Familia 5/2019

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2019 5 Familia

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ISSN 1592-9930

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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa

Rivista bimestrale

settembre - ottobre 2019

Diretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda

www.rivistafamilia.it

IN EVIDENZA  Azioni di stato, interesse del minore e ricerca della verità Ugo Salanitro

 L’esclusione del coerede dalla divisione ereditaria Rolando Quadri

 La solitudine del testatore anziano Cristina Caricato

Pacini



Indice Parte I Dottrina Ugo Salanitro, Azioni di stato, interesse del minore e ricerca della verità.......................................... p. 525 Rolando Quadri, L’esclusione del coerede dalla divisione ereditaria......................................................» 535 Cristina Caricato, La solitudine del testatore anziano..............................................................................» 549 Federico Azzarri, I quindici anni della legge 40: nemesi e questioni aperte nella disciplina della fecondazione assistita................................................................................................................................» 561 Alessandro Semprini, Gli accordi in vista della crisi della convivenza......................................................» 597 Parte II Giurisprudenza Claudia Benanti, L’assegno divorzile non spetta al coniuge cui sia imputabile il proprio stato di bisogno (nota a Trib. Treviso, 8 gennaio 2019) ......................................................................................» 617 Marco Ramuschi, Contratto di transazione e patto successorio rinunziativo (nota a Cass. civ., sez. VI, ord., 15 giugno 2018, n. 15919) .........................................................................................................» 637

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Ugo Salanitro

Azioni di stato, interesse del minore e ricerca della verità* Sommario : 1. La cornice tradizionale. – 2. I presupposti per una lettura evolutiva. – 3. Le ragioni ostative alla lettura evolutiva. – 4. Una proposta di disarticolazione: gli interessi privati concordanti. – 5. Segue. Gli interessi privati contrapposti. – 6. Qualche breve considerazione sulla rilevanza degli interessi pubblici.

The particularity of paternity cases justifies a disarticulation of the relevance of the child’s best interests: disarticulation that could be placed on the crest not only of the effects, distinguishing between relational and patrimonial profiles, but also of the purposes of those who proposed the action, distinguishing between coincident or concordant positions and conflicting positions to that of the child.

1. La cornice tradizionale. Il tema che mi è stato assegnato dall’organizzatrice del convegno è riferito a uno di quei settori del diritto di famiglia in cui i principi derivanti dal diritto internazionale, nella mediazione della giurisprudenza, tendono a sovvertire il sistema delle regole organizzato nel codice civile, ponendosi in contrasto con le stesse direttrici emergenti dalle recenti riforme della disciplina della filiazione. Sono perciò particolarmente grato a Mirzia Bianca per la fiducia a me concessa, ma al contempo sono consapevole che la mia relazione1, nella misura in cui prova a disegnare

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Relazione al Convegno “The Best Interest of the Child”, Sapienza Università di Roma, 20-22 settembre 2018. Ricerca finanziata con il Piano triennale di Ateneo 2016/2018 per la ricerca dipartimentale - Univerisità degli Studi di Catania - Dipartimento di Giurisprudenza. La quale riprende e sviluppa una prima riflessione pubblicata, con il titolo Azioni di stato e favor minoris tra interessi pubblici e privati, in N. giur. civ. comm., 2018, II, p. 552 ss. Sul tema, da ultimo: L. Lenti, La filiazione: novità, questioni aperte, principi, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Il nuovo diritto della filiazione, a cura di L. Lenti e M. Mantovani, Milano, 2019, 20 ss.; M. Mantovani, Azioni di stato e interesse del minore, in AA.VV., Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme, a cura di U. Salanitro, Pisa, 2019, 373 ss.

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un modello razionale e coerente della materia, sia destinata a scontrarsi con un percorso giurisprudenziale altrimenti orientato, vocato ad affermare la preminenza del principio dell’interesse del minore anche in ambiti che possono rivelarsi eccentrici. Per comprendere la portata innovativa della rilettura giurisprudenziale, occorre illustrare la cornice nella quale si pone. L’interesse del minore ha tradizionalmente rivestito un ruolo rilevante nella materia delle azioni di stato sotto due diversi versanti2. Per un verso, l’interesse del minore deve essere preso in esame ogni qualvolta occorre decidere se proporre in suo nome una domanda giudiziale in materia di stato, e in particolare nelle procedure regolate dagli artt. 244, ultimo comma, e dall’art. 264 c.c., nonché in quella che trova fondamento nell’art. 273 in connessione con il principio che era contenuto nell’art. 274 c.c. prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Non potendo essere rimessa al minore, la decisione di nominare un curatore che agisca nel suo interesse, richiede una valutazione, nelle sedi dedicate e secondo le procedure di legge, da parte del pubblico ministero che propone l’istanza e dell’organo giudiziale che decide sul suo accoglimento. L’interesse del minore, in questo caso, non differisce dall’interesse di un qualsiasi incapace e assume rilevanza solo perché l’azione deve essere proposta da un terzo, il curatore, che lo rappresenta in giudizio. Ciononostante è proprio in quest’ambito che i principi affermati dalla Convenzione di New York, come si vedrà più avanti, sono stati valorizzati dalla giurisprudenza. Per altro verso, l’interesse del minore costituisce il parametro per la decisione in caso di contrasto tra interessi di terzi. È questo il ruolo che tale interesse assume ogni qualvolta, nella filiazione fuori dal matrimonio, taluno intenda costituire il rapporto attraverso una dichiarazione di riconoscimento del figlio incestuoso, ai sensi dell’art. 250 c.c., ovvero voglia ostacolare il riconoscimento successivo dell’altro genitore, ai sensi dell’art. 251 c.c.: in entrambi i casi, l’interesse del terzo si rivela meritevole di tutela soltanto nella misura in cui coincida con l’interesse del minore, svolgendo una funzione ancillare e strumentale. Discipline siffatte sono emersioni locali, originarie e risalenti, del modello operativo tipico espresso anche dalla Convenzione di New York, nella misura in cui considera preminente l’interesse del minore nelle decisioni sulle controversie tra privati.

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Cfr., per talune osservazioni utili, anche se non sempre in linea con la posizione che esprimo nel testo, E. Camilleri, Interesse del minore e disconoscimento di paternità. Spunti critici per un riallineamento al sistema delle azioni di stato, in Familia, 2011, 619 ss.; rilievi sintetici ma incisivi, si trovano, da ultimo, in L. Lenti, La costituzione del rapporto filiale e l’interesse del minore, in Jus civile, 2019, I, 7 s., 20 s., 23 ss.

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2. I presupposti per una lettura evolutiva. La sentenza della Corte costituzionale 18.12.2017 n. 2723 tende a sovrapporre queste due differenti concezioni di interesse del minore: traspone infatti l’interesse del minore quale modello di risoluzione delle controversie nell’ambito di procedure in cui aveva sino quel momento assunto rilevanza al fine esclusivo di decidere se promuovere il giudizio. L’interesse del minore si trasforma perciò da criterio per valutare se proporre l’azione di stato, o resistere all’azione proposta da un terzo, a criterio orientativo della decisione per risolvere, nell’uno o nell’altro senso, il conflitto tra i contrapposti interessi pubblici e privati e il conseguente accoglimento, o rigetto, delle azioni di stato, in conformità alla Convenzione di New York. È quanto emerge da quel passaggio della sentenza, di cui è discussa la natura di ratio decidendi o di obiter dictum, in cui i giudici costituzionali si chiedono se “l’interesse a far valere la verità (…) prevalga sull’interesse del minore”. La trasformazione di senso, nella rilevanza dell’interesse del minore, ha trovato fondamento nel superamento delle precedenti opinioni giurisprudenziali riguardo due diversi profili. In primo luogo, si è ormai affermata l’opinione secondo la quale l’interesse del minore non coincide con l’accertamento della verità biologica e/o genetica. Trattasi di un’acquisizione ormai consolidata e abbastanza risalente, derivante dalla consapevolezza che il minore potrebbe avere interesse alla conservazione dello status, ancorché non veritiero4. È la prospettiva da cui muove la stessa Corte costituzionale, la quale ove fosse convinta della coincidenza tra la veritas e l’interesse del minore, non avrebbe avuto bisogno di contrapporre a quest’ultimo l’interesse pubblico alla deterrenza delle pratiche di maternità surrogata. In secondo luogo, è divenuto prevalente negli ultimi anni un orientamento giurisprudenziale, ancora contrastato, secondo il quale la competenza a decidere sulla sussistenza e sulla persistenza dell’interesse del minore ad agire spetta anche al giudice che deve decidere la controversia e non solo al giudice che ha nominato il curatore5. La tesi non sembra conforme al modello del codice di rito, perché la valutazione originaria della sussistenza dell’interesse del minore all’azione è riservata al giudice della volontaria giurisdizione ed è in quella sede che deve essere eventualmente contestata; inoltre, una volta che l’azione è stata incardinata, l’eventuale carenza di interesse del minore al mutamento dello status

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Pubblicata in Corr. giur., 2018, 446 ss., con nota di G: Ferrando, in N. giur. civ. comm., 2018, 540 ss., con commento di M. Gorgoni, e in Familia, 2018, 59 ss., con nota di S. Sandulli. In tema di rapporto tra favor veritatis e interesse del minore cfr., tra i tanti, F. Giardina, Interesse del minore: gli aspetti identitari, in N. giur. civ. comm., 2016, 159 ss. In tal senso: Cass. 3.4.2017, n. 8617, in Foro it., 2017, I, 119 con nota di G. Casaburi, in Fam e dir., 2017, 845 ss., con nota di M.N. Bugetti e in Corr. giur., 2018, 619 ss., con nota di D.M. Locatello; Cass. 22.12.2016, n. 26767, in Foro it., 2017, I, 119 ss., con nota di G. Casaburi e in N. giur. civ. comm., 2017, 851 ss., con commento di F. Scia.

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potrebbe trovare riscontro, piuttosto, in un nuovo mandato al curatore per la rinunzia al diritto6. Si può avanzare l’idea che il revirement giurisprudenziale trovi giustificazione in esigenze pratiche, non essendo sicuro che i soggetti interessati e il pubblico ministero si attivino nella sede della volontaria giurisdizione per contestare la sussistenza e/o verificare la persistenza dell’interesse del minore: risultando pertanto più efficace che l’interesse ad agire sia valutato nelle fasi conclusive del giudizio di merito, preliminarmente alla decisione sul contenzioso.

3. Le ragioni ostative alla lettura evolutiva. In realtà, dietro l’apparente ricorso a un istituto tradizionale del codice di rito, che consente la valutazione dell’interesse ad agire del minore, la Corte costituzionale ha legittimato l’applicazione di un nuovo criterio di soluzione dei conflitti, che sembra trovare fondamento nella conformità all’interpretazione dei parametri della Convenzione di New York. Nel ragionamento della Corte, la rilevanza dell’interesse del minore è data per presupposta, perché la preoccupazione dei nostri giudici era di evitare che il criterio potesse essere considerato ostativo a una decisione caducatoria del rapporto filiale. Piuttosto, l’interesse del minore non assume un ruolo assolutamente prevalente, poiché può essere sacrificato nel bilanciamento con gli interessi pubblici, volti a sanzionare il ricorso alla surrogazione di maternità. Ciononostante, vi sono fondate ragioni per ritenere che siffatta decisione, per l’autorevolezza della Corte e del Relatore, Giuliano Amato, finisca per incidere sull’interpretazione giurisprudenziale ed è muovendo da questa constatazione che occorre chiedersi in che senso ed entro quali limiti vada condivisa. In primo luogo va osservato che nelle azioni di stato il bilanciamento tra interesse alla verità e interesse alla stabilità dei rapporti consolidati trova, dopo la riforma, una disciplina a livello legislativo: disciplina che pone limiti di legittimazione per il disconoscimento della paternità nella filiazione nel matrimonio e limiti di decadenza quinquennale decorrenti dalla nascita sia per il disconoscimento di paternità, sia per l’impugnazione del riconoscimento nella filiazione fuori dal matrimonio7. Limiti di decadenza che non si applicano al figlio, che può sempre far valere il proprio interesse all’accertamento della verità genetica. Alla presenza di siffatti limiti, che individuano in astratto l’interesse del minore e lo bilanciano con gli interessi contrapposti, occorre individuare qualche specifica

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In tal senso M. Sesta, La filiazione, nel Trattato Bessone, IV, Il diritto di famiglia, IV, Milano, 2011, 196. In giurisprudenza da ultimo Cass. 15.2.2017, n. 4020, in Foro it., 2017, I, 1237 ss., con nota di G. Casaburi; già Cass. 5.1.1994, n. 71, in Fam. e dir., 1994, 293 ss., con nota di F. Tommaseo. Sul punto M. Mantovani, Azioni di stato, cit., 387. Per una efficace sintesi della riforma M. Bianca, L’unicità dello stato di figlio, in C.M. Bianca (ed.), La riforma della filiazione, Padova, 2015, 3 ss.

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ragione, eccentrica a quelle tipicamente considerate in sede legislativa, per consentire al giudice di introdurre un diverso bilanciamento in concreto: se così non fosse, e se fosse imposta un’interpretazione della Convenzione di New York nel senso che il giudice sia sempre libero di valutare in concreto l’interesse del minore e di adottare il bilanciamento di interessi che ritenga appropriato, si svaluterebbe il senso dell’intervento legislativo, pur riconosciuto e salvaguardato dalla stessa Convenzione8. Tanto più, ed è questo il secondo rilievo, che la disciplina delle azioni di stato non ha una rilevanza specificamente rivolta ai minori, perché gli effetti della costituzione o della perdita dello status sono tendenzialmente definitivi e si riflettono su profili, non solo relazionali, ma anche patrimoniali, che assumono rilevanza anche quando il soggetto, della cui condizione di figlio si discute, è ormai divenuto maggiorenne9.La rilevanza patrimoniale delle azioni di stato e la loro incidenza in materia successoria suggeriscono l’idea che l’interesse del minore non possa assumere il medesimo ruolo che riveste nella valutazione dei profili relazionali: da qui potrebbe derivare l’idea di una disarticolazione della disciplina delle azioni e di una frammentazione dello status che consenta, ove lo richieda l’interesse del minore, di modificare gli effetti relazionali, tenendo fermi quelli patrimoniali, o viceversa.

4. Una proposta di disarticolazione: gli interessi privati concordanti.

Proprio la particolare natura delle azioni di stato giustifica una disarticolazione della rilevanza dell’interesse del minore: disarticolazione che potrebbe collocarsi sul crinale non solo degli effetti, distinguendo tra profili relazionali e patrimoniali, ma anche delle finalità di chi ha proposto la domanda, distinguendo tra posizioni coincidenti o concordanti e posizioni conflittuali o comunque contrapposte a quella del minore. In primo luogo, l’interesse del minore assume la massima rilevanza quando l’azione è proposta in suo nome, ossia proprio nelle situazioni prese in esame dalla giurisprudenza. Non vi sono, infatti, ragioni decisive per negare che l’interesse del minore, una volta riconfigurato in conformità con la Convenzione di New York, assuma un valore preminente – salvi gli interessi pubblici considerati superiori – e debba essere considerato anche in sede di giudizio di merito. Il giudice può quindi valutare, anche ove l’azione corrisponda

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Preoccupazione che già emerge, in termini generali, dalle analisi di L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, 86 ss., spec. 93 ss., e di F.D. Busnelli, Il diritto di famiglia di fronte al problema della difficile integrazione delle fonti, ivi, 2016, 1463 ss. In altra prospettiva, aperta a un ruolo correttivo della giurisprudenza, si cfr. V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2018, 405 ss., sp. 418 ss. Valorizza la distinzione tra interesse del minore e interesse del figlio, L. Lenti, La costituzione del rapporto filiale, cit., 1 ss.; Id., La filiazione, cit., 26 ss.

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all’interesse del minore alla verità e all’identità genetica (interesse in astratto), se non sia preminente l’interesse alla stabilità del rapporto familiare (interesse in concreto), tanto più che è possibile, anche se non frequente, che la domanda giudiziale, non soggetta ai termini di decadenza, sia proposta nonostante la presenza di relazioni consolidate. Un ragionamento analogo può essere sostenuto nel giudizio in cui l’azione di stato sia stata formulata da un soggetto che, pur non agendo in suo nome, si faccia portatore di istanze che assumono rilevanza in quanto concordanti con l’interesse del minore: si pensi a chi, sostenendo di essere il vero genitore, impugni l’altrui riconoscimento per difetto di veridicità, ovvero alla madre che agisca in disconoscimento di paternità al fine di consentire al padre naturale di riconoscere il minore. Anche in questi casi mancano ragioni decisive per fare prevalere siffatti interessi nella misura in cui non si rivelino rispettosi degli interessi del minore. Piuttosto, negli uni e negli altri giudizi, occorre chiedersi alla presenza di quali elementi il giudice possa ritenere sussistente l’interesse del minore. Sul piano procedimentale, è ormai consolidata l’idea che il giudice debba attribuire una particolare rilevanza allo strumento dell’ascolto del minore, al fine di accertare quale sia in concreto il suo interesse10. Sul piano del contenuto, sorge il dubbio se il criterio che rinvia all’interesse del minore sia idoneo a prevalere sulla verità genetica solo nel caso in cui la condizione che deriverebbe dall’accoglimento dell’azione di stato sia di serio pregiudizio per il minore, ovvero ogni qualvolta, in base alla comparazione con la condizione originaria, il minore ricadrebbe in una condizione comparativamente peggiore. Non è scontato l’accoglimento della prima opzione11, alla quale si fa regolarmente ricorso in situazioni diverse da quelle in esame, quando si decide per l’affidamento esclusivo o per la limitazione dell’esercizio della responsabilità: al riguardo, va ricordato che in giurisprudenza si è negata la nomina di un curatore per proporre l’azione di disconoscimento comparando la posizione del padre naturale, divorziato e senza esperienze genitoriali, con quella del coniuge della madre, anche alla luce dell’accertato superamento della crisi familiare e della volontà di continuare la comune esperienza genitoriale12.

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Sulla rilevanza dell’audizione del minore cfr. V. Scalisi, Il superiore interesse del minore, cit., 408 ss.; anche G. Sicchiero, La nozione di interesse del minore, in Fam. e dir., 2015, 72 ss. e G. Corapi, La tutela dell’interesse superiore del minore, in DSF, 2017, 777 ss., sp. 797 ss. 11 Che mi era sembrata preferibile in Azioni di stato cit., 555, dove mettevo in dubbio che si potesse decidere, ad esempio, con una comparazione della solidità economica del genitore reale con quello sociale. 12 Il caso è riportato e commentato da M.N. Bugetti, Nomina del curatore per l’esercizio del disconoscimento della paternità tra verità genetica e tutela dell’interesse del minore, in Fam. e dir., 2017, 161 ss.

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5. Segue. Gli interessi privati contrapposti. Le particolari caratteristiche delle azioni di stato – l’intreccio di legami relazioni e di conseguenze economiche – spiegano invece perché sussistono fondati dubbi a considerare prevalente l’interesse del minore, almeno di regola, ogni qualvolta l’azione sia proposta da un soggetto portatore di interessi contrapposti a quelli del minore: lo status, infatti, pone degli obblighi di mantenimento/alimentari e delle conseguenze successorie che non sono collegati alla sussistenza delle situazioni relazionali che ricorrono tipicamente tra genitori e figli. Si può avere interesse a mantenere uno status filiale, per ragioni patrimoniali, anche quando non sussiste alcun rapporto rilevante; per altro verso, si può avere interesse a contestare uno status filiale, per ragioni economiche, anche quando il genitore è in grado di esercitare egregiamente il ruolo che gli compete. Vi sono casi in cui gli interessi di cui è portatore l’attore non appaiono meritevoli e possono essere considerati recessivi rispetto all’interesse, anche solo patrimoniale, del minore: ad esempio, alla presenza di un riconoscimento del minore da parte di un soggetto consapevole del difetto di veridicità della filiazione13. Fattispecie in cui l’azione del soggetto che ha riconosciuto in mala fede potrebbe essere accolta, stando al dato normativo, quantomeno se letto alla luce del silenzio delle disposizioni della riforma su un tema ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza; salvo a ritenere che la medesima azione debba essere respinta, nel bilanciamento di interessi giurisprudenziale, facendo valere l’interesse del minore alla stabilità economica derivante dal rapporto genitoriale. In alternativa, si potrebbe imporre a chi ha riconosciuto in mala fede l’obbligo di corrispondere il mantenimento, a titolo indennitario o di risarcimento del danno, sino al raggiungimento dell’autonomia economica. Vi sono invece casi in cui gli interessi dell’attore appaiono meritevoli di tutela: in un ordinamento in cui la Corte costituzionale ammette che l’interesse del minore possa essere superato da interessi pubblici, vi sono fondate ragioni per sostenerne la recessività anche in caso di contrasto con determinati interessi privati14. È la situazione in cui chi risulta formalmente genitore venga a scoprire la mancanza del rapporto biologico o genetico e agisca tempestivamente in giudizio per contestare lo status filiale: anche qui si può presumere, dallo stesso comportamento processuale dell’attore, il venir meno del profilo relazionale, ma potrebbe persistere un interesse del figlio di natura patrimoniale. Ritengo tuttavia che, in sede di bilanciamento, l’interesse patrimoniale del minore sia tipicamente recessivo, a fronte degli interessi relazionali e patrimoniali dell’attore.

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In tema F. Quarta, Volontà e consolidamento sociale della filiazione. A proposito del controllo di meritevolezza sull’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso, in Rass. dir. civ., 2016, 978 ss. 14 In generale, sull’interesse del minore e il bilanciamento con altri interessi, cfr. L. Lenti, Note, cit., 100 ss. e V. Scalisi, Il superiore interesse del minore, cit., 430 ss.

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Più delicata, e controversa, è la situazione in cui agisca un soggetto terzo, che sarebbe ad esempio beneficiario di lasciti successori, ove fosse accertata la mancanza del rapporto tra il de cuius e il figlio sociale: situazione che può ricorrere non solo nella filiazione fuori dal matrimonio (dove è legittimato ad agire qualsiasi soggetto interessato), ma anche nella filiazione nel matrimonio (non solo per la contestazione di stato, ma anche seppure con molti limiti per il disconoscimento di paternità). Al riguardo, a mio avviso, assume rilevanza la posizione di chi ha sino a quel momento rivestito la posizione di genitore, perché può essere decisivo sapere se costui intenda comunque proseguire il rapporto relazionale o – ove la controversia fosse instaurata dopo il decesso – l’avrebbe proseguito qualora fosse stato consapevole dell’insussistenza del rapporto filiale. Va tenuto presente, infatti, che l’interesse del minore sarebbe salvaguardato ove il genitore sociale esprima la volontà di accedere all’istituto dell’adozione in casi particolari: siffatta possibilità- propugnata dalla Corte costituzionale in caso di maternità surrogata – comporta effetti patrimoniali e successori sostanzialmente equivalenti a quelli della filiazione (almeno per l’adottato in caso di decesso dell’adottante), idonei a ledere gli interessi confliggenti, ancorché passibili di risultare vittoriosi nel giudizio di stato. Ma proprio perché il genitore sociale potrebbe fare ricorso a questo istituto, pregiudicando comunque la posizione del terzo controinteressato, di ciò si può tenere conto in sede di giudizio di stato: o per negare che il giudice possa considerare rilevante l’interesse del minore, stante la possibilità per il genitore sociale di adottare successivamente il figlio sociale (secondo il modello argomentativo della Corte costituzionale); o per rigettare la domanda, proprio in forza dell’interesse del minore, in quelle ipotesi in cui il genitore dichiari di volere continuare altrimenti il rapporto e soprattutto in quelle situazioni in cui si reputi che il de cuius – se non fosse deceduto prima di sapere dell’insussistenza del rapporto filiale – avrebbe costituito un rapporto sostanzialmente equivalente attraverso l’adozione in casi particolari. In mancanza di elementi da cui emergano scelte dei genitori sociali a sostegno della permanenza del rapporto, l’interesse attoreo del controinteressato, se meritevole di tutela, dovrebbe di regola prevalere sull’interesse del minore15. A diversa soluzione si potrebbe pervenire in quelle fattispecie in cui manchi un bilanciamento in sede legislativa tra l’interesse del minore e la ricerca della verità: o perché la controversia è stata avviata in data antecedente la riforma della filiazione, non essendo considerato retroattivo il termine di decadenza; o perché l’azione non è tuttora soggetta a termine di decadenza, come nel caso di contestazione dello stato di figlio. Nell’uno e nell’altro caso si può ritenere che, in assenza di un bilanciamento legislativo, il giudice debba compiere una valutazione in concreto che tenga conto del tempo tra la nascita e l’avvio dell’iniziativa giudiziaria, nonché della situazione in cui verrebbe a trovarsi il minore ove l’azione del controinteressato fosse coronata da successo. In questa prospettiva, andrebbe escluso comunque che l’azione

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Riformulo in questo senso la posizione, meno articolata, illustrata in Azioni di stato, cit., 556; cfr. L. Lenti, La filiazione, cit., 28.

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del controinteressato possa essere rigettata ove il figlio sociale sia nel frattempo divenuto maggiorenne e autonomo: ponendo in evidenza un effetto paradossale dell’estensione dell’interesse del minore alle azioni di stato, ossia che l’interesse alla stabilità del rapporto che si contrappone all’interesse alla ricerca della verità – e che anche in questa riflessione è stato presentato quale espressione tipica dell’interesse del minore – in ultima analisi trova più forti ragioni di tutela, essendo il rapporto ancor più consolidato, proprio per quei soggetti che stanno abbandonando la minore età (salvaguardandone interessi patrimoniali che presumibilmente faranno valere in età adulta).

6. Qualche breve considerazione sulla rilevanza degli

interessi pubblici.

L’analisi è stata volutamente condotta lontano dagli ambiti più controversi, perché fortemente caratterizzati da contrasti ideologici, nella contrapposizione tra valori pubblicistici e interesse del minore: dimostrando che il tema è in se stesso complesso, e addirittura contraddittorio, anche quando si tenta un bilanciamento tra interessi di rilevanza privata, relazionale e/o patrimoniale. Non intendo tuttavia sottrarmi alle questioni che più impegnano dottrina e giurisprudenza, riservando alle stesse alcune brevi notazioni conclusive e augurandomi che non sia su di esse a concentrarsi l’attenzione, più o meno fondata su precomprensioni, dei lettori. Ritengo equilibrata la posizione della Corte costituzionale16, che nega la prevalenza dell’interesse del minore a mantenere il rapporto filiale costituito a seguito di maternità surrogata commerciale o comunque nel caso in cui entrambi i genitori intenzionali non abbiano un rapporto genetico con il minore: la lesione del valore della dignità della donna e il rischio di porsi sul crinale del commercio di minore costituiscono forti ragioni di ordine pubblico che si impongono sull’interesse alla stabilità dei rapporti. Tanto più che la stessa Corte costituzionale ritiene che l’interesse del minore – e oggi la Corte di Strasburgo propone un’opinione simile per la salvaguardia dell’interesse alla vita privata e familiare17 – possa trovare tutela attraverso le forme dell’adozione, anche nella variante dell’adozione in casi particolari18. Sono tuttavia convinto che le argomentazioni a sostegno del bilanciamento della Corte costituzionale non siano estensibili alla fattispecie della maternità surrogata solidale in cui almeno uno dei membri della coppia intenzionale abbia un rapporto genetico con il mi-

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Che riprende Cass. 11.11.2014, n. 24001, in Corr. giur. 2015, 471 ss., con nota di A. Renda. Critica invece G. Ferrando, Gestazione per altri, impugnativa del riconoscimento e interesse del minore, in Corr. giur., 2017, 935 ss. 17 È quanto si ricava dalla opinion della Corte EDU, 10.4.2019, in N. giur. civ. comm., 2019, I, 757 ss., con commento di A.G. Grasso. 18 Osserva che tale forma di rapporto possa incidere negativamente sull’interesse del minore e del figlio, in quanto soggetta a revoca, L. Lenti, La costituzione del rapporto filiale, cit., 13 s.

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nore, nonostante il diverso avviso delle Sezioni Unite19: per cui si impone una soluzione di segno opposto nel bilanciamento che il giudice di merito dovrà effettuare in sede di giudizio di stato, anche ove non si acceda alla tesi di chi ha argomentato l’idea della legittimità della pratica anche nel nostro ordinamento20. Mi sembra infine che l’interesse del minore debba essere considerato prevalente, ove la coppia abbia avuto accesso alla procreazione assistita in mancanza dei requisiti soggettivi e oggettivi stabiliti dalla legislazione italiana, ivi compreso quello, sul quale si appuntano i contrasti, della diversità di sesso della coppia21: in tal senso si è chiaramente espressa – in sede di definizione dell’ordine pubblico internazionale – la nostra giurisprudenza anche nel consesso più elevato22. Siffatta valutazione va condivisa, a mio avviso, anche qualora l’azione di stato fosse soggetta alla legislazione italiana: traendo argomento da considerazioni sistematiche fondate sulle regole a tutela del minore, poste in sede di fecondazione eterologa (ex art. 9 l. 40/04), nonché dalla riferibilità dei requisiti ex art. 5, l. 40/04, al momento della fecondazione dell’embrione e non al successivo momento dell’impianto23.

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Sembra essere di chiusura la posizione di Cass., S.U., 8.5.2019, n. 12193, in N. giur. civ. comm., 2019, I, 737 ss., con commento di U. Salanitro, e in Fam. e dir., 2019, 653 ss., con note critiche di M. Dogliotti e G. Ferrando, anche perché riferita proprio a un caso di maternità surrogata solidale. 20 Per la quale si rinvia alla recente analisi di A.G. Grasso, Per una interpretazione costituzionalmente orientata del divieto di maternità surrogata, in TCRS, 2018, 2, 151 ss. 21 Sulla questione si vedano le rassegne di D. Muscillo, Best interest del minore: l’applicazione giurisprudenziale nelle famiglie omosessuali, in Familia, 2016, 233 ss. 22 È la posizione sostenuta da Cass. 30.9.2016, n. 19599, in Corr. giur., 2017, 181 ss., con nota di G. Ferrando, che è stata di recente confermata da un obiter dictum di Cass., S.U., 8.5.2019, n. 12193, cit. 23 Si consenta il rinvio a U. Salanitro, Art. 5 - Legge 19 febbraio 2004 n. 40, in Commentario Gabrielli, Della Famiglia, III, Torino, 2018, 1704 ss.

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L’esclusione del coerede dalla divisione ereditaria* Sommario : 1. Considerazioni introduttive. – 2. La tipologia delle fattispecie. – 3. “Inefficacia in senso lato” e “inefficacia in senso stretto”. – 4. Dalla “nullità” alla “inefficacia” del contratto di divisione ereditaria al quale non abbia preso parte uno degli eredi. – 5. Eventuali strumenti di recupero: la ratifica. – 6. La causa “in concreto” della ratifica.

If one of the entitled heirs does not participate in the hereditary division, the question arises whether the contract is void or ineffective. Depending on the answer given to the aforementioned question, there will be different ways of recovering that contract, without prejudice to the need to verify the possible liability of other heirs.

1. Considerazioni introduttive. L’ipotesi che in questa sede si intende analizzare è quella del contratto di divisione ereditaria, al quale non prendano parte tutti gli aventi diritto ma, per un motivo o per un altro, il consenso di uno dei coeredi risulti mancare. A ben vedere, molte delle considerazioni che saranno svolte sull’argomento potrebbero essere estese anche ad altre fattispecie di divisione contrattuale nelle quali i condividenti siano chiamati a partecipare in virtù di un titolo d’acquisto diverso da quello successorio. In effetti, tale ultimo assunto sembrerebbe confermare il principio della necessaria integrazione delle norme dettate in tema di scioglimento della comunione ordinaria con quelle dettate in tema di scioglimento della comunione ereditaria1.

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Sul punto, v., per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, 2.2, Le successioni, Milano, 2015, p. 411, il quale ricorda che “la normativa dettata in tema di scioglimento della comunione ordinaria è infatti integrata con l’applicazione delle disposizioni dettate in tema di divisione ereditaria, salvi i casi di incompatibilità”.

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Al fine di cogliere la portata di una simile considerazione, pare il caso di precisare che una ricostruzione in parte differente potrebbe essere operata esclusivamente con riferimento alla specifica ipotesi del contratto divisorio perfezionato con il consenso di uno solo dei coniugi, allorché, al momento dell’acquisto della qualità di comproprietario, quest’ultimo fosse coniugato in regime di comunione legale dei beni. Nella fattispecie da ultimo prospettata, i dubbi di natura esegetica potrebbero sorgere in relazione alla previsione contenuta nell’art. 184, co. 1, cod. civ., secondo cui “gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683”: in sostanza, si tratterebbe di verificare in quale misura il contratto di divisione possa rientrare tra gli “atti” cui si riferisce testualmente la previsione in parola. Fatta salva, in tal caso, l’eventuale applicazione dell’art. 184, co. 1, cod. civ., nel senso da ultimo chiarito, la problematica qui in esame tende a ricevere, in sostanza, secondo l’impostazione dominante, una ricostruzione in termini di nullità del contratto di divisione al quale non abbia preso parte uno dei coeredi, salvo poi a proporre differenti motivazioni alla base dell’affermata invalidità. In una differente prospettiva, si è cercato, peraltro, di salvare il meccanismo divisorio dalla radicale nullità, affermandosene, piuttosto, l’inefficacia. Già intuitivamente, può agevolmente comprendersi quanto diverse siano le conseguenze, sotto il profilo principalmente del recupero dell’atto, a seconda che si opti per una conclusione nel senso della nullità ovvero dell’inefficacia della divisione. E, come si avrà modo di constatare, anche la giurisprudenza più recente sembrerebbe aprirsi ad una prospettiva meno rigida, proprio con specifico riferimento al profilo del trattamento sanzionatorio da riservarsi al contratto di divisione cui non abbia preso parte uno dei comproprietari. Il metodo preferibile per procedere all’esame dell’ipotesi prospettata appare quello di individuare preliminarmente, almeno in via esemplificativa, la tipologia delle fattispecie che nella prassi possono verificarsi. Tale operazione consentirà, in effetti, di delineare il quadro delle possibili sanzioni idonee a colpire il negozio divisorio e, infine, a seconda del trattamento sanzionatorio prescelto, di modulare gli eventuali strumenti di recupero del medesimo atto divisorio.

2. La tipologia delle fattispecie. Al fine di agevolare l’analisi, appare opportuno ricondurre le fattispecie concrete a tre gruppi di ipotesi, ciascuno dei quali caratterizzato da un comune connotato, pur nella consapevolezza, comunque, che il singolo caso concreto possa presentare peculiarità tali da renderlo non agevolmente collocabile secondo gli schemi prefigurati. In primo luogo, potrebbe ben darsi che uno dei coeredi, pur avendone titolo, non partecipi al contratto di divisione unitamente agli altri coeredi. A questo punto, la valutazione che preme necessariamente compiere sembrerebbe attenere esclusivamente alla posizione proprio del coerede non partecipante. Questi, infatti, potrebbe essere concorde con gli al-

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tri eredi (condividenti) in merito alla sostanza dell’accordo raggiunto e, quindi, la mancata partecipazione del coerede al negozio divisorio potrebbe dipendere non da una scelta, in senso ostativo, degli altri, ma anche da motivazioni di ordine diverso, tali da indurre quel coerede a non partecipare all’atto: si pensi, in proposito, al coerede il quale, pur essendo, in sostanza, concorde in ordine al contenuto della divisione (eventualmente, senza percepire alcunché), non sia stato, in concreto, in grado di partecipare alla divisione stessa (in via esemplificativa, in quanto assente ovvero impossibilitato). In diversa prospettiva, il coerede potrebbe essere intenzionato a prendere parte al contratto di divisione, ma potrebbero essere gli altri a non volerne consentire la partecipazione: si pensi, al riguardo, all’ipotesi in cui i condividenti si riservino di contestare la qualità di erede dell’escluso o, semplicemente, ritengano di non potere con il medesimo raggiungere un accordo. Al di là del trattamento sotto il profilo sanzionatorio da riservare all’atto così venutosi a perfezionare, una rilevante conseguenza del comportamento “consenziente” del coerede che non vi abbia “volontariamente” partecipato, pur prestando un, per così dire, “tacito” consenso, potrebbe trarsi sul piano della responsabilità: avendo gli altri condividenti, in effetti, acquisito, ancorché in modo non corretto sul piano del perfezionamento della fattispecie contrattuale, il consenso dell’altro coerede, in linea di prima approssimazione si dovrebbe senz’altro escludere ogni forma di responsabilità dei primi nei confronti del secondo. Al contrario, qualora la divisione sia stata perfezionata, per così dire, “contro” la volontà dell’escluso, i condividenti, ricorrendone i presupposti, potranno incorrere in responsabilità verso il coerede pretermesso. Un secondo gruppo di ipotesi potrebbe includere quelle nelle quali la mancata partecipazione di uno dei coeredi alla divisione ereditaria dipenda da un errore degli altri condividenti. Si prospettino quelle, più o meno frequenti nella prassi, della divisione conclusa, a seguito della rinunzia all’eredità da parte di uno dei fratelli chiamati, soltanto dai fratelli non rinunzianti, senza la partecipazione del figlio del chiamato rinunziante subentrato per rappresentazione; ovvero, della divisione perfezionata dai fratelli nati nel matrimonio del comune genitore, i quali, al momento dell’atto, siano stati all’oscuro dell’esistenza di altro fratello nato fuori del matrimonio (e del quale sia già accertata una simile condizione). In entrambe le fattispecie prospettate, a prescindere dal trattamento sanzionatorio da riservarsi al concluso negozio divisorio, l’errore potrebbe ancora rilevare sul piano della responsabilità nei confronti del coerede escluso, con l’ulteriore peculiarità, rispetto all’ipotesi precedentemente considerata dell’accordo, per così dire, “tacito” con il coerede non partecipante, di dover valutare, in questo caso, l’esatto o inesatto adempimento degli oneri di verifica da parte, appunto, dei coeredi condividenti. Un terzo insieme di ipotesi potrebbe includere quelle nelle quali, al momento del perfezionamento del negozio divisorio, manchino i presupposti, invero assai eterogenei, affinché il soggetto partecipi al medesimo atto divisorio. Si dia il caso della divisione perfezionata tra coeredi, rispetto alla quale, in un momento cronologicamente successivo, sopravvenga l’accertamento giudiziale, con la relativa efficacia retroattiva, della genitorialità, nei confronti del genitore premorto e a vantaggio, quindi, di un soggetto il quale non abbia partecipato al contratto. In alternativa, si prospetti l’evenienza, addirittura, della

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modifica legislativa sopravvenuta: ipotesi, quest’ultima, tutt’altro che astratta, ove si consideri la recente riforma in materia di filiazione (l. n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013), la cui applicazione conduce al riconoscimento di diritti successori ad ulteriori soggetti nati fuori del matrimonio, con applicazione retroattiva, così finendo col rimettere in discussione quegli accordi divisori conclusi prima della relativa entrata in vigore2. Ovviamente, nelle ipotesi da ultimo prospettate, risultando sopravvenuti i presupposti per la partecipazione all’atto di divisione in favore di soggetti che, al momento della conclusione dell’atto, al contrario apparivano privi di una simile legittimazione – e sempre al di là della forma patologica in cui debba considerarsi versare il negozio divisorio concluso – nessuna forma di responsabilità potrà individuarsi in capo ai coeredi che abbiano legittimamente preso parte al contratto di divisione.

3. “Inefficacia in senso lato” e “inefficacia in senso stretto”. A prescindere dalle conseguenze che possano trarsi, in effetti, sotto il profilo della responsabilità dei condividenti partecipanti all’atto, nei confronti del coerede escluso, le diverse circostanze che possano aver indotto alla mancata partecipazione di quest’ultimo non sembrerebbero incidere, in tutte le fattispecie dianzi prese in considerazione, sull’individuazione dell’esatto trattamento sanzionatorio da riservarsi all’atto così concluso in assenza, appunto, di uno degli aventi diritto. Se l’alternativa, come pare, è quella della scelta tra una configurazione dell’atto divisorio in termini di “nullità” ed un’altra, invece, in termini di “inefficacia”, appare opportuno ripercorrere, allora, sia pur sinteticamente, la tradizionale distinzione tra “inefficacia lato sensu” ed “inefficacia stricto sensu”. L’inefficacia, intesa “in senso lato”, comprenderebbe, secondo l’impostazione tradizionalmente accreditata, tutte le ipotesi di carenza di effetti dell’atto e, quindi, anche quelle nelle quali la mancata produzione degli effetti debba ascriversi ad un vizio del negozio in grado di comprometterne la validità: così, di inefficacia “in senso lato” dovrebbe discorrersi pure ogniqualvolta essa rappresenti una conseguenza diretta della “nullità” del negozio3.

