la Repubblica elvetica, uno stato centralista su modello francese. Ben presto scoppiano disordini interni e le truppe francesi fanno di nuovo ingresso nel paese. Nel 1803, a Parigi viene firmato il cosiddetto Atto di mediazione: su iniziativa di Napoleone, la Repubblica elvetica torna ad essere una confederazione di cantoni (all’epoca 19). Al Congresso di Vienna del 1815, le potenze europee riconoscono alla Svizzera una “neutralità perpetua”. Il Vallese, Ginevra e Neuchâtel entrano nella Confederazione. I confini della Svizzera diventano quelli che sostanzialmente conosciamo ancora oggi. Con la costituzione del 1848, la Svizzera diventa un moderno stato federale. ALCUNE DATE IMPORTANTI 58 a.C. Gli elvezi, un popolo di origine celtica che si era insediato sull’altopiano svizzero, vengono duramente sconfitti a Bibracte dalle truppe di Giulio Cesare. I sopravissuti sono costretti a ritornare sui loro passi e a rinunciare al progetto di migrazione verso la Gallia. 15 a.C. Alcune legioni dell’imperatore Augusto conquistano i territori alpini abitati dai reti (Svizzera sud-orientale). Negli anni successivi i romani occupano gli altri territori che compongono l’odierna Svizzera. 400 - 1000 Dopo la caduta dell'impero romano e la calata da nord

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di popolazioni germaniche, inizia l’alto medioevo. Intorno all’800 Carlo Magno regna per un breve periodo su buona parte dell’Europa occidentale, Svizzera inclusa. Il suo impero è però destinato a sfaldarsi rapidamente.

Johann Heinrich Füssli, Giuramento dei tre confederati


Dissensi & Discordanze

In seguito si sviluppa un sistema feudale. L’eredità culturale latina viene custodita dai monasteri, che hanno anche il merito di sviluppare nuove tecniche agricole. 1291 È tradizionalmente ritenuto l’anno di fondazione della Confederazione elvetica: rappresentanti dei cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo giurano di unire le forze per difendere la pace e la sicurezza della regione (giuramento del Grütli). I termini del loro accordo sono fissati nel primo patto federale. Oggi molti storici mettono in discussione il valoro del patto federale come atto di fondazione di uno stato. Il Dizionario storico svizzero fornisce informazioni sui patti federali. Il testo del patto del 1291 è riportato sul sito della Confederazione. Del mito di fondazione della Svizzera fa parte anche la leggenda di Guglielmo Tell. Si narra che il balivo Gessler, un amministratore degli Asburgo, abbia costretto Guglielmo Tell a mirare con la sua balestra ad una mela posta sulla testa del figlio. Dopo essere riuscito nell’impresa, Tell uccide il balivo. 1499 Nella Guerra sveva, i confederati hanno la meglio sulle truppe asburgiche e costringono l'imperatore Massimiliano I alla pace di Basilea che sancisce, di fatto, l'indipendenza della Confederazione. 1513 Gli stati membri della Confederazione elvetica sono ormai tredici. 1523 Ulrico Zwingli guida la Riforma a Zurigo. Muore nel 1531 durante la battaglia di Kappel che oppone protestanti e cattolici e che viene vinta da questi ultimi. 1536 Giovanni Calvino, fuggito dalla Francia per motivi religiosi, porta la Riforma a Ginevra. La sua dottrina influenzerà anche le chiese protestanti di altri paesi. 1618-48 La Guerra dei trent’anni mette in ginocchio buona parte dell’Europa. La Confederazione riesce a restare neutrale. A causa della loro importanza strategica, i Grigioni – che all'epoca non sono ancora parte della Confederazione – diventano invece un campo di battaglia per l'esercito francese, in guerra con austriaci e spagnoli. 1648 La Pace di Westfalia mette fine alla Guerra dei trent’anni. Nel trattato, le potenze europee riconoscono formalmente l'indipendenza della Confederazione elvetica. 1798 Le truppe rivoluzionarie francesi occupano buona parte della Svizzera. Sul territorio della Confederazione si combattono battaglie che vedono coinvolti – oltre ai francesi – anche austriaci e russi. La Francia fa pressione affinché i confederati riprendano il suo modello di stato centralista. Nasce così la Repubblica elvetica. Ben presto però, scoppiano disordini interni e le truppe francesi tornano ad occupare la Svizzera. 1803 Constatato il fallimento della Repubblica elvetica, Napoleone assume il ruolo di mediatore e attribuisce alla Svizzera una costituzione di stampo federalista. In seguito all'Atto di mediazione firmato a Parigi, la Repubblica elvetica torna a essere una confederazione di cantoni (all’epoca diciannove).

