Labor 2/2020

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2020 LABOR 2

L

ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

2

marzo-aprile 2020

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA I licenziamenti collettivi nel diritto UE e l’ordinamento italiano Michele De Luca

La somministrazione di lavoro dopo il decreto Dignità Giovanna Pacchiana Parravicini

La invalidità del licenziamento del dirigente d’azienda Raffaele Galardi

Giurisprudenza commentata Valeria Nuzzo, Francesca Grasso, Tommaso Maserati, Giovanna Pistore

Pacini



Indici

Saggi Michele De Luca, I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime)....................................p. 149 Giovanna Pacchiana Parravicini, La somministrazione di lavoro dopo il decreto Dignità..................... » 165 Raffaele Galardi, La invalidità del licenziamento del dirigente d’azienda. Riflessioni sull’onere legale di impugnazione............................................................................................................................ » 177

Giurisprudenza commentata Valeria Nuzzo, Il ragionevole sospetto di illecito e la possibilità di controlli difensivi occulti all’esame della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo........................................... » 203 Francesca Grasso, La Corte di Giustizia sui diritti dei lavoratori (e dei collaboratori) in caso di reinternalizzazione di attività negli enti pubblici..................................................................................... » 223 Tommaso Maserati, Divieto di ricorso al contratto di lavoro intermittente: i limiti del rinvio alla contrattazione collettiva.......................................................................................................................... » 241 Giovanna Pistore, L’indennità per la conversione del contratto a termine si applica anche al lavoro a progetto.................................................................................................................................................. » 251


Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) – Contratto di lavoro intermittente – Rinvio alla contrattazione collettiva - Divieto convenzionale di ricorso all’istituto - Esclusione. (Cass., 13 novembre 2019, n. 29423, con nota di Maserati) – Videosorveglianza occulta – Commissione di illeciti – Sospetto – Art. 8 CEDU – Violazione – Esclusione. (Corte EDU, 17 ottobre 2019, ric. n. 1874/13 e 8567/13, con nota di Nuzzo) - Lavoro a progetto illegittimo – Natura temporanea del rapporto – Conversione – Indennità risarcitoria ex art. 32 l. n. 183/2010 – Sussistenza. (Cass., 26 settembre 2019, n. 24100, con nota di Pistore) Trasferimento d’azienda – Disciplina europea – Nozione di «lavoratore» – Contratto di collaborazione – Inclusione (C. giust., 13 giugno 2019, causa C-317/18, con nota di Grasso) – Comune (ente locale) come cessionario – Partecipazione a concorso pubblico – Obbligatorietà – Nuovo rapporto con il cessionario – Obbligo di costituzione – Direttiva europea – Incompatibilità (C. giust., 13 giugno 2019, causa C-317/18, con nota di Grasso)

Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2019 Giugno C. giust., C-317/18 Settembre Cass., n. 24100 Ottobre Corte EDU, ric. n. 1874/13 e 8567/13 Novembre Cass., n. 29423

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Notizie sugli autori

Michele De Luca – già presidente di sezione titolare presso la Corte di Cassazione Raffaele Galardi – ricercatore nell’Università di Pisa Francesca Grasso – dottoranda di ricerca nell’Università di Pisa Tommaso Maserati – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Milano Valeria Nuzzo – professoressa associata nell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Giovanna Pacchiana Parravicini – professoressa associata nell’Università degli Studi di Torino Giovanna Pistore – dottoressa di ricerca nell’Università degli studi di Padova


Saggi



Michele De Luca

I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime)* Sommario :

1. I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: definizione ed impostazione del tema di indagine. – 2. Segue: fonte legale per la disciplina. – 3. Segue: nozione e procedura di intimazione del licenziamento collettivo, platea dei garantiti, regime sanzionatorio. – 4. Segue: nozione e procedura di intimazione del licenziamento collettivo. – 5. Segue: platea dei garantiti. – 6. Segue: regime sanzionatorio nel nostro ordinamento. – 7. Segue: Doppia pregiudizialità e dintorni per il nostro regime sanzionatorio nazionale. – 8. Note conclusive.

Sinossi. La disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi – più di altri istituti giuslavoristici – deriva dal diritto dell’Unione europea. Intanto il diritto dell’Unione impone la fonte legale per la disciplina. Stabilisce, inoltre, nozione e procedura d’intimazione dei licenziamenti. Delimita,

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Prima parte della rielaborazione della relazione presentata a Bologna il 14 febbraio 2020 nel seminario dal titolo I licenziamenti collettivi, promosso dall’Università di Bologna, dalla Scuola superiore di studi giuridici e dalla Scuola Superiore della Magistratura. La seconda parte del contributo sarà pubblicata sul n. 3/2020.


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infine, la platea dei garantiti, che identifica nei lavoratori subordinati. Riservato all’ordinamento nazionale, il regime sanzionatorio non può sottrarsi, tuttavia, alla osservanza di principi e disposizioni eurounitari, in quanto ad esso prevalenti. Proprio con riferimento al nostro ordinamento nazionale, quindi, risultano ora rinviate – alla Corte di giustizia – questioni pregiudiziali di coerenza del regime sanzionatorio nazionale – in materia di licenziamenti collettivi, appunto – in relazione, tra l’altro, ai principi eurounitari di uguaglianza e non discriminazione per data di assunzione o di conversione del contratto a tempo determinato. Né osta la sentenza della nostra Corte costituzionale (n. 194/2018), che – sia pure con riferimento a licenziamento individuale ed in relazione a principi costituzionali – investe la stessa indennità risarcitoria, che costituisce il regime sanzionatorio anche per i licenziamenti collettivi. La doppia pregiudizialità, infatti, risulta in linea con la posizione più recente della nostra Corte costituzionale – a partire da uno storico obiter dictum (Corte cost., 269/2017) – né pare incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia. Coerentemente, viene ora investita – di questioni, sostanzialmente, non dissimili – anche la Corte costituzionale. La precedente sentenza della stessa Corte – e, segnatamente, la pronuncia di accoglimento – delimita tuttavia, alle questioni che non ne risultino pregiudicate, l’oggetto dello scrutinio, ora demandato ad entrambe le Corti. La loro (eventuale) pronuncia di accoglimento – in relazione ai principi di uguaglianza e di non discriminazione – comporterebbe, comunque, il diritto alla parificazione – al livello di maggior favore dei lavoratori avvantaggiai – per i lavoratori che risultino discriminati in dipendenza della data di assunzione o di conversione del contratto a tempo determinato. Abstract. The legal framework for collective dismissals is founded – more than on other labor law institutions – on European Union law. In first place, European framework represents the source of law, establishes notion and procedure for notifying redundancies and defines the guaranteed parties, who are identified as employed workers. On the other hand, while sanction system falls within the competence of national law, it should observe EU principles and provisions, as they prevail. According to Italian legal framework, preliminary rulings on national sanctioning system’s coherence regarding collective redundancies are referred to the Court of Justice in relation – inter alia – to the EU principles of equality and non-discrimination on hire date or fixed-term contract’s conversion. Nor shall this interpretation preclude the judgment of the Constitutional Court (ruling no. 194 / 2018), which – albeit with reference to individual dismissal and in relation to constitutional principles – concerns compensation, which constitutes the sanction for collective dismissals. The double preliminary ruling is in line with the most recent landmark case-law of the Italian Constitutional Court starting from a historical obiter dictum (Constitutional Court ruling no. 269/2017) and it does not seem incompatible with the rulings of the European Court of Justice. Therefore, the Constitutional Court is now invested with matters substantially not dissimilar. A previous ruling before the same Court – and, in particular, the judgment of acceptance – limits the object of the decision (now referred to both Courts) to the questions that are not preliminary judged. Their (possible) judgment of acceptance – in relation to the principles of “equality” and “non-discrimination” – would, however, entail the right to “equalization” – at the level of most favor – for workers discriminated as a result of hire date or fixed-term contract’s conversion. Parole chiave: Licenziamenti collettivi – Doppia pregiudizialità – Principio di uguaglianza

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I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano

1. I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e

l’ordinamento italiano: definizione ed impostazione del tema di indagine. La disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi – più di altri istituti giuslavoristici – deriva dal diritto dell’Unione europea1. Il regime sanzionatorio, invece, è riservato all’ordinamento nazionale. Non può, tuttavia, discostarsi – in quanto ad esso prevalenti – da principi e disposizioni del diritto dell’Unione. Risulta, quindi, coerentemente affidato alla doppia pregiudizialità – eurounitaria, appunto, oltre che costituzionale – lo scrutinio circa la conformità rispettiva del nostro regime sanzionatorio nazionale. Muove, essenzialmente, lungo tali direttrici – derivazione eurounitaria della disciplina, appunto, e doppia pregiudizialità sul regime sanzionatorio nazionale – questa indagine su licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano. 1.1. Palese la derivazione eurounitaria della disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi. Intanto il diritto dell’Unione impone la fonte legale per la disciplina. Stabilisce, inoltre, nozione e procedura d’intimazione dei licenziamenti. Delimita, infine, la platea dei garantiti, che identifica nei lavoratori subordinati. Coerentemente, censura – con riferimento ad altro ordinamento nazionale (Belgio) – l’esclusione di alcune categorie di lavoratori dipendenti (quali riparatori di navi, lavoratori portuali ed operai dell’industria edilizia). Mentre include i dirigenti – per quanto riguarda il nostro ordinamento – sulla base del principio di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato. 1.2. Riservato all’ordinamento nazionale – confermandosi, così, il diritto dell’Unione come ordinamento di precetti – il regime sanzionatorio non può, tuttavia, sottrarsi alla osservanza di principi e disposizioni eurounitari, in quanto ad esso prevalenti. Proprio con riferimento al nostro ordinamento nazionale, quindi, risultano ora rinviate – alla Corte di giustizia – questioni pregiudiziali di coerenza del regime sanzionatorio – in materia di licenziamenti collettivi illegittimi, appunto – in relazione, tra l’altro, ai principi eurounitari di uguaglianza e non discriminazione. Né osta la sentenza della nostra Corte costituzionale (n. 194/2018), che – sia pure con riferimento a licenziamento individuale ed in relazione a principi della nostra costituzione – investiva lo stesso regime sanzionatorio nazionale. La doppia pregiudizialità, infatti, risulta in linea con la posizione più recente della nostra Corte costituzionale – a partire da uno storico obiter dictum – e, peraltro, coerente con

1 Quale risulta, essenzialmente, dalla successione nel tempo di: Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, Direttiva 92/56/CEE del Consiglio, del 24 giugno del 1992, di modifica della Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975; Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, codificazione della direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975.

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la rimessione alla stessa Corte di questione non dissimile da quella che forma oggetto del contestuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. La pronuncia di accoglimento – dell’una o dell’altra Corte oppure di entrambe – comporterebbe, comunque, la parificazione al livello di maggior favore. 1.3. L’interazione tra il diritto dell’Unione europea ed il nostro ordinamento nazionale – (anche) nella disciplina dei licenziamenti collettivi – muove dalla nozione del diritto comunitario (ora eurounitario) come “ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini (e), nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi”. Coerentemente, assume – quale polo di attrazione, per le norme di entrambi gli ordinamenti – la stessa fattispecie del licenziamento collettivo. Applica, quindi, ad essa le norme eurounitarie, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri. Le stesse norme eurounitarie, poi, prevalgono – sulle norme confliggenti di qualsiasi fonte interna – in forme diverse, a seconda che siano dotate o meno di efficacia diretta. Nel primo caso, infatti, si applicano in luogo delle norme interne confliggenti. Nel secondo caso, invece, impongono l’interpretazione conforme delle stesse norme interne. Ove l’interpretazione conforme, poi, non risulti plausibile – in dipendenza del tenore letterale della norma interna – soccorre, nel nostro ordinamento, la questione di legittimità costituzionale della stessa norma (in relazione all’articolo 117, primo comma, costituzione, integrato dalla norma eurounitaria confliggente, quale fonte interposta). La procedura d’infrazione è volta a sanzionare, poi, qualsiasi inadempienza – anche omissiva – degli stati membri. Mentre la conformazione al diritto dell’Unione resta affidata – anche in caso di norme direttamente efficaci, come tali applicate (anche) in luogo di norme interne confliggenti – alla coerente riforma degli ordinamenti interni degli stati membri. È tutto funzionale, in ogni caso, alla individuazione – in base ai criteri che governano, per quanto si è detto, i rapporti tra gli ordinamenti – la disciplina giuridica del caso concreto, che i giudici comuni nazionali sono chiamati ad applicare. Coerente risulta la formazione progressiva della disciplina giuridica in materia di licenziamenti collettivi. 1.4. In principio, è una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia2 – all’esito di procedura d’infrazione – che costituisce l’incipit della formazione – e, per così dire, il mito fondativo – della disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi. Sembra configurare, invece, la conclusione dello stesso processo formativo – almeno per il momento – la doppia pregiudizialità, che investe il nostro regime sanzionatorio nazionale, parimenti, in materia di licenziamenti collettivi3.

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Si tratta di C. giust., 8 giugno 1982, causa n. 91/81, Commiss. Ce c. Gov. Italia, sulla quale torneremo. C. cost., 8 novembre 2018, n. 194 (sulla quale torneremo) si coniuga – in tale prospettiva – con Trib. Milano, 5 agosto - 5 settembre 2019 (in DRI, 2019, n. 4, con nota di Ferrante, Licenziamento collettivo e lavoro a termine “stabilizzato”: il Jobs Act viene rinviato alla Corte di giustizia europea; in LG, 2019, n. 11, 1011 ss., con nota di De Michele; commentata da Tufo, La tutela contro i licenziamenti

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2. Segue: fonte legale per la disciplina. Il diritto dell’Unione europea – come è stato anticipato – impone la fonte legale per la disciplina dei licenziamenti collettivi. Risulta da remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia – all’esito di procedura d’infrazione – e da successiva sentenza della stessa Corte, che ne accerta e dichiara la mancata esecuzione. Riceve conferma, tuttavia, dalla fonte legale, appunto, della normativa nazionale, deputata a conformare – in materia di licenziamenti collettivi – il nostro ordinamento al diritto dell’Unione europea. 2.1. La remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia4 – che costituisce l’incipit della conformazione del nostro ordinamento nazionale – risulta così massimata: Non avendo adottato entro il termine prescritto (il 19 febbraio 1977) le disposizioni necessarie per conformarsi integralmente alla direttiva 17 febbraio 1975 n. 75J129 CEE del Consiglio, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, la repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che su di essa incombono in forza del trattato CEE. Ne accerta la mancata esecuzione – accogliendo una sorta di actio iudicati – successiva sentenza della stessa Corte di giustizia5, che risulta così massimata: La Repubblica italiana – non avendo adottato i provvedimenti per dare esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia che ne ha accertato l’inadempienza ad obblighi imposti dalla direttiva comunitaria in materia di licenziamenti collettivi – è venuta meno agli obblighi, che l’art. 171 del trattato CEE impone agli Stati membri. Ne risulta investita la disciplina nazionale, allora vigente, in materia di licenziamenti collettivi. 2.2. Al tempo delle due sentenze della Corte di giustizia6, appena esaminate, i licenziamenti collettivi non erano disciplinati dalla legge. Risultavano, infatti, esplicitamente esclusi dal campo d’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti individuali7.

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collettivi illegittimi di fronte alla Corte di giustizia europea: l’assalto al Jobs act continua, in LDE, 2019, n.3) e App. Napoli, 18 settembre 2019, ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ed App. Napoli, 18 settembre 2019, ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale (commentate da Turrin, Licenziamenti collettivi nel Jobs Act investiti da una doppia questione pregiudiziale, comunitaria e costituzionale, in www.rivistalabor.it, 27 dicembre 2019): ne risultano investite – in relazione al diritto dell’Unione e, rispettivamente alla nostra costituzione – questioni non dissimili – sulle quali torneremo (vedi infra) – concernenti il nostro regime sanzionatorio nazionale in materia, appunto, di licenziamenti collettivi (di licenziamenti individuali, tuttavia, quanto a C. cost., n. 194/2018). C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81, Commiss. Ce c. Gov. Italia, in FI, 1982, IV, 353, con nota di Mazzotta, L’Italia, la Cee e i licenziamenti collettivi. C. giust., 6 novembre 1985, C-131/84, Commissione CE c. Repubblica italiana, in FI, 1986, IV, 109, annotata, insieme ad altre sentenze della C. giust., da De Luca, Licenziamenti collettivi, trasferimenti d’azienda, crisi dell’impresa, procedure concorsuali e «tutele» dei lavoratori nel diritto comunitario: brevissime note sullo stato di «conformazione» dell’ordinamento italiano. C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81 e 6 novembre 1985, C-131/84, cit. Vedi la l. 15 luglio 1966, n. 604. Norme sui licenziamenti individuali, laddove (art. 11, secondo comma) sancisce testualmente: “La

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Dinanzi alla Corte di giustizia, pertanto, infondatamente “Il Governo italiano ha messo in rilievo che il sistema complessivo di tutela in materia di licenziamenti vigente in Italia, quale risulta, ad un tempo, dall’estensione attribuita nell’ordinamento italiano alla nozione di licenziamento individuale, rigorosamente disciplinata da norme favorevoli ai lavoratori (…)”8. La disciplina dei licenziamenti collettivi, appunto, era allora affidata, in via esclusiva, ad accordi interconfederali per il settore dell’industria9. 2.3. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale era configurato, allora, quale “autonoma fattispecie di recesso (del datore di lavoro) motivato, dalla necessità di ridurre il personale in conseguenza di una scelta insindacabile del datore di lavoro circa le dimensioni della propria azienda e dall’esistenza del nesso di causalità tra la riduzione dell’attività economica ed il numero delle risoluzioni intimate”10. L’intimazione dello stesso licenziamento doveva essere preceduta, poi, dal previo espletamento della procedura sindacale prevista dagli accordi interconfederali citati11. La procedura si articolava nella preventiva comunicazione del datore di lavoro al sindacato (nelle sue articolazioni) della necessità di attuare una riduzione del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività o di lavoro, nell’eventuale esame congiunto su richiesta del sindacato e nell’accordo parimenti eventuale: il termine stabilito per l’esaurimento della procedura si coniuga con la scansione di termini per ciascuna fase. Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare risultano contestualmente stabiliti dagli stessi accordi. 12

materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni della presente legge”. Così, testualmente, C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81, cit., punto 8. 9 Accordi interconfederali 20 dicembre 1950, reso efficace erga omnes dal d.P.R. n. 1019 del 1960, e 5 maggio 1965, con efficacia limitata ai soli iscritti ai sindacati stipulanti. 10 Così testualmente massimata risulta Cass., 24 novembre 1997, n. 11731, cit., conforme alla giurisprudenza allora consolidata: vedi, per tutte. Cass., 29 gennaio 1993, n. 1115; 17 marzo 1999, n. 2426, cit. 11 Accordi interconfederali 20 dicembre 1950, reso efficace erga omnes dal d. P. R. n. 1019 del 1960, e 5 maggio 1965, cit. 12 Si legge, infatti, nell’accordo interconfederale del 1965: Art. 1 La direzione dell’azienda, qualora ravvisi la necessità di attuare una riduzione del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività o di lavoro, ne darà preventiva comunicazione, tramite la propria associazione territoriale, alle organizzazioni provinciali dei lavoratori, ai fini dell’eventuale espletamento della procedura di cui agli articoli successivi indicandone i motivi, l’entità numerica dei lavoratori interessati e la data di attuazione (…). Art. 2 Le organizzazioni provinciali dei lavoratori potranno chiedere all’associazione degli industriali, entro 7 giorni dalla data della comunicazione di cui al primo comma del precedente articolo, un incontro allo scopo di esaminare i motivi delle predette riduzioni di personale sulla base delle informazioni fornite dalla azienda e le possibilità concrete ed attuali di evitarle in tutto o in parte anche mediante eventuali trasferimenti nell’ambito aziendale, senza costituire comunque un carico improduttivo per l’azienda. Se l’incontro non viene richiesto nei predetti 7 giorni, i provvedimenti hanno senz’altro corso; qualora invece una delle organizzazioni dei lavoratori chieda la convocazione, essa dovrà avere luogo non più tardi dei successivi 5 giorni. La procedura di cui al presente accordo dovrà essere esaurita entro 25 giorni dalla data della comunicazione alle organizzazioni dei lavoratori di cui all’articolo 1. Nel caso in cui l’azienda motivi il provvedimento come conseguenza di trasformazione o riorganizzazione tecnologica o le organizzazioni concordemente riconoscano tale connessione, il termine di cui al comma precedente è prorogato di 15 giorni. La procedura di conciliazione fra le organizzazioni sindacali deve essere tassativamente esaurita entro i termini complessivi previsti dal presente accordo, intendendosi che l’azienda sospenderà l’attuazione dei provvedimenti predisposti fino allo scadere di tali termini, o fino alla comune constatazione della impossibilità di accordo entro detto termine. Negli incontri di cui sopra, le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori possono farsi assistere, 8

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2.4. La legittimità dei licenziamenti collettivi dipendeva, quindi, dalla effettività del presupposto sostanziale – cioè della riduzione del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività o di lavoro – nonché dal previo espletamento della procedura sindacale – o dalla scadenza dei termini per essa stabiliti – e dal rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Tuttavia risultava funzionale alla legittimità – nel caso di omissione della procedura o del mancato rispetto dei criteri di scelta – la convertibilità del licenziamento collettivo in licenziamento individuale plurimo, ricorrendone il giustificato motivo oggettivo. 2.5. Restavano, comunque, i limiti soggettivi di efficacia degli accordi interconfederali esaminati alle imprese industriale – ancorché con efficacia erga omnes, per quanto riguarda l’accordo più remoto – con esclusione, quindi, delle imprese non industriali13. Proprio su tali limiti soggettivi di efficacia degli accordi interconfederali riposa – alla luce del combinato disposto delle rationes decidendi, poste a sostegno delle prospettate declaratorie di inadempienza della repubblica italiana agli obblighi derivanti dalla appartenenza alla Comunità europea – l’accertamento della dichiarata inadempienza e, con essa, la sostanziale imposizione della fonte legale per la disciplina dei licenziamenti collettivi. 2.6. La declaratoria di inadempienza dell’Itala, agli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità europea, risulta fondata – nella prima delle sentenze in esame della Corte di giustizia14 – sui rilievi seguenti (punti 9 e 10): “9 II Governo italiano non ha tuttavia contestato che in taluni settori, in particolare quelli dell’agricoltura e del commercio, non esiste in Italia una disciplina completa come quella voluta dalla direttiva. È assodato, inoltre, che gli accordi interconfederali italiani non impongono la notifica per iscritto da parte del datore di lavoro prescritta dalla direttiva, che nella normativa italiana non è contemplata, come stabilito dalla direttiva, la notifica all’autorità pubblica competente di ogni licenziamento collettivo, e che non è obbligatorio l’intervento dell’autorità pubblica competente per cercare soluzioni ai problemi posti dai licenziamenti collettivi progettati. 10 Ne consegue che le norme in materia vigenti in Italia non bastano a soddisfare l’insieme degli imperativi della direttiva”. 2.7. Ne risulta, bensì, ribadita la idoneità della contrattazione collettiva ad attuare direttive comunitarie nell’ambito nazionale, nei limiti, tuttavia, che – in materia di parità di trattamento tra uomini e donne 15 – erano già stati esplicitati nei termini testuali seguenti: “8. Si deve ammettere che è lecito agli Stati membri di affidare la realizzazione del principio della parità delle retribuzioni in primo luogo alle parti sociali. Questa facoltà non li

rispettivamente, dai rappresentanti dell’azienda interessata e dalla commissione interna o da una rappresentanza di essa. L’azienda, tanto in caso di accordo come in caso di insuccesso della procedura conciliativa, terrà conto, nella identificazione dei lavoratori da licenziarsi, dei seguenti criteri in concorso tra loro: esigenze tecniche e produttive; anzianità; carichi di famiglia (…). Non dissimili risultavano, tuttavia, le previsioni dell’accordo interconfederale del 1950, reso efficace erga omnes, che ne risulta sostituito. 13 Sul punto, vedi, per tutte, Cass., 27 aprile 1992, n.5010, in NGL, 1992, 607. 14 C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81, cit. 15 Di cui all’articolo 119 del trattato Cee ed alla Dir. n. 75/117 Cee

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dispensa tuttavia dall’obbligo di garantire, mediante opportuni provvedimenti legislativi, regolamentari o amministrativi, che tutti i lavoratori della Comunità fruiscano della tutela stabilita dalla direttiva in tutta la sua ampiezza. La garanzia statale deve intervenire in tutti i casi in cui manchi un’altra tutela effettiva, qualunque sia la causa di questa mancanza, e in particolare qualora i lavoratori non facciano parte di un sindacato, per il settore di cui trattasi non esista un contratto collettivo ovvero il contratto non garantisca il principio della parità delle retribuzioni in tutta la sua ampiezza”16. 2.8. Tanto basta per concludere che, nel nostro ordinamento, i prospettati limiti soggettivi di efficacia rendono i contratti collettivi inidonei a garantire – erga omnes – “che tutti i lavoratori della Comunità fruiscano della tutela stabilita dalla direttiva in tutta la sua ampiezza”. Risulta, quindi, ineludibile – nel nostro ordinamento – il ricorso alla fonte legale per la disciplina – con efficacia erga omnes, appunto – in materia di licenziamenti collettivi. 2.9. Tale conclusione diventa esplicita, tuttavia, nella più recente delle sentenze in esame della Corte di giustizia17. La declaratoria di inadempienza dell’Italia – agli obblighi derivanti dalla sua appartenenza alla Comunità europea – risulta, infatti, così motivata: “5 La Repubblica italiana sostiene che la direttiva 75/129 non ha finora potuto venire integralmente messa in opera per motivi obiettivi. Nell’attuale momento socio-economico in Italia, l’attività legislativa deve anzitutto mirare a garantire la conservazione del livello dell’occupazione e sarebbe inopportuno emanare una disciplina relativa ai licenziamenti collettivi nella situazione d’emergenza che si vuol fronteggiare a tutela dell’occupazione. 6 Secondo la costante giurisprudenza della Corte, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni inerenti al suo ordinamento giuridico interno onde giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive. In virtù della direttiva 75/129, i provvedimenti avrebbero dovuto venir adottati fin dal 19 febbraio 1977. Nella sentenza 8 giugno 1982 summenzionata, la Corte ha constatato che, non mettendo integralmente in opera la direttiva entro il termine prescritto, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del trattato. 7 L’art. 171 del trattato CEE non precisa il termine entro il quale deve darsi esecuzione ad una sentenza. Tuttavia è pacifico che si deve procedere senza indugio a dar esecuzione ad una sentenza e che gli effetti da essa perseguiti devono realizzarsi al più presto. Nella fattispecie detti termini sono stati largamente superati. 8 Per l’insieme delle considerazioni testé esposte, si deve constatare che, non dando esecuzione alla sentenza emanata dalla Corte l’8 giugno 1982 (Commissione/Repubblica italiana, causa 91/81, Race. pag. 2133), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono a norma dell’art. 171 del trattato CEE”.

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Così testualmente, c. giust., 30 gennaio 1985, C-143/83, spec. punto 8, in DL, 1985, II, 239, con nota di Foglia. C. giust., 6 novembre 1985, C-131/84, cit., spec. punti 5-8.

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2.10. È la stessa repubblica italiana, infatti, a ritenere ineludibile il ricorso alla fonte legislativa – per la disciplina dei licenziamenti, appunto – laddove, a giustificazione della propria inadempienza, allega: “Nell’attuale momento socio-economico in Italia, l’attività legislativa deve anzitutto mirare a garantire la conservazione del livello dell’occupazione e sarebbe inopportuno emanare una disciplina relativa ai licenziamenti collettivi nella situazione d’emergenza che si vuol fronteggiare a tutela dell’occupazione”. 2.11. E la Corte di giustizia disattende tale allegazione difensiva in base al rilevo seguente: “Secondo la costante giurisprudenza della Corte, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni inerenti al suo ordinamento giuridico interno onde giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive”18. Coerente risulta, quindi, la fonte legale, che – per la disciplina dei licenziamenti collettivi – risulta, infine, adottata19.

3. Segue: nozione e procedura di intimazione del

licenziamento collettivo, platea dei garantiti, regime sanzionatorio. 3.1. È arrivata, alla fine, la fonte legale per la disciplina – con efficacia erga omnes – dei licenziamenti collettivi. Né si limita a colmare le lacune, denunciate – per quanto si è detto – dalla Corte di giustizia nei termini testuali seguenti: “9 (…) È assodato, inoltre, che gli accordi interconfederali italiani non impongono la notifica per iscritto da parte del datore di lavoro prescritta dalla direttiva, che nella normativa italiana non è contemplata, come stabilito dalla direttiva, la notifica all’autorità pubblica competente di ogni licenziamento collettivo, e che non è obbligatorio l’intervento

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Resta da domandarsi, sia detto per inciso, se l’argomentazione sia ancora valida – agli stessi fini –dopo la introduzione in costituzione del pareggio di bilancio (art. 81 cost., come sostituito dalla legge costituzionale n.1 del 20 aprile 2012): per la soluzione negativa – con riferimento, tuttavia, alla giurisprudenza costituzionale – pare Cartabia, La consulta ai tempi della crisi, Sole 24 ore del 29 novembre 2018, ed, ivi, riferimenti a C. cost., n. 275 del 2016, n. 184 del 2016, n. 10 del 2015 e n. 18 del 2019. Ad opposta conclusione, tuttavia, sembra doversi ancora pervenire – con rifermento alla trasposizione di direttive dell’Unione europea nel nostro ordinamento interno – anche in dipendenza della prevalenza di qualsiasi fonte dell’ordinamento dell’Unione – sia pure in forme diverse (vedi retro, nel testo) – rispetto a qualsiasi fonte – anche costituzionale – dell’ordinamento interno degli stati membri. 19 Legge 23 luglio 1991, n. 223, Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, spec. art. 24, 4 e 5. Sulla l. n. 223/91, vedi, per tutti: Miscione, Integrazione salariale e eccedenze di personale (legge 23 luglio 1991, n. 223), in GI, 1991, IV, 401; Cinelli (a cura di), Il fattore occupazionale nelle crisi di impresa – Commentario alla L. 23 luglio 1991 n. 223, Torino, 1993.

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dell’autorità pubblica competente per cercare soluzioni ai problemi posti dai licenziamenti collettivi progettati”20. 3.2. Regola, infatti, l’intera materia dei licenziamenti collettivi – già regolata dagli accordi interconfederali – conformandosi al diritto dell’Unione europea – sia pure con qualche scostamento, successivamente accertato (vedi infra) – a partire, appunto, dalla fonte legale della disciplina. La nozione di licenziamento collettivo si coniuga – in tale prospettiva – con la procedura per la loro intimazione e con la definizione – nella quale si annida, appunto, il prospettato scostamento dal diritto dell’Unione – della platea dei garantiti. 3.3. Riservato agli ordinamenti nazionali – come pure è stato anticipato – il regime sanzionatorio, per i licenziamenti collettivi appunto, risulta diversamente disciplinato – nel nostro ordinamento – da leggi che si sono succedute nel tempo. Né può discostarsi, tuttavia, da principi e disposizioni del diritto dell’Unione. 3.4. Ed é proprio il nostro regime sanzionatorio nazionale a risultare investito, ora, da doppia pregiudizialità – eurounitaria e costituzionale – per contrasto con il diritto dell’Unione, appunto, e con la nostra costituzione. La pronuncia di accoglimento della nostra Corte costituzionale già intervenuta21 – sia pure con riferimento alla indennità risarcitoria per il licenziamento individuale illegitti-

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Così, testualmente, Corte giust. 8 giugno 1982, C-91/81, cit., punto 9. C. cost., 8 novembre 2018, n. 194, in FI, 2019, I, 70, con nota di richiami di Romboli e nota di Giubboni, Il licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale. Annotata, altresì, da: Ichino, M. T. Carinci, in RIDL, 2018, II, 1031; Speziale, in RGL, 2019, II, 23; Cester, in LG, 2019, 153; Toffoletto, in GLav, 2018, fasc. 46, 38; Pinelli, in GCost, 2018, 2329. Adde De Luca, La tutela contro il licenziamento nel contratto a tutele crescenti, dopo l’intervento della Corte costituzionale: alla ricerca del giusto risarcimento quando risulta esclusa la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro, in VTDL, 2019, n. 4, 1139; F. Carinci, All’indomani della corte cost. n. 194/2018, in ADL, 2019, 465; M. T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, in WP D’Antona, It., n. 378/2018; Fontana, La Corte costituzionale e il decreto n. 23/2015: one step forward two step back, in WP D’Antona, It., n. 382/2018; Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta, in LDE, n. 1/2019; Roselli, La Sentenza della Corte Costituzionale n.194 del 2018. Tra discrezionalità del legislatore e principio di ragionevolezza, ibidem; Tursi, Un caso di diritto stocastico, ibidem; Perulli, Correzioni di rotta. La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 e il c.d. “Decreto Dignità”, ibidem; Orlandini, Il licenziamento dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/18, tra vincoli costituzionali e fonti internazionali: la partita resta aperta, ibidem; Chiodi, La sentenza della Corte Costituzionale n.194/ 2018: contenuto, natura ed effetti, ibidem; Vidiri, La sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018: tra certezza del diritto ed ordinamento complesso, ibidem; Del Re, La prematura fine delle Tutele Crescenti, ibidem; Cosio, La sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale e l’ordinamento complesso, ibidem; Persiani, La sentenza della Corte Cost. n. 194/2018. Una riflessione d’insieme sul dibattito dottrinale, ibidem; Amendola, La disciplina dei licenziamenti nel Jobs Act dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, in RIDL, 2019, I, 313. La pronuncia di accoglimento – che qui interessa – ha così deciso: “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, 1° comma, d.leg. 4 marzo 2015 n. 23 (disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della l. 10 dicembre 2014 n. 183) — sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, 1° comma, d.l. 12 luglio 2018 n. 87 (disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella l. 9 agosto 2018 n. 96 — limitatamente alle parole ‘di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio’”. E risulta così massimata: “È costituzionalmente illegittimo – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», l’art. 3, 1° comma, d.leg. 4 marzo 2015 n. 23 (disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della l. 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 3, 1° comma, d.l. 12 luglio 2018 n. 87 (disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), conv., con modif., nella l. 9 agosto 2018 n. 96; tale norma, limitando la tutela risarcitoria per il licenziamento (nei casi in cui risulta accertato che non

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mo, ma esplicitamente estesa a vizi del licenziamento collettivo (quale il mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare) – priva di rilevanza, tuttavia, non solo le questioni – che investano disposizioni già espunte dal nostro ordinamento, a seguito della stessa pronuncia di accoglimento – ma anche quelle che, comunque, non ne modifichino – in melius – il risultato già raggiunto. In altri termini, la rilevanza sembra riguardare soltanto le questioni che – oltre a riproporre un giusto risarcimento per il licenziamento illegittimo, sotto profili finora inesplorati (quale l’imposizione di un limite massimo) – tendano a reintrodurre la tutela in forma specifica per i lavoratori, che ne risultano privati in dipendenza della data di assunzione. Idonea a realizzare tale obiettivo, tuttavia, pare soltanto la parificazione al livello più elevato, in dipendenza dell’accertamento della violazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione – per età di assunzione, appunto – che risulta denunciata in relazione al diritto dell’Unione e – forse con minori probabilità di successo, visto il precedente contrario – in relazione alla nostra costituzione. Valga, tuttavia, il vero.

4. Segue: nozione e procedura di intimazione del licenziamento collettivo.

4.1. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale è stato sempre configurato, nel nostro ordinamento, quale “autonoma fattispecie di recesso” del datore di lavoro.

ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr per ogni anno di servizio, preclude al giudice di tener conto anche del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, violando così gli art. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, 1° comma, 35, 1° comma, e 76 e 117, 1° comma, cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della carta sociale europea)”. Con essa concorrono, tuttavia, pronunce di rigetto e di inammissibilità, che risultano così massimate; “Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, 1° comma, d.leg. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo deteriore rispetto a quelli assunti, dalla stessa azienda, prima di tale data e prevede la sua non applicabilità ai dirigenti, in riferimento agli art. 3 e, in relazione all’art. 30 Cdfue in quanto non applicabile nella fattispecie, 76 e 117, 1° comma, cost. Sono inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, 2° e 3° comma, d.leg. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui stabilisce la tutela per i casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, prevede una tutela che consiste nell’annullamento del licenziamento e nella condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di un’indennità, e che al licenziamento dei lavoratori che, a norma dell’art. 1 d.leg. medesimo, rientrano nel campo di applicazione di tale decreto, non trova applicazione l’art. 7 l. 15 luglio 1966 n. 604 e successive modificazioni, in riferimento agli art. 3, 4, 1° comma, 35, 1° comma, e, in relazione all’art. 30 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla convenzione Oil n. 158 del 1982 sul licenziamento e all’art. 24 della carta sociale europea, 76 e 117, 1° comma, cost. È inammissibile, per difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, 7° comma, l. 10 dicembre 2014 n. 183, nella parte in cui fissa i principî e criteri direttivi al governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, in riferimento agli art. 3, 4, 1° comma, 35, 1° comma, e, in relazione all’art. 30 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla convenzione Oil n. 158 del 1982 sul licenziamento e all’art. 24 della carta sociale europea, 76 e 117, 1° comma, cost.

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Il nostro ordinamento si è costantemente conformato, così, al diritto comunitario (ora eurounitario) – quale risulta da sentenza della Corte di giustizia, pronunciata con riferimento all’ordinamento di altro stato membro (Danimarca)22 – secondo cui “lo scopo” della direttiva comunitaria in materia di licenziamenti collettivi – di “rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo”, appunto – implica che “esulano, dal campo di applicazione ella direttiva, sia le dimissioni o l’interruzione delle prestazioni lavorative di tutti i dipendenti, ancorché giustificate dalla sospensione del pagamento delle retribuzioni da parte del datore di lavoro, sia la mera possibilità di prevedere la necessità di ricorrere a licenziamenti collettivi, ove questi non siano stati effettivamente previsti, sia l’adozione dei licenziamenti stessi per cessazione dell’attività di impresa, ove questa derivi da decisione giudiziaria”23. Tuttavia risulta diverso – nella successione della fonte legale agli accordi interconfederali per la sua disciplina – l’elemento differenziale del licenziamento collettivo rispetto al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. 4.2. Nel vigore degli accordi interconfederali, il licenziamento collettivo – come è stato ricordato – risultava, infatti, configurato, quale autonoma fattispecie di recesso del datore di lavoro – appunto – “motivato dalla necessità di ridurre il personale in conseguenza di una scelta insindacabile del datore di lavoro circa le dimensioni della propria azienda e dall’esistenza del nesso di causalità tra la riduzione dell’attività economica ed il numero delle risoluzioni intimate”24. L’intimazione dello stesso licenziamento doveva essere preceduta, poi, dal previo espletamento della procedura sindacale prevista dagli accordi interconfederali citati25. Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare risultavano contestualmente stabiliti dagli stessi accordi. Coerentemente, la legittimità dei licenziamenti collettivi dipendeva – come pure è stato anticipato – dalla effettività del presupposto sostanziale – cioè della riduzione del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività o di lavoro – nonché dal previo espletamento della procedura sindacale – o dalla scadenza dei termini per essa stabiliti – e dal rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Tuttavia risultava funzionale alla legittimità – nel caso di omissione della procedura o del mancato rispetto dei criteri di scelta – la convertibilità del licenziamento collettivo in licenziamento individuale plurimo, ricorrendone il giustificato motivo oggettivo26.

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C. giust., 12 febbraio 1985, C-284/83, in FI, 1986, IV, 130, annotata, insieme ad altre, da De Luca, Licenziamenti collettivi, trasferimenti d’azienda, crisi dell’impresa, procedure concorsuali e «tutele» dei lavoratori nel diritto comunitario: brevissime note sullo stato di «conformazione» dell’ordinamento italiano, cit. 23 Questa ultima ipotesi “licenziamenti (…) per cessazione dell’attività di impresa, ove questa derivi da decisione giudiziaria” non dipende, tuttavia, dalla tipologia del recesso – che qui interessa – ma dalla esplicita esclusione – dal campo d’applicazione della direttiva (art. 1, n. 2) – di tale fattispecie. 24 Così testualmente massimata risulta Cass., 24 novembre 1997, n. 11731, conforme alla giurisprudenza allora consolidata: vedi, per tutte. Cass., 29 gennaio 1993, n. 1115; Cass., 17 marzo 1999, n. 2426, entrambe cit. 25 Accordi interconfederali 20 dicembre 1950, reso efficace erga omnes dal d. P. R. n. 1019 del 1960, e 5 maggio 1965, cit. 26 In tal senso è la giurisprudenza allora consolidata: vedi, per tutte.

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4.3. Coerente con la direttiva27, risulta la nozione di licenziamento collettivo accolta dalla legge di trasposizione nel nostro ordinamento28. In tal senso, risulta la dottrina29 e la giurisprudenza consolidata30, secondo cui, “dopo l’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa (più di quindici dipendenti), al numero dei licenziamenti (almeno cinque), e all’arco temporale (120 giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti ed essendo strettamente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura aziendale”31. Pertanto – dopo la legge n. 223 del 1991 – “la nozione di licenziamento collettivo discende necessariamente dalla ricorrenza degli elementi indicati dall’art. 24 della legge citata, la cui sussistenza esclude la possibilità di una diversa qualificazione del recesso”32. Tuttavia occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del rapporto di lavoro – che parimenti dipendano da iniziativa del datore di lavoro e risultino motivate da ragioni non inerenti alla persona del lavoratore – quale, a mero titolo di esempio, la cessazione del rapporto di lavoro, appunto, in dipendenza del rifiuto, da parte del lavoratore, della modifica di condizioni di lavoro, unilateralmente disposta – a suo sfavore – dal datore di lavoro33.

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Collocato nella sezione I, rubricata «definizione e campo di applicazione», l’art. 1 della Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi prevede quanto segue. Ai fini dell’applicazione della presente direttiva: a ) per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore se il numero dei licenziamenti effettuati è , a scelta degli Stati membri: per un periodo di 30 giorni: almeno pari a 10 negli stabilimenti che occupano abitualmente più di 20 e meno di 100 lavoratori; almeno pari al 10 % del numero dei lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 100 e meno di 300 lavoratori; almeno pari a 30 negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 300 lavoratori; oppure, per un periodo di 90 giorni, almeno pari a 20, senza tener conto del numero di lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti interessati. 28 Nell’ambito delle facoltà – che la direttiva riconosce ai paesi membri – l’articolo 24, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, infatti, sancisce testualmente: “Le disposizioni di cui all’art. 4, commi da 2 a 12 e 15-bis, e all’art. 5, commi da 1 a 5, si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia. Tali disposizioni si applicano per tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”. 29 Sul punto, vedi: Pera, I licenziamenti collettivi, in Cinelli (a cura di), Il fattore occupazionale nelle crisi di impresa – Commentario alla L. 23 luglio 1991, n. 223, cit., 85 ss.; Del Punta, Sulla fattispecie di licenziamento collettivo, ibidem, 128; Vallebona, Il licenziamento collettivo per riduzione del personale, ibidem, 131; Giubboni, Il licenziamento nell’interesse dell’impresa, ibidem, 149; Dell’olio, Reversibilità ed irreversibilità della crisi, ruolo delle parti sociali, ultrattività dei rapporti di lavoro nella legge n, 223. Una valutazione di sintesi, ibidem, 213. Adde Liso, Il ruolo dei poteri pubblici e privati nella nuova legge di riforma del mercato del lavoro, ibidem, 18; De Luca, “Nuove” integrazioni salariali straordinarie e procedure concorsuali; ibidem, 51; Cinelli, La riforma del mercato del lavoro nella legge n. 223 del 1991 tra razionalizzazione e compromesso, ibidem, 3. 30 Vedi, per tutte, Cass., 26 novembre 2018, n. 30550; Cass., 23 giugno 2006, n. 14638; Cass., 09 agosto 2003, n. 12037. 31 Così, testualmente Cass., n. 14638 del 2006, cit. 32 Così, testualmente, Cass., 27 maggio 1997, n. 4685. 33 Vedi C. giust., 11 novembre 2015, C-422/14 (in FI, 2016, IV, 48; in LG, 2016, 247, con nota di Cosio; in MGL, 2016, 368, con nota di Fratini; in RIDL, 2016, II, 699, con nota di Riefoli); 21 settembre 2017, in causa C-429/16 (in LG, 2018, 337, con nota di Cosio).