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Entrambe le ipotesi sono prese in considerazione nell’attenta ricostruzione di M. Sesta, Il contratto di divisione, nel Trattato dei contratti, diretto da V. Roppo, II, Cessione e uso dei beni, Milano, 2014, p. 467. Con particolare riferimento alla problematica relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina in materia di filiazione, v., ancora, per tutti, M. Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 22 ss., il quale non esita a palesare i propri dubbi in merito alla scelta, compiuta in sede legislativa, di rendere retroattiva l’applicazione della nuova disciplina: scelta, appunto, “contraria al principio di tendenziale irretroattività delle norme successorie”, oltre che difforme rispetto alla delega ricevuta, nonché presumibile “motivo di controversie giudiziarie quanto mai complesse, capaci di compromettere il principio della sicurezza nella circolazione dei beni, dovendosi considerare che l’azione di petizione dell’eredità è imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione rispetto ai singoli beni”. In questi termini, V. Scalisi, voce Inefficacia (diritto privato), in Enc. del dir., XXI, Milano 1971, p. 325, secondo il quale, appunto, l’inefficacia, intesa “in senso lato”, comprenderebbe, secondo la tradizionale impostazione, “ogni ‘mancanza di effetti’, anche quella dipendente da un vizio del negozio che ne intacca la validità”. Esula dal campo della presente indagine la problematica, usualmente affrontata in relazione al tema della “inefficacia” del negozio giuridico, concernente l’eventuale distinzione tra “nullità”

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Al contrario, l’inefficacia “in senso stretto” colpirebbe tutte quelle fattispecie negoziali nelle quali, attesa la rilevanza delle medesime, la produzione degli effetti resterebbe ancora possibile, in dipendenza del verificarsi di ulteriori presupposti4. Quanto al fondamento della distinzione tra “inefficacia lato sensu” ed “inefficacia stricto sensu”, in alcuni tentativi di ricostruzione, l’invalidità risulta concepita come la conseguenza della mancanza di un “elemento intrinseco” del negozio, mentre l’inefficacia pare trovare la sua fonte “nel difetto di un requisito estrinseco o di semplice efficacia”5. La distinzione tra “elementi intrinseci” ed “elementi estrinseci” del negozio giuridico, peraltro, risulta destinata ad entrare in crisi se posta al cospetto di fattispecie in riferimento alle quali la mancanza di elementi estrinseci sembrerebbe essere foriera di nullità del negozio, nonché di ipotesi in cui si rinvengono requisiti di efficacia intrinseci o relativi ad elementi intrinseci6. Tale ultimo ordine di considerazioni rappresenta forse il motivo principale che ha indotto a muoversi in una differente direzione, individuando nell’inefficacia un fondamento di tipo assiologico. La valutazione dell’ordinamento, in relazione al negozio giuridico, sarebbe scomponibile, in sostanza, in due momenti: il primo – consistente nel giudizio di validità – attinente alla verifica della corrispondenza del programma negoziale allo schema astratto emergente dall’insieme delle regole giuridiche; il secondo – consistente nel giudizio di efficacia – concernente, piuttosto, la verifica dell’attitudine del negozio a realizzare il regolamento d’interessi divisato dalle parti7. Assegnato, allora, un fondamen-

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ed “inesistenza”, rispetto alla quale, in via sinteticamente esemplificativa, si vedono contrapposte le impostazioni che, in sostanza, pongono su una linea di continuità le due situazioni, in considerazione del comune profilo della giuridica irrilevanza (per tutti, A. Falzea, La condizione e gli elementi accidentali dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 37 s. e passim), a quelle alla cui stregua, diversamente, soltanto il negozio inesistente potrebbe ritenersi irrilevante per l’ordinamento giuridico, laddove quello colpito da nullità e, in più in generale, da “invalidità”, resterebbe pienamente rilevante, ancorché suscettibile di qualificazione negativa (cfr. R. Tommasini, voce Nullità (diritto privato), in Enc. del dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 870 ss.). Accedendo a tale ultima impostazione, la situazione di inesistenza-irrilevanza finirebbe per collocarsi “in un limbo in cui non ha alcun senso contrapporre l’inefficacia all’efficacia”: così, testualmente, R. Scognamiglio, voce Inefficacia (dir. priv.), in Enc. giur., XVI, Roma 1989, p. 1. L’adesione all’una o all’altra ricostruzione rileva allorché si cerchi, in concreto, di tracciare una distinzione tra i casi di inefficacia in senso stretto e quelli di inefficacia in senso lato. Per chi aderisce alla prospettiva del negozio nullo come giuridicamente esistente (e, quindi, rilevante), l’invalidità – anche nella sua forma più grave di nullità, risultando pur sempre “criterio di valutazione (negativa) degli interessi prospettati” – non può che colpire “il negozio giuridico nella sua rilevanza, che viene ad essere negata o limitata, con essa restando travolto lo stesso vincolo negoziale”, laddove l’inefficacia (in senso stretto) “incide sulla sua funzionalità, determinando la carenza o la precarietà dei c.d. effetti finali” (in tal senso, R. Tommasini, op. cit., p. 878). I predetti “effetti finali”, in particolare, sarebbero colpiti “in forme e/o momenti diversi, fino a poterne cagionare la totale e definitiva scomparsa, ma all’esito, negativo, di un ciclo di valida funzionalità dell’atto negoziale”: sul punto, R. Scognamiglio, op. cit., p. 4. Diversamente, a giudizio di chi tende ad escludere la stessa giuridica rilevanza dell’atto nullo, inefficace (in senso stretto) è “l’atto giuridico in cui la mancata produzione di effetti non deriva da uno stato patologico della fattispecie, ma dalla attuale mancanza di una concausa dell’efficacia” (cfr. A. Falzea, op. cit., p. 40), secondo quel taglio di carattere funzionale, alla cui stregua solitamente si riporta l’inefficacia alla mancanza dei “presupposti di efficacia” (per tutti, V. Scalisi, op. cit., p. 327 s.). Cfr., ancora, V. Scalisi, op. cit., p. 325: intesa “in senso stretto”, insomma, l’inefficacia “presuppone una fattispecie rilevante, come tale potenzialmente efficace, e si pone, perciò, come categoria autonoma e contrapposta alla nullità o irrilevanza dell’atto”. Cfr. A. Fedele, L’inefficacia del contratto, Torino, 1983, p. 19 e passim. Sul punto, cfr., ancora, V. Scalisi, op. cit., p. 329. In tal senso, Scalisi, op. cit., p. 331, per il quale il diritto, in ordine al negozio giuridico, sarebbe “chiamato, anzitutto, a valutare staticamente la corrispondenza formale del programma di interessi divisato dai soggetti allo schema astratto previsto dalla norma”;

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to marcatamente assiologico alla “inefficacia”, essa viene fatta dipendere da ogni evento idoneo a ripercuotersi negativamente sulla realizzazione dell’interesse delle parti: da ogni circostanza, cioè, sintomatica della presenza di un interesse esterno incompatibile e prevalente rispetto all’interesse, appunto, interno delle parti medesime8. Alla luce delle brevi considerazioni svolte, non può non percepirsi, già in linea di prima approssimazione, l’importanza che una conclusione nel senso della “nullità”, ovvero della “inefficacia” della divisione alla quale non abbia preso parte uno dei coeredi sia destinata a rivestire sotto il profilo delle conseguenze. Ove si dovesse accedere ad una ricostruzione che si muova nella direzione della nullità del contratto divisorio, infatti, verrebbe esclusa in radice ogni possibilità che l’accordo possa produrre, in qualche modo, gli effetti caratteristici dello stesso atto divisorio. Qualora, al contrario, si dovesse propendere per una soluzione in termini di inefficacia del medesimo accordo divisorio, si tratterebbe, poi, di individuare le condizioni ed i presupposti dai quali far dipendere l’eventuale produzione degli effetti propri di quest’ultimo. Si tenga presente, infine, che la scelta del trattamento sanzionatorio cui ricondurre la divisione ereditaria conclusa in assenza di uno dei coeredi pare del tutto prescindere dallo stato soggettivo dei condividenti, da un lato, e dell’escluso, dall’altro: sia nell’ipotesi in cui il coerede pretermesso dal contratto divisorio fosse sostanzialmente d’accordo, sia nell’ipotesi in cui l’omessa partecipazione all’atto fosse il frutto di un errore, sia nell’ipotesi in cui quest’ultima dipendesse da una scelta esclusiva degli altri coeredi, le conseguenze, sotto il profilo della sanzione, non sembrerebbero mutare, ferma restando l’alternativa tra una conclusione nel senso della nullità, ovvero nel senso dell’inefficacia del contratto divisorio così concluso.

4. Dalla “nullità” alla “inefficacia” del contratto di divisione ereditaria al quale non abbia preso parte uno degli eredi.

L’orientamento più diffuso sembrerebbe concordare nell’affermazione, peraltro estensibile anche all’ipotesi della divisione non ereditaria, della nullità della divisione alla quale non abbia partecipato uno dei coeredi; salvo, poi, ad individuare lo specifico fondamento della nullità nella mancanza dell’accordo, ovvero in un vizio della causa9. In assenza, allo-

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successivamente, “si rende necessaria da parte dell’ordine giuridico una valutazione dinamica del fatto negoziale, attinente alla idoneità funzionale del medesimo a soddisfare l’interesse programmato dai soggetti”. Per il citato a., appunto, l’inefficacia consisterebbe “nella mancata messa a disposizione degli effetti intesi a garantire la realizzazione giuridica dell’interesse programmato”. In tal senso, Scalisi, op. cit., p. 333, per il quale, in conclusione, all’inefficacia “dà luogo ogni fatto, anche non riconducibile alla struttura logica del coelemento, che però incida sulla realizzazione dell’interesse negoziale, in quanto denunzi l’interferenza di interessi esterni incompatibili e prevalenti rispetto all’interesse interno negoziale”. Sul punto, sia consentito rinviare all’approfondita ricostruzione di M. Sesta, Il contratto di divisione, cit., p. 463 ss.

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ra, del consenso di tutti i coeredi, la divisione non sarebbe idonea a produrre, nella sfera giuridica dei medesimi, gli effetti caratteristici del contratto divisorio, primo tra tutti l’apporzionamento: peculiare effetto, quest’ultimo, che si ritiene caratteristico, oltre che della divisione, anche degli atti alla medesima equiparati, ai sensi dell’art. 764, co. 1, cod. civ.10. In questa prospettiva, la necessaria partecipazione di tutti gli aventi diritto al contratto che determina lo scioglimento della comunione – quale presupposto, appunto, dell’apporzionamento – viene individuata come connotato saliente del “tipo contrattuale” cui ricondurre il contratto di divisione11. Pur non potendosi negare la correttezza dell’affermazione alla cui stregua il contratto di divisione non possa produrre effetto nei confronti degli eventuali coeredi (o, in senso più ampio, comproprietari) che non vi abbiano preso parte, non altrettanto convincente appare la conclusione nel senso della nullità di una simile fattispecie contrattuale. Proprio in tale ultima prospettiva, un’attenta ricostruzione ha sottoposto a revisione critica l’impostazione tradizionale, respingendo l’idea che la divisione, nell’ipotesi esaminata, possa essere reputata nulla per difetto dell’elemento essenziale dell’accordo, ovvero per difetto o vizio dell’elemento causale12. Anche un eventuale richiamo all’art. 735 cod. civ., nella parte in cui sanziona con la nullità la divisione del testatore nella quale quest’ultimo non abbia compreso uno dei legittimari o degli eredi istituiti, sembrerebbe, del resto, scarsamente conferente, essendo da ritenere determinante, ai fini della declaratoria della nullità della stessa divisione fatta dal testatore, l’assenza di beni ulteriori, nell’asse ereditario, in grado di consentire l’apporzionamento in favore dell’escluso13. Sulla base delle premesse dianzi sinteticamente riportate, la richiamata impostazione conclude nel senso della inefficacia del contratto divisorio concluso senza la partecipazio-

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Per una simile impostazione, v., per tutti, L.V. Moscarini, Gli atti equiparati alla divisione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, p. 548 ss. Più in generale, l’importanza dell’apporzionamento può cogliersi nell’insegnamento di G. Mirabelli, voce Divisione (diritto civile), in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, p. 35, il quale, appunto, identificando nella “proporzionalità tra quota e porzione” quell’“elemento caratteristico del contratto di divisione, che lo distingue da ogni altro atto dal quale derivi l’eliminazione di una comunione”, rileva che “ogni atto od accordo, dal quale esula la considerazione della proporzionalità dei valori, non è divisione e ad esso sono inapplicabili gli istituti propri della divisione”. 11 In tal senso, A. Mora, Il contratto di divisione, Milano, 1995, p. 216 ss. Fermo il connotato dell’apporzionamento, comune al contratto di divisione ed ai c.d. atti equiparati alla divisione, la partecipazione al negozio divisorio di tutti i comproprietari varrebbe a distinguere proprio il primo dai secondi: sul punto, v. le considerazioni di L.V. Moscarini, op. cit., p. 550, il quale conclude proprio che “la categoria degli atti equiparati comprende, dunque, tutti i negozi in cui sia riscontrabile l’elemento causale dell’apporzionamento e alla cui formazione non abbia partecipato la totalità dei coeredi”. In senso contrario, v., fin d’ora, E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990, p. 83. In generale, sui processi che conducono alla formazione di un tipo contrattuale, basti qui rinviare a G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 18 ss. e passim. 12 Ci si intende riferire all’impostazione di E. Minervini, op. cit., p. 67 ss. In particolare, il citato a. esclude, da un lato, la nullità per mancanza dell’accordo, essendo il contratto “perfetto, in quanto il comunista pretermesso non è parte”; dall’altro, la nullità per difetto o vizio dell’elemento causale, in quanto “vengono attribuiti ai condividenti porzioni di valore proporzionale alle quote (nel caso in cui alcuni beni vengano accantonati per il pretermesso), o proporzionale a quelle che si assumono essere le quote (nel caso in cui i condividenti ignorino o comunque non si curino dell’esistenza di altri comunisti)”. 13 V. sempre E. Minervini, op. cit., p. 73 s., ad avviso del quale “la nullità della divisione, qualora il testatore non abbia compreso eredi istituiti, o legittimari, sembra ispirata, più che ad un generico principio di necessaria partecipazione di tutti gli aventi diritto a pena di nullità, a quello della intangibilità delle quote dei legittimari, ed all’esigenza di risolvere il contrasto tra volontà astratta – riferita alle quote – e volontà concreta – riferita alle porzioni –, in ipotesi di pretermissione di eredi istituiti”.

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ne di uno dei comunisti, essendo quella dell’inefficacia la conseguenza che l’ordinamento normalmente ricollega alla carenza di legittimazione delle parti a disporre del diritto14. Risponde all’insegnamento tradizionale, infatti, l’affermazione alla cui stregua la legittimazione debba essere considerata quale “requisito soggettivo di efficacia del contratto”15. Conseguentemente, il negozio concluso dal soggetto non legittimato a disporre del diritto non può produrre effetto nei confronti del titolare di quel diritto; nel contempo, tuttavia, esso risulta pienamente vincolante per il disponente, ancorché non legittimato16. Volendo adattare, allora, i principi generali in materia di inefficacia del negozio al contratto divisorio cui non abbia preso parte uno dei coeredi, quest’ultimo dovrà reputarsi inefficace e non nullo17: pertanto, pur essendo la divisione inefficace nei confronti del coerede escluso, essa vincolerà reciprocamente i condividenti e li obbligherà a porre in essere, nella fase successiva alla conclusione del contratto, ogni comportamento necessario al fine di rendere possibile la produzione degli effetti finali dell’atto18, con tutte le conseguenze che se ne possano trarre in termini di valutazione di una eventuale responsabilità del condividente ascrivibile a comportamenti contrari al canone della buona fede. L’idea che la mancata partecipazione di uno dei coeredi alla divisione non debba ripercuotersi sulla validità dell’atto, del resto, sembrerebbe emergere anche in una recente pronunzia della Suprema Corte, ove, chiarendosi che, in tale evenienza, il contratto deve ritenersi “perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, immediatamente vincolante ed efficace fra le parti contraenti”, si preclude alle parti contraenti di contestare il vincolo contrattua-

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In tal senso, E. Minervini, op. cit., p. 77 ss., secondo un’impostazione coerente con l’insegnamento (per il quale cfr. P. Perlingieri, I negozi su beni futuri, I, La compravendita di “cosa futura”, Napoli, 1962, p. 168 ss.) che, nel riferirsi alla compravendita di cosa futura, la qualifica in termini di “negozio ad effetti tipici parzialmente sospesi”. Più in generale, alla stregua dell’ancora attuale pensiero di L. Cariota Ferrara, I negozi sul patrimonio altrui, Padova, 1936, p. 213, nelle ipotesi di inefficacia del negozio giuridico, quest’ultimo “è, fin dal momento della costituzione, fornito di tutti i requisiti di esistenza e validità”, risultando soltanto “un impedimento che si oppone alla produzione degli effetti, impedimento che può sparire successivamente”. 15 Per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, p. 65, per il quale, appunto, “la mancanza della legittimazione non comporta pertanto l’invalidità del contratto ma l’inefficacia di esso rispetto all’oggetto di cui la parte non è competente a disporre”. 16 V. sempre C.M. Bianca, op. ult. cit., p. 123, ove si sottolinea come, secondo i principi generali ricavabili dalla normativa in tema di compravendita, il disponente sia obbligato a procurare all’acquirente l’acquisto del diritto alienato. Tale affermazione appare coerente con l’idea (per la quale v. già L. Cariota Ferrara, op. cit., p. 214) secondo cui “le parti sono, di regola, vincolate l’una rispetto all’altra dal negozio inefficace”. 17 Così, E. Minervini, op. cit., p. 81, secondo il quale, appunto, “gli effetti reali non si producono (in parte) per la parziale alienità dei beni da dividere”. La conclusione nel senso dell’inefficacia della divisione ereditaria alla quale non abbiano preso parte tutti i coeredi sembrerebbe maggiormente coerente, peraltro, con l’affermazione della natura non dichiarativa dello stesso contratto di divisione. Lo stesso a., del resto, non esita a definire (p. 63) la divisione quale “negozio costitutivo, modificativo della struttura dei rapporti giuridici preesistenti, anche se non traslativo”. Per l’affermazione della natura costitutiva della divisione, cfr., anche per gli opportuni ulteriori riferimenti, M. Sesta, Il contratto di divisione, cit., p. 419. 18 Che il contratto valido ma inefficace vincoli le parti ad adoperarsi al fine di consentire la produzione dei relativi effetti è affermazione ricorrente, per la quale basti qui rinviare a V. Roppo, Il contratto, nel Trattato di dir. priv., diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, p. 511, secondo il quale, appunto, “la vincolatività è la caratteristica per cui il contratto, una volta validamente concluso, vincola le parti a tenere comportamenti e subire risultati coerenti con l’attuazione del programma contrattuale” (il corsivo è dell’a.). Sempre secondo il citato a. (p. 735), l’inefficacia deve essere intesa come “la qualità che il contratto presenta, in quanto non sia produttivo degli effetti che normalmente dovrebbe produrre” (il corsivo è sempre dell’a.).

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le tra di esse venutosi a produrre in virtù del contratto di divisione, in quanto inefficace esclusivamente nei confronti del coerede non partecipante19.

5. Eventuali strumenti di recupero: la ratifica. Il tema dell’individuazione dei possibili strumenti di recupero del contratto di divisione ereditaria al quale non abbia preso parte uno dei coeredi appare intimamente connesso, come è agevole intuire, alla scelta del trattamento sanzionatorio che s’intenda riservare all’atto. Dall’opzione in favore della “nullità” ovvero della “inefficacia” dello stesso negozio divisorio non può che farsi dipendere, in effetti, la definizione di un successivo meccanismo negoziale che miri a salvare l’assetto divisorio non legittimamente venutosi a determinare. Al riguardo, preme rilevare come la problematica appaia decisamente complessa ove ci si riferisca a meccanismi negoziali di recupero di tipo “unilaterale”. Appare del tutto lineare, al contrario, come un successivo accordo al quale prendano parte non soltanto i coeredi già condividenti, ma altresì il coerede escluso, sia di per sé idoneo a dar vita ad un nuovo regolamento di interessi, sostitutivo del primo, proprio in quanto tale nuova fonte dell’assetto divisorio e, con esso, dei relativi tipici effetti, consistenti nell’apporzionamento e nel contestuale scioglimento della comunione ereditaria. A voler accedere alla tradizionale impostazione, che sanziona con la nullità la divisione alla quale non abbia preso parte uno dei coeredi, soltanto un nuovo accordo potrà essere alla base dello scioglimento della comunione ereditaria, risultando il primo, ormai, definitivamente improduttivo di effetti: secondo quanto previsto dall’art. 1423 cod. civ., infatti, “il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”. Non esistendo nel nostro ordinamento una disposizione che, con riguardo alla fattispecie qui oggetto d’esame, legittimi un atto di convalida, l’unico modo per procedere allo scioglimento della comunione ereditaria sarà quello di trovare, appunto, un nuovo accordo, cui prendano parte tutti gli aventi diritto. E, vale la pena precisare, anche i condividenti che già avevano manifestato la propria volontà in sede di conclusione della divisione nulla, potranno discostarsene, non essendo da essa in alcun modo vincolati. Ovviamente, in caso di disaccordo – e ferma restando l’eventuale responsabilità da accertarsi in capo ai condividenti – la via giudiziale risulterà l’unica strada alternativa praticabile. Uno scenario profondamente differente rispetto a quello da ultimo ipotizzato pare dispiegarsi ove si acceda ad una conclusione nel senso della “inefficacia” della divisione ereditaria conclusa senza il consenso di tutti i coeredi. Essendo la divisione inidonea a pro-

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Il riferimento è a Cass., 9 ottobre 2013, n. 22977, in Giur. it., 2014, p. 1356, con nota di M. Forina, dal titolo Scioglimento contrattuale della comunione ereditaria nei confronti di un solo coerede, p. 1362 ss.

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vocare lo scioglimento della comunione mediante l’apporzionamento dei coeredi, ma nel contempo risultando la medesima divisione vincolante per coloro che vi abbiano preso parte, appare evidente come, in effetti, lo strumento negoziale di recupero dell’atto inefficace debba essere rimesso alla volontà del soggetto non partecipante, al quale andrebbe riconosciuto, quindi, il potere di approvazione o ratifica20. Fermo restando, ovviamente, il potere di tutti i coeredi di stipulare un nuovo accordo, eventualmente rimodulando, in tutto o in parte, i termini del primo21. Il richiamo alla figura della “ratifica”, oltretutto, potrebbe consentire l’applicazione alla fattispecie qui oggetto d’esame della disciplina, in quanto compatibile, dettata dall’art. 1399 cod. civ. Quanto, poi, all’ostacolo di carattere dogmatico, consistente nella teorica distinzione tra “approvazione” e “ratifica”22, esso appare comunque superabile, con riguardo all’ipotesi in questa sede al vaglio – quella, cioè, della divisione ereditaria inefficace in mancanza del consenso di tutti i coeredi – essendo la funzione della ratifica proprio quella di rendere efficace nei confronti di un soggetto l’atto compiuto da soggetti non a tanto autorizzati (e, quindi, non legittimati): quella, cioè, di sopperire all’originario difetto di legittimazione sussistente al momento della conclusione del contratto23. Al coerede il quale non abbia preso parte alla divisione ereditaria, quindi, deve essere riconosciuto il potere di ratificare il contratto di divisione inefficace, così consentendo al medesimo di produrre i suoi effetti finali. Al riguardo, non può farsi a meno di operare una precisazione: il coerede escluso dalla divisione originaria può decidere se ratificare o meno quel contratto improduttivo di effetti, ma non può in alcun modo unilateralmente modificarne il contenuto regolamentare. In altre parole, mediante la ratifica il coerede escluso non può incidere sull’assetto divisorio già deciso dai condividenti all’atto della conclusione del contratto, ancorché a sé non favorevole. Proprio tale ultima considerazione sembra indurre, allora, a svolgere qualche ulteriore riflessione sulle possibili funzioni dell’atto di ratifica posto in essere dal coerede escluso dalla divisione; sul punto, tuttavia, si avrà modo di ritornare nella parte conclusiva delle presenti riflessioni24. Che all’atto (unilaterale) di ratifica della divisione ereditaria inefficace, compiuto dal coerede pretermesso, infine, possa ben estendersi la disciplina contenuta nell’art. 1399 cod.

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In tal senso, E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 79, il quale, appunto, riconosce al comunista pretermesso, oltre che il potere di dissentire rispetto all’accordo perfezionato in mancanza del proprio consenso, anche quello di “accettare gli effetti di tale contratto, ed approvarlo o ratificarlo (o aderirvi, qualora il contratto di divisione sia aperto alla sua adesione)”. In prospettiva non dissimile, in sostanza, Cass., 9 ottobre 2013, n. 22977, cit., ove si prospetta “la successiva adesione dei coeredi assenti”. 21 Cfr., ancora, E. Minervini, op. cit., p. 79 s., ad avviso del quale, testualmente, “non può escludersi, poi, che (tutti) i comunisti stipulino un (altro) contratto di divisione, munito degli effetti di cui all’art. 757 c.c., con conseguente eliminazione degli effetti del contratto di cui si discute”. 22 Secondo il tradizionale insegnamento di C.M. Bianca, Diritto civile, 3, cit., p. 124, se, da un lato, “l’approvazione si distingue rispetto alla ratifica del rappresentato perché questa ha per oggetto l’atto compiuto dal non legittimato in nome altrui”; dall’altro, “l’approvazione ha invece ad oggetto l’atto compiuto dal non legittimato in nome proprio”. 23 In tal senso, C.M. Bianca, op. ult. cit., p. 110 s. 24 V. infra, par. 6.

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civ., sembrerebbe più o meno implicito nel ragionamento condotto dalla stessa dottrina che, nel caso in questa sede preso in considerazione, conclude nel senso dell’inefficacia e non dell’invalidità della divisione, nella parte in cui, appunto, prospetta che il contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso25. In effetti, essendo proprio l’art. 1399, co. 3, cod. civ. a riconoscere che il contratto concluso dal falsus procurator possa da questi essere sciolto di comune accordo con il terzo contraente, purché prima della ratifica, e volendo applicare quest’ultima disposizione alla divisione inefficace per omessa partecipazione di uno degli aventi diritto, ai condividenti che abbiano concluso il contratto dovrà riconoscersi il potere di scioglierlo prima del sopraggiungere dell’eventuale ratifica da parte, appunto, del non partecipante.

6. La causa “in concreto” della ratifica. Una volta individuata nella inefficacia la situazione in cui versa la divisione ereditaria cui non abbia preso parte uno dei coeredi – soluzione, quest’ultima, anche maggiormente consona agli interessi in gioco26, nonché, ad ogni buon conto, idonea ad evitare i costi derivanti dalla necessaria ripetizione del contratto di divisione, ove se ne affermi, diversamente, la nullità – appare opportuno svolgere qualche riflessione conclusiva con riguardo al profilo della causa della ratifica, individuata quale possibile strumento di recupero della medesima divisione inefficace. Se è vero, infatti, che, dal punto di vista effettuale, la ratifica posta in essere dal coerede escluso dal negozio divisorio non può che produrre, costantemente, la definitiva efficacia della stessa divisione, sotto il profilo funzionale non pare sussistere, invece, analoga omogeneità, essendo l’elemento della causa destinato a mutare a seconda della funzione in concreto svolta dall’atto. In particolare, potrà ben darsi che la ratifica operata dal coerede escluso risulti connotata da una “causa liberale”. Si dia il caso, in via esemplificativa, che coeredi siano il coniuge del de cuius unitamente ai due figli superstiti e che questi ultimi soltanto abbiano perfezionato il contratto di divisione, escludendo il genitore ed esaurendo l’asse ereditario. Ebbene, alla luce di quanto fin qui rilevato, la divisione in parola dovrebbe ritenersi colpita dalla “inefficacia” e, nel contempo, dovrebbe riconoscersi in capo al genitore escluso il potere di ratificare l’accordo concluso in assenza del proprio consenso. Ove questi pro-

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Così, E. Minervini, op. cit., p. 80. In tal senso, E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 82 s., secondo il quale, appunto, la conclusione nel senso della inefficacia e non della invalidità della divisione consentirebbe di salvaguardare “tanto la posizione del comunista pretermesso (libero di approvare o ratificare, oppur no, il negozio divisorio; in questa seconda ipotesi, libero di chiedere, oppur no, la divisione giudiziale), quanto quella dei comunisti che stipulano il negozio divisorio (il negozio produce tutti gli effetti suoi tipici, restando salva l’approvazione o la ratifica del pretermesso; se il pretermesso rifiuta l’approvazione o la ratifica, gli effetti tipici prodotti in suspenso si risolvono)”.

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ceda a ratificare, quindi, il contratto di divisione inefficace, lo stesso atto di ratifica, ricorrendone i presupposti27, potrà essere qualificato, appunto, alla stregua di una “liberalità”28, con tutte le conseguenze che paiono dipendere da una simile qualificazione, soprattutto in termini di disciplina applicabile: basti qui limitarsi a quanto previsto dall’art. 809 cod. civ. La predetta, tuttavia, non pare l’unica possibile funzione individuabile nell’atto di ratifica posto in essere dal coerede, il quale, pur avendone diritto, non abbia partecipato alla divisione ereditaria. Si prospetti, sempre in via esemplificativa, l’ipotesi in cui, dei tre fratelli coeredi, soltanto due procedano all’atto di divisione, includendo, però, nel contenuto del regolamento divisionale, non solo le proprie quote, ma anche quella da attribuirsi al fratello non partecipante. In tale ipotesi, qualora, successivamente al perfezionamento della divisione ereditaria “inefficace”, il coerede escluso manifestasse la propria volontà di ratificare il negozio divisorio, al relativo atto di ratifica, dal punto di vista funzionale, dovrebbe riservarsi una differente qualificazione. A ben vedere, in effetti, ove si dovesse concludere nel senso della natura “liberale” dell’atto di ratifica, si correrebbe il rischio di non tenere nella dovuta considerazione l’esigenza di bilanciamento degli interessi in gioco, data l’inevitabile applicazione dell’art. 809 cod. civ. e la conseguente esposizione dei coeredi partecipanti all’originario contratto di divisione all’azione di riduzione eventualmente esperibile dai futuri legittimari del coerede ratificante. Appare evidente, piuttosto, come, nell’ipotesi da ultimo prospettata, l’unica possibile alternativa sia quella di fornire una qualificazione della causa dell’atto di ratifica non tanto in termini di “liberalità”, quanto di tipo “divisorio”. In altre parole, l’atto di ratifica posto in essere dal coerede escluso dalla originaria divisione, che rechi, quale principale conseguenza, la definitiva produzione degli effetti della stessa divisione, lungi dal risultare caratterizzato da causa “liberale”, esprimerebbe in sé una causa o funzione “divisoria”29, senz’altro meglio rispondente al concreto assetto di interessi. Del resto, l’effetto venutosi a produrre in virtù dell’avvenuta ratifica da parte del coerede escluso dalla divisione consisterebbe proprio nell’apporzionamento (anche in favore di quest’ultimo), elemento inconfutabilmente reputato essenziale del contratto di divisione30. La possibile individuazione, nell’atto di ratifica compiuto dal coerede, di una “funzione divisoria”, consentirebbe altresì di accostare il medesimo atto di ratifica, ricorrendone i relativi presupposti, al campo di

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Secondo la tradizionale impostazione (per la quale, v. B. Biondi, Le donazioni, nel Trattato Vassalli, XII, Torino, 1961, p. 120, nonché, più di recente, anche per gli opportuni ulteriori riferimenti, A. Palazzo, Le donazioni, Artt. 769-809, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2000, p. 10 e A.A. Carrabba, Donazioni, nel Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2009, p. 850), cui in questa sede s’intende prestare adesione, ai fini della relativa qualificazione in termini di “liberalità”, l’atto deve esprimere la “sostanza” del contratto di donazione e presentare, quindi, quali tratti salienti, “spirito di liberalità” e, in linea di principio, “arricchimento” del beneficiario. 28 Più in particolare, potrà discorrersi in termini di “liberalità non donativa”, ovvero di “donazione indiretta”, ovvero di “liberalità indiretta”: le difficoltà terminologiche sono ben evidenziate da F. Alcaro, Le donazioni indirette, in Vita not., 2001, I, p. 1060. 29 Nel senso della configurabilità di una possibile “qualifica divisoria” in senso lato sembrerebbe esprimersi A. Mora, Scioglimento della comunione ereditaria e divisione, nel Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, IV, Comunione e divisione ereditaria, Milano, 2009, p. 139. 30 Cfr. supra, par. 4.

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applicazione dell’art. 764, co. 1, cod. civ.31, secondo una prospettiva metodologica che in altra sede si è inteso seguire, al fine di individuare possibili profili di disciplina dell’atto di rinunzia alla quota da parte del comproprietario32. In particolare, così, il coerede ratificante potrà esperire l’azione di rescissione, a norma del combinato disposto degli artt. 763 e 764, co. 1, cod. civ., con contestuale riconoscimento in capo agli altri coeredi contro i quali sia promossa l’azione di “troncarne il corso e impedire una nuova divisione, dando il supplemento della porzione ereditaria” (art. 767 cod. civ.). Che la stessa “funzione divisoria” risulti idonea a dare eventualmente colore alla causa dell’atto di ratifica, del resto, sembrerebbe affermazione estensibile anche al di là della fattispecie dianzi considerata. Si dia il caso, allora, che, dei tre fratelli coeredi, soltanto due procedano all’atto di divisione, ma senza prevedere l’attribuzione di quota in favore del coerede non partecipante, e che, successivamente, il terzo fratello decida di ratificare la divisione ereditaria inefficace, in considerazione della circostanza che, avendo già in passato ricevuto dal genitore per donazione, i beni acquisiti in virtù di quest’ultima sarebbero stati, comunque, oggetto di collazione in sede divisoria. Anche nell’ipotesi ora considerata, quindi, riconoscere una “funzione divisoria” all’atto di ratifica non potrà che comportare necessariamente l’applicabilità dell’art. 764, co. 1, cod. civ., nel senso sopra chiarito. Né a tanto potrebbe obiettarsi la mancanza dell’effetto tipico degli atti divisori, vale a dire l’apporzionamento: quest’ultimo, in effetti, potrebbe considerarsi insussistente, nei confronti del ratificante, soltanto ove se ne affermi anche la necessaria contestualità, in relazione a ciascuno dei coeredi. Tuttavia, se la ricostruzione degli interessi sottostanti, nel caso concreto, pare coerente con l’individuazione, nell’atto in parola, di una “funzione divisoria”, lo sfasamento temporale – senz’altro riscontrabile tra la prima attribuzione in favore del coerede escluso ma ratificante, verificatasi illo tempore in virtù della donazione, e l’apporzionamento in favore dei coeredi condividenti, prodottosi per effetto dell’atto di ratifica da parte dello stesso coerede escluso – non sembra potersi rivelare di alcun ostacolo alla riconduzione dell’atto di ratifica, ricorrendone i presupposti, alla categoria degli atti equiparati alla divisione33, essendo, piuttosto, proprio il concetto di apporzionamento a dover essere inquadrato in una nuova e differente prospettiva, la quale tenga conto, per così dire, della relativa possibile articolazione nel tempo34. In conclusione, al fine di delineare la funzione dell’atto di ratifica posto in essere dal coerede, il quale non abbia preso parte alla divisione ereditaria, non pare potersi prescindere dall’esame della c.d. causa “in concreto” del medesimo atto di ratifica. Non essendo

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Si riferisce espressamente ad una “funzione divisoria” relativamente agli atti dei quali è parola nell’art. 764 cod. civ., A. Mora, La divisione. Funzione, natura, effetti, atti equiparati alla divisione, nel Trattato di diritto delle successioni e donazioni, cit., p. 172 s. 32 Si rinvia, al riguardo, alle considerazioni svolte in R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare. Spunti di riflessione sulla causa dell’atto unilaterale, Napoli, 2018, p. 87 ss. 33 Per l’impiego della locuzione “atti equiparati alla divisione”, in una prospettiva senz’altro problematica, v. già A. Cicu, La divisione ereditaria, Milano, 1947, spec. p. 36. 34 Sul punto, sia consentito rinviare alle conclusioni cui si è pervenuti in R. Quadri, op. loc. citt.

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questa la sede più opportuna per affrontare esaustivamente l’argomento, ci si limita qui a rilevare come quest’ultima non possa essere colta se non alla luce di una valutazione complessiva e globale dei rapporti sottostanti dei soggetti coinvolti, tale, quindi, da non ridursi all’esame dell’atto di ratifica nell’isolato contesto conseguente al contratto di divisione inefficace, bensì da estendersi anche ad eventuali atti posti in essere anteriormente – e, eventualmente, pure insieme a soggetti diversi dai condividenti e dallo stesso ratificante – al medesimo contratto divisorio35. Qualora, poi, al di fuori delle fattispecie concrete dianzi considerate, il coerede, il quale non abbia preso parte alla divisione ereditaria, addivenga all’eventuale ratifica soltanto dietro corrispettivo, ovvero a seguito di determinate concessioni da parte dei condividenti (o di uno solo di essi), lo stesso atto di ratifica – qui presumibilmente di natura onerosa e, probabilmente, transattiva – non potrà che allontanarsi dalla sua, per così dire, “naturale” struttura unilaterale, dovendo essere necessariamente collocato nell’ambito di una vicenda di natura contrattuale. Tale ultima circostanza, comunque, non appare in contraddizione con l’esigenza di verificarne la causa “in concreto”, in tale evenienza, invero, da considerarsi ancor più avvertita, risultando il frutto di una valutazione maggiormente complessa, tale da tenere, cioè, conto pure degli interessi sottostanti alle ulteriori prestazioni.

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V., ancora, R. Quadri, op. cit., spec. p. 130 ss.

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La solitudine del testatore anziano* Sommario : 1. Premessa. – 2. La posizione della giurisprudenza. – 3. Le soluzioni possibili. – 4. Considerazioni conclusive.

A problem that emerges in recent years is that of the very advanced age of the testator, who dectates dispositions about his latest wills in a period of his life, in which, even being unable to understand and to want, is vulnerable due to age-related diseases and influenced by people, with whom the testator spends the final part of his existence. The present contribution focus the problem and considers the possible legal remedies.

1. Premessa. I progressi della scienza medica, le mutate condizioni esistenziali e l’allungamento dell’aspettativa di vita hanno fatto affiorare nuove problematiche, legate all’età avanzata, con le quali il giurista è chiamato a misurarsi. In materia successoria, in particolare, è emerso il problema della forma più «sicura» per garantire un passaggio generazionale della ricchezza libero e consapevole, soprattutto nella fase finale della propria esistenza, quando cioè il soggetto, in età avanzata, appare maggiormente vulnerabile. La solitudine affettiva1 nella quale sovente si trova l’anziano2 si riflette anche nella forma prescelta per la trasmissione della propria ricchezza per il periodo in cui non sarà più in vita, affidata allo strumento semplice e alla portata di tutti rappresentato dal testamento olografo. L’enorme casistica giurisprudenziale testimonia, tuttavia, le grandi problematiche, cui il ricorso a tale strumento ha dato luogo.

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Di solitudine dell’anziano con riferimento alla gestione delle informazioni rilevanti per il fine vita parla S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, in Riv. dir. civ., 2014, I, 992 ss., spec. 1002 s. In argomento si rinvia al nostro Gli anziani malati cronici, l’assistenza e la sanità: il problema di una tutela effettiva dei soggetti deboli, in La terza età nel diritto interno e internazionale, a cura di L. Rossi Carleo, M.R. Saulle, L. Siniscalchi, Napoli, 1997, 77 ss.

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Appare opportuno, pertanto, porsi l’interrogativo se l’impiego del testamento pubblico, con il formalismo che lo circonda, possa rappresentare un efficace strumento di tutela per i soggetti più deboli, fra i quali certamente vanno annoverati anche gli anziani3. Quando si parla, infatti, della pianificazione della distribuzione del proprio patrimonio da parte degli anziani, cioè di persone che possono considerarsi soggetti fragili, gli strumenti offerti dall’ordinamento sono costituiti principalmente dal testamento redatto per atto di notaio, nella sua forma pubblica e segreta, e dal testamento olografo che – come noto – è il testamento interamente scritto, datato e sottoscritto di mano del testatore. Per scegliere a quale strumento è opportuno affidarsi occorre però conoscere quali sono le problematiche principali che si pongono nel momento in cui il testatore è una persona anziana e quali sono le strade percorribili e i possibili rimedi che possono essere individuati. Difatti, una problematica che si è manifestata soprattutto negli anni recenti è quella dell’età molto avanzata del testatore medio4 e in tale ultimo caso il problema è che spesso il testatore molto anziano non è però del tutto incapace di intendere e di volere5, ma a causa di malattie senili risulta vulnerabile e facilmente influenzabile ad opera di parenti che si occupano di lui o di estranei o comunque di persone, con le quali il testatore si trova a trascorrere la parte finale della sua esistenza. In effetti, la consapevolezza dell’innalzamento dell’aspettativa di vita induce a redigere il testamento in età avanzata6, alla quale di frequente si accompagna anche una diminuzione della capacità di intendere e di volere; questo perché il prolungamento della vita umana è caratterizzato da una diffusione di malattie senili che – pur non determinando una situazione di totale incapacità della persona – provocano però una capacità ridotta, una debolezza decisionale e un affievolimento della consapevolezza affettiva7, per cui la persona potrebbe decidere di attribuire i propri beni in modo diverso da come avrebbe fatto in assenza di quella malattia o di quell’elemento perturbatore. D’altra parte, il fenomeno della famiglia allargata, nella quale le persone anziane convivono con figli e nipoti, non appartiene alla realtà moderna, ma appare ispirata a una concezione ormai superata dei rapporti familiari, per cui spesso l’anziano, già debole a causa della riduzione delle proprie capacità intellettive, con l’avanzare dell’età si trova in una condizione che è possibile definire anche di dipendenza dai soggetti che lo accudiscono,

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Sottolinea come la «categoria» degli anziani, secondo le proiezioni demografiche, sia «destinata sempre più ad espandersi, raggiungendo così una notevole percentuale dell’intera popolazione» P. Stanzione, Le età dell’uomo e la tutela della persona: gli anziani, in Riv. dir. civ., 1989, I, 439 ss. M. Cinque, Il ruolo del notaio nel testamento pubblico e il problema della capacità naturale dell’«ageing testator», in NGCC, 2011, I, 1032 ss., spec. 1035. S. Patti, Testamento della persona «vulnerabile», principio di conservazione e ragionevolezza, in Liber amicorum Pietro Rescigno, II, Napoli, 2018, 1569 ss. G. De Nova, Il testatore anziano e la forma del testamento, in Juscivile, 2017, 382 ss. Così esattamente in termini, S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, cit., 992 ss., spec. 1000.

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che magari rappresentano il suo unico punto di riferimento e che sovente controllano il flusso di informazioni riguardanti i familiari più lontani.

2. La posizione della giurisprudenza. Come è noto, la diffusione del fenomeno appena descritto ha indotto parte della dottrina a interrogarsi sulla adeguatezza del testamento olografo nell’epoca moderna8, vista anche l’estrema diffusione di testamenti cosiddetti suggeriti9 a persone vulnerabili. L’esame delle massime giurisprudenziali in materia di annullamento del testamento induce a ritenere che non vi sia una vera e propria soluzione al problema dei testamenti cosiddetti suggeriti, ciò perché per guidare la formazione della volontà di una persona molto anziana non è necessario un vero e proprio raggiro, ma sono sufficienti appunto meri suggerimenti10: è evidente che una persona in normali condizioni fisiche e mentali non viene influenzata da suggerimenti o blandizie, mentre una persona che ha una limitata capacità di intendere e di volere a causa di malattie senili o di altre malattie degenerative o di un’età estremamente avanzata può essere viceversa fortemente influenzata da blandizie e suggerimenti11 cui però, come si vedrà, la giurisprudenza nega rilevanza. Infatti, sotto il profilo dell’annullamento del testamento, l’interprete avverte l’inadeguatezza degli strumenti offerti dall’ordinamento e delle relative soluzioni giurisprudenziali, che in questo campo, a differenza che in altri settori, non appaiono coraggiose né innovative, ma rigidamente arroccate su posizioni di difesa del favor testamenti12. Tale senso di inadeguatezza discende dal fatto che il fenomeno in esame si colloca in un’area di confine, un’area da qualcuno definita «grigia»13 e normalmente esclusa dall’ambito di applicazione dei rimedi codicistici previsti per le ipotesi di incapacità di intendere o di volere e di consenso carpito con dolo. L’art. 591, secondo comma, n. 3 c.c. – che riprende le espressioni contenute nell’art. 428, primo comma, c.c. stabilisce – come è noto – che sono incapaci di testare quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati per qualsiasi causa anche transitoria incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento. L’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza al riguardo afferma che, in tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non

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S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, loc. cit. Come acutamente li definisce M. Girolami, I testamenti suggeriti, in Riv. dir. civ., 2016, 562 ss. 10 Cass., 28 maggio 2008, n. 14011, in Foro it., 2009, I, 480 ss. 11 Non sono sufficienti blandizie o suggerimenti, ma occorre la dimostrazione dei mezzi fraudolenti, secondo Cass., 30 ottobre 2008, n. 26258, in Foro it., 2009, I, 792 ss. 12 Cass., 11 aprile 2017, n. 9309, in Riv. not., 2017, II, 818 ss., con nota di C. Cicero, Osservazioni in tema di tutela dei testatori “fragili” (dolo testamentario, captazione e rilevanza delle suspicious circumstances), ivi alla 823 ss. 13 M. Cinque, Il ruolo del notaio nel testamento pubblico e il problema della capacità naturale dell’«ageing testator», cit., 1035. 9

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già di una semplice alterazione delle facoltà psichiche del de cuius, bensì la prova che il soggetto sia stato privo in modo assoluto al momento della redazione dell’atto di ultima volontà della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi14. È agevole avvedersi del fatto che la condizione senile normalmente non integra questi presupposti: la persona non è priva in modo assoluto della coscienza dei propri atti, ma la volontà appare turbata da una condizione di significativa vulnerabilità15. Anche l’istituto dell’annullamento per dolo si rivela inidoneo a rimediare a questa condizione dell’anziano, che rimane irrilevante appunto sotto il profilo dei vizi del volere. Come è noto, la giurisprudenza ritiene che blandizie e suggerimenti altrui non integrino la captazione, cioè quella forma attenuata di dolo che rende impugnabili le disposizioni testamentarie ai sensi dell’art. 624 c.c. Al riguardo basti leggere una delle tante massime che ricorrono, dove si dice che «non è sufficiente a configurare captazione qualsiasi influenza di ordine psicologico esercitata sul testatore mediante blandizie, richieste, suggerimenti o sollecitazioni. A tal fine occorre la presenza di altri mezzi fraudolenti, i quali – avuto riguardo allo stato di salute, alle condizioni di spirito e all’età – siano idonei a trarre in inganno suscitando nella persona del testatore false rappresentazioni e orientando la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata»16. Ad aggravare la situazione e la rigidità della norma relativa al dolo concorre anche il criterio relativo all’onere della prova della captazione17. Infatti, si afferma che essa – pur potendo essere presuntiva18 – deve fondarsi su fatti certi che consentano di identificare e

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V. ad esempio Cass., 23 dicembre 2014, n. 27351, in Giust. Civ. Mass., 2014, secondo cui «In tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo». Nello stesso senso, Cass., 15 aprile 2010, n. 9081, in Giust. Civ. Mass., 2010. 15 In argomento, v. M. Cinque, Capacità di disporre per testamento e “vulnerabilità senile”, in Dir. fam. succ., 2015, 361 ss. 16 V. ad esempio Cass., 4 febbraio 2014, n. 2448, in Diritto & Giustizia, 2014, 5 febbraio, con nota di D. Achille, Captazione testamentaria: lo stato mentale e di salute del testatore costituisce prerequisito (97 ss.). 17 Si legge di frequente in molte sentenze che il concetto di dolo contrattuale e di dolo testamentario (captazione) è unitario, non potendosi, in entrambi i casi, prescindere dalla necessità di un voluto e cosciente impiego di mezzi fraudolenti, idonei a trarre in inganno colui verso il quale sono diretti: così Cass., 14 giugno 2001, n. 8047, in Giur. it., 2002, 730 ss. In particolare, affinché una disposizione testamentaria possa considerarsi inficiata da captazione, il vizio della volontà deve integrare gli estremi del «dolus malus causam dans» previsto in ambito contrattuale. Non è pertanto sufficiente la mera pressione di ordine psicologico esercitata sul de cuius attraverso sollecitazioni, blandizie, ma si richiede, invece, il concorso di ulteriori elementi che presentino i connotati della callidità e dell’illecito e che siano tali da trarre in inganno il disponente e da indurlo a testare in un senso diverso da quello in cui si sarebbe orientato se la sua volontà non fosse stata subdolamente deviata. 18 Cass., 11 aprile 2017, n. 9309, in Riv. not., 2017, 823 ss., con nota di C. Cicero, Osservazioni in tema di tutela dei testatori “fragili” (dolo testamentario, captazione e rilevanza delle suspicious circumstances). Nello stesso senso, Cass., 28 febbraio 2018, n. 4653, in Giust. Civ. Mass., 2018.