Gerard Terborch, la pace di Westfalia

1815 Le potenze europee riunite al Congresso di Vienna riconoscono alla Svizzera una “neutralità perpetua”. Il Vallese, Ginevra e Neuchâtel entrano nella Confederazione. I confini della Svizzera diventano quelli che sostanzialmente conosciamo ancora oggi. 1847 Gli screzi tra sette cantoni conservatori e cattolici e la maggioranza degli altri cantoni – liberali e protestanti – portano all’ultima guerra civile su suolo elvetico: la Guerra del Sonderbund. Di breve durata e poco cruento, il conflitto si conclude con la capitolazione dei cantoni cattolici. 1848 La principale conseguenza della vittoria liberale nella Guerra del Sonderbund è la stesura di una nuova costituzione. La carta trasforma la Svizzera in un moderno stato federale dotato di un governo e di un parlamento bicamerale. I cantoni cedono al governo federale alcuni compiti, in particolare negli ambiti della politica estera e delle finanze. La costituzione del 1848 ha come obiettivo di conciliare i differenti interessi dei cantoni con quelli generali dello stato federale. 1871 In disaccordo col Concilio vaticano primo, che nel 1870 sancisce il dogma dell’infallibilità del papa, quattrocentomila cattolici svizzeri lasciano la Chiesa cattolica romana e fondano la Chiesa cattolica cristiana. 1914 Scoppia la Prima guerra mondiale. La Svizzera resta neutrale. 1939 Scoppia la Seconda guerra mondiale. La Svizzera resta neutrale. 1971 L’elettorato svizzero, composto di soli uomini, approva con il sessantasei per cento di sì l'introduzione, a livello federale, del diritto di voto e di eleggibilità per le donne. Alle urne si reca il cinquantotto per cento degli aventi diritto. 1978 Nasce il Giura, un nuovo cantone francofono. La sua istituzione è approvata dall'elettorato svizzero in votazione popolare. In precedenza, il territorio del Giura faceva parte del cantone di Berna, cantone in cui la lingua maggioritaria è il tedesco. La modifica costituzionale necessaria alla creazione di un nuovo cantone arriva dopo decenni di tensione tra separatisti e lealisti. da Swissinfo.ch

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DISSENSI & DISCORDANZE Pubblicazione indicativamente semestrale ideata, diretta, edita da MAURO DELLA PORTA RAFFO Numero Speciale | aprile 2015 Stampa: LEGATORIA CARRAVETTA, Varese finito di stampare il 30 aprile 2015



Corina Casanova Pietro Bellasi Gilberto Isella Gianfrancesco Beltrami Giancarlo Kessler Moreno Bernasconi Walter Leimgruber Fabio Bombaglio Giorgio Margaritondo Mario Botta Vincenzo Pacillo Rino Cammilleri Gianfranco Palazzoli Maurizio Canetta Lorenzo Planzi Ludovica Carlesi Manusardi Silvio Raffo Alfio Caruso Remigio Ratti Aldo Cazzullo Robi Ronza Marina Cavallera Gianbattista ‘Titta’ Rosa Cesare Cavalleri Jacques Rummelhardt Mario Cervi Anna Ruchat Cesare Chiericati Carlo Severgnini Italo Cucci Alberto Siccardi Mauro della Porta Raffo Cornelio Sommaruga Antonio Di Bella Giangiorgio Spiess Gianfranco Fabi Giovanni Maria Staffieri Adriano Fabris Nenad Stojanovic Sofia Fraschini Mauro Suttora Fabio Fumagalli Danilo Taino Luciano Garibaldi Nico Tanzi Michele Gaslini Enzo Tosi Paolo Granzotto Silvio Valisa Stefano Grazioli Teresio Valsesia Raymond Gremaud Marcello Veneziani

Svizzera + Schweiz + Suisse + Svizra + Schwiiz Anno III

Numero Speciale aprile 2015

Pubblicazione indicativamente semestrale ideata, diretta, edita da Mauro della Porta Raffo


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