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4.4. Non è rilevante, poi, che “il numero dei recessi irrogati sia inferiore a quello dei recessi programmati”34. Peraltro il numero dei recessi non rileva per i c.d. licenziamenti collettivi post mobilità previsti – da disposizione (art. 4, comma 1, legge n. 223 del 1991), significativamente non richiamata dalla norma, che detta quei presupposti numerici (articolo 24 della sessa legge) – per l’impresa che abbia fatto ricorso alla casa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) e – non essendo in grado di riammettere al lavoro tutti i di pendenti sospesi – può procedere alla messa in mobilità del personale esuberante senza essere vincolata al requisito numerico35. 4.5. Coerente con la nozione di licenziamento collettivo – dopo la legge n. 223 del 1991 – risulta, poi, la non convertibilità – nel caso d’inosservanza della procedura o di mancato rispetto dei criteri di scelta – in plurimi licenziamenti individuali, attesa l’evidente disomogeneità che ne risulta36. Sembra costituirne coerente sviluppo (non so quanto consapevolmente) la recente sentenza della Corte di Cassazione37, che nega la configurazione – come giustificato motivo oggettivo d licenziamento individuale – delle stesse ragioni di precedente licenziamento collettivo – dal quale il lavoratore era stato escluso in base a criterio di scelta concordato – in funzione dell’accertamento, demandato al giudice del rinvio, del carattere determinante del motivo illecito del licenziamento (in coerenza con Cass., 4 luglio 2019, n. 9468; Cass., 23 novembre 2018, n. 30429). 4.6. Del pari coerente con la stessa nozione di licenziamento collettivo, risulta, altresì, il passaggio – funzionale, appunto, all’accertamento della sua legittimità – “dal controllo giurisdizionale, esercitato ‘ex post’ nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ‘ex ante’ alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione” – previsti, in coerenza con il diritto dell’Unione europea38, dal nostro ordinamento nazionale39 – con la conseguenza che “i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli provvedi-

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Così, testualmente, Cass., 22 novembre 2011, n. 24566 (in FI, 2012, 2, 462), in coerenza con la giurisprudenza consolidata: vedi, per tutti, Cass., 11 agosto 2016, n. 17061. 35 Sui licenziamenti collettivi post mobilita, vedi: Cass., 8 febbraio 2010, n. 2734; Cass., 6 febbraio 2015, n. 2271. 36 In tal senso è la giurisprudenza ora consolidata: vedi, per tutte, Cass., 2 agosto 2012, n. 13884 (in DML, 2013, 187, con nota di Caloja); Cass., 22 novembre 2011, n. 24566 (in FI, 2012, I, 462 con nota di richiami alla quale si rinvia per riferimenti ulteriori; in LG, 2012, 476, con nota di Cosio; in RIDL, 2012, II, 618, con nota di Calafà) e, in senso conforme, le ivi citate Cass., n. 9045/00 e Cass., n. 5662/99. 37 Cass., 16 gennaio 2020, n. 808, sulla quale vedi Zambelli, Il licenziamento individuale non può aggirare la mobilità, in Il sole 24 ore del 22 gennaio 2020. 38 Quale risulta essenzialmente, per quanto si è detto, dalla successione nel tempo di: Dir. 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, Direttiva 92/56/CEE del Consiglio, del 24 giugno del 1992, di modifica della Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975; Direttiva 98/59/ CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, codificazione della direttiva 75/129/CEE del Consiglio del 17 febbraio 1975. 39 Quale risulta dall’art. 24 l. n. 223 del 1991 e dalle disposizioni ivi richiamate.

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menti di recesso), (e non) possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di ‘effettive’ esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva”40. 4.7. La procedura sindacale si articola – in sostanziale analogia con quella prevista dagli accordi interconfederali – nella preventiva comunicazione del datore di lavoro al sindacato (ed, in copia, all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione) della intenzione di procedere al licenziamento collettivo, nell’eventuale esame congiunto su richiesta del sindacato e nell’accordo parimenti eventuale: il termine stabilito per l’esaurimento della procedura si coniuga con la scansione di termini per ciascuna fase. Con la procedura sindacale si coniuga, tuttavia, la “notifica all’autorità pubblica competente di ogni licenziamento collettivo, e (…) l’intervento dell’autorità pubblica competente”, che non erano invece previsti – come accertato dalla Corte di giustizia 41 – dagli accordi interconfederali. Infatti, “qualora non sia stato raggiunto l’accordo, il direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame delle materie di cui al comma 5, anche formulando proposte per la realizzazione di un accordo”.42 Raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura (…), l’impresa ha facoltà di licenziare. 4.8. Del pari analogamente – con quanto stabilito dagli accordi interconfederali – criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sono “previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati (…) ovvero in mancanza di questi contratti”, dalla stessa legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative)43.

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Così, testualmente, Cass., 26 novembre 2018, n. 30550. In senso conforme Cass., 3 marzo 2009, n. 5089 e Cass., 6 ottobre 2006, n. 21541. 41 Vedi C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81, cit. 42 Suscita, quindi, perplessità l’omessa previsione di tale convocazione del direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione – nel caso di licenziamento collettivo, dopo l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro (artico 189, comma 6, lettere f) e g) d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155 – a meno che si ritenga sufficiente – per conformarsi al diritto dell’Unione che, tuttavia, sembra esigere sia la “notifica all’autorità pubblica competente di ogni licenziamento collettivo” che “l’intervento dell’autorità pubblica competente” – la comunicazione all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, anche in questo caso prevista, dell’intenzione di procedere a licenziamento collettivo comunicata al sindacato. 43 Sulla valutazione dei criteri di scelta in concorso tra oro, la giurisprudenza è consolidata: vedi, per tutte, Cass., 14 aprile 2015, n. 7490; Cass., 3 dicembre 2014, n. 25610; Cass., 23 dicembre 2009, n. 27165. Tuttavia “la regola del concorso dei criteri, se impone una valutazione globale dei medesimi, non esclude (…) che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie”: così, testualmente, Cass., 4 aprile 2018, n. 8383, in coerenza con la giurisprudenza consolidata (vedi per tutte, ivi citate, Cass., n. 1201 e n. 14834 del 2000, Cass., n. 11866 del 2006 e Cass., n. 22834 del 2009).

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Michele De Luca

4.9. Né può essere trascurata la derivazione dal diritto dell’Unione europea – e, segnatamente, da sentenza della Corte di giustizia44 – della disposizione del nostro ordinamento45, che sancisce testualmente: “Gli obblighi di informazione, consultazione e comunicazione devono essere adempiuti indipendentemente dal fatto che le decisioni relative all’apertura delle procedure di cui. al presente articolo siano assunte dal datore di lavoro o da un’impresa che lo controlli. Il datore di lavoro che viola tali obblighi non può eccepire a propria difesa la mancata trasmissione, da parte dell’impresa che lo controlla, delle informazioni relative alla decisione che ha determinato l’apertura delle predette procedure”.

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C. giust., 7 agosto 2018, C-61,62,72/17 (in FI, 2018, IV, 522; in ADL, 2019, n. 1, 182, con nota di Gaudio; in LG, 2019, 144, con nota di Cosio; in RIDL, 2019, II, 16, con nota di Degoli), che risulta così massimata: “L’art. 2, par. 4, 1° comma, dir. 98/59/Ce del consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che la nozione di ‘impresa che (...) controll[a] [il datore di lavoro]’ si riferisce a qualsiasi impresa collegata a tale datore di lavoro per mezzo di vincoli di partecipazione al capitale sociale di quest’ultimo o di altri vincoli giuridici che le consentono di esercitare un’influenza determinante sugli organi decisionali del datore di lavoro e di costringerlo a prevedere o a effettuare licenziamenti collettivi”. 45 Art. 4, comma 15-bis, legge n. 223 del 1991, cit.

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La somministrazione di lavoro dopo il decreto Dignità Sommario : 1. Premessa. – 2. La somministrazione a tempo indeterminato. – 3. La somministrazione a tempo determinato. – 4. Le esclusioni. – 5. Le norme applicabili. – 6. Conclusioni.

Sinossi. Il contributo esamina le novità introdotte dal cd. Decreto Dignità in tema di somministrazione di lavoro. Ci si sofferma in particolare sulle difficoltà interpretative che l’estensione “secca” della disciplina del contratto a termine alla fornitura di lavoro comportano, cercando di fornire alcune soluzioni. Abstract. The essay examines the innovations introduced by the cd. “Dignity decree” on temporary agency work. We focus in particular on the difficulties of interpretation that the “dry” extension of the regulation of the fixed-term contract to the supply of work entails, trying to provide some solutions. Parole chiave: Somministrazione di lavoro – Contratto a termine – Utilizzatore – Agenzia per il lavoro – Lavoratore somministrato

1. Premessa. La triangolazione che connota il lavoro somministrato rende quel rapporto un giano bifronte: con un occhio, infatti, esso guarda al contratto commerciale tra agenzia ed utilizzatore e quindi al contratto di fornitura, mentre l’altro è puntato al rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore somministrato. La descritta bidirezionalità dell’istituto ha, come ovvio, ricadute sulla disciplina applicabile: il legislatore deve, infatti, destreggiarsi tra due contratti, quello di fornitura e quello di lavoro subordinato, che rispondono ad interessi ed hanno esigenze di tutela diversi, talora anche antitetici.


Giovanna Pacchiana Parravicini

Il risultato di questo compromesso tra le due anime della somministrazione è spesso di difficile interpretazione e non del tutto appagante. Non solo, ma è da notare che le difficoltà sono andate aumentando con i vari interventi che si sono avuti sulla disciplina. Inizialmente, con la legge 24 giugno 1997, n. 196 il nostro ordinamento si è, infatti, limitato a dettare la disciplina del contratto di fornitura e, quanto al contratto di lavoro subordinato, a introdurre alcune tutele particolari a favore del lavoratore somministrato e segnatamente il diritto ad un trattamento non inferiore a quello goduto dai dipendenti dell’utilizzatore oltre che, in caso di assunzione a tempo indeterminato, il diritto all’indennità di disponibilità, senza per il resto occuparsi della disciplina applicabile al contratto di lavoro1. È solo dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 che, invece, il legislatore si è fatto carico di affrontare espressamente la questione delle norme applicabili al rapporto di lavoro tra Agenzia e somministrato. Ferma restando la regola per cui i lavoratori assunti dalle Agenzie per il lavoro non possono ricevere un trattamento inferiore a quello dei dipendenti dell’utilizzatore impiegati in pari mansioni, il d.lgs. 276/2003 ha introdotto una tutela creditoria rafforzata a favore dei lavoratori somministrati rispondendo l’utilizzatore in solido con l’Agenzia per i crediti dagli stessi maturati. In aggiunta a questa disciplina, che opera trasversalmente valendo per ogni contratto di lavoro con l’Agenzia, il d.lgs. 276/2003 ha specificato che ai lavoratori assunti a tempo indeterminato si applica la disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile con diritto, per i periodi in cui non vi è missione, alla indennità di disponibilità. Quanto, invece, ai lavoratori assunti a termine, il legislatore è passato da una previsione originaria contenuta nel d.lgs. 276/2003 per cui si applica loro la disciplina del contratto a termine, ove compatibile ed in ogni caso con alcune specifiche esclusioni, alla formulazione risultante dall’intervento di cui al decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, cd. Decreto Dignità, in forza della quale al rapporto a termine del lavoratore somministrato si applica la disciplina del contratto a termine escluse alcune disposizioni2. Il decreto del 2018 ha, cioè, eliminato la condizione di compatibilità che sino a quel momento aveva accompagnato il rinvio alla disciplina sul contratto a termine, lasciando solo le ipotesi di esclusione espressa. A prima vista, l’avvenuta soppressione del riferimento alla compatibilità non ha un impatto sulla disciplina dell’istituto atteso che anche prima del 2018 le aree di non applicazione della normativa sul lavoro a termine erano di fatto solo quelle espressamente

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Per una ricostruzione della disciplina della somministrazione sino al Decreto Dignità si vedano Miscione, Il lavoro somministrato dopo il “decreto dignità” e momenti di storia del diritto, in LG, 2019, 123 nonché Cosattini, “Decreto dignità”: sulla somministrazione di lavoro a tempo determinato modifiche rilevanti, in LG, 2018, 1096. Sul decreto dignità si vedano Filì, Decreto legge n. 87 del 2018 convertito nella legge n. 96 e dignità dei lavoratori, in LG, 2018, 869; Uberti, Contratti a termine, somministrazione e tutele crescenti nel “decreto dignità”, in LG, 2018, 977; Sartori, Prime osservazioni sul decreto “dignità”: controriforma del jobs act con molte incognite, in RIDL, 2018, I, 651; Scarpelli, Convertito in legge il “decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi ed applicativi, in GC.com, 3 settembre 2018; Ferrara, La somministrazione di lavoro dopo il decreto “dignità”, in RIDL, 2019, I, 227; Lai, Il lavoro nel decreto “dignità” tra legge e contrattazione collettiva, in Bollani, Varesi (a cura di), Contratto a tempo determinato e somministrazione, Wolters Kluwer, 2019, 75.

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escluse dalla legge, essendo rimasto sostanzialmente lettera morta il rinvio ad una verifica di compatibilità. Non risultano, invero, decisioni in cui sia stata messa in discussione l’applicazione di norme del contratto a termine perché ritenute non compatibili con la somministrazione. È però innegabile che il venir meno del caveat e quindi di uno spazio comunque concesso all’interprete, che ora potrebbe sembrare tenuto all’applicazione secca delle norme in tema di lavoro a termine, se non espressamente escluse, senza la possibilità di valutarne la compatibilità con la somministrazione di lavoro, può rivelarsi un ostacolo ad operazioni ermeneutiche volte a coniugare il dettato normativo, come vedremo spesso molto scarno, con la articolata morfologia che assume questo istituto. Non solo, ma il sostanziale appiattimento della disciplina del contratto di lavoro alle dipendenze dell’Agenzia per il Lavoro sul contratto a termine realizzato dal decreto 87/2018 pone gravi dubbi di conformità della disciplina nazionale con quanto stabilito dalla Direttiva UE 11 novembre 2008 n. 104 la quale ha imposto agli stati membri una revisione dei divieti e delle restrizioni in essere che possono esser mantenuti solo se giustificati da ragioni di interesse generale che investono la tutela dei lavoratori3.

2. La somministrazione a tempo indeterminato. Passando nello specifico all’esame dei singoli istituti, è significativo sottolineare che il decreto dignità non tocca la disciplina dello staff leasing, che resta un contratto acausale come il decreto 81/2015 lo ha voluto. Il disinteresse del decreto dignità per la somministrazione a tempo indeterminato dimostra che la ratio dell’intervento del 2018 è esclusivamente volta a circondare di limiti e tutele i rapporti di lavoro a termine. Dunque valgono per lo staff leasing le regole previgenti e quindi il limite percentuale massimo di lavoratori somministrati a tempo indeterminato pari al 20% dei lavoratori impiegati dall’utilizzatore ed il divieto per l’Agenzia di fornire a tempo indeterminato lavoratori assunti a termine. Si può allora concludere che il cammino della somministrazione a tempo indeterminato pare essersi assestato: al divieto assoluto contenuto nella legge 1369 del 1960 fa seguito l’apertura centellinata allo staff leasing operata dalla legge 196/1997 e dal decreto 276/2003 che individuavano tassativamente le ipotesi di staff leasing, per arrivare alla sostanziale liberalizzazione operata dal decreto 81/2015 che sostituisce alle ipotesi tassative una clausola di contingentamento che la contrattazione collettiva può peraltro modificare. Questo non vuol dire che il nostro ordinamento ritenga l’istituto della somministrazione a tempo indeterminato un rapporto giuslavoristicamente “neutro”, tant’è che impone alcune tutele ulteriori per il prestatore di lavoro che ne è parte, quali la responsabilità solidale tra agenzia ed utilizzatore nonché l’obbligo per la prima di applicare ai lavoratori sommi-

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Così l’art. 4 della Direttiva. Per una compiuta illustrazione della problematica si veda ancora Miscione, op. cit.

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nistrati un trattamento complessivamente non inferiore a quello dei lavoratori di pari mansioni impiegati dall’utilizzatore, obbligo che, ad esempio, non sussiste in caso di appalto. È, però, altrettanto certo che l’attenzione del legislatore cresce quando alla triangolazione si aggiunge la durata predeterminata del rapporto di lavoro sottostante e quindi in caso di contratto di lavoratore assunto a termine da un’Agenzia per il Lavoro. Su questa seconda tipologia si è concentrato il decreto dignità.

3. La somministrazione a tempo determinato. Come si è anticipato, il decreto 87/2018 non solo è intervenuto sulla disciplina applicabile al contratto di lavoro a tempo determinato del lavoratore somministrato ma ha anche, forse inconsapevolmente, modificato la tecnica normativa adottando la strada del rinvio secco alle norme in tema di contratto a termine, salvo alcune espresse eccezioni. Le quali, peraltro, sono in numero inferiore rispetto alle norme in precedenza dichiarate non applicabili alla somministrazione, avendone il legislatore del 2018 ristretto l’elenco. Sino al decreto dignità, infatti, al rapporto di lavoro a tempo determinato del lavoratore somministrato non si applicavano gli artt. 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24 del d.lgs. 81/2015 e dunque le regole in tema di durata massima del contratto a termine, ragioni giustificatrici, proroghe e rinnovi, la clausola di contingentamento ed il diritto di precedenza. Ne risultava una disciplina che, se formalmente appariva costruita su quella del contratto a termine, di fatto era priva dei limiti caratterizzanti quel rapporto. Il d.l. 87/2018 ha novellato l’art. 34 del d.lgs. 81/2015 e quindi la norma sulla disciplina applicabile, escludendo i soli artt. 23 e 24 del d.lgs. 81/2015 e quindi la clausola di contingentamento ed il diritto di precedenza. Dunque, nel limitato lasso di tempo intercorso tra il luglio e l’agosto del 2018, cioè tra il decreto 87/2018 e la sua legge di conversione4, il contratto a termine stipulato tra somministrato ed agenzia poteva esser rinnovato solo a fronte delle causali previste per il contratto a termine ed altrettanto poteva esser prorogato per le stesse causali laddove la durata eccedesse i 12 mesi. Il numero massimo di proroghe era pari a 4 ed occorreva un intervallo minimo tra un contratto a termine ed il successivo stipulato con la medesima Agenzia. La legge di conversione 96/2018 ha ulteriormente modificato la disciplina del rapporto di lavoro a termine alle dipendenze di un’Agenzia per il Lavoro escludendo altresì l’applicazione della norma sul cd. stop & go contenuta nel secondo comma dell’art. 21. Allo stato, quindi, il rapporto di lavoro del somministrato assunto a tempo determinato è soggetto alle regole del contratto a termine con esclusione delle disposizioni in materia di intervallo minimo tra due assunzioni nonché di quelle in tema di numero massimo di lavoratori che possono esser assunti a termine dall’Agenzia e di diritto di precedenza.

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Cioè la legge 9 agosto 2018 n. 96.

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La somministrazione di lavoro dopo il decreto Dignità

Come anticipato, il rinvio “secco” alla disciplina del contratto a termine ed il limitato numero di norme di quel contratto dichiarate non applicabili alla somministrazione danno il chiaro segnale che il legislatore del 2018, intraprendendo una strada in aperta controtendenza rispetto alle indicazioni che arrivano non solo dall’unione europea ma anche dalla giurisprudenza interna5, ha deciso di omologare quanto più possibile i due istituti, guardati entrambi con diffidenza e per questo destinatari di una disciplina chiaramente contenitiva.

4. Le esclusioni. La scelta del legislatore di confermare la non applicazione alla somministrazione dell’art. 21 comma 2 e quindi della regola dell’intervallo minimo tra contratti a termine appare del tutto coerente con la ratio di quella norma e la speciale tipologia di rapporto all’interno del quale il contratto a termine del lavoratore somministrato si inserisce. Essa realizza, cioè, il giusto compromesso tra le due anime della somministrazione. Se, infatti, la regola dello stop & go risponde ad un’esigenza di tutela volta ad evitare che il datore di lavoro soddisfi con reiterate assunzioni a termine un bisogno in realtà strutturale, tale esigenza non sussiste quando il datore di lavoro è un’agenzia che istituzionalmente fornisce lavoratori. Il core business delle agenzie per il lavoro rende, infatti, in re ipsa giustificato il continuo ricorso a lavoratori assunti a termine per esser inviati in specifiche missioni6. In altre parole, una volta che l’ordinamento ammette l’istituto della somministrazione, sarebbe poi del tutto ingiustificata una disciplina che di fatto ne ostacolasse eccessivamente la funzionalità. Per le stesse ragioni è condivisibile l’esclusione, anch’essa peraltro preesistente al decreto dignità e da esso non toccata, della regola dettata dall’art. 23 del d.lgs. 81/2015 in tema di numero massimo di lavoratori assunti a termine dall’Agenzia per il Lavoro. La natura di quel soggetto e soprattutto il fatto che la somministrazione abbia ad oggetto la fornitura di manodopera rende tale norma del tutto incompatibile con quell’istituto. Peraltro, la mancata applicazione dell’art. 23 d.lgs. 81/2015 è compensata dal disposto dell’art. 31 dello stesso decreto che fissa una percentuale massima di lavoratori non stabili, comprendendovi sia lavoratori assunti a termine che lavoratori somministrati a termine, che possono essere impiegati dall’utilizzatore. È questo, infatti, il corretto terreno su cui un ordinamento che ammette la somministrazione di lavoro può contrastare la precarietà fine a se stessa.

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Si veda Cass., 14 marzo 2018, n. 6152, in www.cortecassazione.it. Nella sentenza in esame la Suprema Corte dice chiaramente che “Anche se, per alcuni aspetti, il contratto di lavoro somministrato può essere accostato, sotto il profilo funzionale, al contratto a tempo determinato, essendo entrambi strumenti obiettivamente alternativi di acquisizione, diretta e indiretta, di prestazioni lavorative temporanee, il primo si distingue tuttavia in modo chiaro dal secondo. … Essi poi rispondono a finalità diverse”. Della stessa opinione anche Miscione, op. cit.

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Rispetto all’art. 23 la percentuale sale al 30% dei lavoratori assunti dall’utilizzatore a tempo indeterminato, fermo restando il limite di cui all’art. 23 e quindi il limite del 20% riferito ai soli lavoratori assunti a termine. Dunque, attraverso la somministrazione a tempo determinato, il polmone a disposizione dell’utilizzatore si amplia dal 20 al 30% dei lavoratori a tempo indeterminato. L’ampliamento della possibilità di ricorrere a lavoratori non stabilmente inseriti nell’organizzazione dell’utilizzatore non avviene, però, “a costo zero”. Infatti, a differenza dell’art. 23 d.lgs. 81/2015, che per il caso di superamento della percentuale di lavoratori a termine impiegati da un datore di lavoro prevede una mera sanzione amministrativa con espressa esclusione della trasformazione dei contratti a tempo indeterminato, l’art. 38 del d.lgs. 81/2015 prevede che in caso di violazione di quanto previsto dall’art. 31 commi 1 e 2 dello stesso decreto (e quindi di superamento delle percentuali ivi stabilite), il lavoratore possa chiedere la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore. La norma non chiarisce, però, se l’effetto costitutivo in capo all’utilizzatore si verifica solo se il superamento avviene tramite contratti di somministrazione, rispettata, invece, la percentuale massima del 20% per quelli impiegati a termine dall’utilizzatore, ovvero a prescindere dal rispetto del limite di cui all’art. 23 d.lgs. 81/2015. Ne deriva che, mentre un soggetto che impiega oltre il 20% della manodopera tramite contratti a termine è passibile solo di sanzione amministrativa, laddove, invece, questo superi il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato che ha in forza, ricorrendo anche a contratti di somministrazione a tempo determinato, allora potrà vedersi attribuiti direttamente i rapporti che eccedono la percentuale. L’apparato sanzionatorio approntato per il caso di sforamento della percentuale massima di lavoratori non stabili appare, dunque, più severo per la somministrazione rispetto al contratto a termine, con una differenza di trattamento che appare difficile da giustificare e prima ancora comprendere alla luce del già citato disposto della Direttiva 2008/104/CE che impone agli stati membri di ridurre le restrizioni e quindi le sanzioni. Nel caso dello sforamento delle percentuali, invece, il legislatore del 2018 è addirittura andato oltre rispetto alla disciplina del contratto a termine introducendo sanzioni ancora più severe. Peraltro, se la norma desta qualche perplessità interpretativa, essa ha poi una portata piuttosto contenuta quantomeno con riferimento all’ipotesi in cui si tratti di lavoratori assunti o somministrati a termine. La lettura dell’art. 38 d.lgs. 81/2015 induce, infatti, a ritenere che, superato il velo della somministrazione, la costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore avvenga con le stesse caratteristiche di quello alle dipendenze dell’Agenzia e quindi a tempo determinato o indeterminato a seconda della tipologia del contratto originario. In tal senso depone sia il tenore letterale dell’art. 38 d.lgs. 81715, che si limita a parlare di costituzione del rapporto con l’utilizzatore senza agganciarvi altresì la diversa ed ulteriore sanzione della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, sia il comma 3 dello stesso art. 38 che imputa all’utilizzatore tutti gli atti compiuti dal somministratore nella costituzione e gestione del rapporto, tra i quali, dunque, rientra anche l’eventuale apposizione di un termine al contratto. L’utilizzatore diventerà, quindi, in forza dell’art. 38, il datore di lavoro del lavoratore somministrato in misura superiore alla percentuale prevista dall’art. 31 (30%), ma il rap-

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porto di lavoro tra utilizzatore e lavoratore erediterà le caratteristiche di quello tra somministrato ed Agenzia e quindi anche la clausola appositiva del termine eventualmente inserito. Con la conseguenza che quel contratto sarà soggetto ai vincoli ed alle conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 23 in tema di superamento della percentuale massima. Diverse considerazioni valgono, invece, per il caso in cui il superamento della percentuale riguardi un lavoratore somministrato a tempo indeterminato. In questo caso, infatti, poiché per le ragioni già evidenziate ai sensi dell’art. 38 il rapporto si costituisce in capo all’utilizzatore con le stesse caratteristiche del rapporto di lavoro tra somministrato ed Agenzia, esso dovrà intendersi a tempo indeterminato. Il legislatore del 2018 ha, però, perso un’occasione per far luce su quest’aspetto mentre avrebbe potuto, e dovuto, chiarire se l’imputazione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’utilizzatore si verifica solo per il caso di superamento della percentuale ad opera di contratti di somministrazione ovvero anche di contratti a termine. Anche l’apparato sanzionatorio appare eccessivamente penalizzante, ancora una volta in contrasto con quanto previsto dall’art. 4 della Dir. 2008/104/CE: sarebbe stato, invece, sufficiente prevedere anche per questo caso una mera sanzione amministrativa a carico dell’Agenzia, salva la possibilità per questa di rivalersi sull’utilizzatore. L’imputazione in capo a quest’ultimo dei rapporti di lavoro in eccesso rispetto alla percentuale risulta, invece, molto penalizzante per il caso di somministrazione a tempo indeterminato ed un’inutile costruzione barocca per il caso di somministrazione a tempo determinato atteso che, per le ragioni già espresse, in questa seconda ipotesi il rapporto, passato in capo all’utilizzatore, resterà a termine con le conseguenze di cui all’art. 23 d.lgs. 81/2015. Come già in passato, anche dopo la novella del 2018 resta escluso dalle norme applicabili al rapporto di lavoro a termine tra agenzia e lavoratore somministrato l’art. 24 del d.lgs. 81/2015 in tema di diritto di precedenza. La ragione dell’esclusione di tale diritto non è comprensibile né, quindi, condivisibile. Al lavoratore somministrato viene, infatti, sottratta una tutela di non poco momento senza che tale sottrazione sia compensata da una previsione equivalente riferita all’utilizzatore. In altre parole, in una prospettiva che tenga conto non solo della posizione dell’agenzia per il lavoro ma anche di quella dell’utilizzatore, sarebbe stata più opportuna una disciplina che prevedesse un diritto di precedenza del lavoratore somministrato da esercitarsi nei confronti dell’utilizzatore in caso di assunzioni da parte di quest’ultimo a tempo indeterminato per mansioni analoghe a quelle in precedenza svolte in suo favore anche da lavoratori somministrati a tempo determinato, al pari di quanto avviene per i lavoratori a termine direttamente assunti dall’utilizzatore. Il diverso trattamento riservato, in tema di diritto di precedenza, ai somministrati a tempo determinato rispetto ai lavoratori assunti a termine dall’utilizzatore appare poco giustificabile in un’ottica che tenga conto degli interessi di tutte le parti in gioco.

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5. Le norme applicabili. Certamente, però, le maggiori difficoltà interpretative derivano dall’estensione alla somministrazione di lavoro della disciplina dettata dall’art. 19 del decreto 81/2015 norma che, come noto, fissa una durata massima del contratto a termine ed introduce la necessità di causali per il caso di contratto avente durata superiore a 12 mesi raggiunta anche a seguito di proroghe, ovvero per il caso di rinnovo7. Dunque, a partire dal luglio 2018 anche il contratto a termine tra lavoratore ed agenzia è soggetto ad un limite di durata massima di 24 mesi che si raggiungono sommando tutti i contratti intercorsi tra la stessa agenzia e lo stesso lavoratore ed aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale. Le difficoltà interpretative nascono dal fatto che tale disciplina deriva da un’estensione “silenziosa” dell’art. 19 d.lgs. 81/2015 che si applica alla somministrazione perché non escluso e, dunque, in una logica di omologazione tra il contratto di lavoro di diritto comune8 e quello alle dipendenze dell’Agenzia che non appare condivisibile. Non è, infatti, così immediato traslare le regole dettate per un rapporto bilaterale su un rapporto trilaterale in cui, oltre al resto, uno dei soggetti ha istituzionalmente la funzione di fornire manodopera ad un altro. Il legislatore del 2018 pare, invece, aver agito in maniera frettolosa e poco ponderata dimenticando che l’agenzia per il lavoro ha quale tipica attività la fornitura di manodopera, rispetto alla quale il vincolo di durata massima si tramuta in un forzoso ricambio perenne del bacino di lavoratori da cui attingere per adempiere all’obbligo di fornitura. A quest’effetto, che si risolve a danno delle Agenzie, non pare fare eco un corrispondente vantaggio a favore dei lavoratori che, più che esser assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie, rischiano di restare intrappolati nel vorticoso ricambio imposto dall’art. 19. Certamente, la portata della norma può esser mitigata dall’intervento della contrattazione collettiva che può contenere previsioni diverse rispetto a quelle di cui al comma 2 dell’art. 19. I contratti collettivi delle Agenzie di somministrazione potranno, pertanto, incidere sulla durata massima del contratto ma anche sull’oggetto di esso, andando, ad esempio, a restringere il campo delle mansioni rilevanti ai fini del contatore dei 24 mesi. Si apre, dunque, un rilevante spazio di flessibilità per le parti sociali non legato solo al termine di durata del contratto ma che si può svolgere su un terreno tipico della contrattazione, cioè quello che attiene all’individuazione delle aree che compongono una certa categoria e/o mansione e dunque del relativo giudizio di equivalenza. I maggiori dubbi interpretativi posti dall’art. 19 d.lgs. 81/2015 derivano, però, dall’applicazione al lavoro somministrato della disciplina in tema di causali: a partire dal luglio 2018 il contratto a termine tra agenzia e lavoratore somministrato, di durata superiore a

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Per una disamina sul significato delle causali si veda Uberti, op. cit. L’espressione è di Miscione, op. cit.

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12 mesi, ancorché in forza di proroghe, ovvero il rinnovo, deve essere giustificato da una delle causali previste dall’art. 19 comma 1 d.lgs. 81/2015. Le difficoltà derivano dal fatto che il legislatore si è, inizialmente, limitato a non escludere, e quindi implicitamente includere, l’art. 19 d.lgs. 81/2015 tra le norme applicabili alla somministrazione senza farsi carico di spiegare come dialogano tra loro le causali ivi previste ed il fatto che l’agenzia assume non per soddisfare necessità proprie ma per fornire ad un utilizzatore terzo della manodopera destinata a soddisfare gli interessi di quest’ultimo. È chiaro, cioè, che l’interpretazione dell’art. 19 d.lgs. 81/2015, quando riferito al contratto di lavoro concluso con un’Agenzia, non può non scontare la triangolazione che caratterizza quel rapporto. Di ciò si è reso conto il legislatore che all’art. 2 comma 1-ter della legge 96/2018 di conversione del decreto 87 ha precisato che “le condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, come sostituito dall’articolo 1, comma 1, lettera a), del presente decreto, nel caso di ricorso al contratto di somministrazione di lavoro, si applicano esclusivamente all’utilizzatore”. La norma non fa, però, la dovuta chiarezza prestandosi ad una duplice interpretazione. Si può, infatti, pensare che il legislatore abbia voluto spostare le causali dal contratto di lavoro a quello di somministrazione, per cui quel contratto può essere rinnovato o avere durata superiore a 12 mesi, comprese le proroghe, se la fornitura soddisfa una delle esigenze indicate dall’art. 19 d.lgs. 81/2015 e riferite all’utilizzatore. L’opzione interpretativa non appare condivisibile per una serie di ragioni. Innanzitutto l’art. 19 d.lgs. 81/2015 fa espresso riferimento al contratto di lavoro che può avere una durata superiore ai 12 mesi (e nel limite di 24) solo in presenza di causali. Lo stesso dicasi quanto all’art. 21 d.lgs. 81/2015 che, pur riferendosi genericamente al contratto, non può che riferirsi al solo contratto di lavoro, unico oggetto della disciplina di cui agli artt. 19-29 dello stesso decreto. Pare, allora, contrario alla lettera della legge affermare che in caso di somministrazione le causali devono essere inserite nel contratto di fornitura, tanto più se si considera che il legislatore del 2018 non ha modificato il contenuto dell’art. 33 d.lgs. 81/2015, cioè della norma che elenca i requisiti del contratto di somministrazione, tra i quali non è inclusa l’individuazione delle causali giustificatrici del termine, laddove necessarie. Se, infatti, le causali fossero elementi essenziali del contratto di somministrazione, esse dovrebbero necessariamente entrare nel contenuto vincolato di esso descritto all’art. 33. Il decreto dignità non ha, invece, preso in considerazione le giustificazioni dell’apposizione del termine o del rinnovo lasciando intatto l’art. 33 d.lgs. 81/2015 anche dopo aver introdotto la specificazione di cui all’art. 1-ter della legge di conservazione 96/2018. La tesi interpretativa che propone di spostare sul contratto di somministrazione a tempo determinato di durata superiore a 12 mesi, ovvero su quello rinnovato, la causali giustificatrici di cui all’art. 19 porterebbe, poi, ad un risultato che sarebbe paradossale: dette causali, infatti, sarebbero necessarie anche nel caso in cui alla fornitura a tempo determinato fossero adibiti lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’Agenzia, circostanza, questa, che non avrebbe alcuna ragione d’essere.

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Si deve allora convenire con chi9 ha interpretato l’art. 1 ter della legge 96/2018 nel senso che le causali continuano ad essere un elemento necessario del contratto di lavoro subordinato tra Agenzia e lavoratore ma, nell’individuare tali ragioni, la prima attinge alle esigenze dell’utilizzatore. Così interpretato il rinvio all’art. 19, occorre ricordare che le causali sono necessarie anche per il caso di rinnovo essendo al lavoro somministrato applicabile l’art. 21 comma 1. Il combinato disposto delle norme in tema di causali per il caso di rinnovo, e quindi degli art. 21 comma 1 d.lgs. 81/2015 e 1-ter legge 96/2018, ha una ricaduta interpretativa significativa per delineare quando, in caso di somministrazione, si è in presenza di un rinnovo che impone il rispetto della disciplina dettata per il rinnovo di un contratto a termine. Infatti, se come già argomentato le causali si inseriscono nel contratto di lavoro tra Agenzia e lavoratore, ma sono attinte dalle necessità dell’utilizzatore, ciò dimostra che si ha rinnovo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 21 comma 01 solo quando il lavoratore è nuovamente assunto dall’Agenzia per essere mandato in missione presso un utilizzatore per il quale è già stato fornito per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria. Ne deriva, a contrario, che non costituisce rinnovo una nuova assunzione a termine dello stesso lavoratore ad opera della stessa Agenzia per l’invio presso un nuovo utilizzatore. Fermo restando che i rapporti a termine con l’agenzia si cumulano ai fini del contatore dei 24 mesi. L’applicazione alla somministrazione delle disposizioni in tema di causali e rinnovo porta altresì a chiedersi se le ragioni giustificatrici sono necessarie nel caso in cui un lavoratore venga assunto a termine prima dall’Agenzia e poi dall’utilizzatore presso il quale era stato in missione per conto della stessa Agenzia (o viceversa prima da un soggetto, diverso da un’Agenzia per il Lavoro, che successivamente diviene utilizzatore di quello stesso lavoratore somministratogli a tempo determinato da un’Agenzia). Il fatto che l’art. 21 tratti del rinnovo, cioè di un nuovo contratto tra le stesse parti, in uno con la circostanza che, a differenza ad esempio di quanto sancito dall’art. 19, nel caso di specie il legislatore non equipara i periodi di missione a quelli con contratto a termine, porta a concludere in senso negativo10. In altre parole, si ha rinnovo solo in caso di reiterazione del contratto a termine tra gli stessi soggetti (cioè stesso lavoratore e stesso utilizzatore o stesso lavoratore e stessa Agenzia ma in questo caso solo se il lavoratore viene inviato presso lo stesso utilizzatore). L’applicazione “per implicito” dell’art. 21 pone un ulteriore problema interpretativo con riferimento alle causali che giustificano le proroghe. Come più volte ricordato, il comma 1 dell’art. 21, applicabile alla somministrazione in forza della non esclusione di cui all’art. 34, prevede, infatti, che il contratto possa essere prorogato a condizione che sussistano le causali di cui all’art. 19 laddove la durata del contratto ecceda i 12 mesi.

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Così circolare min. lav. n. 17 del 31.10.2018. Ma contra circolare min. lav. n. 17 del 31.10.2018.

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A sua volta, però, l’art. 34, norma che si riferisce specificamente alla somministrazione di lavoro, modificata dal decreto dignità, al comma 2 prevede che il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore. Ancora una volta il silenzio del legislatore costringe l’interprete a chiedersi se e come la disciplina di cui all’art. 34 si concilia con quella di cui all’art. 21 comma 1, se cioè le due previsioni convivono, autorizzando le proroghe alle condizioni di cui all’art. 21 comma 1 nonché nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo del somministratore, ovvero se l’art. 34 di fatto renda inapplicabile l’art. 21 comma 1. A parere di chi scrive, nel silenzio del decreto dignità e non essendo le due norme incompatibili, si può concludere che in caso di somministrazione, il contratto a termine tra agenzia e lavoratore può esser prorogato alle condizioni di cui all’art. 21 comma 1 nonché nei casi e per la durata previsto dal contratto collettivo del somministratore. La disparità di trattamento con la disciplina del contratto a termine è, infatti, giustificata dalla diversa natura del rapporto di somministrazione: a differenza che altrove, in questo caso il legislatore ha tenuto nella corretta considerazione la natura di giano bifronte dell’istituto, lasciando all’autonomia collettiva uno spazio ulteriore coerente con la causa del contratto di somministrazione. La stessa ratio consente di dire che in forza dell’art. 34 il contratto collettivo applicato dal somministratore può derogare al numero massimo di proroghe consentito dall’art. 21: il legislatore ha, cioè, dato alla contrattazione collettiva del somministratore un potere di ampliare il perimetro dell’istituto, coerente con la natura di esso.

6. Conclusioni. Passata in rassegna la disciplina della somministrazione che risulta dall’intervento del 2018, ci si può chiedere quale sia il futuro di quell’istituto. Certamente l’estensione delle norme sul contratto a termine ha comportato un robusto irrigidimento della disciplina della somministrazione che non giova alla sua diffusione. Si potrebbe anzi pensare che dietro un intervento normativo che appare manutentivo e quindi di conservazione, si nasconda un intento sostanzialmente abrogativo dell’istituto reso tanto poco flessibile quanto conseguentemente non appetibile. Intento che, come si è già ripetuto, è contrario a quanto stabilito della Direttiva 2008/104/CE. L’impressione che il decreto dignità sia il requiem della somministrazione si mitiga, però, se si valorizza adeguatamente il ruolo che la contrattazione collettiva può avere nel disegnare diversamente la disciplina dell’istituto. Le parti sociali sono, infatti, chiamate dallo stesso decreto 81/2015 ad operare importanti deroghe ai vincoli introdotti, potendo così restituire alla somministrazione quelle dosi di flessibilità che ne possono garantire la sopravvivenza. Ai sensi del decreto 81/2015, come rivisto dal decreto dignità, in tema di somministrazione il contratto collettivo può derogare alla disciplina della durata massima (art. 19), alla

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percentuale massima di lavoratori utilizzabili (art. 31), alla disciplina delle proroghe (art. 34), nonché introdurre elementi che limitano i casi in cui sussiste un rinnovo ex art. 21 Alle deroghe “interne” al decreto 81/2015 si aggiungono quelle “esterne” ed in particolare la possibilità che l’art. 8 del d.l. 138/2011 attribuisce al contratto di prossimità di stabilire specifiche intese dirette a disciplinare diversamente il contratto a termine ed i casi di ricorso alla somministrazione. Si tratta, certamente, di uno strumento di flessibilità che si aggiunge agli spazi “interni” al d.lgs. 81/2015 ma a condizione che sussistano le finalità specifiche di cui al comma 1 dell’art. 8 d.l. 138/2011. Finalità la cui sussistenza, per non tradire il significato dell’intervento del 2018, cioè di una norma, successiva al d.l. 138/2011, che ha abbracciato una strada certamente limitativa di questa forma di collaborazione nell’impresa, andrà vagliata con particolare rigore. Diversamente, un uso eccessivamente ampio della possibilità di deroga ex art. 8, coprendo a tutto campo la materia del contratto a termine, si risolverebbe in un’abrogazione di fatto della disciplina introdotta dal decreto dignità.

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La invalidità del licenziamento del dirigente d’azienda. Riflessioni sull’onere legale di impugnazione Sommario :

1. Premessa. – 2. La disciplina contrattuale sul licenziamento del dirigente d’azienda. Cenni. – 3. La disciplina legale sul licenziamento del dirigente d’azienda. Cenni. – 4. L’onere legale di impugnazione ex art. 32, comma 2. Il dibattito relativo al dirigente d’azienda ed il recente approdo della Corte di cassazione sulla applicazione selettiva della previsione con esclusione della ingiustificatezza del licenziamento. – 5. I rischi, anche di costituzionalità, dell’art. 32, comma 2, se interpretato nel senso di escludere l’onere legale di impugnazione alla ingiustificatezza del licenziamento. – 6. Quando l’atto è invalido? Riflessioni (minime) sulle evoluzioni del diritto privato e sulla specialità del diritto del lavoro. – 7. Una diversa interpretazione della invalidità del licenziamento ex art. 32, comma 2.

Sinossi. Il saggio affronta la questione dell’interpretazione della nozione di invalidità del licenziamento ai fini dell’applicazione dell’onere legale di impugnazione al dirigente d’azienda. L’A. analizza gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali mostrandone le criticità e la loro difficile compatibilità costituzionale. Sulla scorta delle evoluzioni ordinamentali del diritto privato e della specialità del diritto del lavoro in materia, l’A. ricostruisce una più ampia nozione di invalidità suscettibile di trovare applicazione per tutti i casi di illegittimità del licenziamento del dirigente. Abstract. This essay addresses the invalidity of dismissals, to ascertain whether the statutory duty of challenging the dismissal applies to managers. The Author reviews the views put forward in the scholarship and the case law, questioning their reliability and their compatibility with the Constitution. Drawing from the regulatory developments in the area of Private Law and the specific nature of Labour Law in this field, the Author provides a more comprehensive notion of invalidity, which could apply to any case of unfair dismissals of managers. Parole chiave: Licenziamento del dirigente d’azienda – Onere legale di impugnazione – Invalidità


Raffaele Galardi

1. Premessa. Per le sue note caratteristiche, il dirigente d’azienda1 è stato tradizionalmente relegato ai margini degli interventi protettivi riservati alle altre categorie di lavoratori subordinati tanto che, efficacemente, è stata utilizzata la formula della «disciplina legale ablativa»2. La posizione è talmente peculiare che anche quando il legislatore non lo ha escluso, direttamente o indirettamente, dall’ambito di applicazione di una determinata regolazione, gli interpreti ne mettono in dubbio l’applicazione. Ed è esattamente quanto avvenuto per l’onere legale di impugnazione al licenziamento. A fronte di una previsione legale inclusiva, che cioè ha esteso l’onere legale di impugnazione del licenziamento oltre i limiti soggettivi ed oggettivi della l. n. 604/1966 ed «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento» (art. 32, comma 2, l. n. 183/2010, di seguito art. 32), la dottrina da subito e la giurisprudenza solo di recente si sono orientate in senso fortemente escludente. Vedremo più avanti che una scelta di tal guisa, se analizzata in tutti i suoi risvolti teorici e pratici, pone sostanziosi dubbi di legittimità costituzionale. La questione è poi particolarmente interessante perché richiama una nozione, quella di invalidità negoziale, che ci consente di rinverdire il sempre affascinante dialogo con il Diritto privato e le categorie civilistiche3. Quest’ultimo è un tema classico della riflessione giuslavoristica4 i cui approdi sono stati di recente sintetizzati da un’autorevole dottrina la quale ha concluso nel senso di una tendenziale emancipazione del diritto del lavoro rispetto al diritto primo. Emancipazione, però, e non definitiva assoluzione: il diritto privato continua ad essere l’«interlocutore privilegiato»5 del diritto del lavoro.