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ricostruire l’attività captatoria e la conseguente influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore19. Quanto finora detto pone in luce una vera e propria lacuna dell’ordinamento con riferimento al caso di raggiri blandi, suggerimenti insistenti, lusinghe, menzogne, insinuazioni, che magari inducano a mutare lo stato d’animo del disponente a favore dell’uno o dell’altro soggetto e a isolarlo da alcuni parenti. Ci si riferisce cioè a tutte quelle piccole interferenze che di per sé non sono determinanti, ma sommate tra loro possano portare ad alterare il processo formativo della volontà del testatore anziano. La giurisprudenza viceversa privilegia il favor testamenti rispetto all’indagine sulla reale volontà del testatore. Essa contrasta peraltro con una giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione penale in materia di circonvenzione di incapace20, di cui all’art. 643 c.p., che – come è noto – è il reato di colui che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per sé o per altri dannoso. Ebbene, la giurisprudenza interpreta l’infermità psichica richiesta dalla norma come ogni alterazione psichica derivante sia da un vero e proprio processo morboso sia da una condizione che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive e volitive, mentre la deficienza psichica è identificabile in un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell’infermità, sia comunque idonea a porre il soggetto passivo in uno stato di minorata capacità, in quanto le sue capacità intellettive e volitive o affettive fanno scemare o diminuire il pensiero critico. Vi rientrano per esempio l’emarginazione ambientale, l’instabilità e la debolezza di carattere. La giurisprudenza ha chiarito il concetto di induzione, che postula un’attività positiva diretta a determinare o quantomeno a rafforzare, ostacolando ripensamenti nel soggetto passivo, il proposito di compiere un determinato atto giuridico: invero, indurre vuol dire convincere, influire sulla volontà altrui. Pertanto, nel concetto di induzione possono rientrare tutte quelle condotte di sollecitazione, di suggestione, che vengono rivolte a soggetti spesso affetti anche da particolari patologie invalidanti o degenerative.

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Nello stesso senso, v. Cass., 22 aprile 2003, n. 6396, in Giust. Civ. Mass., 2003; Cass., 28 maggio 2008, n. 14011, in Foro it., 2009, I, 2, 480 ss.; Cass., 16 gennaio 2014, n. 824, in Guida al diritto, 2014, fasc. 16, 93 (solo massima). 20 V., ad esempio, Cass. pen., 12 giugno 2014, n. 28907, in Guida al diritto, 2014, fasc. 34-35, 49.

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3. Le soluzioni possibili. Questa evidente carenza di tutela, questa “penombra” della zona grigia “popolata” dalle persone fragili nel momento della fine della loro vita ha indotto la maggior parte della dottrina, non solo italiana, ad interrogarsi sulle possibili soluzioni. Tra le soluzioni proposte, si menziona quella secondo cui il testamento olografo dovrebbe essere riservato soltanto a chi debba disporre relativamente a patrimoni esigui21 ovvero quella di chi vorrebbe imporre un limite di età per il testamento olografo22, vietandolo per certi anziani23, anche se tale soluzione appare non accettabile, sia perché le generalizzazioni non costituiscono mai la soluzione del problema, sia alla luce della consapevolezza e della pienezza di capacità24 che caratterizza talune persone anziane25. Se si riflette ad esempio sulla legge sull’amministrazione di sostegno, essa sembra favorire l’idea del permanere dell’autonomia del singolo26, della capacità di autodeterminarsi, salvo ipotesi in cui sia necessario privarlo in tutto o in parte di tale capacità. C’è poi chi – sia pure in altri ordinamenti – ha proposto di prevedere una presunzione di incapacità a partire da una certa età27. A dire il vero questa soluzione non soddisfa e appare discriminatoria. Appare certamente più soddisfacente quell’inversione dell’onere probatorio che nel common law viene prevista in caso di circostanze sospette28, nel senso di attribuire all’istituito dal testamento l’onere di provare la libera e spontanea volizione da parte del testatore, prova tuttavia che non sempre appare agevole. Alla luce della carenza di tutela che si è cercato di porre in evidenza, occorre allora chiedersi se il testamento pubblico possa fungere da strumento di tutela delle persone vulnerabili e, in particolare dell’anziano. Gli argomenti a favore di una risposta positiva a tale quesito sono molti.

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Teoria che ha trovato seguito soprattutto nella dottrina tedesca e per la quale si rinvia a S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, cit., 1007, nota 63. 22 S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, cit., 1007. V. in argomento G. De Nova, Autonomia privata e successioni mortis causa, in Jus, 1997, 273 ss.; A. Bucelli, Testamento olografo redatto da persona anziana: questioni di validità e qualificazione, in Fam. pers. succ.,, 2006, 719. 23 G. Bonilini, Sulla proposta di novellazione delle norme relative alla successione necessaria, in Fam. pers. succ., 2007, 581 ss., spec. 586. 24 «Dalla piena capacità non si decade, almeno per motivi dipendenti dall’età»: così P. Stanzione, Le età dell’uomo e la tutela della persona: gli anziani, cit., 447, il quale osserva ancora che, in effetti, alla persona ultracentenaria è, ad esempio, consentito riconoscere un figlio naturale. 25 Ancora attuale, anche se in quella sede riferito a tutt’altro ambito, appare l’interrogativo di C.M. Bianca, Senectus ipsa morbus?, in Rass. dir. civ., 1998, 241 ss. 26 S. Patti, Senilità e autonomia negoziale della persona, in Fam. pers. succ., 2009, 259 ss. 27 J.C. Sonnekus, Freedom of Testation and the Ageing Testator, in Exploring the Law of Succession, a cura di K. Reid, M. De Waal, R. Zimmermann, Edinburgh, 2007, 78 ss. 28 C. Cicero, Osservazioni in tema di tutela dei testatori “fragili” (dolo testamentario, captazione e rilevanza delle suspicious circumstances), in Riv. not., 2017, II, 823 ss.

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In primo luogo, la presenza del notaio quale pubblico ufficiale e di due testimoni, cioè la sussistenza del formalismo che circonda l’atto, normalmente è vista come una garanzia di genuinità delle disposizioni testamentarie. In effetti, il controllo del notaio si esercita sia nella fase di trasposizione della volontà del disponente in termini giuridicamente comprensibili, sia in ordine alla verifica dell’effettiva condizione della capacità di intendere e di volere del testatore. Sotto il primo profilo, il notaio può supplire ad eventuali incompetenze o difetti di cognizioni tecniche del testatore, così come può garantire una fedele riproduzione delle scelte che questi esprime in merito alla distribuzione della propria ricchezza. Sotto il secondo profilo, la legge notarile, come è noto, impone al notaio di indagare sulla volontà del disponente. È chiaro che non è richiesta una vera e propria indagine sulla capacità naturale del soggetto29, anche perché probabilmente il notaio non ha le competenze per poterla compiere. In effetti, nella realtà moderna il notaio non riceve soltanto persone che conosce e che magari segue da una vita30, ma anche sconosciuti dei quali non ha seguito la sorte, l’evoluzione della vita, della salute. È chiaro che – se però l’incapacità di intendere e di volere dovesse palesarsi nel corso della ricerca delle volontà espresse con l’atto – il notaio dovrebbe venire meno all’obbligo di cui all’art 27 della legge notarile di prestare il suo ministero. È comunque evidente, e la dottrina non ha mancato di porlo in luce31, che il notaio, testando lo stato di capacità di intendere e di volere del testatore, non presta una dichiarazione coperta dalla pubblica fede, perché – come è noto – la pubblica fede copre soltanto la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, le dichiarazioni delle parti e gli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Quindi, la pubblica fede copre l’esistenza dell’accertamento in ordine alla capacità, ma non certo i suoi risultati. Certo, si tratta già di un filtro di non manifesta incapacità del testatore, spesso accompagnato da un certificato medico che il notaio richiede al fine appunto di attestare la capacità di intendere e di volere e può orientare anche il giudice, il quale però non è naturalmente vincolato ad esso. Parte della dottrina32 ritiene che il testamento pubblico però non preservi l’atto dalla sua impugnazione e non metta al riparo dalle incertezze e dai costi del giudizio. Peraltro, non mancherebbe il rischio che con un successivo testamento olografo il testatore revochi la volontà espressa in un precedente testamento pubblico.

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In argomento v. V. Del Re, Responsabilità civile del notaio per rogazione di testamento successivamente annullato per incapacità naturale del testatore, in Resp. civ. prev., 2008, p. 890 ss.; M. Leo, Incapacità naturale e attività notarile, in nota a Cass., 24 ottobre 1998, n. 10571, in Riv. not., 1999, p. 1041 ss. 30 La relazione tra il notaio e il suo cliente è divenuta sempre più superficiale ed estemporanea: così A. Lomi, La valutazione diagnostica a protezione del Cliente e del Notaio, in Italian Journal of Legal Medicine, 2016, p. 60 ss. 31 Così M. Cinque, Il ruolo del notaio nel testamento pubblico e il problema della capacità naturale dell’«ageing testator», cit., 1035. 32 M. Girolami, I testamenti suggeriti, cit., 580 ss.

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D’altra parte, anche il testamento olografo potrebbe presentare alcuni vantaggi: difatti la forma olografa consente di analizzare la grafia del testatore e di apprezzare il tenore delle disposizioni che invece non sono apprezzabili nel momento in cui si redige un testamento in forma pubblica, laddove l’autografia manca e manca anche la scelta delle parole, così come l’organizzazione delle volontà testamentarie. Si è posto in luce che però nell’ottica moderna il testamento olografo abbia un innegabile difetto, costituito dal fatto che mancano spesso le scritture di comparazione33, anche se in realtà sovente il giudice richiede il deposito della carta d’identità34, dalla quale è possibile desumere la scrittura di una persona. È invero innegabile che nell’arco dei dieci lunghi anni della sua validità, la scrittura possa cambiare, ma non cambia la proporzione fra le lettere e altri indici che gli esperti grafologici non hanno mancato di porre in luce35, considerandoli idonei a consentire una verifica della autografia delle disposizioni testamentarie. Peraltro, ora è uso anche depositare in banca la propria firma, che viene scannerizzata e spesso aggiornata, quindi, agevolmente utilizzabile come scrittura di comparazione. Parimenti non sfugge che il testamento olografo presenti rischi maggiori, come testimonia la ricca casistica giurisprudenziale. Scrive infatti Carrara36 che «il testamento olografo non ha solennità alcuna finché è nelle mani dello scrivente che può lasciarlo o distruggerlo. Tutta l’autenticità gli è data dalla morte che lo rende irretrattabile od, a meglio dire, gli conferisce vita giuridica la quale fino a quel momento non era che in embrione». In un’ottica di maggiore tutela della volontà del disponente, sarebbe forse utile riflettere sull’attualità e sull’adeguatezza della norma che prevede il divieto dei patti successori37 e sull’opportunità di una sua abrogazione, al fine di consentire la stipulazione di un contratto successorio che, proprio per la sua natura di contratto, non sarebbe soggetto a revoca ad opera di una successiva scrittura, o quantomeno l’adozione di determinate forme contrattuali già esistenti per disporre in vita delle proprie sostanze in alternativa al testamento38. Il principale ostacolo ad una regolamentazione contrattuale della vicenda successoria è rappresentato dall’art. 458 c.c., che – come è noto – prevede la nullità di ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione, nonché di ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia

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S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, cit., 998 s. Sul punto, in giurisprudenza, cfr. 6 marzo 2019, n. 6460, in Giust. civ. Mass., 2019; Cass., 6 settembre 2005, n. 17794, ivi, 2005. Sulla necessità che sia certa la provenienza delle scrittura di comparazione da colui al quale si vuole attribuire il documento oggetto dell’accertamento giudiziale cfr. Cass., 5 gennaio 2001, n. 129, in Giur. it., 2001, p. 1351. 35 V. Tarantino, L’anziano e la scrittura, in Il testamento olografo. Aspetti giuridici clinici grafologici, in Atti del 1° Convegno Nazionale dell’Istituto di grafologia forense, a cura di di M. Aloia, G. Giordano, F. Morgese, Napoli, 2004, p. 163 ss. 36 Nella Giur. it. del 1898. 37 È una delle soluzioni proposte da S. Patti, Il testamento olografo nell’era digitale, cit., 1007. 38 In argomento v. tra molti E. Lucchini Guastalla, Divieto della vocazione contrattuale, testamento e strumenti alternativi di trasmissione della ricchezza, in Tradizione e modernità nel diritto successorio: dagli istituti classici al patto di famiglia, a cura di S. Delle Monache, Quaderni della Rivista di diritto civile, Padova, 2007, 139 ss. 34

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ai medesimi. In base a tale norma è pertanto esclusa la possibilità di comprendere tra le cause di delazione, accanto al testamento (e alla legge), il contratto. Nella prospettiva in esame, riveste interesse soprattutto il fondamento della nullità dei patti successori istitutivi39, tradizionalmente indicato nell’esigenza di salvaguardare la libertà testamentaria40, che potrebbe essere compromessa dal ricorso allo strumento contrattuale, stante il vincolo irrevocabile da esso derivante. La libertà testamentaria, infatti, sarebbe gravemente limitata dal ricorso al contratto, potendo questo essere sciolto solo per mutuo consenso delle parti o nei casi tassativamente previsti dalla legge e, dunque, di fatto impedendo al testatore di modificare le disposizioni di fine vita in ipotesi di mutamento delle circostanze. La previsione della nullità dei patti successori appare, inoltre, intimamente connessa al principio di tipicità della delazione successoria, che prevede solo due forme di successione, per legge e per testamento, con esclusione di qualsivoglia delazione contrattuale. La sola eccezione è attualmente rappresentata dal patto di famiglia41, per il quale si avverte già da tempo l’esigenza di un ampliamento della disciplina42. Il dibattito circa la necessità, anche alla luce delle esperienze europee43, di un superamento degli stretti limiti del diritto successorio è stato negli ultimi anni piuttosto acceso,

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Mentre, come è noto, il fondamento dei patti dispositivi e rinunziativi viene ricondotto all’esigenza di evitare convenzioni immorali o socialmente pericolose. La letteratura è vasta. In questa sede si richiamano fra i molti: P. Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita not., 1993, 1281 ss.; Id.; Attualità e destino dei patti successori, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, passim; V. Roppo, Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, 5 ss.; M. Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not., 1997, 1371 ss.; A. Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Trattato di diritto comparato, diretto da R. Sacco, Torino, 2002, 155 ss. 40 Si afferma ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum: in altri termini, il testatore è libero di mutare la volontà rispetto alla propria successione fino alla morte. 41 L’art. 458 c.c. fa infatti salvo quanto disposto dall’art. 768-bis c.c. introdotto dalla l. 4 febbraio 2006, n. 55, in materia di patto di famiglia, istituto che intende soddisfare l’esigenza di garantire il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia, assicurando nel contempo i diritti dei legittimari. La novella ha inserito gli articoli dal 768-bis al 768-octies nel nuovo capo V-bis (Titolo IV, Libro II), modificando l’art.458 c.c., con la previsione della clausola di salvezza sopra indicata. Sul patto di famiglia è stato scritto molto. Senza alcuna pretesa di completezza si rinvia a: A. Zoppini, Profili sistematici della successione anticipata (note sul patto di famiglia), in Studi in onore di Giorgio Cian, Padova, 2010, passim; Id., Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie “in forma indiretta”, in Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Diritto privato, Milano, 1998, passim; L. Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da G. Alpa e S. Patti, Padova, 2009, 467 ss.; Id., sub art. 1, Il patto di famiglia, Commentario sub art. 768 bis, a cura di L. Balestra e S. Delle Monache, in NLCC, 2007; G. Bonilini, Patto di famiglia e diritto delle successioni mortis causa, in Fam. pers. succ., 2007, 390 ss.; G. Oberto, Lineamenti essenziali del patto di famiglia, in Fam. dir., 2007, 407 ss.; Id., Il patto di famiglia, Padova, 2006, passim; A. Palazzo, Il patto di famiglia tra tradizione e rinnovamento del diritto privato, in Riv. dir. civ., 2007, 261 ss; B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la L. 14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006, passim; P. Vitucci, Ipotesi sul patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2006, 447 ss.; M. Ieva, I fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2001, passim. 42 In argomento, v. A. Zoppini, Il patto di famiglia. Linee per la riforma dei patti per le successioni future, in Studi in onore di L. Salis, Torino, 2000, vol. II, 1265. 43 Per una disamina della normativa vigente in materia in Germania e in Svizzera, v. S. Patti, Contratti ereditari e contratti di rinunzia all’eredità nell’esperienza germanica, in Familia, 2018, 195 ss. V., inoltre, M.D. Panforti, Privilegio ed eguaglianza nell’evoluzione del modello familiare di common law. Riflessioni comparative sulla trasmissione intergenerazionale dei beni, in Familia, 2002, 425 ss. Cfr. http://www.successions-europe.eu, ove è possibile consultare le informazioni più significative relativamente al diritto successorio di 22 Paesi europei.

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e ha fatto emergere l’esigenza quantomeno di un’attenuazione del divieto, sulla scia di quella realizzata appunto con la riforma del patto di famiglia. In effetti, in altri ordinamenti si è evitato di riprodurre il divieto, proprio della tradizione romanistica, di patti che avessero l’effetto di porre limiti alla libertà testamentaria ed è prevalsa la tutela di altri interessi, tra i quali – per quanto qui interessa – quelli attinenti al rapporto tra genitori e figli: così si è conferita rilevanza proprio all’esigenza di evitare che il testatore – soggetto particolarmente fragile nella parte finale della propria esistenza – sia indotto, per i motivi sopra ampiamente esposti, a testare a favore di persone estranee alla famiglia, con la conseguenza di costringere i figli a costosi ed estenuanti processi44 volti a dimostrare quella debolezza decisionale e quell’affievolimento della consapevolezza affettiva, di cui si è dato conto sopra, stante l’interpretazione giurisprudenziale particolarmente rigida in materia. In Italia, allo stato, l’esistenza del divieto contenuto nell’art. 458 c.c. non consente neppure la stipulazione di un contratto atipico ai sensi dell’art. 1322 c.c., nonostante la meritevolezza degli interessi che esso possa in concreto perseguire. Difatti, proprio per superare tale ostacolo, di recente è stato presentato in Senato un disegno di legge recante «Delega al Governo per la revisione del codice civile»45, che – nel quadro di una serie di significative innovazioni che toccano vari settori (dalla disciplina delle associazioni e fondazioni sino al trust, dagli accordi prematrimoniali alla riforma di taluni aspetti delle successioni mortis causa, dal contratto alla responsabilità civile) – detta, fra l’altro46, principi e criteri direttivi in materia di patti successori: esso consente, sia pure a determinate condizioni, i patti successori cosiddetti istitutivi, limitandoli però alla devoluzione di «beni del patrimonio ereditario» che siano specificamente individuati e in favore di «successori» pure «ivi indicati», elimina il divieto di patti successori cosiddetti rinunciativi, con la significativa limitazione dell’inderogabilità della quota riservata ai legittimari. Siccome, però, la delega consente di prevedere la rinuncia irrevocabile anche

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Vi fa riferimento S. Patti, Contratti ereditari e contratti di rinunzia all’eredità nell’esperienza germanica, cit., 196. D.D.L. S. 1151, di iniziativa governativa, presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri Conte, di concerto con il Ministro della giustizia Bonafede, in data 19 marzo 2019, consultabile on line su www.senato.it. 46 Sempre in materia di diritto delle successioni, uno degli ambiti di intervento concerne i diritti che l’art. 536 c.c. riserva ai legittimari, nel senso di consentire la trasformazione della quota del patrimonio ereditario riservata ai legittimari in una quota del valore del patrimonio ereditario al momento dell’apertura della successione, garantita da privilegio speciale sugli immobili che ne fanno parte o da privilegio generale sui beni mobili che costituiscono l’asse ereditario in caso di mancanza di beni immobili. Invero, il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, in l. 14 maggio 2005, n. 80, che aveva riformato gli artt. 561 e 563 c.c., era stato da più parti ritenuto inadeguato rispetto alla dichiarata finalità di agevolare la circolazione dei beni immobili provenienti da donazione, limitata dalla esperibilità dell’azione di riduzione. Con il d.d.l. in esame ci si propone di trasformare l’attuale quota di legittima «in natura» in una quota di legittima cosiddetta «in valore»: il relativo diritto è configurato come diritto di credito, assistito da garanzia reale, che per sua natura è idonea a fornire una più efficace tutela ai legittimari lesi o pretermessi. Così come concepito, l’intervento di riforma non inciderebbe sulle norme relative ai legittimari e sull’entità delle rispettive quote, con ciò favorendo l’adeguamento della normativa successoria italiana a quella dei principali Paesi europei, ma nel contempo salvaguardando le tradizionali finalità di tutela sottese all’istituto della successione necessaria. Infatti, la configurazione della quota di legittima come diritto di credito consente la soddisfazione anche con uno soltanto dei beni ereditari ovvero con beni diversi da quelli compresi nell’asse ereditario, agevolando così la circolazione di questi ultimi e la stabilità del relativo acquisto iure successionis. Sul punto, v. L. Gatt, Memento mori. La ragion d’essere della successione necessaria in Italia, in Fam. pers. succ., 2009, 540 ss. 45

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alla successione «in particolari beni», se viene contestualmente attuata la delega nella parte che prevede che la quota di legittima si trasformi in quota di valore, attributiva di un diritto di credito garantito da privilegio, speciale o generale, sarebbe possibile consentire la rinuncia irrevocabile alla successione necessaria in riferimento a particolari beni, con ciò favorendone la circolazione. Il disegno di legge sopra brevemente illustrato appare una soluzione di compromesso rispetto alle istanze espresse dalla dottrina, da un lato, in ordine all’abolizione delle norme in materia di legittima (ampiamente disattese), dall’altro al riconoscimento della piena ammissibilità dei patti successori, che verrebbero introdotti, ma con forti limiti. Esso non soddisfa; tuttavia, va valutato, sia pure con prudenza, positivamente nella misura in cui si pone, come emerge dalla relazione illustrativa, un obiettivo di adeguamento, che consenta alla normativa italiana di allinearsi a quella dei principali Paesi europei, pur non pervenendo ancora a risultati significativi sotto tale profilo. Il disegno di legge rappresenta comunque un ulteriore timido passo verso una valorizzazione dell’autonomia contrattuale nel diritto delle successioni e pone in luce la necessità di intervenire poderosamente per pervenire alla soluzione dei nuovi problemi e delle nuove esigenze emersi nel tessuto sociale. Ciò posto, il disegno di legge appare eccessivamente specifico, pecca di una visione d’insieme e non soddisfa le esigenze di una radicale riforma dell’intera materia. Manca, inoltre, la previsione della possibilità di accesso ai patti successori per i conviventi, neppure come contenuto eventuale del contratto di convivenza.

4. Considerazioni conclusive. Le esigenze di tutela del testatore anziano, che si è cercato di illustrare, sia pure brevemente, impongono un ripensamento della materia successoria. Il giurista, tuttavia, deve fare affidamento solo sugli strumenti attualmente a disposizione ed essi non comprendono per il momento – al di fuori dell’ipotesi, di carattere eccezionale, del patto di famiglia – lo strumento contrattuale. La tentazione di percorrere la via di un’interpretazione analogica di alcune norme, si pensi ad esempio, a quelle in materia di negoziazione assistita47 volta alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, pur rappresentando una lusinga, peraltro non priva di suggestioni, appare preclusa dal carattere eccezionale delle relative norme e comunque lontana dal formalismo che connota la materia successoria. Occorre forse allora rivalutare il ruolo del notaio che, proprio per la sua funzione pubblica, può fungere da «paladino» della tutela dei testatori più vulnerabili, contribuendo ad

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Norme introdotte con d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in l. 10 novembre 2014, n. 162.

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evitare l’alternativa processuale, considerazione quest’ultima che riecheggia la nota frase attribuita a Francesco Carnelutti «tanto più notaio tanto meno giudice». Nel 1955, Aldo Moro, allora Ministro di Grazia e Giustizia, spiegava così quella frase: «Là dove il giudice assume una funzione risanatrice e riordinatrice per così dire, della patologia della vita giuridica, il notaio ne assume una efficacemente preventiva dei conflitti, mediante la quale esso contribuisce potentemente alla realizzazione dell’ordine sociale. Ma al di là della posizione formale, che il notaio assume, di mediatore tra pubblico e privato, il notaio è anche l’equilibrato e responsabile consulente delle parti nella formazione ed espressione della loro volontà giuridicamente rilevante. È qui che la preparazione tecnica, la sensibilità umana, il senso sociale del notaio possono avere la loro esplicazione con effetti benefici di rilevante portata ed è qui che il notaio svolge in concreto un’attività veramente efficace per muovere ed orientare in senso costruttivo la vita sociale»48.

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Estratto dal discorso pronunciato da Aldo Moro, Ministro di Grazia e Giustizia, nel 1955, in occasione della VII Giornata Internazionale del Notariato Latino.

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I quindici anni della legge 40: nemesi e questioni aperte nella disciplina della fecondazione assistita* ** Sommario : 1. Premessa. – 2. La legge 40 tra ideologia e tecnica legislativa. – 3. L’illegittimità dei limiti originari alla creazione e all’impianto di embrioni. – 4. La sorte degli embrioni crioconservati. – 5. L’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa. – 6. I requisiti soggettivi di accesso alla p.m.a. – 7. La diagnosi preimpianto e le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili. – 8. La donazione di gameti: principi fondamentali. – 9. I requisiti di eligibilità alla donazione di gameti e la selezione dei donatori. – 10. Donatori e beneficiari di gameti. La prospettiva delle donazioni non anonime a soggetti determinati. – 11. Anonimato del donatore di gameti e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. – 12. Segue: L’effettività del diritto del nato attraverso la fecondazione eterologa alla conoscenza delle sue origini.

The present article tackles the issue of medically assisted reproduction in the Italian legal system. In little more than a decade, the most important aspects of the statute no. 40/2004 have been deeply changed by several judgments of the Italian Constitutional Court. Nevertheless, some crucial questions are still open and worth further discussion. Thus, this paper addresses the following points: the treatment of the supernumerary embryos; the subjective requirements to have access to the heterologous insemination; the donation of gametes; the right of the donor-conceived people to have information about the donor and their origins.

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Il contributo sviluppa, con gli opportuni aggiornamenti, l’intervento svolto in occasione del seminario italo-colombiano “Libertà e responsabilità di disporre del proprio corpo”, tenutosi a Pisa il 18 settembre 2018 e organizzato dal Prof. Aldo Petrucci, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, e dal Prof. Edgar Cortés, della Facultad de Derecho della Universidad Externado de Colombia.

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1. Premessa. Ha compiuto quindici anni la l. 19 febbraio 2004, n. 40, con cui il legislatore aveva tentato di apprestare un quadro normativo organico alla procreazione medicalmente assistita (p.m.a.). È difficile dire dopo quanto tempo sia opportuno trarre un bilancio dei risultati di un provvedimento legislativo. La singolare sorte della legge 40, tuttavia, induce a credere che, nel nostro caso, tre lustri siano un arco temporale più che sufficiente. Il legislatore, infatti, quasi non accorgendosi dell’estrema delicatezza dei temi che si accingeva a disciplinare1 – diritto di procreare, tutela della salute della donna, soggettività dell’embrione, libertà di ricerca scientifica –, anziché procedere con «mano leggera», verso soluzioni elastiche e rispettose delle sensibilità e delle tribolazioni individuali2, componeva invece un quadro di regole rigide, controverse3 e “dominate dall’ideologia”, come ebbe modo di segnalare un illustre civilista già durante l’iter parlamentare4. Tuttavia, in meno di dieci anni, gli assi portanti della legge 40 sono stati profondamente modificati dalle decisioni della Consulta, che ha ricondotto gli eccessi manichei del testo nei ranghi della legalità costituzionale. Altri profili problematici, invece, restano ancora irrisolti.

2. La legge 40 tra ideologia e tecnica legislativa. Uno degli argomenti che avevano fortemente condizionato la discussione attorno alla legge 40 era stato quello secondo cui la nuova normativa avrebbe finalmente colmato la mancanza di regole in materia, mettendo dunque ordine in uno scenario che veniva comunemente descritto come un “far west”: metafora, quest’ultima, di indubbia efficacia retorica, e funzionale a un certo disegno retrivo di politica del diritto, ma non altrettanto fedele alla realtà5.

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G. Vettori, La fecondazione assistita fra legge e giudici, in Persona e mercato, 2016, 14. G. Ferrando, Libertà, responsabilità e procreazione, Padova, 1999, 293. A. Barenghi, Considerazione introduttive, in Procreazione assistita e tutela della persona, a cura di A. Barenghi, Padova, 2011, 7 ss. P. Rescigno, Una legge annunciata sulla procreazione assistita, in Corr. giur., 2002, 983, secondo cui a una disciplina del genere sarebbe stato piuttosto preferibile il vuoto normativo. Non a caso, la legge, l’anno dopo la sua approvazione, fu sottoposta a quattro referendum, ma la consultazione non fu valida, avendo partecipato al voto solo circa il 25% degli elettori. S. Rodotà, Perché laico, Roma-Bari, 2010, 141 s.; A. Barenghi, op. cit., 7.

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Anche prima della legge 40, infatti, la p.m.a. era comunque regolata da circolari ministeriali e soggetta al codice di deontologia medica6, il quale, già nella versione del 1998, poneva precisi limiti agli operatori7. Le prescrizioni di tale codice, a ben vedere, non erano troppo diverse da quelle che sarebbero poi state adottate dal legislatore: tuttavia, è stato messo in luce come, sul piano pratico, sussistesse, in realtà, una differenza notevole, giacché le prime, nella prassi, avevano ricevuto un’interpretazione piuttosto “liberale”, mentre le seconde, diversamente, avrebbero invece incontrato un’interpretazione “massimalista”, diffusa sia tra i sostenitori sia tra i critici del provvedimento8. D’altro canto, la lettura “massimalista” era quella più coerente con l’intento della legge, dichiarato all’art. 1, di assicurare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Tale esordio, muovendo dal presupposto che l’embrione sia un soggetto giuridico9, anziché un “oggetto” di tutela10, si prestava infatti a essere letto come il tentativo di affermare una sorta di parificazione tra la posizione di chi ancora non è nato né divenuto feto e la posizione delle “persone reali”11. Questo tentativo, invero, non ha poi avuto gli esiti dirompenti che erano stati paventati, confermando, semmai, la latente rottura della tralatizia equazione tra soggettività e capacità giuridica, senza, però, “dilatare” quest’ultima fino ad anticiparne l’attribuzione a un momento precedente alla nascita12. Ciò nondimeno, se l’enunciato normativo non è pervenuto a sovvertire il bilanciamento di interessi da cui la

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U. Salanitro, I requisiti soggettivi per la procreazione assistita: limiti ai diritti fondamentali e ruolo dell’interprete, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 1360; A. Barenghi, op. cit., 7 ss. 7 In particolare, l’art. 42 chiariva che le tecniche di p.m.a. avrebbero dovuto mirare soltanto a ovviare alla sterilità umana, contemplando altresì una serie di divieti espliciti, come quello di attuare forme di maternità surrogata, quello di procedere alla fecondazione assistita al di fuori delle coppie eterosessuali stabili, quello di praticare tali tecniche su donne in menopausa non precoce o di darvi seguito dopo la morte del partner. Veniva poi esclusa ogni pratica ispirata a pregiudizi razziali, nonché ogni possibilità di selezione dei gameti o di sfruttamento commerciale, pubblicitario o industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali, nonché, infine, la produzione di embrioni al solo scopo di ricerca. Inoltre, erano bandite le procedure di fecondazione assistita condotte all’interno di studi, ambulatori o strutture sanitarie che non avessero idonei requisiti. 8 U. Salanitro, op. cit., 1360 s., che ricorda come l’ambito di applicazione delle tecniche di p.m.a. delimitato dal codice di deontologia medica fosse stato esteso anche alle coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche, laddove, invece, il divieto di selezione dei gameti era stato oggetto di una lettura restrittiva, volta ad ammettere la diagnosi genetica preimpianto e la dismissione degli embrioni malati. Al contrario, nell’interpretazione della l. 40/2004, erano invalse opzioni ermeneutiche di senso opposto, senza peraltro valorizzare alcuni indizi normativi divergenti, come la mancanza di un esplicito divieto alla diagnosi preimpianto, l’affermazione del diritto della coppia di ottenere informazioni sulla salute dell’embrione da impiantare e, infine, l’inesistenza di una sanzione per il caso di accesso alle pratiche di fecondazione assistita da parte di coppie fertili. 9 F.D. Busnelli, Il problema della soggettività del concepito a cinque anni dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 187 ss., 193 ss. 10 C.M. Mazzoni, La tutela reale dell’embrione, in Nuova giur. civ. comm., 2003, II, 457 ss. 11 M. D’Amico, La Corte costituzionale chiude la porta agli scienziati in nome della dignità dell’embrione, in BioLaw Journal, 2/2016, 173. 12 F.D. Busnelli, L’inizio della vita umana, in Id., Persona e famiglia, Pisa, 2017, 174 ss. (già in Riv. dir. civ., 2004, I 533 ss.); F. Giardina, Art. 1, in Comm. cod. civ. diretto da E. Gabrielli, Disposizioni sulla legge in generale, artt. 1-10 c.c., a cura di A. Barba-S. Pagliantini, Torino, 2012, 339 s. Sui profili di possibile dissociazione tra soggettività e capacità giuridica, P. Zatti, Diritti del non-nato e immedesimazione del feto nella madre: quali ostacoli per un affidamento del nascituro, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 113 ss.

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giurisprudenza costituzionale13 aveva tratto la legittimità dell’interruzione di gravidanza14, tuttavia, all’interno della legge 40, lo stesso aveva pur sempre rappresentato l’antecedente programmatico di soluzioni destinate a gravare sulla donna, sulla coppia e, nel caso della ricerca scientifica, perfino sulla collettività15. Del tutto inedito era invece il divieto che aveva colpito la fecondazione eterologa (art. 4, terzo comma), in nome di una netta scelta di rottura con il passato, quando tale tecnica risultava ammessa16, ancorché non fosse a carico del Servizio sanitario nazionale, ma venisse praticata all’interno di strutture private, nel rispetto di linee guida che le società scientifiche si erano date per elaborare protocolli clinici adeguati17. Tanto era acquisita la legittimità della p.m.a. eterologa che la Corte costituzionale18 e la Corte di Cassazione19 avevano affermato pure il condivisibile principio secondo cui il marito che avesse prestato il proprio consenso all’utilizzo di gameti provenienti da un terzo non avrebbe poi potuto sconfessare in seguito tale volontà disconoscendo il figlio. Detto principio, peraltro, era stato altresì accolto dalla stessa legge 40, la quale, in modo un po’ ambiguo, intendeva comunque regolare il caso in cui la coppia avesse trasgredito il divieto, sebbene, così facendo, l’ordinamento finisse proprio per riconoscere quel risultato che intendeva, invece, contrastare20. Al netto di queste osservazioni preliminari, è comunque da ritenere che un intervento legislativo, in un campo così complesso, non fosse, di per sé, indesiderabile. Sono infatti qui chiamati in causa i diritti fondamentali delle persone – a partire da quello alla salute e alla vita privata e familiare – ed emergono questioni bioetiche di grande rilievo21, le

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Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, in Dir. fam. pers., 1975, 375, con nota di F. dall’Ongaro e di G. Tranchina; e v. anche Corte cost., 10 febbraio 1997, n. 35, in Giur. cost., 1997, 281, con nota di C. Casini e M. Olivetti. 14 U. Salanitro, La procreazione medicalmente assistita, in Tratt. dir. fam. diretto da G. Bonilini, IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3662 ss. Per una lettura tesa a ridimensionare l’art. 1, l. 40/2004, alla luce dell’art. 1 c.c., P. Zatti, Corpo nato, corpo nascente, capacità, diritti: l’art. 1 cod. civ. e la vita prenatale, in Id., Maschere del diritto volti della vita, Milano, 2009, 178. 15 M. D’Amico, op. loc. cit. 16 In effetti, anche nei contributi meno recenti, la dottrina si interrogava più sulle regole da apprestare alla fecondazione eterologa, e in generale ai centri di p.m.a., piuttosto che sull’opportunità di vietarla del tutto, essendo prevalente l’orientamento (benché talora per niente entusiasta) incline ad ammetterla; v., da varie angolazioni, G. Ferrando, Introduzione, in La procreazione artificiale tra etica e diritto, a cura di G. Ferrando, Padova, 1989, 6 ss.; C.M. Bianca, Nuove tecniche genetiche, regole giuridiche e tutela dell’essere umano, ivi, 153 ss.; D. Vincenzi Amato, Libertà della persona e intervento pubblico nella procreazione, ivi, 182 ss.; L. Rossi Carleo, Le proposte di regolamentazione della procreazione artificiale, ivi, 189 s.; A. Trabucchi, Procreazione artificiale e genetica umana nella prospettiva del giurista, in Procreazione artificiale e interventi nella genetica umana, Padova, 1987, 14 ss.; F.D. Busnelli, Relazione di sintesi, ivi, 219 s. In tal senso, v. pure le proposte di legge presentate in parlamento durante gli anni ’80 (v. l’appendice in Procreazione artificiale e interventi nella genetica umana, cit., 301 ss.), sulle quali «gravi perplessità», circa l’ammissibilità della p.m.a. eterologa, esprimeva, invece, T. Auletta, Fecondazione artificiale: problemi e prospettive, in Quadrimestre, 1986, 41. Sui lavori parlamentari precedenti la l. 40/2004, v. M. Dell’Utri, Fecondazione eterologa e diritti fondamentali, in Procreazione assistita e tutela della persona, cit., 84 ss. 17 G. Ferrando, Autonomia delle persone e intervento pubblico nella riproduzione assistita. Illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 394. 18 Corte Cost., 26 settembre 1998, n. 347, in Riv. it. med. leg., 1999, 1665, con nota di E. Silingardi. 19 Cass., 16 marzo 1999, n. 2315, in Fam. dir., 1999, 233, con nota di M. Sesta. 20 U. Salanitro, I requisiti soggettivi, cit., 1361; F.D. Busnelli, Procreazione artificiale e filiazione adottiva, in Id., Persona e famiglia, cit., 435 s. (già in Familia, 2003, I, 1 ss.). 21 Osservava G. Ferrando, Libertà, responsabilità, cit., 286 ss., come il quadro normativo antecedente alla legge 40 fosse comunque insoddisfacente. Da un lato, perché esso era costituito, essenzialmente, da norme di deontologia professionale, regolamenti

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quali, però, avrebbero dovuto essere affrontate sine ira et studio, senza ingaggiare ordalie ideologiche dalle quali ben difficilmente sarebbero potute provenire soluzioni puntuali22 ed equilibrate23. Il rigore delle regole inizialmente predisposte dalla legge 40, del resto, non era nemmeno da imputarsi a particolari episodi che avessero destato un allarme sociale diffuso. Tanto più che, se il timore del legislatore fosse stato legato alla difficile controllabilità degli interventi di p.m.a. eterologa, rimessi interamente alle strutture private, sarebbe stato certamente più opportuno, anziché vietare tale pratica, disciplinarla ed includerla, fin da subito, tra le prestazioni offerte dalla sanità pubblica, come è, infine, avvenuto col d.p.c.m. 12 gennaio 201724.

3. L’illegittimità dei limiti originari alla creazione e all’impianto di embrioni.

Delle pronunce della Consulta che hanno dato avvio alla riscrittura giurisprudenziale della legge 40, la prima è stata quella che ha dichiarato illegittime due disposizioni dell’art. 14. Si trattava della norma (al secondo comma) che imponeva la creazione di un numero di embrioni non superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto, e comunque non superiore a tre, e della norma (al terzo comma) che, in caso di impossibilità di impianto degli embrioni per grave e documentata causa di forza maggiore, dovuta allo stato di salute della donna, e imprevedibile al momento della fecondazione, ordinava, previa crioconservazione degli stessi, di procedere non appena possibile al loro impianto, senza tuttavia prevedere che tale trasferimento dovesse avvenire senza pregiudizio per la salute della donna25. La decisione incideva dunque su uno dei punti centrali e più dibattuti della legge 40, ossia sul bilanciamento tra la garanzia del diritto alla salute della donna e la tutela dell’embrione. Al riguardo, come accennato, il legislatore aveva ricusato il principio, costituzio-

amministrativi e atti di autonomia privata, e dunque da fonti non adeguate a incidere sulla libertà delle persone e sui diritti che attengono alla loro dimensione più intima. Da un altro lato, poi, si dubitava che le norme in questione offrissero sufficienti garanzie alle coppie che intendessero ricorrere alla p.m.a., con riferimento alla bontà delle tecniche usate, alla professionalità degli operatori e alla tutela degli interessi apicali coinvolti nelle procedure (salute, riservatezza, certezza dello stato del nascituro…). 22 Circoscritte, cioè, ai soli problemi specificamente suscitati dall’artificialità della procreazione, secondo il metodo a suo tempo suggerito da P. Zatti, «Natura» e «cultura» nella procreazione artificiale, in La procreazione artificiale tra etica e diritto, cit., 178 s. 23 Sul piano della giustizia sociale, la legge appariva parimenti iniqua, nella misura in cui contribuiva al fenomeno del c.d. “turismo procreativo”: le coppie che ne avevano le possibilità economiche potevano infatti aggirare il divieto di p.m.a. eterologa rivolgendosi all’estero, in paesi nei quali vigevano normative più liberali, esattamente come, quando l’aborto in Italia era reato, all’estero andava chi poteva permetterselo e voleva interrompere la gravidanza senza correre i rischi dell’aborto clandestino; S. Rodotà, op. cit., 142; A. Barenghi, op. cit., 11. 24 L’importante innovazione ha posto a carico del s.s.n. tutte le tecniche di p.m.a., superando così la difformità di trattamento altrimenti riscontrabile tra le diverse regioni. 25 Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, in Corr. giur., 2009, 1213, con nota di G. Ferrando.

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nalmente valido26 e alla base della disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza (l. 22 maggio 1978, n. 194), secondo cui la tutela del diritto alla salute fisica e psichica della madre (che è già persona) può giustificare il sacrificio della vita del concepito (che persona non è ancora)27; coerenti alla nuova opzione legislativa erano poi tanto il divieto di «qualsiasi sperimentazione» sugli embrioni umani (art. 13), quanto il divieto di crioconservazione o soppressione degli stessi (art. 14, primo comma). La ragione che aveva determinato la censura delle disposizioni in parola risiedeva nel fatto che queste imponevano un vincolo all’agire del medico che comportava un duplice rischio per la donna, oltre ad essere irragionevole nella sua rigidità. Le possibilità di successo della fecondazione assistita, infatti, dipendono da diverse variabili, tra cui lo stato degli embrioni, le condizioni soggettive della paziente e la sua età, sicché non necessariamente le misure predeterminate dal legislatore sarebbero corrisposte alla soluzione ottimale per il singolo caso. Così, là dove le probabilità di attecchimento fossero state minori, il limite dei tre embrioni avrebbe comportato la necessità di aumentare i cicli di stimolazione ovarica, e dunque l’incremento dei rischi di patologie legate a tale iperstimolazione; là dove, invece, maggiori fossero state le probabilità di attecchimento, più alte sarebbero state anche quelle di (più complicate) gravidanze plurime, le quali, a causa del divieto di riduzione embrionaria (art. 14, quarto comma), avrebbero potuto indurre la donna a ricorrere all’aborto. La legge 40, insomma, precludeva al medico la possibilità di valutare, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche e delle circostanze concrete, la strategia di volta in volta preferibile al fine di assicurare il successo dell’impianto e di ridurre al minimo i pericoli per la salute della donna e del feto; con ciò contraddicendo, oltretutto, sia i parametri di gradualità e minore invasività nell’applicazione delle tecniche (art. 4, secondo comma), sia l’obiettivo di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, primo comma). Tale discrezionalità è stata così restituita al sanitario, al quale soltanto spetta determinare sia il numero di embrioni che, in ogni procedura, risulta «strettamente necessario» produrre, sia quanti e quali embrioni trasferire e quanti e quali, invece, congelare28. Al contempo, la Consulta ha evitato uno stravolgimento del principio di fondo, avendo ribadito la necessità che la produzione degli embrioni si limiti al numero rigorosamente indispensabile, sì da impedirne una realizzazione esorbitante rispetto alle finalità procreative attribuite alle procedure di fecondazione assistita29.