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Limitandoci a soli lavori monografici v. Tosi, Il dirigente d’azienda. Tipologia e disciplina del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1974; Basenghi, Il licenziamento del dirigente, Giuffrè, 1991; A. Zoppoli, Dirigenza, contratto di lavoro, organizzazione, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000. Tra gli studi monografici sul tema si segnalano anche Dui, Il lavoro dirigenziale. Questioni controverse, Giuffrè, 2010; R. Ricci, Il rapporto di lavoro dei dirigenti d’azienda, Utet, 1992; Ripa, Dirigenti e risoluzione del rapporto, Ipsoa, 2009; Signorini, Il dirigente tra continuità e innovazione, Università degli Studi di Bergamo, 2004. Anteriormente al Codice civile vi è stata anche l’opera di F. Pergolesi, I dirigenti di azienda nell’ordinamento sindacale, Cedam, 1938. Tosi, Il dirigente d’azienda, in Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in Persiani-F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. IV, tomo I, Cedam, 2012, 437. Richiama efficacemente «i temi di un dialogo» tra i due settori Mazzotta, Diritto del lavoro e diritto civile. I temi di un dialogo, Giappichelli, 1994. Oltre alla dottrina citata alla nota precedente, v. F. Carinci, Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal ponte, in WP D’Antona, It., n. 54/2007, 4 ss.; Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in RIDL, 2012, I, 59 ss.; Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Cedam, 2006; Mazzotta, Nel laboratorio del giuslavorista, in Labor, 5 ss.; Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Napoli (a cura di), Il contratto di lavoro, Vita e Pensiero, 2004, 53 ss.; Nogler, (Ri)scoprire le radici giuslavoristiche del «nuovo» diritto civile, in EDP, 2013, 4, 959 ss.; Persiani, Ancora sul diritto civile e diritto del lavoro, in ADL, 2019, 3, 479 ss.; Perulli, Diritto del lavoro e diritto dei contratti, in RIDL, 2007, I, 427 ss.; G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Giappichelli, 1992; R. Scognamiglio, Il diritto civile e del lavoro ancora a confronto, in RIDL, 2014, I, 179 ss. G. Santoro-Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro, in Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo del lavoro dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 189 (il saggio è stato anticipato anche in WP D’Antona, It., n. 290/2016, 2 ss.).

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I termini di tale rapporto di interlocuzione sono stati efficacemente sintetizzati così: le categorie civilistiche «hanno una funzione strumentale e cioè servono a colmare le lacune del sistema e a spiegare fatti e valori dell’esperienza concreta ma non possono sovrapporsi ad essa ed ingabbiare o ingessare la materia sempre mutevole oggetto della nostra disciplina e quindi a proporre soluzioni interpretative in contrasto con la normativa lavoristica che è pur sempre speciale» (corsivi miei)6. A questo primo monito se ne deve aggiungere un altro. L’interprete giuslavorista deve interloquire con il diritto privato di oggi. È noto infatti che il diritto primo da tempo ormai conosce trame evolutive ben più complesse7 rispetto alla sua neutralità collegata a quelle concezioni liberali che avevano ispirato la codificazione del 19428. Vedremo che i due rischi – di frustrare le specificità del diritto del lavoro nell’applicazione di categorie civilistiche e di servirsi di istituti privatistici senza tener conto delle evoluzioni ordinamentali – si sono materializzati nella questione oggetto del presente contributo.

2. La disciplina contrattuale sul licenziamento del dirigente d’azienda. Cenni.

Come noto, il dirigente d’azienda è stato escluso dall’ambito soggettivo di applicazione della l. n. 604/1966 che ha introdotto il principio della necessaria giustificazione del licenziamento (artt. 1 e 3) e che ha imposto al lavoratore (i.e. alle categorie dei prestatori di lavoro a cui si applica la legge) un onere di impugnazione stragiudiziale del licenziamento entro 60 gg. dalla comunicazione (art. 6 nella versione previgente). La esclusione del dirigente dall’ambito di applicazione della legge (indirettamente ricavabile dall’art. 10) è stata a più riprese giudicata conforme alla nostra Costituzione9.

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G. Santoro-Passarelli, ivi, p. 188. Si esprime sostanzialmente in termini e a proposito della invalidità, Tosi, Le invalidità nel diritto del lavoro: questioni di metodo, in ADL, 2010, 3, 605 secondo il quale: «l’angolazione delle invalidità si rivela particolarmente fertile per misurare le tensioni tra diritto primo e diritti secondi, in particolare per misurare le “impazienze” del diritto del lavoro a star dentro alla cornice del diritto civile» avvertendo che occorre «tener conto delle particolarità del diritto secondo ed evitare forzature rispetto alle sue logiche interne (specie attraverso l’utilizzazione di categorie astratte) per garantirne la fedeltà al diritto primo». Per tutti v., di recente, Navarretta, Costituzione, Europa e Diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, Giappichelli, 2017. F. Carinci, Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal ponte, cit., 6, il quale richiama efficacemente lo strabismo dei giuslavoristi in materia. Ancor più efficace e cruda è stata la conclusione di Giugni al convegno romano del 1990 sul tema: «Se l’obiettivo di questo incontro era quello di promuovere una sorta di finale riconciliazione fra diritto civile e del lavoro la mia riserva è che non ne avrei visto la necessità, perché ormai dai tempi in cui il diritto del lavoro italiano è stato sganciato definitivamente – e non per opera del legislatore, ma per opera degli eventi e della dottrina – dal ramo del diritto pubblico, la civilizzazione o privatizzazione del diritto del lavoro è un fatto compiuto e direi che il termine di misurazione qui ... diventa non tra chi è più o meno privatista o civilista, ma tra chi conosce bene il diritto privato insieme al diritto del lavoro e chi non lo conosce affatto» (Giugni, Intervento, in G. SantoroPassarelli, Diritto del lavoro e categorie civilistiche, cit., 75). C. cost., 6 luglio 1972, n. 121, in FI, 1972, I, 2730; C. cost., 1° luglio 1992, n. 309, in FI, 1992, I, 2321; C. cost., 4 luglio 2001, n. 228, in D&L, 2001, 904; C. cost., 8 novembre 2018, n. 194, pt. 7, in DRI, 2019, 2, 654, a proposito dell’esclusione dei dirigenti dal d.lgs. 23/2015.

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La contrattazione collettiva dirigenziale, anche sulla scorta dell’art. 12 della legge10, ha introdotto un sistema di tutela che consente al dirigente licenziato di ricorrere ad un collegio arbitrale (che è irrituale)11 che, nel caso in cui ritenga non giustificato il recesso, può condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità, la cd. indennità supplementare, che è qualificata come somma da erogarsi a titolo risarcitorio. La possibilità di ricorrere al collegio arbitrale è però subordinata ad un’immediata reazione del dirigente licenziato il quale deve agire entro un termine che in linea di massima è di 30 giorni dalla comunicazione del licenziamento12. Il quadro descritto, che tutto sommato avrebbe una sua coerenza interna, ha cominciato a vacillare con la riforma del processo del lavoro del ’73 nell’ambito della quale è stata ammessa la possibilità per le parti di un arbitrato irrituale di adire l’autorità giudiziaria (art. 5, comma 1, l. n. 533/1973). Attraverso tale grimaldello la giustizia ordinaria ha potuto gradualmente esautorare quella arbitrale appropriandosi sostanzialmente della cognizione sulla disciplina contrattuale. La esautorazione è stata condotta attraverso una ferrea applicazione della regola della alternatività tra le due forme di tutela13 e attraverso più sottili operazioni di «contorno»14 che hanno reso meno appetibile il sistema arbitrale. Tra di esse ricordiamo quella che ammette la facoltà del datore di paralizzare il ricorso alla giustizia arbitrale attraverso un semplice rifiuto (e senza dover procedere ad un’azione giudiziaria di accertamento), quella della incompetenza del collegio arbitrale nel caso di licenziamento per giusta causa ed, infine e soprattutto, quella secondo cui i termini di decadenza per l’impugnazione previsti dalla contrattazione per il collegio arbitrale non trovano applicazione davanti alla giustizia ordinaria. È quest’ultimo un profilo di estremo interesse nella presente sede. L’inapplicabilità dell’onere convenzionale di decadenza è stata legata, un po’ pilatescamente, all’alternatività tra procedura arbitrale e giustizia ordinaria: il dirigente ha diritto di

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Che fa «salve le disposizioni di contratti collettivi e accordi sindacali che contengano per la materia disciplinata dalla presente legge, condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro». 11 È pacifico che quello dirigenziale sia un arbitrato irrituale. V., per tutti, Basenghi, Il licenziamento del dirigente, cit., 159 ss.; A. Zoppoli, Dirigenza, contratto di lavoro, organizzazione, cit., 177. 12 V., ad es., il C.C.N.L. per i dirigenti delle aziende industriali (art. 22, comma 4). Fa eccezione il C.C.N.L. per i dirigenti dei magazzini generali che prevede un termine di sei mesi (art. 34). 13 Tra le più recenti, Cass., sez. VI, 31 agosto 2017, n. 20653, secondo cui: «Il dirigente di azienda industriale che, ai sensi delle disposizioni del contratto collettivo di categoria integranti una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, abbia adito il collegio arbitrale, senza che a ciò si sia opposta la controparte, per la determinazione dell’indennità supplementare dovuta in ragione della mancanza di giustificazione del proprio licenziamento, non può, salvo che il collegio predetto si sia dichiarato privo di legittimazione a decidere la controversia o che il procedimento non sia pervenuto alla sua conclusione con il lodo o che il relativo patto sia divenuto per qualsiasi ragione inoperante, proporre la medesima azione in sede giudiziaria, non essendo abilitato a trasferire unilateralmente la questione davanti al giudice dopo il compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi di tale tutela ed in mancanza di una volontà del datore di lavoro contraria all’utilizzazione del procedimento arbitrale; ove il dirigente medesimo non abbia attivato la procedura arbitrale, ben può proporre l’azione giudiziaria, in conformità al principio di alternatività delle tutele consentite in relazione alla specificità delle ipotesi delle controversie di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 1, l. n. 533 del 1973». 14 Tosi, Il dirigente d’azienda, cit., 457, ma v. già prima Id., Il licenziamento del dirigente, in RIDL, 1996, I, 389 ss.

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scegliere una delle due procedure tra loro alternative e, nel caso di attivazione della via giurisdizionale, non si applicano le regole procedurali previste per l’arbitrato15. La soluzione è stata criticata dalla dottrina16 a nostro avviso condivisibilmente. È innegabile che le norme contrattuali sulla decadenza si riferiscano al solo giudizio arbitrale, ma è anche vero che il giudice applica quelle stesse norme contrattuali allorquando deve riconoscere al dirigente ingiustamente licenziato la indennità supplementare. Se la volontà delle parti contrattuali è quella di fissare dei limiti temporali stringenti alla possibilità di impugnare il licenziamento ed ottenere quindi la tutela economica, non v’è chi non veda come essa venga vanificata dalla selezione della disciplina contrattuale da applicare operata dalla giustizia ordinaria17. La mancata applicazione dell’onere convenzionale di impugnazione è solo il primo pezzo di un puzzle ben più complesso.

3. La disciplina legale sul licenziamento del dirigente d’azienda. Cenni.

Vi sono stati poi una serie di interventi legislativi che hanno gradualmente introdotto una tutela legale per il licenziamento del dirigente18. Non è questa la sede per ricostruire approfonditamente tali evoluzioni ma schematicamente possiamo individuare tre interventi legislativi. Il primo intervento legislativo (l. n. 108/1990) ha esteso l’obbligo legale di forma scritta del licenziamento del dirigente (art. 2, comma 2, l. n. 108/1990 che ha introdotto l’art. 2, comma 3, l. n. 604/1966) ed ha previsto altresì l’applicabilità, anche ai dirigenti, del divieto di licenziamento discriminatorio, con applicazione dell’allora vigente rimedio reintegratorio (art. 3, l. n. 108/1990). Il secondo intervento legislativo (l. n. 92/2012 che ha riscritto l’art. 18 st. lav.), in continuità con il primo, ha riconosciuto anche al dirigente d’azienda il rimedio della reintegrazione cd. forte in caso di licenziamento discriminatorio, intimato in concomitanza col matrimonio (art. 35 d.lgs. n. 198/2006) in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, d.lgs. n. 151/2001) perché riconducibile ad altri casi di nullità

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Cass., 26 giugno 2000, n. 8700; Cass., 15 aprile 1995, n. 1641; Cass., 10 aprile 1990, n. 3023; 15 Cass., 6 novembre 1986, n. 6534, in FI, 1987, I, 1168. 16 Basenghi, Il licenziamento del dirigente, cit., 238, nt. 70; Tosi, Il dirigente d’azienda, cit., 457. 17 Esprime valutazioni critiche anche G. Pellacani, Il licenziamento del dirigente: riflessioni sulla coerenza ordinamentale di un microsistema eterotopico e prospettive di rimodulazione del paradigma protettivo, in ADL, 2009, 1018-1019. 18 L’ineliminabilità di una tutela legale per il dirigente è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale la quale, pur confermando la legittimità costituzionale del recesso ad nutum, ha precisato che deve essere fatta salva per la categoria «la tutela che si deve riconoscere ex lege contro fatti che ledono la sua dignità di uomo e di lavoratore (per esempio, licenziamento intimato senza l’atto scritto; licenziamenti discriminatori; licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedano il riconoscimento di garanzie procedimentali)» (corsivo mio) (C. cost., 1° luglio 1992, n. 309, cit.).

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previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., o in caso licenziamento orale (art. 18, comma 1, st. lav.). Con il terzo intervento (l. n. 161/2014), infine, è stata estesa al dirigente la disciplina legale sui licenziamenti collettivi di cui alla l. n. 223/199119, con la previsione di una tutela legale indennitaria sia per violazione dei criteri di scelta sia per violazione delle procedure (art. 5, comma 1-quinques, l. n. 223/1991, come modificato dall’art. 16, comma 1, lett. b), l. n. 161/2014). Sotto il profilo rimediale dunque la tutela legale si atteggia variamente. Il dirigente ha diritto al rimedio ripristinatorio previsto dall’art. 18, comma 1, st. lav. Per la non conformità del recesso alle regole legali sul licenziamento collettivo, invece, il dirigente ha diritto ad una tutela solo risarcitoria20. In tale ultimo caso, peraltro, la legge prevede espressamente l’applicazione per il dirigente dell’onere legale di impugnazione ai sensi dell’art. 6 l. n. 604/1966. Seppure attraverso un sistema di rinvii non ineccepibile, l’art. 24, comma 1-quinques della l. n. 223/1991, prevede che al dirigente si applichi l’art. 5, comma 3, quarto periodo della legge che, a sua volta, dispone quanto segue: «ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».

4. L’onere legale di impugnazione ex art. 32, comma 2. Il

dibattito relativo al dirigente d’azienda ed il recente approdo della Corte di cassazione sulla applicazione selettiva della previsione con esclusione della ingiustificatezza del licenziamento. L’espresso rinvio solo per il licenziamento collettivo all’art. 6 l. n. 604/1966 (di seguito art. 6), ci consente ora di affrontare l’ultimo elemento del puzzle che concerne la verifica di un’applicabilità dell’onere legale di impugnazione a tutte le ipotesi di licenziamento del dirigente d’azienda. Su tale profilo di disciplina, come noto, vi è stata una consistente modifica legislativa nel 2010 (ad opera dell’art. 32 l. n. 183/2010, di seguito art. 32)21.

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La modifica è stata indotta dalla condanna dello Stato italiano per la non conformità alla Dir. 98/59/CE del 20 luglio 1998. C. giust., sez. II, 13 febbraio 2014, causa C-596/12, in GI, 2014, 1154, con nota di Tosi; in RIDL, 2015, II, 366, con nota di Donini; in LG, 2014, 3, 233, con nota di Miscione. 20 Eccezion fatta per il licenziamento non intimato in forma scritta, a cui si applica il rimedio reintegratorio (art. 5, comma 1, l. n. 223/1991). 21 Non è possibile in questa sede ricostruire l’ampio dibattito dottrinale sulla riforma del 2010. Si rinvia a Putaturo Donati, Decadenza e posizione del lavoratore, Edizioni Scientifiche italiane, 2018, passim; Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, Wolters Kluwer Italia, 2018, 99 ss. anche per ulteriori riferimenti bibliografici. Nelle note successive, invece, richiameremo le posizioni dottrinali che hanno preso specifica posizione sul dirigente d’azienda.

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La invalidità del licenziamento del dirigente d’azienda. Riflessioni sull’onere legale di impugnazione

Prima della riforma del 2010 vi era una sostanziale concordia, in dottrina22 ed in giurisprudenza23, nel ritenere inapplicabile la previsione alla categoria dirigenziale. Il solido argomento a sostegno della inapplicabilità era rappresentato dal rilievo secondo cui l’art. 6 faceva parte di un corpus normativo dal quale il dirigente era stato indirettamente escluso (art. 10 l. n. 604/1966)24. Né era ammissibile un’estensione analogica della norma legale sull’onere di impugnazione perché disposizioni di tal guisa sono tradizionalmente qualificate come norme eccezionali e quindi non suscettibili di interpretazione analogica (art. 14 disp. prel.)25. Una piccola fronda alla inapplicabilità era stata proposta per il licenziamento discriminatorio del dirigente dalla dottrina26 a seguito della modifica introdotta dalla l. n. 108/1990. Il quadro di riferimento è mutato nel 2010, quando il legislatore, con l’art. 32, ha dapprima modificato l’art. 6 (art. 32, comma, 1) prevedendo un doppio termine di impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) e poi ha aggiunto che tale doppio termine trova applicazione «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento» (art. 32, comma 2). L’intervento legislativo è andato oltre addirittura estendendo l’onere di impugnazione ad una serie eterogenea di ipotesi tra le quali ricordiamo il recesso del committente dai rapporti di collaborazione, il trasferimento del lavoratore, il trasferimento d’azienda, l’azione di nullità del contratto a tempo determinato, la cessione del contratto, i licenziamenti che presuppongono una questione di qualificazione del rapporto di lavoro. Ancora bisogna ricordare che la formulazione originaria dell’art. 32 prevedeva, con applicazione anche ai giudizi in corso, una forfettizzazione del danno conseguente alla declaratoria di nullità del contratto a termine mediante il pagamento di una penale determinata nel minimo e nel massimo (art. 32, comma 5)27. Senza entrare nel merito delle scelte politiche del legislatore del 2010 e tralasciando l’analisi delle previsioni che riguardano l’onere legale di impugnazione per ipotesi diverse dal licenziamento, la novella ha apportato due modifiche all’impianto della l. 604. Con la prima, interna alla legge perché riguarda direttamente l’art. 6, il diritto di difesa del lavoratore è stato in parte sacrificato nel bilanciamento con l’interesse alla certezza dei rapporti giuridici. Al già previsto onere di impugnazione stragiudiziale del licenziamento entro 60 giorni a pena di decadenza è stato aggiunto quello, ben più gravoso, del deposito nel termine (oggi) dei successivi 180 giorni della domanda giudiziale a pena di inefficacia della impugnazione. Con la seconda, esterna alla legge del 1966, l’onere legale di impugnazione così come descritto poc’anzi è stato esteso anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento e quin-

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V., per tutti, Basenghi, Il licenziamento del dirigente, cit., p. 239 ss. V. le sentenze indicate in nota 15. 24 A favore invece di una applicazione indifferenziata dell’art. 6, Ferrante, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplinare, in F. Carinci (a cura di), Il lavoro subordinato, Tomo III, Il rapporto individuale dei lavoratori: estinzione e garanzia dei diritti, vol. XXIV, in Tratt Bessone, 2007, 222-223. 25 Tra le tante, Cass., 10 aprile 1990, n. 3023. 26 Santoni, Il licenziamento discriminatorio del dirigente, in DL, 1991, 561; contra Basenghi, Il licenziamento del dirigente, cit., 240-241. 27 La previsione è contenuta oggi nell’art. 28 d.lgs. n. 81/2015. 23

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di a quei casi di invalidità per i quali, prima, non sussisteva l’onere legale di impugnazione del licenziamento. L’individuazione dei casi di invalidità del licenziamento è stata agevole per un gran numero di ipotesi. Vi è stata da subito sostanziale concordia nel ritenere che nell’ambito di applicazione dell’art. 6, attraverso il canale dell’art. 32, comma 2, rientrino il licenziamento discriminatorio (per i fattori diversi da quelli indicati dall’art. 4 l.n. 604/1966), quello nullo28, anche per motivo unico illecito determinante ex art. 1345 c.c. o perché posto in essere in frode alla legge ex art. 1344 c.c., il licenziamento per causa di matrimonio (art. 35, d.lgs. n. 198/2006), quello intimato in violazione delle norme sulla maternità e paternità (art. 54, d.lgs. n 151/2001), il licenziamento per superamento del periodo di comporto (art. 2110, comma 2, c.c.), per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica (artt. 4, comma 4 e 10, comma 3, l. n. 68/1999). Il problema si è posto (e forse si pone ancora) per il dirigente d’azienda. La dottrina prevalente29 si è mostrata particolarmente restrittiva. Un primo orientamento, più tranchant, ritiene inapplicabile al licenziamento del dirigente il rinnovato onere legale di impugnazione del licenziamento. L’argomento utilizzato è quello della limitazione soggettiva contenuta nell’art. 10 l. n. 604/1966 che non sarebbe stata modificata dalla l. n. 183/2010 che ha riguardato il solo ambito oggettivo della previsione (a tutti i casi di invalidità del licenziamento)30. In altri termini, sarebbe stato allargato l’ambito dei licenziamenti da impugnare ma non sarebbe stata incrementata la platea dei destinatari della tutela, tra i quali non figurerebbero i dirigenti giusta l’esclusione prevista dall’art. 10. Dunque la inapplicabilità dell’onere legale al dirigente, secondo questa prima ricostruzione, prescinderebbe dalla patologia del licenziamento.

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In tale caso possono ad esempio rientrarvi il licenziamento per raggiungimento dell’età pensionabile (Cass., 17 maggio 2018, n. 12108), in dottrina Putaturo Donati, Decadenza e posizione del lavoratore, cit., 205. 29 Nell’ambito di ricostruzioni più ampie alcune voci dottrinali non hanno espressamente escluso l’applicabilità dell’onere di impugnazione al dirigente Albi, Impugnazioni e decadenze. Del licenziamento e delle fattispecie «assimilate», in Mazzotta (a cura di), Il diritto del lavoro dopo il “Collegato” (Legge 4 novembre 2010, n. 183), Jurismaster, 2010, 63; Gambacciani, L’onere di impugnazione (anche giudiziale) del licenziamento, in Proia –Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro – Commentario alla legge 4 dicembre 2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro), Giuffrè, 2011, 181, nt. 27; Ianniruberto, Le regole per le impugnazioni nel c.d. «Collegato lavoro», in MGL, 2010, 892; Passalacqua, Le novità in materia di licenziamenti nel cd. “Collegato lavoro”, in DLM, 2011, 53. V., pure, Carrà, Riflessioni sull’attuale processo di destrutturazione del rapporto di lavoro dirigenziale, in ADL, 2015, 1, 132-133; Mimmo, Il licenziamento del dirigente, in De Paola (a cura di), Il licenziamento, II ed., Giuffrè, 2019, 535, il quale sulla scorta della espressa previsione dell’onere legale di impugnazione per il licenziamento collettivo del dirigente ritiene anomalo escludere che tale regime si applichi anche alle altre ipotesi di licenziamento individuale. 30 Amoroso, Impugnazioni e decadenza nel «collegato lavoro». Il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze, 2012, in www. treccani.it; Bolego – Marinelli – Sassani, Art. 32. Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, in Nogler –Marinelli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro (legge 4 novembre 2010, n. 183), Utet, 2012, 296-297; Pellacani, Il cosiddetto «Collegato lavoro» e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro, in RIDL, 2010, I, 260, secondo il quale il dirigente d’azienda sarebbe stato dimenticato dal legislatore; Putaturo Donati, Decadenza e posizione del lavoratore, cit., 210-212, aderisce a questa prospettiva e rileva altresì che una soluzione diversa (che limiterebbe l’onere legale ai soli casi di invalidità di fonte legale), imporrebbe al dirigente un giudizio prognostico («ansia da prestazione») in merito alla qualificazione del vizio inficiante il licenziamento a cui collegare la impugnazione nei termini previsti dall’art. 6. In giurisprudenza, Trib. Milano, 14 dicembre 2015, n. 1678, in www.iusexplorer.it.

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Un secondo orientamento, invece, ritiene che l’art. 32, comma 2, abbia esteso l’ambito di applicazione dell’onere legale di impugnazione di cui all’art. 6 non solo per quel che concerne i vizi del licenziamento (tutti i casi di invalidità) ma anche per quanto riguarda i soggetti a cui si applica la tutela la quale, pertanto, opera a prescindere dalla categoria legale di appartenenza. Vi sarebbero due dispositivi legali integrati per l’onere di impugnazione con presupposti soggettivi ed oggettivi differenti: quello previsto dalla l. n. 604 riferito alle sole violazioni previste dalla legge (insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo, licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 4) ed applicabile alle categorie dei prestatori indicate all’art. 10 (operai, impiegati e poi quadri) e quello introdotto dalla l. n. 183/2010 che invece si estende anche agli altri casi di invalidità del licenziamento ed a prescindere dalla categoria legale di appartenenza dei prestatori di lavoro. L’applicazione dell’onere legale di impugnazione ex art. 32, comma 2, al dirigente è però, secondo tale ricostruzione, selettiva. Essa si riferisce ai casi di invalidità del licenziamento da intendersi come «difformità dal modello legale, cioè contrarietà a norma di legge»31 o come inidoneità dell’atto «ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico»32. Non invece nel caso di ingiustificatezza di fonte convenzionale a cui, come noto, è collegato il solo risarcimento del danno33. Il licenziamento ingiustificato del dirigente quindi non attingerebbe, secondo questa ricostruzione, alla categoria giuridica della invalidità specificamente indicata dall’art. 32 dal cui ambito di applicazione dunque esula34. Questa seconda impostazione è stata avallata dalla Corte di cassazione che, di recente, pare aver definitivamente risolto una serie di contrasti emersi nella giurisprudenza di merito. È opportuno però ripercorrere gli snodi essenziali della giurisprudenza sul tema. In primo luogo, e convintamente, la giurisprudenza ha ammesso che l’art. 32 si applica anche al licenziamento invalido del dirigente, superando quindi le strettoie individuate dal primo orientamento dottrinale poc’anzi richiamato.

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Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, cit., 183. F. Ferraro, L’impugnazione del licenziamento del dirigente dopo il “Collegato lavoro”, in ADL , 2015, 3, 672. 33 Boghetich, Tutele dei diritti del lavoratore e nuovi termini di decadenza, in ADL, 2011, 76; Gragnoli, Nuovi profili dell’impugnazione del licenziamento, in ADL, 2011, 50, secondo cui «non avrebbe troppo senso imporre oneri di impugnazione qualora il sistema sanzionatorio sia solo di carattere economico e non possa portare neppure alla riassunzione»; Nicolini, L’evoluzione del regime delle decadenze nei rapporti di lavoro, in RIDL, 2013, I, 614-615; Tosi, Il dirigente d’azienda, cit., 457, nt. 150; Zoli, Le legge n. 183/2010: le novità in materia di licenziamento, in ADL, 2011, 845. 34 F. Ferraro, L’impugnazione del licenziamento del dirigente dopo il “Collegato lavoro”, cit., 673 ss.; Maio, L’applicazione dei termini di decadenza di cui all’art. 32 della legge n. 183 del 2010 al rapporto di lavoro dirigenziale, in GC.com, 3 marzo 2014, 6; Id., Problematiche inerenti il licenziamento dei dirigenti (ovvero alla ricerca della specialità perduta), in Romeo (a cura di), L’effettività delle tutele dei dirigenti. Trattamenti normativi, economici e previdenziali, Pacini giuridica, 2019, 41 (il saggio è stato pubblicato anche in ADL, 2019, 6, 1261 ss.); Pettinelli, Il dirigente, il giudice e il legislatore: l’impugnazione del licenziamento tra «invalidità» e «ingiustificatezza», in RIDL, 2014, 284 ss.; Rota, «Anche» il dirigente deve impugnare il licenziamento nei termini di cui all’art. 6, l. n. 604/1966, in RIDL 2014, II, 290 ss.; Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, cit., 183 ss. 32

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Già nel 2015 la Cassazione ha ritenuto applicabile il doppio termine di impugnazione ai licenziamenti invalidi «senza che assuma rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore e, dunque, anche ai dirigenti»35. Questa conclusione è ampiamente condivisibile. L’assenza di parametri normativi limitativi da un punto di vista soggettivo e la ampiezza della formula utilizzata dal legislatore («le disposizioni di cui all’art. 6 … si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento») inducono a preferire tale impostazione. In ordine, invece, all’applicabilità dell’onere legale di impugnazione alla ingiustificatezza, nella giurisprudenza di merito sono emersi due orientamenti opposti. In senso favorevole si sono espressi il Tribunale di Milano nel 201336 ed il Tribunale di Velletri nel 201537. In tali sentenze è stato ritenuto che la ingiustificatezza sia una invalidità perché si è in presenza di un atto che presenta «un vizio patologico a fronte del quale viene postulata una tutela, a prescindere dal fatto che la stessa sia reintegratoria o risarcitoria»38. La sentenza del Tribunale di Velletri è stata riformata dalla Corte d’appello di Roma del 2016, che rappresenta la sentenza capo-fila dell’opposto orientamento. Le motivazioni a quanto consta non sono state pubblicate ma la sentenza è stata citata dalla dottrina39 ed è stato poi possibile trarne una sintetica ricostruzione dalla sentenza di legittimità che, di recente, la ha confermata40. La Corte d’appello di Roma «pur rilevando che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, aveva esteso il relativo regime a tutti i casi di invalidità del licenziamento e che tale estensione riguardava anche i dirigenti… osservava tuttavia che l’istituto non poteva che riguardare i soli casi di difformità del licenziamento dal modello legale, in quanto la patologia dell’invalidità comprende i licenziamenti nulli perché contrastanti con specifici divieti di legge, inefficaci perché verbali (in violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 1), privi di giusta causa o di giustificato motivo o an-

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Cass., 11 novembre 2015, n. 22627, in FI, 2015, 12, I, c. 3801, con nota di Perrino. Secondo la pronuncia «la ratio della disciplina introdotta… si rinviene nella esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in contrasto con l’art. 111 Cost. Il legislatore ha così operato, facendo riferimento ad un criterio oggettivo, un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore». L’affermazione, che per la sua ampiezza avrebbe potuto apparire suscettibile di applicazione anche all’ipotesi di ingiustificatezza, tuttavia deve valutata alla luce della fattispecie concreta scrutinata che si riferiva ad un caso di licenziamento discriminatorio. Ed infatti nella pronuncia si afferma espressamente: «i suddetti termini di decadenza e di inefficacia dell’impugnazione, dunque, devono trovare applicazione quando si deduce l’invalidità del licenziamento, come nella specie prospettandone la nullità in quanto discriminatorio (corsivo mio), non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore». In senso analogo, App. Milano, 21 aprile 2017, n. 916, in GLav, n. 47/2017, 38; Trib. Chieti, 26 gennaio 2017, n. 9, in www.iusexplorer.it; Trib. Roma, 22 maggio 2017, n. 4801, ivi; Trib. Milano, 1° aprile 2016, ivi. 36 Trib. Milano, 9 luglio 2013, n. 2797, in RIDL, 2014, II, 275, con note di Pettinelli e Rota. Nella sentenza si richiama anche un’altra pronuncia di merito che ha condiviso la medesima soluzione. Si tratta di Trib. Milano, 30 novembre 2012, est. Greco, inedita a quanto consta. V., pure, Trib. Milano, 3 settembre 2013, n. 2743 e Trib. Novara, 13 settembre 2013, inedite ma richiamate da Rota, «Anche» il dirigente deve impugnare il licenziamento nei termini di cui all’art. 6, l. n. 604/1966, cit., p. 294. Nello stesso senso Trib. Roma, 22 maggio 2017, n. 4801, in www.iusexplorer.it. 37 Trib. Velletri, 22 gennaio 2015, n. 97, in ADL, 2015, 3, 666-667 (qui 667). 38 Trib. Velletri, 22 gennaio 2015, n. 97, cit. 39 App. Roma, 18 luglio 2016, n. 3977, citata da Maio, Problematiche inerenti il licenziamento dei dirigenti (ovvero alla ricerca della specialità perduta), cit., 41. 40 Cass., 8 gennaio 2020, n. 148.

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che soltanto viziati dal mancato rispetto delle regole procedimentali di cui all’art. 7 st. lav.; in tutti questi casi si tratta sempre di ipotesi in cui l’atto espulsivo datoriale, al di là delle tutele offerte dall’ordinamento, più o meno intense, (dalla reintegrazione ad indennizzi monetari variamente graduati, tutele peraltro nel tempo più volte rivisitate), si pone in contrasto con norme di legge, sia essa la L. n. 604 del 1966, siano fonti ad essa successive. In nessun caso può invece qualificarsi come invalido il licenziamento del dirigente privo di “giustificatezza” a norma dei contratti collettivi di settore (nel caso in esame, dall’art. 22 del CCNL Dirigenti Imprese industriali), poiché in questo caso l’illecito è solo convenzionale e l’atto che lo riflette integra soltanto un inadempimento contrattuale, così come di esclusiva regolamentazione contrattuale è la tutela in tal caso apprestata». Di recente la Corte di cassazione pare aver risolto la questione nel senso della non applicabilità al licenziamento ingiustificato del dirigente dell’onere legale di impugnazione41. La sentenza della Corte di cassazione è estremamente interessante perché ricompone le varie questioni che la dottrina e la giurisprudenza avevano proposto. Sulla base di una attenta e condivisibile ricostruzione, la Cassazione ritiene che l’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010 abbia individuato un nuovo campo di applicazione dell’onere di impugnazione, che coesiste con quello di cui all’art. 10 l. n. 604/1966 e che però rispetto a quest’ultimo è differente sia da un punto di vista oggettivo, perché si riferisce ai casi di invalidità del licenziamento che non derivano direttamente della legge sui licenziamenti individuali, sia da un punto di vista soggettivo, perché include tutte le categorie dei prestatori di lavoro. In questo senso dunque la sentenza del 2020 si pone in continuità con il proprio precedente del 2015 che aveva affermato, per coerenza con la ratio della modifica introdotto nel 2010 al sistema legale di impugnazione del licenziamento, l’estensione delle regole di impugnazione a tutti i licenziamenti invalidi senza che assumesse alcun rilievo la categoria legale del lavoratore42. L’applicazione del nuovo onere legale di impugnazione al dirigente è però subordinata alla invalidità del licenziamento. Ed è su questo secondo aspetto che la pronuncia del 2020 è particolarmente significativa. Secondo la pronuncia il concetto di invalidità «ha un significato preciso, che presuppone che l’atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l’atto la conseguenza della invalidità». Ancora «l’espressione “invalidità” deve essere intesa in senso restrittivo, avendo riguardo ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre effetti conformi alla sua

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Oltre a Cass., 8 gennaio 2020, n. 148, vi è stata un’altra sentenza identica, di poco successiva, Cass., 13 gennaio 2020, n. 395, che invece ha cassato con rinvio una sentenza della Corte d’appello di Firenze che aveva ritenuto applicabile al licenziamento ingiustificato del dirigente l’onere legale di decadenza dell’impugnazione. Un po’ più timidamente, già, Cass., 22 febbraio 2019, n. 5372. 42 Cass., 11 novembre 2015, n. 22627, cit.

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funzione economico sociale. La nozione generalmente accolta di invalidità presuppone, pertanto, un atto inidoneo ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico». Pertanto l’onere di impugnazione per l’invalidità del licenziamento di cui all’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010 opera «solo quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori».

5. I rischi, anche di costituzionalità, dell’art. 32, comma

2, se interpretato nel senso di escludere l’onere legale di impugnazione alla ingiustificatezza del licenziamento. La soluzione a cui è giunta la giurisprudenza di legittimità, solo in apparenza rigorosa, presenta una serie di inconvenienti pratici e teorici che sono insuperabili. Il primo inconveniente è di natura processuale43: per verificare se al dirigente si applichi l’onere legale di impugnazione, e nel caso se sia decaduto, è necessario dapprima qualificarne la pretesa in giudizio. Se il dirigente intende contestare il licenziamento adducendo una delle ragioni vietate dall’art. 18, comma 1, st. lav., sarà allora tenuto ad impugnare stragiudizialmente il recesso entro sessanta giorni ed a promuovere un ricorso davanti al giudice del lavoro nei successivi centoottanta giorni. Se invece il dirigente si limita a contestare la giustificatezza del recesso, non vi sarebbe l’onere di impugnazione stragiudiziale ed il dirigente potrebbe decidere di agire in giudizio dopo anni, purché ciò avvenga entro gli ordinari termini di prescrizione. In astratto il datore potrebbe non essere a conoscenza della volontà del dirigente di chiedere la tutela economica di fonte contrattuale fino a quando, anche dopo anni, non gli sarà notificata la domanda giudiziaria. A noi pare che questo risvolto processuale e pratico sia quanto di più lontano possa esservi rispetto alla ratio della modifica legislativa del 2010, che – è noto – è stata quella di «assicurare la certezza dei rapporti giuridici»44 e la speditezza nella definizione di situazioni contenziose. La soluzione a cui la Cassazione giunge pone più problemi di quanti ne risolva. Il licenziamento del dirigente infatti non può essere costretto entro quella logica binaria secondo cui il recesso o è vietato dall’art. 18, comma 1, st. lav. (con diritto alla reintegrazione) o è ingiustificato ai sensi della contrattazione collettiva. Se infatti si ritiene che la invalidità del licenziamento implichi un discostamento dal modello legale, l’onere di impugnazione si applica sicuramente anche al dirigente nei casi di licenziamento:

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V., in termini, Putaturo Donati, Decadenza e posizione del lavoratore, cit., 210, 212. C. cost., 25 luglio 2014, n. 226, in GCost, 2014, 4, 3562, con nota di S.P. Emiliani. La sentenza si riferisce alla legittimità costituzionale dell’art. 32, con specifico riguardo all’indennità onnicomprensiva prevista per il contratto a tempo determinato.

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– per superamento del periodo di comporto; – per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica; – intimato in violazione dell’art. 2112 c.c. Di incerta risoluzione sono poi i casi in cui il dirigente chieda l’accertamento della insussistenza della giusta causa di licenziamento e che, a stretto rigore, investirebbe un discostamento da un modello legale (art. 2119 c.c.). Discorso identico si può condurre per l’ipotesi in cui il dirigente lamenti una violazione della procedura disciplinare di cui all’art. 7 stat. lav.45 o un difetto di proporzionalità, ai sensi del 2106 c.c., del licenziamento. Solo una parte delle ipotesi ora elencate non sarebbe assoggettata all’onere di impugnazione se la nozione di invalidità rilevante ai fini dell’art. 32 l. n. 183/2010 fosse solo quella a cui consegue un rimedio ripristinatorio. In questo caso, però, si dovrebbe ritenere assoggettato all’onere legale di impugnazione il licenziamento del dirigente al quale, per contratto collettivo o individuale, siano assicurate delle condizioni migliorative di stabilità46. Come è evidente, dunque, i confini della questione vanno ben oltre quella logica binaria (nullità-ingiustificatezza) proposta da una parte della dottrina e dalla Cassazione. Il catalogo di questioni proposte non ha solo un impatto pratico e operativo. Esso rinvia ad un profilo ancora più rilevante che attiene a significativi dubbi di costituzionalità dell’art. 32, comma 2, così come interpretato dalla Cassazione. Analizzando in controluce gli argomenti proposti, ci pare che anche la soluzione della questione dell’applicabilità dell’onere legale di impugnazione al dirigente sia stata condotta con valutazioni simili (se non identiche) a quelle che vengono da sempre proposte per giustificare lo statuto legale negativo del dirigente e cioè la mancata applicazione di disposizioni di tutela riservate alle altre categorie di prestatori di lavoro, prima fra tutte quella sui licenziamenti individuali. Un po’ semplicisticamente sono valutazioni che servono tradizionalmente per giustificare un trattamento deteriore per la categoria dirigenziale in virtù di una maggiore forza contrattuale di tale prestatore. Nel caso invece della decadenza, i termini di valutazione sono esattamente rovesciati.

45

Contra Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, cit., 187-188, il quale ritiene inapplicabile la decadenza per la nota equiparazione tra vizi formali e vizi sostanziali del licenziamento del dirigente (a partire da Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7880, in LG, 2007, 889, con nota di Menghini). Rileviamo però che l’equiparazione riguarda unicamente il trattamento sanzionatorio del vizio procedurale ma non il vizio stesso. V. peraltro App. Roma, 18 luglio 2016, n. 3977 che, nell’inaugurare l’orientamento fatto proprio dalla Cassazione ha osservato che l’applicazione della decadenza deve riguardare i soli casi di difformità del licenziamento dal modello legale «anche … viziati dal mancato rispetto delle regole procedimentali di cui all’art. 7 st. lav.; in tutti questi casi si tratta sempre di ipotesi in cui l’atto espulsivo datoriale, al di là delle tutele offerte dall’ordinamento, più o meno intense, (dalla reintegrazione ad indennizzi monetari variamente graduati, tutele peraltro nel tempo più volte rivisitate), si pone in contrasto con norme di legge». 46 Sulle clausole di stabilità nel rapporto di lavoro dirigenziale, v. App. Firenze, 15 settembre 2001, in D&L, 2001, 1082 ma già C. cost., 26 ottobre 1992, n. 404.

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Qui si controverte della «perdita (mediante estinzione) di un diritto o, più in generale di una situazione soggettiva attiva, come conseguenza del mancato esercizio o, più precisamente, del mancato compimento di un atto specificamente previsto dalla legge (o dal negozio), entro un dato termine (perentorio)»47. Di una decadenza che, secondo l’interpretazione proposta dalla Cassazione e dalla dottrina maggioritaria, trova piena applicazione nel caso di licenziamento dell’operaio, dell’impiegato e del quadro (quale che sia il vizio) e trova solo parziale applicazione al dirigente, nei soli casi più gravi (di invalidità) del licenziamento. Si finisce così per tributare alla categoria di lavoratore più forte e per un recesso che è considerato meno grave dall’ordinamento un trattamento di miglior favore che è difficile giustificare48 e che rasenta l’assurdità ove si consideri che la giustificatezza prevista dai contratti collettivi è da sempre accompagnata da termini di decadenza convenzionali che la giustizia ordinaria si rifiuta di applicare49. Tale trattamento di miglior favore pone problemi di costituzionalità perché crea incongruenze sia all’interno della categoria dirigenziale sia all’esterno di essa. All’interno della categoria, infatti, il diritto di difesa del dirigente – perché di questo evidentemente si tratta – viene limitato attraverso la decadenza per la patologia più grave del licenziamento (invalidità), che è considerata maggiormente riprovevole dall’ordinamento tanto da prevedere la massima reazione della reintegrazione. Il diritto di difesa del dirigente è altresì limitato nel caso di illegittimità del licenziamento collettivo ed in presenza di un atto comunque idoneo ad estinguere definitivamente il rapporto. Il diritto di difesa invece non subisce alcuna compressione – salva ovviamente la prescrizione – per quelle patologie meno gravi di ingiustificatezza del licenziamento, che pure estinguono definitivamente il rapporto. È evidente la contrarietà dell’art. 32, comma 2, come interpretato dalla Cassazione, con il diritto di difesa (art. 24 Cost.), anche a tutela del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), e ovviamente, con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) Identiche considerazioni possono svolgersi all’esterno della categoria ed in particolare con riferimento agli altri prestatori di lavoro. Rispetto ad essi, tuttavia, ci sono due ulteriori profili di irragionevolezza (art. 3 Cost.) che si collegano specificamente al tendenziale passaggio, con la riforma dell’art. 18 st. lav. avvenuta nel 2012, ad un regime risarcitorio50. Per la gran parte dei licenziamenti privi di giustificazione, infatti, il recesso datoriale è idoneo ad estinguere definitivamente il rapporto e quindi non può essere sussunto entro

47

Magazzù, Decadenza (Diritto civile), in NDI, V, Utet, 1968, 232. Pettinelli, Il dirigente, il giudice e il legislatore: l’impugnazione del licenziamento tra «invalidità» e «ingiustificatezza», cit., 285, nt. 33; Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, cit., 131; Visonà – Perina, Il regime delle impugnazioni e il contenzioso del lavoro, in Fiorillo – Perulli (diretto da), Il nuovo diritto del lavoro, II, Rapporto individuale e processo del lavoro, Giappichelli, 2014, 485. 49 Cass., 26 giugno 2000, n. 8700; Cass., 15 aprile 1995, n. 1641; Cass., 10 aprile 1990, n. 3023; 15 Cass., 6 novembre 1986, n. 6534, cit. 50 La questione si pone negli stessi termini anche per il licenziamento ingiustificato nell’ambito della tutela obbligatoria (art. 8, l. n. 604/1966 e art. 9 d.lgs. n. 23/2015). 48

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la nozione di invalidità propugnata dalla Cassazione se intesa come inidoneità dell’atto ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico. Da questo punto di vista, il licenziamento ingiustificato per le altre categorie è, quoad effectum, identico al licenziamento del dirigente privo di giustificatezza. Solo che il primo è assoggettato pacificamente all’onere legale di impugnazione ex art. 6 mentre il secondo non è assoggettato alla decadenza perché non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 32, comma 2. Identità di effetti ed identità di patologia vi sono invece nel caso di licenziamento per vizi procedurali. Se però, per tutte le categorie dei prestatori di lavoro è prevista una tutela risarcitoria e non ripristinatoria, solo operai, impiegati e quadri sono tenuti ad impugnare il licenziamento ai sensi dell’art. 6, non il dirigente.

6. Quando l’atto è invalido? Riflessioni (minime) sulle

evoluzioni del diritto privato e sulla specialità del diritto del lavoro. Fino a questo punto ci siamo limitati a descrivere i fili di questa complessa trama e prospettare le criticità che la soluzione giurisprudenziale (e dottrinale) fa emergere. Non abbiamo ancora sottoposto a verifica la valutazione che si pone a monte ragionamento dottrinale e giurisprudenziale e cioè cosa si intenda per invalidità del licenziamento ai sensi dell’art. 32, comma 2. Per condurre questa verifica dobbiamo necessariamente interloquire col diritto privato. Deve essere un’interlocuzione serena e franca che però sia consapevole dei due rischi/ errori che abbiamo evidenziato in premessa: occorre guardare al diritto primo nella sua attuale dimensione evolutiva e il confronto comunque non può mortificare le specificità del diritto del lavoro. A noi pare che la soluzione accolta dalla Cassazione sulla scorta della dottrina maggioritaria abbia commesso entrambi gli errori. Procediamo con ordine. Secondo la Cassazione la invalidità avrebbe «un significato suo proprio» che attiene ad un discostamento dell’atto da un modello legale predeterminato e, sotto il profilo degli effetti, all’inidoneità dello stesso ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico. Tale nozione non persuade. In primo luogo, nel nostro ordinamento non esiste una categoria legislativa della invalidità perché il legislatore «non la definisce né la regola, ma si limita a presupporla come un dato implicito nel sistema»51.

51

Roppo, Il contratto, II ed., Giuffrè, 2011, 687. Basti pensare che una parte della dottrina, minoritaria, contesta il fondamento di una categoria unitaria della invalidità. Cfr. Fedele, L’invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, 1943, 326; Irti, Concetto

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Esistono invece, sparse nell’ordinamento, una lunga serie di cause di invalidità cui conseguono (o non conseguono) determinati effetti, secondo modalità e tecniche normative estremamente diverse. L’elencazione delle diverse ipotesi di invalidità potrebbe portarci molto lontano e non è particolarmente feconda52. Tutte queste ipotesi hanno un minimo comune denominatore: l’invalidità è un giudizio di disvalore. L’atto invalido è un atto non valido, e cioè un atto «che presuppone un giudizio di disvalore dell’ordinamento rispetto ad un comportamento umano che evidenzia interessi non meritevoli di tutela… la invalidità e la validità sono modalità deontiche di un comportamento giuridicamente qualificato secondo regole predeterminate: più precisamente modalità deontiche di atti o di classi di atti, la cui struttura reale deve realizzarsi secondo forme e con contenuti che non siano in contrasto con la previsione normativa»53. Questa definizione ci pare un’ottima base da cui partire e ci consente altresì di contestare le altre affermazioni contenute nella recente pronuncia di Cassazione ove, per definire la invalidità, si è alluso alla inidoneità dell’atto invalido «ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico» o comunque a «produrre effetti conformi alla sua funzione economico sociale». Esse prestano il fianco ad un rilievo di logica perché fanno coincidere la categoria della invalidità con il piano degli effetti. Il riferimento agli effetti infatti «porta a sovrapporre e confondere l’inefficacia derivante da invalidità e l’inefficacia in senso tecnico, spostando l’angolo di visuale dall’atto all’effetto e invertendo il procedimento logico che occorre seguire per distinguere le vicende giuridiche relative all’atto da quelle che concernono l’effetto»54. Il procedimento logico invece deve partire dalla definizione minima che abbiamo condiviso: l’atto è invalido se non è conforme ad un dato modello. Sotto il profilo degli effetti, la categoria della invalidità è tradizionalmente utilizzata per fornire una cornice unitaria ai rimedi della nullità e dell’annullabilità rispetto ai quali il giudizio di disvalore influisce in maniera differente sulla efficacia dell’atto. Nel caso della nullità, l’atto invalido è inefficace in senso lato e quindi improduttivo di effetti; per la annullabilità, l’atto invalido è precariamente efficace fino all’annullamento55.

giuridico di «comportamento» e invalidità dell’atto, in RTDPC, 2005, 1053 ss., nega che nullità ed annullabilità siano species del genus invalidità. La nullità viene identificata come un non-atto mentre la annullabilità è un atto efficace. 52 V. però, Filanti, Invalidità, in DDP Civ, X, 2016, Utet, 462 ss. il quale, dopo aver condotto una rigorosa analisi sul dato positivo, ha concluso così: «il termine “invalidità” non sta ad individuare una categoria giuridica. Il legislatore ne fa uso in modo descrittivo e disinvolto». 53 Tommasini, Invalidità (dir. priv.), in ED, XXII, Giuffrè, 1972, 577-578, il quale aggiunge (580): «La invalidità è il risultato di una valutazione negativa: è, dunque, qualificazione. Essa è nozione opposta alla validità soltanto con riferimento alla difformità (o conformità) dai (ai) valori del sistema, ma entrambe sono qualificazioni giuridiche… anche in relazione al profilo dell’efficacia giuridica la invalidità non è il fenomeno diametralmente opposto alla validità, posto che esistono atti validi improduttivi di effetti o per lo meno degli effetti funzionali tipici, e atti invalidi produttivi di effetti (anche se in via soltanto precaria)». 54 Tommasini, Invalidità (dir. priv.), cit., 576. 55 A ciò si aggiungano le ulteriori caratterizzazioni delle due ipotesi: insanabilità/sanabilità, legittimazione assoluta/relativa, rilevabilità ufficiosa/per eccezione di parte, imprescrittibilità/prescrittibilità.

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È questo il modello standard di regolazione, sotto il profilo degli effetti, delle due tradizionali species della invalidità. Esistono nel diritto privato modelli di invalidità che si pongono in una zona grigia tra nullità ed annullabilità e che arricchiscono di contenuti la categoria generale della invalidità. Ci riferiamo evidentemente a quelle nullità di matrice europea che sono poste a tutela del contraente debole (cd. nullità di protezione)56 e che si contraddistinguono per la loro relatività, nel senso che solo la parte debole è legittimata a farle valere. La nullità di protezione ha poi – ed è questo il profilo maggiormente interessante ai nostri fini – una vocazione funzionale alla correzione parziale del contratto, correzione che opera limitatamente alle parti che pregiudicano la parte contraente che in via esclusiva può farle valere. Il vasto panorama delle nullità di protezione è poi in continua evoluzione. Interessante, da questo punto di vista, la vicenda delle cd. nullità selettive che ha riguardato, di recente, la nullità sancita per l’inosservanza della forma stabilita per il contratto quadro di finanziamento. Si tratta di una nullità che «può essere fatta valere solo dal cliente» investitore, ai sensi dell’art. 23, comma 1, d.lgs. n. 58/1998. Da tale previsione la giurisprudenza ha dedotto che la nullità opera solo in caso di mancata sottoscrizione dell’investitore e non anche nel caso di mancata sottoscrizione dell’intermediario/banca57. Rispetto ad essa la prassi ha fatto emergere due ulteriori questioni. La prima riguarda la possibilità di estendere la asimmetria della nullità, dalla legge ricollegata alla sola legittimazione ad agire, anche alla unilateralità del regime restitutorio. In altri termini se è solo l’investitore, protetto dalla nullità, ad avere il diritto di chiedere la restituzione degli investimenti conseguenti alla nullità del contratto quadro di finanziamento. La seconda riguarda la possibilità per l’investitore di selezionare gli ordini di finanziamento collegati al contratto quadro nullo onde agire per i soli atti ritenuti più convenienti. Si sono pronunciate di recente le Sezione unite58 le quali hanno dato risposta positiva al primo quesito, nel senso che gli effetti (processuali e sostanziali della nullità) operano solo a vantaggio del contraente debole. Sulla seconda questione, invece, le Sezioni unite hanno affermato che «i principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale… operano, tuttavia, anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata, come nella specie, in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte.

56

V., per tutti, Di Marzio, Contratto illecito e disciplina del mercato, Jovene, 2011, 215 ss.; Gentili, La «nullità» di protezione, in EDP, 2011, 77 ss. V. pure le riflessioni di Albanese, Disciplina generale e discipline speciali delle invalidità: la nullità del contratto di lavoro, in EDP, 2006, 917 ss.; Id., La norma inderogabile nel diritto civile e nel diritto del lavoro tra efficienza del mercato e tutela della persona, in RGL, 2008, I, 165 ss. Nel panorama giuslavoristico v. Ratti, Nullità di protezione e contratto di lavoro, in VTDL, 2017, 4. 57 Cass., sez. un., 16 gennaio 2018, n. 898, in GC.com, 9 maggio 2019. 58 Cass., sez. un., 4 novembre 2019, n. 28314, in GI, 2020, 273, con note di Iuliani e Pagliantini.

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Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini». Come è evidente, dunque, anche nell’area della nullità possono esservi effetti dell’atto invalido che restano in piedi59. Discorso identico vale nell’area delle patologie del contratto per vizi della volontà ove esiste la possibilità per la parte il cui consenso sia stato illecitamente carpito di mantenere fermi e validi gli effetti del contratto concluso. Vi è, ad esempio, la previsione sul dolo incidente (1440 c.c.) sulla base della quale la dottrina60 e la giurisprudenza61 hanno ammesso la responsabilità precontrattuale da contratto concluso. Vi è poi l’argomento più generale della disponibilità dell’azione di annullamento che è rimessa alla volontà della parte la quale può scegliere liberamente di tener fermo il contratto e limitarsi a chiedere solo i danni causati dalla conclusione dello stesso62. La breve digressione ci consente agevolmente di confutare una buona parte degli argomenti utilizzati dalla Cassazione su una presunta e generale nozione di invalidità che viene fatta coincidere erroneamente con gli effetti dell’atto. Tale valutazione non tiene conto della varietà di soluzioni che il diritto privato offre in relazione alle singole ipotesi di invalidità. È questo il primo errore ed ecco il primo degli errori commessi dalla giurisprudenza. Il secondo errore è quello di non considerare le specificità del diritto del lavoro il quale ha adattato alle proprie esigenze sia la disciplina generale sulla invalidità sia gli effetti della stessa. Gli esempi possono essere molteplici e potrebbero portarci molto lontano63.

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Sulla diversa questione della conversione del contratto nullo, sui cui v. di recente, Ratti, Conversione del contratto e rapporti di lavoro. Trasformazione e sanzione nel trattamento delle invalidità nei contratti di lavoro, Giappichelli, 2017, spec. 5-37, per una completa ricostruzione della dottrina civilistica sul tema. 60 Benatti, voce Responsabilità contrattuale, in EGT, XXVI, 1991, 2; Mantovani, «Vizi incompleti» del contratto e rimedio risarcitorio, Giappichelli, 1995, 125 ss.; Roppo, Il contratto, cit., 176. 61 A partire da Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in FI, 2008, 3, I, 784. 62 V., ad es., Cass., sez. I, 19 settembre 2006, n. 20260, in RCP, 2007, 10, 2108, secondo cui: «Il cliente che al momento della conclusione di un contratto di concessione di credito omette di informare la banca dell’avvenuta dichiarazione di fallimento del proprio coniuge, anch’egli beneficiario del finanziamento, incorre in responsabilità da atto illecito ed è tenuto a risarcire alla banca il danno (derivante dalla conclusione di un contratto che altrimenti l’istituto di credito non avrebbe stipulato) quand’anche quest’ultima non abbia domandato l’annullamento del contratto per dolo». 63 Si considerino, solo a titolo esemplificativo, la prestazione di fatto con violazione di legge di cui all’art. 2126 c.c. (su cui v., per tutti, Dell’Olio, La prestazione di fatto del lavoro subordinato, Giuffrè, 1970; Campanella, Prestazione di fatto e contratto di lavoro. Art. 2126, in Comm Sch., Giuffrè, 2013), la invalidità prevista dall’art. 2113 c.c. che, secondo la dottrina maggioritaria rappresenta un’invalidità di diritto speciale (il dibattito è stato ricostruito, di recente, da Albi, La dismissione dei diritti del lavoratore. Art. 2113, in Comm Sch., Giuffrè, 2016. p. 100 ss.). Nella legislazione più recente si ponga mente alla forfetizzazione del risarcimento che consegue alla declaratoria di nullità del contratto a termine, alle diverse reazioni previste per la violazione della disciplina legale sul lavoro parziale (art. 10 d.lgs. n. 81/2015), per la somministrazione irregolare di lavoro (art. 38 d.lgs. 81/2015), per le mansioni (art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015). Sul tema v. l’accurata ricostruzione di Ratti, Conversione del contratto e rapporti di lavoro. Trasformazione e sanzione nel trattamento delle invalidità nei contratti di lavoro, cit., passim). Si pensi ancora alla disciplina delle invalidità del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico per le quali sia la Corte costituzionale (v., ad es., C. cost., 15 luglio 2005, n. 283, in ADL, 2005, 895; C. cost., 27 marzo 2003, n. 89, in FI, 2003, I, 2258) sia la Corte di Giustizia (ex multis C. giust., 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrossu e Sardino, in FI, 2007, 72) hanno escluso che la trasformazione del contratto di lavoro sia una scelta obbligata per il legislatore. V. anche Lunardon, Le nullità nel diritto del lavoro, in ADL, 2010, 652 ss.

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Ma è proprio nell’area dei licenziamenti che si può predicare l’esistenza di invalidità speciali. La dottrina infatti ha precisato «che il diritto del lavoro riutilizza le categorie civilistiche dell’invalidità negoziale, piegandole alle proprie esigenze e costruendo una serie di nozioni di invalidità di diritto speciale»64. È sufficiente ricordare la vecchia formulazione dell’art. 18, comma 1, st. lav. che ad onta dell’esplicito richiamo alla inefficacia, annullabilità e nullità del licenziamento faceva conseguire un identico trattamento sanzionatorio, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno pari alle retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra la data del licenziamento e quella di effettiva reintegrazione, che a sua volta era caratterizzato da elementi propri sia della nullità di diritto comune (nella parte appunto ripristinatoria del rapporto) sia della annullabilità (con la previsione di un onere di decadenza per l’impugnazione del licenziamento oltre il quale, l’atto invalido produceva effetti definitivi). Altro tradizionale esempio è quello del licenziamento sprovvisto di giusta causa o di giustificato motivo per i datori di lavoro minori, tradizionalmente riconducibile al vizio della annullabilità65, cui l’art. 8 l. n. 604/1966 fa ancora oggi conseguire l’obbligo per il datore di lavoro di riassunzione o, in mancanza, il pagamento di una penale risarcitoria. È evidente, in tal caso, che la non conformità al modello legale di riferimento non impedisce comunque al licenziamento di produrre definitivi effetti estintivi del rapporto. Possiamo ancora ricordare che nessuno ha mai dubitato della invalidità del licenziamento (con diritto quindi al rimedio ripristinatorio di cui all’art. 18 st. lav. nel previgente regime) in caso di violazione della immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare o dell’obbligo di repechâge nel giustifico motivo oggettivo di licenziamento. Sono queste regole che non possono essere ricondotte a modelli legali ma sono il frutto di elaborazioni giurisprudenziali. La specialità delle nozioni di invalidità lavoristiche è stata poi esacerbata dalle più recenti riforme sull’apparato sanzionatorio sui licenziamenti (l. n. 92/2012, d.lgs. n. 23/2015). Nell’art. 18 st. lav., come riformato nel 2012, la specialità delle invalidità del licenziamento tocca punte estreme. In una scala crescente, vanno segnalati i casi di invalidità cui consegue il rimedio della cd. reintegrazione attenuata previsto dall’art. 18, comma 4, st. lav. (mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo, violazione dell’art. 2110 c.c., insussistenza della inidoneità fisica o psichica del lavoratore posta a base del recesso, violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo).

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Mazzotta, Diritto del lavoro, VII ed., Giuffrè, 2019, 708. Una parte della dottrina esclude che, nell’area della tutela obbligatoria, la giusta causa ed il giustificato motivo rappresentino presupposti giustificativi del licenziamento: Napoli, Licenziamenti, in DDP comm, IX, Utet, 1993, 64; Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i «principi» costituzionali, in DLRI, 617, cui adde Ballestrero, Licenziamento individuale, in ED, Annali, V, Giuffrè, 2012, 800-801.

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Per tali ipotesi il legislatore, unitamente alla reintegrazione nel posto di lavoro pro futuro, ha però limitato nel massimo di dodici mensilità il risarcimento del danno parametrato alle retribuzioni per il periodo compreso tra il licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro. Laddove intercorra un lasso temporale superiore ad un anno tra la data del licenziamento e quella di effettiva reintegrazione, il trattamento sanzionatorio previsto non è un rimedio ripristinatorio pieno e totale. La stessa conclusione vale anche nell’unico caso di reintegrazione attenuata previsto dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 (mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore). Il distacco dalle categorie civilistiche della invalidità è ancor più evidente in tutti gli altri casi insussistenza della giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento per i quali sia l’art. 18 stat. lav. (comma 5, stat. lav.) sia il d.lgs. n. 23/2015 (art. 3, comma 1)66 dispongono che il giudice dichiari «risolto» (art. 18 stat. lav.) o «estinto» (art. 3 d.lgs. n. 23/2015) il rapporto alla data del licenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva67. In tal caso l’atto invalido – perché non conforme al modello legale – ha un’efficacia solutoria definitiva del rapporto. Il distacco dalle categorie civilistiche è infine estremo nei casi di vizi formali del licenziamento per i quali legislatore del 2012 (art. 18, comma 6, stat. lav.) addirittura dispone che il giudice dichiari all’un tempo l’inefficacia del recesso e la sua idoneità ad estinguere il licenziamento, attribuendo al lavoratore un’indennità risarcitoria68. L’art. 4 d.lgs. n. 23/2015, pur non evocando l’inefficacia del licenziamento, collega al licenziamento viziato il solo diritto ad un’indennità risarcitoria. Il licenziamento, anche in questo caso, ha efficacia solutoria definitiva del rapporto. Il breve excursus condotto ci consente di giungere ad una prima conclusione. Nell’area del diritto del lavoro, ed in particolare in quella dei licenziamenti, il contrasto dell’atto con le previsioni normative che ne fissano le modalità deontiche non conduce necessariamente alla inidoneità dell’atto ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico69. Nella stragrande maggioranza dei casi di licenziamento, anzi, l’atto invalido estingue definitivamente il rapporto di lavoro e dà diritto solo ad un rimedio risarcitorio. La specialità delle nozioni di invalidità in materia di licenziamento è stata riconosciuta di recente anche dalla Sezione lavoro della Corte di cassazione la quale, discostandosi dall’orientamento espresso dalle Sezioni unite sulla rilevabilità delle nullità da chiunque

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La previsione, come noto, si applica anche ai piccoli datori di lavoro entro i limiti edittali fissati dall’art. 9, d.lgs. n. 23/2015. Le valutazioni espresse vanno riferite anche al licenziamento collettivo nei soli casi di violazione delle procedure (art. 5, comma 3, l. n. 223/1991) per i licenziamenti dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, o anche nei casi di violazione dei criteri di scelta per i licenziamenti dei lavoratori assunti dopo (art. 10 d.lgs. n. 23/2015). 68 Il riferimento espresso alla inefficacia è stato stigmatizzato dalla dottrina maggioritaria. V., ad es., F. Carinci, Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare, in ADL, 2012, 1109-1120; Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in ADL, 2012, 547 ss. Contra Ghera, Sull’ingiustificatezza aggravata del licenziamento, in RGL, 2014, 428, il quale rileva che l’inefficacia non sia assoluta e definitiva ma semplice e temporanea. 69 Zoli, L’evoluzione del sistema rimediale: privato e pubblico a confronto, in LD, 2017, 3-4, 437 ss. 67

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ne abbia interesse ed anche d’ufficio70 ha espressamente ammesso che: «la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione dell’art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, e dell’art. 4 d.lg. n. 23 del 2015, nella parte in cui fanno riferimento alla applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, quindi affetto da nullità, “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”»71 La specialità delle invalidità nel diritto del lavoro ci pare infligga un colpo decisivo alla costruzione della invalidità propugnata dalla Cassazione per escludere l’applicabilità al dirigente dell’onere legale di impugnazione ed anzi mostra – lo ribadiamo – il secondo errore metodologico commesso che consiste nell’estendere al diritto del lavoro delle soluzioni privatistiche (neppure corrette) senza tener conto delle specificità consolidate della nostra materia.

7. Una diversa interpretazione della invalidità del licenziamento ex art. 32, comma 2.

A questo punto si potrebbe già azzardare una conclusione diversa, e positiva, in ordine all’applicabilità dell’onere legale di impugnazione al licenziamento, anche ingiustificato, del dirigente d’azienda. Usiamo ancora il condizionale perché vi potrebbero essere due ulteriori ostacoli. Il primo di tipo formale è il seguente: tutte le ipotesi di invalidità speciale del licenziamento, perché non conformi al modello normativo di riferimento, ed idonee ad estinguere definitivamente il rapporto di lavoro sarebbero assoggettate all’onere legale di decadenza ma non attraverso il filtro dell’art. 32, comma 2. In tali casi infatti, l’onere legale di impugnazione discende direttamente dall’art. 6 e quindi prescinde dalla qualificazione del trattamento sanzionatorio ad essi riservato dall’ordinamento.

70

Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26422, in RCP, 2015, 4, 1295 e Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, in FI, 2013, 4, I, 1238, con nota di Palmieri. 71 Cass., 24 marzo 2017, n. 7687, in Labor, 2017, 4, 437, con nota di Biasi. Tale orientamento è stato poi confermato successivamente da Cass., 11 dicembre 2018, n. 31987, Cass., 5 aprile 2019, n. 9675, Cass., 11 luglio 2019, n. 18705, in GI, 2019, 2199, con nota di Lunardon, Cass., 2 gennaio 2020, n. 8.

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Raffaele Galardi

Si tratterebbe di tali casi interni alla legge 604 e che quindi non hanno bisogno di passare attraverso il filtro dell’invalidità del licenziamento previsto dall’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010. Fatte salve le evidenti disparità di trattamento, il rilievo è sicuramente corretto per i casi di licenziamento ingiustificato (per violazione degli artt. 1 e 3 l. n. 604/1966) e per i casi di licenziamento collettivo (art. 5 l. n. 223/1991 che rinvia direttamente all’art. 6 l. n. 604/1966). Il rilievo non coglie nel segno, però, nel caso di tutela indennitaria per violazione dell’art. 7 stat. lav. (art. 18, comma 6, stat. lav. e art. 4 d.lgs. n. 23/2015). Questo è un vizio esterno alla l. n. 604/1966 e che sicuramente rientra entro il cono applicativo dell’art. 32, comma 2, attraverso il filtro della invalidità del licenziamento, invalidità a cui però non consegue alcun effetto ripristinatorio. Ma se così è, ci pare difficile allora trovare delle differenze strutturali tra tale ipotesi e la ingiustificatezza del licenziamento del dirigente. In entrambi i casi si tratta un recesso non conforme al modello normativo di riferimento (art. 7 stat. lav., nozione di giustificatezza contrattuale), che estingue definitivamente il rapporto di lavoro dando diritto al lavoratore licenziamento ad una indennità risarcitoria. L’unica differenza tra le due ipotesi concerne la fonte del modello normativo di riferimento che nel caso del dirigente è convenzionale – ed è questo il secondo ostacolo – e non legale. La dottrina civilistica infatti ritiene dubbia la configurabilità di una invalidità convenzionale72 anche se un indizio in tale senso è tradizionalmente collegato alla previsione codicistica in materia di forma convenzionale (art. 1352 c.c.) ove si precisa che se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, «si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo»73 (corsivo mio).

72

Tommasini, Invalidità (dir. priv.), cit., 586, nt. 74, che richiama Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in F. Vassalli (diretto da), Trattato di diritto civile italiano, XV, t. 2, Utet, III rist., 1960, 293 ss.; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, II ed., Jovene, 1969, 383 ss. Contra Perlingieri, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987, 139 ss., il quale non esclude che ai privati sia consentito porre requisiti di validità anche se rileva la opportunità di tenere distinte le forme legali, che sono eteronome e quelle convenzionali, che sono espressione di autonomia, con la conseguenza che l’invalidità derivante dalla loro violazione deve essere compatibile con il carattere essenzialmente disponibile degli interessi che ne costituiscono il fondamento. 73 Sono controverse le conseguenze del difetto di forma pattizia. La dottrina tradizionale evoca il rimedio della nullità Messineo, Il contratto in genere, Giuffrè, 1968-1972, I, 156; Sacco, in Rescigno (a cura di), Trattato di diritto privato, vol. X, IV ed., t. 2, Padova, 2018, 272 ss.; Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Giappichelli, 2002, 348, richiama la nullità relativa. Secondo Giorgianni, Forma degli atti (dir. priv.), XVII, Giuffrè, 1968, 1002, «si tratta, invece, secondo quanto la legge chiaramente indica, di una “invalidità” del negozio, la quale tuttavia non appartiene al tipo di “nullità” disegnato dal legislatore, in quanto essa può essere fatta valere solo dalla parte interessata, la quale perciò può rinunziarvi, come può dare esecuzione al contratto»; in termini si esprime anche R. Scognamiglio, Dei contratti in generale in Comm SB, Zanichelli, 1979, 459. Altri hanno richiamato la annullabilità, Prosperi, Forme complementari e atto recettizio, in RDComm, 1976, 208 ss.; Cerdonio Chiaromonte, Questioni irrisolte intorno ai patti sulla forma di futuri contratti, in RDC, 2004, 252 ss.; altri ancora la inefficacia: Genovese, Le forme volontarie nella teoria dei contratti, Cedam, 1949, 194; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, III ed., 2019, Giuffrè, 270 ss.

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La invalidità del licenziamento del dirigente d’azienda.Riflessioni sull’onere legale di impugnazione

Anche sotto questo profilo non può non rimarcarsi la specialità del diritto del lavoro che, come noto, si fonda sulla inderogabilità della norma lavoristica (non solo di legge e ma anche di contratto collettivo) cui è collegata la parziale indisponibilità dei diritti74. È stato efficacemente rilevato che il diritto del lavoro «– in quest’ambito più che in ogni altro – si merita l’appellativo di diritto di frontiera, sovente anticipatore di nuove categorie o capace di applicazioni innovative di strumenti noti»75. Si tratta di un tema per vero complesso sotto il profilo teorico-sistematico che qui non è utile ricostruire se non per rilevare, banalmente, che nessuno può dubitare dell’effetto invalidante che il contratto collettivo produca sulla clausola peggiorativa difforme del contratto individuale (ex art. 2113 c.c.)76 o sull’atto datoriale di amministrazione e manutenzione del rapporto che sia difforme dal paradigma convenzionale collettivo. Non vi sono più ulteriori ostacoli all’affermazione dell’onere legale di impugnazione per tutti i casi di licenziamento del dirigente d’azienda. L’invalidità del licenziamento di cui all’art. 32, comma 2, deve essere intesa come non conformità ad un modello fissato da una previsione normativa, sia essa legale o convenzionale, ed indipendentemente dal rimedio che l’ordinamento collega alla invalidità. La giustificatezza convenzionale è una regola che esprime un giudizio di valore e realizza un bilanciamento tra la libera recedibilità di fonte legale e la necessità che il licenziamento non sia arbitrario. Il licenziamento che contrasti con questo giudizio di valore è, per questo, invalido. Tale conclusione, infine, ci pare obbligata se consideriamo la ratio dell’intervento legislativo del 2010 o, meglio ancora, l’intenzione del legislatore (art. 12 disp. prel.). Quale che sia il giudizio di merito sulla portata della riforma, è però evidente che con l’art. 32 il legislatore abbia inteso privilegiare un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici imponendo una spinta forte verso l’accelerazione dei giudizi77. Tale obiettivo, che ha riguardato quasi tutte le ipotesi che tradizionalmente danno luogo a contenzioso giudiziario, per i licenziamenti78 è stato perseguito attraverso l’art. 32, comma 2, con una formula onnicomprensiva, di portata generale, e tale da intendersi «norma di chiusura del sistema»79.

74

De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, 1976; Novella, L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale, Giuffrè, 2009. 75 Cester, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in www.aidlass.it/wp-content/uploads/2015/11/ Inderogabilità-delle-norme-e-disponibilità-dei-diritti_2008_Cester.pdf, (il saggio è stato pubblicato anche in DLRI, 2008, 341 ss.). 76 Si rinvia ancora a Albi, La dismissione dei diritti del lavoratore. Art. 2113, cit., 67 ss., per un’efficace sintesi delle diverse ricostruzioni dottrinali. 77 Vianello, Impugnazione del licenziamento e decadenza, cit., 103 ss., anche per un’accurata ricostruzione dei lavori preparatori. 78 V. però la opportuna precisazione secondo cui la previsione «deve intendersi riferita unicamente alle ipotesi di recesso unilaterale del datore da una rapporto di lavoro che sia già in essere o perfezionato» (Cass., 27 marzo 2017, n. 7801, che ha escluso l’applicazione della decadenza al recesso dal patto di prova). 79 Cass., 11 ottobre 2017, n. 23861, in GDir, 2018, 4, 28, relativa ad un caso di licenziamento per giusta causa intimato in un contratto a tempo determinato.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza Corte E uropea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, sentenza 17 ottobre 2019, ric. n. 1874/13 e 8567/13 – López Ribalda and others v. Spain. Lavoro (rapporto di) – – Videosorveglianza occulta – Commissione di illeciti – Sospetto – Art. 8 CEDU – Violazione – Esclusione.

Non viola l’art. 8 Cedu la videosorveglianza occulta dei dipendenti giustificata dall’esistenza di un ragionevole sospetto circa la commissione di illeciti connotati da gravità e la prefigurazione dell’entità dei danni economici. La valutazione della proporzionalità della misura adottata rispetto al fine concretamente perseguito è affidata alle Corti nazionali, che nel caso in esame non hanno oltrepassato il margine di apprezzamento che loro compete nel bilanciamento tra fine legittimo perseguito e mezzi posti in essere per l’attività di sorveglianza, in particolare ritenendo che sia stato concretamente implementato il mezzo di controllo meno intrusivo tra tutti quelli disponibili.

– Omissis. The Law I. Preliminary Issues A. Locus standi 71. The Court observes that the second applicant, Ms A. Gancedo Giménez, died on 25 October 2018, while the case was pending before the Grand Chamber. Her husband and legal heir, Mr J. López Martínez, expressed his wish to continue the proceedings before the Court. 72. The Court would point out that, in a number of cases where an applicant died during the proceedings, it has taken account of the wish expressed by heirs or close relatives to continue them (see, among other authorities, Malhous v. the Czech Republic (dec.) [GC], no. 33071/96, ECHR 2000 XII; Angelov v. Bulgaria, no. 44076/98, § 28, 22 April 2004; and Nicola v. Turkey, no. 18404/91, § 15, 27 January 2009). 73. In the present case, the Court finds that the heir of the second applicant may have a sufficient interest in the continued examination of the application and thus recognises his capacity to act in her stead. B. Subject matter of the case before the Grand Chamber 74. In their oral observations before the Grand Chamber, the Government requested that the Court should only re-examine the complaint under Article 8 of the Convention, in respect of which the Chamber had found a violation in its judgment of 9 January 2018 and which was the subject of the Government’s request for referral, as accepted by the panel of the Grand Chamber. They added that the applicants had not submitted any referral request concerning the complaints under Article 6, in respect of which the Chamber had found no violation.

75. The applicants did not comment on the Government’s request but nevertheless asked the Court to review the Chamber’s finding of no violation. 76. The Court reiterates that the content and scope of the “case” referred to the Grand Chamber are delimited by the Chamber’s decision on admissibility (see K. and T. v. Finland [GC], no. 25702/94, §§ 140-41, ECHR 2001VII, and Ilnseher v. Germany [GC], nos. 10211/12 and 27505/14, § 100, 4 December 2018). The “case” referred to the Grand Chamber thus necessarily encompasses all the aspects of the application that the Chamber found admissible and is not confined to the “serious issue” of general importance or affecting the interpretation or application of the Convention or the Protocols thereto, under Article 43 of the Convention, in respect of which the referral request has been accepted by the panel (see K. and T. v. Finland, cited above, §§ 140-41). Accordingly, in the present case, the Grand Chamber’s examination will concern all the complaints under Articles 6 and 8 of the Convention that were declared admissible by the Chamber. Ii. Alleged Violation Of Article 8 Of The Convention – Omissis. 3. The Court’s assessment (a) Positive obligations of the respondent State 109. The Court observes that, in the present case, the video-surveillance measure complained of by the applicants was imposed by their employer, a private company, and cannot therefore be analysed as an “interference”, by a State authority, with the exercise of Convention rights. The applicants nevertheless took the view that, by confirming their dismissals on the basis of that video-surveillance, the domestic courts had not effectively protected their right to respect for their private life.


Giurisprudenza

110. The Court reiterates that although the object of Article 8 is essentially that of protecting the individual against arbitrary interference by the public authorities, it does not merely compel the State to abstain from such interference: in addition to this primarily negative undertaking, there may be positive obligations inherent in effective respect for private or family life. These obligations may necessitate the adoption of measures designed to secure respect for private life even in the sphere of the relations of individuals between themselves (see Söderman v. Sweden [GC], no. 5786/08, § 78, ECHR 2013, and Von Hannover (No. 2), cited above, § 98). The responsibility of the State may thus be engaged if the facts complained of stemmed from a failure on its part to secure to those concerned the enjoyment of a right enshrined in Article 8 of the Convention (see Bărbulescu, cited above, § 110, and Schüth v. Germany, no. 1620/03, §§ 54 and 57, ECHR 2010). 111. Accordingly, in line with the approach it has followed in similar cases, the Court takes the view that the complaint should be examined from the standpoint of the State’s positive obligations under Article 8 of the Convention (see Bărbulescu, cited above, § 110; Köpke, cited above; and De La Flor Cabrera, cited above, § 32). While the boundaries between the State’s positive and negative obligations under the Convention do not lend themselves to precise definition, the applicable principles are nonetheless similar. In both contexts regard must be had in particular to the fair balance that has to be struck between the competing private and public interests, subject in any event to the margin of appreciation enjoyed by the State (see Palomo Sánchez and Others v. Spain [GC], nos. 28955/06 and 3 others, § 62, ECHR 2011, and Bărbulescu, cited above, § 112). The margin of appreciation goes hand in hand with European supervision, embracing both the legislation and the decisions applying it, even those given by independent courts. In exercising its supervisory function, the Court does not have to take the place of the national courts but to review, in the light of the case as a whole, whether their decisions were compatible with the provisions of the Convention relied upon (see Peck, cited above, § 77, and Von Hannover (no. 2), cited above, § 105). 112. The choice of the means calculated to secure compliance with Article 8 of the Convention in the sphere of the relations of individuals between themselves is in principle a matter that falls within the Contracting States’ margin of appreciation. There are different ways of ensuring respect for private life and the nature of the State’s obligation will depend on the particular aspect of private life that is at issue (see Von Hannover (no. 2), cited above, § 104; Söderman, cited above, § 79; and Bărbulescu, cited above, § 113). 113. The Court has already held that, in certain circumstances, the fulfilment of positive obligations im-

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posed by Article 8 requires the State to adopt a legislative framework to protect the right at issue (see X and Y v. the Netherlands, 26 March 1985, §§ 23, 24 and 27, Series A no. 91, and M.C. v. Bulgaria, no. 39272/98, § 150, ECHR 2003XII, concerning cases of sexual assault on minors; and Codarcea v. Romania, no. 31675/04, §§ 10204, 2 June 2009, as regards medical negligence). Concerning the gravest acts, such as rape, this obligation may go as far as requiring the adoption of criminal-law provisions (see M.C. v. Bulgaria, cited above, § 150). In respect of less serious acts between individuals which may affect the rights protected under Article 8, the Court takes the view that Article 8 leaves it to the discretion of States to decide whether or not to pass specific legislation and it verifies that the existing remedies were capable of providing sufficient protection of the rights at issue (see, concerning the protection of a minor’s personal integrity, Söderman, cited above, §§ 86-91; and on the right to the protection of one’s image, Von Hannover (no. 2), cited above, §§ 95126, and Reklos and Davourlis, cited above, §§ 34-43). 114. As regards, more specifically, the monitoring of employees in the workplace, the Court has taken the view that Article 8 leaves it to the discretion of States to decide whether or not to enact specific legislation on video-surveillance (see Köpke, cited above) or the monitoring of the non-professional correspondence and other communications of employees (see Bărbulescu, cited above, § 119). It has nevertheless pointed out that, regardless of the discretion enjoyed by States in choosing the most appropriate means for the protection of the rights in question, the domestic authorities should ensure that the introduction by an employer of monitoring measures affecting the right to respect for private life or correspondence of its employees is proportionate and is accompanied by adequate and sufficient safeguards against abuse (see Bărbulescu, cited above, § 120, and Köpke, cited above). 115. In the Bărbulescu judgment, the Court set out a certain number of requirements that must be met by any monitoring of the correspondence and communications of employees if it is not to breach Article 8 of the Convention (see Bărbulescu, cited above, § 121). It also found in that judgment that, to ensure effective compliance with those requirements, the employees concerned must have access to a remedy before an independent judicial body with jurisdiction to determine, at least in substance, whether the relevant conditions were satisfied (ibid., § 122). 116. The Court is of the view that the principles established in the Bărbulescu judgment, a number of which came from the decision in Köpke, which concerned facts that were similar to those in the present case, are transposable, mutatis mutandis, to the circumstances in which an employer may implement video-surveillance measures in the workplace. These criteria must be applied taking into account the specifi-


Valeria Nuzzo

city of the employment relations and the development of new technologies, which may enable measures to be taken that are increasingly intrusive in the private life of employees. In that context, in order to ensure the proportionality of video-surveillance measures in the workplace, the domestic courts should take account of the following factors when they weigh up the various competing interests: (i) Whether the employee has been notified of the possibility of video-surveillance measures being adopted by the employer and of the implementation of such measures. While in practice employees may be notified in various ways, depending on the particular factual circumstances of each case, the notification should normally be clear about the nature of the monitoring and be given prior to implementation. (ii) The extent of the monitoring by the employer and the degree of intrusion into the employee’s privacy. In this connection, the level of privacy in the area being monitored should be taken into account, together with any limitations in time and space and the number of people who have access to the results. (iii) Whether the employer has provided legitimate reasons to justify monitoring and the extent thereof. The more intrusive the monitoring, the weightier the justification that will be required. (iv) Whether it would have been possible to set up a monitoring system based on less intrusive methods and measures. In this connection, there should be an assessment in the light of the particular circumstances of each case as to whether the aim pursued by the employer could have been achieved through a lesser degree of interference with the employee’s privacy. (v) The consequences of the monitoring for the employee subjected to it. Account should be taken, in particular, of the use made by the employer of the results of the monitoring and whether such results have been used to achieve the stated aim of the measure. (vi) Whether the employee has been provided with appropriate safeguards, especially where the employer’s monitoring operations are of an intrusive nature. Such safeguards may take the form, among others, of the provision of information to the employees concerned or the staff representatives as to the installation and extent of the monitoring, a declaration of such a measure to an independent body or the possibility of making a complaint. 117. The Court will thus ascertain in the present case whether the domestic law, and in particular its application by the employment courts which examined the applicants’ cases, provided sufficient protection, in weighing up the competing interests, of their right to respect for their private life. (b) Application to the present case of the abovementioned principles 118. In the present case, the positive obligations imposed on the State by Article 8 of the Convention

required the national authorities to strike a fair balance between two competing interests, namely, on the one hand, the applicants’ right to respect for their private life and, on the other, the possibility for their employer to ensure the protection of its property and the smooth operation of its company, particularly by exercising its disciplinary authority. 119. The Court notes at the outset that, at the material time, Spanish law had laid down a legal framework intended to protect the private life of employees in situations such as that in the present case. Thus, the Personal Data Protection Act and Instruction no. 1/2006 specifically on video-surveillance provided for a certain number of safeguards and conditions to be satisfied by any measure of video-surveillance and the ensuing processing of personal data. Failure to provide these safeguards could give rise to administrative sanctions and could engage the civil liability of the person responsible for the data processing (see paragraphs 46 and 48 above). In addition, Article 20 § 3 of the Employment Regulations limited the employer’s use of monitoring, as regards the fulfilment by employees of their employment duties, by requiring that the measures taken in that regard were compatible with their human dignity. Moreover, the applicable rules of procedure required the domestic courts to exclude any evidence obtained in breach of a fundamental right. Lastly, there was case-law of the ordinary courts and the Constitutional Court requiring that any measures interfering with the privacy of employees had to pursue a legitimate aim (“appropriateness test”), and had to be necessary for the fulfilment of the aim pursued (“necessity test”) and proportionate to the circumstances of each case (“strict proportionality test”) (see paragraphs 54 et seq. above). 120. In these circumstances the Court observes that the regulatory framework which was in place under domestic law is not at issue in the present case. The applicants have not in fact questioned the pertinence of that framework (see paragraph 97 above), but they argued that it was precisely the refusal of the employment courts to draw the appropriate conclusions from the employer’s failure to fulfil its domestic-law obligation to provide information which had breached the Convention. 121. Accordingly, the Court will consider the manner in which the domestic courts to which the applicants appealed examined their complaint that their right to respect for their private life in the workplace had been breached and whether, as the Government argued, other domestic-law remedies could have provided them with appropriate protection. 122. The Court would begin by noting that the employment courts identified the various interests at stake, referring expressly to the applicants’ right to respect for their private life and the balance to be struck between that right and the employer’s interest in en-

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Giurisprudenza

suring the smooth running of the company by exercising its management powers. It will thus ascertain how those courts took into account the factors listed above when they weighed up these interests. 123. The domestic courts first found, in accordance with the requirements of the Constitutional Court’s case-law, that the installation of the video-surveillance had been justified by legitimate reasons, namely the suspicion, put forward by the supermarket manager on account of the significant losses recorded over several months, that thefts had been committed. They also took account of the employer’s legitimate interest in taking measures in order to discover and punish those responsible for the losses, with the aim of ensuring the protection of its property and the smooth functioning of the company. 124. The domestic courts then examined the extent of the monitoring and the degree of intrusion into the applicants’ privacy, finding that the measure was limited as regards the areas and staff being monitored – since the cameras only covered the checkout area, which was likely to be where the losses occurred – and that its duration had not exceeded what was necessary in order to confirm the suspicions of theft. In the Court’s opinion this assessment could not be regarded as unreasonable. It notes that the monitoring did not cover the whole shop but targeted the areas around the tills, where thefts were likely to have been committed. The three applicants who worked as cashiers were indeed monitored by CCTV cameras throughout their working day. As a result of their jobs within the company, they could not evade these recordings, which were aimed at all the staff working in the checkout area, and were operated permanently and without any limitation (contrast Köpke, cited above, concerning an applicant who was both a shop assistant and cashier of the store in question, the video-surveillance measure thus not covering the entirety of her place of work). To some extent, they thus found themselves in limited areas (see, mutatis mutandis, Allan v. the United Kingdom, no. 48539/99, § 35, ECHR 2002IX, and Perry, cited above, §§ 39-43). As to the fourth and fifth applicants, the CCTV cameras filmed them whenever they passed through the checkout area. 125. At the same time it should be pointed out that the applicants’ duties were performed in a place that was open to the public and involved permanent contact with customers. The Court takes the view in this connection that it is necessary to distinguish, in the analysis of the proportionality of a video-surveillance measure, the various places in which the monitoring was carried out, in the light of the protection of privacy that an employee could reasonably expect. That expectation is very high in places which are private by nature, such as toilets or cloakrooms, where heightened protection, or even a complete ban on video-surveillance, is justified (see, to this effect, the relevant