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Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, cit. G. Ferrando, Diritto alla salute della donna e tutela degli embrioni: la Consulta fissa nuovi equilibri, in Corr. giur., 2009, 1216 s. 28 Precisano le linee guida del 2015, emanate dal Ministero della salute (d.m. 1° luglio 2015), che le motivazioni di tali scelte siano riportate nella cartella clinica. 29 G. Ferrando, op. ult. cit., 1222. 27

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4. La sorte degli embrioni crioconservati. Il riconoscimento della possibilità di impiantare solo alcuni degli embrioni creati, e di crioconservare gli altri, ha finito per apportare una implicita deroga al divieto di crioconservazione, che la legge aveva invece inizialmente sancito in via assoluta30. Si è aperto così un altro fronte problematico, relativo al destino degli embrioni rimasti inutilizzati, la cui disamina risente, inevitabilmente, delle convinzioni personali ed etiche di ognuno, le quali possono indurre a giudizi anche radicalmente discordanti sullo statuto giuridico dell’embrione31. La legge 40 non consente la sperimentazione sugli embrioni in sovrannumero (art. 13, primo comma). Nulla viene detto, invece, riguardo alla possibilità che un embrione sano e ancora impiegabile a fini riproduttivi sia accolto da una donna diversa dalla madre, qualora quest’ultima non possa o non voglia più riceverlo: si tratta di un’eventualità che, con un linguaggio certamente atecnico, potrebbe essere descritta come una sorta di via intermedia tra un’adozione prenatale e una donazione32. A oggi, quindi, l’unica opzione che il nostro diritto ammette con sicurezza è quella della crioconservazione a tempo indeterminato degli embrioni in sovrannumero33. Ma questa conclusione è del tutto insoddisfacente34. In primo luogo, perché la reticenza del legislatore a contemplare la cessione degli embrioni già formati a coppie diverse da quelle da cui provengono i gameti appare incomprensibile. È vero che questa strada non è priva di inconvenienti pratici35, e che, peraltro, non risolverebbe il problema, considerata l’entità degli embrioni sovrannumerari36; tuttavia, essa sarebbe sicuramente in linea con l’orizzonte della legge 40, e, a ben vedere, non condurrebbe a un esito diverso da quello di una fecondazione eterologa in cui i donatori di gameti siano entrambi estranei alla coppia. In secondo luogo, poi, dovrebbe, a nostro avviso, essere riconsiderato anche il divieto radicale di sperimentazione sugli embrioni, benché la Corte europea dei diritti dell’Uomo ne abbia confermato la compatibilità con le norme della CEDU proprio esaminando il ricorso di una donna italiana che, dopo la morte del marito, caduto nell’attentato di Nas-

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Lo chiarisce la stessa Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit. R. Cristiano, Gli embrioni soprannumerari: tutela e sperimentazione, in Riv. AIC, 2/2018, 5 ss. 32 D. Carusi, In vita, «in vitro», in potenza. Verso una donazione dell’embrione sopranumerario?, in Riv. crit. dir. priv., 2010, 340. Tale idea era stata avanzata anche in un documento del Comitato nazionale per la bioetica del 18 novembre 2005 dal titolo “L’adozione per la nascita (APN) degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita (p.m.a.)”. 33 R. Cristiano, op. cit., 6. 34 F.D. Busnelli, La sorte degli embrioni in prospettiva bioetica e nella legge 40, alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali, in Procreazione assistita e tutela della persona, cit., 39. 35 C. Flamigni, in una Postilla al documento del CNB sopra ricordato, osserva come sovente le coppie che abbandonano i loro embrioni non vogliano più essere coinvolte e si rifiutino di eseguire gli accertamenti sanitari all’uopo indispensabili. 36 …e il loro plausibile incremento, dovuto all’ampliamento della platea delle coppie potenzialmente idonee a ricorrere alla fecondazione assistita, grazie all’estensione, sempre ad opera della Corte costituzionale, dei requisiti di accesso alle tecniche.

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siriya, aveva scelto di non procedere con l’impianto degli embrioni ormai formati, preferendo, piuttosto, devolverli alla ricerca scientifica. È senz’altro condivisibile il passaggio della decisione in cui si esclude che una signoria sugli embrioni possa essere vantata invocando l’art. 1 del primo Protocollo CEDU, in quanto (anche tralasciando che, nel caso di specie, la volontà di destinare gli embrioni alla ricerca era stata espressa solo dalla donna, e non anche dal partner) tale disposizione, sancendo il diritto al rispetto dei propri beni, dischiude un ambito di tutela riferito esclusivamente ai valori patrimoniali, laddove gli embrioni umani non appaiono, invece, sussumibili all’interno di una logica economico-proprietaria funzionale a una piena disponibilità negoziale degli stessi da parte di chi abbia fornito i gameti37. Meno persuasiva, però, è la parte della pronuncia in cui si sostiene che il diritto di destinare gli embrioni alla ricerca non rientra tra i «core rights» protetti dall’art. 8, non concernendo un profilo particolarmente significativo dell’esistenza e dell’identità personale, nonché quella in cui si rileva come i margini di apprezzamento legislativo dei singoli stati al riguardo sia piuttosto ampio, stante la mancanza di un European consensus in materia e la stretta pertinenza morale ed etica del tema38. La prima obiezione, infatti, riferendosi pur sempre a materiale genetico della persona, appare arbitraria, mentre la seconda evoca un argomento classico, quale quello del consensus tra gli stati appartenenti al Consiglio d’Europa, che, però, nella sua consistenza “maggioritaria”, rischia di frenare, più che di promuovere, lo sviluppo dei diritti fondamentali. Dal canto suo, la Consulta si è poi espressa sulla questione degli embrioni in sovrannumero non impiantabili perché affetti da malformazioni genetiche o “non biopsabili”. In particolare, la Corte, pur confermando che la tutela dell’embrione, ex art. 2 Cost., non può affievolirsi nemmeno quand’esso presenti un’anomalia genetica, racchiudendo comunque in sé «il principio della vita», ha tuttavia precisato come pure tale valore costituzionale, al pari di ogni altro, sia suscettibile di bilanciamento con altri interessi, e specialmente con quello al progresso della ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute individuale e collettiva. Spetta dunque al legislatore, conclude la Corte, individuare i contenuti di un simile equilibrio, in ragione della molteplicità di scelte che si prospettano, con riferimento, per esempio, alla selezione degli embrioni da devolvere alla scienza (se, cioè, solo quelli affetti da malattia o da determinate malattie, o anche quelli “non biopsabili”), all’individuazione delle linee di ricerca che giustificano il sacrificio dell’embrione, alle modalità di accertamento della volontà di abbandono dello stesso…39. La prudenza della Consulta, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate contro l’art. 13, primo, secondo e terzo comma, l. 40/2004, è stata probabilmente eccessiva, e, per certi aspetti, estranea all’indirizzo “correttivo” che ha caratterizzato la sua

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Corte eur. dir. uomo, G.C., 27 agosto 2015, ric. 46470/11, Parrillo v. Italy, n. 215. Corte eur. dir. uomo, G.C., 27 agosto 2015, ric. 46470/11, cit., nn. 174-176. 39 Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, in Dir. fam. pers., 2016, 745. 38

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giurisprudenza sulla legge 4040. Atteso che sono qui da bilanciare, in definitiva, le speranze dei malati con la condizione di embrioni destinati a non nascere né a divenire mai feti, sarebbe stato preferibile che la Corte emettesse almeno una sentenza additiva di principio, onde superare un divieto che, nella sua portata, suona sproporzionato e irragionevole. Così facendo, la Corte, da un lato, avrebbe risolto il bilanciamento in esame in favore della ricerca scientifica e della tutela della salute di coloro che già esistono, rinviando al legislatore la definizione della disciplina di dettaglio, e, da un altro lato, avrebbe altresì già posto i giudici in condizione di autorizzare, su richiesta delle parti interessate, l’impiego per finalità di ricerca scientifica degli embrioni sovrannumerari altrimenti inutilizzabili41. Il rinvio al legislatore, però, potrebbe, se non altro, consentire di affrontare pure il problema del trattamento degli embrioni sani ma che non siano stati utilizzati nella procedura di fecondazione assistita (magari perché la donna ha revocato il consenso all’impianto, oppure perché già un primo impianto è andato a buon fine). Il timore che, ammettendo la sperimentazione sugli embrioni, possa arrivarsi a creare intenzionalmente embrioni in soprannumero, non giustifica, anche qui, l’assolutezza del divieto, suggerendo, piuttosto, di prevedere specifici controlli all’interno delle strutture che praticano la p.m.a. Innanzi all’invito di attenta dottrina a riflettere se non sia più degno per l’embrione, anziché restare in una condizione di eterno congelamento, contribuire, per il bene di tutti, al progresso della scienza e allo sviluppo di nuove cure contro le malattie42, occorre, ancora, interpellare i beni costituzionali chiamati in causa: solidarietà, tutela della salute, libertà e avanzamento delle conoscenze scientifiche inducono allora a guardare con ragionevole fiducia alla seconda prospettiva, animata dal medesimo spirito della “donazione samaritana”, tutte le volte in cui l’acclarata impossibilità per l’embrione di proseguire nel progetto procreativo iniziale ponga l’alternativa tra prolungarne sine die e inutilmente la crioconservazione o rinnovarne, in altro modo, la sua vocazione al servizio della vita43. All’uopo, un modello normativo liberale, ma non privo di cautele, a cui guardare è offerto dal diritto francese, il quale prevede che ogni anno alla coppia sia chiesto per iscritto se intende o meno mantenere il proprio progetto genitoriale, offrendole, qualora non intenda mantenerlo, una triplice possibilità (art. L2141-4 code de la santé publique – CSP)44, ovvero: quella di “donare” (anonimamente) i propri embrioni a un’altra coppia, alle condizioni previste dagli artt. 2141-5 s. CSP; quella di destinarli alla ricerca, nel rispetto

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Per una lettura in vario modo critica, M.G. Cabitza, Lo statuto dell’embrione: tra dignità umana e progresso scientifico, in Dir. fam. pers., 2018, 635 ss.; A. Ruggeri, Questioni di costituzionalità inammissibili per mancanza di consenso tra gli scienziati (a margine di corte cost. n. 84 del 2016, in tema di divieto di utilizzo di embrioni crioconservati a finalità di ricerca), in BioLaw Journal, 2/2016, 245 ss.; C. Piciocchi, La procreazione medicalmente assistita tra biologia e volizione, nella sentenza n. 84 del 2016 della Corte costituzionale, in Studium iuris, 2016, 1441 ss.; M. D’Amico, op. cit., 171 ss. 41 A. Spadaro, Embrioni crio-congelati inutilizzabili: la Corte costituzionale se ne lava le mani, ma qualcosa dice… (nota a C. cost., sent. n. 84/2016), in BioLaw Journal, 2/2016, 265 ss. 42 D. Carusi, op. cit., 337. 43 F.D. Busnelli, op. ult. cit., 41. 44 Tale triplice alternativa è prevista anche in Belgio dall’art. 10, loi 6 juillet 2007.

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dei limiti previsti dall’art. 2151-5 CSP, o di impiegarli in una terapia cellulare con finalità esclusivamente terapeutica, alle condizioni fissate dagli artt. 2151-5, 1121-4 e 1125-1 CSP; quella, infine, di porre termine alla loro conservazione45. Ogni scelta deve essere compiuta per iscritto, e confermata dopo un periodo di riflessione di tre mesi. Tra i vincoli che presidiano la sperimentazione sugli embrioni, si prevede che il protocollo di ricerca debba essere autorizzato dall’Agenzia della biomedicina, e solo quando concorrano determinati presupposti, tra cui l’ineludibilità, per il suo svolgimento, dell’utilizzo di embrioni o di cellule staminali46; inoltre, occorre che, prima di ottenere il consenso all’utilizzo degli embrioni, sia stata prospettata alla coppia da cui gli embrioni provengono l’alternativa di destinarli al progetto genitoriale di un’altra coppia oppure di cessarne la conservazione47. Questa disciplina, invero, dovrebbe essere destinataria di alcune modifiche in occasione della prossima riforma della legge di bioetica; tuttavia, stando all’art. 16 del projet de loi n. 2187 del 24 luglio 2019, le opzioni di fondo sembrano trovare conferma anche nel nuovo testo.

5. L’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa. Anche il divieto di fecondazione eterologa, inizialmente previsto all’art. 4, terzo comma, l. 40/2004, è stato superato da una decisione della Consulta, la quale ha censurato l’ampiezza della proibizione, che impediva di ricorrere a tale tecnica pure qualora alla coppia fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o di infertilità assolute e irreversibili48. A essere pregiudicati erano infatti interessi di rango costituzionale della coppia, senza però che il loro sacrificio risultasse adeguatamente motivato dall’esigenza di presidiare altri interessi di analogo livello. La Corte ribadisce così l’importante principio per cui il bilanciamento tra interessi di rilievo costituzionale deve essere realizzato in modo da non comportare, per alcuno di essi, un sacrificio eccessivo e ingiustificato. Secondo la Consulta, la scelta della coppia sterile o infertile di avere un figlio con la fecondazione eterologa esprime una manifestazione della «fondamentale e generale libertà

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La conservazione degli embrioni cessa anche, ove sia durata almeno cinque anni, in caso di reiterato silenzio di una delle parti o di disaccordo tra le stesse, nonché quando, entro cinque anni da quando era stato espresso il consenso alla “donazione”, nessun’altra coppia li abbia accolti (art. L2141-4, terzo e quarto comma, CSP). 46 Gli altri requisiti sono: l’assodata pertinenza scientifica della ricerca; la sua finalità medica; il rispetto dei principi etici relativi alla ricerca sugli embrioni e sulle cellule staminali. 47 A tale modello rinviano anche F.D. Busnelli, L’inizio della vita umana, cit., 175 s., e M.G. Cabitza, op. cit., 645 ss. 48 Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Corr. giur., 2014, 1062, con nota di G. Ferrando. Pur essendo la decisione della Corte tutta misurata sui parametri interni alla nostra Costituzione, affiora nella motivazione qualche assonanza con le argomentazioni di Corte eur. dir. uomo, G.C., 3 novembre 2011, ric. 57813/00, S.H. and others v. Austria, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 224, con nota di C. Murgo, con riferimento all’inquadramento della questione nell’ambito del diritto all’autodeterminazione, che, nella prospettiva della CEDU, si dipana dall’art. 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare.

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di autodeterminarsi» riconducibile non solo agli artt. 2 e 3 Cost., ma anche all’art. 31 Cost., attenendo altresì alla sfera privata e familiare. Una restrizione di tale libertà, per la sua portata assiologica, risulta pertanto possibile solo quando sia ragionevolmente e congruamente necessaria onde tutelare altri valori di eguale importanza49; i quali, però, nel caso specifico, non erano ravvisabili, anzi50. In secondo luogo, la Corte ritiene il divieto lesivo anche del diritto alla salute, da riferirsi non solo alla salute in senso fisico, ma anche in senso psichico51, secondo la concezione accolta già nel 1946 dall’atto costitutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’impossibilità di formare una famiglia con il proprio partner, mediante il ricorso alla fecondazione eterologa, è infatti suscettibile di pregiudicare, anche in misura notevole, la condizione di benessere psichico della coppia: sicché, tale facoltà può essere impedita solo ove lo esiga la difesa di altri interessi costituzionali che, però, di nuovo, non erano riscontrabili. Il pericolo che la p.m.a. eterologa potesse essere adoperata per finalità eugenetiche, del resto, poteva già essere contrastato subordinandovi l’accesso alla sola sussistenza di una situazione di infertilità o sterilità assolute e irreversibili. Inoltre, se effettuata nel rispetto dei protocolli clinici, e all’interno di strutture operanti sotto il controllo della pubblica autorità, la fecondazione eterologa non comporta, per i donanti e i donatari dei gameti, rischi maggiori di quelli che rientrano nell’alea normale di altri trattamenti terapeutici. Da ultimo, a legittimare il divieto non sarebbe valso nemmeno il dubbio che la nascita attraverso questa tecnica potesse suscitare ripercussioni psicologiche negative, legate sia alla scoperta di essere stati generati da un rapporto non naturale, sia all’impossibilità di venire a conoscenza della propria identità genetica. Sul punto, occorre intanto ricordare che la legge 40, nonostante il divieto iniziale, non poneva comunque in discussione lo status del figlio nato a seguito di tale pratica: anche lui – come tutti i nati da p.m.a. – avrebbe infatti avuto lo stato di figlio «legittimo» (ora, «nato nel matrimonio») o di figlio riconosciuto della coppia convivente che aveva espresso la volontà di ricorrere alle tecniche (art. 8)52. Tant’è, come ricordato, che l’art. 9, primo comma, stabiliva già che il coniuge o il convivente, che avesse espresso con atti concludenti il proprio consenso alla fecondazione eterologa, non avrebbe poi potuto esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare l’avvenuto riconoscimento per mancanza di veridicità. Al contempo, il terzo comma dell’art. 9 chiariva pure come il donatore di

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Principio già espresso, a ben vedere, in Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit., nonché, in altro contesto, in Corte cost., 24 luglio 2000, n. 332, in Giur. cost., 2000, 2455. 50 L’ordinamento, infatti, pur non limitando il concetto di “famiglia” al solo nucleo in cui siano presenti figli, valuta nondimeno favorevolmente il progetto di formazione di una famiglia in cui questi vi siano, indipendentemente dalla circostanza che la prole condivida o meno lo stesso patrimonio genetico dei genitori, come dimostra la disciplina dell’adozione dei minori di età. 51 Corte cost., 4 luglio 2008, n. 251, in Giur. cost., 2008, 2931. 52 Pur tra qualche incertezza, questa appariva la soluzione senz’altro preferibile: R. Villani, La procreazione assistita, in Tratt. dir. fam. diretto da P. Zatti, II, Filiazione, a cura di G. Collura-L. Lenti-M. Mantovani, II ed., Milano, 2012, 696 s.

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gameti non avrebbe acquisito alcuna relazione giuridica parentale con il nato, né, nei suoi confronti, avrebbe maturato alcun diritto o assunto alcun obbligo. Venendo, invece, alle presunte ripercussioni che il nato avrebbe potuto scontare sul piano del diritto all’identità genetica e del benessere psicologico, vi era da notare come in una medesima situazione avrebbe potuto trovarsi anche l’adottato. È vero che le finalità dell’adozione non coincidono con quelle della fecondazione eterologa, giacché la prima intende garantire una famiglia al minore in stato di abbandono, mentre la seconda consente a una coppia affetta da una infertilità irrimediabile di realizzare il desiderio di avere un figlio proprio; e tuttavia, il confronto tra i due modelli non è infruttuoso, poiché in entrambi il rapporto di filiazione si costituisce, ed assume pari dignità rispetto alla filiazione naturale, in virtù di una scelta della coppia fondata sui «valori psico-sociali di accoglienza, amore, responsabilità»53. Il problema della conoscenza delle origini, del resto, si era già ugualmente posto nel caso dell’adottato la cui madre naturale avesse chiesto di non essere nominata nell’atto di nascita: in tale eventualità, infatti, il figlio, una volta compiuti venticinque anni, non avrebbe potuto esercitare il diritto di accedere alle informazioni riguardanti la sua origine e l’identità dei genitori biologici (art. 28, quinto e settimo comma, l. 4 maggio 1983, n. 184). Questa norma, però, è stata dichiarata illegittima dalla Consulta, la quale, mutando un precedente indirizzo54, grazie anche all’impulso della Corte europea dei diritti dell’Uomo55, ha invece riconosciuto che il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini rientra tra i diritti inviolabili protetti dall’art. 2 Cost.: pertanto, è compito del legislatore predisporre una regola che, anziché prevedere l’integrale sacrificio di questo diritto, lo contemperi con l’esigenza – pure legittima – di garantire alla donna l’anonimato al momento del parto56. In

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G. Ferrando, Autonomia delle persone, cit., 403 s. Mentre, insomma, il divieto di fecondazione eterologa muoveva da un’idea di famiglia incentrata sul dato biologico della discendenza genetica tra genitori e figli, la normativa sull’adozione, al contrario, da tempo dimostrava come la provenienza genetica non esprimesse, per il sistema, un imprescindibile requisito della famiglia. Del resto, che il criterio della “verità biologica” sia quello prevalente, ma non esclusivo, su cui si possa fondare il vincolo di filiazione è confermato anche dal regime dell’azione di disconoscimento della paternità, il quale, circoscrivendo la legittimazione ad impugnare solo al marito, alla moglie o al figlio, e contemplando altresì rigorosi termini di decadenza, potrebbe infatti rendere definitivamente incontestabile una paternità non corrispondente al vero, prediligendo così la certezza e la stabilità del rapporto giuridico di paternità rispetto alla garanzia di coincidenza del medesimo con la generazione naturale; G. Ferrando, op. ult. cit., 404; Ead., La riproduzione assistita nuovamente al vaglio della Corte costituzionale. L’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa, in Corr. giur., 2014, 1074; T. Auletta, Diritto di famiglia, III ed., Torino, 2016, 342 nt. 77. In linea con questa impostazione, secondo cui la verità genetica non assurge sempre a criterio fondamentale della filiazione, è stata risolta da Trib. Roma, 8 agosto 2014, in Fam. dir., 2014, 929, con nota di M.N. Bugetti, anche la spinosissima questione dello “scambio di embrioni” nell’ambito di una p.m.a. omologa (condividono la decisione A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Padova, 2017, 226 ss.; M. Bianca, Il diritto del minore ad avere due soli genitori: riflessioni a margine della decisione del Tribunale di Roma sull’erroneo scambio degli embrioni, in Dir. fam. pers., 2015, 194 ss.; non secondari rilievi critici, però, in A. Morace Pinelli, Il diritto di conoscere le proprie origini e i recenti interventi della Corte costituzionale. Il caso dell’ospedale Sandro Pertini, in Riv. dir. civ., 2016, 264 ss.). 54 Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 545, con nota di J. Long. 55 Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, ric. 33783/09, Godelli c. Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 103, con nota di J. Long. 56 Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, in Fam. dir., 2014, 11, con nota di V. Carbone.

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particolare, secondo la Corte, l’equilibrio tra i contrapposti interessi dovrebbe tradursi nella predisposizione di una procedura che, nel pieno rispetto della garanzia dell’anonimato materno, consenta tuttavia al figlio, attraverso l’intermediazione del giudice e dei pubblici uffici, di rivolgersi alla madre, onde chiederle se intenda rimuovere oppure confermare la segretezza della propria identità. Attualmente, il legislatore non è ancora intervenuto. Tuttavia, la Corte di Cassazione, con un’accurata sentenza, ha provveduto opportunamente a individuare le modalità attraverso le quali il figlio può intanto esercitare il diritto di interpello della propria madre naturale, sì da evitare che tale facoltà venga pregiudicata dall’inerzia del parlamento57. Questa soluzione potrebbe offrire un utile elemento di riflessione per esaminare il medesimo problema nel contesto della fecondazione eterologa; ove, però, l’anonimato del donatore ha una funzione diversa rispetto all’anonimato materno, sicché, come vedremo, non è da escludere che esso possa ricevere anche una garanzia minore rispetto alla volontà della madre di restare sconosciuta.

6. I requisiti soggettivi di accesso alla p.m.a. Alcune delle argomentazioni della Consulta ricordate nel paragrafo precedente, se lette con attenzione, suscitano un interrogativo non trascurabile58. Poiché, infatti, le ragioni addotte a sostegno del superamento del divieto di fecondazione eterologa sono basate sul diritto all’autodeterminazione e sul diritto alla salute della coppia, ci si potrebbe allora chiedere se la tutela di questi diritti non sia suscettibile di mettere in crisi pure la legittimità di tutti i requisiti soggettivi contemplati dalla legge 40 per accedere alle tecniche di p.m.a. Tali requisiti, infatti, non ammettono alle procedure in parola la donna sola, la coppia in età non più potenzialmente fertile, la coppia che aveva espresso il consenso alle tecniche prima della morte di uno dei due componenti, e, infine, la coppia omosessuale. Invero, la giurisprudenza costituzionale non sembra aver mai messo in discussione l’idea che il ricorso alla p.m.a. debba essere subordinato al riscontro di certe condizioni stabilite dal legislatore59. Ciò detto, l’imprinting ideologico della legge 40 suggerisce nondimeno di saggiare il fondamento delle stesse. Secondo un’attenta dottrina, che esamina la questione in termini di «utilità sociale», l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita si configura come un diritto di rango costi-

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Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2017, n. 1946, in Fam. dir., 2017, 740, con nota di P. Di Marzio. Lo rileva anche U. Salanitro, I requisiti soggettivi, cit., 1361 s. 59 U. Salanitro, op. ult. cit., 1363; in particolare, quando ha ripristinato la legalità della fecondazione eterologa, la Corte ha precisato che, nonostante l’ampia accezione con cui è stato inteso il concetto di salute, l’illegittimità del divieto era tuttavia da affermare esclusivamente in relazione ad ipotesi nelle quali la menomazione alla salute psichica della coppia fosse riconducibile non a una condizione fisiologica esistenziale, bensì a una patologia che fosse causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute. 58

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tuzionale «nella misura in cui consente di eliminare gli ostacoli naturali o sociali all’esperienza genitoriale», ponendo i richiedenti nella medesima posizione di chi può accedere alla procreazione naturale, e garantendo al contempo al figlio di ricevere cura e assistenza da due figure genitoriali. Da questa prospettiva, allora, risulterebbero coerenti i divieti di accesso previsti per la donna sola in età fertile, per le coppie in età non più fertile e per le coppie in cui uno dei due partner, che aveva espresso il consenso all’utilizzo delle tecniche, non sia più in vita al momento previsto per la fecondazione dell’embrione; diversamente, sarebbe invece da superare il divieto opposto alla coppia omosessuale, il quale finisce, infatti, per rivelarsi discriminatorio, poggiando unicamente sull’orientamento sessuale delle sue componenti60. Siffatta impostazione, però, non persuade del tutto, giacché tende a coinvolgere nel giudizio sulla ragionevolezza del singolo requisito anche una valutazione di tipo economico, legata all’aumento dei costi per la collettività che l’ampliamento della platea dei soggetti eligibili comporterebbe. A nostro avviso, invece, alle tecniche di p.m.a. dovrebbero poter accedere, in ossequio al principio di eguaglianza, tutti coloro che, pur trovandosi in un’età potenzialmente idonea alla procreazione61, non sono tuttavia in grado di generare un figlio, o a causa di una patologia che ne compromette la fertilità o ne comporta la sterilità, oppure perché si trovano in una condizione personale che rende impossibile la naturale attuazione di un progetto genitoriale, come, appunto, accade alla coppia omosessuale o alla donna sola in età fertile. L’esclusione dalle tecniche di fecondazione assistita della coppia omosessuale e della donna sola presuppone, infatti, nel primo caso, un’opzione normativa discriminatoria, e, nel secondo caso, invece, un giudizio di valore su scelte o situazioni personali, caratterizzate dalla mancanza di legami di coppia, che non solo non compete all’ordinamento, ma incorpora altresì un rilevante e anacronistico pregiudizio. In entrambi i casi – come già è accaduto in altri sistemi62 – occorre semmai prendere atto di quanto si sia profondamente modificato «il quadro di riferimento» dell’interprete, con l’avvenuta «separazione tra mondo della sessualità e mondo della riproduzione e, quindi, tra mondo del concepimento e mondo della riproduzione»: innanzi a questi mutamenti, è opportuno che il giurista abbandoni ogni «presunzione autoritaria» e sia anzi consapevole dei limiti del proprio intervento, «altrimenti condannato ad essere eluso o a divenire ulteriore elemento di conflittualità»63, anziché di composizione e di garanzia delle diverse visioni esistenti in una società plu-

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U. Salanitro, op. ult. cit., 1366 s. In tema, v. A. Büchler-K. Parizer, Maternal Age in the Regulation of Reproductive Medicine - A Comparative Study, in International Journal of Law, Policy and The Family, 2017, 269 ss. 62 Per un riepilogo dei sistemi che ammettono alla p.m.a. sia la donna single sia le coppie omosessuali, v. S. Cap, Emergence and development of artificial reproductive technologies, in J. Sosson-G. Willems-G. Motte (eds.), Adults and Children in Postmodern Society. A comparative Law and Multidisciplinary Handbook, Cambridge, 2019, 763. A questi dovrebbe prossimamente affiancarsi anche la Francia, almeno stando all’art. 1 del già ricordato projet de loi 2187/2019. 63 S. Rodotà, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, in La procreazione artificiale tra etica e diritto, cit., 137. 61

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ralista. Così, sia l’esperienza sociale delle famiglie monoparentali, sia la non univoca nozione di famiglia accolta dall’ordinamento, e confermata a livello legislativo, tra l’altro, dalla disciplina dell’affidamento e dell’adozione in casi particolari, istituti aperti anche alle persone singole, sia, infine, altri indici ragguardevoli64, dovrebbero indurre a guardare senza preconcetti e allarmismi all’inclusione della donna sola tra i soggetti ammessi alla fecondazione eterologa, ancorché ciò fuoriesca dai canoni del modello “tradizionale” di famiglia65. Quanto alle coppie formate da due donne, il ripensamento del divieto dovrebbe altresì avvenire sulla scorta di alcune importanti indicazioni giurisprudenziali, che hanno significativamente innovato il diritto vivente della filiazione. Si pensi, in particolare, alla decisione di legittimità che ha sancito, anche per la coppia omosessuale, la possibilità di adottare – seppure nelle forme dell’adozione in casi particolari – il figlio del convivente, riconoscendo pertanto in tale coppia un’attitudine all’educazione e alla crescita della prole pari a quella della coppia eterosessuale66, e alla pronuncia, sempre di legittimità, che ha avallato la trascrizione, nell’archivio di stato civile italiano, dell’atto di nascita formato all’estero e recante l’indicazione di due donne quali genitori del figlio nato mediante ricorso alla fecondazione eterologa, non scorgendo in tale vicenda profili di contrarietà all’ordine pubblico, e ravvisandovi, anzi, un’espressione «[del]la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie di persone di sesso diverso»67. Viceversa, appare invece ragionevole precludere la procreazione assistita alle coppie (o alla donna sola) in età non più fertile, posto che la legge 40 non intende ovviare alle sopravvenute condizioni di impossibilità alla generazione che si sono fisiologicamente manifestate col naturale trascorrere del tempo, né una rivendicazione in tal senso sembra vantare una qualche copertura costituzionale. Anche nella disciplina dell’adozione, del resto, è, in linea di principio, stabilito un limite massimo (di quarantacinque anni) alla differenza di età tra adottante e adottato, sebbene non manchino, per la verità, ampie

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Ricorda ad esempio G. Ferrando, La nuova legge in materia di procreazione medicalmente assistita: perplessità e critiche, in Corr. giur., 2004, 814 s., a dimostrazione dell’insussistenza di un principio assoluto e astratto di tutela della doppia figura genitoriale, che l’art. 250 c.c., nell’interesse del figlio, attribuisce al genitore che lo ha riconosciuto per primo il potere di negare il consenso al riconoscimento dell’altro, onde renderlo così privo di effetti. 65 S. Rodotà, op. ult. loc. cit.; P. Perlingieri, L’inseminazione artificiale tra principi costituzionali e riforme legislative, in La procreazione artificiale tra etica e diritto, cit., 145; D. Vincenzi Amato, op. cit., 184; P. Rescigno, Relazione di sintesi, in Procreazione artificiale e interventi nella genetica umana, cit., 201. Più recentemente, M.C. Venuti, Coppie sterili o infertili e coppie «same-sex». La genitorialità negata come problema giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 265 s. 66 Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1135, con commento, nella II parte, p. 1213, di G. Ferrando. La decisione precisa che, ai fini dell’adozione di cui all’art. 44, primo comma, lett. d, l. 184/1983, nell’indagine sulla sussistenza dei requisiti e delle condizioni previste dalla legge, non può essere dato alcun rilievo all’orientamento sessuale del richiedente né alla conseguente natura della relazione stabilita con il proprio partner. 67 Non è infatti riscontrabile «[alc]un principio di ordine pubblico, consistente nella pretesa esistenza di un vincolo o divieto costituzionale che precluderebbe alle coppie dello stesso sesso di accogliere e generare figli»: Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Dir. fam. pers., 2017, 52, con nota di P. Di Marzio (p. 298). La questione di legittimità della limitazione delle tecniche di p.m.a. alle sole coppie eterosessuali è stata rimessa alla Corte costituzionale da Trib. Pordenone, 2 luglio 2018, n. 129, in Fam. dir., 2018, 1091, con nota di I. Barone, ma è stata tuttavia dichiarata infondata dalla Consulta con decisione del giugno 2019.

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eccezioni: le quali, tuttavia, trovano una giustificazione interna nella logica dell’istituto, a cominciare dalla salvaguardia dell’interesse del minore a restare inserito nel contesto sociale della famiglia che lo ha accolto68. Più controverso, infine, è il requisito che richiede che entrambi i componenti della coppia siano viventi. La questione è stata lambita dalla Corte di Cassazione in una recente sentenza, a proposito dello status da attribuire al figlio nato a seguito di una fecondazione assistita post mortem avvenuta in Spagna, dove tale pratica è lecita purché il materiale riproduttivo sia utilizzato entro dodici mesi dal decesso dell’uomo e vi sia stato altresì il consenso di quest’ultimo (art. 9, secondo comma, ley 14/2006)69. La Corte non si è dunque direttamente occupata della illiceità o meno di una simile procedura nel sistema italiano; ciò nondimeno, essa ha avuto modo di segnalare l’ambiguità, sul punto, del nostro diritto, poiché è vero che l’art. 5 l. 40/2004 stabilisce che alla fecondazione assistita possano accedere solo coppie i cui componenti siano entrambi viventi, ma la norma non precisa, però, in quali momenti della procedura sia indispensabile la loro contestuale presenza in vita. Nella fecondazione post mortem possono infatti rientrare tre ipotesi molto diverse tra loro, quali: a) il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; b) l’inseminazione artificiale della donna col seme crioconservato prelevato prima del decesso del partner70 (come nel caso di specie era avvenuto); c) l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti della coppia erano in vita71. A una prima lettura, l’ipotesi sub a) è in ogni caso da respingere, non potendosi mai prescindere da un’effettiva e volontaria messa a disposizione, da parte dell’uomo (vivente), del materiale riproduttivo72; al contrario, l’ipotesi sub c) è stata invece giustamente ammessa dalla giurisprudenza, non essendovi indici normativi che vietino alla donna di ottenere l’impianto di embrioni crioconservati anche dopo la morte del marito73. Infine, l’ipotesi sub b) è quella più problematica, poiché se anche, per un verso, potrebbe apparire equilibrata, de iure condendo, una soluzione analoga a quella contemplata dal diritto spagnolo74, per altro verso, però, attualmente, la

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A.M. Marchio, Art. 6, commi 3°, 5° e 6°, l. 28 marzo 2001, n. 149, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 971 ss. In particolare, Cass., 15 maggio 2019, n. 13000, in https://dejure.it, ha affermato che l’art. 8 l. 40/2004 è applicabile anche in caso di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di p.m.a., sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione, avendo tuttavia autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo dello stesso. E ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre. 70 Se il decesso riguardasse la donna, invece, stante l’impossibilità di procedere all’impianto e il divieto di surrogazione di maternità (art. 12, sesto comma), l’embrione resterebbe intanto crioconservato (R. Villani, op. cit., 664), e si porrebbe il già rammentato problema della sua destinazione alternativa rispetto al progetto genitoriale originario non più realizzabile. 71 M. Faccioli, Procreazione medicalmente assistita, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. III, 2, Torino, 2007, 1070. 72 M. Faccioli, op. loc. cit. 73 Trib. Bologna, 16 gennaio 2015, in Fam. dir., 2015, 488, con nota di A. Scalera. In tal senso depongono sia le linee guida ministeriali (p. 17), che prevedono che la donna abbia sempre il diritto di ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati, sia l’inefficacia da attribuire alla revoca del consenso, da parte dell’uomo, intervenuta in seguito alla fecondazione dell’ovulo (v. nt. 77); M. Faccioli, op. loc. cit.; G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, I, 105. 74 Anche il diritto belga ammette l’inseminazione post mortem, quando sia stata espressamente prevista dalla coppia e purché venga 69

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l. 40/2004 sembra pur sempre postulare l’esistenza di entrambi i componenti della coppia durante tutti gli stadi dell’applicazione delle tecniche di p.m.a., come pare implicare l’art. 6, primo comma, nel prescrivere al medico complessi doveri di informazione da assolvere, «in ogni fase» della procedura, verso «i soggetti» di cui all’art. 575; con la precisazione, però, come si evince dall’ipotesi sub c, che un’interpretazione coordinata con la disciplina della revoca del consenso induce tuttavia a limitare il requisito della coesistenza solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo76, giacché, a partire da quel punto, la revoca da parte dell’uomo non avrebbe comunque più alcuna efficacia77.

7. La diagnosi preimpianto e le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili.

Un ulteriore divieto significativamente iniquo della legge 40 è stato, infine, rimosso dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, primo, secondo e quarto comma, nella parte in cui non permetteva l’accesso alla p.m.a. alle coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche trasmissibili. Sul punto, l’Italia era già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Il desiderio di generare un figlio che non sia affetto da una malattia genetica di cui i genitori sono portatori sani, e di ricorrere perciò alle tecniche di fecondazione assistita e alla diagnosi preimpianto78, è stato infatti ritenuto meritevole di tutela secondo l’art. 8 CEDU,

eseguita non prima di sei mesi dal decesso del partner e non oltre due anni da quel momento (artt. 44 e 45 loi 6 juillet 2007). Cass., 15 maggio 2019, n. 13000, cit. 76 G. Oppo, op. loc. cit. 77 Invero, l’art. 6, terzo comma, l. 40/2004, prevede che, dopo la fecondazione dell’ovulo, siano entrambi i componenti della coppia a non poter più revocare il loro consenso (per i contenuti e le modalità di espressione del consenso informato, v. il d.m. 28 dicembre 2016, n. 265, su cui cfr. A. Ricci, La disciplina del consenso informato all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Il d.m. 28 dicembre 2016, n. 265: novità e vecchi problemi, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 40). Tuttavia, nonostante l’enunciazione della legge, è da ritenere che la donna (da sola o assieme all’uomo) possa sempre revocare il consenso all’impianto, anche dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo, atteso che un impianto forzato dell’embrione equivarrebbe a un trattamento sanitario obbligatorio ma illegittimo, in quanto sfornito dei requisiti previsti dall’art. 32 Cost.; M. Faccioli, op. cit., 1061; G. Oppo, op. cit., 109; D. Carusi, op. cit., 336; senza contare, poi, che una simile imposizione sarebbe in palese contraddizione con la legge sull’aborto; R. Villani, op. cit., 670 ss. Diversamente, la revoca tardiva proveniente solo dall’uomo dovrà essere reputata inefficace, non essendovi, in questo caso, analoghe ragioni per trattare tale revoca allo stesso modo di quella della donna (ma per la sua efficacia, v. M. Costantino, L’identità del bambino e del concepito. Voglie individuali di anonimato e di rifiuto, in Riv. dir. civ., 2008, II, 769). In tal senso, v. pure l’ordinanza Cass., 18 dicembre 2017, n. 30294, in Fam. dir., 2019, 21, con nota di A. Figone, secondo cui, tanto nella fecondazione eterologa quanto in quella omologa, la revoca del consenso del coniuge o del partner, intervenuta dopo la fecondazione dell’ovulo, non consente di esperire l’azione di disconoscimento del bambino nato in seguito a tale inseminazione. Infine, si consideri il parallelismo con la procreazione naturale, ove, se dopo il concepimento l’uomo non fosse più intenzionato ad assumere la paternità, non potrebbe, per ciò solo, disconoscere il vincolo di filiazione che si fosse in seguito instaurato sulla base delle presunzioni legali, né potrebbe, del pari, precluderne l’instaurazione in via giudiziale. 78 La legge 40, espressamente, non consentiva né vietava la diagnosi genetica preimpianto. La dottrina e la giurisprudenza ritenevano tuttavia che questa indagine fosse da reputarsi ammissibile per varie ragioni: anzitutto, perché un divieto non era desumibile né dal secondo comma né dalla lett. b del terzo comma dell’art. 13; inoltre, perché tale soluzione appariva lineare col diritto della coppia ad avere informazioni sullo stato di salute degli embrioni prima del loro impianto (art. 14, quinto comma), nonché con la revocabilità 75

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esprimendo una legittima manifestazione del diritto alla vita privata e familiare. Rispetto a tale aspirazione, però, la normativa interna risultava inadeguata e marcatamente contraddittoria, poiché, da un lato, riservava la p.m.a. esclusivamente alle coppie infertili o sterili, e, da un altro lato, contemplava, tuttavia, la possibilità di interrompere la gravidanza là dove il feto fosse stato affetto dalla stessa patologia di cui i genitori erano portatori. L’unico mezzo che la legge lasciava ai genitori, per garantire il loro diritto alla procreazione di un figlio sano, era, quindi, l’aborto, il quale, oltre a essere ben più invasivo e drammatico, per la donna, della diagnosi preimpianto, interviene, oltretutto, quando l’embrione è già sviluppato79. Per rimediare all’inerzia del legislatore, che aveva omesso di conformarsi ai rilievi della giurisprudenza europea, la Corte costituzionale, seguendo la linea argomentativa della Corte di Strasburgo, ha così dichiarato illegittime le disposizioni impugnate in quanto irragionevoli e lesive del diritto alla salute della donna80. Vi era, infatti, un’insanabile illogicità nel precludere la fecondazione assistita, e dunque la diagnosi preimpianto, alle coppie che, pur non essendo sterili o infertili, erano però portatrici (anche sane) di serie patologie genetiche ereditarie, suscettibili di trasmettere al nascituro quelle «rilevanti anomalie o malformazioni» che, potendo determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, le avrebbero nondimeno consentito di interrompere la gravidanza anche oltre il novantesimo giorno (art. 6, primo comma, lett. b, l. 194/1978)81. A distanza di pochi mesi, a tale decisione ne poi è seguita un’altra che ha, coerentemente, dichiarato illegittimo pure l’art. 13, commi terzo, lett. b, e quarto, nella parte in cui contemplava come ipotesi di reato la selezione degli embrioni anche là dove fosse rivolta alle finalità anzidette82.

del consenso della donna all’impianto anche dopo la formazione dell’embrione; infine, perché la decisione della Corte costituzionale che aveva rimosso il limite dei tre embrioni da produrre e il divieto assoluto di congelamento aveva offerto, di fatto, le condizioni necessarie per rendere in concreto possibile la diagnosi preimpianto; U. Salanitro, La procreazione medicalmente assistita, cit., 3677 ss.; G. Ferrando, La fecondazione assistita nel dialogo tra le Corti, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 167 s.; R. Villani, op. cit., 712 ss. 79 Corte eur. dir. uomo, 28 agosto 2012, ric. 54270/10, Costa and Pavan v. Italy, nn. 52 ss. e 60 ss., in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 66, con nota di C. Pardini. 80 Corte cost., 5 giugno 2015, n. 96, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 930, con commento, nella parte II, p. 582, di G. Ferrando. L’argomentazione della Corte è invece criticata da R. Pomiato, Diagnosi preimpianto e tutela dell’embrione: un equilibrio ancora precario, in Europa dir. priv., 2016, 238 ss. 81 La Corte auspicava comunque un intervento del legislatore, anche periodico, in ragione della costante evoluzione delle acquisizioni scientifiche, al fine sia di individuare le patologie suscettibili di giustificare il ricorso delle coppie fertili alla fecondazione assistita, sia di definire opportune forme di autorizzazione e controllo per le strutture in cui le procedure si svolgono. L’auspicio era legato al timore di un possibile abuso, con intenti eugenetici, delle tecniche di diagnosi preimpianto, come conferma la necessità, sottolineata dalla Corte, che (in linea con l’art. 8, l. 194/1978, per l’i.v.g. oltre il novantesimo giorno) gli accertamenti sanitari si svolgano in strutture pubbliche. Tuttavia, per quel che qui rileva, tale timore deve invero essere ricondotto «entro i suoi giusti confini», evocando, infatti, un problema diverso, posto che con la diagnosi preimpianto si intendeva, e si intende, solo evitare la trasmissione di gravi malattie ereditarie; R. Villani, op. cit., 713. 82 Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, in Dir. fam. pers., 2016, 36.

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8. La donazione di gameti: principi fondamentali. Vietando originariamente la fecondazione eterologa, la legge 40 non conteneva norme che regolassero la donazione di gameti. E invero, anche dopo la caduta del divieto, il legislatore ha ritenuto di non intervenire, così, nel 2014, a tale mancanza ha supplito la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, la quale, al fine di garantire procedure uniformi su tutto il territorio nazionale, ha predisposto una raccolta di indirizzi operativi comuni che le singole regioni avrebbero poi recepito. Nel 2015, poi, il Ministero della Salute ha emanato le (già ricordate) nuove linee guida della materia, che, fugacemente, si soffermano anche sulla donazione di gameti. Infine, è in corso di recepimento la direttiva 2012/39/UE, che ha modificato la direttiva 2006/17/CE, a sua volta attuativa della direttiva 2004/23/CE83 con riferimento alle prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani; in questa occasione, sarà ultimato pure il recepimento della stessa dir. 17/2006, la quale, a suo tempo, era stata attuata solo parzialmente dal d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 1684, poiché, stante il divieto allora vigente di fecondazione eterologa, non erano state ovviamente accolte le norme dedicate ai donatori di cellule riproduttive diversi dai componenti della coppia ricevente. A ciò provvede ora il d.P.R. in via di formazione, il quale innova il d.lgs. 16/2010 apportandovi i criteri generali di selezione dei donatori e l’indicazione degli esami di laboratorio da effettuare. Inoltre, fatte salve alcune peculiarità85, per la donazione di gameti valgono anche i principi di fondo della normativa sulla donazione di tessuti e cellule, essendo i gameti cellule aventi una funzione particolare. Sarà dunque da prendere intanto in considerazione il d.lgs. 6 novembre 2007, n. 191, che ha dato attuazione alla direttiva 23/2004. Da tale disciplina si ricava, in primo luogo, che la donazione di gameti non può avvenire attraverso un accordo diretto tra donatore e coppia ricevente, ma solo con l’intermediazione di una struttura autorizzata, sottoposta al controllo pubblico, che rispetti i requisiti previsti dalla legge (artt. 5 ss. d.lgs. 191/2007). In questo modo, sono garantiti sia la salute dei soggetti coinvolti, poiché la donazione avviene in un contesto appropriato e con la partecipazione di personale specializzato, sia l’anonimato degli stessi86. Viene tuttavia in rilievo, prevalentemente, quest’ultima esigenza, atteso che la prima, anche qualora fosse ammessa la donazione non anonima, potrebbe essere ugualmente soddisfatta prevedendone l’esclusivo svolgimento negli appositi centri accreditati.

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Direttiva sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani. 84 Tale decreto aveva dato attuazione sia alla dir. 17/2006, sia alla dir. 2006/86/CE, contenente prescrizioni in tema di rintracciabilità, notifica di reazioni ed eventi avversi gravi nonché sulla codifica, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani. 85 M. Basile, I donatori di gameti, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 228 ss. 86 M. Basile, op. cit., 226.

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In secondo luogo, ai donatori è richiesto di esprimere un consenso informato alla donazione (art. 13 d.lgs. 191/2007)87. Il documento della Conferenza delle regioni prevede, tra l’altro, che il donatore o la donatrice dichiarino di non essere a conoscenza di alcun fattore di rischio inerente a malattie sessualmente trasmissibili o a malattie genetiche; inoltre, il donatore o la donatrice si impegnano altresì a comunicare eventuali cambiamenti del loro stato di salute o di fattori di rischio, e a specificare se accettano che i loro gameti siano usati per scopi di ricerca qualora non siano più utilizzabili per altre donazioni. Con riferimento alle sole donatrici, esse devono essere preventivamente informate dei rischi e degli effetti collaterali connessi con la stimolazione ovarica e il recupero degli ovociti. Infine, i donatori e le donatrici restano liberi di revocare in ogni momento il consenso all’utilizzazione dei loro gameti, senza alcuna spesa o pretesa economica da parte del centro che ha effettuato la raccolta e/o che intendeva utilizzarli. In terzo luogo, pure per i gameti vale il principio per cui la loro cessione può essere compiuta unicamente a titolo gratuito: l’art. 12, sesto comma, l. 40/2004 sancisce l’illiceità del commercio di gameti, ma la gratuità è un principio generale della donazione di tessuti e cellule (art. 12, primo comma, d.lgs. 191/2007)88. Anche il documento della Conferenza delle regioni, dopo aver premesso che la donazione di cellule a fini riproduttivi è un atto volontario, altruista e gratuito, interessato solo a favorire la salute riproduttiva di un’altra coppia, esclude che possa essere prevista una retribuzione economica per i donatori e le donatrici, o che possa essere richiesto un contributo alla ricevente; restano ammissibili, però, forme di sostegno analoghe a quelle già esistenti per la donazione di altre cellule, organi o tessuti. Non si tratta, quindi, di una remunerazione89, bensì di agevolazioni del genere di quelle che accompagnano la donazione di sangue o di emocomponenti, rispetto alla quale l’art. 8, l. 21 ottobre 2005, n. 219, stabilisce che il lavoratore abbia diritto di astenersi dal lavoro per l’intera giornata lavorativa pur conservando il diritto alla retribuzione. In tal senso, l’art. 12 dir. 23/2004, dopo aver affermato che la cessione di tessuti e cellule deve avvenire in modo volontario e gratuito, contemplava altresì la possibilità che i donatori ricevessero un’indennità strettamente limitata a far fronte alle spese e agli inconvenienti risultanti dalla donazione. Non è da escludere, allora, che in futuro possano essere previsti anche veri e propri rimborsi per i costi e le perdite effettivamente sostenuti dal donatore e, soprattutto, dalla donatrice (considerando la maggior complessità della procedura a cui la donna si sottopone): se tali attribuzioni non configurano un incentivo

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Non è invece richiesto, opportunamente, il consenso dell’eventuale coniuge o convivente, a differenza di quanto stabilisce in Francia l’art. L1244-2 CSP: ma si tratta di una regola destinata a essere superata dalla prossima riforma, v. art. 2 del projet de loi 2187/2019.. Le eventuali ripercussioni che la donazione avesse sul rapporto di coppia potrebbero al più rilevare sul piano della violazione del dovere di lealtà coniugale; M. Basile, op. cit., 229. 88 Sul punto, G. Resta, Doni non patrimoniali, in Enc. dir. Annali, IV, Milano, 2011, 520 ss. 89 Anzi, si precisa che, ai fini della selezione dei donatori, e della loro eventuale esclusione, si debba tenere conto pure dell’esistenza di potenziali motivi finanziari (o emotivi) suscettibili di condizionare la donazione.

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economico90, ma si limitano a compensare le spese ospedaliere, di spostamento e il mancato guadagno per i giorni non lavorati, non vi sono ragioni per contestarne la liceità, come confermano anche alcune normative europee91. Occorre, infatti, garantire il miglior equilibrio tra quel postulato del personalismo che vieta di fare del corpo umano o delle sue parti un oggetto di lucro (art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), e l’esigenza, funzionale alla realizzazione dei diritti alla procreazione della coppia ricevente, di non pregiudicare ingiustificatamente il donatore di gameti, lasciando a suo carico gli oneri della donazione e scoraggiandone così una scelta che potrebbe invece favorire un progetto genitoriale altrui92.

9. I requisiti di eligibilità alla donazione di gameti e la selezione dei donatori.

Anche il quadro delle condizioni di eligibilità alla donazione di gameti deve essere ricostruito al di fuori della legge 40. Per quanto riguarda il sesso dei donatori, la donazione è consentita a uomini e donne. Secondo il documento delle Conferenza delle regioni, è richiesta un’età compresa tra i 18 e i 40 anni per gli uomini, e tra i 20 e i 35 anni per le donne93. In Germania, invece, la dona-

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Non sembra, invero, che lo configurino nemmeno gli ottanta euro a donazione, che potrebbero diventare mille in capo a un anno, promessi da alcune Samenbanken tedesche, sul cui sito Internet si invitano gli aspiranti donatori a sottoporsi a una “donazione di prova”, onde valutare la qualità del loro seme e le loro condizioni di salute (e forse non solo, sollecitandosi candidati di aspetto piacevole e maschile, nonché di buona formazione). Simili espedienti mirano essenzialmente ad ampliare le “riserve” della banca e la sua capacità di rispondere alla domanda di gameti, ma non possono realisticamente apparire come una fonte di lucro idonea a influenzare la decisione del donatore, tantopiù oggi che la legge tedesca gli impone una riflessione – certo non liquidabile per qualche decina di euro – sul fatto che, un giorno, il figlio nato dai suoi gameti potrà conoscerne l’identità. Si consideri poi che la donazione di gameti maschili non comporta alcun potenziale rischio per la salute del donatore, a differenza, invece, dei trattamenti necessari per la donazione di gameti femminili, nel qual caso, allora, andrebbe osservata una maggiore cautela dal punto di vista “pubblicitario”. 91 Fermo restando il principio della gratuità, in Spagna, l’art. 5, terzo comma, ley 14/2006, ammette una «compensación económica resarcitoria» per «las molestias físicas y los gastos de desplazamiento y laborales que se puedan derivar de la donación», ammonendo però che questa compensazione non può costituire un incentivo economico; in Austria, il § 16, primo comma, del Fortpflanzungsmedizingesetz consente un’indennità per le spese sostenute («Aufwandsentschädigung»), la quale non può però eccedere le spese documentate connesse al trattamento medico effettuato per la cessione dei gameti; in Belgio, l’art. 51 loi 6 juillet 2007 contempla «une indemnité qui couvre les frais de déplacement ou de perte de salaire de la personne prélevée», nonché «les frais d’hospitalisation inhérents au prélèvement d’ovocytes de la donneuse»; in Francia, invece, l’art. L1244-7 CSP prevede un «remboursement des frais engagés pour le don», ma solo per la donatrice di gameti. 92 Si consideri che in Italia, nel 2016, i cicli di fecondazione eterologa che hanno utilizzato seme importato dall’estero sono stati l’84,4% del totale, mentre i cicli che hanno utilizzato ovociti importati dall’estero sono stati il 94% del totale; cfr. la Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita, 28 giugno 2018, p. 14. Nell’anno successivo i dati si sono invece attestati, nel primo caso, sul 78,42% e, nel secondo caso, sul 96,37%; cfr. l’ultima Relazione ministeriale pubblicata il 26 giugno 2019, p. 7. 93 Nel parere del Consiglio di Stato del 17 giugno 2019 allo schema di d.P.R. si ipotizza un abbassamento dell’età massima a 25 anni per la donna e a 35 per l’uomo. Tuttavia, i pareri della Commissione Affari sociali della Camera e della Commissione Igiene e sanità del Senato hanno intanto confermato le soglie già previste nel documento della Conferenza delle regioni.

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zione di gameti femminili non è al momento ammessa, per ragioni che risiedono nell’invasività della procedura e nei rischi che può comportare per la salute della donna, che deve infatti sottoporsi a un trattamento ormonale e a un intervento medico volto al prelievo degli ovociti94. Tuttavia, il divieto è stato recentemente oggetto di critica in dottrina, tant’è che se ne preconizza il superamento. In primo luogo, perché si ritiene comporti un’ingerenza sproporzionata nel diritto alla libertà procreativa (Recht auf Fortpflanzungsfreiheit) e nel diritto all’autodeterminazione riproduttiva (Recht auf reproduktive Selbstbestimmung), i quali costituiscono, a loro volta, espressioni dell’allgemeines Persönlichkeitsrecht, come ricostruito dalla combinazione dell’art. 2, primo comma, con gli artt. 1, primo comma, o 6 Grundgesetz. Il desiderio di avere un figlio proprio esprime infatti un aspetto importante della personalità, la cui frustrazione è suscettibile di avere ricadute tali sul benessere psichico che lo Stato dovrebbe anzitutto cercare di prevenirle95. Inoltre, il divieto di donazione di ovociti dà altresì luogo a una disparità di trattamento tra le tecniche procreative non del tutto giustificata. È vero, infatti, che la Eizellspende risulta più complessa e rischiosa della donazione di seme maschile; tuttavia, si mette in luce sia come l’assunzione di questi rischi avvenga in modo consapevole e volontario, sia, soprattutto, come i rischi in questione siano gli stessi che possono presentarsi anche in occasione di una procedura di fecondazione omologa, la quale è invece permessa dalla legge96, che, del resto, non vieta nemmeno altri interventi invasivi, come la donazione di organi o di midollo osseo. Sicché, in definitiva, solo alla donna dovrebbe spettare la decisione se sottoporsi o meno al trattamento a vantaggio di un’altra donna, tantopiù che il timore di un possibile sfruttamento commerciale di tale pratica potrebbe essere già contrastato attraverso norme rigorose sul rimborso dei costi e degli oneri sopportati per la donazione97. Altro requisito necessario alla donazione di gameti è poi la capacità di agire e la capacità di intendere e di volere del donatore. Trattandosi di un atto di disposizione del proprio corpo, talora idoneo, peraltro, a suscitare un forte coinvolgimento emotivo, è ragionevole che possano compierlo solo coloro che abbiano raggiunto la maggiore età e che si trovino in uno stato di piena coscienza98. Non è invece indispensabile che il donatore di sesso maschile abbia già avuto figli: secondo il documento della Conferenza delle regioni, la selezione di donatori di provata fertilità è auspicabile, ma non obbligatoria. Piuttosto, come in altri ordinamenti, è posto un limite al numero di nascite suscettibili di essere originate dai gameti di uno stesso do-

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H. Hüppe, Legalisierung der Eizellspende? – contra, in ZRP, 2015, 126. Tantopiù, si nota ancora, che a vincere eventuali riserve morali dovrebbe valere anche l’argomento per cui appare eticamente discutibile impedire a «verzweifelten Paare» di accedere alla donazione di ovociti, costringendo tali coppie a rivolgersi all’estero, dove magari vi sono condizioni mediche o giuridiche meno favorevoli di quelle previste dalla legge tedesca. 96 Tale rilievo era formulato pure da Corte eur. dir. uomo, 1° aprile 2010, ric. 57813/00, S.H. and others v. Austria, n. 78. 97 M. Wellenhofer, § 1591, in Münchener Kommentar zum BGB, 9, Familienrecht II, 7. Aufl., München, 2017, 45 s.; U.M. Gassner, Legalisierung der Eizellspende? – pro, in ZRP, 2015, 126. 98 M. Basile, op. cit., 231. Per la stessa ragione, il consenso alla donazione deve essere manifestato personalmente. 95

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natore99, prevedendosi che con le cellule riproduttive di un soggetto non possano essere determinate più di dieci nascite100. Tale soglia intende scongiurare l’eventualità che, in futuro, possano casualmente formarsi rapporti di coppia tra nati da un medesimo donatore che ignorino la comune discendenza101. Di centrale importanza sono poi i requisiti inerenti alle condizioni di salute dei donatori. In tema, l’allegato III della dir. 17/2006 illustra i criteri di selezione e gli esami di laboratorio richiesti per i donatori di cellule riproduttive, distinguendo l’ipotesi della donazione tra partner e della donazione proveniente da un soggetto diverso dal partner. Nel primo caso, la direttiva contempla test biologici meno rigorosi, sul presupposto che la donazione compiuta dal partner sia meno rischiosa di quella proveniente da un estraneo (considerando n. 5). Nel secondo caso, invece, l’art. 3.1 dell’allegato III prescrive che i donatori siano selezionati in base all’età e all’anamnesi sanitaria e medica risultante da un questionario e da un colloquio individuale con un professionista sanitario esperto e qualificato102. Come anticipato, l’Italia, modificando il d.lgs. 16/2010, sta recependo solo adesso questa parte della direttiva, quale effetto della riaffermata legalità della fecondazione eterologa. Nel frattempo, le indicazioni della direttiva erano comunque confluite nel documento della Conferenza delle regioni103. Le precauzioni di tipo sanitario non infrangono in alcun modo né il divieto di selezione dei gameti a scopo eugenetico, sancito dall’art. 13, terzo comma, lett. b, l. 40/2004, né il divieto di pratiche eugenetiche, affermato dall’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, giacché l’indagine sulle condizioni di salute dei donatori mira, unicamente, a schivare la formazione di embrioni malati104. Al contempo, la prima norma ora ricordata, vietando anche interventi diretti, attraverso tecniche di selezione, a predeterminare caratteristiche genetiche dei nascituri, non sembra consentire ai centri di fecondazione assistita di “catalogare” ed offrire i gameti dei donatori sulla base delle loro

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Per esempio, in Francia il limite è di dieci nascite (art. L1244-4 CSP), in Austria di tre (§ 14, secondo comma, FMedG), in Spagna di sei (art. 5, settimo comma, ley 14/2006). 100 Al limite delle dieci nascite è possibile derogare solo qualora una coppia che abbia già avuto un figlio attraverso la fecondazione eterologa intenda sottoporsi nuovamente a tale pratica utilizzando le cellule riproduttive del medesimo donatore. Inoltre, qualora la gravidanza non dovesse portare alla nascita di un feto vivo, la procedura non andrebbe considerata tra le dieci nascite consentite. 101 M. Basile, op.ult. loc. cit. L’accoglimento di tale soglia nel d.P.R. in formazione è stata auspicata nei pareri delle competenti commissioni parlamentari. 102 La valutazione deve prendere in considerazione tutti quei fattori che possono contribuire ad escludere le persone la cui donazione potrebbe costituire un rischio per gli altri, come in presenza di malattie trasmissibili al nato, o per i donatori stessi, come quando, per esempio, si sospettino conseguenze psicologiche per il donatore. 103 Le prescrizioni del documento della Conferenza delle regioni hanno peraltro talora specificato il quadro tracciato dalla direttiva. Per esempio, con riferimento alla necessità che il donatore sia in grado di fornire notizie circa lo stato di salute di entrambi i genitori biologici (dunque, non deve essere adottato né concepito da donatore di gameti, né figlio di padre o madre ignoti), o per le situazioni di inammissibilità alla donazione dovute o a rapporti lavorativi intrattenuti con la struttura dove la procedura viene eseguita, o a condizioni soggettive suscettibili di riflettersi negativamente sulla salute riproduttiva (sono esclusi dalla donazione gli uomini e le donne che, per ragioni professionali, sono esposti a radiazioni o a sostanze chimiche). 104 M. Basile, op. cit., 232 s.

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caratteristiche personali, quali, ad esempio, l’orientamento sessuale, la condizione sociale o il livello di istruzione105.

10. Donatori e beneficiari di gameti. La prospettiva delle donazioni non anonime a soggetti determinati.

Il punto accennato da ultimo si lega alla questione se la coppia possa scegliere i gameti da impiegare sulla base delle caratteristiche fisiche e delle condizioni personali dei donatori, in modo da assecondare la speranza di avere un figlio con determinati connotati e in cui riporre particolari aspirazioni106. Il tema, più che le «pratiche eugenetiche» volte alla «selezione delle persone», vietate dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea107, evoca, piuttosto, il tentativo edonistico di prevenire l’incerto esito della «lotteria genetica»108. Tuttavia, una possibilità di scelta dei gameti, da parte della coppia ricevente, basata sulle caratteristiche fenotipiche o di altro genere del donatore, non sembra essere attualmente permessa sia dal già ricordato art. 13, terzo comma, lett. b, l. 40/2004, sia dall’art. 14 della Convenzione di Oviedo, secondo il quale le tecniche di assistenza medica alla procreazione non possono essere utilizzate per scegliere il sesso del nascituro, salvo che ciò avvenga per evitare una malattia ereditaria legata al sesso. Da questa disposizione, e dall’assetto complessivo della legge 40, infatti, traspare l’idea che le tecniche di fecondazione assistita possano essere impiegate solo per impedire la trasmissione di malattie, non anche, invece, per generare figli aventi determinati attributi109. Ciò detto, però, il documento della Conferenza delle regioni, dopo aver ribadito il divieto di scelta delle caratteristiche fenotipiche del donatore, prevede, tuttavia, che sia ragionevolmente assicurata la compatibilità delle principali caratteristiche fenotipiche del donatore con quelle della coppia ricevente. Si tratta di una prescrizione condivisibile110,

105

M. Basile, op. cit., 233. Si pensi, per esempio, a quanto offre sul proprio sito Internet una banca del seme danese, la quale, per poche centinaia di euro, spedisce gameti maschili in tutto il mondo (assieme al kit per tentare la home insemination), consentendo di scegliere il donatore sulla base di informazioni essenziali (ma invero già piuttosto ricche) o dettagliate: nel primo caso, è possibile conoscerne il fenotipo, il colore degli occhi, il colore dei capelli, l’altezza, il peso, il gruppo sanguigno, gli studi o la professione; nel secondo caso, invece, è possibile avere notizie anche della personalità e della situazione familiare del donatore, dei suoi hobby e interessi, nonché visionarne una foto da bambino (e talvolta da adulto), leggerne un messaggio scritto a mano o ascoltarne una registrazione vocale. 107 Esclude che vi sia qui «lo spettro dell’eugenetica» M. Basile, op. cit., 234. Sul fenomeno del “parental design”, attraverso l’impiego della tecnologia genetica, v. A. Gheaus, The parental love argument against ‘designing’ babies: the harm in knowing that one has been selected or enhanced, in R. Chadwick-M. Levitt-D. Schickle (eds.), The Right to Know and the Right Not to Know. Genetic Privacy and Responsibility, Cambridge, 2014, 151 ss. 108 L’espressione è di S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2007, 141. 109 M. Basile, op. cit., 235. 110 Tale prescrizione non compare però nelle linee guida ministeriali del 2015, che si limitano solo a riaffermare, «al fine di evitare illegittime selezioni eugenetiche», il divieto, per la coppia, di scegliere particolari caratteristiche fenotipiche del donatore. Questa 106

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poiché la fecondazione eterologa è, per la coppia, un progetto riproduttivo di genitorialità per mezzo di una gravidanza, ed è pertanto comprensibile che si cerchi di assegnare alla coppia gameti che possano favorire la somiglianza, o contenere eccessive differenze, tra i riceventi e i nascituri111. La raccomandazione, inoltre, è coerente con l’assunto che la p.m.a. serva, alle coppie che vi ricorrono, per realizzare una procreazione naturale, onde superare, mantenendola segreta all’esterno, quella condizione di sterilità o di infertilità che potrebbero vivere come una menomazione stigmatizzante112. Occorre semmai chiedersi se non sia altresì opportuno, come fa la legge belga (art. 57) e irlandese113, consentire la donazione di gameti non anonima in favore di una coppia (o di una donna sola) determinata: è il caso in cui il donatore o la donatrice siano persone conosciute dai beneficiari, ai quali accettano di prestare i propri gameti. Ad oggi, questo non è permesso nel nostro ordinamento, in virtù del principio generale dell’anonimato che presiede la donazione di tessuti e cellule: ma si tratta, per la donazione di gameti, di un principio derogabile (art. 14, terzo comma, dir. 23/2004), e che incontra già in diversi sistemi una significativa eccezione per quanto riguarda il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Non sembrano esservi argomenti decisivi contro le donazioni di gameti in favore di beneficiari determinati. È vero che questa eventualità potrebbe essere talora occasione di illecito sfruttamento economico; ma il rischio che ciò ingeneri episodi abusivi non dovrebbe valere a precludere in radice il superamento dell’impossibilità a procreare attraverso una modalità che i soggetti coinvolti sentano più rispettosa della loro sensibilità, e più adeguata alla loro situazione, e che, soprattutto, di per sé, non lede alcun interesse indisponibile. Piuttosto, una simile prospettiva solleverebbe altre questioni meritevoli di attenzione. Oltre a quella dell’incompatibilità alla donazione per ragioni di parentela (che potrebbe essere risolta stabilendo, come per il matrimonio, taluni impedimenti, secondo il perimetro dell’art. 251 c.c.), si porrebbe poi il problema della posizione del donatore, giacché il diretto coinvolgimento di quest’ultimo non rende del tutto scontato che egli, a differenza del donatore che si limita a cedere i propri gameti alla struttura, non abbia alcun interesse a costituire un vincolo giuridico col figlio che nascerà114.

circostanza potrebbe indurre a credere che sia stata superata, o addirittura vietata, la precauzione contenuta nel documento della Conferenza delle regioni; ma una simile interpretazione non convince, sia perché il riferimento delle linee guida all’eugenetica è ben poco pertinente con l’aspetto di cui si discute, sia perché l’auspicata compatibilità si giustifica con la funzione stessa della fecondazione eterologa di consentire alla coppia, per quanto possibile, di “imitare” una generazione naturale: R. Villani, La “nuova” procreazione medicalmente assistita, in Tratt. dir. fam. Le riforme 2012-2018, diretto da P. Zatti, Il nuovo diritto della filiazione, a cura di L. Lenti-M. Mantovani, Milano, 2019, 306 s. 111 Anche l’art. 53 della legge belga chiarisce che «l’appariement entre donneur(s) et receveur(s)» non può essere considerato come una pratica eugenetica, per cui non ricade nel divieto previsto all’art. 52, primo comma. Similmente, in Spagna, v. l’art. 6, quinto comma, ley 14/2006. 112 M. Basile, op. ult. loc. cit. 113 Section 6 del Children and Family Relationship Act 2015. 114 M.V. Runge-Rannow, Kenntnis der eigenen Abstammung bei heterologer Insemination, in ZRP, 2017, 45; N. Dethloff, Familienrecht, 32. Aufl., München, 2018, 315.

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La previsione di regole certe nella definizione dei rapporti in gioco, e il recupero al diritto di contesti di “clandestinità”, sono sollecitati dagli sviluppi imprevedibili che possono riservare le inseminazioni “domestiche”. Così, per scongiurare l’insorgere di controversie, dovrebbero allora essere ribadite le disposizioni di cui all’art. 8 e al primo e al terzo comma dell’art. 9, l. 40/2004, anche per le donazioni verso coppia determinata che avvengano nel quadro di una procedura clinica di p.m.a., escludendo dunque solo le ipotesi di “amicably assisted reproduction” che si svolgano al di fuori di un contesto sanitario e senza la partecipazione di personale medico115. Qualora, poi, si ammettesse anche per la donna sola la possibilità di accedere alla fecondazione eterologa, potrebbe darsi che il donatore, d’accordo con la donna, intenda espressamente condividere pure la responsabilità genitoriale: nel qual caso116, egli andrebbe equiparato, ai fini dell’art. 8, al convivente, posto che, una volta ammessa alla p.m.a. la donna sola, perderebbe presumibilmente ogni significato il requisito della convivenza, che attualmente esprime la preferenza dell’ordinamento per un progetto familiare caratterizzato dalla compresenza di due genitori, la coabitazione dei quali dovrebbe, in qualche modo, essere garanzia d’idoneità dell’ambiente nel quale crescerà il figlio117.

11. Anonimato del donatore di gameti e diritto del figlio alla

conoscenza delle proprie origini.

Al di là di quanto testé prospettato, la donazione di gameti, attualmente, può avvenire solo in forma anonima. Il d.lgs. 191/2007, infatti, pur prevedendo la tracciabilità del percorso, dal donatore al ricevente, dei tessuti e delle cellule prelevati (art. 8), stabilisce che tutti i dati e le informazioni genetiche a cui abbiano accesso i terzi siano resi anonimi, in modo che né il donatore né il ricevente siano identificabili; inoltre, l’identità del ricevente non può essere rivelata al donatore o alla sua famiglia, e viceversa (art. 14, primo e terzo comma). Tale norma riprende il contenuto dell’art. 14 dir. 23/2004, il quale, però, come già segnalato, autorizzava gli Stati membri a stabilire regole diverse per la donazione di gameti.

115

Si intendono qui quelle situazioni in cui una coppia (spesso formata da due donne) coinvolge un donatore esterno (talora contattato via Internet) per provare un concepimento attraverso un rapporto sessuale o una “in-home insemination”, previa consegna del seme e tentativo, con mezzi artigianali, di fecondazione. In simili contesti, normalmente gli ordinamenti escludono l’applicabilità delle regole sulla costituzione della filiazione previste in caso di p.m.a., sicché varranno le regole di diritto comune, con la conseguenza che il donatore potrebbe rivendicare la sua paternità a discapito del non-biological intended parent. Peraltro, ove manchino specifiche disposizioni, resta altresì controverso se una donazione non anonima verso beneficiari determinati, ancorché eseguita in una struttura sanitaria, possa essere sottoposta alle norme sulla costituzione della filiazione attraverso p.m.a.; sul punto, S. Cap, op. cit., 773 s. 116 Ove, invece, il donatore non intendesse condividere tale responsabilità, o non vi fosse stato il preventivo assenso della donna, il rapporto di filiazione si costituirebbe solo con la madre, applicandosi, per il donatore, il terzo comma dell’art. 9 l. 40/2004. 117 Sul requisito della convivenza, U. Salanitro, La procreazione medicalmente assistita, cit., 3716 s.

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Alle disposizioni generali si allinea pure il documento della Conferenza delle regioni, confermando che i donatori non hanno diritto di conoscere l’identità del soggetto nato con le loro cellule riproduttive, così come quest’ultimo non può conoscere l’identità del donatore. Una parziale eccezione, in via straordinaria, viene contemplata solo per gravi motivi di salute del figlio, escludendosi peraltro ogni comunicazione diretta dei dati clinici del donatore, i quali possono essere resi noti solo al personale sanitario e attraverso procedure istituzionalizzate. Il quadro comparatistico non è univoco118: la tendenza va, in vario modo, verso il superamento dell’anonimato, che, però, ancora resiste in alcuni paesi europei, come la Spagna119, il Belgio120 e la Francia121, dove, però, un’imminente revisione legislativa si appresta a sancirne la fine (v. l’art. 3 del projet de loi 2187/2019). Questa resistenza è motivata con diversi argomenti122: anzitutto, con la tutela della riservatezza del donatore e della coppia che ha ricevuto i gameti; in secondo luogo, con l’esigenza di preservare i donatori dal rischio che i nati dalle loro cellule possano, un giorno, avanzare rivendicazioni, economiche o di altro genere, nei confronti del genitore naturale, pur non essendone giuridicamente figli; infine, si osserva che, se pure il principio dell’anonimato venisse superato, il figlio potrebbe scoprire l’identità del donatore solo qualora venisse preliminarmente informato delle modalità del suo concepimento: ma poiché un obbligo informativo in tal senso non grava solitamente né sui genitori legali, né su altri soggetti, pubblici o privati, la possibilità per il figlio di conoscere l’identità del donatore resterebbe subordinata, in definitiva, esclusivamente alla volontà dei suoi genitori legali. Un’ultima ragione inoltre addotta, e che in qualche modo assorbe le altre, riguarda poi la convinzione che il superamento dell’anonimato rappresenterebbe un disincentivo alla donazione, finendo così per compromettere il successo della fecondazione eterologa, soprattutto in contesti nei quali vi sia scarsità di gameti disponibili123. Si tratta di argomenti seri, ma non insuperabili. Non convince, in particolare, il tentativo di derubricare la volontà del figlio di scoprire l’identità del donatore (o dei donatori124) di gameti a una mera “curiosità” non meritevole di tutela, asserendosi la sostanziale diversità della sua condizione rispetto a quella del figlio adottato125. È vero, infatti, che nella fecon-

118

Per una sintesi, S. Cap, op. cit., 777 ss. A mutare, nei vari ordinamenti, è, in particolare, l’età di accesso alle informazioni, la possibilità di esercitare (e fino a che misura) tale diritto di accesso anche verso le informazioni che riguardano i fratelli, nonché, a monte, l’eventualità che talune circostanze possano condizionare l’esercizio del diritto di accesso. 119 Art. 5, comma 5, ley 14/2006, pur con l’eccezione prevista, al terzo comma, a fronte di circostanze straordinarie che comportino un pericolo certo per la vita o la salute del figlio o che siano conformi alle leggi processuali penali. 120 Art. 57 loi 6 juillet 2007. 121 Art. 16-8 code civil; art. L1211-5 CSP. 122 Per un riepilogo, M. Basile, op. cit., 237. 123 S. Rodotà, Diritti della persona, cit., 139 s. 124 Le linee guida ministeriali ammettono infatti che la fecondazione eterologa possa avvenire anche con il contestuale impiego di gameti maschili e femminili provenienti da donatori estranei alla coppia: si tratta di una previsione condivisibile, non essendo da escludere che la condizione di sterilità e infertilità riguardi entrambi i componenti della coppia. 125 Per l’incomparabilità delle due situazioni, A. Morace Pinelli, op. cit., 256 ss.; L. d’Avack, Il diritto alle proprie origini tra segreto,

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dazione eterologa non c’è «un passato, un vissuto» da ritrovare, ma solo «il nudo nome di un donatore di gameti»126; nondimeno, poiché, se non c’è un passato familiare, vi è però un pregresso biologico, al quale il figlio è indissolubilmente legato e grazie al quale è venuto al mondo, è forse avventato escludere che la sua determinazione di sapere chi abbia reso possibile la sua nascita non esprima alcun interesse giuridicamente apprezzabile127. A nostro avviso, infatti, una volta che il figlio nato da fecondazione eterologa sia stato informato dai genitori sulle circostanze del concepimento, non vi è alcun motivo per differenziare la sua posizione da quella del figlio nato da madre anonima e poi dato in adozione128: se per il secondo – come la Corte costituzionale ha affermato129 – il diritto di conoscere le proprie origini rappresenta «un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona», nonché uno di quegli aspetti della personalità individuale suscettibili di condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di un soggetto, lo stesso principio non può, allora, non valere anche per il primo. E questo perché, in entrambi i casi, non si tratta di un semplice desiderio, quanto, piuttosto, di un vero e proprio «bisogno di conoscenza» che la persona, comprensibilmente, può nutrire per riempire un tassello decisivo della sua identità allorquando, appresa la natura adottiva della filiazione, o il carattere eterologo della discendenza, questa identità possa, d’un tratto, apparirle incompleta130. Infine, anche alla luce della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, che all’art. 7 proclama il diritto del fanciullo, «nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori», non sembra che restrizioni a questo diritto possano

anonimato e verità nella pma con donatori/trici di gameti, in Dir. fam. pers., 2012, 829 ss.; esprime dubbi anche E. Palmerini, Art. 24, commi 4°-8°, l. 28 marzo 2001, n. 149, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 1032. In generale, l’ipotesi di un parallelismo – imperfetto – tra adozione e fecondazione eterologa, quali specie di una stessa categoria di «filiazione civile», da affiancare a quella della filiazione naturale, risale ad A. Trabucchi, op. cit., 15, e F.D. Busnelli, Relazione di sintesi, cit., 215, sulla scorta del rilievo per cui, notava Trabucchi, «se diversi sono i punti di partenza, c’è l’incontro nella meta che si raggiunge». A fronte di questo dato di fondo, restano nondimeno da riservare a un attento scrutinio gli aspetti dei due modelli di filiazione suscettibili di accostamento: M. Mantovani, I fondamenti della filiazione, in Tratt. dir. fam. diretto da P. Zatti, II, La filiazione, cit., 12. Per esempio, nella fecondazione artificiale non vi è ragione di valutare la capacità educativa della coppia richiedente, come invece avviene nell’adozione, dove però si tratta di provvedere a un minore in stato di abbandono; da questo punto di vista, dunque, la fecondazione assistita risulta semmai assimilata alla filiazione naturale; G. Furgiuele, La fecondazione artificiale: quali principi per il civilista?, in Quadrimestre, 1989, 254 ss. 126 A. Morace Pinelli, op. cit., 258. 127 R. Pane, La procreazione medicalmente assistita tra istanze di rinnovamento e tutela del nato, in Dir. fam. pers., 2018, 1436 ss.; M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in Giur. it., 2001, 1769. Dubbi, sul punto, sono invece avanzati da G. Savorani, Identità dei figli tra cognome, status filiationis e diritto di conoscere le proprie origini biologiche, in questa Rivista, 2018, 525, sulla scia dell’interrogativo di S. Rodotà, Tra diritto e società. Informazioni genetiche e tecniche di tutela, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 587 s., se «la verità biologica ad ogni costo [sia] una conquista o una prigione», e dunque sugli «effetti distruttivi» che potrebbero aversi in famiglie nelle quali «un benefico velo d’ignoranza» abbia consentito «la creazione di affetti saldi e condivisi». 128 L. Bozzi, La parabola del diritto a conoscere le proprie origini. Brevi riflessioni, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 176; D. Rosani, Il diritto a conoscere le proprie origini nella fecondazione eterologa: il caso italiano e l’esperienza estera, in BioLaw Journal, 1/2016, 220; M. Bianca, op. cit., 201; L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 236 s.; P. Perlingieri, op. cit., 147 ss. 129 Corte cost., 9 ottobre 2013, n. 278, cit. 130 Particolare attenzione al profilo dello sviluppo della personalità è data da S. Patti, Sulla configurabilità di un diritto della persona di conoscere le proprie origini biologiche, in La procreazione artificiale tra etica e diritto, cit., 209 s.

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essere fatte dipendere dalla circostanza che la generazione sia avvenuta in maniera naturale o mediante fecondazione eterologa131.

12. Segue: L’effettività del diritto del nato attraverso la

fecondazione eterologa alla conoscenza delle sue origini. Sulla scorta di queste premesse, si potrebbe allora immaginare di estendere al soggetto nato attraverso la fecondazione eterologa gli stessi diritti e le stesse regole che la giurisprudenza ha intanto elaborato per il figlio adottato nato da madre che non abbia voluto essere menzionata nell’atto di nascita132. De iure condendo, se si ritiene di accogliere gli argomenti tradizionalmente addotti a presidio dell’anonimato del donatore133, ciò preluderebbe a una regolamentazione che lasciasse anzitutto a quest’ultimo la facoltà di scegliere, al momento della donazione, se restare anonimo oppure no, disciplinando poi le due ipotesi sulla scia di quanto già oggi134 avviene nell’adozione135. Tuttavia, se il confronto tra la posizione del figlio nato grazie alla donazione di gameti e quella del figlio nato da parto anonimo consente di cogliere un importante elemento di analogia che non giustificherebbe, per il primo, la predisposizione di regole che rendessero più difficile, o addirittura escludessero del tutto, la ricerca delle proprie origini, ciò non significa, però, che non possano invece essere predisposte, nei suoi confronti, regole più favorevoli, essendo l’analogia tra le due situazioni rilevante ma non totale. L’anonimato del donatore di gameti non è infatti sorretto da quelle gravi ragioni che avevano indotto la legge a rendere insuperabile la scelta della madre di restare anonima, e

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Né a contrastare la meritevolezza dell’interesse del figlio alla conoscenza delle sue origini giova addure che il donatore, verosimilmente, non vorrà né potrà instaurare con lui alcun rapporto giuridico (A. Morace Pinelli, op. ult. loc. cit.). Anche nel caso dell’adozione, infatti, il figlio che ricerca i genitori biologici (con i quali del resto è interrotto ogni vincolo legale, ad eccezione degli impedimenti matrimoniali) è animato dalla volontà di tentare un contatto sul piano umano, non giuridico, che sente ugualmente per sé importante; e, pure nel caso dell’adozione, non è affatto detto che il genitore nutra un’identica inclinazione, tant’è che, se la madre aveva scelto l’anonimato al momento del parto, occorrerà comunque il suo consenso perché i suoi dati identificativi siano svelati al figlio. 132 Sull’applicabilità già in via analogica dell’art. 28, quinto comma, l. 184/1983, v. M. Faccioli, op. cit., 1068. 133 M. Basile, op. cit., 240. 134 Anche grazie alla giurisprudenza: v. par. 5. 135 Così, là dove il donatore non optasse per l’anonimato, dovrebbe aversi una soluzione corrispondente a quella prevista per l’adozione (art. 28, quinto comma, l. 184/1983): al compimento di una determinata età, il figlio sarebbe dunque autorizzato ad accedere alle informazioni riguardanti la sua origine e l’identità del genitore biologico (o dei genitori biologici). Qualora, invece, il donatore avesse scelto l’anonimato, dovrebbe nondimeno riconoscersi al figlio (al raggiungimento della stessa soglia di età) il potere di attivare un procedimento che consentisse al giudice, nella massima riservatezza, di interpellare il donatore onde verificare se questi intenda rimuovere l’anonimato oppure confermarlo. Fermo restando, in ogni caso, che, allorquando la conoscenza dell’identità del donatore fosse necessaria per attuare interventi sanitari indispensabili a salvaguardare la vita o l’incolumità fisica del figlio (dunque, in ipotesi piuttosto rare), il diritto all’anonimato dovrebbe sempre cedere, anche se ciò non comporterebbe necessariamente la rivelazione dell’identità del donatore contro il suo volere: ai dati identificativi, infatti, dovrebbe poter accedere esclusivamente la struttura sanitaria che avesse in cura il figlio, onde essere in grado, in totale discrezione, di reperire il donatore per sondarne la disponibilità ad essere coinvolto nel protocollo terapeutico (è quest’ultima la soluzione ipotizzata da L. Lenti, op. cit., 241 ss., per il caso del parto anonimo, nonché quella accolta nel documento della Conferenza delle regioni).

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che anche la Corte costituzionale, pur pervenendo a un diverso bilanciamento di interessi, ha comunque ritenuto valide, riconoscendo alla donna, anche a distanza di molti anni, l’ultima parola sulla permanenza o meno del segreto. Questo perché il diritto a non figurare nell’atto di nascita è funzionale a rassicurare colei che non intende essere madre dal rischio di poter essere in futuro rintracciata dal figlio, sì da dissuaderla dal compimento di scelte ancor più gravose, come l’interruzione della gravidanza o l’abbandono del neonato dopo averlo partorito al di fuori di una struttura sanitaria adeguata. Né argomenti avversi alla facoltà di conoscere l’identità del donatore sarebbero da trarsi dal diritto alla riservatezza o all’immagine di quest’ultimo, soprattutto in un quadro di piena legittimità giuridica e sociale della fecondazione eterologa, di totale chiarezza sul trattamento dei dati personali del donatore136 e di assoluta libertà e consapevolezza della donazione137. Al più, potrebbe ribadirsi il dubbio che il completo superamento dell’anonimato si riveli un disincentivo alla stessa donazione di gameti; ma, anche ove ciò corrispondesse alla realtà, si tratterebbe pur sempre di una conseguenza indiretta, sulla cui attitudine a legittimare la restrizione di un diritto fondamentale occorrerebbe interrogarsi138, anche alla luce del fatto che l’esclusione dell’anonimato potrebbe invece corroborare la spontaneità e la gratuità della donazione139. Del resto, se, nella disciplina dell’adozione, le ragioni del diritto alla conoscenza delle proprie origini sono talvolta sacrificate in nome delle ricordate motivazioni, ciò è perché, in quel caso, il bilanciamento di interessi riguarda un soggetto che è già nel grembo materno e che potrebbe rischiare di non nascere, o di nascere in condizioni di pericolo, mentre, nella donazione di gameti, non è riscontrabile un dilemma del genere. In Germania, nel 2017, il principio dell’anonimato è stato completamente rimosso: la legge ha infatti riconosciuto ai nati in seguito a una fecondazione eterologa il diritto di

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La preoccupazione per la certezza del diritto è colta anche dal documento della Conferenza delle regioni, il quale, muovendo dal vigente principio dell’anonimato del donatore, rileva come eventuali modifiche alla disciplina dell’anonimato dovrebbero pur sempre garantire ai donatori che avessero ceduto in precedenza i propri gameti di mantenere celata la loro identità. 137 L. Bozzi, op. cit., 177. 138 A favore del superamento dell’anonimato si esprimeva anche un documento del 25 novembre 2011 del Comitato nazionale per la bioetica (“Conoscere le proprie origini biologiche nella procreazione medicalmente assistita eterologa”), sebbene con motivazioni non sempre persuasive, poiché tradivano un giudizio morale negativo sul ricorso alla fecondazione eterologa, rispetto alle quale il diritto del nato alla conoscenza dell’identità del donatore veniva configurato come una sorta di “risarcimento”. Questa impostazione, che il pregiudizio ideologico di fondo rende non condivisibile, è stata sviluppata da A. Nicolussi, Fecondazione eterologa e diritto di conoscere le proprie origini. Per un’analisi giuridica di una possibilità tecnica, in Riv. AIC, 1/2012, 15 ss., secondo cui il diritto di conoscere le proprie origini sarebbe un «semplice e insufficiente rimedio» al «danno» di essere stati procreati attraverso la fecondazione eterologa; danno che, secondo l’A., potrebbe addirittura legittimare, in caso di sopravvenuto bisogno del figlio, per abbandono o morte dei genitori, finanche una pretesa economica al mantenimento o agli alimenti nei confronti del donatore di gameti, la quale dovrebbe essere ricondotta ai doveri costituzionali connessi alla filiazione dall’art. 30 Cost. Pure questa ipotesi, però, non convince, poiché il presupposto generalmente riconosciuto alla base della p.m.a. eterologa (dalla legge 40 come in altri ordinamenti) è l’implicita abdicazione del donatore alla sua posizione genitoriale, sicché i diritti del figlio verso il donatore non possono mai contrastare con tale presupposto. Non vi contrasta, in particolare, il diritto alla conoscenza dell’identità del donatore, il cui esercizio non imputa alcun vincolo in capo a quest’ultimo; vi contrasterebbero, invece, eventuali rivendicazioni patrimoniali che il figlio potesse rivolgere nei suoi confronti. 139 A. Nicolussi, op. cit., 12; L. Bozzi, op. ult. loc. cit.; R. Pane, op. cit., 1439.