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international instruments cited in paragraphs 61 and 65 above). It remains high in closed working areas such as offices. It is manifestly lower in places that are visible or accessible to colleagues or, as in the present case, to the general public. 126. As regards the extent of the measure over time, the Court notes that while, as the applicants argued, the employer had not set the duration of the videosurveillance beforehand, in actual fact it lasted for ten days and ceased as soon as the employees responsible had been identified. The length of the monitoring does not therefore appear excessive in itself (compare Köpke, cited above, where a duration of fourteen days was not found to be disproportionate). Lastly, only the supermarket manager, the company’s legal representative and the union representative viewed the recordings obtained through the impugned video-surveillance before the applicants themselves had been informed. Having regard to these factors, the Court takes the view that the intrusion into the applicants’ privacy did not attain a high degree of seriousness. 127. As regards the consequences of the impugned monitoring for the applicants, the Court finds that they were significant because the employees concerned were dismissed on the basis of recordings obtained by that means. It nevertheless observes, as the domestic courts also noted, that the video-surveillance and recordings were not used by the employer for any purposes other than to trace those responsible for the recorded losses of goods and to take disciplinary measures against them (compare Peck, cited above, §§ 6263, where the images recorded by a CCTV camera of public places showing the applicant’s attempted suicide had been distributed to the media). 128. The domestic courts additionally found that, in the circumstances of the case, there were no other means by which to fulfil the legitimate aim pursued and that the measure should therefore be regarded as “necessary” within the meaning of the Constitutional Court’s case-law (see paragraph 33 above). Even if it would have been desirable for the domestic courts to examine in a more in-depth manner the possibility for the employer to have used other measures entailing less intrusion into the private life of the employees, the Court cannot but note that the extent of the losses identified by the employer suggested that thefts had been committed by a number of individuals and the provision of information to any staff member might well have defeated the purpose of the video-surveillance, which was, as those courts noted, to discover those responsible for the thefts but also to obtain evidence for use in disciplinary proceedings against them. 129. The Court further observes that domestic law prescribed a certain number of safeguards for the purpose of preventing any improper interference with the rights of individuals whose personal data was subject to collection or processing. The Personal Data Protec-


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tion Act in particular conferred on those individuals the right to be informed of such safeguards beforehand, as provided for in section 5 of the Act, together with a right of access, rectification and deletion in respect of the data collected. A requirement of proportionality in the collection and use of the images obtained through video-surveillance was expressly laid down by Instruction no. 1/2006 and, according to the Constitutional Court’s case-law, the domestic courts had to review the appropriateness, necessity and proportionality of such measures in the light of the fundamental rights guaranteed by the Constitution (see paragraphs 47, 50 and 54 above). 130. As to whether, lastly, the applicants had been informed of the installation of the video-surveillance, the Court notes that it was not in dispute that two types of camera had been installed in the supermarket where they worked: on the one hand, visible cameras directed towards the shop’s entrances and exits, of which the employer had informed the staff; and, on the other, hidden cameras directed towards the checkout areas, of which neither the applicants nor the other staff members had been informed. It was stated in the parties’ observations that one or more information boards had been placed in the supermarket to notify the public of the presence of CCTV cameras but the exact content of the information on these boards has not been ascertained. 131. The Court observes that, while both Spanish law and the relevant international and European standards do not seem to require the prior consent of individuals who are placed under video-surveillance or, more generally, who have their personal data collected, those rules establish that it is, in principle, necessary to inform the individuals concerned, clearly and prior to implementation, of the existence and conditions of such data collection, even if only in a general manner (see paragraphs 47, 60 and 63 above). It takes the view that the requirement of transparency and the ensuing right to information are fundamental in nature, particularly in the context of employment relationships, where the employer has significant powers with regard to employees and any abuse of those powers should be avoided (see paragraphs 61-62 and 64-65 above). It would point out, however, that the provision of information to the individual being monitored and its extent constitute just one of the criteria to be taken into account in order to assess the proportionality of a measure of this kind in a given case. However, if such information is lacking, the safeguards deriving from the other criteria will be all the more important. 132. In the present case, the Court observes that the employment courts which examined the applicants’ claims carried out a detailed balancing exercise between, on the one hand, their right to respect for their private life, and on the other the employer’s interest in ensuring the protection of its property and the

smooth operation of the company. It notes that the proportionality criteria established by the Constitutional Court’s case-law and followed in the present case are close to those which it has developed in its own case-law. The domestic courts thus verified whether the video-surveillance was justified by a legitimate aim and whether the measures adopted for that purpose were appropriate and proportionate, having observed in particular that the legitimate aim pursued by the employer could not be attained by measures that were less intrusive for the applicants’ rights. 133. Admittedly, the employment courts did not take account of the employer’s failure, as alleged by the applicants, to provide them with the prior information required by section 5 of the Personal Data Protection Act, having considered the matter irrelevant and not capable of calling into question the proportionality, in the constitutional sense, of the measure, provided that the other criteria laid down by the Constitutional Court were satisfied. Given the importance of the right to information in such cases, the Court finds that only an overriding requirement relating to the protection of significant public or private interests could justify the lack of prior information. 134. However, in the specific circumstances of the present case, having regard particularly to the degree of intrusion into the applicants’ privacy (see paragraphs 125-26 above) and to the legitimate reasons justifying the installation of the video-surveillance, the Court finds that the employment courts were able, without overstepping the margin of appreciation afforded to national authorities, to take the view that the interference with the applicants’ privacy was proportionate (see, for a similar situation, Köpke, cited above). Thus, while it cannot accept the proposition that, generally speaking, the slightest suspicion of misappropriation or any other wrongdoing on the part of employees might justify the installation of covert video-surveillance by the employer, the existence of reasonable suspicion that serious misconduct has been committed and the extent of the losses identified in the present case may appear to constitute weighty justification. This is all the more so in a situation where the smooth functioning of a company is endangered not merely by the suspected misbehaviour of one single employee, but rather by the suspicion of concerted action by several employees, as this creates a general atmosphere of mistrust in the workplace. 135. Moreover, as the Government argued, the applicants had other remedies available to them, as provided for by the Personal Data Protection Act, for the specific purpose of obtaining sanctions for breaches of that legislation. The applicants could thus have complained to the Data Protection Agency of a failure by the employer to fulfil its obligation to provide prior information, as required by section 5 of that Act. The Agency had the power to investigate the alleged

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breach of the law and impose financial penalties on the person responsible. They could also have referred the matter to the ordinary courts in order to obtain redress for the alleged breach of their rights under the Personal Data Protection Act. The Court notes in this connection that while the case-law cited by the Government (see paragraph 49 above) does indeed concern a situation which is not identical to that of the present case, the right to obtain redress for damage caused by a breach of the Personal Data Protection Act was expressly provided for in section 19 thereof and there is no reason to question the effectiveness of that remedy now. 136. Domestic law had thus made available to the applicants other remedies by which to secure the specific protection of personal data, but they chose not to use those remedies. The Court reiterates in this con-

nection that the effective protection of the right to respect for private life in the context of video-surveillance in the workplace may be ensured by various means, which may fall within employment law but also civil, administrative or criminal law (see, mutatis mutandis, Bărbulescu, cited above, § 116). 137. Under those circumstances, having regard to the significant safeguards provided by the Spanish legal framework, including the remedies that the applicants failed to use, and the weight of the considerations justifying the video-surveillance, as taken into account by the domestic courts, the Court concludes that the national authorities did not fail to fulfil their positive obligations under Article 8 of the Convention such as to overstep their margin of appreciation. Accordingly, there has been no violation of that provision. Omissis.

Il ragionevole sospetto di illecito e la possibilità di controlli difensivi occulti all’esame della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo Sommario :

1. I controlli occulti difensivi e il caso Lopez Ribalda all’esame della Corte Europea dei diritti dell’uomo. – 2. L’art. 8 Cedu e le possibilità di restrizione del diritto. – 3. La giurisprudenza (nazionale) sulla legittimità dei controlli difensivi impersonali: una lettura alla luce delle modifiche normative. – 4. Il rafforzamento del divieto di controlli occulti. – 5. Critiche all’idea della rilevanza del ragionevole sospetto. – 6. In conclusione.

Sinossi. L’A. parte dalla sentenza della Grande Camera della C. Edu per riflettere sulle possibili restrizioni che possono essere imposte al diritto alla vita privata tutelato dall’art. 8 Cedu. In particolare, il caso esaminato è l’occasione per interrogarsi sulla possibilità di controlli occulti sul lavoratore realizzati attraverso strumenti tecnologici e per verificare la permanente fondatezza (anche quale fondamento delle restrizioni suddette) di quell’orientamento giurisprudenziale che considera leciti i controlli difensivi, quand’anche occulti e impersonali. Le modifiche normative che hanno interessato, in generale, la disciplina della privacy e, in particolare, quella dei controlli sull’attività di lavoro rimettono, infatti, in discussione alcune acquisizioni e rafforzano il principio di conoscibilità dei controlli, che sembra rappresentare un punto fermo nell’equilibrio posto dal legislatore tra gli interessi in conflitto.

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Abstract. The author looks closely at the judgment of the Grand Chamber of ECHR in order to reflect on the possible restrictions that may be imposed on the right to privacy protected by article 8 of the Convention. In particular, the examined case is an opportunity to question the possibility of hidden controls of the employee, carried out through technological tools. The starting point is the verification of the permanent validity (also as the basis of the aforementioned restrictions) of that case-law that considers defensive controls legitimate, even if implemented through technological tools. The regulatory changes that have affected in general the privacy discipline and, in particular that of controls on work activity, in fact call into question some acquisitions and strengthen the principle of control’s knowability, which seems to represent a fixed point in the balance between conflicting interests set by the legislator.

1. I controlli occulti difensivi e il caso Lopez Ribalda all’esame della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

La sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Lopez Ribalda1, relativa alle possibili restrizioni cui può essere legittimamente sottoposto nel contesto lavorativo il diritto al rispetto della vita privata tutelato dall’art. 8 Cedu, è l’occasione per riflettere ancora una volta sui limiti che si impongono alla libertà di organizzare l’attività economica privata quando venga minacciato un bene di rango primario come la dignità umana. Il tema, noto al giuslavorista, sovente impegnato nella ricerca di un bilanciamento tra interessi in conflitto, si pone, sempre più spesso e sempre più prepotentemente, proprio con riferimento ai controlli sui lavoratori, in considerazione delle inedite possibilità che le tecnologie offrono nell’osservazione e nella conoscenza degli esseri umani. Nemmeno un paio di mesi fa un articolo del New York Times2 mostrava l’efficacia nella repressione del crimine di un software, creato da un trentunenne australiano, che permette di combinare il riconoscimento facciale con un archivio di fotografie scaricate da Facebook, YouTube, Instagram e altri milioni di siti web, così da poter identificare chiunque sia finito sotto l’occhio di una qualsiasi telecamera3. Una notizia apparentemente eccentrica rispetto al caso di cui si tratta, ma funzionale sia a trasmettere una certa inquietudine per l’invadenza che può avere la tecnologia, sia a denunciare le possibilità che essa offre a chi ne disponga e sia in grado di utilizzarla. D’altronde nell’immaginario collettivo l’idea dell’occhio orwelliano del Grande Fratello è da sempre collegata a sentimenti di oppres-

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Su cui v. già i commenti di Tebano, I confini dei controlli difensivi e gli equilibrismi della Corte Edu, in RIDL, 2020, II, 211, e di Sitzia e Ramos Quintana, Sorveglianza difensiva occulta sui luoghi di lavoro e dignità nella prospettiva della Grande Camera della Corte Edu: la sentenza Lopez, in LDE, 2019, n. 3; Ciriello, Videosorveglianza “occulta” sul luogo di lavoro: il caso Lopez Ribalda e altri c. Spagna e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in LDE, 2019, n. 3. L’articolo è del 18 gennaio 2020 a firma di Kashmir Hill ed è riportato nell’editoriale di Giovanni De Mauro, Identificare, sul numero 1342 di Internazionale, 23 gennaio 2020. Si tratta di Clearview AI e l’azienda che lo produce si chiama Hoan Ton-That.

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sione e angoscia. Anche il cinema, da Minority Report a Le vite degli altri, ha più volte rappresentato la potenziale intrusività nelle vite umane di un controllo tecnologico esasperato e senza limiti, suscitando un sentimento univoco di avversità per l’uso spregiudicato degli strumenti di controllo, intollerabile e inconciliabile con la tutela dei diritti umani. Si potrebbe replicare che una telecamera installata dal datore di lavoro per accertare le responsabilità di furti reiterati non abbia nulla a che fare con gli scenari letterali e cinematografici appena evocati. Del resto, in questo caso, non soltanto il controllo è circoscritto a un luogo privato ed è esercitato dal suo titolare, ma soprattutto, se il lavoratore ha commesso un reato, è bene che siano messe a punto, dal datore di lavoro, misure organizzative idonee a scoprire il colpevole e, conseguentemente, a sanzionarlo. Ciononostante, non è peregrino chiedersi in qual modo e misura la (presumibile) commissione di un illecito (da parte del lavoratore) possa giustificare un’altra condotta almeno astrattamente illecita perché posta in violazione di norme che rispondono all’esigenza di tutelare, in quei luoghi privati ove si svolge la personalità degli individui, diritti e libertà fondamentali. Quando è in gioco un bilanciamento tra libertà di impresa e tutela della privacy dei lavoratori, gli orientamenti giurisprudenziali non sono univoci e, talvolta, anche contrastanti: nella vicenda oggetto della pronuncia in commento, ad esempio, come già avvenuto nel caso Bărbulescu4, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo entra in conflitto con la Sezione III, preferendo, in questo caso, una soluzione sfavorevole al lavoratore. La vicenda su cui si pronunciano i giudici di Strasburgo attiene proprio ai limiti che il datore incontra nella decisione di installare telecamere occulte per il controllo dei lavoratori. In particolare, il responsabile di un supermercato, avendo il sospetto (ragionevole, dirà la Corte5) che uno o più dipendenti fossero coinvolti nei ripetuti furti registrati in negozio, sceglie di aggiungere alle telecamere già installate a fini di protezione del patrimonio aziendale e note ai dipendenti, come prescritto della legge spagnola6, altre telecamere occulte, per assicurare un più efficace e pervasivo controllo, continuativo e generalizzato. Dopo dieci giorni di riprese, alcuni lavoratori, ignari di essere osservati, sono sorpresi ad appropriarsi dei soldi dalle casse del supermercato e, conseguentemente, sono licenziati. Impugnato il provvedimento espulsivo, essi fondano le proprie difese sulla illiceità di un controllo attuato in violazione delle norme sui controlli occulti, vietati dalla legge spagnola con finalità di tutela della dignità e libertà di chi lavora. I giudici di Strasburgo si pronunciano, una prima volta, nel gennaio 20187, ritenendo che l’installazione sul luogo di lavoro di videocamere “occulte”, anche se motivata dal so-

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Su cui Corte EDU, sez. IV, 12 gennaio 2016, Bărbulescu v. Romania, in RIDL, 2016, II, 279 con nota di Criscuolo, poi ribaltata dalla Grande Camera della Corte EDU del 5 settembre 2017, n. 61496/08, con note di Sitzia, in NGCC, 2017, 12, 1651 ss.; Carta, Corte europea dei diritti dell’uomo: la Grande camera torna sul (e difende il) diritto alla privacy del lavoratore, in rivistalabor. it; Buffa, Il controllo datoriale delle comunicazioni elettroniche del lavoratore dopo la sentenza Barbulescu 2 della Cedu, in www. questionegiustizia.it, 18 ottobre 2017. Perché aveva rilevato, per un lungo periodo, discrepanze tra i guadagni giornalieri e le registrazioni degli stock di magazzino. Per un esame della normativa spagnola in materia v. i contributi citati in nota 1, cui si rinvia. Corte EDU, sez. III, 9 gennaio 2018, López Ribalda and others v. Spain, in www.rivistalabor.it, con nota di Perrone.

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spetto del datore di atti illeciti dei suoi dipendenti, violi l’articolo 8 della Cedu. Una tale forma di controllo, infatti, benché posta in essere per fini difensivi, si sostanzia in una ingerenza illecita nella vita privata dei lavoratori e, conseguentemente, le informazioni così ottenute sono inutilizzabili8. Dopo 21 mesi, però, la Grande Camera torna ad esaminare il caso e capovolge la soluzione della Camera semplice: per i Giudici, non è irragionevole la valutazione delle Corti domestiche quando hanno ritenuto l’istallazione di strumenti di videosorveglianza «giustificata da ragioni legittime, ed in particolare dal sospetto, sollevato dal manager del supermarket sulla base delle significative perdite economiche registrate nel corso di molti mesi, che fossero stati commessi dei furti» e quando, conseguentemente, hanno considerato «l’interesse legittimo del datore di lavoro ad assumere misure dirette a scoprire e punire i responsabili di tali perdite economiche, con lo scopo di assicurare protezione al proprio diritto di proprietà e all’interesse al regolare funzionamento della propria società» (pt. 123). La diversa soluzione rispetto alla sentenza del 2018 si basa sulla valorizzazione della ragionevole fondatezza del sospetto e su una diversa valutazione della proporzionalità della reazione datoriale, ritenuta indispensabile e, comunque, compatibile con il diritto tutelato dall’art. 8 Cedu perché meno invasiva rispetto ad altri rimedi astrattamente idonei a perseguire lo scopo nonché finalizzata all’esclusivo accertamento dei presunti illeciti penali. Una decisione, di per sé ragionevole ma comunque sorprendente rispetto alle ultime pronunce dei giudici di Strasburgo9: essi, proprio con riferimento al controllo sui lavoratori, avevano posto chiari limiti al potere datoriale e, ribaltando le decisioni delle Corti nazionali, avevano riaffermato sia l’efficacia dell’art. 8 della Convenzione nella protezione della vita privata (pure) sui luoghi di lavoro, sia il ruolo garantista della stessa Corte, anche rispetto a quelle domestiche.

2. L’art. 8 Cedu e le possibilità di restrizione del diritto. Preliminarmente è opportuno chiarire che l’art. 8 Cedu, nel tutelare il diritto al rispetto della vita privata, prevede poi al secondo paragrafo la possibilità, per ogni Stato membro, di sottoporlo a restrizioni. In particolare, l’ingerenza nell’esercizio di tale diritto è ammessa qualora essa «sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, [sia] necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui».

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In particolare la Corte aveva ritenuto che «la videosorveglianza nascosta di un dipendente nel suo luogo di lavoro deve essere considerata, in quanto tale, una considerevole intrusione nella sua vita privata. Essa comporta una documentazione riproducibile della condotta di una persona sul suo posto di lavoro che [egli…] non può eludere». Si pensi non solo alla già citata pronuncia della Grande Camera del 5 settembre 2017 sul caso Bărbulescu v. Romania, ma anche alla successiva pronuncia del 28 novembre 2017, Sez. II, n. 70838/13, Antovič v. Montenegro.

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In questo modello è palese come la tutela della vita privata possa essere compressa solo in presenza di tre condizioni: la restrizione deve rispondere a una finalità specificamente indicata dallo stesso art. 8 (tassatività); le modalità con cui essa viene posta in essere devono essere necessarie e proporzionali rispetto al fine perseguito, dovendosi ricercare il giusto bilanciamento tra le istanze di tutela di interessi generali e la protezione dei diritti individuali (necessità e proporzionalità); infine, la possibilità di restrizione del diritto deve trovare un fondamento nella legge dello stato (riserva di legge). Quanto alla prima delle condizioni citate, la necessità di accertare la commissione di condotte fraudolente da parte del dipendente risponde alla esigenza di «protezione dei diritti […] altrui», che la Corte europea ha riconosciuto non solo nel bisogno di salvaguardare la proprietà privata, ma anche nell’esigenza di conservare la regolare operatività dell’organizzazione aziendale anche «per mezzo dell’esercizio del potere disciplinare»10. Che un bilanciamento tra gli interessi in materia sia necessario è indiscutibile: nessuno nega la possibilità di un controllo difensivo; il problema è, semmai, individuare l’ampiezza del sacrificio cui il diritto alla riservatezza possa essere sottoposto, rappresentando una componente essenziale della libertà e dignità della persona, specie nelle democrazie mature. Il bilanciamento, cioè, non può tradursi nella primazia della libertà di impresa, che, anzi, nel modello delineato dall’art. 8, è in posizione subordinata rispetto alla dignità umana. In questa prospettiva diventa essenziale la verifica delle modalità con cui viene compresso il diritto alla vita privata. In particolare, nella sentenza in esame, i giudici di Strasburgo sostengono che «l’intromissione nella privacy dei ricorrenti non ha raggiunto una soglia di significativa gravità» (pt. 126), in quanto «le informazioni raccolte per mezzo della videosorveglianza e della relativa registrazione non sono state usate dal datore di lavoro per alcuno scopo differente rispetto alla necessità di identificare il responsabile delle sottrazioni dei beni» e peraltro, a parere della corti domestiche «nel caso di specie, non era disponibile alcun altro mezzo che consentisse di perseguire lo scopo legittimo avuto di mira e che pertanto la misura doveva essere considerata “necessaria” alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale spagnola» (pt. 127). È vero che gli stessi giudici europei sottolineano come «sarebbe stato auspicabile che le corti domestiche avessero esaminato in modo più approfondito la possibilità per il datore di lavoro di utilizzare diverse misure determinanti una minore intrusione nella vita privata dei lavoratori» ma, poi, perdonano la denunciata superficialità convenendo sulla minore efficacia di un controllo palese rispetto a quello occulto. Non si può negare d’altronde, come sottolineato nella pronuncia in commento, che «la comunicazione dell’informazione all’intero staff aziendale avrebbe vanificato lo scopo della videosorveglianza, il quale era appunto, come rilevato dalle stesse corti nazionali, quello di scoprire i responsabili dei furti, ma anche ottenere prove utilizzabili nel procedimento disciplinare contro di loro» (pt. 128). Tuttavia un ragionamento di tal tipo apre la strada a qualunque grado di sacrificio del diritto alla privacy, perché un controllo occulto sarà sempre più efficace di uno palese. Eppure la stessa Grande Camera, nel ribaltare la pro-

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Così pt. 118 della sentenza in commento.

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nuncia della quarta Sezione sul caso Bărbulescu, aveva sottolineato che si deve porre in essere il comportamento (non più efficace, bensì) «meno invasivo tra quelli concretamente disponibili e comunque utili allo scopo»11, e quello nascosto è sempre un controllo invasivo, tant’è che tutta la disciplina europea della privacy si fonda sulla idea del diritto di informazione dell’interessato, proprio per assicurare la trasparenza e la conoscibilità di ogni ingerenza nella vita privata. La Corte non manca di sottolineare, in un rapido passaggio, che tali garanzie di pubblicità sono fondamentali «particolarmente nelle relazioni di lavoro, in cui il datore esercita un significativo potere sui lavoratori e ogni abuso da parte dello stesso deve essere impedito», ma completa il ragionamento puntualizzando che «l’obbligo di fornire preventiva informazione agli individui oggetto di monitoraggio circa l’estensione di tale monitoraggio, costituisce soltanto uno dei molteplici criteri che devono essere presi in considerazione al fine di valutare la proporzionalità della misura adottata al caso concreto»12. Certo, l’indagine sulle modalità del controllo, volta ad accertare la proporzionalità del sacrificio imposto rispetto alla finalità perseguita, non può arrestarsi alla sola garanzia della conoscibilità dello stesso, dovendosi misurare la concreta intromissione dello strumento utilizzato nella vita privata e, quindi, l’effettivo sacrificio che si impone al diritto. Tuttavia resta il dubbio che ammettere la legittimità di un controllo occulto – giustificato dalla finalità difensiva, ma vietato sia dalle norme europee che da quelle nazionali poste a tutela della dignità umana – possa contribuire a dar vita a un modello ingiustificatamente sbilanciato verso la tutela della libertà di impresa. In base alla terza delle condizioni poste dall’art. art. 8 per la restrizione del diritto, il suo sacrificio deve trovare fondamento in una legge che, ponderando i valori in gioco, operi il bilanciamento dei diversi interessi in conflitto o, quantomeno, ne tracci la via. È vero che, nella prospettiva convenzionale, la restrizione può e deve essere considerata adeguatamente fondata sulla legge non solo in presenza di un fondamento legale certo ed esaustivo, ma anche qualora vi siano orientamenti interpretativi giurisprudenziali consolidati; tuttavia dovrebbe trattarsi di indirizzi univoci che «permettano di colmare l’eventuale deficit di accessibilità e/o prevedibilità del dato legislativo formale»13 e, dunque, non contrastanti con esso14. Pertanto, seppur la giurisprudenza, europea e delle Corti domestiche, abbia sempre ammesso la possibilità di controlli difensivi occulti (quando posti in essere per il sospetto di un reato), ci si deve chiedere se quell’orientamento possa fondare la

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V. Corte EDU, GC, 5 settembre 2017, Bărbulescu, cit. Pt. 131, dove ancore i giudici precisano che «se una tale informazione preventiva risulta mancante, l’adozione di misure di salvaguardia individuabili sulla base degli ulteriori criteri di valutazione rilevanti assume una maggiore importanza ai fini della valutazione spettante alla Corte». 13 Corte EDU 5 settembre 2017, Köpke, n. 420/07. 14 D’altronde, seppur il principio di legalità «convenzionale» si distingue dalla nozione di riserva di legge propria del diritto interno dei paesi di civil law (non essendo legato alla natura formale della fonte che prevede o consente l’ingerenza, ma all’esistenza di una norma giuridica abilitante e alla sua qualità intrinseca: v. Corte EDU, GC, 10 novembre 2005, Leyla Sahin v. Turchia, pt. 88), l’esigenza di legalità della ingerenza è strettamente connessa al principio della certezza del diritto (v. Corte EDU, 28 marzo 2000, Baranowski c. Polonia). Quindi la qualità e la coerenza della giurisprudenza nazionale sono fattori che possono determinare in senso positivo o negativo l’esito del controllo circa la sua prevedibilità (sulla giurisprudenza contraddittoria v. Corte EDU, 21 febbraio 2008, Driha c. Romania, ptt. 31-32). 12

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restrizione del diritto anche in presenza di un dato normativo che appare con esso inconciliabile, soprattutto relativamente al profilo della necessaria conoscibilità del controllo, e se una tale interpretazione possa continuare a essere considerata consolidata di fronte a un quadro legislativo in evoluzione, certamente segnato (dall’entrata in vigore del Regolamento UE 2016/679) da un evidente rafforzamento della tutela della privacy15.

3. La giurisprudenza (nazionale) sulla legittimità dei

controlli difensivi impersonali: una lettura alla luce delle modifiche normative. Guardando all’ordinamento italiano, si deve in primo luogo verificare la permanente fondatezza di quell’orientamento che considera leciti i controlli difensivi, quand’anche posti in essere attraverso mezzi tecnologici o informatici, in considerazione delle modifiche normative che hanno interessato, in generale, la disciplina della privacy e, in particolare, quella dei controlli sull’attività di lavoro. È noto che la giurisprudenza, riconoscendo meritevole di tutela giuridica l’esigenza datoriale di individuare e reprimere gli illeciti contro il patrimonio aziendale, ha permesso di aprire un “varco” all’interno dell’assetto regolativo dello Statuto dei lavoratori, garantendo all’imprenditore l’immunità sia dall’art. 3 St. lav. (per la vigilanza di natura personale) che dall’art. 4 St. lav. (per quella di natura tecnica) in ragione proprio del carattere difensivo del controllo effettuato. Si è così ammesso, per quanto riguarda l’uso di dispositivi tecnologici volti ad “osservare” l’attività di lavoro, che essi possano essere installati all’insaputa del lavoratore e senza un accordo sindacale, sul presupposto che un accertamento diretto a tutelare l’integrità del patrimonio aziendale16 debba essere anzitutto occulto e debba normalmente riguardare il lavoratore mentre è impegnato nella propria attività17.

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Non è questa la sede per poter approfondire il tema, ma basti pensare al valore che il Regolamento riconosce all’adeguata informativa dell’interessato, nonché alla minimizzazione dei dati e alla limitazione finalistica del trattamento (sul punto si v. Alvino, I nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori nell’intersezione fra le regole dello Statuto dei lavoratori e quelle del Codice della privacy, LLI, 2016, vol. 2, n. 1, 29; Proia, Trattamento dei dati personali, rapporto di lavoro e l’“impatto” della nuova disciplina dei controlli a distanza, in RIDL, 2017, 573). 16 E ciò a prescindere dall’ampiezza del concetto di “patrimonio aziendale”, in un primo tempo limitato ai soli beni materiali e successivamente esteso fino a ricomprendere anche quelli immateriali: v. Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722, in RIDL, 2013, II, 113 ss., con nota di Spinelli, che ha ricondotto al patrimonio aziendale l’immagine esterna della stessa così come accreditata presso il pubblico; Cass., 4 aprile 2012, n. 5371, con riferimento alla messa in pericolo di rapporti commerciali esistenti tra impresa datrice e terzi. 17 In proposito, il leading case resta la sentenza con la quale la Cassazione – presupponendo la possibilità empirica di scriminare nettamente (e valutare secondo regole diverse) le scelte tecniche del datore di lavoro a seconda che esse siano dirette «a controllare la condotta illecita del dipendente» oppure «l’attività lavorativa svolta dal medesimo» – ha affermato che «devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd. difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate, o […] gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate»: v. Cass., 3 aprile 2002, n. 4746, in Giur. lav., 2002, n. 21, 10, con nota di Nogler.

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Tralasciando qui le aporie di un tale orientamento18, si vuole verificare piuttosto la sua coerenza rispetto alla disciplina dei controlli impersonali introdotta dal d.lgs. 151/2015, in base alla quale va riletta sia la possibilità di un controllo difensivo tecnologico fondato su esigenze di protezione del patrimonio aziendale sia l’ammissibilità un controllo occulto. Quanto alla prima questione, l’inclusione della «tutela del patrimonio aziendale» tra le finalità che, ai sensi del primo comma dell’art. 4 St. lav., giustificano l’impiego di strumenti da cui possa derivare un controllo sulla prestazione riporta dentro le regole della norma statutaria i controlli difensivi, imponendo anche per essi la necessità del rispetto della procedura ivi prevista. La liceità di strumenti utilizzati a tal fine, conseguentemente, non dovrà essere verificata ex post, ma a monte, attraverso il coinvolgimento sindacale19, cui è affidata la valutazione della loro praticabilità e della proporzionalità del mezzo alla soddisfazione dell’interesse datoriale. Premesso, infatti, che non vi era dubbio, già prima della riscrittura dell’art. 4 St. lav., che tali esigenze rientrassero tra quelle organizzative e giustificassero l’installazione di impianti di controllo20, l’espresso riferimento a esse nella attuale formulazione della disposizione statutaria induce a ritenere che il legislatore abbia voluto dire altro, e cioè proprio ricomprendere nel campo di applicazione della norma quei controlli che la giurisprudenza aveva lasciato fuori dal suo perimetro normativo sulla considerazione della loro funzione difensiva del patrimonio aziendale. Ciò significa, sul piano pratico, che il legislatore ha inteso estendere a essi la necessità del previo accordo sindacale o dell’autorizzazione amministrativa21, mettendo così fine all’incertezza giurisprudenziale in materia22.

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Il cortocircuito che genera il riferimento all’illecito – per la quale la legittimità dell’esercizio di un potere dipende dall’illegittimità di un comportamento verificabile solo dopo che tale potere è stato esercitato – è stato ampiamente evidenziato in dottrina: v, per tutti, Nogler, Sulle contraddizioni logiche della Cassazione in tema di diritto alla riservatezza del lavoratore subordinato, in RCP, 1998, 113 e, più recentemente, Pinto, I controlli “difensivi” del datore di lavoro sulle attività informatiche e telematiche del lavoratore, in Tullini (a cura di), Controlli a distanza e tutela dei dati personali dal lavoratore, Giappichelli, 2017, 141, anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 19 Del Punta, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro (art. 23 d.lgs. n. 151/2015), cit., 97; Ricci, I controlli a distanza dei lavoratori tra istanze di revisione e flessibilità “nel” lavoro, in ADL, 2016, n. 4-5, 748; Zoli, Il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e la nuova struttura dell’art. 4, legge n. 300/1970, in VTDL, 2016, n. 4, 640; Alvino, I nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori nell’intersezione fra le regole dello Statuto dei lavoratori e quelle del Codice della privacy, in LLI, vol. 2, n. 1, 2016, 18. 20 Tant’è che si è sempre ammessa la possibilità di installare, secondo la procedura di cui alla norma statutaria, telecamere per la prevenzione dei furti: v., per tutte, Cass., 22 maggio 2011, n. 6498, in NGL, 2011, 449 secondo cui «com’è logico e confermato dal complesso della giurisprudenza di questa Corte nell’ambito delle esigenze [organizzative e produttive] è ricompresa anche quella di tutela del patrimonio aziendale, potendo apparire non del tutto chiarito dalla giurisprudenza solo in quali precisi limiti le apparecchiature volte alla tutela dello stesso possano considerarsi, in relazione all’oggetto dei relativi controlli, addirittura escluse dalla esigenza della previa autorizzazione». 21 Così Lambertucci, Potere di controllo del datore di lavoro e tutela della riservatezza del lavoratore: i controlli a “distanza” tra attualità della disciplina statutaria, promozione della contrattazione di prossimità e legge delega del 2014 (c.d. Jobs act), in WP D’Antona, It., 255/2015; Salimbeni, La riforma dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori: l’ambigua risolutezza del legislatore, in RIDL, 2015, I, 589 22 Incertezza negata, da ultimo, da Cass., Sez. I, 19 settembre 2016, n. 18302 che ha ritenuto di non rimettere la decisione del ricorso alle Sezioni Unite della Corte, «perché la giurisprudenza di legittimità, dopo una pronuncia diretta in senso parzialmente contrario, ha poi adottato una linea interpretativa evolutiva e coerente, cui il Collegio ritiene di dare continuità». È noto che la pronuncia in senso contrario è Cass., 3 aprile 2002, n. 4746, cit., poi seguita, tra le tante, da Cass., 28 gennaio 2003, n. 10268; Cass. Pen, Sez. V, 18 marzo 2010, n. 20722, in RIDL, 2011, II, 85 con nota di Tullini; Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117, in ADL, 2012, II, 136, con nota di Erboli; Cass., 4 aprile 2012, n. 5371, in RIDL, 2013, II, 113, commentata congiuntamente a Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722 (che ritiene invece applicabile ai controlli difensivi l’art. 4 St. lav.) da Spinelli; Cass., 2 luglio 2015, n. 20440, in RIDL, 2016, II, 148, con nota di Raimondi e

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Non è mancato, tuttavia, chi – pur concordando sull’opportunità di un “aggiornamento” del concetto di controllo difensivo – continua a proporre una interpretazione volta a far sopravvivere un’eccezione alla disciplina statutaria per quelle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore si sostanzi in un illecito avente rilevanza penale23. È stato detto che in questo caso il controllo mirerebbe ad accertare una condotta antigiuridica autonomamente rilevante, e non l’attività del lavoratore, così collocandosi al di fuori dell’ambito applicativo dell’art. 4 St. lav.24. Secondo tale opinione esisterebbe ancora la possibilità di controlli difensivi legittimamente effettuati in deroga alla disciplina statutaria: il nuovo testo dell’art. 4, cioè, con il riferimento alle esigenze di tutela del patrimonio aziendale, porterebbe dentro l’applicazione della norma tutti i controlli a difesa dei beni materiali e immateriali dell’imprenditore, ma lascerebbe fuori quelli volti a difendersi da una condotta penalmente rilevante del lavoratore, che (quando non condotti direttamente da polizia o magistratura) potrebbero essere attivati dal datore di lavoro senza un accordo sindacale incompatibile, per i tempi e per le modalità, con l’efficacia del controllo stesso. In pratica, di fronte al sospetto (ragionevole) di un comportamento illecito del dipendente l’esigenza difensiva si realizzerebbe proprio attraverso la disapplicazione dell’art. 4 St. lav.25. Per quanto se ne possa condividere il pragmatismo26, la tesi non convince sul piano giuridico. E per più ragioni. Prima di tutto, è palese il contrasto di una tale interpretazione con la lettera e la ratio del comma 1 dell’art. 4, il quale impone che l’impiego di mezzi tecnologici idonei a re-

in RIDL, 2016, II, 249, con nota di Avogaro. E anche di recente sui confini della nozione di controllo “difensivo”, e dunque di ciò che rientra o meno nel campo di applicazione della garanzia procedimentale dettata dall’art. 4 St. lav., non sembra esserci la coerenza cui ha fatto riferimento la Cassazione: v., ad esempio, Cass. Pen., Sez. V, 17 marzo 2016, n. 11419, in DPL, 2016, 1153; Cass. 10 novembre 2017, n. 26682. 23 Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 St. lav., e Marazza, I controlli a distanza del lavoratore di natura difensiva, entrambi in Tullini (a cura di), Controlli a distanza e tutela dei dati personali dal lavoratore, Giappichelli, 2017, rispettivamente 10 e 28. È stato anche sostenuto che – purché vi sia un fondato sospetto che il lavoratore abbia compiuto o stia mettendo in essere una condotta illecita e dannosa per il datore e in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa – si possa richiamare il principio di legittima difesa nei rapporti privati: così Maio, Il regime delle autorizzazioni del potere di controllo del datore di lavoro ed i rapporti con l’art. 8 ella legge n. 148 del 2011, in Tullini (a cura di), Controlli a distanza e tutela dei dati personali dal lavoratore, cit., 61. 24 Così Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 St. lav., cit., 10. Esclude dal campo di applicazione dell’art. 4 St. lav. le indagini svolte in modo circoscritto e specifico dal datore di lavoro al fine di accertare e prevenire comportamenti illeciti del lavoratore anche Proia, Trattamento dei dati personali, rapporto di lavoro e l’“impatto” della nuova disciplina dei controlli a distanza, in RIDL, 2017, 573. 25 Cfr. Marazza, I controlli a distanza del lavoratore di natura difensiva, cit., 41, che fa riferimento al sospetto, plausibile e fondato, della illiceità penale della condotta del lavoratore e al timore dell’attualità del pericolo. Secondo l’A. di fronte al fondato sospetto di una condotta illecita, poi verificata nella sua esistenza e nella sua antigiuridicità, quel controllo, anche se vietato, diventa lecito. E ciò perché non esiste un unico e rigido modello di contemperamento degli opposti interessi in gioco, ma in alcuni casi e ad alcune condizioni quello imprenditoriale alla tutela dell’attività economica può prevalere su quello a non subire un controllo a distanza. 26 Lo stesso che dimostra anche la giurisprudenza prevalente quando, di fronte a un fatto illecito, ritiene utilizzabili le prove raccolte al di fuori dei limiti imposti dall’art. 4 St. lav. (e ciò pure quando il fatto illecito costituisce al contempo inadempimento): v. Cass., 3 luglio 2001, n. 8998 nel caso di un furto ripreso dalla telecamera; Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722, in RIDL, 2013, II, 113 ss., con nota di Spinelli; Cass., 8 novembre 2016, n. 22662, in DPL, 2017, n. 22, 1367, con nota di La Mendola, Videosorveglianza: limiti di legittimità dei controlli difensivi, ivi, 1362, che ritiene utilizzabile la videoripresa che immortala un furto della dipendente; Cass., 2 maggio 2017, n. 10636, sempre sui furti di un dipendente ripresi da una telecamera.

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alizzare un controllo continuo e impersonale sui lavoratori sia preceduto dal confronto sindacale o dall’autorizzazione amministrativa. E se tale procedura è necessaria, senza eccezioni, in tutte le ipotesi in cui gli strumenti suddetti realizzano un controllo preterintenzionale, non si può ipotizzare di escludere da essa l’installazione di tecnologie volte a osservare, direttamente e intenzionalmente, uno o più lavoratori in ragione di uno specifico sospetto. Tale potere è riconosciuto all’autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza, che certamente può disporre particolari accertamenti nell’ambito di avviate indagini penali27, ma non al datore di lavoro, al quale anzi è espressamente inibito l’esercizio di una tale prerogativa da una disposizione di legge volta a tutelare la libertà e la dignità di chi lavora. E non solo perché vi è una condotta che, benché l’ordinamento consideri a prescindere dalla connessione o meno con il contratto di lavoro, rileva inevitabilmente pure sul piano contrattuale (basti pensare alle previsioni dei codici disciplinari), ma soprattutto perché il controllo volto a palesare eventuali condotte illecite ha a oggetto proprio l’«attività dei lavoratori» che l’art. 4 St. lav. espressamente considera, in tale ampia accezione28. Pertanto il controllo a distanza sui dipendenti, se specificamente diretto a verificare la loro attività, resta vietato anche se volto a palesare un illecito e l’impiego di un dispositivo avente tal fine, determinando l’effetto che la norma statutaria considera e per il quale appresta le sue garanzie, va sottoposto al vincolo procedimentale ivi previsto.

4. Il rafforzamento del divieto di controlli occulti. Esclusa, almeno nella ricostruzione proposta, la legittimità di un controllo difensivo impersonale, è opportuno verificare se le modifiche normative citate incidano anche sulla possibilità di effettuare, sempre per finalità difensive, controlli occulti. Invero proprio la riscrittura dell’art. 4 st. lav. sembra rafforzare il principio, posto dallo Statuto a tutela della dignità e libertà umana, per il quale i controlli sull’attività di lavoro devono essere personali e palesi. In tal senso dispongono l’art. 3 st. lav., secondo cui i nominativi e le funzioni del personale «addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa» devono essere portati a conoscenza dei lavoratori interessati, e l’art. 4 st. lav. che – oltre a subordinare la possibilità di impiego di strumenti da cui possa derivare un controllo impersonale a determinate condizioni – limita l’utilizzabilità delle informazioni da essi raccolte alla

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Così Zoli, Il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e la nuova struttura dell’art. 4, legge n. 300/1970, in VTDL, 2016, n. 4, 641. È interpretazione consolidata che l’oggetto del divieto di controllo a distanza di cui all’art. 4 St. lav. non è circoscritto al comportamento solutorio dei dipendenti, ma esteso alla più ampia «attività dei lavoratori», per tale intendendosi «tutti i comportamenti di questi ultimi»: così Lambertucci, Potere di controllo del datore di lavoro e tutela della riservatezza del lavoratore: i controlli a “distanza” tra attualità della disciplina statutaria, promozione della contrattazione di prossimità e legge delega del 2014 (c.d. Jobs act), cit. Sul punto v. anche M.T. Carinci, Il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori dopo il “Jobs Act” (art. 23, d. lgs. 151/2015): spunti per un dibattito, in LLI, 2016, vol. 2, 1, VI; Bernardo, Vigilanza e controllo sull’attività lavorativa, in Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, Diritto del lavoro. Commentario, diretto da F. Carinci, vol. II, t. 1, 2° ed., Utet, 2007, qui 647; Bellavista, Il controllo sui lavoratori, cit., 99, e già Dell’Olio, Art. 4 St. lav. ed elaborati elettronici, in DL, 1986, I, 489.