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accedere, al sedicesimo anno di età, a un registro nel quale saranno custoditi, per centodieci anni, i dati identificativi140 di chi abbia donato il proprio seme a una Entnahmeeinrichtung141. E pure la legge austriaca prevede che, al compimento del quattordicesimo anno di età, chi sia nato dai gameti di un donatore possa prendere visione dei dati identificativi di quest’ultimo142, registrati e conservati dall’ospedale (§ 20, secondo comma, FMedG). Nella medesima direzione va anche una recentissima raccomandazione del Consiglio d’Europa143, la quale esorta gli Stati membri a consentire ai nati dalla donazione di gameti di poter conoscere, a sedici o diciotto anni, l’identità del donatore, delineando altresì alcune regole di fondo che a tale riforma dovrebbero accompagnarsi. In parte si tratta di affermazioni assodate, come l’esclusione di ogni vincolo giuridico tra donatori e figli, nonché di ogni pretesa verso i donatori, o il principio per cui può essere il figlio a ricercare il donatore, e non viceversa, o, ancora, la necessaria tutela di coloro che abbiano donato i propri gameti in un regime di anonimato garantito. Vi sono poi alcuni apprezzabili elementi di novità più attenti al dato sociale, rinvenibili sia nell’invito ad offrire adeguato supporto tanto ai donatori prima della donazione quanto ai figli prima di esercitare il diritto di accesso alle informazioni e di decidere se contattare o meno il donatore, sia, soprattutto, nell’auspicio che – a certe condizioni – si permetta al figlio di conoscere anche l’identità di eventuali fratelli unilaterali che abbiano compiuto sedici o diciotto anni, in linea, peraltro, con quanto la nostra Corte di Cassazione ha già affermato per l’adottato144.

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Nome, cognome, data e luogo di nascita, cittadinanza e indirizzo, oltre a ulteriori informazioni che il donatore può liberamente lasciare (per esempio, sul suo aspetto fisico o sui motivi della donazione). 141 Si tratta del Gesetz zur Regelung des Rechts auf Kenntnis der Abstammung bei heterologer Verwendung von Samen del 17 luglio 2017, su cui v. N. Dethloff, op. cit., 314 s.; T. Helms, Familienrechtliche Aspekte des Samenspenderregistergesetzes, in FamRZ, 2017, 1537. 142 Nome, data e luogo di nascita, cittadinanza e luogo di residenza, nome dei genitori… 143 Recommendation 2156(2019) del 12 aprile 2019, Anonymous donation of sperm and oocytes: balancing the rights of parents, donors and children. 144 Valorizzando il riferimento dell’art. 28, quinto comma, l. 184/1983, al diritto dell’adottato di accedere alle informazioni riguardanti, oltre che l’identità dei suoi genitori, anche «la sua origine», Cass., 20 marzo 2018, n. 6963, in Giur. cost., 2018, 1497, con nota di F. Astone, ha ritenuto che in tale diritto rientrino altresì le notizie concernenti i suoi più stretti congiunti, e, in particolare, i fratelli, in coerenza con un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma che consente di ricomprendervi anche le ulteriori informazioni che rivestono rilievo primario nella (ri)costruzione della propria identità personale. Tuttavia, la Suprema Corte ha opportunamente osservato come il diritto in questione mantenga la fisionomia legale di diritto potestativo (salva l’eccezione dell’art. 28, settimo comma) solo qualora venga esercitato per ottenere i dati riguardanti i genitori; là dove esso sia volto a ricercare eventuali fratelli, invece, occorre tenere conto della radicale differenza tra la posizione di questi ultimi e quella dei genitori. I fratelli, infatti, essendo estranei alla vicenda procreativa, potrebbero legittimamente opporre all’interesse del richiedente il loro interesse a non rivelare la parentela biologica e a mantenere inalterata la loro identità come fino ad allora costruita. Pertanto, al fine di comporre il potenziale conflitto tra gli interessi in gioco, la Corte ritiene che si possa già seguire (senza bisogno di attendere uno specifico intervento del legislatore) il procedimento tratteggiato dalla Corte costituzionale nella pronuncia 278/2013, e poi sviluppato dalle Sezioni Unite nella decisione 1946/2017, volto a rendere effettivo il diritto dell’adottato, nato da parto anonimo, a ricercare la propria madre naturale e, attraverso il giudice, ad interpellarla sulla volontà o meno di svelare la propria identità. Alla luce di questa statuizione, un meccanismo identico potrebbe essere previsto anche a favore del nato attraverso la fecondazione eterologa, non essendovi infatti motivi per differenziarne il trattamento; in tal senso anche L. Bozzi, op. ult. loc. cit. Coglie esattamente questo aspetto la normativa irlandese: v. section 37 del Children and Family Relationship Act 2015.

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Decisamente inedita, infine, ancorché inerente a una questione cruciale, è invece l’idea che, al compimento dell’età prevista per l’esercizio del diritto di accesso ai dati del donatore, il figlio sia informato da un soggetto terzo, preferibilmente dallo Stato, dell’esistenza di ulteriori notizie sulla sua nascita, e della possibilità di venirne a conoscenza. Tale soluzione, volta a evitare che i genitori celino al figlio le modalità del suo concepimento, si ispira alla legislazione, assai articolata145, dello stato australiano di Victoria, ove si prevede che, quando lo stato civile rilasci il certificato di nascita di un figlio generato attraverso la donazione di gameti, debba allegarvi, se il figlio ha compiuto diciotto anni, un addendum onde rendergli nota l’esistenza di ulteriori informazioni sulle sue origini146. Una simile opzione, a prima vista, può destare perplessità, giacché rischia di apparire come un’ingerenza indebita nella sfera più intima delle persone coinvolte, e, per di più, nel quadro di un conflitto la cui soluzione si potrebbe azzardare che debba essere lasciata alla sensibilità dei genitori, ove si ritengano in gioco, da un lato, i diritti alla libera costruzione del proprio modello familiare di coloro che sono ricorsi alla fecondazione eterologa, e, dall’altro lato, il diritto alla ricerca delle origini di chi, però, senza quelle tecniche, e la scelta dei genitori di impiegarle, non sarebbe mai venuto al mondo147. Invero, se si muove dal presupposto che il diritto alla conoscenza delle origini sia un diritto fondamentale, non si può, allora, eluderne il problema della effettività, o meglio, della effettività delle condizioni di esercizio. Anche l’art. 28, l. 184/1983, del resto, prima ancora che il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni sulla sua origine e sull’identità dei genitori biologici, ne sancisce il “diritto” ad essere informato della sua condizione «nei modi e termini» che i genitori adottivi «ritengono più opportuni». Tale norma conferma, dunque, come il bilanciamento tra il diritto del figlio e le prerogative dei genitori adottivi non possa mai risolversi nel totale sacrificio del primo, ma si appunti, piuttosto, sui tempi e sulle modalità con cui la notizia dell’adozione deve essere data al figlio: tempi e modalità la individuazione dei quali, opportunamente, il legislatore rimette alla valutazione discrezionale dei genitori, convogliandola così nell’esercizio dei doveri di cura e di educazione che a loro competono148, essendo, d’altro canto, i genitori le figure che più di ogni altro, nel vivo della singola esperienza familiare, sono in grado di «avvicinare il figlio con naturalezza alla realtà», e di sostenerlo ed assisterlo nel delicato passaggio della presa di coscienza149.

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La complessa normativa, mediante un duplice sistema di registrazione, obbligatorio e volontario, intende favorire al massimo la conoscenza di informazioni tra tutti i soggetti coinvolti. Così, per esempio, è anche prevista la possibilità per i donatori di avere accesso sia a dati non identificativi dei figli nati dai loro gameti (es., numero di figli, genere, anno di nascita), sia a dati identificativi, purché, in quest’ultimo caso, vi sia il consenso del figlio oppure dei genitori, se il figlio non ha ancora compiuto diciotto anni. 146 Section 17B del Births, Deaths and Marriages Registration Act 1996 (Vic), come modificato nel 2008. 147 Critica l’opzione legislativa dell’anonimato del donatore, rinvenendone una delle ragioni proprio nell’interesse della coppia genitoriale ad escludere ogni interferenza nell’esercizio del loro diritto a procreare, S. Stefanelli, Procreazione e diritti fondamentali, in A. Sassi-F. Scaglione-S. Stefanelli, La filiazione e i minori, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2015, 154 s. 148 L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, in Tratt. dir. fam. diretto da P. Zatti, II, La filiazione, cit., 940. 149 V. Gagliardi, Art. 24, commi 1°, 2° e 3°, l. 28 marzo 2001, n. 149, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 1013; L. Sacchetti, Nuove norme sul

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Una disposizione di siffatto tenore sarebbe senz’altro da estendere alla fecondazione eterologa, e sarebbe opportuno che il legislatore vi provvedesse, nell’ambito di una nuova regolamentazione della materia, stavolta, sperabilmente, conforme a Costituzione. Tuttavia, nemmeno la disciplina dell’adozione offre meccanismi volti ad assicurare l’adempimento, da parte dei genitori, del dovere di disclosure. La lacuna è verosimilmente dipesa, per un verso, dalla difficoltà di immaginare un intervento autoritativo che possa realizzare il diritto del minore senza, al contempo, turbare, magari irreparabilmente, l’equilibrio della famiglia, e, per altro verso, da alcuni fattori che hanno concorso a ridimensionare la portata pratica della questione. In particolare, le costanti raccomandazioni agli adottanti degli operatori giuridici e sociali sull’importanza di non tenere nascosta all’adottato la sua storia, e la maggiore pubblicità che la vicenda adottiva normalmente presenta anche all’esterno della famiglia, rendono più difficile per i genitori, pure qualora lo volessero, celare al figlio la sua provenienza. Sicché, il problema è in qualche misura rimasto in sordina, tant’è che si discute perfino se la prescrizione che apre l’art. 28 contenga solo un’esortazione morale150 oppure assegni un vero e proprio diritto al figlio ed un correlativo obbligo ai genitori151: nel qual caso, si è anche ipotizzato che, in situazioni estreme di riluttanza o incapacità degli stessi a rendere l’informazione, un parente o il p.m. su segnalazione dei servizi sociali possa comunque avviare un procedimento, ex art. 333 c.c., affinché il giudice disponga i «provvedimenti convenienti» a far sì che a quella provveda un parente o un operatore sociale152. Indubbiamente, non si tratterebbe di un epilogo desiderabile. D’altro canto, il primo comma dell’art. 28, l. 184/1983, non pare nemmeno limitarsi a un mero suggerimento, cristallizzando, a ben vedere, una situazione giuridica di vantaggio del minore che, tecnicamente, più che la fisionomia del diritto soggettivo, presenta quella dell’interesse legittimo di diritto privato153; e la circostanza che la reticenza dei genitori sia “sanzionabile” – se-

segreto nell’adozione: una serie di problemi, in Fam. dir., 2002, 97; C. Restivo, L’art. 28 l. ad. tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, I, 696 ss.; M. Petrone, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano, 2004, 23 ss. 150 L. Lenti, op. cit., 230; A. Figone, Sulla conoscenza delle proprie origini da parte dell’adottato, in Fam. dir., 2003, 73; M. Dogliotti, Adozione di maggiorenni e minori, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2002, 640. 151 L. Fadiga, op. loc. cit.; B. Checchini, Anonimato materno e diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, in Riv. dir. civ., 2014, 714; L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2006, II, 164; G. Lisella, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo dell’art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. dir. civ., 2004, 420; V. Sciarrino, Il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini biologiche nella legge 4 marzo 1983, n. 184, in Rass. dir. civ., 2002, 803. 152 L. Fadiga, op. loc. cit.; G. Lisella, op. loc. cit. 153 Trattasi, infatti, di una situazione, di vantaggio inattiva, ove il soddisfacimento dell’interesse-presupposto non dipende dal comportamento del suo titolare, ma da quello di soggetti diversi, a cui fa capo una situazione di “dovere”, una volta detta di potestà, ora di responsabilità genitoriale, necessitata nell’an e discrezionale nel quomodo, la quale impone agli agenti di scegliere la via più opportuna, alla luce delle circostanze del caso concreto, per la realizzazione del fine (cioè dell’interesse) fissato dalla norma. Si richiama qui il pensiero di L. Bigliazzi Geri, Interesse legittimo: diritto privato, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 543 ss., 554 s., ma l’inquadramento dell’interesse del figlio nei ranghi dell’interesse legittimo non muta il senso del nostro discorso, poiché, come ricordava l’illustre Autrice, «l’interesse legittimo è solo diverso, non più debole del diritto soggettivo».

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condo procedure prudenti e controllate – dovrebbe rappresentare un incentivo idoneo a scongiurare che si arrivi mai a quel punto, incoraggiando, anzi, i genitori a vincere ogni resistenza, e a trovare, eventualmente con l’aiuto di un sostegno esterno, le parole e i tempi migliori per parlare con il figlio. Nel caso della fecondazione eterologa, tale obiettivo potrebbe, in effetti, essere perseguito mediante la previsione di un dispositivo di tipo pubblicistico, quale, appunto, una sorta di comunicazione istituzionale rivolta personalmente al figlio, al compimento dell’età stabilita per il diritto di accesso, onde informarlo dell’esistenza di particolari notizie sulla sua nascita e della facoltà di venirne a conoscenza. L’attivazione di un simile meccanismo non sarebbe, di nuovo, un esito auspicabile, ma consentirebbe nondimeno di garantire un diritto fondamentale del figlio, lasciando comunque ai genitori un ampio margine nella scelta del momento e del modo in cui informarlo preventivamente154. Da un punto di vista sistematico, un intervento di questa portata nelle dinamiche della famiglia si giustificherebbe nel solco delle direttrici costituzionali che si condensano in quel binomio di libertà e responsabilità che informa il modello legale delle relazioni familiari nel loro complesso155, e quindi anche dei rapporti tra genitori e figli. Già l’art. 30 Cost., infatti, enuncia un rigoroso «principio di responsabilità dei genitori per il fatto stesso della procreazione» che non si limita a prescrivere identici doveri di mantenimento, istruzione ed educazione verso la prole, estesi alla massima latitudine dall’art. 279 c.c., bensì, di concerto con l’art. 2 Cost., orienta anche il contenuto di tali doveri, volgendoli a un disegno di formazione morale e intellettuale idoneo ad assicurare al minore l’integrale sviluppo della sua personalità156. Tale principio, ove l’instaurazione del vincolo di filiazione prescinda dall’atto della generazione biologica, non muta sostanza, ma si appalesa, piuttosto, come una forma di «autoresponsabilità»157, scaturente dalla libera volontà dei genitori di assumere tale stato al di là dell’esperienza della procreazione naturale: circostanza, quest’ultima, che giustifica la comparsa, accanto ai doveri generalmente collegati alla responsabilità genitoriale, e trasfusi dal piano costituzionale all’art. 315-bis c.c., di specifici doveri e responsabilità, volti a realizzare un interesse del figlio la cui rilevanza è precipuamente connessa alla particolare origine del rapporto di filiazione. Sotto questa luce, si comprende così tanto la logica del discutibile divieto158 per la donna che si sottoponga a una procedura di fecondazione

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Al fine di sensibilizzare i genitori, sembrano particolarmente efficaci le pagine, dedicate a questo tema, del portale della VARTA – Victorian Assistive Reproductive Treatment Authority (www.varta.org.au). 155 Alla vigilia della riforma del 1975, un’indagine su tale binomio si deve a F.D. Busnelli, Libertà e responsabilità dei coniugi nella vita familiare, in Id. Persona e famiglia, cit., 301 ss. (e già in Riv. dir. civ., 1973, I, 119 ss.). 156 M. Bessone, Art. 30-31, in Comm. Cost. a cura di G. Branca, Rapporti etico-sociali, Art. 29-34, Bologna-Roma, 1976, 86 ss., 93 ss. 157 A. Cordiano, Il principio di autoresponsabilità nei rapporti familiari, Torino, 2018, 123 ss.; A. Morace Pinelli, op. cit., 260. 158 A parte, infatti, che il divieto potrebbe essere facilmente eluso, non avendo modo l’ufficiale di stato civile di accorgersi se la madre sia ricorsa alla p.m.a., la norma, apparentemente diretta alla tutela del nato, trascura invero proprio l’interesse di quest’ultimo, giacché, se nel caso della fecondazione assistita può magari presumersi che le ragioni normalmente alla base del diritto all’anonimato materno vengano molto spesso meno, ciò non esclude tuttavia a priori una loro possibile ricorrenza pure in questo contesto; v., tra gli altri,

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assistita di non farsi nominare nell’atto di nascita159, quanto il nesso che collega il consenso della coppia all’utilizzazione delle tecniche di p.m.a. all’automatica costituzione del rapporto di filiazione160, quanto, infine, la condivisibile convinzione che quello previsto al primo comma dell’art. 28, l. 184/1983, sia un vero e proprio “dovere” dei genitori, e che un medesimo dovere sia del pari da sancire a favore del figlio nato attraverso la fecondazione eterologa. Infatti, il fermo rifiuto – come già nell’interpretazione dell’art. 29 Cost.161 – di concezioni giusnaturalistiche, funzionali ad affermare l’estraneità della famiglia al resto della società civile, e, in nome di una sua fraintesa sovranità, a respingere ogni direttiva statuale di adeguamento dei suoi rapporti interni all’evoluzione sociale, non conduce a cancellare l’inviolabilità del diritto «personalissimo» dei genitori di curare l’educazione della prole, bensì ne nega il carattere di «potere incondizionato», riconducendone invece il senso, la portata e i limiti nel contesto di un complessivo disegno di responsabilità sociale dell’istituzione orientato alla trasformazione del figlio da «minore» a «cittadino»162. Da questa angolazione, divengono allora legittime tutte le politiche del diritto che – senza pregiudicare l’autonomia dei genitori nella scelta delle modalità di attuazione – siano finalizzate a presidiare la libera formazione della personalità del minore, dalla quale, per ciò che qui interessa, non può scindersi quel processo di costruzione dell’identità individuale di cui il diritto alla conoscenza delle proprie origini è parte integrante in quanto momento essenziale di agnizione.

G. Ferrando, La nuova legge, cit., 816; L. D’Avack, La legge sulla procreazione medicalmente assistita: un’occasione mancata per bilanciare valori ed interessi contrapposti in uno stato laico, in Dir. fam. pers., 2004, II, 807 s. 159 M.R. Spallarossa, La procreazione responsabile, in Tratt. biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Il governo del corpo, II, a cura di S. Canestrari-G. Ferrando-C.M. Mazzoni-S. Rodotà-P. Zatti, Milano, 2011, 1377 nt. 21. 160 C.M. Bianca, Diritto civile, II-1, La famiglia, VI ed., Milano, 2017, 442 s.; G. Ferrando, Autonomia delle persone, cit., 403; U. Salanitro, op. ult. cit., 3734 s.; R. Villani, La procreazione assistita, cit., 675 ss. 161 M. Bessone, Art. 29, in Comm. Cost. a cura di G. Branca, cit., 8 ss., 17 ss. 162 M. Bessone, Art. 30-31, cit., 101 ss.

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Gli accordi in vista della crisi della convivenza* Sommario : 1. Profili introduttivi. – 2. L’eterogeneità causale dei contratti di convivenza. La qualificazione giuridica delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi. – 3. Gli accordi in previsione della crisi della convivenza. – 4. (Segue) Sulla inapplicabilità del divieto dei patti prematrimoniali. – 5. Le convivenze di fatto ed i contratti di convivenza, alla luce della l. 2016 n. 76. Gli ostacoli alla redazione di un accordo in vista della crisi della convivenza. – 6. (Segue) Il divieto di apporre termini e condizioni ai sensi del co. 56. – 7. (Segue) Il contenuto ammissibile ai sensi del co. 53. – 8. Le soluzioni percorribili: contratto atipico ex art. 1322, co. 2, c.c. o pattuizione atipica ex art. 1322, co. 1, c.c. – 9. (Segue) Sul recesso unilaterale di cui al co. 59 lett. b). – 10. Accordi in vista della crisi della convivenza e parametri di meritevolezza: la cd. proporzionalità. – 11. (Segue) La tutela della libertà personale di scelta. Considerazioni conclusive.

Article 1, paragraphs 50 et seq. of Law no. 76 of 20 May 2016, on civil unions and domestic partnerships, regulates the cohabitation agreements with which de facto partners may regulate the property aspects of their common life. In this contribution, on the contrary, the author questions the feasibility of agreements that regulate the termination of de facto cohabitation; in particular, the article, on the one hand, highlights potential obstacles outlined by the aforementioned law, and on the other hand, assesses the applicability of the arguments used in relation to the prohibition of prenuptial agreements. Lastly, the author illustrates a series of technical and legal measures useful in the drafting of an agreement in function of the crisis of domestic partnership.

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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Alessandro Semprini

1. Profili introduttivi. Il tema degli accordi in vista della crisi di una relazione di coppia suscita, da sempre, grande interesse negli interpreti e nella stessa opinione pubblica. Il richiamo a regolamentazioni estere – che ammettono pattuizioni stipulate prima del matrimonio e volte a regolare gli effetti patrimoniali per il momento del suo scioglimento – viene effettuato, di sovente, nell’auspicio di una prossima novella. Novella che, di questi tempi, potrebbe davvero giungere, visto il disegno di legge delega in discussione in Parlamento sulla revisione del codice civile, la quale ricomprende anche il tema dei patti prematrimoniali1. L’interesse per siffatti accordi, anche in relazione a rapporti di coppia non fondati sul matrimonio (o su una unione civile), parimenti, non è mai mancato2. A maggior ragione, dopo l’introduzione della l. 20 maggio 2016 n. 76, con la quale sono state disciplinate le convivenze di fatto ed i contratti di convivenza, il dibattito ha suscitato un rinnovato interesse anche nella dottrina civilistica3. Nel presente lavoro ci si interroga sulla legittimità di accordi patrimoniali, redatti tra conviventi di fatto, in previsione della futura ed eventuale crisi della loro convivenza. In particolare, dopo una breve analisi del quadro concettuale ed interpretativo antecedente alla suddetta legge, si chiarirà cosa si intende per “contratti in vista della crisi della convivenza”, e si valuterà: (i) l’applicabilità, a siffatti accordi, degli argomenti che ancora oggi vietano la redazione di patti prematrimoniali; (ii) il perimetro applicativo dei nuovi contratti di convivenza, disciplinati dalla l. 2016 n. 76; e (iii) la possibilità di inserire, all’i-

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Disegno di legge delega, presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia, e comunicato alla Presidenza del Senato in data 19 marzo 2019, il quale, alla lett. b) dell’art.1, delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per: “[…] consentire la stipulazione tra i nubendi, tra i coniugi, tra le parti di una programmata o costituita unione civile, di accordi intesi a regolare tra loro, nel rispetto delle norme imperative, dei diritti fondamentali della persona umana, dell’ordine pubblico e del buon costume, i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto, nonché a stabilire i criteri per l’indirizzo della vita”. Tra i tanti, si vedano L. Balestra, La famiglia di fatto tra autonomia ed eteroregolamentazione, in NGCC, 2007, 194-206 e S. Delle Monache, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Rivista di diritto civile, 4, 2015, 944-963. Per alcune considerazioni, in chiave comparativa, v. S. Patti, I modelli di famiglia e di convivenza, in Manuale di diritto privato europeo, C. Castronovo – S. Mazzamuto, Vol. I, Fonti Persone Famiglia, Milano 2007, 227. Senza pretese di esaustività, per un orientamento bibliografico: G. Amadio, La crisi della convivenza, in NGCC, 12, 2016, 1765-1774; T. Auletta, Disciplina delle unioni civili non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (l. 20 maggio 2016, n. 76), in Nuove leggi civ. comm., 3, 2016, 386 ss.; G. D’Amico, Contratto di convivenza e atto di destinazione, in Famiglia e diritto, 2, 2018, 203-211; L. Gatt, Autonomia privata e convenzioni familiari nella dialettica tra tipicità e atipicità negoziale, in Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. n. 5/2017; d.lgs. n. 6/2017; d.lgs. n. 7/2017, a cura di C.M. Bianca, Comma 50, Torino, 2017, 616-622; G. Musolino, Il contratto di convivenza. Aspetti formali e relative nullità, in Rivista del notariato, 4, 2018, 725-746; G. Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, in Famiglia e diritto, 10, 2016, 943-957; U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in NGCC, 12, 2016, 1749-1764; E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: spunti di riflessione, in Giust. civ., 2, 2016, 275 ss.; G. Rizzi, La convivenza di fatto e il contratto di convivenza, in Notariato, 1, 2017, 11-34; P. Sirena, L’invalidità del contratto di convivenza, in NGCC, 7-8, 2017, 1071-1079; A. Spadafora, Lo status coniugale e gli status paraconiugali tra legge e autonomia privata, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2017, 1092-1126; F. Tassinari, Il contratto di convivenza nella l. 20.5.2015, n. 76, in NGCC, 12, 2016, 1736-1748; G. Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in Rivista di diritto civile, 5, 2016, 1319-1352; D. Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico ed atipico, in NGCC, 11, 2017, 1570-1581.

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nerno di essi, pattuizioni che regolino gli aspetti patrimoniali della crisi della convivenza. In conclusione, si effettueranno alcune riflessioni su criteri e parametri da rispettare nella redazione di accordi in vista della crisi della convivenza, nell’ottica di evitare eventuali giudizi di merito che ne determinino una loro invalidità.

2. L’eterogeneità causale dei contratti di convivenza. La qualificazione giuridica delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Innanzitutto, occorre chiarire il contesto antecedente alla entrata in vigore della l. 2016 n. 76, in materia di convivenze di fatto. Queste, a ben vedere, sono rimaste a lungo prive di un’armonica ed unitaria disciplina giuridica. La giurisprudenza e lo stesso legislatore, infatti, nel corso degli anni, hanno riconosciuto solo peculiari diritti in favore dei conviventi: dalla ben nota successione nel contratto di locazione, al meno noto diritto di visita (del condannato) al convivente di fatto in pericolo di vita, i profili disciplinari applicabili alle convivenze more uxorio erano eccezionali e di natura settoriale4. D’altronde, così doveva essere, trattandosi di istituto giuridico per sua stessa natura correlato alla libertà, nel suo senso lato del termine. Forse proprio per questo motivo, nella prassi, accordi e pattuizioni volte a regolamentare giuridicamente i rapporti di convivenza non hanno mai avuto larga diffusione. Invero, i contratti stipulati tra conviventi con tali finalità hanno fin da subito evidenziato un carattere significativo: l’eterogeneità causale del loro contenuto5. In altri termini, i contratti di convivenza stipulati secondo le norme di diritto comune, prima della l. 2016 n. 76, hanno sempre mostrato profili causali molto variegati (idonei ad influenzare la fattispecie

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Quanto alla legislazione, in sintesi: art. 30, l. 26 luglio 1975, n. 354, in tema di diritto di visita del condannato al convivente in pericolo di vita; art. 337-sexies, co. 1, c.c., sul venir meno dell’assegnazione della casa familiare per nuova convivenza more uxorio; art. 342bis c.c., in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari; art. 408 c.c. sulla scelta dell’amministratore di sostegno; art. 417 c.c. in materia di istanza di interdizione o di inabilitazione; art. 5, l. 19 febbraio 2004, n. 40, sull’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; art. 3, l. 1° aprile 1999, n. 91, in ambito di prelievi e trapianti di organi e tessuti; art. 1, co. 598, l. 23 dicembre 2005, n. 266, in materia di alienazione degli immobili di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari; art. 199 c.p.p., sulla facoltà di astenersi dall’andare a deporre in un giudizio penale. Nella giurisprudenza, invece, si considerino: la sentenza della Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 6, co. 1, L. 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), nella parte in cui non prevede, in caso di morte del conduttore, il subentro nel contratto di locazione (oltre che del coniuge, dei parenti e affini che con lui coabitano) anche del convivente more uxorio; la sentenza della Corte di Cassazione, 15 marzo 2006, n. 5632, sull’applicabilità, ai conviventi, dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c.; ecc. Una esaustiva ricostruzione della disciplina viene effettuata da Rizzi, op. cit., 11 ss.; per una panoramica della giurisprudenza sul riconoscimento di posizioni risarcitorie al convivente, si rinvia a Cass., 22.1.2014, n. 1277. Sul punto, Delle Monache, op. cit., 945, precisa che la formula “contratti di convivenza […] si riferisce solo in apparenza ad una realtà unitaria, essendo invece evocativa di una serie di situazioni non solo diverse, ma anche distanti, talvolta l’una dall’altra”: nella ricostruzione empirica, viene evidenziata una “[…] marcata eterogeneità dei fenomeni che pure sono espressione dell’autonomia negoziale in quanto potere regolatorio applicato alle relazioni di convivenza”.

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dal punto di vista strutturale). Come messo in luce dalla dottrina6, potevano (e possono ancora oggi) ravvisarsi nella prassi: (a) contratti di convivenza in senso stretto, con i quali i conviventi fissano un assetto regolamentare per disciplinare il quotidiano svolgersi della convivenza sotto il profilo economico; (b) accordi con attribuzioni dotative, per assegnare alla famiglia di fatto i mezzi patrimoniali necessari per far fronte ai propri bisogni; (c) accordi con attribuzioni “di natura premiale”, compiute da un coniuge all’altro, e giustificate dal periodo di convivenza già trascorsa (nonché in vista della successione del disponente); nonché (d) accordi con attribuzioni di tipo liquidatorio, in quanto compiute in funzione della rottura della convivenza. Parimenti, le esigenze del rapporto di convivenza vengono talvolta soddisfatte mediante l’inclusione, all’interno di tali accordi, di contratti normativamente tipici (es. comodato, mantenimento, ecc.). In relazione ai succitati contratti, ad ogni modo, l’esigenza di interpreti ed operatori è sempre stata una: disapplicare la disciplina delle donazioni (con tutte le problematiche ad essa correlate). D’altro canto, però, benché in tali fattispecie non possa tecnicamente ravvisarsi un animus donandi, non può negarsi come un abuso dello strumento possa pregiudicare interessi differenti, parimenti protetti a livello normativo (la tutela dei legittimari)7. Proprio per tale motivo, ci si è a lungo interrogati sulla qualificazione giuridica delle attribuzioni di natura patrimoniale tra conviventi, e sulla causa da attribuire alle stesse. D’altronde, mentre nei rapporti matrimoniali il mutuo sostegno economico è determinato dagli obblighi di cui all’art. 143 c.c., nelle convivenze di fatto possono solo ravvisarsi doveri morali o sociali8. Giocoforza, i profili causali di tali attribuzioni sono stati associati alle figure delle donazioni rimuneratorie o delle liberalità d’uso9, nonché, più ragionevolmen-

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Ibidem. Sul punto, L. Balestra, Convivenza e rapporti di fatto. I rapporti patrimoniali, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, 1, 2a ed., Milano, 2011, 1131, precisa che “[…] secondo un orientamento ormai da lungo tempo consolidato, affinché possa parlarsi di obbligazione naturale occorre che il relativo adempimento sia proporzionato. La convivenza more uxorio non può, di per sé, giustificare l’adempimento di qualsivoglia prestazione, né, soprattutto, qualunque ammontare della prestazione stessa”. Sul requisito della cd. proporzionalità, ad ogni modo, si ritornerà per ulteriori approfondimenti in chiusura. Per ampie riflessioni sulla gratuità causale degli atti negoziali, si rinvia a L. Gatt, La liberalità, I, Torino, 2002, 309-413. «È noto […] come la questione relativa alle elargizioni effettuate durante la convivenza da oltre quarant’anni venga impostata configurando un vero e proprio dovere di assistenza in capo a ciascuno dei conviventi, la cui rilevanza, almeno nel periodo che precede l’eventuale adempimento, sarebbe da ricercare unicamente sul piano morale e sociale»; così Balestra, Convivenza e rapporti di fatto. I rapporti patrimoniali, cit., 1129. Contra, Furgiele, Libertà e famiglia, Giuffré, 1979, 288, sulla sussistenza anche nelle convivenze more uxorio di veri e propri doveri giuridici. Cfr. G.B. Ferri, Qualificazione giuridica e validità delle attribuzioni alla concubina, in Riv. dir. comm., 1969, II, 415 ss.; B. Biondi, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Vol. XII, Tomo quarto, Torino, 1961, 755 ss. Si veda, sul punto, anche Cass., 24.11.1998, n. 11894 (aspramente criticata in dottrina; v. V. Carbone, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali: la Cassazione “ripiomba” nel medioevo, in Corr. giur., 1999, 1, 54 ss.), pronunciatasi su una elargizione di gioielli effettuate nell’ambito di un rapporto more uxorio (qualificando il regalo come donazione nulla per difetto di forma).

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te, con una lettura ormai consolidata, in obbligazioni naturali10 (solo di recente, infatti, si è richiamata la natura parafamiliare del rapporto quale causa dell’attribuzione11). Posto quanto sopra12, però, non è mai stata ben chiara la realizzabilità di accordi che attribuissero rilievo giuridico a tali attribuzioni spontanee (cd. giuridicizzazione dei doveri morali). In sostanza, in ossequio alla autonomia negoziale, ci si è interrogati a lungo sulla possibilità di novare tali obbligazioni naturali in obbligazioni civilistiche, sia in relazione a prestazioni da svolgere all’interno del rapporto, che in relazione a prestazione da svolgere alla conclusione di esso. Al riguardo – occorre rilevare – ritenuta inammissibile siffatta novazione in dottrina13 ed in giurisprudenza14, si è riconosciuta legittimità a tali accordi in ossequio al principio di autonomia contrattuale15, di cui all’art. 1322 c.c.

3. Gli accordi in previsione della crisi della convivenza. Come anticipato, possibile contenuto di contratti di convivenza sono anche le regolamentazioni subordinate alla cessazione del rapporto: infatti, è proprio in tale momento che “il bisogno di tutela, e la conseguente domanda di regolazione pattizia, assumono massima evidenza […]”16. Con la locuzione accordi in vista della crisi della convivenza, in

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Tra le tante, v. Cass., 15.1.1969, n. 60; Cass., 3.2.1975, n. 389; Cass., 20.1.1989, n. 285; Cass., 13.3.2003, n. 3713; Cass., 15.5.2009, n. 11330 e la recente Cass., 22.1.2014, n. 1277, la quale precisa che “Eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese, invero, come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare, pur senza la cogenza giuridica di cui all’art. 143 c.c., comma 2, forme di collaborazione, e, per quanto qui maggiormente interessa, di assistenza morale e materiale”. Al riguardo, in realtà, “la riconduzione nel calco dell’obbligazione naturale con la correlata soluti retentio rappresentava [e rappresenta ancora oggi, nda] una forma di tutela della parte debole […] per l’ipotesi che, terminata la convivenza fossero state chieste in restituzione le prestazioni pecuniarie effettuate in costanza; diversamente, se prive della forma solenne donativa, quelle stesse prestazioni avrebbero potuto essere considerate oggetto di donazione rimuneratoria, come tale nulla per (eventuale) difetto di forma, con conseguente obbligo di restituzione di quanto ricevuto” (così, Perfetti, op. cit., 1752). 11 Cfr. Balestra, Convivenza e rapporti di fatto. I rapporti patrimoniali, cit., 1130 ss., il quale, più che espressione di un dovere morale, considera tali elargizioni elementi costitutivi di una fattispecie lecita (la convivenza di fatto); Amadio, op. cit., 1766. 12 Su questi temi, diffusamente, v. G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Giuffré, 1991, 83 ss.; Balestra, Convivenza e rapporti di fatto. I rapporti patrimoniali, cit., 1125-1138. Per una sintetica ricostruzione, v. Villa, op. cit., 1324-1328. 13 Ex multis, R. Nicolò, Esecuzione indiretta di obbligazioni naturali, in Foro it., 1939, I, c. 41 ss., affermava che “se la causa novandi non è sufficiente (...) a creare sulla base di un’obbligazione naturale un’obbligazione civile, a maggiore ragione si deve ritenere che la nuova obbligazione costituita come strumento per adempiere la prima, non può essere mai un’obbligazione civile. Il negozio destinato a creare il nuovo obbligo, sarebbe irrimediabilmente un negozio senza causa perché nessuna funzione praticamente rilevabile, se si elimini quella di accertamento, potrebbe esercitare sul rapporto preesistente”. V., al riguardo, A. Montel, Obbligazione naturale come causa di obbligazione civile, in Riv. dir. comm., 1941, II, 132. 14 Da ultima, v. Cass., 22.1.2014, n. 1277, la quale ha ribadito che, in relazione al “negozio con cui si provvede a regolare gli aspetti inerenti ai rapporti conseguenti alla cessazione della convivenza […] un’obbligazione assunta in funzione di adempimento di doveri morali e sociali è intrinsecamente priva di coercibilità”. 15 Tra i tanti, E. Quadri, Famiglia e ordinamento civile, Torino, 1999, 41 ss.; M. Franzoni, I contratti tra conviventi “more uxorio”, in Riv. trim. d. proc. civ., 1994, 745; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, 59 ss. e 187 ss.; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 156, 163 ss., il quale precisa che “Per quanto riguarda la giustificazione causale, essa non va individuata nell’assunzione di una obbligazione naturale come obbligazione civile”, perché nel caso di specie “[…] le parti non mirano a ciò ma piuttosto a definire i propri rapporti mediante un contratto atipico sinallagmatico che trova la propria giustificazione nella struttura lecita e giuridicamente rilevante la cui vita interna si intende regolamentare”. 16 V. Amadio, op. cit., 1765.

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particolare, si fa riferimento a “[…] quegli accordi patrimoniali che hanno per oggetto non la conduzione della vita in comune, ma la sua cessazione […]”17, ovvero la fase conclusiva del rapporto di convivenza18. A mero titolo esemplificativo, siffatti accordi potrebbero ricomprendere pattuizioni aventi ad oggetto: (i) la determinazione dei criteri con cui procedere alla futura divisione di tutti i beni acquistati durante la convivenza; (ii) una contribuzione periodica, a carico di chi dispone di un reddito più elevato tra i conviventi, ed in favore dell’altro; (iii) attribuzioni patrimoniali compensative di una scelta di vita economicamente penalizzante per uno dei due conviventi; (iv) spostamenti patrimoniali in ragione della cessazione del rapporto imputabile all’uno o all’altro; (v) attribuzioni immobiliari (a titolo solutorio di obblighi di mantenimento); e così via19. È difficile negare la grande utilità che tali accordi potrebbero assumere nella prassi. In particolare, una adeguata disciplina di specifici aspetti del rapporto in via di scioglimento, invero, potrebbe prevenire possibili liti tra ex-conviventi (cd. funzione antiprocessualistica)20. Nella realizzabilità di essi, però, un profilo di grande interesse (e di determinante rilievo) attiene al rapporto con i patti prematrimoniali. Prima di valutare quale sia l’approccio redazionale più efficace nella stipula di accordi in vista della crisi della convivenza, infatti, occorre interrogarsi sull’applicabilità/inapplicabilità ad essi del divieto che ancora oggi proibisce la realizzazione di patti prematrimoniali; in altri termini, occorre comprendere se gli argomenti in forza dei quali la giurisprudenza ritiene (ancora oggi) nulli i patti prematrimoniali possano ostacolare anche la realizzazione di accordi in vista della crisi della convivenza.

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Quegli “[…] accordi patrimoniali che hanno per oggetto non la conduzione della vita in comune, ma la sua cessazione, presuppongono una disciplina che sia improntata al diritto comune dei contratti in generale (artt. 1321 – 1469 c.c.), piuttosto che a quelle altre caratteristiche, tipiche più dei regimi matrimoniali del libro primo del codice civile che della disciplina generale del contratto, che la l. n. 76/2016 ha tenuto presente nel dettare la disciplina dei commi 50 ss.”; così Tassinari, op. cit., 1742. 18 Chiaramente, “la convivenza dovrà cessare non per morte, ma per rottura unilaterale o concordata, perché altrimenti ogni accordo raggiunto con riguardo ad una sistemazione patrimoniale post mortem si configurerebbe come patto successorio vietato dall’art. 458 c.c.” (così Gazzoni, op. cit., 165). 19 Per una approfondita analisi delle possibili pattuizioni, si rinvia a Aa.Vv., Guida operativa in tema di convivenze. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale, 2013, 41 ss. e G. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, 171 ss. 20 Di sovente, però, sono dinamiche psicologiche e sociologiche ad ostacolare la diffusione di tali accordi, quali, ad esempio, il desiderio di non legarsi giuridicamente oppure il “timore che il mondo degli interessi si impadronisca di un rapporto governato dai sentimenti, ecc.” cfr. Tassinari, op. cit., 1737.

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4. (Segue) Sulla inapplicabilità del divieto dei patti prematrimoniali.

Con riguardo ai patti prematrimoniali21, tre sono le precisazioni da effettuare in via preliminare. La prima attiene alla individuazione di tali accordi: si considerano, infatti, patti prematrimoniali vietati, non solo gli accordi effettuati antecedentemente alla contrazione del matrimonio (che ne regolano le conseguenze patrimoniali per lo scioglimento dello stesso), ma anche quelli realizzati in sede di separazione (molto più frequenti nella prassi)22. Anche questi ultimi, infatti, realizzati all’interno di una separazione consensuale, vengono posti in essere in un momento antecedente allo scioglimento effettivo del rapporto, risultando soggetti (nel loro contenuto) a potenziali giudizi di merito. La seconda considerazione, invece, attiene alle pattuizioni solitamente ricomprese all’interno di tali accordi: queste, principalmente, sono analoghe a quelle sopra richiamate in tema di accordi in vista della crisi della convivenza. In aggiunta a quanto detto, però, nei patti prematrimoniali vengono in rilievo anche pattuizioni sostitutive degli obblighi di mantenimento tra coniugi (nella separazione e nel divorzio), dell’assegnazione della casa familiare, ovvero di tutte le possibili conseguenze patrimoniali di un divorzio. La terza, invece, attiene alle recenti posizioni della giurisprudenza23 sui patti prematrimoniali. Al riguardo, occorre precisare, non vi è stata una vera e propria apertura, come da taluno rilevato: le suddette pronunce, in realtà, si sono limitate ad ammettere la realizzabilità di anticipate regolamentazioni di rapporti debitori già esistenti tra coniugi24.

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Per un’analisi della tematica, si rinvia a F. Cerri, Gli accordi prematrimoniali, Milano, 2011; A. Bellorini, Accordi in previsione della futura ed eventale separazione dei coniugi nella recente giurisprudenza di legittimità, in i Contratti, 2, 2016, 173-183; G. Oberto, Gli accordi prematrimoniali in Cassazione, ovvero quando il distinguishing finisce nella haarspaltemaschine, in Famiglia e diritto, 4, 2013, 321-334; C. Coppola, Gli accordi in vista del divorzio, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, Vol. terzo, La separazione personale dei coniugi. Il divorzio. La rottura della convivenza more uxorio, Torino, 2016, 2843-2869; A. Fusaro, La sentenza delle Sezioni Unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?, in Famiglia e diritto, 11, 2018, 1031-1039. Per alcuni profili comparativi, v. E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Famiglia e diritto, 5, 2005, 543-560. 22 Sono parimenti molto numerosi i contributi della dottrina al riguardo. Ex multis, A. Fusaro, Assetti patrimoniali in occasione della separazione, in Fam. pers. succ., 2010, 537 ss.; C. Caricato, Gli accordi in vista della crisi, in Tratt. Bessone, IV, Il diritto di famiglia. La crisi familiare, II, a cura di T. Auletta, Torino, 2013, 417 ss.; A. Arceri, La pianificazione della crisi coniugale: il consenso sulle condizioni della separazione, accordi a latere e pattuizioni in vista del futuro divorzio, in Fam. e dir., 2013, 94 ss. 23 Si fa riferimento, in particolare, alle pronunce della Corte di Cassazione n. 23713 del 21 dicembre 2012, n. 19304 del 21 agosto 2013 e n. 21 febbraio 2014 n. 4210, sulle quali si rinvia in dottrina a: Oberto, Gli accordi prematrimoniali in Cassazione, ovvero quando il distinguishing finisce nella Haarspaltemaschine, cit., p, 321 ss.; F. Sangermano, Riflessioni su accordi prematrimoniali e causa del contratto: l’insopprimibile forza regolatrice dell’autonomia privata anche nel diritto di famiglia, in Corr. giur., 2013, 221 ss.; A. Figone, Ancora in tema di patti prematrimoniali, in Fam. e dir., 2013, 843 ss.; B. Grazzini, Accordi in vista del divorzio: la crisi coniugale fra “causa genetica” e “evento condizionale” del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 5 ss. 24 Le sentenze in oggetto, infatti, si sono pronunciate per la validità di pattuizioni preventive volte a disciplinare la sorte di un rapporto debitorio (già esistente tra coniugi) per il caso in cui fosse intervenuto lo scioglimento del matrimonio; in esse, pertanto, si ravvisava già un titolo autonomo fonte dell’obbligazione, e le parti si sono limitate a regolamentare come debba esserne data esecuzione. Cfr. Bellorini, op. cit., 177.

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Precisato quanto sopra, dunque, per comprendere se il divieto di stipulare accordi in vista della crisi del matrimonio (cd. patti prematrimoniali) possa essere esteso anche agli accordi in vista della crisi della convivenza, occorre evidenziare le motivazioni e gli argomenti posti a fondamento di tale divieto. In sintesi, la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sui patti prematrimoniali ha richiamato differenti fondamenti (del divieto)25, evidenziandone: 1) illiceità causa, per violazione del principio di indisponibilità dei diritti e doveri del matrimonio, ex art. 160 c.c.26; 2) illiceità causa, per violazione dei principi di indisponibilità degli status e dell’assegno di divorzio (precisamente, nella parte relativa ai figli l’art. 6 l. 1.12.1970 n. 898, e nella parte relativa all’ex coniuge, gli artt. 5 e 9 l. 1.12.1970, n. 898)27; 3) indisponibilità preventiva dell’assegno di divorzio a tutela del coniuge economicamente debole, con azione nullità proponibile solo da quest’ultimo28; 4) illiceità causa, per violazione del principio di ordine pubblico di indisponibilità dello status (1343 c.c. e 1418 co. 2 c.c.). Alla luce di tutto quanto detto, e visti i fondamenti razionali sopra anticipati, pertanto, sembra ragionevole escludere l’applicabilità del divieto ai contratti in vista della crisi della convivenza. Innanzitutto, occorre sottolineare, è “estremamente arduo ipotizzare l’applicazione analogica di quelle norme in tema di matrimonio che impediscono ogni espressione all’autonomia privata”29 al contratto di convivenza, il quale, al contrario, si fonda sulla stessa autonomia privata dei conviventi. Più in particolare, inoltre, ed in relazione ai singoli profili sopra evidenziati, il divieto di patti prematrimoniali non potrà operare perché, all’interno delle convivenze di fatto, non vi sono norme analoghe a quelle di cui all’art. 160 c.c. (sulla inderogabilità dei diritti e doveri tra coniugi) e di cui alla legge sul divorzio (in tema di mantenimento, ecc.). Qualche dubbio in più, al contrario, si pone in relazione al principio di indisponibilità degli status. Infatti, la completa subordinazione di “spostamenti patrimoniali ed assegni di mantenimento” all’evento cessazione della convivenza, con la specifica finalità di incentivare o disincentivare la crisi della stessa, potrebbe astrattamente coartare la libertà di scelta dei soggetti. Ad ogni modo, tali profili verranno approfonditamente evidenziati di seguito, in chiusura.

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È interessante ricordare, al riguardo, anche la decisione della Corte cost. 17 marzo 1995 n. 87 (sulla subordinazione del diritto previdenziale, dell’ex coniuge, alla titolarità dell’assegno di divorzio), la quale ha ribadito l’insurrogabilità (mediante convenzione privata) dei poteri del giudice di valutare l’esigenza di una prosecuzione della funzione di sostentamento del coniuge superstite. 26 Ex multis, Cass., 11.6.1981, n. 3777, in Giur. it., 1981, I, 1, c. 1553, con nota di A. Trabucchi, Assegno di divorzio: attribuzione giudiziale e disponibilità degli interessati; Cass., 4.6.1992, n. 6857. 27 Tra le tante, Cass., 11.6.1981, n. 3777; Cass., 21.12.2012, n. 23713. 28 Cfr. Cass., 14 giugno 2000, n. 8109; Cass., 10 marzo 2006, n. 5302. e Cass., 18 luglio 2007, n. 17634. 29 Così Tassinari, op. cit., 1742.

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Gli accordi in vista della crisi della convivenza

5. Le convivenze di fatto ed i contratti di convivenza, alla luce della l. 2016 n. 76. Gli ostacoli alla redazione di un accordo in vista della crisi della convivenza.

Delineato il contesto applicativo ed il concetto di accordo in vista della crisi della convivenza (nelle sue distinzioni con i cd. patti prematrimoniali), è ora possibile soffermarsi su quanto introdotto dalla l. 20 maggio 2016 n. 76. Questa, infatti, oltre alla regolamentazione delle unioni civili, ha disciplinato le convivenze di fatto ai commi 36 e seguenti dell’art. 1, reputando conviventi di fatto “[…] due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Da tale definizione, pertanto, è possibile dedurre il perimetro applicativo della normativa: in sostanza, la disciplina in oggetto si applicherà a quelle convivenze di fatto che possano ricomprendersi all’interno della suddetta definizione; al contrario, per tutte quante quelle convivenze che si pongano al di fuori di essa30, occorrerà valutare l’applicabilità (ai conviventi) dei singoli diritti che venivano ad essi attribuiti antecedentemente alla l. 2016 n. 7631. Quest’ultima, inoltre, ai commi 50 e seguenti, ha previsto una specifica disciplina per i contratti di convivenza, con specificazione del possibile contenuto, della forma richiesta, delle cause di nullità, delle cause di risoluzione, del recesso unilaterale, e così via; al contrario, però, non vi è stato alcun riferimento alle pattuizioni in vista della crisi della convivenza. In altri termini, il legislatore ha fornito una cornice normativa ai contratti di convivenza, garantendogli ragionevolmente una causa tipica (causa convivendi), idonea a sorreggere causalmente alcune attribuzioni tra conviventi; quanto al contenuto ammissibile di tali contratti, però, non vi è stata alcuna specificazione né richiamo a pattuizioni in vista della crisi della convivenza, non potendosi dunque trarre precise indicazioni sulla loro ammissibilità. Nella presente indagine, pertanto, e nei paragrafi che seguono, ha rilievo dirimente valutare il “contenuto” ammissibile dei contratti di convivenza tipici (quelli disciplinati dalla

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Si pensi, ad esempio, ai rapporti di coppia in cui uno dei conviventi sia ancora legato ad un terzo, poiché separato ma non ancora divorziato (cfr. Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 944), a quelle convivenze di solidarietà (o assistenziali) nelle quali manchi il connotato della “relazione di coppia” o alle convivenze tra parenti o affini non rientranti nell’art. 87, stante il disposto del co. 36 dell’art. 1 l. 2016 n. 76 (cfr. Sirena, op. cit., 1072-1073). 31 “Questo corpus di norme e per lo più di tutele, basato su provvedimenti normativi, giurisprudenza consolidata, elaborazioni dottrinali, è un vero e proprio diritto generale delle convivenze. Se trascurassimo il fatto che […] la «convivenza Cirinnà» è solo uno dei possibili tipi di convivenza, e la scambiassimo per l’unico tipo di convivenza possibile e giuridicamente rilevante, finiremmo per privare di tutela da un giorno all’altro tutte le altre convivenze; cioè tutte quelle che, per impossibilità (insussistenza dei requisiti) o semplice volontà dei conviventi (mancata registrazione), non rientrino nella l. 76/2016 ovvero, comunque, scontino delle carenze (anche solo sul piano formale) rispetto allo schema legislativo. Se così interpretassimo, dal 5 giugno 2016 (data di entrata in vigore della legge in commento) tutte le convivenze diverse da quelle «Cirinnà» ritornerebbero all’anno 1804, cioè nella condizione espressa nella relazione al Code Napoleon: «Les concubins se passent de la loi, la loi se désintéresse d’eux»”; così Cnn, Studio 196/2017/C, Comunione legale, contratto di convivenza e circolazione dei beni dopo la legge “Cirinnà”, est. F. Mecenate, approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 24/01/2018, 8.

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l. Cirinnà), per comprendere se sia possibile redigere, ai sensi della nuova normativa, un accordo in previsione della crisi della convivenza. In caso contrario, occorrerà rifarsi al quadro concettuale sopra anticipato, ai fini della redazione di tali accordi secondo il diritto comune32: infatti, sebbene la legge abbia disciplinato un nuovo contratto di convivenza, questo non significa che non sia più possibile redigere contratti “atipici” di convivenza33. Nell’ottica di tali obiettivi, e ragionando sul disposto della l. 2016 n. 7634, due sembrano essere i principali ostacoli alla redazione di accordi in vista della crisi della convivenza: il primo è il divieto di apposizione di termini e condizioni, di cui al co. 56; il secondo è il contenuto ammissibile dei contratti di convivenza tipici, ai sensi del co. 53.

6. (Segue) Il divieto di apporre termini e condizioni ai sensi

del co. 56.

Quanto al primo ostacolo, come anticipato, viene il rilievo il co. 56. Questo prevede espressamente che “Il contratto non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti”: sarà pertanto vietata l’apposizione di condizioni, sospensive o risolutive, e di termini, iniziali o finali. Sebbene la formulazione in oggetto possa apparire poco chiara, sembrerebbe logico ravvisare nel co. 56 un divieto alla redazione di pattuizioni in vista della crisi. D’altronde, le clausole negoziate in funzione della cessazione della convivenza non possono che collegarsi a tale divieto, poiché la cessazione della convivenza “non potrebbe non coincidere, ai fini dell’efficacia di tali clausole, con un evento futuro e incerto altrimenti colpito dal divieto”35.

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Compito dell’interprete, pertanto, è “chiarire quale sia il contenuto tipico del contratto di convivenza di cui ai commi 50 ss. in commento e quale invece resti il possibile contenuto di un contratto di diritto comune avente come parti i conviventi stessi, la cui disciplina è data, nella misura in cui si tratti di un contratto atipico ex art. 1322, comma 2, c.c., esclusivamente dalle norme in tema di contratto in generale, e non anche da quelle specifiche di cui ai commi 50 ss. (e soprattutto 59 e 61)”. Così Tassinari, op. cit., 1742. 33 Devono infatti ritenersi ancora perfettamente leciti contratti “atipici” di convivenza. Proprio sul punto, come è stato già chiarito dal Notariato (Cnn, Studio 196/2017/C, op. cit., 8), la l. Cirinnà assume la veste di normativa speciale, determinando la creazione di differenti livelli normativi, con possibilità inoltre di redigere un contratto speciale di convivenza. Permane, di conseguenza, la cd. convivenza more uxorio ed il suo quadro disciplinare delineato da legislatore e giurisprudenza prima della l. 2016 n. 76, in tutti i quei casi in cui non vi siano i requisiti indicati dall’art. 36 (e per alcuni anche la dichiarazione dell’art. 37); permangono, parimenti, anche i contratti atipici di convivenza, redatti ai sensi dell’art. 1322 c.c., sui quale è ampia la produzione dottrinale antecedente alla normativa. Cfr. anche Perfetti, op. cit., 1753 e Villa, op. cit., 1349-1352. 34 Si precisa, al riguardo, che la legge in oggetto disciplina le unioni civili e le convivenze di fatto all’interno di un unico articolo (art. 1), suddiviso però in numerosi commi; a tal fine, nel prosieguo, si farà riferimento ai singoli commi oggetto di interesse senza richiamare l’unico articolo di riferimento. 35 In tali termini, Tassinari, op. cit., 1743.

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In realtà, sembra opportuno adottare una differente lettura della norma in oggetto, in ragione dell’incoerente tentativo di riproporre il divieto esistente in ambito matrimoniale36. In conformità con la maggioranza degli interpreti37, infatti, sembra preferibile ritenere tale divieto collegato al solo contratto e non alle singole pattuizioni. Si rileva, al riguardo, che scopo dell’art. 56 è evitare di far dipendere gli effetti del contratto da eventi esterni allo stesso38; inoltre, l’applicazione del divieto ad ogni pattuizione, nella formulazione indicata dalla legge (che prevede la “non apposizione” della condizione), determinerebbe conseguenze irragionevoli39. Ne consegue, da ciò, che non potrà essere subordinato il contenitore delle pattuizioni, mentre potranno esserlo le singole pattuizioni. D’altronde, è nella normale logica di un rapporto, come quello di convivenza, la sopravvenienza di possibili eventi modificativi della situazione patrimoniale corrente tra i conviventi. Giocoforza, dovrebbe ritenersi ammissibile predisporre contratti di convivenza che regolino tali situazioni, prevedendo, ad esempio, una serie di linee evolutive del contratto, con pattuizioni subordinate: (i) alla sopravvenienza di una malattia invalidante per uno dei conviventi; (ii) alla perdita o inabilità al lavoro; (iii) alla diminuzione del reddito personale; (iv) alla nascita di un figlio; ecc. In tutti questi casi è ragionevole disciplinare una differente regolamentazione tra conviventi sulla contribuzione al menage familiare, con diversa distribuzione delle risorse, e con possibilità di fare riferimento a tempi, percentuali, cifre, e così via40. Laddove, al contrario, si aderisse all’interpretazione opposta, restrittiva, poco sopra citata, ritenendosi quindi vietata l’apposizione di condizioni o termini al contratto ed alla singola pattuizione, per ogni mutamento patrimoniale e/o per ogni verificazione di uno dei siffatti eventi i conviventi sarebbero costretti a rimodificare il contratto originario, nelle forme richieste dalla legge.

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D’altronde, mentre il divieto di cui all’art. 108 c.c. in ambito matrimoniale si giustifica in ragione della natura personale nel negozio giuridico contratto, “non ha, invece, costrutto alcuno stabilire lo stesso principio per un contratto che, come quello di convivenza, si colloca all’interno del genus caratterizzato dalla patrimonialità degli effetti e per il quale l’apposizione di termini e condizioni risulta un quid del tutto «normale»” (così Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 952). 37 Cfr. ibidem; Rizzi, op. cit., 28-31; Achille, op. cit., 1579; Villa, op. cit., 1341; Auletta, op. cit., 397; Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze Pistoia e Prato, Divieto di apporre termini e condizioni al contratto di convivenza, Osservatorio Orientamenti Famiglia e Successioni, 2018, 3. Contra, Perfetti, op. cit., 1759, e Tassinari, op. cit., 1743, il quale ammette pattuizioni condizionate solo in ossequio all’autonomia contrattuale. 38 Ad esempio, il co. 56 vieterà, a soggetti privi dei requisiti di cui al co. 36, la stipula di un contratto di convivenza condizionato all’ottenimento di essi. 39 A mero titolo esemplificativo, in un contratto di convivenza nel quale i contraenti convengano che, in caso di cessazione del rapporto, i beni acquistati in comproprietà o in comunione legale dovranno dividersi tra essi in specifiche percentuali (ad esempio, 70% ad uno, e 30% all’altro), applicare letteralmente il comma 56 (che prevede che “termini o condizioni […] si hanno per non apposti”) potrebbe condurre ad una immediata divisione dei beni. L’irragionevolezza di una tale interpretazione è ben visibile. 40 Ad esempio, una clausola che preveda, in primis, che “Alle spese comuni di cui all’art. […] Tizio parteciperà nella misura pari al […] per cento, e Tizia nella restante parte del […] per cento”, ed in secundis che “Nel caso uno dei conviventi, per cause indipendenti dalla sua volontà, venga a trovarsi privo di redditi, o con redditi inferiori al […] % ([…] per cento) dei redditi di cui è titolare al momento della sottoscrizione del presente atto, si conviene sin da ora che le spese comuni non saranno ripartite ai sensi del precedente comma, ma saranno ad esclusivo carico dell’altro convivente per un periodo non superiore a […] mesi”. L’integrale contenuto della clausola si trova in C. Carbone, Formulario notarile commentato. Appendice di aggiornamento, 2016, 15.

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Tutto ciò premesso, dunque, sembra preferibile aderire alla lettura che ritiene il divieto di cui al co. 56 applicabile al solo contratto nella sua interezza; giocoforza, le singole disposizioni potranno essere subordinate al verificarsi di un determinato evento, ivi compresa la cessazione del rapporto di convivenza.

7. (Segue) Il contenuto ammissibile ai sensi del co. 53. Quanto al secondo ostacolo alla realizzazione di un accordo in vista della crisi della convivenza, occorre richiamare il co. 53, art. 1, l. 2016 n. 76, dedicato al contenuto dei contratti di convivenza. Questo prevede espressamente che: “Il contratto di cui al co. 50 reca l’indicazione dell’indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto può contenere: a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”. Da tale formulazione, innanzitutto, possono trarsi alcune deduzioni di carattere generale: (i) il contratto di convivenza potrà contenere solo pattuizioni aventi carattere patrimoniale; (ii) non potranno disciplinarsi, all’interno dello stesso, i rapporti personali tra conviventi, che attengono alla sfera dei loro diritti individuali (come, ad esempio, pattuizioni relative agli obblighi di coabitazione e di fedeltà, relative alla procreazione o ad altri impegni personali, ecc.)41; (iii) non potranno parimenti regolamentarsi i rapporti successori tra i conviventi, in ragione del divieto dei patti successori42. Anche prendendo in considerazione i meri profili patrimoniali, però, è difficile negare il perimetro molto ristretto del co. 53: la formulazione normativa, infatti, fa riferimento solamente alla scelta per il regime di comunione legale dei beni ed alla regolamentazione delle “[…] modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”43.

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Cfr. Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 946; Tassinari, op. cit., 1741; Rizzi, op. cit., 22; Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze Pistoia e Prato, Contribuzioni convenute nel contratto di convivenza, Osservatorio Orientamenti Famiglia e Successioni, 2018, 3. 42 Cfr. Gazzoni, op. cit., 165; Rizzi, op. cit., 22. 43 Su un’interpretazione ampia della locuzione, v. Rizzi, op. cit., 26-28; D’amico, op. cit., 207; Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 950. Ad ogni modo, a titolo esemplificativo, potranno in essa ricomprendersi pattuizioni volte a regolamentare le spese comuni e le modalità di ripartizione delle stesse, le prestazioni di fare o di dare come modalità per contribuire alle necessità vita in comune, la gestione del conto corrente cointestato, i redditi da destinare alle esigenze del nucleo familiare ed i risparmi da accantonare per l’effettuazione di acquisti comuni, la messa di disposizione di beni mobili, mobili registrati ed immobili di proprietà di uno dei conviventi, e così via.

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Al riguardo, dunque, il dibattito che si è posto in merito al co. 53, e che influenza anche la possibilità di redigere una pattuizione nell’ottica della futura cessazione della convivenza, è quello sulla tassatività del contenuto del comma in oggetto44: d’altronde, sebbene il legislatore abbia dettato una serie di possibilità (“Il contratto può contenere […]”), e non un contenuto inderogabile, alle indicazioni di cui alle lettere a), b) e c) occorre comunque attribuire un qualche significato interpretativo. Con specifico riguardo alla possibilità di stipulare pattuizioni in vista della crisi della convivenza, secondo una interpretazione liberale, minoritaria tra gli interpreti, non può ravvisarsi alcun divieto all’interno del comma in esame. Si è sostenuto, infatti, che: (i) l’inciso “vita in comune” debba interpretarsi in senso estensivo, includendovi anche la fase patologica del rapporto, come fase finale, eventuale e patologica proprio della vita in comune; (ii) il co. 53 sancisca espressamente che il contratto “può” (e non “deve solo”) regolare i profili indicati, e da ciò occorra desumersi una lettura aperta delle norme; (iii) il testo di legge non sembri vietare quanto era considerato ammissibile precedentemente alla l. 2016 n. 76. Sebbene tali argomentazioni possano apparire ragionevoli, sembra però preferibile aderire alla lettura restrittiva. Infatti, in relazione alla inclusione di tali pattuizioni all’interno del co. 53, sarà difficilmente superabile l’inciso “vita in comune”. Parimenti, sembra inequivocabile la volontà del legislatore di tipizzare determinati effetti del contratto (la contribuzione alla vita in comune), lasciando quanto non disciplinato alla mera autonomia privata dei contraenti.

8. Le soluzioni percorribili: contratto atipico ex art. 1322,

co. 2, c.c. o pattuizione atipica ex art. 1322, co. 1, c.c.

Alla luce di tutto quanto detto, dunque, possono trarsi alcune conclusioni sugli ostacoli ravvisabili nella l. 2016 n. 76 alla realizzazione di contratti in vista della crisi della convivenza. A ben vedere, sebbene il co. 56 da ultimo analizzato non sembri ostativo alla pattuizione di contratti tipici per la crisi della convivenza, è il co. 53 a risultare difficilmente superabile, nella parte in cui prevede la possibilità di regolamentare gli aspetti patrimoniali della vita in comune.

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Secondo D’amico, op. cit., 207, nt. 27; Tassinari, op. cit., 1742; Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze Pistoia e Prato, Contribuzioni convenute nel contratto di convivenza, Osservatorio Orientamenti Famiglia e Successioni, 2018, 2, il contenuto del contratto di convivenza dovrebbe ritenersi tassativo; di diverso avviso, Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: spunti di riflessione, cit., 277-278; Amadio, La crisi della convivenza, cit., 1171; Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 947.

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La causa familiare o comunque la causa convivendi, tipizzata dal legislatore nel 2016, sembra sorreggere causalmente solo i contenuti delineati dal co. 5345, ovvero le pattuizioni che attengono alle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”. Ciò, però, non significa che previsioni differenti siano vietate, potendo queste ritenersi ancora oggi meritevoli di tutela. Al riguardo, dunque, a parere di chi scrive, pattuizioni in vista della crisi della convivenza non dovranno necessariamente essere contenute in un contratto atipico. Si potrà infatti redigere anche un contratto di convivenza tipico, unitario, con pattuizioni espressamente ammesse dalla legge (quelle del co. 53) e pattuizioni anomale, che invece dovranno valutarsi ai sensi del 1322 co. 1 c.c.46; d’altronde, questo è quanto avviene in ogni fattispecie contrattuale tipizzata dal legislatore47. Ragionare diversamente, e quindi vietare pattuizioni non previste dal co. 53, infatti, significherebbe attribuire al contratto di convivenza disciplinato dalla legge Cirinnà un contenuto standard. Così non è. In sintesi, dunque, i conviventi di fatto che intendano regolamentare i profili giuridici e patrimoniali conseguenti alla loro futura ed eventuale crisi della convivenza, potranno operare secondo due modalità. La prima è la stipulazione di un contratto atipico di convivenza, ai sensi dell’art. 1322 co. 2 c.c., alla pari di quelli che venivano stipulati prima dell’introduzione della l. 2016 n. 76. Questo potrà essere stipulato dai conviventi di fatto che presentino tutti i requisiti del co. 36, ma anche da tutti i conviventi (ad es. coniugi separati; parenti o affini; conviventi che non siano una coppia) che non hanno la possibilità di redigere un contratto ai sensi del co. 50 e seguenti dell’art. 1 l. 2016 n. 76 per mancanza dei requisiti richiesti dalla legge. La seconda modalità, invece, è la stipulazione di un contratto tipico di convivenza, ai sensi dei commi 50 e seguenti della l. 2016 n. 76, contenente però pattuizioni atipiche in vista della crisi della convivenza, in ossequio al disposto dell’art. 1322 co. 1 c.c. Questo sarà realizzabile dai soli conviventi di fatto che presentino tutti i requisiti di cui al co. 36, e presenterà tutte le caratteristiche tipiche dello stesso (sarà iscrivibile all’anagrafe; opponibile ai terzi; potrà contenere la scelta del regime di comunione legale dei coniugi; ecc.): le pattuizioni anomale, ad ogni modo, in un eventuale giudizio, dovranno superare il vaglio di meritevolezza degli interessi perseguiti.

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In termini analoghi, D’amico, op. cit., 205, il quale afferma che “solo il «contratto di convivenza» tipico potrà dirsi sorretto dalla causa convivendi, mentre altre forme di regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i conviventi potranno bensì trarre motivo dalla convivenza […] ma non si potrà dire che abbiano come «oggetto» e come «causa» la regolamentazione patrimoniale del rapporto di convivenza”. 46 Laddove poi tali pattuizioni si pongano in violazione di norme imperative o dell’ordine pubblico, allora, dovrà applicarsi la nullità parziale di cui all’art. 1419 cod. civ. 47 Potranno dunque introdursi pattuizioni contrattuali ulteriori rispetto a quelle determinate dal co. 53, ivi comprese quelle in previsione della crisi della convivenza. In tal senso, anche Achille, op. cit., 1576. Auspica, parimenti, una lettura “[…] in termini di contradditorio tra tipicità e atipicità negoziale”, Gatt, Autonomia privata e convenzioni familiari nella dialettica tra tipicità e atipicità negoziale, cit., 621.

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9. (Segue) Sul recesso unilaterale di cui al co. 59 lett. b). Qualche dubbio ulteriore, però, in relazione a tale ultima struttura, può porsi in ragione del recesso unilaterale concesso ai contraenti dalla legge Cirinnà: laddove infatti si aderisca a quell’interpretazione che ritiene inderogabile il recesso unilaterale di cui all’art. 1 co. 59 l. 2016 n. 76, tale ultima possibilità (contratto tipico di convivenza, contenente pattuizioni in vista della crisi ai sensi dell’art. 1322 co. 1 c.c.) rischia di rivelarsi inutilizzabile. In termini più precisi, il co. 59, in maniera ancora una volta poco chiara, prevede che il contratto si rivolva “[…] per: a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; [...]”. Sul punto, però, occorre sottolineare che, anche in assenza del citato comma, sarebbe stato possibile sciogliere il contratto per mutuo consenso oppure mediante recesso unilaterale (laddove convenzionalmente riconosciuto) ai sensi della disciplina dei contratti in generale. Ci si è pertanto interrogati sul senso della disposizione normativa introdotta, la quale, in questa prima fase interpretativa, è stata considerata inderogabile ed applicabile anche in assenza di espressa pattuizione contrattuale48. È ovvio che, se questa fosse l’interpretazione da seguire, ogni pattuizione preventivamente convenuta (che imponga ad esempio il trasferimento di un diritto o la corresponsione di una somma) risulterebbe inutile, potendo essere disattesa agevolmente dal convivente obbligato, il quale potrebbe recedere liberamente dal contratto tipico di convivenza prima che subentri l’effettiva crisi del rapporto. Al riguardo, al più, si potrebbe tentare la strada dei contratti di opting out, prospettati in dottrina49 per disapplicare aspetti della disciplina giuridica delineata dal legislatore con la l. 2016 n. 76, ivi compreso il recesso unilaterale in discussione.

10. Accordi in vista della crisi della convivenza e parametri di meritevolezza: la cd. proporzionalità.

Giunti a questo punto, (i) chiarito il contenuto dei contratti di convivenza di cui alla nuova l. 2016 n. 76, (ii) precisata la non applicabilità dei divieti dettati per i patti prematrimoniali e (iii) ribadita la possibilità di realizzare accordi in vista della crisi della convivenza ai sensi dell’art. 1322 c.c., occorre ragionare sui parametri di meritevolezza di tali contratti e sul corretto modus operandi nella redazione degli stessi.

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Cfr. Rizzi, op. cit., 31, il quale afferma che “[…] non è necessario che la facoltà di recesso sia riconosciuta nel contratto di convivenza stipulato, come previsto in generale dall’art. 1373 c.c., in quanto tale facoltà è direttamente riconosciuta a ciascun convivente dalla L. n. 76/2016 e più precisamente dall’art. 1, comma 59 […]”. 49 Cfr. Tassinari, op. cit., 1743-1744; Amadio, op. cit., 1773 ss. Sulla indisponibilità di alcuni diritti spettanti ai conviventi di fatto, cfr. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: spunti di riflessione, cit., 276277.

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Quanto a quest’ultimo, vista la rilevanza degli interessi perseguiti, è opportuno prestare particolare attenzione alla reale volontà dei contraenti: in particolare, sarà necessario accertarsi (a) della genuinità del consenso dei conviventi contraenti e (b) della loro adeguata consapevolezza rispetto agli effetti ed alle conseguenze dell’accordo raggiunto in previsione della futura ed eventuale crisi della convivenza50. Quanto invece ai cd. parametri di meritevolezza delle singole pattuizioni, occorre rifarsi al dibattito anteriore all’entrata in vigore della presente legge: la valutazione di ammissibilità degli accordi in vista della crisi della convivenza, infatti, dovrà operare in relazione al giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti51. In particolare, assumono rilievo in questa sede “[…] i limiti di rilevanza dell’interesse familiare, come causa dell’attribuzione”52. A tal fine, sebbene possano convenirsi corresponsioni o attribuzioni (nelle modalità sopra prospettate53) condizionate sospensivamente alla cessazione della convivenza o risolutivamente alla cessazione della convivenza (laddove, ad esempio, facciano cessare corresponsioni di denaro o un comodato d’uso già in corso durante la convivenza54), sarà necessario rispettare un parametro di natura fattuale: la cd. “proporzionalità” tra l’attribuzione realizzata ed i mezzi patrimoniali di titolarità del disponente. Trattasi, in verità, di parametro classico, evidenziato dalla dottrina55 e dalla giurisprudenza56, in materia di obbligazioni naturali, per giustificare l’inapplicabilità della disciplina delle liberalità: come sopra anticipato, d’altronde, anche con riferimento al tema in oggetto, non può considerarsi sufficiente l’esistenza di un rapporto di convivenza per effettuare, senza restrizioni, liberalità

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In termini analoghi, in merito alla possibile redazione di patti prematrimoniali, Fusaro, La sentenza delle Sezioni Unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?, cit., 1038, chiarisce che “In ogni caso occorrerà vigilare circa la formazione della volontà delle parti, per assicurare sia la genuinità del consenso - quindi l’assenza di interferenze o coartazioni -, sia la preventiva informazione; sono aspetti entrambi approfonditi e regolati nei paesi (Germania e Stati Uniti) che ammettono i patti preventivi rispetto all’assetto economico della crisi coniugale (Ehevertraege; Prenuptial Agreements), dalla cui esperienza pare quindi opportuno attingere”. 51 In altri termini, tornano ad assumere rilievo le considerazioni effettuate in premessa, in relazione alla qualificazione giuridica delle pattuizioni convenute tra conviventi (ai sensi dell’art. 1322 c.c.). 52 Cfr. Amadio, op. cit., 1767. 53 Si fa riferimento, in particolare, a pattuizioni aventi ad oggetto: (i) la divisione dei beni in comune tra conviventi; (ii) la corresponsione di un assegno di mantenimento; (iii) un trasferimento patrimoniale di diritti su beni mobili, mobili registrati, od immobili; ecc. 54 Trattasi, esattamente, della fattispecie sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione 8.6.1993, n. 6381: questa, invero, ha affermato “che non è nullo per illiceità un contratto con cui un soggetto abbia attribuito alla propria convivente il diritto di comodato di un suo appartamento a tempo limitato o vita natural durante […]” salvo che essa avesse posto fine alla convivenza di sua iniziativa (nel caso di specie, la convivenza era cessata per iniziativa del proprietario dell’immobile). 55 Sul punto, C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1997, 788, sottolinea che “sebbene tale requisito non sia menzionato dal codice, esso deve ritenersi implicito nella stessa idea di obbligazione naturale, in quanto alla stregua della coscienza sociale non è doveroso ciò che va al di là di quanto l’adempiente può ragionevolmente fare o di quanto il beneficiario abbia ragionevolmente bisogno”. Un ulteriore chiarimento è fornito da Gatt, La liberalità, cit., 372, nt. 129, secondo la quale è corretto ricostruire la disciplina dell’obbligazione naturale anche dagli artt. 742 c.c. e dall’art. 64 l. fall. (il quale, in realtà, fa espresso riferimento a siffatta proporzionalità). 56 Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, riafferma “[…] il principio di diritto […] che un’attribuzione patrimoniale a favore del convivente more uxorio può configurarsi come adempimento di un’obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens […]”. Sul punto, L. Balestra, Note in tema di proporzionalità nell’adempimento delle obbligazioni naturali e sulla nozione di terzo ex art. 936 cod. civ. (in margine ad un caso di prestazioni rese nell’ambito della convivenza more uxorio), in Familia, 2004, 786.

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tra conviventi (nella veste di attribuzioni traslative con natura premiale o liquidatoria), svincolate dalla disciplina delle donazioni57. A tal fine, dunque, si è ritenuto che l’attribuzione tra conviventi, sebbene nascente da obblighi di natura morale o sociale58 oppure fondata su una tipica causa convivendi, debba essere dotata di una “proporzionalità” patrimoniale con le disponibilità economiche del disponente, da valutarsi in chiave soggettiva. Conseguenza di ciò, dunque, sarebbe la qualificazione in termini liberali di quelle attribuzioni sproporzionate tra conviventi, anche se effettuate in adempimento di obblighi contenuti in un contratto di convivenza: in tali casi, dunque, l’attribuzione eccedente il quantum patrimoniale adeguato e proporzionato potrebbe assumere la veste di un arricchimento senza causa59 oppure di una liberalità60. Il concetto di proporzionalità, però, come si vedrà di seguito, coinvolge anche un profilo di maggior rilievo nella realizzazione di accordi in vista della crisi della convivenza.

11. (Segue) La tutela della libertà personale di scelta.

Considerazioni conclusive.

In particolare, la valutazione sul patrimonio dei conviventi, in relazione alle pattuizioni in previsione della crisi del loro rapporto, assume rilievo anche in relazione alla possibile coartazione della loro libertà personale di scelta. In altri termini, sebbene non si dubiti del-

57

Sul punto, Delle Monache, op. cit., 960 precisa che «non basta la convivenza a giustificare (e rendere valida) qualunque attribuzione tra conviventi, quale che ne sia la natura e l’entità. Perché possa parlarsi dell’adempimento di una obbligazione naturale occorre piuttosto che si proceda, in sede giudiziale, ad una rigorosa verifica dell’adeguatezza dell’attribuzione, sia pure nei limiti di un apprezzamento necessariamente discrezionale, alla situazione di convivenza, specie considerata sotto il profilo della sua durata e del contributo dato ai bisogni comuni dal convivente gratificato». 58 Cass., 22.1.2014, n. 1277, precisa che: “Il discrimine fra l’adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo fra conviventi, destinato al “menage” quotidiano ovvero espressione, come nella specie, della solidarietà fra persone unite da un legame intenso e duraturo, e l’atto di liberalità va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di proporzionalità fra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Tale requisito, unanimemente riconosciuto dalla dottrina in relazione alle cc.dd. obbligazioni naturali in generale, è stato ribadito da questa Corte proprio con riferimento all’adempimento di doveri morali e sociali nella convivenza more uxorio (cfr. la citata Cass. n. 3713 del 2003)”. 59 Cass., 15.5.2009, n. 11330: “L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”. 60 In caso di sproporzione, ad ogni modo, si determinerà una riqualificazione dell’eccedenza o dell’intera attribuzione in termini di liberalità, laddove sia possibile rilevare un animus donandi, oppure potrà ravvisarsi un mero indebito. Sul punto, si rimanda alle più approfondite riflessioni di Gatt, La liberalità, cit., 384; G.A.M. Trimarchi, La cd. “famiglia di fatto” e le altre convivenze, in Diritto civile, diretto da Lipari e Rescigno, I, 2, 2009, 372 ss. Sul punto, Balestra, Convivenza e rapporti di fatto. I rapporti patrimoniali, cit., 1134, in caso di pluralità di animus in capo al disponente, sottolinea l’incongruità di una applicazione dei criteri operanti in riguardo ai contratti con causa mista (teoria dell’assorbimento, ecc.).

613


Alessandro Semprini

la validità di un contratto in vista della crisi della convivenza61, nella valutazione di meritevolezza degli interessi perseguiti, però, occorre prendere in considerazione il parametro fattuale del patrimonio dei contraenti, non tanto per applicare/disapplicare la disciplina delle donazioni o della restituzione dell’indebito, quanto per valutare l’illiceità della causa del contratto. Infatti, pattuizioni in vista della crisi, particolarmente sproporzionate nei termini sopra indicati, potrebbero influenzare il diritto del convivente di scegliere liberamente la sorte del proprio rapporto personale62: laddove, ad esempio, gli obblighi assunti, i diritti trasferiti o da trasferire, oppure la regolamentazione convenuta sulla divisione dei beni (da effettuare alla cessazione della convivenza), risultino sproporzionati o penalizzanti in quanto troppo onerosi per un soggetto, questo potrebbe essere influenzato nella sua volontà di continuare o meno il rapporto di convivenza63. Ed allora, sotto questo profilo, sembra possibile equiparare i patti in vista della crisi della convivenza ed i patti prematrimoniali: in entrambi, infatti, l’autorità giudiziaria potrebbe sindacare il merito dell’accordo proprio perché, vista l’assenza di un adeguato equilibrio contrattuale, ne risulti leso il principio di indisponibilità degli status64.

61

Favorevoli, tra i tanti, Gazzoni, op. cit., 165; Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, cit., 231 ss.; Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 957. In giurisprudenza, v. Cass., 8.6.1993, n. 6381: “Infine, anche la giurisprudenza di questa Corte ha escluso l’illiceità della convivenza more uxorio, una volta cessati gli effetti civili del matrimonio (sentenza 29.11.1976 n. 4489). Dunque, può concludersi nel caso di specie che non è nullo per illiceità un contratto con cui un soggetto abbia attribuito alla propria convivente il diritto di comodato di un suo appartamento a tempo limitato o vita natural durante. Le considerazioni sopra esposte comportano la infondatezza anche dell’affermazione, contenuta nel ricorso, secondo cui il contratto per cui è causa sarebbe contrario all’ordine pubblico sotto il profilo che la convivenza era stata qui posta in essere «senza alcun riconoscimento formale e al di fuori della partecipazione degli organi statali». Infatti, tali caratteri sono propri della convivenza come sopra esaminata e giudicata non illecita. Del pari infondata è la tesi del ricorrente secondo cui il contratto in esame sarebbe per lui «penalizzante» nel caso di una sua decisione di porre termine alla convivenza. Infatti, tale asserita penalizzazione non è configurabile nel caso in esame perché il contratto stipulato inter partes non prevede a carico di lui alcuna clausola penale né alcun’altra conseguenza negativa in tale ipotesi”. Sulla pronuncia, si veda il commento di V. Carbone, Casa in comodato vita natural durante per una breve convivenza more uxorio, in Corr. giur., 1993, 947 ss. 62 Cfr. Achille, op. cit., 1579; Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, 2005, passim. 63 Una conferma in tal senso si rinviene, ragionando a contrario, rispetto a quanto affermato dalla sopra richiamata pronuncia (Cass., 8 giugno 1993, n. 6381) con la quale si è riconosciuta validità ad un contratto in vista della crisi della convivenza (con il quale un soggetto attribuiva alla propria convivente, il diritto di comodato di un suo appartamento a tempo limitato o vita natural durante, “[…] salvo che essa avesse posto fine alla convivenza di sua iniziativa”), poiché il contratto “[…] non potrebbe ritenersi contrario all’ordine pubblico”, né “[…] «penalizzante» nel caso di una sua decisione di porre termine alla convivenza. Infatti, tale asserita penalizzazione non è configurabile nel caso in esame perché il contratto stipulato inter partes non prevede a carico di lui alcuna clausola penale né alcun’altra conseguenza negativa in tale ipotesi”. 64 In entrambi i casi, infatti, con lo specifico obiettivo di favorire una celere definizione processuale dello scioglimento del matrimonio, i contraenti mediante un atto di autonomia privata potrebbero essere indotti ad effettuare rilevanti concessioni o sperequazioni economiche; cfr. G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Ammissibilità e fattispecie, Milano, 1999, 601 ss., il quale, in realtà, svolge un’approfondita analisi sul rapporto tra l’indisponibilità dello status ed i contratti della crisi coniugale. Secondo una differente lettura, si potrebbe coniugare l’esigenza di autodeterminazione con le istanze di solidarietà, semplicemente riconoscendo alla parte debole (coniuge titolare del diritto ad ottenere un assegno di divorzio) adeguati rimedi di natura contrattuale; cfr. E. Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in I contratti di convivenza, a cura di E. Moscati - A. Zoppini, Torino, 2002, 70 ss. Contra, secondo una interpretazione liberale, è venuto meno “[…] ogni presupposto argomentativo a sostegno dell’assunto che lo status coniugale, al pari di quello paraconiugale, abbia conservato la sua vieta caratteristica di indisponibilità. Secondo un percorso evolutivo che, attraverso la crescente contrattualizzazione delle vicende familiare, segna una conquista di modernità, gli status in parola divengono disponibili, in quanto rinunciabili; e con essi, diviene disponibile l’assetto che la disfunzione del rapporto rivendita anche sotto il profilo economico e patrimoniale […]”; così Spadafora, Lo status coniugale e gli status paraconiugali tra legge e autonomia privata, cit., 1109-1110.