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circostanza che sia stata data al lavoratore «adeguata informazione delle modalità […] di effettuazione dei controlli». Dal combinato disposto di tali norme emerge un rafforzamento della tutela contro i controlli occulti, siano essi posti in essere con persone o con strumenti tecnologici: il principio generale di conoscibilità del controllo datoriale non subisce deroghe e, anzi, «costituisce il principio guida che accomuna nello Statuto dei lavoratori i controlli disciplinati dall’art. 3 con quelli dell’art. 4»29. Peraltro, sempre l’ultimo comma dell’art. 4 prevede l’obbligo per il datore di lavoro di rispettare «quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196». Il richiamo al Codice della privacy, oggi superato, è da intendersi a un insieme di regole, contenute nei numerosi provvedimenti del Garante, che non solo escludono «l’ammissibilità di controlli massivi, ma impongono una gradualità nell’ampiezza e tipologia del monitoraggio, che rende assolutamente residuali i controlli più invasivi, legittimandoli solo a fronte della rilevazione di specifiche anomalie e comunque all’esito dell’esperimento di misure preventive meno limitative dei diritti dei lavoratori»30. Con riferimento al caso su cui si è espressa la Corte di Strasburgo è opportuno ricordare che proprio la particolare invasività degli impianti audiovisivi ha determinato un Provvedimento generale del Garante in materia di videosorveglianza31. Qui è ribadita la necessità del rispetto delle disposizioni normative in tema di protezione dei dati personali e – sulla base dei principi di necessità, finalità e proporzionalità – sono sintetizzate le cautele, gli adempimenti e le misure da adottare per garantire i diritti degli interessati. In particolare, il Provvedimento limita l’installazione di impianti di videosorveglianza alle sole ipotesi in cui la finalità del ricorso al videocontrollo non sia perseguibile attraverso l’impiego di altri mezzi meno pervasivi32 e comunque con le precauzioni necessarie per il raggiungimento dello scopo perseguito (registrazioni delle immagini strettamente indispensabili, limitazione dell’angolo visuale delle riprese, riduzione al minimo dei dettagli non rilevanti). Nel qual caso, fissa due principi fondamentali: la limitazione nella conservazione dei dati e, soprattutto, la chiara informativa della presenza delle telecamere. Se questa è la disciplina generale, con specifico riferimento ai rapporti di lavoro il Garante prevede che nelle attività di sorveglianza sia rispettato il divieto di controllo a distanza dell’attività lavorativa e dunque che gli impianti audiovisivi da cui esso possa derivare siano installati solo a seguito di accordo sindacale o di autorizzazione amministrativa. Naturalmente l’informativa agli interessati, già perno essenziale della tutela della riservatezza, diventa ancor più fondamentale nel rapporto di lavoro, ove – si è detto – per espressa previsione normativa l’utilizzo delle riprese è subordinato alla conoscenza del controllo e

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Così Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 St. lav., in Controlli a distanza, cit., 22. Cfr. il testo dell’audizione del Garante della Privacy, Antonello Soro, sugli schemi dei decreti legislativi attuativi del c.d. Jobs Act presso la Commissione lavoro della Camera dei deputati (9 luglio 2015) e la Commissione Lavoro del Senato (14 luglio 2015), www. garanteprivacy.it. 31 Dell’8 aprile 2010, su cui v. Califano, Fiorillo, Videosorveglianza, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Aggiornamento, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Utet, 2015, 503 e ss. 32 Sul principio di proporzionalità riferito alla videosorveglianza v. Califano, Fiorillo, Videosorveglianza, cit., 503 e ss. 30

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delle sue modalità operative, dalle aree riprese ai tempi di conservazione delle immagini, all’orientamento delle telecamere.

5. Critiche all’idea della rilevanza del ragionevole sospetto. Nella pronuncia in commento i giudici di Strasburgo hanno ammesso la possibilità di un controllo impersonale e occulto giustificandone la legittimità sulla ragionevolezza del sospetto datoriale. In particolare la Corte ritiene che «le corti nazionali non [abbiano] oltrepassato il margine di apprezzamento che compete alle autorità nazionali nella valutazione della proporzionalità della misura adottata rispetto al fine concretamente perseguito» in quanto «se non è accettabile la posizione secondo cui anche il minimo sospetto di appropriazione illecita possa autorizzare l’installazione di strumenti occulti di videosorveglianza, tuttavia l’esistenza di un ragionevole sospetto circa la commissione di illeciti connotati da gravità e la prefigurazione dell’entità dei danni economici che possono derivarne, così come avvenuto nel caso concreto, possono costituire giustificazione legittimante di peso sufficiente grave». Graduando quindi l’intensità del sospetto, la Corte ci dice che quando esso è ragionevole, cioè evidentemente fondato su percezioni condivisibili, non trova applicazione la tutela disegnata dagli ordinamenti nazionali a garanzia della riservatezza del lavoratore (e, lo si è ripetuto fino alla noia, della sua dignità!). Naturalmente, sostenere che fuoriesce dalla previsione normativa il controllo (impersonale, occulto e diretto) su una condotta (che si sospetta essere) illecita significa ammettere che un comportamento di per sé vietato (quello di controllare l’attività dei lavoratori con strumenti a distanza installati di nascosto) può trovare giustificazione, e dunque diventare lecito, se il sospetto si rivela fondato. E ciò non solo è illogico, perché di fatto priva di cogenza la norma consentendo un monitoraggio continuo e occulto sui dipendenti che si palesa solamente al momento della commissione dell’illecito, ma è privo di fondamento giuridico. Il sospetto di un comportamento illecito, infatti, non è assolutamente idoneo a legittimare un controllo che lo Statuto vieta. In tal senso è esplicito l’art. 6 che, nel disciplinare le modalità di attuazione delle visite personali, chiede che esse «avvengano con l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alle collettività o a gruppi di lavoratori», cioè con una causalità tecnologica che ha proprio la funzione di impedire che il datore di lavoro «possa avere intenti persecutori nei confronti di determinate persone, anche se vi sono fondati sospetti nei confronti di esse»33. Se fosse possibile disapplicare limiti e condizioni imposti all’esercizio del potere datoriale a fronte del mero sospetto di un comportamento illecito del lavoratore (per quanto fondato e plausibile), questo diventerebbe l’arma per la cancellazione di quegli stessi limiti. Con il paradosso che proprio nella disciplina dell’art. 4 il (solo) timore di una condotta

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Così Freni, Giugni, Lo Statuto dei lavoratori. Commento alla legge 20 maggio 1970, n. 300, Giuffrè, 1971, 21.

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penalmente illecita (del lavoratore) giustificherebbe il fatto che sia stata posta in essere una condotta penalmente illecita del datore! Pertanto, in linea con le valutazioni costantemente ribadite dalla Suprema Corte, deve ritenersi che «l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore»34 e che, dunque, non è possibile lasciare fuori dal campo di applicazione dell’art. 4 nemmeno quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti, se effettuati attraverso la macchina.

6. In conclusione. La ricostruzione qui proposta evidenzia come il tema dei controlli difensivi, soprattutto di quelli tecnologici e occulti, sia tutt’altro che oggetto di una univoca interpretazione. Le possibili e divergenti letture si ripercuotono sull’affidabilità dei diversi orientamenti, minandone la capacità di porsi quali fonti di restrizione di un diritto fondamentale affidata, pur nella prospettiva convenzionale della riserva di legge, a fonti certe e consolidate. Conseguentemente, l’intervento del legislatore italiano in materia di controllo impersonale sui lavoratori impone un tempo di assestamento interpretativo incompatibile con la possibilità di fondare la limitazione del diritto di cui all’art. 8 della Convenzione sui precedenti (e già non univoci) approdi giurisprudenziali. Una conclusione, però, smentita dai fatti. In una vicenda diversa da quella qui in esame, ma comunque vertente sulla compatibilità di un controllo difensivo occulto con la protezione della vita privata riconosciuta dalla Convenzione europea, una recente sentenza del Tribunale di Padova si sofferma sull’analisi della possibile violazione dell’art. 8 e, dopo aver analizzato le singole condizioni imposte dal suo secondo comma per l’operatività della restrizione del diritto, le ritiene tutte sussistenti35. Finanche l’esistenza di orientamenti consolidati e univoci. Nel commento a quella ordinanza chi scrive ha invocato una maggiore attenzione al mutato assetto normativo, auspicando l’abbandono da parte della giurisprudenza di tralatizie argomentazioni che danno l’illusione di una stabilità interpretativa che non c’è. Proprio sul tema dei controlli difensivi, rivelatosi un terreno instabile nella ricerca di un punto di equilibrio tra libertà di impresa e tutela dei diritti di chi lavora, occorre una rimeditazione dei precedenti orientamenti, anche considerando l’importanza che in una società sempre più connessa e tecnologica riveste la garanzia della vita privata. Certamente non si può negare tout court la possibilità di verificare il comportamento illecito del dipendente lesivo

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Tra le tante: Cass., 17 luglio 2007, n. 15892; Cass., 23 febbraio 2010, n. 4375; Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass., 18 aprile 2012, n. 16622; Cass. Pen., 12 luglio 2013, n. 30177; Cass., 27 maggio 2015, n. 10955; Cass., 9 febbraio 2016, n. 2531; Cass., Sez. I, 19 settembre 2016, n. 18302. 35 Tribunale di Padova, ord., 4 ottobre 2019, n. 1774 (giudice Perrone), in RIDL, 2020, II, con nota di Nuzzo, Il divieto di controlli occulti si applica alla verifica dell’orario di lavoro?

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del patrimonio aziendale e, d’altronde, nell’assetto statutario tale possibilità non è preclusa al datore: la giurisprudenza non da oggi riconosce, ad esempio, l’utilizzo a tal fine di investigatori privati o di personale anche esterno all’azienda36. Tuttavia se si consolidasse una interpretazione volta ad ammettere, anche di fronte a un dato normativo che ribadisce a più livelli e in più occasioni il principio della necessaria conoscibilità del controllo, verifiche sull’attività del lavoratore effettuate in modo occulto o con invasivi strumenti tecnologici, si aprirebbero varchi intollerabili nella disciplina di tutela che porterebbero a legittimare ex post violazioni dei vincoli posti a garanzia della libertà e dignità di chi lavora. È invece sulla tenuta di tali vincoli che si dovrà misurare non solo l’effettività del bilanciamento operato dal legislatore, ma anche il grado di “democrazia” realizzabile nei luoghi di lavoro. Prendendo a prestito le parole con cui Rodotà ha aperto il suo intervento alla Conferenza Internazionale sulla Privacy del 2004: noi pensiamo di discutere soltanto di controlli sui lavoratori, ma quando parliamo di tutela della vita privata «in realtà ci occupiamo del destino delle nostre società, del loro presente e soprattutto del loro futuro»37. Valeria Nuzzo

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Sul punto sia consentito rinviare allo scritto citato nella nota che precede o, più diffusamente, a Nuzzo, La protezione del lavoratore dai controlli impersonali, Editoriale Scientifica, 2018, in part. 42 e ss. 37 Rodotà, Privacy, libertà, dignità, Discorso conclusivo alla 26a Conferenza Internazionale sulla Privacy e sulla Protezione dei Dati Personali, https://www.privacy.it/archivio/rodo20040916.html,Wroclaw (PL), 14, 15, 16 settembre 2004.

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Giurisprudenza Corte di G iustizia UE, sentenza del 13 giugno 2019, causa C-317/18; Pres. Biltgen – Rel. Malenovský – Avv. Gen. Hogan – C. C. M. (Avv. Ramirez Fernandes) c. Município de Portimão (Avv. Abreu Rodrigues). Lavoro (rapporto) – Trasferimento d’azienda – Disciplina europea – Nozione di «lavoratore» – Contratto di collaborazione – Inclusione.

L’articolo 2, paragrafo 1, lettera d) della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che una persona che ha stipulato con il cedente un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, può essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede, a condizione, tuttavia, che essa sia tutelata in quanto lavoratore da detta normativa e che benefici di un contratto di lavoro alla data del trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Lavoro (rapporto) – Trasferimento d’azienda – Comune (ente locale) come cessionario – Partecipazione a concorso pubblico – Obbligatorietà – Nuovo rapporto con il cessionario – Obbligo di costituzione – Direttiva europea – Incompatibilità.

La direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, osta a una normativa nazionale che preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, per il solo fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario.

– Omissis. 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti (GU 2001, L 82, pag. 16). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra C. C. M. e il Município de Portimão (Comune di Portimão, Portogallo), in merito alla legalità della cessazione del contratto di lavoro della prima. Contesto normativo. Diritto dell’Unione. 3. La direttiva 2001/23 costituisce una codificazione della direttiva 77/187/CEE del Consiglio, del 14 febbraio 1977, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (GU 1977, L 61,

pag. 26), come modificata dalla direttiva 98/50/CE del Consiglio, del 29 giugno 1998 (GU 1998, L 201, pag. 88) (in prosieguo: la «direttiva 77/187»). 4. I considerando 3 e 8 della direttiva 2001/23 così recitano: «(3) Occorre adottare le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti. (…) (8) La sicurezza e la trasparenza giuridiche hanno richiesto un chiarimento della nozione giuridica di trasferimento alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia. Tale chiarimento non ha modificato la sfera di applicazione della direttiva [77/187], quale interpretata dalla Corte di giustizia». 5. L’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 dispone quanto segue: «a) La presente direttiva si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione.


Giurisprudenza

b) Fatta salva la lettera a) e le disposizioni seguenti del presente articolo, è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. c) La presente direttiva si applica alle imprese pubbliche o private che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno uno scopo di lucro. Una riorganizzazione amministrativa di enti amministrativi pubblici o il trasferimento di funzioni amministrative tra enti amministrativi pubblici, non costituisce trasferimento ai sensi della presente direttiva». 6. L’articolo 2 di tale direttiva è così formulato: «1. Ai sensi della presente direttiva si intende: (…) d) per “lavoratore”, ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come tale nell’ambito del diritto nazionale del lavoro. 2. La presente direttiva non lede il diritto nazionale per quanto riguarda la definizione di contratto o di rapporto di lavoro. (…)». 7. L’articolo 3, paragrafo 1, primo comma, della direttiva suddetta prevede quanto segue: «I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario». 8. A termini dell’articolo 4 della medesima direttiva: «1. Il trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano variazioni sul piano dell’occupazione. Gli Stati membri possono prevedere che il primo comma non si applichi a talune categorie delimitate di lavoratori non coperti dalla legislazione o dalla prassi degli Stati membri in materia di tutela contro il licenziamento. 2. Se il contratto di lavoro o il rapporto di lavoro è risolto in quanto il trasferimento comporta a scapito del lavoratore una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, la risoluzione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro è considerata come dovuta alla responsabilità del datore di lavoro». 9. Il testo dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 è sostanzialmente identico a quello dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 77/187. Diritto portoghese. 10. L’articolo 8, paragrafo 4, della Costituzione dispone quanto segue: «I Trattati dell’Unione europea e le disposizioni adottate dalle sue istituzioni nell’esercizio delle proprie competenze sono applicabili nell’ordinamento

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interno, conformemente al diritto dell’Unione, nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato di diritto democratico». 11. L’articolo 47, paragrafo 2, della Costituzione così dispone: «Tutti i cittadini hanno il diritto di accedere alla funzione pubblica in condizioni di uguaglianza e di libertà, di norma mediante concorso». 12. Ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione: «Ai lavoratori è garantita la sicurezza del posto di lavoro. Sono vietati i licenziamenti senza giusta causa o per motivi politici o ideologici». 13. L’articolo 11 del Código do Trabalho (codice del lavoro) stabilisce quanto segue: «Il contratto di lavoro è il contratto in forza del quale una persona fisica si impegna, dietro corrispettivo, a prestare la propria attività a beneficio di un’altra o di altre persone, nell’ambito di un’organizzazione e sotto l’autorità di queste ultime». 14. A norma dell’articolo 161 del codice del lavoro: «Nell’ambito del rapporto di “commissâo de serviço” [analoga alla “collaborazione” nell’ordinamento italiano; in prosieguo: “collaborazione”], possono essere ricoperti incarichi amministrativi o equivalenti, di direzione o di comando in diretta dipendenza dall’amministrazione o dal direttore generale o equivalente, funzioni di segretariato personale del titolare di uno qualsiasi di tali incarichi o, ancora, purché il contratto collettivo di lavoro lo preveda, funzioni la cui natura del pari presupponga un rapporto di fiducia con il titolare dei suddetti incarichi e funzioni di comando». 15. L’articolo 162, paragrafi 1, 2 e 5, del codice del lavoro è così formulato: «1. Può ricoprire un incarico o esercitare funzioni in regime di collaborazione un lavoratore dell’impresa o un’altra persona a tal fine assunta. 2. Nel caso di assunzione di un lavoratore per ricoprire incarichi o esercitare funzioni in regime di collaborazione, allo stesso può essere concessa la permanenza successivamente alla conclusione del rapporto di collaborazione. (…) 5. Ai fini del calcolo dell’anzianità del lavoratore, il periodo di servizio maturato in regime di collaborazione è computato come se fosse stato svolto nel grado di cui è titolare» 16. L’articolo 163, paragrafi 1 e 2, del codice del lavoro così recita: «1. Tutte le parti possono porre fine al rapporto di collaborazione mediante un preavviso scritto di almeno 30 o 60 giorni, in funzione della durata della collaborazione, a seconda che la stessa si sia protratta fino a due anni o per un periodo superiore a due anni. 2. Il mancato preavviso non preclude la cessazione della collaborazione. In tal caso sorge a carico della parte inadempiente l’obbligo di risarcire la controparte in conformità all’articolo 401».


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17. L’articolo 285 del codice del lavoro è del seguente tenore: «1. In caso di trasferimento, a qualsiasi titolo, della titolarità dell’impresa o dello stabilimento, o di una parte dell’impresa o stabilimento che costituisca un’entità economica, il cessionario succede nei diritti e negli obblighi del datore di lavoro nell’ambito dei contratti di lavoro dei lavoratori interessati nonché nella responsabilità per il pagamento delle ammende inflitte per violazioni del diritto del lavoro. 2. Nel corso dell’anno successivo al trasferimento, il cedente risponde in solido degli obblighi esigibili alla data del trasferimento. 3. Le disposizioni dei paragrafi precedenti sono applicabili anche al trasferimento, alla cessione o alla ripresa in gestione diretta dell’attività dell’impresa, dello stabilimento o dell’entità economica. In caso di cessione o ripresa in gestione diretta dell’attività, è responsabile in solido il soggetto che gestiva l’impresa precedentemente. 4. Le disposizioni dei precedenti paragrafi non sono applicabili nel caso del lavoratore trasferito dal cedente, prima del trasferimento dell’impresa, a un altro stabilimento o entità economica, ai sensi dell’articolo 194, mantenendolo al suo servizio, salvo per quanto riguarda la responsabilità del cessionario per il pagamento delle ammende inflitte per violazioni del diritto del lavoro. 5. Si considera entità economica l’insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa principale o accessoria. 6. L’inosservanza delle norme stabilite al paragrafo 1 e nella prima parte del paragrafo 3 del presente articolo configura una violazione molto grave». 18. L’articolo 62 della Lei n. 50/2012, que aprova o regime jurídico da atividade empresarial local e das partecipações locais e revoga as Leis no 53-F/2006, de 29 de dezembro, e 55/2011, de 15 de novembro (legge n. 50/2012, recante approvazione del regime giuridico delle attività imprenditoriali e delle partecipazioni locali e che abroga le leggi nn. 53-F/2006, del 29 dicembre, e 55/2001, del 15 novembre), del 31 agosto 2012 (Diário da República,1 serie, n. 169, del 31 agosto 2012), nella versione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale, relativo allo scioglimento delle imprese partecipate da enti locali, prevede quanto segue: «1. Salvo quanto disposto dall’articolo 35 del codice delle società commerciali, le imprese partecipate da enti locali sono obbligatoriamente soggette a una delibera di scioglimento, nel termine di sei mesi, qualora ricorra una delle seguenti situazioni: (…) 5. Al personale in servizio effettivo nelle imprese partecipate da enti locali che si trovano in una delle situazioni di cui al paragrafo 1, e che non rientri nell’ambito di applicazione degli strumenti di mobilità previsti dalla legge n. 12-A/2008, del 27 febbraio 2008,

si applica la disciplina del contratto di lavoro, salvo quanto disposto al paragrafo successivo. 6. Le imprese partecipate dagli enti locali in stato di liquidazione possono cedere agli enti pubblici partecipanti i loro lavoratori assunti con un contratto di lavoro, a norma di quanto disposto all’articolo 58 della legge n. 12-A/2008, del 27 febbraio 2008, unicamente nei limiti in cui essi siano destinati, e a tal fine necessari, al compimento delle attività oggetto di integrazione o internalizzazione. (…) 11. I paragrafi da 6 a 10 si applicano unicamente ai lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato almeno un anno prima della data della delibera di scioglimento dell’impresa partecipata da enti locali, ai quali, in caso di costituzione di un rapporto giuridico di pubblico impiego a tempo indeterminato, non è dovuta alcuna compensazione per l’estinzione del precedente posto di lavoro. (…)». Procedimento principale e questioni pregiudiziali. 19. Il 19 aprile 2005, la sig.ra C. M. ha concluso con la Expo Arade, Animação e Gestão do Parque de Feiras e Exposições de Portimão EM un contratto di formazione sul luogo di lavoro. 20. Il 2 gennaio 2006, la sig.ra C. M. ha stipulato con la suddetta impresa un contratto di lavoro a tempo determinato di un anno per svolgere le funzioni di tecnico delle risorse umane. 21. Il 1° novembre 2008, la sig.ra C. M. ha stipulato con la Portimão Urbis EM SA (in prosieguo: la «Portimão Urbis») un contratto di collaborazione per esercitare le funzioni di capo unità della gestione amministrativa e delle risorse umane. La durata di tale contratto si è protratta fino al 30 giugno 2010. 22. Il 1° luglio 2010, la sig.ra C. M. ha concluso con la Portimão Urbis un nuovo contratto di collaborazione per l’esercizio delle medesime funzioni. Le parti hanno risolto tale contratto il 1° luglio 2013. 23. In pari data, ella ha concluso con la Portimão Urbis un nuovo contratto di collaborazione per esercitare funzioni di gestore dell’unità di gestione amministrativa e di risorse umane, ma con una riduzione della propria retribuzione lorda. 24. Il 15 ottobre 2014, il comune di Portimão ha approvato lo scioglimento e la liquidazione della Portimão Urbis nell’ambito di un piano che prevedeva l’internalizzazione di una parte delle attività di tale impresa nel comune e l’esternalizzazione delle altre attività a un’altra azienda municipale, ossia l’Empresa Municipal de Águas e Resíduos de Portimão EM SA (in prosieguo: la «Emarp»). 25. Il comune di Portimão e la Emarp hanno mantenuto in vigore tutti i diritti connessi con i contratti di lavoro conclusi dalla Portimão Urbis. 26. La sig.ra C. M. appariva nell’elenco dei lavoratori «internalizzati» del comune di Portimão che hanno

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Giurisprudenza

concluso un accordo di cessione con quest’ultimo per ragioni di interesse pubblico ed è stata assegnata a servizi amministrativi e di gestione delle risorse umane. Nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2015 e il 20 aprile 2017, la stessa ha esercitato funzioni in qualità di tecnica superiore nel settore dell’attività funzionale delle risorse umane all’interno del comune di Portimão. 27. Nel luglio 2015, i lavoratori rientranti nel piano di internalizzazione, tra i quali figurava la sig.ra C. M., sono stati informati dal comune di Portimão che la loro candidatura al concorso previsto avrebbe comportato, qualora fossero risultati vincitori, l’assunzione degli stessi nel primo grado della funzione pubblica, con vincolo di permanenza nello stesso grado per almeno dieci anni. I lavoratori «esternalizzati» verso l’Emarp non sono stati sottoposti a una simile procedura di concorso. 28. È stato indetto un concorso al quale la sig.ra C. M. ha presentato la propria candidatura. In esito a tale concorso, e sebbene si fosse classificata al primo posto nell’elenco, la stessa è stata informata che la sua retribuzione sarebbe stata inferiore rispetto a quella che percepiva dalla Portimão Urbis, circostanza che la sig.ra C. M. non ha accettato. 29. Il 26 aprile 2017, la Portimão Urbis ha comunicato alla sig.ra C. M. la risoluzione del suo contratto di lavoro in conseguenza della chiusura dell’impresa. 30. Il 2 gennaio 2018, la chiusura della liquidazione della Portimão Urbis è stata trascritta nel registro delle imprese. 31. La sig.ra C. M. ha chiesto al Tribunal Judicial da Comarca de Faro (Tribunale circondariale di Faro, Portogallo) di accertare il trasferimento del suo contratto di lavoro con la Portimão Urbis al comune di Portimão, a decorrere dal 1° gennaio 2015, in ragione del trasferimento dello stabilimento in cui ella lavorava. Alla luce di tale trasferimento, la medesima chiede al giudice del rinvio di dichiarare l’illiceità della risoluzione del contratto di lavoro che ne è seguita nonché ordinare la sua integrazione nell’organico del comune di Portimão, a partire dal 1° gennaio 2015, alle stesse condizioni applicatele dalla Portimão Urbis. 32. La sig.ra C. M. chiede, inoltre, che il comune di Portimão sia condannato a pagare la differenza tra lo stipendio che quest’ultimo era tenuto a versarle successivamente a tale trasferimento rispetto a quello effettivamente corrispostole. La stessa chiede infine la condanna del comune di Portimão al pagamento di un risarcimento per danni morali. 33. Il comune di Portimão si oppone alle domande della sig.ra C. M. sostenendo, in primo luogo, che non si è verificato alcun trasferimento di stabilimento poiché l’azienda municipale è stata sciolta in forza di una legge, ed il suddetto comune si è limitato a riassumere le competenze di cui era originariamente investito; in secondo luogo, che la sig.ra C. M. esercitava funzioni in regime di collaborazione e che, quindi, non aveva

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qualità di lavoratore all’interno della Portimão Urbis e, in terzo luogo, che il comune di Portimão non ha fatto altro che osservare il regime normativo derivante dall’articolo 62 della legge n. 50/2012, del 31 agosto 2012, nella versione applicabile al procedimento principale, secondo il quale tutti i funzionari dei comuni sono assunti secondo modalità specifiche e sono soggetti al principio di uguaglianza per quanto riguarda l’accesso alla funzione pubblica sancito dall’articolo 47, paragrafo 2, della Costituzione. 34. In tale contesto, il Tribunal Judicial da Comarca de Faro (Tribunale circondariale di Faro) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, intendendosi come “lavoratore” qualunque persona che, nello Stato membro interessato, sia tutelata, in quanto lavoratore, dal diritto nazionale del lavoro, la persona che ha un contratto di collaborazione [«commissâo de serviço»] con il cedente possa considerarsi un lavoratore ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, e beneficiare della tutela offerta dalla normativa in oggetto. 2) Se la normativa dell’Unione, segnatamente la menzionata direttiva 2001/23(…), in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea, osti a una normativa nazionale che, anche nel caso di un trasferimento cui si applichi detta direttiva, preveda necessariamente la partecipazione dei lavoratori a concorso pubblico e la formazione di un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario per il fatto che questi è un comune». Sulle questioni pregiudiziali. Sulla prima questione. 35. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2001/23, e in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, lettera d), debba essere interpretata nel senso che una persona che abbia stipulato, con il cedente, un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, possa essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede. 36. Si deve anzitutto rilevare che il giudice del rinvio, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, fa esplicito riferimento alla sentenza del 20 luglio 2017, Piscarreta Ricardo (C‑416/16, EU:C:2017:574, punto 46), in cui la Corte ha dichiarato, in sostanza, che l’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che una situazione in cui le attività di un’azienda municipale sono trasferite ad un comune rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva, purché l’identità dell’azienda in questione sia mantenuta dopo il trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare. 37. La presente domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dallo stesso giudice che ha adito


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la Corte nella causa conclusasi con la sentenza citata al punto precedente e verte su un’operazione dello stesso tipo di quella considerata in tale causa. 38. Pare che, nel procedimento principale, per quanto riguarda la condizione del mantenimento dell’identità dell’impresa trasferita, il giudice del rinvio non ravveda alcuna problematica particolare, in quanto muove dal presupposto che l’operazione di cui al procedimento principale possa rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/23. 39. Ciò posto, il giudice del rinvio si chiede se, nel contesto di un trasferimento come quello di cui al procedimento principale, una persona come la ricorrente nel procedimento principale possa essere considerata come «lavoratore», ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23, tenuto conto della specifica natura del suo contratto con il cedente. 40. Si deve al riguardo rammentare che, a norma dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23, si considera «lavoratore» ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come tale nell’ambito del diritto nazionale del lavoro. 41. Inoltre, l’articolo 2, paragrafo 2, primo comma, della direttiva citata dispone che la medesima non lede il diritto nazionale per quanto riguarda la definizione di contratto o rapporto di lavoro. 42. Dalle due disposizioni summenzionate discende che, sebbene la direttiva 2001/23 miri a tutelare i lavoratori, è agli Stati membri che spetta definire la nozione di lavoratore nonché il suo contratto o il suo rapporto di lavoro nelle rispettive normative. 43. Malgrado la Corte non abbia competenza in materia di interpretazione del diritto nazionale (ordinanza del 21 ottobre 2015, Kovozber, C‑120/15, non pubblicata, EU:C:2015:730, punto 32 e giurisprudenza ivi citata), giacché tale competenza spetta al giudice del rinvio, si deve rilevare che, nel caso di specie, nella decisione di rinvio quest’ultimo osserva che il contratto di collaborazione concluso con una persona che sia già lavoratore o che non sia legata da alcun altro rapporto di lavoro preesistente è qualificato come contratto di lavoro. 44. Pertanto, risulta evidente che una persona come la ricorrente nel procedimento principale può essere considerata come «lavoratore», ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23, e il suo contratto di collaborazione può essere considerato un contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, primo comma, di tale direttiva. 45. Ciò premesso, dalla decisione di rinvio emerge che la tutela accordata a tale tipo di lavoratore si differenzia da quella concessa ad altri lavoratori, dal momento che la normativa nazionale in esame consente di porre fine a un contratto di collaborazione mediante un semplice preavviso scritto, entro un termine relativamente breve, e senza che sia richiesta alcuna giusta causa.

46. A tal riguardo, l’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2001/23 si limita a esigere che una persona sia tutelata in quanto lavoratore, nell’ambito della normativa nazionale considerata, senza tuttavia insistere su un certo contenuto o una certa qualità della tutela. 47. Infatti, rendere rilevanti differenze tra i lavoratori in funzione del contenuto o della qualità della tutela di cui essi godono ai sensi della normativa nazionale priverebbe la direttiva 2001/23 di parte del suo effetto utile. 48. Occorre peraltro rilevare che, come emerge dal suo considerando 3, la direttiva 2001/23 mira a garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore e non, eventualmente, ad ampliare i loro diritti. Pertanto, tale direttiva si limita ad assicurare che la tutela di cui una persona beneficia in forza della normativa nazionale di cui trattasi non si deteriori per il solo fatto del trasferimento. 49. Difatti, scopo di tale direttiva è quello di garantire, nella misura massima possibile, la continuazione senza modifiche dei contratti o dei rapporti di lavoro con il cessionario, per impedire che i lavoratori coinvolti vengano a trovarsi in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento (sentenza del 6 aprile 2017, Unionen, C‑336/15, EU:C:2017:276, punto 18 e giurisprudenza ivi citata). 50. Ne consegue che la direttiva 2001/23 assicura che la tutela specifica prevista da una normativa nazionale sia mantenuta senza che ne siano compromessi il suo contenuto o la sua qualità. 51. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che la direttiva 2001/23, e in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, lettera d), deve essere interpretata nel senso che una persona che ha stipulato, con il cedente, un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, può essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede, a condizione, tuttavia, che essa sia tutelata in quanto lavoratore da detta normativa e che benefici di un contratto di lavoro alla data del trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulla seconda questione. 52. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale la quale preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, e per il fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario. 53. Occorre anzitutto ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la circostanza che il cessio-

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nario sia una persona giuridica di diritto pubblico non è tale da escludere l’esistenza di un trasferimento rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/23, indipendentemente dal fatto che tale persona giuridica sia un’impresa pubblica incaricata di un servizio pubblico o un comune. Infatti, la Corte ha riconosciuto che il fatto che il cessionario sia un comune non osta, in quanto tale, a che detta direttiva sia applicabile a un trasferimento delle attività di un’impresa ad un comune (v., in tal senso, sentenza del 20 luglio 2017, Piscarreta Ricardo, C‑416/16, EU:C:2017:574, punti da 30 a 32 e giurisprudenza ivi citata). 54. La Corte ha tuttavia precisato al riguardo che dal testo dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2001/23 risulta che, perché quest’ultima sia applicabile, il trasferimento deve riguardare un ente che eserciti un’attività economica con o senza scopo di lucro e che, in linea di principio, a tal fine sono escluse le attività che si ricollegano all’esercizio delle prerogative dei pubblici poteri (sentenza del 20 luglio 2017, Piscarreta Ricardo, C‑416/16, EU:C:2017:574, punti 33 e 34 nonché giurisprudenza ivi citata). 55. Dalla lettura della seconda questione sembra che il giudice del rinvio ritenga che il trasferimento di cui al procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/23 e che, quindi, le attività oggetto di tale trasferimento non siano riconducibili all’esercizio di prerogative di potere pubblico. 56. È dunque esclusivamente sulla base di tale ipotesi, che spetta al giudice del rinvio appurare, che la Corte risponde alla seconda questione. 57. A tale riguardo, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2001/23, i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario. 58. Orbene, come ricordato al punto 49 della presente sentenza, scopo della direttiva 2001/23 è quello di impedire che i lavoratori interessati vengano a trovarsi in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento. 59. Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che, in forza della normativa nazionale applicabile, in conseguenza del trasferimento una persona come la ricorrente nel procedimento principale è obbligata, da un lato, a partecipare ad una procedura di concorso e, dall’altro, a costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario. Peraltro se, in esito ad una siffatta procedura di concorso pubblico, la ricorrente nel procedimento principale fosse stata integrata nella funzione pubblica, ciò sarebbe avvenuto con una diminuzione del suo stipendio per un periodo di almeno dieci anni. 60. Orbene, si deve giudicare che prescrizioni di tal genere che, per un verso, modificano le condizioni di lavoro, convenute con il cedente, di una persona

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come la ricorrente nel procedimento principale e, per un altro, rischiano di porre la lavoratrice in una posizione meno favorevole di quella in cui si trovava prima di tale trasferimento, contrastano sia con l’articolo 3, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2001/23 che con l’obiettivo di questa. 61. Per quanto riguarda il riferimento, operato dal giudice del rinvio, all’articolo 4, paragrafo 2, TUE, occorre ricordare che tale disposizione prevede che l’Unione rispetti, in particolare, l’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale, degli Stati membri. 62. A tal riguardo, occorre osservare che detta disposizione non può essere interpretata nel senso che essa consenta, nel settore in cui gli Stati membri hanno trasferito le loro competenze all’Unione, come in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di privare un lavoratore della tutela conferitagli dal diritto dell’Unione in vigore in tale settore. 63. Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che la direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale la quale preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, e per il fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario. – Omissis. Per questi motivi, la Corte (Ottava Sezione) dichiara: 1) La direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, e in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, lettera d), deve essere interpretata nel senso che una persona che ha stipulato, con il cedente, un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, può essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede, a condizione, tuttavia, che essa sia tutelata in quanto lavoratore da detta normativa e che benefici di un contratto di lavoro alla data del trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. 2) La direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale la quale preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, e per il fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario. – Omissis.


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La Corte di Giustizia sui diritti dei lavoratori (e dei collaboratori) in caso di re-internalizzazione di attività negli enti pubblici Sommario : 1. Il caso in esame. – 2. Il concetto di «lavoratore» ai sensi della diret-

tiva 2001/23/CE. – 3. I diritti dei lavoratori in caso di re-internalizzazione negli enti pubblici. L’interpretazione della Corte di Giustizia. – 4. Le re-internalizzazioni nella p.a. nell’ordinamento italiano. I dubbi sulla compatibilità dell’art. 97 della Costituzione con la direttiva 2001/23/CE. – 5. Conclusioni.

Sinossi. Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia fornisce interessanti indicazioni su due questioni in tema di trasferimento di azienda. La prima riguarda la nozione di lavoratore nel contesto della direttiva 2001/23, mentre la seconda concerne la tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento posto in essere attraverso la re-internalizzazione di un servizio da un soggetto privato alla pubblica amministrazione. L’occasione, dunque, si rivela utile per approfondire tali questioni, anche alla luce delle problematiche che emergono dal quadro normativo italiano, e per individuare quali risvolti possa avere l’interpretazione data dalla Corte. Abstract. With the judgment analysed, the Court of Justice provides relevant indications on two issues regarding the transfer of undertaking. The first concerns the notion of worker in the context of directive 2001/23, while the second affects the protection of the rights of workers involved in the transfer realised through the re-internalization of a service from a private entity to the public administration. Therefore, this commentary offers an occasion to discuss these issues, in view of the specific problems emerging in the Italian regulatory framework, and to identify possible implications of the interpretation given by the Court.

1. Il caso in esame. Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia, su rinvio pregiudiziale del Tribunal Judicial da Comarca de Faro, torna, ancora una volta, a pronunciarsi sull’interpretazione della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2011, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti. Le questioni poste all’attenzione della Corte sono due. La prima riguarda il concetto di «lavoratore» ai sensi della direttiva, e la possibilità di ricomprendere in tale nozione anche chi abbia stipulato con il cedente un contratto di collaborazione, mentre la seconda concerne la compatibilità con il diritto dell’Unione europea

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di una normativa nazionale che preveda per i lavoratori la necessaria partecipazione al concorso pubblico e la formazione di un nuovo contratto di lavoro, qualora il cessionario sia un comune. La vicenda processuale trae origine da un ricorso proposto da una cittadina portoghese al fine ottenere l’accertamento del trasferimento del suo contratto di lavoro da una società privata, interamente partecipata dal Comune di Portimão, al Comune stesso, e la dichiarazione di illiceità della risoluzione del suo contratto di collaborazione con la predetta società. Com’è possibile desumere dalla ricostruzione fattuale operata nella decisione in commento, tale vicenda si inserisce nell’ambito di un’operazione societaria attuata dal Comune di Portimão che prevedeva lo scioglimento e la liquidazione della società privata con la quale la ricorrente aveva stipulato un contratto di collaborazione, l’internalizzazione di una parte delle attività di tale impresa nel Comune e l’esternalizzazione di altre attività ad un’altra azienda municipale. Dalla lettura della sentenza, inoltre, emerge che per il gruppo di lavoratori destinati ad essere riassorbiti dal Comune di Portimão, tra cui figurava la ricorrente, il passaggio alle dipendenze dell’ente pubblico sarebbe avvenuto solo a seguito del superamento di una procedura di concorso e attraverso la formazione di un nuovo rapporto di lavoro, che avrebbe comportato, peraltro, un vincolo di permanenza nel primo grado della funzione pubblica per almeno dieci anni. La ricorrente, sebbene si fosse classificata al primo posto della graduatoria finale del concorso, informata del fatto che, in seguito all’assunzione, la sua retribuzione sarebbe stata inferiore rispetto a quella percepita dalla società privata di cui era collaboratrice, decideva di non accettare le nuove condizioni contrattuali. Alla stessa, pertanto, veniva comunicata la risoluzione del suo contratto di collaborazione in conseguenza della chiusura dell’impresa. La lavoratrice (rectius collaboratrice), pertanto, ricorreva dinanzi al Tribunale rilevando l’illegittimità della risoluzione del suo contratto di collaborazione e chiedendo l’accertamento del trasferimento del suo contratto di lavoro, in ragione del trasferimento dello stabilimento in cui ella lavorava. Il Comune di Portimão si opponeva a tali pretese sostenendo, in primo luogo, che nel caso di specie non si era verificato un trasferimento di stabilimento, dal momento che la società privata era stata sciolta in forza di una legge e che il Comune si era limitato a reinternalizzare alcune attività precedentemente svolte dallo stesso, in secondo luogo, che la ricorrente prestava la propria attività in qualità di collaboratrice e non già come lavoratrice della società liquidata, e, in terzo luogo, che il Comune di Portimão aveva agito nel rispetto sia della normativa interna sulle modalità di assunzione nella pubblica amministrazione che della Costituzione portoghese, che prevede l’accesso alla funzione pubblica tramite concorso. In tale contesto, il giudice del rinvio sospendeva il procedimento principale per chiedere alla Corte di Giustizia se, ai sensi della direttiva 2001/23/CE, possa intendersi come «lavoratore» anche chi ha stipulato un contratto di collaborazione con il cedente e se, la stessa direttiva, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea, osti ad una normativa nazionale che, in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di esse, preveda per i lavoratori coinvolti, qualora il cessionario sia un comune, la necessaria partecipazione ad un concorso pubblico e la formazione di un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario.

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2. Il concetto di «lavoratore» ai sensi della direttiva 2001/23/CE.

La prima delle due questioni pregiudiziali portate all’attenzione della Corte di Giustizia richiama alla mente il problema dell’individuazione di una nozione comunitaria di lavoratore subordinato. Prima di affrontare da vicino la questione oggetto della pronuncia in commento, dunque, è opportuno soffermarsi su tale problematica, esaminandola alla luce dell’evoluzione normativa e dell’elaborazione della giurisprudenza europea. Come noto, il diritto dell’Unione europea è privo di una nozione generale di lavoro – e lavoratore – subordinato, con la conseguenza che il relativo statuto protettivo risulta definito solo in modo parziale e settoriale1. La ragione è da ricercarsi nel fatto che, storicamente, nell’ordinamento europeo, lo status di lavoratore subordinato è stato definito non ai fini dell’elaborazione di una disciplina protettiva dello stesso nel rapporto di lavoro, ma per assicurargli l’accesso alla garanzia della libera circolazione nel mercato comune2. Difatti, una nozione più generalizzata di lavoratore è stata elaborata nel tempo dalla Corte di Giustizia nell’ambito di controversie aventi ad oggetto l’applicazione della disciplina prevista agli artt. 45-48 TFUE (norme in materia di libera circolazione). La Corte di Lussemburgo, che già nel 1964 chiariva che la nozione di lavoratore non può dipendere dai diritti interni, altrimenti «ciascuno Stato potrebbe modificare la portata della nozione di lavoratore migrante ed escludere a suo piacimento determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal Trattato»3, è giunta, con la storica sentenza Lawrie-Blum, ad affermare che nel contesto dell’art. 45 TFUE il concetto di lavoratore deve essere definito tenendo conto che «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione4». Secondo l’orientamento consolidatosi in seno alla giurisprudenza della Corte di Giustizia5, dunque, i tre criteri oggettivi nei quali si articola la nozione euro-unitaria di lavoratore subordinato sono: lo svolgimento di una prestazione lavorativa, la soggezione al potere di direzione del destinatario della stessa e il pagamento di una retribuzione come corrispettivo di essa. Applicando tali principi ai singoli casi concreti, i giudici di Lussemburgo sono riusciti facilmente ad estendere le tutele in materia di libera circolazione dei lavoratori anche alle categorie dei così detti lavoratori non standard (prestatori di lavoro a tempo parziale, a chiamata, occasionali e intermittenti, stagionali, impegnati in attività formative o di stage)6.

1 2 3 4 5

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Giubboni, Per una voce sullo status di lavoratore subordinato nel diritto dell’Unione europea, in RDSS, anno XVIII, 2, 2018, 207. Giubboni, op. cit., 209. C. giust., 19 marzo 1964, causa C-75/63, Unger, in http://curia.europa.eu. C. giust., 3 luglio 1986, causa C-66/85, Lawrie-Blum, in http://curia.europa.eu. C. giust., 3 luglio 1986, causa C-66/85, Lawrie-Blum, cit.; C. giust., 14 ottobre 2010, causa C-428/09, Union syndicale Solidaires Isère, in http://curia.europa.eu; C. giust., 3 maggio 2012, causa C-337/10, Neidel, in http://curia.europa.eu. Giubboni, op. cit., 214.

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Giurisprudenza

I criteri interpretativi utilizzati se, da un lato, potrebbero apparire troppo semplificati, dall’altro dimostrano che la Corte di Giustizia non si preoccupa tanto di tracciare una linea di confine tra lavoratore subordinato e autonomo7, quanto piuttosto di distinguere, verificando l’esistenza di un’attività economica reale ed effettiva, i lavoratori subordinati da coloro i quali svolgono «attività talmente ridotte da potersi definire puramente marginali e accessorie8» e che, pertanto, sono esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 45 TFUE. La nozione di lavoratore subordinato così delineata, la cui portata è stata estesa, ad opera della giurisprudenza della Corte di Giustizia, anche ad altre aree oggetto di armonizzazione da parte del legislatore europeo, come il diritto antidiscriminatorio, la tutela della salute e della sicurezza dell’ambiente di lavoro e l’orario di lavoro9, non trova applicazione nel contesto della direttiva 2001/23/CE (che ha sostituito la precedente direttiva 77/187/CEE), concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti o loro parti. La ragione è stata chiarita dalla Corte di Giustizia, già all’indomani della direttiva 77/187/ CEE. Secondo i giudici europei, ai fini della direttiva in materia di trasferimento d’azienda, non è necessario riferirsi ad una nozione unitaria di lavoratore subordinato, dal momento che la direttiva non intende instaurare un livello di tutela uniforme nell’intera Comunità, ma mira solo ad un’armonizzazione parziale. Lo scopo della direttiva sarebbe esclusivamente quello di impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento d’azienda vengano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento. Pertanto, in mancanza di indicazioni espresse nel testo della direttiva 77/187, la Corte chiariva che per «lavoratore» doveva intendersi chi «nello Stato membro interessato, sia tutelato, in quanto lavoratore, dal diritto nazionale del lavoro10». L’opinione della Corte ha suscitato non poche perplessità. Secondo alcuni interpreti, sarebbe stata dettata dall’esigenza di individuare una nozione il più ampia possibile di lavoratore, per evitare che gli Stati membri potessero escludere talune categorie di lavoratori subordinati dall’applicazione della direttiva11. Al contrario, secondo gran parte della dottrina, il rinvio al diritto nazionale operato dai giudici europei avrebbe potuto comportare un’applicazione della disciplina in materia di trasferimento d’azienda fortemente differenziata nei diversi Stati membri12 e la sottrazione di alcune categorie di lavoratori dalle tutele previste dalla direttiva, anche alla luce del proliferare di forme di lavoro atipico di incerta qualificazione13. Tali preoccupazioni non sono state del tutto ignorate dal legislatore europeo, il quale è intervenuto con la direttiva 98/50 modificando la direttiva 77/18714. Come si legge al sesto

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Roccella, Treu, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, 2016, 97. C. giust., 23 marzo 1982, causa C-53/81, Levin, in http://curia.europa.eu. 9 Giubboni, op. cit., 218 ss. 10 C. giust., 11 luglio 1985, causa C-105/84, Danmols Inventar, in http://curia.europa.eu. 11 Contaldi, Sulla tutela dei lavoratori in diritto comunitario in caso di trasferimento di imprese soggette ad amministrazione straordinaria, in GC, 1992, 5, I, 1129. 12 Hepple, The implementation of the Community charter of fundamental social rights, in Common market law review, 1990, 649. 13 Maretti, L’incorporazione del diritto comunitario del lavoro. Le nozioni di datore di lavoro lavoratore e rappresentanze dei lavoratori, Giappichelli, 2003, 180. 14 Roccella, Treu, op. cit., 401. 8

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considerando della direttiva del 1998, infatti, il legislatore riconosce la necessità di chiarire la nozione di «lavoratore» alla luce della giurisprudenza della Corte, e, pertanto, inserisce, all’art. 2 della direttiva, la disposizione di cui alla lettera d), per cui ai sensi della direttiva si intende come «lavoratore», «ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come un lavoratore nell’ambito del diritto nazionale del lavoro». Con tale intervento, tuttavia, il legislatore, non si limita a recepire l’orientamento espresso dalla Corte di Lussemburgo. Al comma due dello stesso articolo 2, infatti, è specificato che gli Stati membri non potranno escludere dall’ambito di applicazione della direttiva i contratti o i rapporti di lavoro a motivo unicamente: «a) del numero di ore di lavoro prestate o da prestare; b) di rapporti di lavoro disciplinati da un contratto di lavoro di durata determinata a norma dell’articolo 1, punto 1 della direttiva 91/383/CEE del Consiglio (…) o c) di rapporti di lavoro interinali a norma dell’articolo 1, punto 2 della direttiva 91/383/CEE e del fatto che l’impresa, lo stabilimento o la parte d’impresa o di stabilimento trasferita è l’agenzia di lavoro interinale che è il datore di lavoro o parte di essa». È chiaro, dunque, che tale correttivo circoscrive, almeno in parte, il potere della legislazione nazionale e permette di ricomprendere nell’ambito applicativo della direttiva anche i lavoratori part-time, a tempo determinato e interinali. Nel quadro descritto, la decisione in commento offre interessanti spunti di riflessione, in quanto la Corte di Giustizia, al fine di evitare l’esclusione di altre categorie di lavoratori atipici dall’ambito applicativo della disciplina europea, sembra aderire ad un’interpretazione estensiva del concetto di «lavoratore» nel contesto della direttiva 2001/23, tale da ricomprendere al suo interno anche chi sia legato al cedente da un rapporto di collaborazione. Nel rispondere alla questione proposta, la Corte, premesso che nel caso di specie il contratto di collaborazione è qualificato come contratto di lavoro dal giudice del rinvio, chiarisce che l’art. 2, paragrafo 1, lettera d) della direttiva si limita ad esigere che una persona sia tutelata in quanto lavoratore dalla disciplina nazionale dello Stato membro interessato, senza insistere sul contenuto o la qualità della tutela accordata. Per la Corte, infatti, è del tutto irrilevante la circostanza che il diritto portoghese appresti minori tutele al collaboratore rispetto ad altre tipologie di lavoratori (in particolare, i giudici europei fanno riferimento alle regole che disciplinano la risoluzione del contratto e alla possibilità per le parti di porre fine ad un rapporto di collaborazione con un semplice preavviso scritto, entro un termine relativamente breve, senza che sia richiesta alcuna giusta causa). Tale circostanza non può impedire di qualificare come lavoratore nel contesto della direttiva 2001/23 chi ha stipulato un contratto di collaborazione con il cedente. Infatti, differenziare i lavoratori in base alla tipologia o al livello di tutela di cui essi godono in virtù della normativa nazionale, violerebbe la ratio della direttiva, che è quella di garantire, nella misura massima possibile, la continuità senza modifiche dei contratti o dei rapporti di lavoro con il cessionario, per impedire che i lavoratori coinvolti vengano a trovarsi in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento15.

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In tal senso, ex plurimis, C. giust., 6 aprile 2017, causa C-336/15, Unionen, in http://curia.europa.eu; C. giust., 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon, in http://curia.europa.eu; C. giust., 26 maggio 2005, causa C‑478/03, Celtec, in http://curia.europa.eu.

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Giurisprudenza

La Corte di Giustizia, ricordando che, in ogni caso, spetta agli Stati membri definire la nozione di lavoratore, il suo contratto o il contenuto del suo rapporto nelle rispettive normative e che la stessa Corte non ha competenza in materia di interpretazione del diritto nazionale, giacché tale compito spetta al giudice del rinvio, sembra ammettere che, ai fini della nozione di «lavoratore» nel contesto della direttiva sul trasferimento d’azienda, sia sufficiente che l’ordinamento nazionale appresti una qualche tutela al soggetto interessato, senza che sia necessario valutare il contenuto o la qualità della stessa. I giudici europei, pur non affrontando in maniera diretta il problema della riconducibilità nell’ambito di applicazione della direttiva delle forme di lavoro autonomo, hanno condivisibilmente fornito un’interpretazione estensiva della nozione di «lavoratore» nel contesto della direttiva 2001/23, al fine di ricomprendervi tutti coloro i quali siano in qualche modo tutelati dalla normativa nazionale in quanto lavoratori e per evitare l’esclusione di alcune categorie di prestatori atipici solo in ragione del minor grado di tutele loro garantite dalla normativa nazionale.

3. I diritti dei lavoratori in caso di re-internalizzazione negli enti pubblici. L’interpretazione della Corte di Giustizia.

Nel rispondere alla seconda questione pregiudiziale proposta dal Tribunale di Faro, la Corte di Giustizia affronta il delicato tema delle così dette re-internalizzazioni di servizi da parte della pubblica amministrazione. La controversia risolta dalla sentenza in epigrafe, infatti, come anticipato, ruota attorno allo scioglimento di un’azienda municipale e alla reinternalizzazione delle attività svolte dalla stessa nel Comune di Portimão. La Corte di Lussemburgo, prima di affrontare la questione pregiudiziale, ritiene opportuno ribadire quanto già accertato dal giudice del rinvio: la fattispecie in esame costituisce, senza dubbio, un’ipotesi di trasferimento d’azienda, rientrante nell’ambito applicativo della direttiva 2001/23. A tal fine, la Corte richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza europea secondo cui la circostanza che il cessionario sia una persona giuridica di diritto pubblico non consente di escludere l’esistenza di un trasferimento rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/23, sia nel caso in cui tale persona giuridica sia un’impresa pubblica incaricata di prestare un pubblico servizio, sia nel caso in cui sia un comune16. Infatti, come risulta dall’articolo 1, paragrafo 1, lettera c) della direttiva in esame, quest’ultima si applica alle imprese pubbliche o private che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno uno scopo di lucro. Restano escluse dall’ambito applicativo

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In tal senso C. giust., 20 luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, cit.; C. giust., 26 novembre 2015, causa C-509/14, Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios, in http://curia.europa.eu; C. giust., 20 gennaio 2011, causa C-463/09, CLECE, in http:// curia.europa.eu.

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solo le riorganizzazioni amministrative o il trasferimento di funzioni amministrative tra enti amministrativi pubblici, non costituendo ipotesi di trasferimento ai sensi della direttiva17. Inoltre, come precisato in più occasioni dalla Corte, la nozione di «attività economica» comprende qualsiasi attività consistente nell’offerta di beni o servizi su un determinato mercato. Sono escluse, al contrario, le attività che si ricollegano all’esercizio delle prerogative dei pubblici poteri, fermo restando che i servizi che sono garantiti nell’interesse pubblico e senza fini di lucro e si trovano in concorrenza con quelli offerti da operatori che agiscono con fini di lucro possono essere qualificati come «attività economiche», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2001/2318. Il giudice del rinvio, alla luce di tali principi e richiamando espressamente la pronuncia della Corte di Giustizia del 20 luglio 2017, Piscarreta Ricardo (C-416/16), avente ad oggetto la stessa operazione di reinternalizzazione da cui trae origine la pronuncia in commento, ha ritenuto che il trasferimento in oggetto rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/23 e che, quindi, le attività oggetto di tale trasferimento non siano riconducibili all’esercizio di prerogative di pubblici poteri. Ciò premesso, la Corte passa ad esaminare la questione proposta. I dubbi sollevati dal giudice del rinvio riguardano il possibile contrasto tra la direttiva 2001/23 e una normativa nazionale che, in caso di trasferimento d’azienda preveda necessariamente per i lavoratori coinvolti la partecipazione ad una procedura di concorso pubblico e la formazione di un nuovo rapporto di lavoro con il cessionario (con vincolo di permanenza nel primo grado della funzione pubblica e diminuzione dello stipendio per almeno dieci anni), per il solo fatto che quest’ultimo sia un comune. Ebbene la Corte, confermando i dubbi nutriti dal giudice del procedimento principale, perviene alla dichiarazione di incompatibilità delle disposizioni controverse tanto con l’articolo 3, paragrafo 1, primo comma della direttiva quanto con l’obiettivo della stessa. L’articolo 3 è, come noto, la norma cardine della direttiva, in quanto prevede il trasferimento, al cessionario, dei diritti e degli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento. Essa, dunque, mira a garantire la continuità dei rapporti di lavoro. L’obiettivo della direttiva, invece, come già ricordato, è quello di impedire che i lavoratori interessati vengano a trovarsi in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento. È evidente, dunque, agli occhi della Corte, che una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale che, da un lato, modifica le condizioni di lavoro convenute con il cedente e, dall’altro, rischia di porre i prestatori coinvolti in una posizione meno favorevole rispetto a quella in cui si trovavano prima del trasferimento, contrasta con l’art. 3, paragrafo 1, primo comma, della direttiva, nonché con lo scopo della stessa.

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C. giust., 15 ottobre 1996, causa C-298/94, Henke, in http://curia.europa.eu; C. giust., 26 settembre 2000, causa C-175/99, Mayeur, in http://curia.europa.eu. 18 In tal senso, ex plurimis, C. giust., 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon, cit.; C. giust., 25 ottobre 2001, causa C‑475/99, Ambulanz Glöcknerpunti, in http://curia.europa.eu; C. giust., 10 gennaio 2006, causa C‑222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., in http://curia.europa.eu; C. giust., 1 luglio 2008, causa C‑49/07, MOTOE, in http://curia.europa.eu; C. giust., 23 aprile 1991, causa C‑41/90, Höfner e Elser, in http://curia.europa.eu.

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Né, secondo i giudici europei, una normativa del genere potrebbe trovare la sua ratio giustificativa nell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, a cui fa riferimento il giudice del rinvio. Tale norma, infatti, prevede che l’Unione rispetti l’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale degli Stati membri, ma, in nessun caso, può essere interpretata nel senso che essa consenta di privare il lavoratore delle tutele assicurategli dal diritto europeo in una materia in cui gli Stati membri hanno trasferito le proprie competenze all’Unione. In altre parole, se la decisione di adottare la direttiva in materia di trasferimento di imprese è stata dettata dall’esigenza di attenuare le differenze esistenti nelle legislazioni nazionali per quanto riguarda l’entità della protezione dei lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, l’articolo 4 del Trattato sull’Unione europea non può essere invocato per giustificare una disciplina interna incompatibile con il livello minimo di tutele garantito dalla direttiva in esame. Pertanto, una norma come quella oggetto del procedimento principale, che non garantisce la continuità dei rapporti di lavoro dal cedente (azienda municipale) al cessionario (comune), imponendo la partecipazione ad un concorso pubblico e la costituzione di un nuovo rapporto, e che, inoltre, rischia di porre i lavoratori coinvolti in una posizione meno favorevole di quella in cui si trovavano prima del trasferimento, contrasta con l’art. 3, paragrafo 1, primo comma della direttiva 2001/23, che garantisce il trasferimento di diritti e obblighi derivanti dal rapporto di lavoro in capo al cessionario, e, più in generale, con lo scopo della disciplina europea.

4. Le re-internalizzazioni nella p.a. nell’ordinamento italiano. I dubbi sulla compatibilità dell’art. 97 della Costituzione con la direttiva 2001/23/CE.

Anche la risoluzione della seconda questione pregiudiziale posta all’attenzione della Corte di Giustizia offre interessanti spunti di riflessione, che meritano di essere esaminati volgendo lo sguardo all’ordinamento italiano e valutando quali possano essere le ricadute interpretative della pronuncia in esame sul diritto interno. Allo scopo, è necessario riepilogare le più recenti discipline elaborate dal legislatore italiano in materia di vicende circolatorie realizzate nella zona grigia fra pubblico e privato e, in particolare, in materia di re-internalizzazione di attività, ovvero i casi in cui la Pubblica Amministrazione «attrae (nuovamente) a sé un’attività precedentemente esercitata da altri soggetti di diversa natura giuridica19». Innanzi tutto, l’articolo 31 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che prevede l’applicazione dell’art. 2112 c.c. e il rispetto delle procedure di informazione e di consultazione di cui all’articolo 47 della legge 29 dicembre del 1990, n. 428 per tutti i trasferimenti

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Falsone, Dalla corsa per esternalizzare alla (re)internalizzazione negli enti pubblici: l’incerto destino del personale, in VTDL, 2019, 94.

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o conferimenti di attività svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici, loro aziende o strutture, ad altri soggetti pubblici o privati. Con tale norma, riferita esclusivamente ai casi di riorganizzazione interna alla Pubblica Amministrazione o di esternalizzazione, il legislatore, tuttavia, non interviene (e non lo farà fino al 2016) in materia di reinternalizzazioni di funzioni nella Pubblica Amministrazione, lasciando alla giurisprudenza il compito di interpretare la portata dell’art. 31 e valutare la possibilità, avanzata da parte della dottrina, di far valere il principio privatistico della prosecuzione del rapporto di lavoro, adottato per le esternalizzazioni, anche ai casi di reinternalizzazioni di attività o funzioni nella p.a.20 L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza costituzionale e contabile è stata, tuttavia, decisamente restrittiva e ha sancito l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 31 d.lgs. n. 165/2001 al di fuori delle ipotesi di esternalizzazione, limitando in tal modo la prosecuzione dei rapporti di lavoro dei soggetti adibiti all’attività pubblica reinternalizzata21. Il principale ostacolo ad un’interpretazione estensiva della norma prevista dalla disciplina sul pubblico impiego è costituito, come chiarito in più occasioni sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte dei Conti, dalla regola costituzionale dell’accesso per concorso agli impieghi pubblici (art. 97, quarto comma, Cost.). È stata negata, infatti, in decisioni rese nei confronti di leggi regionali, la legittimità di internalizzazioni poste in essere attraverso il passaggio automatico dall’impiego con un soggetto privato a quello alle dipendenze di una pubblica amministrazione22 senza l’espletamento di una procedura selettiva concorsuale. In tal modo, infatti, si determinerebbe la trasformazione del rapporto di lavoro costituito per via contrattuale in rapporto di ruolo, aggirando la regola del concorso pubblico, che, al contrario, deve essere considerato come canale di accesso pressoché esclusivo nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in linea con il principio di uguaglianza e i canoni di imparzialità e di buon andamento23. L’orientamento consolidatosi in giurisprudenza in assenza di una disciplina ad hoc ammetteva quindi la reinternalizzazione del solo personale già dipendente della pubblica amministrazione, trasferito ex art. 31 d.lgs. n. 165/2001 alla società privata, dal momento che tale personale era già stato reclutato dall’amministrazione con procedimento concorsuale di natura pubblicistica24. Solo in alcuni casi, la giurisprudenza si è aperta ad ammettere il riassorbimento nella p.a. di lavoratori assunti direttamente dalle società private (parteci-

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Borgogelli, Modelli organizzativi e tutele dei lavoratori nei servizi di interesse pubblico, in AA.VV., Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi: atti delle giornate di studio di Cassino, 18-19 maggio 2017, Giuffré, 2018, 403. 21 Falsone, op. cit., 100. 22 Borgogelli, op. cit., 404. 23 C. cost., 19 giugno 2013, n. 167, in FI, 2014, I, col. 1385; C. cost., 16 luglio 2013, n. 229, in FI, 2014, I, col. 2350 e nello stesso senso la Corte dei Conti, ex plurimis, C. Conti, sez. riun. controllo, sent. 3 febbraio 2012, n. 4, in RCC, 2012, 1, 23: «Nell’ipotesi di reinternalizzazione di servizi precedentemente svolti da una società totalmente partecipata da un comune, questo non può in nessun caso procedere all’assunzione del personale già in servizio nella società partecipata, e ciò sia per il carattere inderogabile dei limiti imposti dal legislatore statale alla spesa di personale degli enti locali, sia perché risulterebbe violato il principio costituzionale dell’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico concorso». 24 Bolognino, La Corte dei Conti si pronuncia sulla nuova disciplina delle c.d. reinternalizzazioni del personale delle società a controllo pubblico da parte delle amministrazioni socie, in LPA (II), 2016, 5-6, 725 e ss. che richiama C. Conti, sez. regionale di controllo per la regione Toscana, delibera n. 21 del 21 dicembre 2007; C. Conti, sez. regionale di controllo per il Veneto, delibera dell’8 maggio 2008, n. 18.

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pate), purché selezionati in conformità al principio sancito dall’art. 97 Cost., dunque con procedure sostanzialmente equivalenti a quelle di cui all’art. 35 d.lgs. 165/200125. In tale contesto, si inserisce il decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, con il quale il legislatore, nell’ambito di un’ampia riforma in materia di società a partecipazione pubblica, interviene a disciplinare il fenomeno della reinternalizzazione del personale delle società a controllo pubblico da parte delle amministrazioni socie. La norma di riferimento è contenuta all’art. 19, comma 8 del citato decreto, che stabilisce che: «Le pubbliche amministrazioni titolari di partecipazioni di controllo in società, in caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati, affidati alle società stesse, procedono, prima di poter effettuare nuove assunzioni, al riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione, mediante l’utilizzo delle procedure di mobilità di cui all’articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e nel rispetto dei vincoli in materia di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale.» Con tale disposizione, il legislatore, conformandosi all’interpretazione già prefigurata dalla Corte costituzionale e dalla Corte dei Conti in assenza di norme speciali, si limita a prevedere l’obbligo, per l’amministrazione pubblica che reinternalizza un’attività precedentemente esternalizzata, di “riassorbire” il personale già dipendente dalla stessa a tempo indeterminato e poi transitato alle dipendenze della società partecipata. Con una soluzione decisamente più sbilanciata a favore dell’art. 97, comma 4 della Costituzione, l’art. 19, in sostanza, prevede, nel rispetto dei vincoli in materia di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale, il riassorbimento solo di chi sia stato assunto dalla pubblica amministrazione, prima dell’esternalizzazione, attraverso la procedura concorsuale pubblica prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/200126. Tale disposizione di legge, tuttavia, non chiarisce la sorte dei lavoratori assunti direttamente dalla società partecipata, anche all’esito di una procedura selettiva27, i quali, in assenza di qualsiasi riferimento all’art. 2112 c.c. da parte della norma speciale, non potranno beneficiare della garanzia della prosecuzione del rapporto di lavoro. Pertanto, nei casi in cui le così dette re-internalizzazioni si configurino come un trasferimento d’azienda, l’esclusione dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. al fine di salvaguardare il vincolo costituzionale dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso sembrerebbe porsi in contrasto con la direttiva 2001/23, che, come chiarito anche dalla Corte di Lussemburgo, trova applicazione anche qualora il cessionario sia una pubblica amministrazione.

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C. cost., 23 luglio 2013, n. 227, in FI, 2014, 5, I, col. 1384, con nota di Ricci, nella cui motivazione si legge che, nel caso di specie, il riassorbimento sarebbe stato legittimo «sempreché tali lavoratori fossero stati originariamente trasferiti o transitati dall’ente pubblico di pregressa appartenenza alle società partecipate o, comunque, da queste selezionati in conformità al principio sancito dall’art. 97 Cost. Il diritto all’inserimento nell’organico dell’ente dev’essere, invece, correlativamente escluso in capo ai dipendenti illo tempore assunti da società controllate senza il ricorso a procedure selettive pubbliche “equivalenti”». 26 Falsone, op. cit., 111. 27 In particolare, ci si riferisce al personale assunto dalle società pubbliche dopo il 2008, reclutato con una procedura concorsuale ex art. 18, commi 1 e 2, d.l. n. 112/2008 (oggi art. 19, comma 2, d.lgs. n. 175/2016), ispirata ai principi di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001.

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Francesca Grasso

La questione giuridica che si presenta all’interprete non è certamente di facile risoluzione, in quanto il conflitto fra norme vede da un lato l’art. 2112 c.c., disciplina di necessaria attuazione degli obblighi comunitari, e dall’altro l’art. 19 d.lgs. n. 175/2016, che trova la sua ratio nel quarto comma dell’art. 97 Cost.28 che, come chiarito anche dalla più recente giurisprudenza, non ammette deroghe se non in presenza di specifiche necessità funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico29. È evidente, dunque, la tensione tra i principi propri del diritto del lavoro (anche a livello comunitario), orientati a garantire la prosecuzione dei rapporti di lavoro nell’ambito delle vicende traslative dell’impresa, e le esigenze di trasparenza e imparzialità della pubblica amministrazione, che condizionano l’applicazione della disciplina in materia di trasferimento d’azienda30. Sul punto, in assenza di una giurisprudenza interna a cui fare riferimento31, l’esito della pronuncia in commento merita particolare attenzione e i principi affermati dalla Corte di Giustizia nella risoluzione della seconda questione pregiudiziale devono essere calati nel quadro normativo sopra delineato. La sentenza in epigrafe, infatti, è particolarmente interessante nella parte in cui rileva l’incompatibilità con la direttiva 2001/23 di una normativa nazionale, come quella portoghese – evidentemente molto simile a quella italiana – che, in caso di trasferimento di azienda preveda, per il solo fatto che il cessionario sia una pubblica amministrazione, l’obbligo per i lavoratori coinvolti di partecipare ad un concorso pubblico e, in caso di superamento della procedura selettiva, di costituire un nuovo rapporto di lavoro. Dalla lettura della sentenza in commento, peraltro, si evince chiaramente che il sistema portoghese dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione trova la sua fonte non solo in una legge ordinaria, ma anche in una disposizione costituzionale32. Ciò nonostante, la Corte di Giustizia ha ritenuto la normativa nazionale incompatibile sia con l’art. 3 che con l’obiettivo della direttiva in materia di trasferimento d’azienda. Alla luce di tale interpretazione, dunque, non sembra irragionevole immaginare che i giudici europei possano giungere al medesimo giudizio di incompatibilità con il diritto dell’Unione, qualora, in un caso di reinternalizzazione che configuri un trasferimento d’a-

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Falsone, op. cit., 119. C. cost., 2 marzo 2018, n. 40, in FI, 2018, 4, I, col. 1105, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 8, della legge reg. Sardegna n. 2 del 2007 – che stabilisce il passaggio di dipendenti da soggetti privati ad enti pubblici, senza il previo esperimento di un concorso pubblico e senza indicare le ragioni giustificatrici della deroga – in quanto lesivo dell’art. 97, quarto comma, Cost. La Corte, tuttavia, con tale pronuncia, sembra disposta ad ammettere il riassorbimento anche del personale non reclutato con un pubblico concorso dalla p.a., purché assunto con procedure conformi al principio dell’art. 97 Cost. Si legge in sentenza, infatti, che la disposizione oggetto del giudizio di legittimità deve essere censurata in quanto consente «l’accesso dei dipendenti di due società private nei ruoli regionali, senza alcuna forma di selezione, neppure a concorsualità “attenuata”, e senza stabilire alcuna condizione in ordine alle modalità di assunzione di tali dipendenti». 30 Albi, La disciplina dei rapporti di lavoro nelle società a partecipazione pubblica fra vincoli contabili e garanzie giuslavoristiche, in M. Passalacqua (a cura di), Il disordine dei servizi pubblici locali, Giappichelli, 2015, 238. 31 Ferrante, Re-internalizzazione e successione di appalto nella gestione dei servizi pubblici, WP D’Antona, It., 385/2019, 12. 32 L’art. 47, paragrafo 2 della Costituzione portoghese prevede che «Tutti i cittadini hanno il diritto di accedere alla funzione pubblica in condizioni di uguaglianza e di libertà, di norma mediante concorso». 29

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zienda, siano chiamati a pronunciarsi sulla tenuta dell’art. 19, comma 8 d.lgs. n. 175/2016 e sulla regola costituzionale del concorso pubblico sancita dall’art. 97 della Costituzione.

5. Conclusioni. A margine delle riflessioni dedicate alla sentenza in commento sembra opportuno interrogarsi sulla portata che l’interpretazione fornita dai giudici europei può avere negli ordinamenti nazionali. Per quanto riguarda la prima questione pregiudiziale, infatti, la pronuncia in esame, sebbene ancora ben lontana dal fornire una nozione comunitaria di lavoratore ai sensi della direttiva 2001/23, offre interessanti spunti interpretativi con riferimento al concetto di «lavoratore» nel contesto della direttiva, e, ricomprendendovi anche chi ha stipulato con il cedente un contratto di collaborazione e, più in generale, tutti coloro i quali siano in qualche modo tutelati dalla normativa nazionale in quanto lavoratori, a prescindere dal contenuto e dalla qualità della tutela accordata, sembra aprire alla possibilità di estendere tale concetto oltre i confini della subordinazione. Sarà interessante, dunque, verificare se tale lettura possa essere accolta e recepita dai giudici nazionali per arrivare a ricomprendere nell’ambito applicativo della direttiva anche alcune categorie di lavoratori autonomi a cui il diritto interno assicura alcune tutele in quanto lavoratori33. Con riferimento alla seconda questione affrontata, invece, vi è da chiedersi se una pronuncia di incompatibilità con il diritto dell’Unione come quella in commento possa stimolare un intervento del legislatore italiano diretto a risolvere il contrasto tra le fonti interne e la direttiva UE o, quantomeno, a chiarire la sorte di quei dipendenti che ad oggi, restando esclusi dal “riassorbimento” nell’ente pubblico previsto dal d.lgs. n. 175/2016, sono destinati, in caso di re-internalizzazione di attività nella p.a., a perdere il proprio posto di lavoro34. Francesca Grasso

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Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, si pensi ai collaboratori “etero-organizzati” ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 a cui – anche alla luce dell’interpretazione fornita dalla recente sentenza del 24 gennaio 2020, n. 1663 della Corte di cassazione – sembrerebbe potersi applicare l’intera disciplina del lavoro subordinato o, più in generale, alle altre forme di collaborazione parasubordinata, a cui la legge estende una parte delle tutele previste per i lavoratori subordinati. 34 Come alternativa alla prosecuzione dei rapporti di lavoro ai sensi art. 2112 c.c. e della direttiva 2001/23 – per cui appare dirimente la natura dell’attività economica internalizzata – si è prospettata in dottrina la tesi di una tutela sul piano risarcitorio, che sembrerebbe essere stata suggerita dalla stessa Corte di Giustizia. I giudici europei, considerando l’ipotesi che il diritto nazionale possa impedire la prosecuzione dei rapporti di lavoro nel caso in cui, nell’ambito di un trasferimento d’azienda, il cessionario sia una persona giuridica di diritto pubblico, hanno affermato che in tal caso la cessazione del rapporto di lavoro deve considerarsi intervenuta «per fatto imputabile al datore di lavoro». Su tale base il giudice nazionale potrebbe riconoscere al lavoratore dipendente dell’azienda trasferita, licenziato per impossibilità di immetterlo nei ruoli pubblici, una tutela di carattere indennitario. Così Giaconi e Scarpelli, Trasferimento di attività nelle pubbliche amministrazioni e rapporti di lavoro, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 410, riferendosi alla sentenza Mayeur (C. giust., 26 settembre 2000, causa C-175/99, Mayeur, cit.).

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Giurisprudenza Corte di Cassazione , sentenza 13 novembre 2019, n. 29423; Pres. Nobile – Est. Pagetta – P.M. Celeste (concl. conf.) – V.S. (avv. G. M. F. Rapisarda e P. Banzola) c. C.S. s.r.l. (avv. A. Boer e A. Giovati). Conferma App. Bologna, sent. n. 1187/2017. Lavoro (rapporto) – Contratto di lavoro intermittente – Rinvio alla contrattazione collettiva – Divieto convenzionale di ricorso all’istituto – Esclusione.

L’art. 34 d.lgs. n. 276/2003, che rinvia alla contrattazione collettiva per l’individuazione delle “esigenze” legittimanti la stipula di contratti di lavoro intermittente, non delega anche la facoltà di vietare il ricorso all’istituto, che deve ritenersi operativo secondo le previsioni suppletive del D.M. 23.10.2004, n. 45.

Svolgimento del processo. 1. La Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di V.S. intesa all’accertamento dell’illegittimità del contratto di lavoro intermittente stipulato in data 30.6.2011 con C.S. s.r.l. ed alla conversione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con condanna della società alla reintegrazione nelle mansioni di autista 3 livello, alle connesse differenze stipendiali ed al risarcimento del danno patrimoniale. 1.1. La Corte territoriale, premessa la genuinità del contratto di lavoro intermittente stipulato con riferimento alle esigenze individuate in via sostitutiva della contrattazione collettiva dal Ministero del Lavoro con il D.M. 23 ottobre 2004, n. 459, il quale faceva riferimento alla tabella allegata al R.D. n. 2657 del 1923 espressamente richiamata nel contratto individuale, ha osservato con il c.c.n.l. 2011, applicabile alla concreta fattispecie, non conteneva più la previsione impeditiva del ricorso alla tipologia del lavoro a chiamata adottata dalle parti collettive con il contratto vigente nel periodo 2004/2007, giustificata in quella sede dalla “novità degli strumenti” e dalla situazione congiunturale di settore e, quindi, legata ad un presupposto transitorio, con un’efficacia limitata nel tempo. Il giudice di appello ha, inoltre, rimarcato che la interpretazione delle previsioni collettive in senso ostativo alla possibilità di stipulare il contratto in controversia avrebbe finito con il vanificare la sostanziale operatività del ricorso al lavoro intermittente introdotto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 33 e riconosciuto alle parti collettive un potere smentito dalla disciplina di legge stante la contestuale previsione dell’intervento ministeriale in caso di inerzia delle parti sociali nel regolamentare i casi in cui era consentito il ricorso a detta tipologia contrattuale. 2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso V.S. sulla base di un unico articolato motivo; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione. 1. Con l’unico motivo parte ricorrente deduce erronea interpretazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 1. Sostiene che nel dettare la disciplina in tema di contratto intermittente il legislatore aveva attribuito in via esclusiva alle parti collettive il potere di individuare le esigenze e le prestazioni per le quali era consentito il ricorso a tale tipologia contrattuale; l’intervento sussidiario e sostitutivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali mediante l’adozione di apposito decreto ministeriale era contemplato, infatti, nella sola ipotesi di inerzia delle parti collettive e non anche quando queste si fossero comunque attivate esprimendosi in senso ostativo alla utilizzabilità di tale tipologia contrattuale nell’ambito del settore oggetto di regolazione. Nel caso di specie, con il contratto collettivo 2004, immediatamente successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, che tale tipologia contrattuale aveva introdotto, le parti sociali avevano convenuto la non applicabilità dell’istituto e la previsione era stata riprodotta nel c.c.n.l. 2013 mentre solo con il c.c.n.l. 2017 era stato sancito il venir meno del divieto all’utilizzazione del lavoro intermittente. La interpretazione propugnata, che riconosceva, in sintesi, alle parti collettive un potere di veto in merito all’utilizzabilità, nello specifico settore, del contratto intermittente risultava avallata, del resto, dal parere in data 4.10.2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali il quale aveva confermato la possibilità che le parti sociali, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, potessero legittimamente escludere l’utilizzabilità, nel settore regolato, di tale tipologia contrattuale. 2. Il motivo è infondato. – Omissis. 2.4. Avuto riguardo all’epoca della stipula del contratto in oggetto avvenuta in data 30 giugno 2011, la disciplina applicabile è quella risultante dal ripristino operato dal D.L. n. 112 del 2008 convertito dalla L. n. 133 del 2008.


Giurisprudenza

2.5. Ciò posto, pacifico che il contratto in esame rientra nella ipotesi regolata dall’art. 34, comma 1 (contratto fondato su causale cd. di carattere oggettivo e non legata alle condizioni personali del lavoratore come nella ipotesi regolata dal comma 2), la tesi dell’odierno ricorrente circa il ruolo della contrattazione collettiva ed in particolare la configurabilità in capo a quest’ultima di un potere di veto in ordine alla utilizzabilità tout-court del contratto di lavoro intermittente, non trova conferma nel dato testuale e sistematico della disciplina di riferimento. 2.6. Il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 1, si limita, infatti, a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle “esigenze” per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato “rinvio” alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell’ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro. 2.7. Sotto il profilo sistematico l’assunto della possibilità per le parti collettive di impedire del tutto la utilizzazione di tale forma contrattuale risulta smentito dalla contestuale previsione nell’ambito dell’art. 34, comma 1 di un potere di intervento sostitutivo da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali da

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adottarsi con apposito decreto trascorsi sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, previsione che denota in termine inequivoci la volontà del legislatore di garantire l’operatività del nuovo istituto, a prescindere dal comportamento inerte o contrario delle parti collettive. Ciò in coerenza con il complessivo impianto della Legge Delega n. 30 del 2003 e con le dichiarate finalità della stessa di disciplina o razionalizzazione delle tipologie di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite (art. 4). L’art. 40 D.Lgs. cit. il quale nella ipotesi di mancata determinazione da parte del contratto collettivo nazionale dei casi di ricorso al contratto di lavoro intermittente prevede una specifica procedura, da espletarsi nel rispetto di contenute cadenze temporali, finalizzata alla promozione dell’accordo sul punto dei soggetti negoziali e, in mancanza, dispone che entro i quattro mesi successivi, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individui in via provvisoria e con proprio decreto, tenuto conto delle indicazioni contenute nell’eventuale accordo interconfederale di cui all’art. 86, comma 13, e delle prevalenti posizioni espresse da ciascuna delle due parti interessate, i casi in cui è ammissibile il ricorso al lavoro intermittente ai sensi della disposizione di cui all’art. 34, comma 1 e dell’art. 37, comma 2. 2.8. Ulteriore conferma della lettura qui condivisa si trae, infine, dalla previsione dell’art. 34 D.Lgs. cit., comma 3 il quale tra le ipotesi di divieto del ricorso al lavoro intermittente non contempla anche quella di inerzia o veto delle parti collettive. – Omissis. 3. A tanto consegue il rigetto del ricorso.


Tommaso Maserati

Divieto di ricorso al contratto di lavoro intermittente: i limiti del rinvio alla contrattazione collettiva Sommario :

1. Premessa. – 2. Clausola e rinvio: un inquadramento. – 3. I limiti posti alla contrattazione collettiva alla luce dell’interesse all’occupazione. – 4. Segue: Eccezionalità e transitorietà della limitazione. – 5. L’interpretazione dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 tra testo e contesto. – 6. Conclusione.

Sinossi. Il commento, analizzata la funzione del rinvio operato dall’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 alla contrattazione collettiva, considera l’esistenza di un potere di veto alla conclusione di contratti di lavoro intermittente in capo alle parti sociali, tenendo in considerazione il dibattito sviluppatosi sul rapporto tra legge e autonomia collettiva in tema di contratti di lavoro “nonstandard”. Abstract. After an analysis of the function of the reference made by Article 34 of Legislative Decree n. 276/2003 to collective bargaining, the paper considers the existence of a power of veto on the conclusion of on-call employment contracts on the part of the social partners, taking into account the debate that has developed on the relationship between the law and collective autonomy with reference to “non-standard” employment contracts.

1. Premessa. La sentenza in commento rappresenta la prima presa di posizione della Corte di cassazione sull’esistenza in capo alle parti sociali di un potere di veto rispetto al ricorso a contratti di lavoro intermittente. Nel caso di specie, a ricorrere in giudizio era un lavoratore assunto con un contratto di lavoro intermittente, che domandava al giudice l’accertamento dell’illegittimità di tale contratto e, di conseguenza, la conversione dello stesso in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’asserita illegittimità sarebbe derivata dalla previsione nel CCNL (CCNL Logistica e Trasporti 2004) di un divieto di ricorrere a tale tipologia contrattuale, la cui violazione avrebbe comportato la nullità del contratto altrimenti stipulato. A fronte della riforma della sentenza favorevole di primo grado ad opera della Corte di appello di Bologna, il lavoratore ricorre in cassazione, lamentando l’erronea interpretazione e falsa applicazione dell’art. 34 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, applicabile ratione temporis essendo stato concluso il contratto in data 30 giugno 2011. Come è noto, l’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 opera al suo primo comma un rinvio ai “contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale” al fine di individuare le esigenze

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in presenza delle quali è legittimo il ricorso alla tipologia contrattuale in esame1. Ove le parti sociali non intervengano, comunque, le esigenze legittimanti il ricorso al lavoro intermittente sono individuate in via sostitutiva dal d.m. 23 ottobre 2004, n. 459, in attuazione dell’art. 40 d.lgs. n. 276/20032. Questo provvedimento amministrativo ha comunque carattere suppletivo e provvisorio, essendo caratterizzato dal fine di garantire l’operatività dell’istituto in attesa dell’intervento della contrattazione collettiva. Sulla base delle disposizioni richiamate, il ricorrente sostiene in giudizio la natura costitutiva del potere attribuito alle parti sociali, che potrebbero decidere sia di individuare le esigenze e rendere così operativo l’istituto, sia di vietarne il ricorso. A sostegno, viene richiamato non solo il testo dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003, ma anche la funzione espressamente sussidiaria e provvisoria del d.m., che si renderebbe così applicabile solo in caso di mancato intervento, ma non in caso di divieto. Tale posizione si trova peraltro ribadita anche nella nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 4 ottobre 2016, n. 18194 – pur se con riferimento all’art. 13 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, intervenuto a riorganizzare l’istituto. La Corte di cassazione, però, fornisce una diversa interpretazione della norma. Nello specifico, viene negato che il rinvio operato dall’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 possa intendersi come un riconoscimento di un potere di interdizione, avendo invece funzione meramente integrativa. A sostegno di questa interpretazione del testo, la Corte richiama, da un lato, il potere di intervento sostitutivo in capo al Ministero del lavoro ex art. 40 d.lgs. n. 276/2003, che sarebbe in questo senso indice della volontà di garantire in ogni caso l’operatività dell’istituto; dall’altro, la mancata previsione del veto della contrattazione collettiva nelle ipotesi di divieto di ricorso al contratto di lavoro intermittente di cui all’art. 34 comma 3 d.lgs. n. 276/2003. Da tanto, non potrebbe che discendere – secondo la lettura fornita nella sentenza – il rigetto del motivo del ricorrente.

2. Clausola e rinvio: un inquadramento. Il punto cruciale della questione sottoposta alla Corte di cassazione è da rintracciarsi nell’interpretazione del rinvio contenuto nell’art. 34 d.lgs. 276/2003, sostanzialmente riproposto all’art. 13 d.lgs. n. 81/2015. Il tratto caratteristico di questo rinvio, in particolare, si può rinvenire nella previsione di una competenza concorrente con la contrattazione collettiva nella regolazione dell’istituto, individuata in capo al Ministero del lavoro e delle po-

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Parla delle “esigenze” in termini di presupposti di tipo causale, pur sottolineandone l’attinenza al “motivo” del contratto, Lunardon, Il lavoro intermittente, in Fiorillo e Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni. Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, Giappichelli, 2015, 82. Il decreto rimanda alle occupazioni individuate dal R.D. 6 dicembre 1923, n. 2657; scelta però fortemente criticata in dottrina, cfr. Voza, Il contratto di lavoro intermittente, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, Utet, 1263; Garofalo, Il lavoro intermittente: uso improprio e misure di contrasto, in F. Carinci e Miscione (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, IPSOA, 2012, 129; Pellacani, Il lavoro intermittente ad un anno dall’entrata in vigore: gli interventi ministeriali, la contrattazione collettiva e il decreto correttivo n. 251/2004, in MGL, 2005, 1-2, 9.

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litiche sociali, che la esercita attraverso d.m. La natura “cedevole” del d.m. è pacificamente riconosciuta, trovando questa applicazione provvisoria solo fino all’intervento dell’autonomia collettiva e non vincolando nei contenuti le determinazioni del contratto collettivo3. Il dato rilevante è piuttosto da rinvenirsi, però, nel fatto che la previsione di una disciplina di default nel caso di mancata regolazione parrebbe sottrarre alla contrattazione collettiva la natura di elemento necessario ai fini di rendere operativo l’istituto. Non sarebbe quindi possibile paralizzare il ricorso al contratto di lavoro intermittente attraverso la mera inerzia dei sindacati, essendo individuata una strada alternativa dal legislatore (oltre, come è noto ma non attinente alla questione in esame, ai casi caratterizzati soggettivamente di cui all’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/2003). Più in generale, è possibile osservare come la sottrazione della competenza esclusiva della contrattazione collettiva e l’instaurazione di un regime di “concorrenza” tra ordinamento statale ed ordinamento intersindacale siano tratti comuni delle tecniche di rinvio impiegate dal più recente legislatore. Le previsioni di questo tipo, caratterizzate ossia dalla “possibilità di accedere a regole alternative” alla contrattazione collettiva “per rendere operativo l’istituto”, sono ricondotte entro la categoria dei “rinvii facoltativi”4. A fronte della delega in numerose materie afferenti alla “legislazione della flessibilità”, le parti sociali hanno talvolta interpretato la loro funzione non in senso “integrativo” rispetto al dettato legale, ma piuttosto “costitutivo” della legittimazione negoziale a concludere determinati contratti. Un esempio è proprio il caso del CCNL Logistica e Trasporti richiamato nella sentenza in commento, in cui le parti hanno posto un veto all’operatività del lavoro intermittente. Queste previsioni, “che contrastano l’operatività di una norma legale vigente”, contenendo “un divieto di utilizzare contratti come quello intermittente”, sono state efficacemente nominate “clausole interdittive”5. In assenza finora di giurisprudenza sul tema, la dottrina si è però interrogata sulla legittimità di questo genere di clausole. La questione è stata affrontata sia sotto il profilo dell’interpretazione della singola norma di rinvio, sia attraverso una ricostruzione sistematica dell’impianto dei rinvii facoltativi in materia di contratti flessibili.

3. I limiti posti alla contrattazione collettiva alla luce dell’interesse all’occupazione. Parte della dottrina ha contestato la possibilità per le parti sociali, nei casi di rinvio facoltativo, di introdurre clausole interdittive. Il contratto collettivo avrebbe, in tali ipotesi,

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Cerbone, Il lavoro intermittente dopo il Jobs Act: persistono le anomalie?, in MGL, 2019, 4, 821. Alvino, I rinvii legislativi al contratto collettivo, Jovene, 2017, 45-46. Per un’analisi delle forme di rinvio previste nel c.d. Jobs Act, si rimanda ivi, 46 ss. Altri casi di rinvio accompagnato dalla previsione di un intervento amministrativo sussidiario sono rinvenibili agli artt. 11 comma 4 l. 24 giugno 1997, n. 196 e 17 comma 2 d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66. Maresca, Modernizzazione del diritto del lavoro, tecniche normative e apporti dell’autonomia collettiva, in Diritto del lavoro. I nuovi problemi. L’omaggio dell’Accademia a Mattia Persiani, Cedam, 2005, 482.

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una funzione meramente integrativa e “adattiva” rispetto alle esigenze concrete espresse da una realtà territoriale/aziendale o da un determinato settore merceologico. A supporto di tale posizione, si afferma che la scelta del legislatore di reagire alla potenziale inerzia delle parti sociali – mediante la previsione, diretta o per rinvio, di una disciplina di default – potrebbe costituire un indice della volontà di rendere in ogni caso operativo un istituto. Una lettura del rinvio legislativo coerente alla ratio legis porterebbe quindi l’interprete – secondo questo orientamento – ad escludere un potere di veto in capo all’autonomia collettiva6. Questa impostazione configurerebbe quindi, nei casi di rinvio facoltativo, una ipotesi di c.d. inderogabilità bilaterale, ossia di intangibilità anche in melius del dettato legale da parte della contrattazione collettiva7. Le clausole negoziate dalle parti sociali sarebbero quindi legittime nel grado in cui statuiscano su una materia oggetto di rinvio nei limiti da questo stabiliti, come l’individuazione delle “esigenze” ex art. 34 d.lgs. n. 276/2003 nel caso in esame. Sarebbe invece preclusa la possibilità di intervenire in deroga rispetto a tali limiti. Questa riflessione pare fondarsi sulla centralità assunta nell’ordinamento dall’interesse all’occupazione. Questo, che troverebbe anche una sponda nel diritto al lavoro ex art. 4 Cost., informerebbe a sé la legislazione della flessibilità, che sarebbe così volta alla promozione dei livelli occupazionali attraverso una maggiore flessibilità in entrata. In questo senso si considera anche l’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, che richiama proprio l’incremento quali/quantitativo dell’occupazione come finalità dell’intervento legislativo. E proprio il fine di “salvaguardare l’interesse generale” all’occupazione comporterebbe un cedimento del binomio “inderogabilità in peius”/“derogabilità in melius”8. In questo senso, dunque, l’autonomia collettiva troverebbe un limite nel perimetro del rinvio legislativo, in quanto l’intervento in deroga allo stesso potrebbe essere considerato contemporaneamente migliorativo per alcuni soggetti e peggiorativo per altri. Nondimeno, la compressione dell’autonomia collettiva risultante da un tale “doppio vincolo” potrebbe porre dei problemi di compatibilità con l’art. 39, comma 1, Cost. È pur vero che, come anche richiamato dall’orientamento sopra riportato, l’ordinamento ha conosciuto delle ipotesi di limitazioni dell’autonomia collettiva in materia retributiva9 la cui legittimità è stata più volte confermata anche dalla Corte costituzionale. D’altra parte, a garanzia del rispetto del nucleo fondamentale della libertà di organizzazione sindacale, la Corte ha altresì sancito che le limitazioni poste all’autonomia collettiva sarebbero giustificabili “solo in situazioni eccezionali, a salvaguardia di superiori interessi generali, e quindi con carattere di transitorietà”10. Ci si domanda quindi se questi requisiti siano rinvenibili

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Falsone, I rinvii alla contrattazione collettiva nel decreto legislativo n. 81/2015, in DRI, 2016, 4, 1094. A. Zoppoli, Il declino dell’inderogabilità?, in DLM, 2013, 1, 92; Romei, L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in DLRI, 2011, 130, 198.A. 8 Zoppoli, op. cit., 93; Delfino, Il lavoro part-time nella prospettiva comunitaria: studio del principio volontaristico, Jovene, 2008, 304; Pizzoferrato, L’autonomia collettiva nel nuovo diritto del lavoro, in DLRI, 2015, 147, 3, 411 ss. 9 Mengoni, Legge e autonomia collettiva, in MGL, 1980, 692; Giugni, Commento all’art. 39 Cost., in Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti economici, Zanichelli – Il Foro Italiano, 1979, 257 ss.; Dell’Olio, Emergenza e costituzionalità (le sentenze sulla scala mobile e il «dopo»), in DLRI, 1981, 1, 1 ss. 10 C. cost., 26 marzo 1991, n. 124, in GC, 1991, 1226 ss., con nota di Pinardi, qui 1232; ripresa da C. cost., 27 luglio 2015, n. 178, in DRI, 2015, 1120 ss., con nota di Ferrante. 7

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nel caso in esame, e dunque se l’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 ponga in essere una legittima limitazione dell’autonomia collettiva.

4. Segue: Eccezionalità e transitorietà della limitazione. La Corte di cassazione pare rispondere positivamente all’interrogativo sopra proposto. Il rigetto della domanda di conversione del ricorrente viene infatti fondato sulla lettura degli artt. 34 e 40 d.lgs. n. 276/2003 in senso preclusivo rispetto alla legittimità di clausole interdittive, seguendo la doppia via “testuale” e “sistematica” già evidenziata (supra §1). Dall’impostazione adottata dalla Corte risulta quindi chiaramente, seppur in via implicita, la configurazione di una ipotesi di inderogabilità bilaterale. La contrattazione collettiva potrebbe così intervenire soltanto nei limiti fissati dal rinvio, che escludono, secondo la lettura fornitane, la possibilità di vietare il ricorso al lavoro intermittente. L’impostazione ribadita dalla sentenza in commento non pare però pienamente condivisibile. Le critiche alla dottrina dell’inderogabilità bilaterale hanno infatti valorizzato, come detto, la centralità nell’ordinamento del libero esplicarsi dell’autonomia collettiva, sancito dall’art. 39, comma 1, Cost. È noto infatti come la garanzia della libertà di organizzazione includa anche la libertà di “negoziazione collettiva delle condizioni di lavoro”11, a cui si accompagna l’autonomia nel determinare i contenuti della contrattazione. Così, l’interpretazione delle ipotesi di rinvio in materia di contratti flessibili adottata dalla Corte di cassazione comporterebbe inevitabilmente una costrizione delle libertà costituzionalmente garantite all’autonomia collettiva. Costrizione non per ciò illegittima, purché rispettosa degli stringenti limiti di ammissibilità individuati nella giurisprudenza costituzionale. Ma, in questa prospettiva, non parrebbe sufficiente a soddisfare questi presupposti il riferimento alla accresciuta “rilevanza normativa dell’interesse all’occupazione”12, che ne imporrebbe la considerazione come un interesse generale. Infatti, se la salvaguardia di un interesse generale è un presupposto necessario per giustificare le costrizioni imposte alle parti sociali, la giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito come non sia un requisito sufficiente13. Da ultimo nella sentenza n. 178/2015 – che riprende in questo senso l’importante sentenza 194/1991 – la Corte costituzionale ricorda i caratteri di transitorietà ed eccezionalità che devono caratterizzare le limitazioni dell’autonomia collettiva. I requisiti richiamati troverebbero così il loro fondamento nella libertà di organizzazione sindacale, garantita non solo dall’art. 39, comma 1, Cost. ma anche, come afferma la stessa Corte, dalle fonti

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Bellocchi, La libertà sindacale, in Proia (a cura di), Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Persiani e F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, II, Cedam, 2014, 64. 12 A. Zoppoli, op. cit., 93. 13 Centamore, Legge e autonomia collettiva: una critica della dottrina dell’inderogabilità bilaterale, in LD, 2015, 3, 510.

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internazionali14. E queste stesse fonti mirano ad assicurarne l’esplicazione attraverso la forma della contrattazione collettiva, che deve potersi sviluppare nella sua pienezza15. La ricerca di questi requisiti all’interno delle norme di cui agli artt. 34 e 40 d.lgs. n. 276/2003 (ma lo stesso vale per l’art. 13 d.lgs. n. 81/2015), però, parrebbe doversi concludere con esiti negativi. Da un lato, infatti, la condizione materiale che tale limitazione dell’autonomia collettiva vorrebbe affrontare, ossia la condizione occupazionale del mercato del lavoro italiano, ha natura non transitoria ma strutturale. Dall’altro, e di riflesso, le norme in questione non paiono indicare un limite temporale, né una connessione ad una situazione eccezionale – tant’è che questo stesso rinvio è stato ancora recentemente riproposto dagli artt. 13 e ss. d.lgs. n. 81/2015. La lettura adottata dalla Corte di cassazione parrebbe quindi porre in essere una limitazione duratura e non “emergenziale” dell’autonomia collettiva, in contrasto con il dettato consolidato nella giurisprudenza costituzionale.

5. L’interpretazione dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 tra testo e contesto.

Se la critica ora proposta potrebbe portare ad orientarsi verso un’esegesi non preclusiva della validità di una clausola interdittiva ex art. 34 d.lgs. n. 276/2003, questa interpretazione pare sostenibile attraverso ulteriori dati, sia testuali sia sistematici. Sotto il primo profilo, pare proponibile un’interpretazione del testo dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 che attribuisca una funzione autorizzatoria in capo alle parti sociali. La norma infatti, stabilite le “esigenze” come oggetto del rinvio, non circoscrive ulteriormente l’ambito di intervento della contrattazione collettiva. Le parti sarebbero quindi titolari di un’ampia libertà nella regolazione dell’istituto – e la mancata previsione di limiti espliciti ad opera del legislatore sembrerebbe rendere artificiosa una distinzione tra regolazione e divieto. Come potrebbe essere considerata, ad esempio, una clausola che individui un’esigenza marginale e di difficile inveramento in concreto? L’esito che avrebbe tale previsione sarebbe infatti quello della (potenzialmente totale) inoperatività dell’istituto, alla stessa maniera di un divieto esplicito. Parrebbe quindi più coerente una lettura dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 che non introduca una linea di demarcazione non rinvenibile nella disposizione e sfumata di fatto. Le parti potrebbero quindi, nell’esercizio della loro funzione regolatoria, ritenere non sussistenti esigenze che legittimino il ricorso al contratto di lavoro intermittente in un determinato settore merceologico o in un contesto aziendale/territoriale. A sostegno di tale lettura, va inoltre considerato come l’art. 40 d.lgs. n. 276/2003, rubricato “sostegno e valorizzazione dell’autonomia collettiva”, riservi l’applicazione del d.m. ai

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Barbieri, Contratto collettivo e lavoro pubblico: blocco salariale e blocco della contrattazione tra scelte legislative e giurisprudenza costituzionale, in RIDL, 2015, 3, 469. 15 L. Zoppoli, La Corte finalmente costituzionalizza la contrattazione collettiva nel lavoro pubblico. E la retribuzione?, in DLM, 2015, 2, 380.

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casi in cui non sia stato possibile per le parti raggiungere un accordo secondo la procedura delineata dalla stessa norma. Ancora più chiaramente, poi, l’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 rinvia all’individuazione dei casi di utilizzo del contratto di lavoro intermittente operata dal d.m. nella sola ipotesi di mancanza di un contratto collettivo. Parrebbe quindi centrale, in entrambe le versioni, l’inerzia delle parti sociali – mentre la regolazione dell’istituto, anche nella forma del veto, impedirebbe l’applicazione del d.m.16 Più in generale, poi, lo stesso “interesse all’occupazione”, espresso dagli artt. 34 e 40 d.lgs. n. 276/2003, potrebbe assumere una diversa coloritura. Il diritto euro-unitario ed internazionale, infatti, ha già da tempo riconosciuto e riaffermato “la centralità del contratto di lavoro subordinato “standard”17. Indicazione in seguito recepita anche dal legislatore italiano, che ha individuato all’art. 1 d.lgs. n. 81/2015 (pur non applicabile al caso di specie) il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come la “forma comune di rapporto di lavoro”18. È quindi all’interesse di una occupazione “standard” che si ispirerebbe una clausola interdittiva quale quella in esame, nel momento in cui limita la legittimazione negoziale a ricorrere ad una forma non-standard quale il lavoro intermittente. A maggior ragione sarebbe quindi evitabile, ove possibile, l’interpretazione di una previsione legislativa in senso confliggente rispetto alle regole sancite a livello euro-unitario, a cui l’ordinamento italiano è vincolato. Parrebbe, dunque, più aderente al sistema così delineato un’interpretazione dell’art. 34 d.lgs. n. 276/2003 (e, ugualmente, dell’art. 13 d.lgs. n. 81/2015) che attribuisca le “chiavi” dell’istituto all’autonomia collettiva, coerentemente al dettato letterale, che non prevede limiti per la stessa, e all’impianto dell’art. 39, comma 1, Cost.

6. Conclusione. In conclusione, pare che la Corte di cassazione abbia seguito un percorso che si pone in tensione rispetto all’impostazione consolidata nella giurisprudenza costituzionale; percorso, tra l’altro, non obbligato, dal momento che l’interpretazione letterale e sistematica della norma avrebbe potuto aprire a opzioni diverse. Si ritiene comunque che, proprio in virtù del complesso intreccio di fonti costituzionali, sovranazionali ed internazionali intersecate dalla questione, dalla sentenza in commento sarebbe forse consigliabile non trarre delle direttive estendibili all’intera materia dei contratti flessibili. Piuttosto, parrebbe

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Tant’è che il parere del Ministero del Lavoro aveva concluso circa la legittimità di clausole interdittive; prot. 4 ottobre 2016, n. 18194. Contra Chietera, Il contratto di lavoro intermittente tra legge e contrattazione collettiva, in MGL, 2019, 4, 974. 17 Perulli, Il contratto a tempo indeterminato è la forma comune dei rapporti di lavoro, in Fiorillo e Perulli (a cura di), op. cit., 5. Per l’ordinamento euro-unitario, in particolare, si rimanda a C. giust., 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler, in RIDL, 2006, 2, 713 con nota di Nannipieri e alla giurisprudenza successiva. A riguardo Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, 54 ss. 18 Vedi M.T. Carinci, “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”? Contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato versus contratto di lavoro subordinato a termine, somministrazione di lavoro e lavoro accessorio, in RGL, 2016, 2, 316.

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piÚ coerente rispetto anche all’art. 39, comma 1, Cost. una attenta considerazione caso per caso, che escluda l’esistenza di un divieto generale tout court di previsioni interdittive. Tommaso Maserati

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Giurisprudenza Corte di Cassazione , sentenza 26 settembre 2019, n. 24100; Pres. Berrino – Est. Patti – P.M. Sanlorenzo (concl. conf.) – H.R.C. s.p.a. (Avv.ti S. Castelli e A. Simoncini) c. M.L. (Avv.to F. Aiello). Cassa senza rinvio App. Roma, sent. n. 8419/2012. Lavoro a progetto illegittimo – Natura temporanea del rapporto – Conversione – Indennità risarcitoria ex art. 32 l. n. 183/2010 – Sussistenza.

Il regime indennitario istituito dall’art. 32, quinto comma, l. n. 183/2010 per la conversione del contratto a termine si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, in quanto fattispecie nella quale ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione.

Fatti di causa Con sentenza del 9 maggio 2016, la Corte d’appello di Roma accertava l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal 19 settembre 2003 tra L.M. e H.R.C. s.p.a., condannava la società all’immediata riammissione in servizio del lavoratore con inquadramento al livello D2 del CCNL di settore e al pagamento, in suo favore, delle differenze retributive relative al periodo dal 19 settembre 2003 al 30 giugno 2009, da liquidare in separata sede e delle retribuzioni successivamente spettanti sino alla data della pronuncia, oltre accessori: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato la domanda del lavoratore. Omissis Con atto notificato il 31 ottobre 2016, la società ricorreva per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., cui il lavoratore resisteva con controricorso. Ragioni della decisione Omissis 5.2. È noto che il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, integri una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione (Cass. 6 settembre 2016, n. 17636). E che ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e autonomo, anche nel caso di contratto di lavoro a progetto, debba attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui sia ricavabile l’effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta), rispetto al nomen iuris adottato dalle parti (Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289). Omissis 5.4. Ebbene, la Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi di diritto (Omissis), foca-

lizzando la distinzione tra collaborazione coordinata e continuativa a progetto e rapporto di subordinazione nell’effettivo, e non formale, margine di autonomia, “il cui concreto atteggiarsi non può evidentemente travalicare ambiti ineludibili di auto-organizzazione del lavoratore, che deve rimanere affrancato da quella potestà direttamente conformativa della prestazione... essenza ex art. 2094 c.c. del rapporto subordinato” (Omissis). Essa ha quindi compiuto un accertamento in fatto, sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie, congruamente argomentato (per le ragioni esposte ai p.ti 2 e 3 di pgg. 3 e 4 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità. Omissis 7. Il quarto motivo, relativo ad error in iudicando per non corretta liquidazione del danno risarcibile al lavoratore nel periodo tra la cessazione della prestazione in fatto e la sentenza d’appello sulla base delle retribuzioni maturate e non dell’indennità omnicomprensiva ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, è invece fondato. 7.1. La questione devoluta riguarda dunque l’applicabilità o meno dell’indennità anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo. La norma in esame prevede che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanni il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. n. 604 del 1966, art. 8. La lettura comparativa con il comma 4 dello stesso articolo rivela immediatamente come il quinto richiami esclusivamente l’istituto del “contratto a tempo determinato”, senza alcuna sua regolamentazione specifica; al contrario del quarto, che indica invece analiticamente, per ciascuna ipotesi, la disciplina di riferimento. Sicché, il comma 5 contiene una formulazione unitaria, indistinta e generale di “casi” di “conversione del contratto a tempo determinato” senza alcuna specificazio-


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ne normativa di riferimento, né aggiunta di ulteriori elementi selettivi. 7.2. Sulla base di tale piana constatazione interpretativa, questa Corte già da tempo ha adottato una lettura estensiva della formula “casi di conversione del contratto a tempo determinato”, comprensiva anche dei contratti di lavoro temporaneo, non preclusa da una “indicazione”, contenuta nella sentenza 9 novembre 2011, n. 303 della Corte costituzionale, in quanto “non vincolante e limitata ad un inciso, peraltro riguardante il contratto di somministrazione, in una sentenza focalizzata su altro problema” (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404). Ed infatti, nello scrutinio di legittimità costituzionale della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, alla stregua di previsione irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale già conseguibile dal lavoratore, illegittimamente estromesso alla scadenza del termine, sotto il regime previgente e (per quanto qui interessa) “con effetti discriminatori nei confronti di una serie di lavoratori... in situazioni comparabili”, la Consulta ha escluso (al p.to 3.3.3. del Considerato in diritto) una “indebita omologazione, da parte del modello indennitario delineato dalla normativa in esame, di situazioni diverse” per le “ulteriori disparità di trattamento segnalate dal Tribunale di Trani”, attesa “l’obiettiva eterogeneità delle situazioni”, preclusiva dell’assimilabilità del “contratto di lavoro subordinato con una clausola viziata (quella, appunto, appositiva del termine)... ad altre figure illecite”: quali la somministrazione irregolare di manodopera (specificamente rilevante nei due arresti di legittimità citati), la cessione illegittima del rapporto di lavoro e quella dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione continuativa e coordinata (qui appunto rilevante). L’inesistenza di un vincolo interpretativo nel passo della sentenza della Corte costituzionale appena illustrato, già ritenuta da questa Corte nei precedenti richiamati, deve essere qui ribadita. E non soltanto per l’ovvia considerazione del limitato effetto (processuale) della pronuncia di rigetto sulla questione rimessa, in assenza di alcuna decisione sulla legge; ma anche per l’inidoneità dell’argomentazione a costituire dato ermeneutico impegnativo, in riferimento alla (in)applicabilità dell’art. 32, comma 5 L. cit. alle diverse fattispecie illecite richiamate in via esemplificativa, in funzione di mera esclusione della prospettata disparità di trattamento per obiettiva eterogeneità delle situazioni. Sia pure non esplicitato dalle due sentenze citate, questo è stato l’“altro problema” sul quale la “sentenza” si è “focalizzata”, senza una più puntuale definizione del perimetro della norma, in quanto eccedente la questione di costituzionalità prospettata. 7.3. Tanto chiarito, occorre allora assumere come dato acquisito, per indirizzo giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato in diritto vivente, la necessità (e, al tempo stesso, la sufficienza) di verificare, per

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l’inclusione nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 della fattispecie in esame, la sussistenza delle due sole condizioni: a) di natura a tempo determinato del contratto di lavoro; b) di presenza di un fenomeno di conversione. Tale approdo interpretativo (oltre che nelle citate Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404, in numerose successive, tra le quali: Cass. 1 agosto 2014, n. 17540; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24887; Cass. 3 aprile 2018, n. 8148; Cass. 12 giugno 2019, n. 15753, in materia di prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della L. n. 196 del 1997, art. 3, comma 1, lett. a) e di somministrazione a termine) è stato ribadito con l’inequivoca affermazione della rilevanza, a fini di applicazione dell’indennità in questione, del duplice presupposto della natura a tempo determinato del contratto di lavoro dedotto in giudizio e della sua “conversione”, estensibile all’accertamento di ogni ragione che comporti la stabilizzazione del rapporto, anche se derivante da una deviazione dalla causa o funzione ad esso propria, come nell’ipotesi di nullità del termine finale apposto al contratto di formazione e lavoro per mancato adempimento dell’obbligo formativo (Cass. 21 giugno 2018, n. 16435), o addirittura di illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato, poiché la predetta indennità consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di altra fattispecie contrattuale a tempo determinato (Cass. 3 agosto 2018, n. 20500). 7.4. Occorre allora verificare l’applicabilità dei suenunciati principi di diritto al contratto di lavoro a progetto, che, si ribadisce, è disciplinato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61 alla stregua di una particolare forma di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del primo e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa, senza che si configuri una soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione: con la conseguenza che il progetto concordato non può consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque nella previsione di prestazioni a carico del lavoratore coincidenti con l’ordinaria attività aziendale (Cass. 6 settembre 2016, n. 17636). Si deve poi ritenere che la nozione di “specifico progetto” consista, tenuto conto delle precisazioni introdotte nella L. n. 92 del 2012, art. 61 cit., in un’attività produttiva chiaramente descritta e identificata, funzionalmente ricollegata ad un determinato risultato finale (e dunque di un termine) cui partecipa con la


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sua prestazione il collaboratore e con la precisazione della non necessaria inerenza del progetto specifico ad un’attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto all’ordinaria e complessiva attività di impresa (Cass. 16 ottobre 2017, n. 24379; Cass. 26 aprile 2018, n. 10135). Sicché, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 [ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f)] si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza individuare uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si proceda ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma all’automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione (Cass. 21 giugno 2016, n. 12820; Cass. 17 agosto 2016, n. 17127; Cass. 5 novembre 2018, n. 28156). Né un tale regime sanzionatorio contrasta con il principio di “indisponibilità del tipo”, per il quale è stato escluso che il legislatore o le parti possano imporre presunzioni o qualificazioni contrattuali di autonomia che sottraggano alle indefettibili garanzie del lavoro subordinato una fattispecie che come tale si realizza (Corte Cost. 25 marzo 1993, n. 121; Corte Cost. 23 marzo 1994, n. 115), in quanto posto a tutela del lavoro subordinato e non invocabile nel caso inverso, nemmeno essendo sottratti al giudice i poteri di qualificazione del rapporto, ma introdotta una sanzione consistente nell’applicazione al rapporto delle garanzie del lavoro dipendente; neppure esso contrasta con l’art. 41 Cost., comma 1, traendo origine da una condotta datoriale di violazione di prescrizioni di legge ed essendo coerente con la finalità antielusiva perseguita dal legislatore (Cass. 4 aprile 2019, n. 9471). Se allora le condizioni di applicabilità dell’indennità omnicomprensiva prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 sono costituite dalla natura a tempo determinato del contratto di lavoro e dalla presenza di un fenomeno di conversione, occorre affermare, in coerente continuità con l’indirizzo interpretativo di questa Corte, la loro ricorrenza anche nel caso in esame. 7.5. Posto che la temporaneità deve naturalmente essere intesa non soltanto nel senso di predeterminazione cronologica espressamente individuata dall’apposizione di un termine finale, ma di intrinseca limitazione nel tempo di un’attività, destinata a cessare con il raggiungimento di un obiettivo chiaramente predefinito, il contratto di lavoro a progetto integra questa prima condizione. Esso è, infatti, ontologicamente a tempo determinato, siccome da ricondurre costitutivamente ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale: al punto di essere

contratto di lavoro a progetto in quanto “finalisticamente a tempo”, o di non esserlo, così divenendo altro. 7.6. La perdita della caratteristica coessenziale del “progetto” introduce la seconda condizione necessaria: la presenza di un fenomeno di conversione. È noto che l’espressione “conversione”, in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, sia utilizzata in dottrina e giurisprudenza per descrivere il meccanismo in base al quale la nullità della clausola di apposizione del termine non produce la nullità dell’intero contratto, ma la sua elisione, secondo il meccanismo previsto dall’art. 1419 c.c., comma 2, comportante la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, e cioè in un contratto privo della clausola accidentale nulla. L’operatività di questo meccanismo in alcuni casi si ricava dal sistema, in altri è stabilito espressamente dalla legge (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404). Ed è ciò che accade anche per il contratto in esame, per esplicita previsione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, secondo il quale un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, che sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, si converte automaticamente in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La conclusione raggiunta in via di coerente interpretazione sistematica neppure è smentita dalla L. n. 183 del 2010, art. 50, che anzi esplicitamente menziona la conversione. Esso prevede: “Fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 1202 e segg., nonché abbia, dopo la data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”. È indubbio che la norma introduca un regime speciale finalizzato a limitare, in sede di prima applicazione della L. n. 183 del 2010 ed alle condizioni indicate, le conseguenze sanzionatorie in caso di accertamento della natura subordinata del rapporto delle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, già oggetto di un’offerta di stabilizzazione ai sensi della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 1202 e ss. (cosiddetta “legge finanziaria 2007”); non potendo così trarsene una regola generale nel senso di escludere, in difetto

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delle condizioni di stabilizzazione eccezionalmente indicate, il contratto in esame dalla soggezione al nuovo generale regime indennitario. Il contenuto normativo dell’art. 50 in parola, che risponde a finalità proprie e attende ancora un più compiuto chiarimento interpretativo, si colloca pur sempre nell’alveo di una fondamentale istanza legislativa di determinazione del risarcimento del danno in via forfettizzata, congruente con la ratio di attribuzione al sistema del lavoro temporaneo di un maggior grado di certezza e stabilità. Per quanto qui interessa, esso stabilisce in particolare una riduzione, per così dire premiale (dell’emersione delle collaborazioni coordinate e continuative, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, in seguito alle procedure di stabilizzazione suindicate), in misura di metà del massimo dell’indennità; non diversamente dalla previsione del comma 6 dell’art. 32 cit., di dimidiazione della misura dell’indennità del comma 5 (“In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine

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nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà”), in funzione promozionale di soluzioni sindacali del contenzioso rilevante sedimentatosi, in materia, in alcuni settori produttivi. Sicché, non ci sono ragioni per dubitare che l’art. 50 L. cit. osti all’applicabilità dell’indennità omnicomprensiva istituita dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo. 8. Le superiori argomentazioni comportano l’accoglimento del quarto motivo esaminato, con rigetto degli altri e la cassazione della sentenza, in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto, enunciato a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2: “Il regime indennitario istituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, in quanto fattispecie nella quale ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione”.


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L’indennità per la conversione del contratto a termine si applica anche al lavoro a progetto Sommario : 1. Prologo. Fatti di causa e alcune considerazioni. – 2. La multiforme valenza della «conversione» del contratto. – 3. Termine e contratto a progetto.

Sinossi. Il commento analizza la possibile applicazione dell’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 a qualsiasi ipotesi patologica in cui rilevino la temporaneità della prestazione e la conversione del contratto. Nel fare questo, si procederà in due passaggi. Dapprima si vedrà se, tecnicamente, sussiste l’elemento comune della conversione. Poi, si cercherà di capire cosa intenda il legislatore per contratto a termine nell’ambito della norma in questione, attraverso l’interpretazione letterale e la ricerca di un minimo comune denominatore tra le fattispecie. Abstract. The essay analyzes the possible application of the compensation pursuant to art. 32, paragraph 5, Law no. 183/2010 to any hypothesis in which the temporary nature of the service and the conversion of the contract is detected. In doing this, we will proceed in two steps. First we will see if, technically, there is the common element of conversion. Then, we will try to understand what the legislator means as a temporary contract in the context of the law in question, through the literal interpretation and the search for a minimum common denominator between the cases.

1. Prologo. I fatti di causa e alcune considerazioni. Un collaboratore coordinato e continuativo a progetto agisce in giudizio, deducendo la natura subordinata del rapporto. Il ricorso viene rigettato dal giudice di prime cure ma accolto in sede di gravame. La Corte d’appello, in particolare, accerta la sussistenza di un contratto di lavoro subordinato e, applicando la tutela di diritto comune, condanna la società all’immediata riammissione del lavoratore e al pagamento, in suo favore, delle differenze retributive, nonché delle retribuzioni successivamente spettanti sino alla data della pronuncia. La società soccombente impugna la sentenza, che viene parzialmente riformata in sede di legittimità. Ad avviso della S.C., nel caso di contratto a progetto illegittimo il danno patito deve essere ristorato non attraverso la tutela di diritto comune, ma secondo il regime indennitario previsto per il contratto a termine dall’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183, poiché sussiste una fattispecie in cui ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione.

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La prima questione affrontata dalla Corte concerne la riqualificazione del contratto a progetto come contratto di lavoro subordinato. La pronuncia, sul punto, ripercorre e richiama correttamente gli orientamenti consolidati in materia. Benchè il progetto sia funzionalmente collegato ad un coordinamento con l’organizzazione del committente, l’attività deve essere gestita dal collaboratore in autonomia e senza soggezione al potere direttivo altrui. In caso contrario, il giudice può andare oltre il nomen iuris adottato dalle parti, riqualificando il rapporto secondo le concrete modalità in cui si è svolto. Più interessante e meritevole di approfondimento è la seconda questione, cioè quella relativa all’applicazione dell’indennità prevista per i casi di conversione del contratto a tempo determinato dall’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, anche alla conversione di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. La pronuncia, in proposito, sembra aver aperto un nuovo orientamento interpretativo, seguito anche da un’altra recentissima decisione, riguardante la medesima società (Cass., 4 novembre 2019, n. 28294). L’applicazione di tale indennità segue delle coordinate diverse rispetto alla tutela di diritto comune. Si tratta di una penale ex lege a carico del datore di lavoro, per cui si prescinde dall’avvenuta costituzione in mora del datore stesso e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore nel c.d. periodo intermedio1, senza possibilità di detrarre l’aliunde perceptum e percipiendum. Il risarcimento viene determinato secondo i criteri indicati nell’art. 8, l. 15 luglio 1966, n. 604, cioè il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il comportamento e alle condizioni delle parti anche se, si ritiene, «i criteri indicati dal richiamato art. 8, (e quindi dall’art. 32, comma 5), non richiedono una concomitante valutazione da parte del giudice, trattandosi di indicatori previsti dal legislatore per svolgere una valutazione indennitaria che ben può trovare piena soddisfazione solo in taluno di tali indicatori che riescano a realizzare la giusta personalizzazione del ristoro nella singola fattispecie in esame»2. La Corte approda a questo risultato secondo un duplice passaggio. Dapprima individua il nucleo sotteso alla disposizione, ritenendo – sulla scorta di altri e numerosi precedenti – che riguardi le fattispecie in cui rilevi la natura a tempo determinato del rapporto e sussista un fenomeno di conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Quindi, si chiede se anche le collaborazioni coordinate e continuative a progetto possano ritenersi contratto di lavoro a termine, optando per la risposta affermativa, poiché il progetto implica un’attività chiaramente descritta e identificata, funzionalmente collegata ad un risultato finale e dunque a un termine. Nell’impostare una disamina dialettica della pronuncia, si procederà quindi secondo due piani. Innanzitutto si vedrà se, tecnicamente, anche nella trasformazione del contratto di lavoro a progetto sussiste l’elemento della conversione. Poi, si cercherà di capire cosa intenda il legislatore per contratto a termine, nell’ambito dell’art. 32, comma 5 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. “Collegato lavoro”).

1 2

Ex plurimis Cass., 18 ottobre 2018, n. 26234; 2 luglio 2018, n. 17248; 27 gennaio 2016, n. 1522; App. Roma, 28 marzo 2019, n.449. Cass., 10 ottobre 2019, n. 25484.

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Preme far presente al lettore che l’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, applicato ratione temporis dalla sentenza, è stato abrogato dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e trasfuso con disposizione di identico tenore nell’art. 28, comma 2, del medesimo decreto. Le considerazioni svolte riguardo al caso di specie conservano quindi una certa attualità anche con riferimento alle attuali co.co.co. e alle collaborazioni organizzate dal committente ex art. 2, d.lgs. n. 81/2015.

2. La multiforme valenza della «conversione» del contratto. Quanto alla presenza di un fenomeno di conversione, già con riferimento al contratto a termine dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sull’ampiezza dell’area semantica corrispondente a questa espressione, ritenendo che essa ricomprenda un ampio spettro di ipotesi riconducibili a diversi precetti codicistici3, tutte sussumibili all’interno di una ampia nozione di nullità. Ad esempio, per l’invalidità del termine, si ricade nell’art. 1419, comma 2, c.c., con sostituzione della clausola nulla; per l’insussistenza delle ragioni giustificative, rileva invece il disposto di cui all’art. 1419, comma 1, c.c., mentre la violazione dei divieti di stipulazione sembra riferibile all’art. 1418 c.c. Analogamente al contratto a termine anche nel contratto a progetto la conversione del negozio avveniva secondo meccanismi diversificati, previsti dall’art. 69, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. La norma è stata abrogata, ma è tuttora valida per i contratti già in essere alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015. Nello specifico la giurisprudenza, ormai secondo orientamento consolidato, ha scisso le ipotesi dei commi 1 e 2 dell’art. 69, ritenendo che, nonostante l’applicazione generalizzata della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, si trattasse «di fattispecie strutturalmente differenti, giacché nella prima rileva il dato formale della mancanza di uno specifico progetto a fronte di una prestazione lavorativa che, in punto di fatto, rientra nello schema generale del lavoro, laddove nella seconda rilevano le modalità di tipo subordinato con cui, nonostante l’esistenza di uno specifico progetto, è stata di fatto resa la prestazione lavorativa»4. In particolare, l’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, prevede che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, siano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Dottrina e giurisprudenza si erano divise tra la sussistenza di una presunzione assoluta, e quindi non suscettibile di prova contraria circa la reale natura autonoma del rapporto, e di una presunzione relativa. Ha finito col prevalere il primo orientamento, stante la norma di interpretazione autentica

3

4

Per una disamina del fenomeno della conversione, sia con riferimento al contratto a termine che al contratto a progetto, v. Ratti, Conversione del contratto e rapporti di lavoro, Giappichelli, 2017, nello specifico 49 ss. Cass., 10 maggio 2017, n. 11429 che richiama Cass., 10 maggio 2016, n. 9471.

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ex art. 1, c. 24, l. n. 92/2012, per la quale lo «specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Tant’è che in questo caso si prescinde da qualsiasi sindacato volto a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, dovendosi procedere ad un’automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso5. Diversamente, il secondo comma dell’art. 69 implica un accertamento tipologico, per qui qualora il rapporto instaurato ai sensi dell’articolo 61 si sia svolto concretamente secondo i canoni della subordinazione, esso si trasforma in un rapporto corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. Cercando di riferire le norme lavoristiche ai precetti codicistici generali, il primo comma dell’art. 69, d.lgs. n. 276/2003, l’accertamento che preclude circa la presenza o meno della subordinazione6, pare rientrare nell’art. 1419, comma 1, c.c., per cui l’assenza del progetto implica nullità del contratto senza sostituzione però della clausola nulla. Riguardo all’ipotesi di cui all’art. 69, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, la verifica della natura subordinata del rapporto integra non tanto un meccanismo ex art. 1419 c.c., ma appare inquadrabile nell’art. 1424 c.c., con applicazione di una disciplina speciale rispetto a quella della prestazione di fatto ai sensi art. 2126 c.c., visto che si tratta di «dichiarare giudizialmente ciò che le parti hanno realmente mostrato di volere attraverso il comportamento posteriore alla stipulazione del contratto, come si evince dal riferimento alla “tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti” contenuto nel prosieguo della disposizione in esame»7. L’art. 1424 c.c. richiede, ai fini della conversione, una duplice indagine inerente alla sussistenza di un rapporto di continenza tra il negozio nullo e quello che dovrebbe sostituirlo e un apprezzamento di fatto sulla volontà negoziale dei contraenti, diretto a stabilire se tale volizione possa ritenersi orientata anche verso gli effetti del contratto diverso8. Si ritiene, per forza di cose, che la volontà non involga pure l’accettazione del contratto trasformato, perché ciò comporterebbe la coscienza della nullità dell’atto compiuto, ma la considerazione dell’intento pratico perseguito dalle parti9. L’ampiezza con cui viene interpretata la formula della conversione prevista dall’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, induce a ritenere che possa applicarsi anche ai molteplici meccanismi previsti per il lavoro a progetto, come ritenuto dalla Corte nella pronuncia che si commenta.

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Cass., 31 agosto 2016, n. 17448; Cass., 17 agosto 2016, n. 17127; Cass., 21 giugno 2016, n. 12820; Cass., 10 maggio 2016, n. 9471. App. Roma, 8 febbraio 2019, n. 4338. App. Roma, 8 febbraio 2019, cit. Cass., 5 marzo 2008, n. 6004. Cass., 27 febbraio 2002, n. 2912.

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3. Termine e contratto a progetto. Chiarito come al termine «conversione» debba attribuirsi un significato ampio, resta da capire se la norma ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 abbia portata restrittiva, e quindi sia riferita al contratto di lavoro subordinato in cui il termine sia invalido, o riguardi qualsiasi ipotesi di contratto di durata con invalidità del termine. La Corte, come prima si è detto, propende per la seconda ipotesi, conformandosi ad un orientamento già da tempo consolidato in dottrina e giurisprudenza: il mancato rinvio espresso alla disciplina del d.lgs. n. 368/2001 implicherebbe, infatti, un campo di applicazione che va oltre il contratto a termine strictu senso considerato10. La lettura della norma alla luce dell’intenzione legislativa, secondo la via indicata dall’art. 12 Prel., solleva tuttavia alcuni dubbi circa la necessità di un quid pluris rispetto alla mera sussistenza di un termine finale. Alcuni dati testuali, infatti, sembrerebbero indicare un’ipotesi qualificata da elementi aggiuntivi, rispetto alla mera presenza di un termine invalido. L’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 parlava non a caso di conversione «del contratto a tempo determinato»: l’uso dell’articolo determinativo fa pensare che il legislatore intenda rivolgersi ad una fattispecie contrattuale circoscritta, segnata ontologicamente non solo dalla presenza di un termine, ma anche dalla natura subordinata del rapporto, in conformità ad una volizione comune alle parti e fra di esse pacifica. Ciò, peraltro, è confermato dalla lettura del comma 4 dello stesso art. 32, ove viene prevista l’applicazione dell’art. 6, l. n. 604/1966, con riferimento ad una serie di impugnative. La Corte, sul punto, rileva correttamente come l’analisi comparativa indichi un riferimento, nel comma 5, al solo contratto a tempo determinato, da ciò però inferendo che la disposizione riguardi qualsiasi contratto in cui insista un termine finale e quindi, in sostanza, mescolando l’operazione esegetica con una latente pre-qualificazione del contratto a progetto. A contrario, la previsione di una pluralità di ipotesi nel comma 4 in relazione alla puntualità del comma 5 sembra segnare una scissione tra il regime delle decadenze, esteso a varie ed eterogenee fattispecie tra cui il contratto a progetto, e quello sanzionatorio, riferito invece esclusivamente al contratto di lavoro a termine. In effetti, questo è l’elemento comune ai precedenti giurisprudenziali richiamati, relativi a istituti quali la fornitura di lavoro temporaneo, la somministrazione a termine o il contratto di formazione e lavoro, in cui non rileva solo l’invalidità del termine, ma anche la natura subordinata del contratto11. E anche quando si fa riferimento alle pronunce nelle quali viene in rilievo l’«illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine»12, il percorso

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Mimmo, Decadenze e regime sanzionatorio: come il “collegato lavoro” ha modificato la disciplina del contratto a termine, in ADL, 2011, 102 ss.; Ianniruberto, Il contratto a termine dopo la legge 4 novembre 2010, n. 183, in MGL, 2011, 17; Lamberti, La somministrazione di manodopera dopo il c.d. Collegato lavoro: spunti di riflessione, in MGL, 2011, 123; Pessi, Le indennità per la conversione del contratto a termine e del contratto di collaborazione coordinata e continuativa, in GI, 2011, 2445 ss. 11 Cass., 22 maggio 2017, n. 12811, in RIDL, n. 4/2017, 677, con nota di Ercolani, Illegittimità del contratto di lavoro temporaneo e risarcimento del danno. 12 Cass., 3 agosto 2018, n. 20500.

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seguito è più articolato, dato che la conversione del contratto passa dapprima attraverso il riconoscimento della subordinazione seguito dall’accertamento dell’invalidità del termine. Si potrebbe obiettare che questo sia il meccanismo previsto anche nelle co.co.pro., poiché alla ricognizione della natura subordinata del rapporto è accompagnata l’invalidità della clausola appositiva del termine, ossia il progetto. È necessario osservare però che il progetto, pur integrando indirettamente il termine finale della prestazione, non segna la temporaneità del contratto – la cui durata peraltro è irrilevante – ma la natura subordinata o autonoma dello stesso secondo una finalità antielusiva13. In questo senso si è orientata anche la dottrina, seppure nel solco di due filoni differenti. Il primo riteneva che le co.co. pro. altro non fossero che l’originario tipo negoziale ex art. 409, n. 3, c.p.c., corredato dal progetto quale modalità di esecuzione della prestazione14. Per altro orientamento, invece, la fattispecie configurava un genus diverso e ulteriore rispetto alle generali collaborazioni, qualificata da un’obbligazione di risultato dedotta, appunto, nel progetto15. Ad ogni buon conto, il “progetto” di cui all’art. 61, d.lgs. n. 276/2003, era funzionale a denotare una prestazione corredata da autonomia. Su questa scia depone l’art. 61, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 applicabile ratione temporis, il quale disponeva che i progetti dovessero essere gestiti autonomamente dal collaboratore «in funzione del risultato» e «indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa»: il risultato sotteso al progetto rileva quindi non in termini di temporaneità del rapporto, dalla quale in un certo senso prescinde, ma per la qualificazione dell’obbligazione come di mezzi o di risultato e quindi per la riconducibilità nel contratto d’opera ai sensi dell’art. 2222 c.c. Tale ricostruzione spiega l’esclusione, contenuta nel comma 3 dello stesso articolo 61, relativa alle professioni intellettuali, alle quali la disciplina del progetto era inapplicabile dato che «la deroga prevista, ai sensi dell’art. 61, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, in favore di coloro che svolgono una professione intellettuale è configurabile non già in ragione del titolo o di un presunto “status” di professionista bensì in riferimento alle attività di lavoro autonomo che oggettivamente possono essere svolte esclusivamente da un professionista»16. Peraltro, sempre valorizzando la voluntas legis, l’inapplicabilità alle co.co.pro. dell’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 sembra confermata, al contrario, dal disposto del successivo art. 50, cui fa riferimento la pronuncia. La norma prevede che venga applicata un’indennità tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, sempre secondo i criteri indicati nell’articolo 8 della l. n. 604/1966, qualora venga accertata la natura subordinata dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, ma solo in casi determinati. Si tratta, in particolare, dell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia offerto entro il 30 settembre

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Cfr. in proposito Mezzacapo, La fattispecie “lavoro a progetto”, in WP D’Antona, It., n. 25/2004; Santoro Passarelli, Lavoro a progetto, in DDP comm., 2007. 14 Tiraboschi, Il lavoro a progetto. Profili teorico ricostruttivi, in GLav, n. 4/2004. 15 Proia, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in ADL, 2003, 665; Ferraro, Tipologie di lavoro flessibile, Giappichelli, 2004, in particolare 248 ss. 16 Cass., 25 ottobre 2019, n. 27388.

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2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato nonché, dopo la data di entrata in vigore del Collegato lavoro, la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso o l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere. Secondo la Corte, la norma stabilirebbe «una riduzione, per così dire premiale, in funzione promozionale di soluzioni sindacali del contenzioso rilevante sedimentatosi, in materia, in alcuni settori produttivi», che si collocherebbe nell’alveo di un unitario sistema di determinazione forfettizzata delle indennità risarcitorie, al fine di attribuire maggiore certezza al lavoro temporaneo. Al contrario, tenuto conto del generale principio dell’ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, la precisazione conferma l’intenzione legislativa di escludere le collaborazioni dal regime indennitario previsto per il contratto a termine, salvo il caso in cui il datore di lavoro abbia dimostrato la volontà di procedere ad una stabilizzazione. Se la disposizione sottendesse una conferma dell’estensione del regime indennitario dei rapporti a termine anche al contratto a progetto, non sarebbe stato necessario reiterare il precetto con una previsione sul punto limitata, peraltro, ad alcune specifiche ipotesi. Sotto questo profilo, pertanto, la sentenza della Corte solleva alcune perplessità, dato che non è possibile rinvenire l’elemento comune della subordinazione, tale da legittimare la ricomprensione delle collaborazioni coordinate e continuative nel concetto di contratto di lavoro a termine e quindi la condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista per la conversione di tale contratto. Corretta, quindi, appare la statuizione della Corte d’appello, con annessa applicazione della tutela di diritto comune. Giovanna Pistore

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