614


Gli accordi in vista della crisi della convivenza

Alla luce di quanto detto, pertanto, nella redazione di un contratto in vista della crisi della convivenza, sarà opportuno: (i) evitare l’apposizione di penali per la cessazione della convivenza65, nonché di pattuizioni che possano qualificarsi come tali in relazione alla crisi della convivenza66; (ii) prestare particolare attenzione alle pattuizioni che determinino forti incentivi (con natura premiale) idonei a coartare la libertà di determinazione dei soggetti67. In questi casi, accordi che “patrimonializzino” la scelta di proseguire o meno il rapporto verrebbero probabilmente considerati non meritevoli di tutela, condizionando sotto il profilo economico tale scelta personalissima68; (iii) evitare che pattuizioni, sospensivamente o risolutivamente condizionate, coartino le scelte relative alla libertà personale dei conviventi69, in ragione di un meccanismo condizionale che – pur presentando in astratto un evento (dedotto in condizione) lecito – risulti in concreto illecito nel momento in cui incida sulle libertà personali del soggetto70. Al contrario, invece, clausole che trovino giustificazione nella disparità economica tra conviventi, sorta nel corso del loro rapporto, potrebbero reputarsi ammissibili71, poiché tale condizionamento risulterebbe espressione del dovere di solidarietà (post-convivenza)72. In conclusione, nella redazione di contratti o singole pattuizioni in previsione della crisi della convivenza sembra assumere particolare rilievo l’equilibrio dell’accordo raggiunto, da valutarsi in relazione all’assetto concreto in analisi73. Equilibrio che, inevitabilmente,

65

Alla pari di quanto è previsto in tema di promessa di matrimonio dall’art. 79 c.c.: “La promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non adempimento”. 66 Cfr. Perfetti, op. cit., 1759; E. Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, 963. 67 Cfr. Aa.Vv., Guida operativa in tema di convivenze. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale, 2013, 46; Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze Pistoia e Prato, Divieto di apporre termini e condizioni al contratto di convivenza, cit., 5. 68 Dovranno però distinguersi i casi in cui l’evento costituisca mero presupposto di fatto della vigenza della disciplina (patti validi) dai casi in cui invece l’evento determini espressamente un vantaggio o la mancata conservazione dello stesso (patti non validi). 69 Tali “[...] clausole, pur se configurate nei termini anzidetti, nel momento in cui risultano connesse a scelte personali e all’esercizio di libertà personali del convivente, devono essere valutate alla luce dei limiti di disponibilità che si riconoscono alle libertà personali. In particolare, si deve considerare che il meccanismo condizionale, pur potendo l’evento dedotto in condizione essere in astratto lecito, può essere in concreto illecito nel momento in cui incide sulle libertà personali del soggetto in quanto produttivo di un effetto coartante e limitativo della libertà stessa. […] Per tale via, attribuzioni connesse semplicemente all’esercizio di una libertà personale, essenzialmente le clausole connesse al perdurare o meno della convivenza, e quindi, all’esercizio della libertà di convivenza, devono ritenersi illecite, con conseguente nullità della relativa pattuizione in quanto coartante della libertà personale del convivente” (così Achille, op. cit., 1579-1580). 70 Sulla distinzione tra condizioni che determinano un meccanismo premiale e quelle che invece chiariscono il conflitto di interessi disciplinato dal contratto, v. Amadio, La condizione di inadempimento. Contributo alla teoria del negozio condizionato, Padova, 1996, 186 e 295 ss. L’a., ad ogni modo, in La crisi della convivenza, cit., 1773, conferma che “la liceità dell’accordo […] in linea di principio dovrà negarsi, ogni qual volta si traduca nella patrimonializzazione di una scelta (quella relativa alla prosecuzione del rapporto) che non può tollerare condizionamenti di ordine economico”. 71 Cfr. Achille, op. cit., 1580. 72 Esigenza ravvisata, con sempre più frequenza, anche dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla determinazione dell’assegno di divorzio; v., sul punto, la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18287 del 11.7.2018. Per una analisi della pronuncia, anche in chiave comparativa, si rinvia alle interessanti riflessioni di S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo” indietro delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2018, 10, 1197-1203. 73 Con riguardo agli accordi tra coniugi, L. Rubino, Gli accordi familiari, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da Bigiavi, I contratti in generale, diretto da Alpa e Bessone, II, 2, Torino, 1991, 1163 afferma che «[…] per tutelare l’esigenza – in sé assolutamente meritevole di tutela – di garantire la libertà dei coniugi nella determinazione del proprio consenso alla separazione o al divorzio […] non è

615


Alessandro Semprini

si collega al sopracitato requisito di “proporzionalità” tra la situazione patrimoniale ed il trasferimento effettuato tra conviventi. Proprio per tali ragioni, ancora oggi, si ritiene prudente redigere pattuizioni in vista della crisi della convivenza dotate di un contenuto sinallagmatico (anche solo mediatamente valutabile dal punto di vista economico)74, volte a realizzare interessi meritevoli di tutela, e non in grado dunque di coartare le rispettive libertà di scelta dei conviventi.

necessario giungere all’estrema conseguenza di ritenere invalidi tutti gli accordi preventivi in quanto tali. Occorre invece verificare caso per caso se l’un coniuge abbia voluto effettivamente condizionare il consenso dell’altro, se l’attribuzione patrimoniale costituisca il «prezzo del consenso» (in questo senso, Cass. 11 giugno 1981, n. 3777). Se così è, gli accordi saranno nulli per illiceità della causa, perché contengono quell’elemento accidentale che non è con essi compatibile. Ma è ben possibile che, mediante gli accordi preventivi, le parti abbiano voluto semplicemente, e al di fuori da ogni condizionamento, regolamentare l’assetto dei propri rapporti patrimoniali, susseguente alla futura separazione o divorzio, prevenendo anche una possibile fonte di litigiosità futura. In questi casi sembra che essi facciano legittimo esercizio della propria autonomia patrimoniale, e che nulli osti alla validità degli accordi». 74 Rispetto alle quali, ad esempio, il trasferimento patrimoniale tra conviventi possa giustificarsi in ragione dell’attività domestica prestata (dal beneficiario), del sacrificio lavorativo effettuato, e così via.

616


Giurisprudenza Trib. Treviso, 8 gennaio 2019, Ronzani Presidente - Barbazza Relatore Divorzio – Assegno all’ex-coniuge – Funzione e criteri di determinazione L’assegno divorzile non vi sarà, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale fra i coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio di uno di essi per la formazione del patrimonio comune nel periodo dell’unione matrimoniale. Avendo però l’assegno natura composita, è proprio in tale circostanza che deve essere recuperata la funzione assistenziale dell’istituto, riconoscendo al coniuge un assegno divorzile nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli (per ragioni di età, salute, situazioni personali o sociali); tuttavia, sotto il profilo del quantum, in tale eventualità l’assegno dovrà essere ricondotto ad un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia tale da garantire le esigenze minime di vita della persona. In concreto, l’assegno non spetta se l’exconiuge possa reinserirsi nel mercato del lavoro ed è ravvisabile una sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazione.

(Omissis)

reperitale dal marito stesso, quale segretaria nella

Fatto. - Con ricorso depositato in data 20 di-

stessa azienda datrice di lavoro del ricorrente.

cembre 2017 M. esponeva di aver contratto ma-

Chiedeva dunque pronunciarsi lo scioglimen-

trimonio con A. M. in data (Omissis), scegliendo

to del matrimonio e l’accertamento di non dover

il regime patrimoniale della separazione dei beni,

corrispondere nulla a titolo di assegno divorzile

ed evidenziava che dall’unione non era nato al-

nei confronti della moglie.

cun figlio. In seguito all’instaurazione del presente procedimento per lo scioglimento del matrimonio, all’udienza del 3 giugno 2018 il Presidente f.f. confermava le condizioni previste in sede di separazione, concernenti l’obbligo per di corrispondere Euro 1.500,00 mensili alla moglie. Il ricorrente riferiva di essere lavoratore dipendente di una ditta italiana in Argentina, con stipendio di circa 4.600,00 Euro mensili per tredici mensilità. Dichiarava di non avere alcuna spesa per l’alloggio, messo gratuitamente a disposizione dall’azienda, e di essere proprietario di un im-

Con comparsa di costituzione e risposta si costituiva A. M., la quale deduceva di essere giunta in Italia per seguire il marito, lasciando il proprio lavoro e la propria famiglia. Dichiarava di vivere in locazione, pagando un canone di Euro 550,00 mensili e di aver lasciato il lavoro dopo il matrimonio, d’accordo con il marito. Specificava di averlo successivamente seguito in una diversa località e di essersi licenziata dall’impiego come segretaria, scelta condivisa con il … in quanto non riusciva a vedere il marito e le mansioni assegnatele non erano soddisfacenti. Deduceva di essersi poi trasferita in Italia,

mobile in Italia, acquistato prima del matrimonio,

sempre d’accordo con il marito, e di non essere

per il quale corrisponde ancora oggi un mutuo di

riuscita a reperire alcuna attività lavorativa, no-

circa Euro 1.000,00 mensili.

nostante l’invio di numerosi curricula, in quanto

Quanto alla moglie, egli riferiva che la stes-

non conosceva bene la lingua. Specificava, inol-

sa viveva in Italia ed era laureata in commercio

tre, di aver frequentato un corso di italiano per

estero. Specificava inoltre che si era dimessa vo-

stranieri e che era sempre stato il marito a chie-

lontariamente dall’azienda per cui lavorava e,

derle di seguirlo nei suoi spostamenti, dicendo

successivamente, anche da altra attività lavorativa

che la avrebbe mantenuta lui.

617


Giurisprudenza

La resistente aderiva alla richiesta di pronun-

n. 898 la quale, all’art. 5, comma sesto, dispone:

cia dello scioglimento del matrimonio, ma si

“Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento

opponeva a quella relativa alla corresponsione

o la cessazione degli effetti civili del matrimo-

dell’assegno di mantenimento.

nio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei

Lamentando, infatti, un’evidente maggiore

coniugi, delle ragioni della decisione, del con-

capacità economica del chiedeva disporsi a suo

tributo personale ed economico dato da ciascu-

favore un assegno di Euro 1.900,00 mensili, con

no alla conduzione familiare ed alla formazione

rivalutazione monetaria annuale ex lege in base

del patrimonio di ciascuno o di quello comune,

agli indici ISTAT.

del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti

All’udienza del 20 settembre 2018 avanti al

elementi anche in rapporto alla durata del ma-

Giudice Istruttore comparivano le parti, le quali

trimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di

rinunciavano alla concessione di termini ex art.

somministrare periodicamente a favore dell’altro

183, comma VI, cod. proc. civ. e precisavano le

un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi

conclusioni. Il Giudice mandava la causa al Pub-

adeguati o comunque non può procurarseli per

blico Ministero e si riservava di riferire al Colle-

ragioni oggettive”.

gio, concedendo termini ex art. 190 cod. proc. civ.

L’interpretazione di tale disposizione deve essere rivisitata in seguito alla sentenza delle Sezio-

Diritto. - La domanda di accertamento nega-

ni Unite 11 luglio 2018, n.18287, con la quale la

tivo relativamente alla sussistenza dell’obbligo al

Suprema Corte ha cercato di offrire alcune chiavi

versamento di assegno divorzile formulata dal è

di volta ai giudici di merito per la determinazione

fondata e va accolta per le ragioni che seguono.

e quantificazione dell’assegno divorzile, a fronte

1. Giurisdizione e legge applicabile

del variegato panorama giurisprudenziale forma-

Va innanzitutto rilevato che il matrimonio tra

tosi successivamente al revirement compiuto dal-

le parti è stato celebrato in Venezuela.

la prima sezione della Corte di Cassazione nel

Ai sensi dell’art. 3 Regolamento CE n.

maggio 2017 con la sentenza n. 11504, chiarendo

2201/2003 (c.d. Bruxelles II bis) sussiste la giu-

che non deve ritenersi sussistente alcuna scissio-

risdizione italiana, stante la residenza abituale in

ne tra “an debeatur” e “quantum debeatur”, co-

Italia della convenuta.

me invece ritenuto per orientamento consolidato

Quanto alla legge applicabile alla presente controversia, dato atto che deve ritenersi sia-

sin dalle Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 11490.

no utilizzabili, ratione temporis, i criteri di col-

Per maggiore chiarezza espositiva devono es-

legamento individuati dal Regolamento UE n.

sere ripercorsi le fasi salienti dell’iter giurispru-

1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010

denziale.

(in quanto applicabile ex art. 18 ai procedimenti

2.2.1 In un primo momento, le Sezioni Unite

avviati a partire dal 21 giugno 2012), va indivi-

della Corte di Cassazione (sentenza n. 2008 del

duata nella legge italiana, ex art. 8 Regolamento

1974) avevano attribuito all’istituto dell’assegno

UE n. 1259/2010 (Cosiddetto Roma III), essendo

divorzile una natura composita, al contempo as-

stata adita l’autorità giudiziaria italiana.

sistenziale, risarcitoria e compensativa.

2. La disciplina normativa di cui all’art. 5, legge 1 dicembre 1970, n. 898

In seguito alla riforma introdotta dalla l. n. 74 del 1987, si è ritenuto dovesse essere effettuato

2.1 Il diritto al riconoscimento di un assegno

un giudizio bifasico, stabilendo in primo luogo se

divorzile è previsto dalla legge 1 dicembre 1970,

sussistesse o meno un diritto all’assegno e solo

618


Claudia Benanti

successivamente quantificandone l’ammontare.

questione non fondata, stabilendo che il teno-

L’an veniva individuato nella sussistenza di mezzi

re di vita dovesse essere tenuto in considerazio-

adeguati, e dunque slegato da parametri legali,

ne in astratto quale tetto massimo della misura

mentre il quantum era parametrato in base ai cri-

dell’assegno, suggerendo inoltre una concezione

teri indicati nel modificato art 5 l. div.

unitaria del giudizio tra an debeatur e quantum

2.2.2 Si è successivamente affermata in giu-

debeatur.

risprudenza una funzione esclusivamente assi-

2.2.4 L’interpretazione dell’articolo 5, comma

stenziale dell’assegno, fondata, quanto alla fase

sesto, l. div. è stata profondamente modificata

di accertamento del diritto all’assegno divorzi-

dalla sentenza della Corte di Cassazione del 10

le, sul criterio del tenore di vita goduto in co-

maggio 2017, n. 11504, poi confermata dalla sen-

stanza di matrimonio (il cui apice si è registrato

tenza 22 giugno 2017, n. 15481.

in Cass. civ., Sez. Unite, sent. 29 novembre 1990,

La Suprema Corte ha ritenuto in tale arresto

n. 11490), parametro tuttavia privo di un riferi-

giurisprudenziale che la presenza di mezzi ade-

mento legislativo, costruito sul presupposto dell’

guati o la possibilità di procurarseli comporti la

“inadeguatezza dei mezzi del coniuge richieden-

negazione del diritto all’assegno divorzile. Poiché

te, raffrontati a un tenore di vita analogo a quel-

con il divorzio si attua uno scioglimento defini-

lo avuto in costanza di matrimonio” (fra le altre,

tivo del vincolo matrimoniale, si sarebbe dovu-

cfr. Cassazione civile, sentenza 21 ottobre 2013,

to accertare il raggiungimento dell’indipendenza

n. 23797).

economica del richiedente, al quale non doveva

Tale criterio andava desunto “dalle potenzia-

essere riconosciuto il diritto se economicamente

lità economiche dei coniugi, ossia dall’ammon-

indipendente o effettivamente in grado di esser-

tare complessivo dei loro redditi e dalle loro

lo.

disponibilità patrimoniali” (in questo senso, an-

La Corte di Cassazione, pertanto, aveva con-

che Cassazione civile, sentenza 9 giugno 2015, n.

fermato la finalità assistenziale dell’assegno, evi-

11870; Cassazione civile, sentenza 12 luglio 2007,

denziando però la necessità di sostituire il para-

n. 15610; Cassazione civile, sentenza 28 febbra-

metro del tenore di vita matrimoniale con quello

io 2007, n. 4764): l’inadeguatezza dei mezzi era

dell’autosufficienza economica. Va rilevato, però,

quindi intesa come insufficienza delle sostanze e

che anche tale criterio non trova appiglio in al-

dei redditi del richiedente ad assicurargli la con-

cun specifico riferimento legislativo, al pari del

servazione di un tenore di vita analogo a quello

tenore di vita.

goduto in costanza di matrimonio.

2.2.5 Successivamente alla pronuncia del mag-

2.2.3 La circostanza che il tenore di vita non

gio 2017, si sono registrate diverse tesi in dottrina

trovasse un suo riferimento nel dato legislativo

e giurisprudenza. In particolare, le Corti di merito

aveva portato alla rimessione della questione alla

hanno evidenziato i problemi legati al parametro

Corte costituzionale, con ordinanza del 22 mag-

dell’autosufficienza economica e alla necessità

gio 2013 da parte del Tribunale di Firenze. Infat-

di valutarla in concreto, richiamando, ad esem-

ti ci si era chiesti se l’interpretazione fornita dal

pio, quali criteri la capacità di sostenere le spese

diritto vivente di un assegno volto a garantire al

essenziali di vita, l’ammontare degli introiti che

coniuge più debole economicamente il medesi-

consente di accedere al patrocinio a spese dello

mo tenore di vita goduto in costanza di matrimo-

Stato, il reddito medio percepito nella zona in

nio fosse compatibile con la Costituzione. Con

cui vive il richiedente (si vedano, ad esempio,

sentenza n. 11 del 2015 la Corte ha dichiarato la

Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017).

619


Giurisprudenza

Ancora, si è fatto riferimento alla necessità che il

della funzione eminentemente assistenziale po-

richiedente provi di essersi attivato per reperire

sta dalle Sezioni Unite del 1990 a fondamento del

un’occupazione lavorativa consona all’esperienza

loro pensiero, ha specificato che allo stesso “deve

professionale maturata e al titolo di studi conse-

attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari

guito o di essere nell’impossibilità, per impedi-

misura compensativa e perequativa”.

mento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia atti-

A tal proposito, va ricordato che alla sentenza

vità lavorativa (Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno

del 2018 sono state mosse delle censure, soprat-

2017).

tutto da parte della dottrina, in quanto le Sezioni

Altra parte della giurisprudenza si era invece

Unite avrebbero dettato dei principi di diritto in

discostata dal nuovo orientamento, continuando

parte motiva poi non specificamente ripresi nel

ancora a fare riferimento al precedente parame-

dispositivo, ingenerando confusione tra le diver-

tro del tenore di vita (cfr. Tribunale di Udine,

se funzioni dell’assegno.

sentenza 10 maggio 2017, che ha evidenziato

2.6 Al fine di individuare, pertanto, quale sia

che i concetti di “mezzi adeguati” e “indipenden-

l’indicazione nomofilattica fornita dalla Corte

za economica” non trovano riscontro nel tessuto

per affrontare in modo uniforme le controversie

normativo, oltre ad essere labili e forieri di diver-

al vaglio della giurisprudenza di merito, va da-

genti interpretazioni).

to rilievo alla circostanza che la pronuncia del-

2.3 A fronte di tali contrasti, la questione è sta-

le Sezioni Unite pone una particolare attenzione

ta rimessa alle Sezioni Unite non da parte di una

al metodo comparatistico, al fine di analizzare il

Sezione semplice, ma da parte del Primo Presi-

quadro della legislazione degli altri paesi Europei

dente della Suprema Corte, il quale ha ravvisato

“in considerazione della natura dei diritti in gioco

nel contrasto una questione di massima di parti-

e della composizione del principio solidaristico

colare importanza ex art. 374, comma secondo,

ad essi sottesi”; solo il metodo comparato, infatti,

cod. proc. civ.

con l’analisi delle varie soluzioni offerte in diversi

Con la pronuncia del 2018, le Sezioni Unite

ordinamenti al medesimo problema, permette di

hanno specificatamente affermato che l’art. 5,

individuare le “soluzioni migliori” per il tempo

comma 6, l. div., è una norma autosufficiente,

ed il luogo in questione. Inoltre, tale metodo può

non essendo necessario ricercare i criteri per va-

essere utilmente impiegato anche nell’interpreta-

lutare l’adeguatezza dei mezzi all’esterno della

zione di norme di diritto nazionale nella misura

stessa.

in cui sorgano dubbi sull’interpretazione delle

Pertanto, non sussiste alcuna distinzione tra

stesse o si riscontrino specifiche lacune di un or-

la fase dell’an e del quantum debeatur, essendo

dinamento giuridico che devono essere colmate

necessario “abbandonare la rigida distinzione tra

dal giudice e per le quali il procedimento pura-

criteri attributivi e determinativi dell’assegno di

mente letterale o logico non sia sufficiente. In

divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art.

tali casi, come nel presente in cui è dubbio quale

5, comma 6, più coerente con il quadro costi-

debba intendersi la natura giuridica prevalente

tuzionale di riferimento”. Di conseguenza, i vari

dell’istituto analizzato fra le tre evidenziate dalla

criteri indicati nella norma devono essere tenuti

Suprema Corte, va tenuto presente che l’odierno

in considerazione dal Giudice in posizione equi-

legislatore sempre più frequentemente si ade-

ordinata.

gua a modelli e soluzioni comparate ed il meto-

In relazione alla natura giuridica dell’assegno divorzile, la Suprema Corte, superando la tesi

620

do comparatistico diviene quindi fondamentale nell’analisi della ratio legis della disposizione.


Claudia Benanti

2.6.1 Per ciò che concerne la Francia, l’art.

Nord Europa. Soggiacendo a tale regola, qualora

270, comma secondo, Code civil, stabilisce che

le parti non abbiano previsto diversamente, i co-

uno dei coniugi può essere obbligato a versare

niugi non avranno un patrimonio comune e allo

all’altro una prestazione di carattere forfettario di

scioglimento del matrimonio sarà dunque suddi-

natura compensatoria, di regola versata in un’u-

viso l’incremento patrimoniale prodotto da en-

nica soluzione (capital). Solo in via eccezionale,

trambi in costanza dell’unione, con il versamento

quando l’obbligato non sia in grado di adempiere

di un conguaglio, parametrato in conseguenza.

con una singola dazione, il Giudice può disporre

2.6.3 Dalla breve analisi comparata svolta,

una dilazione periodica, ma per un arco tempo-

pertanto, emerge come regola generale quella

rale massimo.

dell’autosufficienza di ciascun coniuge al termi-

Solo per specifica motivazione del giudicante

ne del rapporto matrimoniale e della limitazione

e in via del tutto residuale, è prevista la possi-

dell’assegno ad un periodo circoscritto, aspet-

bilità di corresponsione di una rendita vitalizia

to riscontrabile anche nei principi redatti dalla

(rente à vie) in casi residuali quali, ad esempio,

Commission on European Family Law (CEFL). Un

l’incapacità del coniuge di provvedere autono-

assegno periodico vitalizio, invece, viene ricono-

mamente ai bisogni primari di vita.

sciuto solo in via eccezionale e la corresponsione

Con la riforma del 2000, è stata inoltre stabi-

è inoltre parametrata ad accadimenti particolari.

lita la possibilità di riconoscere una prestazione

2.6.4 Corollario di tale tesi è che la funzione

mista fra rendita vitalizia e corresponsione in via

assistenziale dell’assegno divorzile, basata sull’a-

capitale, confermando tuttavia che l’orientamento

spetto solidaristico letto alla luce dell’art. 2 Cost.,

seguito dal legislatore francese è quello di non

non può e non deve essere considerata come

riconoscere assegni divorzili a tempo indetermi-

equiparata agli altri aspetti perequativo-compen-

nato, ma di consentire, da un lato, ai coniugi di

sativi.

mantenersi autonomamente o di reinserirsi nel

Così è ad esempio in Germania dove, come

mondo del lavoro e, dall’altro, di configurare tale

brevemente accennato sopra, l’assegno divorzile

dazione come una compensazione dei sacrifici

nei limitati casi in cui viene disposto va parame-

sopportati da uno dei due in costanza di matri-

trato, sotto l’aspetto del quantum, agli incrementi

monio.

patrimoniali che durante il matrimonio il sogget-

2.6.2 Anche nell’ordinamento tedesco è cen-

to avrebbe potuto conseguire e ai quali ha invece

trale il principio di auto-responsabilità, ai sensi

rinunciato per favorire lo sviluppo professionale

dei paragrafi 1569 e 1577 BGB e soltanto quando

e quindi reddituale del coniuge, con la conse-

una delle parti non sia in grado di provvedere

guenza che in base a tale regola, la ricchezza

alle proprie esigenze di vita può essere richie-

viene redistribuita mediante il conguaglio dei ri-

sto il versamento di un assegno. Ciò accade, ad

spettivi incrementi economici.

esempio, quando uno dei coniugi non riesca a

Con la precisazione, tuttavia, che tali analisi si

reperire un’occupazione lavorativa per ragioni di

scontrano necessariamente con la realtà econo-

età, malattia o infermità oppure ancora il diritto

mico–sociale e con la funzione di welfare dello

sussiste per almeno tre anni dopo la nascita di

Stato di riferimento: laddove, infatti, in quest’ulti-

un figlio.

mo vi sia un modello di welfare forte, vi sarà una

Regola fondamentale, pertanto, in Germania

minor necessità della corresponsione di un asse-

è quella degli incrementi patrimoniali, sulla base

gno essendo garantita l’erogazione di prestazioni

del modello di comunione differita dei paesi del

sociali e sussistendo maggiori possibilità per il

621


Giurisprudenza

soggetto di reinserirsi grazie a tale supporto nel

le nel quale la Corte evidenzia che: “la funzione

mercato del lavoro, con l’effetto che tali presta-

assistenziale dell’assegno di divorzio si compone

zioni statali sostituiscono la funzione dell’assegno

di un contenuto perequativo-compensativo che

divorzile, rendendo superflua la corresponsione

discende direttamente dalla declinazione costitu-

di somme da parte dell’altro coniuge allorché si

zionale del principio di solidarietà e che conduce

abbracci una funzione compensativa dell’istituto.

al riconoscimento di un contributo che, partendo

In Italia, ove viceversa il sistema del welfare

dalla comparazione delle condizioni economico-

e del reinserimento lavorativo è molto ridotto, la

patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto

corresponsione di un assegno divorzile, stante la

non soltanto del raggiungimento di un grado di

presenza di ammortizzatori sociali, deve essere

autonomia economica tale da garantire l’auto-

valorizzata anche quale strumento che consente

sufficienza, secondo un parametro astratto ma,

al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino

in concreto, di un livello reddituale adeguato al

all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.

contributo fornito nella realizzazione della vita fa-

In conclusione, sulla scorta di tali dati, deve

miliare, in particolare tenendo conto delle aspet-

ritenersi abbia maggior rilevanza quanto afferma-

tative professionali ed economiche eventualmen-

to dalla Suprema Corte in parte motiva, offrendo

te sacrificate, in considerazione della durata del

prevalenza alla natura perequativo-compensativa

matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio

dell’assegno divorzile.

di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto

2.6.5 Non va tuttavia dimenticato, diversamen-

prognostico riguardante la concreta possibilità di

te da quanto indicato, che la pronuncia della Su-

recuperare il pregiudizio professionale ed eco-

prema Corte attribuisce valore anche alla funzio-

nomico derivante dall’assunzione di un impegno

ne assistenziale, fondata sull’art. 29 Cost., al fine

diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore

di fornire, al contempo, protezione alla dignità

età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di

della persona, evitando la creazione di ingiustifi-

verificare la concreta possibilità di un adeguato

cate rendite di posizione.

ricollocamento sul mercato del lavoro”.

Se, di conseguenza, il fondamento dell’asse-

Pertanto ed a tal fine, il principio di autore-

gno non deve essere più riscontrato, come ac-

sponsabilità e di autodeterminazione deve essere

cadeva prima del 2017, nel principio di solida-

coniugato con il principio di solidarietà in con-

rietà ex art. 2 Cost., tuttavia tale funzione deve

creto, ponendolo a fondamento della spettanza

comunque trovare spazio in particolari situazioni

dell’assegno e la pronuncia del 2018 delle Sezio-

di disagio.

ni Unite, se è ben vero che offre delle indicazioni

2.7 La sentenza del 2018 ha certamente il

teoriche e degli spunti al giudice di merito per

merito di restituire dignità e importanza al vis-

risolvere le situazioni poste al suo vaglio, non

suto della coppia nel matrimonio, dando rilievo

fornisce strumenti certi, in particolare in relazio-

al principio di solidarietà post-coniugale e senza

ne all’iter da seguire.

che il divorzio possa azzerare il passato, come

2.8 Poste tali premesse sulla natura giuridica

confermato anche da altre disposizioni, quali la

e sulla funzione dell’istituto, ed in base alle indi-

previsione di una assegno a carico eredità o la

cazioni fornite dalle recenti Sezioni Unite della

ripartizione della quota del trattamento di fine

Suprema Corte, il Collegio ritiene che il Giudice,

rapporto.

per stabilire se attribuire o meno l’assegno, deb-

Tuttavia, il principale problema che si palesa

ba dunque verificare in primo luogo se sussista

agli interpreti è relativo al passaggio motivaziona-

un divario rilevante nella situazione economica

622


Claudia Benanti

delle parti, eventualmente esercitando proprio in

Se, infatti, deve essere attribuita rilevanza cen-

questa fase i poteri ufficiosi richiamati nella sen-

trale alla funzione compensativa, la quale mira a

tenza.

compensare i sacrifici fatti dai coniugi nel matri-

2.8.1 Se tale divario non emerge, non potrà

monio, allora non vi può essere spazio per l’attri-

essere riconosciuto alcun diritto al percepimento

buzione dell’assegno quando i sacrifici non siano

di un contributo economico da parte del richie-

stati effettuati.

dente.

2.8.3 Avendo però l’assegno natura composi-

2.8.2 Nel caso contrario, però, non per ciò

ta, è proprio in tale circostanza che deve essere

solo vi sarà diritto ad un assegno divorzile: in

recuperata la funzione assistenziale dell’istituto,

presenza di un divario rilevante nella situazione

riconoscendo al coniuge un assegno divorzile

economica delle parti, infatti, si deve innanzitutto

nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati

comprendere quale sia la causa del divario stes-

per vivere e non sia in grado di procurarseli (per

so.

ragioni di età, salute, situazioni personali o sociaInfatti, solo qualora lo squilibrio sia conse-

li); tuttavia, sotto il profilo del quantum, in tale

guenza anche dei sacrifici effettuati dal richie-

eventualità l’assegno dovrà essere ricondotto ad

dente, il diritto alla corresponsione dell’assegno

un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia

vi sarà.

tale da garantire le esigenze minime di vita della

Viceversa, qualora nessuno dei coniugi si sia

persona.

sacrificato a tal fine (solo a titolo di esempio, nel

Assume così nuova rilevanza, la funzione soli-

caso in cui matrimonio abbia avuto durata molto

daristica dell’istituto, la quale riesce a garantire il

breve, non siano nati figli e non vi sono state ri-

rispetto dell’art. 2 Cost. senza, però, che attraver-

nunce delle parti allo sviluppo della propria pro-

so il ricorso ad essa possano formarsi dei redditi

fessionalità per favorire la crescita della famiglia),

di posizione.

non vi sarà spazio per il riconoscimento di un assegno divorzile.

Pertanto, nel solo caso in cui venga riconosciuto l’assegno divorzile – sotto il profilo dell’an

In conclusione, dall’attenzione centrale fornita

– in considerazione della funzione assistenziale

della Suprema Corte nella fase di determinazione

(ossia sulla base di un duplice presupposto: il

dell’assegno al parametro perequativo-compen-

primo, alternativo, o dell’assenza di divario pa-

sativo, deve necessariamente ritenersi che vi sarà

trimoniale o della presenza di divario ma non

un diritto all’assegno e che, sotto il profilo del

generato anche dai sacrifici e dalle rinunce del

quantum, sarà riconosciuto in misura proporzio-

coniuge debole, il secondo dell’assenza di mezzi

nalmente sempre maggiore, nel caso di esistenza

adeguati per vivere e dell’incapacità del coniuge

di un rilevante divario economico – patrimoniale

di procurarseli), la misura dell’assegno dovrà es-

fra i coniugi formatosi anche come conseguenza

sere parametrata, sotto il profilo del quantum, a

della circostanza che uno di essi si è sacrificato

quel tantundem che consenta al richiedente di

per la famiglia e per consentire al compagno di

mantenersi per il tempo necessario a reinserirsi

sviluppare il patrimonio familiare.

nel mondo del lavoro, senza far rivivere parame-

L’assegno, viceversa, non vi sarà, a prescin-

tri para legislativi quali quello del “tenore di vita”.

dere dal divario reddituale e patrimoniale fra i

Alla luce della funzione compensativa, dell’e-

coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio

sistenza di un divario economico fra i coniugi e

di uno di essi per la formazione del patrimonio

delle ragioni che hanno condotto alla formazione

comune nel periodo dell’unione matrimoniale.

dello stesso, vanno poi valutati tutti gli altri pa-

623


Giurisprudenza

rametri di cui all’art. 5, comma sesto, l. div., fra

periodo di tempo previsto ex art. 3, numero 2),

i quali posizione centrale assume la durata del

lett. b) legge 1 dicembre 1970 n. 898 ed è pacifi-

matrimonio.

co che la comunione materiale e spirituale fra gli

2.9 In tal modo, l’istituto così riletto sarà in

stessi non può più essere ricostituita.

grado di adattarsi sia alle situazioni più risalenti

3.2 Relativamente alla domanda della resisten-

in cui il modello familiare tipico vedeva soltanto

te di attribuzione alla stessa di un assegno divor-

il marito svolgere un’attività lavorativa, mentre la

zile, i principi indicati dalle Sezioni Unite devo-

moglie si occupava della famiglia, sia di adeguar-

no essere applicati in concreto al caso di specie,

si ai mutamenti storico-sociali della struttura fa-

giungendo ad affermare che non sussiste alcun

miliare moderna, riscontrandosi oggi sempre più

diritto all’assegno divorzile a favore di A. M. per

casi nei quali entrambi i coniugi svolgono una

le ragioni che seguono.

professione; come è stato correttamente rileva-

Quanto alla situazione della resistente, si rile-

to da Tribunale di Pavia (sent. 17 luglio 2018)

va che la stessa ha 35 anni, non è contestato sia

la situazione sociale penalizzante per le donne,

laureata in commercio estero e attualmente non

rispetto agli uomini, sia nella ricerca del lavoro,

ha alcun impiego lavorativo.

sia nelle prospettive di carriera, sia in molti casi

Per ciò che concerne il possesso di redditi

nel livello retributivo pur a parità di mansioni, va

di qualsiasi specie, dal modello Persone Fisiche

tenuta in considerazione al solo fine di valutare

2018 risulta che nell’annualità 2017 A. M. abbia

in concreto se un soggetto possa, dopo il divor-

percepito come unica entrata l’assegno di mante-

zio, reinserirsi nel mondo del lavoro, ma non può

nimento da parte del marito, per la somma com-

essere posta a base della decisione sull’assegno

plessiva di circa Euro 15.000,00 netti l’anno (circa

divorzile dando ingresso ad una “locupletazione

Euro 1.100,00 netti mensili).

ingiustificata” basata sul criterio del tenore della

La resistente risiede in Italia in locazione (co-

vita matrimoniale, superando la funzione com-

me risulta dalla dichiarazione dei redditi 2018),

pensativa dell’assegno “posto che quest’ultimo

ma non fornisce alcuna documentazione attestan-

non servirebbe a ristorare la parte che, sulla base

te l’ammontare del canone pagato mensilmente.

delle scelte della coppia, ha sacrificato le proprie

Il matrimonio tra le parti risale al 13 dicembre

ambizioni personali di realizzazione lavorativa,

2007, mentre sentenza parziale di separazione è

ma attribuirebbe invece alla parte medesima un

stata pronunciata il 26 settembre 2017. Il rappor-

vantaggio superiore a tale sacrificio.”.

to coniugale è, dunque, durato circa dieci anni e

3. L’applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel caso concreto

dal matrimonio non è nato alcun figlio. 3.3 Quanto al egli è lavoratore a tempo in-

3.1 Va in primo luogo rilevato che la sepa-

determinato e percepisce uno stipendio di circa

razione tra i coniugi è ancora pendente, ma è

Euro 3.100,00 netti mensili (cfr. Modello UNICO

già passata in giudicato la sentenza parziale sullo

2018). Non corrisponde un canone di locazione

status, pronunciata il 26 settembre 2017 e la com-

per l’alloggio in cui vive ed è proprietario di un

parizione dei coniugi innanzi al presidente del

immobile in Italia.

tribunale nella procedura di separazione personale risale al 17 dicembre 2015 (cfr. docc. 5, 6 e 7

3.4 A. M. fonda la sua domanda di corresponsione di un assegno su vari elementi.

parte ricorrente). Pertanto, deve essere dichiarato

In primo luogo, asserisce di aver sempre se-

lo scioglimento del matrimonio poiché la separa-

guito il marito nei suoi trasferimenti lavorativi,

zione personale fra i coniugi si è protratta per il

di comune accordo con lo stesso, e che, sem-

624


Claudia Benanti

pre per scelta condivisa, si sarebbe dimessa dalle

Pertanto, deve ritenersi che A. M. possa rein-

occupazioni lavorative prima presso UPS e poi

serirsi nel mercato del lavoro ed è ravvisabile una

come segretaria. Specifica poi di essersi trasferita

sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazio-

in Italia e di non essere riuscita a reperire alcuna

ne, considerato anche l’assunzione volontaria del

attività, nonostante l’invio di numerosi curricula.

rischio da parte sua di trasferirsi in Italia, nono-

3.5 Guardando al solo aspetto patrimoniale, è pacifica la consistenza di un rilevante divario nella situazione economica delle parti. Come, però, si è già avuto modo di evidenziare, ciò non è sufficiente per riconoscere il diritto ad un assegno, essendo necessario indagare sulla causa del divario stesso. A tal fine, deve innanzitutto rilevarsi che seppur la decisione della resistente di seguire il marito, in costanza di matrimonio, sia riconducibi-

stante l’asserita assenza di legami. Oltre a tali aspetti, non sono nati figli dalla coppia e il matrimonio ha avuto una durata di circa dieci anni, ma soprattutto non vi è stato alcun apprezzabile sacrificio di A. M. durante la vita coniugale che abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio del ricorrente. Pertanto, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale, non essendovi stato alcun sacri-

le ad una scelta comune tra i coniugi, non vi è

ficio, non vi è alcun diritto ad un assegno divor-

prova che sia stata condivisa anche la decisione

zile, che nel caso di specie comporterebbe una

della stessa di dimettersi dalle attività lavorative

sostanziale rendita di posizione, per le ragioni

in cui era impiegata (aspetto su cui diverse sono,

sopra esposte.

infatti, le ricostruzioni delle parti).

4. Spese

Quanto alla situazione personale della resi-

Le spese di lite seguono la soccombenza e

stente, A. M. ha un’età che le consente di rein-

sono liquidate come da dispositivo ai sensi del

serirsi nel mondo del lavoro e possiede un titolo

D.M. 55/2014.

di studio facilmente spendibile, a cui si aggiunge

P.Q.M.

anche la conoscenza dello spagnolo quale lingua

Il Tribunale in composizione collegiale, defi-

madre. Inoltre, essendosi trasferita in Italia nel 2014, appare poco verosimile la circostanza da lei allegata che ai colloqui lavorativi venga scartata perché non in grado di parlare bene la lingua (cfr. dichiarazioni rese in sede di udienza presidenziale il 5 aprile 2018). Il solo invio di curricula non è sufficiente a provare l’impossibilità di reperire un impiego e, in relazione a ciò, si rileva che la documentazione depositata dalla ricorrente risale tutta al 2018,

nitivamente pronunciando, rigettata ogni diversa e contraria istanza, così provvede: - Dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto il (Omissis) da M., nato in (Omissis) e A. M., nata in (Omissis), trascritto al n. (Omissis) del registro degli atti di matrimonio del Comune di Pederobba; - Rigetta la domanda della resistente di versamento alla stessa di un importo a titolo di assegno divorzile;

successiva al deposito del ricorso di divorzio

- Liquida le spese di lite nella complessiva

(soltanto un curriculum è stato inviato nel 2014).

somma di Euro 4.000,00 oltre spese generali, IVA

Allo stesso modo, gli asseriti problemi di sa-

e C.p., e condanna la resistente al pagamento

lute non sono in alcun modo provati dalla resistente, che ha rinunciato ai termini ex art. 183 cod. proc. civ.

delle stesse in favore di M. Così deciso nella camera di consiglio del 8 gennaio 2019.

625


Giurisprudenza

L’assegno divorzile non spetta al coniuge cui sia imputabile il proprio stato di bisogno* Sommario : 1. Il caso. – 2. La funzione prevalente dell’assegno divorzile in base all’argomento comparatistico. – 3. Il modus procedendi del giudice di merito. – 4. La decisione del caso concreto. – 5. Considerazioni conclusive: la correlazione tra modello familiare e assegno divorzile.

The Tribunal of Treviso, dealing with the principles recently set forth by the United Sections of the Italian Supreme Court, highlights the need to take primarily into account the contribution that each spouse gave to the family life and to the matrimonial property. Lacking this contribution, a former spouse is entitled to receive financial provisions from the other one just to provide for his or her own essential needs. However, a former spouse in need has not the right to such provisions if he or she did not look thoroughly for a job before the end of the marriage.

1. Il caso. Due soggetti – Tizio cittadino italiano, Caia cittadina venezuelana – sposatisi in Venezuela, si separano dopo un periodo di convivenza matrimoniale di circa dieci anni. In sede di separazione il Tribunale condanna il marito, dipendente di una ditta italiana in Argentina, a corrispondere alla moglie un assegno mensile di euro 1500, a titolo di mantenimento. Tizio, nel presentare domanda di divorzio, chiede al Tribunale che escluda alcun obbligo a suo carico di pagare un assegno di divorzio alla moglie Caia, adducendo che quest’ultima per sua scelta ormai viveva in Italia, che era laureata in commercio estero e che si era dimessa volontariamente dall’azienda per la quale lavorava e da altra attività procuratale dal marito. Il Tribunale di Treviso, nel decidere sul ricorso, analizza le seguenti questioni: se sulla base del decisum delle Sezioni Unite le funzioni perequativo-compensativa ed assistenziale dell’assegno divorzile debbano essere ritenute tra loro equivalenti oppure la prima

* **

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Contributo realizzato con fondi per la ricerca di Ateneo-Piano per la Ricerca 2016/18, Università di Catania.

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Claudia Benanti

prevalga sulla seconda; se, escluso nel caso concreto il diritto all’assegno sulla base del criterio perequativo-compensativo, questo possa spettare in base al solo criterio assistenziale ed eventualmente entro quali limiti. Su tali questioni ci si soffermerà nel presente lavoro.

2. La funzione prevalente dell’assegno divorzile in base all’argomento comparatistico.

Il Tribunale di Treviso, nel decidere il caso sottoposto al suo esame, fa applicazione dei principi recentemente enunciati in materia di assegno divorzile dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione1. Queste ultime sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione se l’assegno divorzile spetti al coniuge che non abbia mezzi sufficienti per conservare il tenore di vita matrimoniale, come ritenuto dalla giurisprudenza dominante fino ai primi mesi del 20172 oppure esclusivamente al coniuge che abbia provato la propria mancanza di autosufficienza economica e l’impossibilità oggettiva di porvi rimedio, come ritenuto dall’orientamento più recente, inaugurato da Cass., I sez., 10 maggio 2017, n. 115043. In questa sede le Sezioni Unite si sono distaccate dall’interpretazione fino a quel momento pacifica secondo cui l’assegno divorzile aveva natura assistenziale, sostenendo che

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Cass., sez. un., 11.7.2018, n. 18287, in questa Rivista, 2018, 455 ss., con nota di S. Patti; in Corr. giur., 2018, 1186 ss., con nota di S. Patti; in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1601 ss., con nota di C. Benanti e in For. it, 2018, I, 2671 ss., con note di G. Casaburi e di M. Bianca. Questo orientamento risale a due sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione del 1990. Cfr. Cass., sez. un., 29.11.1990, n. 11490, in Foro it., 1991, I, 67 ss., con note di E. Quadri e di V. Carbone; in Giust. civ., 1990, I, 2789 ss., con note di A. Spadafora (ivi, 1991, I, 1223 ss.) e di E. Bruschi (ivi, 2119 ss.) e in Corr. giur., 1991, 305 ss., con nota di A. Ceccherini; Cass., sez. un., 29.11.1990, n. 11492, in Dir. fam. e pers., 1991, 119 ss., con note di G. Nappi e di F. Dell’Ongaro; in Giur. it., 1991, I, 1410 ss., con nota di P. Colella; in Arch. civ., 1991, 419 ss., con nota di R.C. Delconte. V., tra le decisioni più recenti che hanno applicato la medesima soluzione, Trib. Treviso, 7.10.2016, in b.d. Pluris; Cass., 29.9.2016, n. 19339, ivi; Cass., ord. 3.4.2015, n. 6855, ivi; Cass., ord. 10.2.2015, n. 2574, in Fam. e dir., 2016, 259 ss., con nota di V. Giorgianni; Cass., ord. 26.1.2015, n. 1264, in b.d. Pluris; Trib. Taranto, 26.11.2014, ivi; Cass., ord. 14.10.2014, n. 2667, ivi; Cass., ord. 8.7.2014, n. 15499, ivi; Cass., ord. 27.5.2014, n. 11797, ivi; Cass., 20.3.2014, n. 6562, in Foro it., 2014, I, 1496 ss.; Cass., 5.2.2014, n. 2546, in b.d. Pluris. In Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1010 ss., con nota di U. Roma; in Fam. e dir., 2017, 636 ss., con nota di E. Al Mureden; in Giur. it., 2017, 1299 ss., con nota di A. Di Majo; ivi, 1795 ss., con nota di C. Rimini “e in Foro it., 2017, I, 2707 ss., con note di S. Patti e di M. Bianca. Questa posizione è stata seguita dalla giurisprudenza nettamente prevalente. Cfr., nella giurisprudenza di legittimità, tra le altre, Cass., 5.3.2019, n. 6386, in Foro it., 2019, I, 1181 ss., con nota di G. Luccioli; Cass., 16.3.2018, n. 6663, in b.d. DeJure; Cass., 7.2.2018, n. 3016, ivi; Cass., 7.2.2018, n. 3015, in Guida al dir., 2018, 10, 20 ss.; Cass., 26.1.2018, n. 2043, in b.d. DeJure; Cass., 26.1.2018, n. 2042, in Fam. e dir., 2018, 321 ss., con nota di A. Figone e in Foro it., 2018, I, 836 ss.; Cass., ord. 21.12.2017, n. 30738, in b.d. DeJure; Cass., 25.10.2017, n. 25327, ivi; Cass., ord. 9.10.2017, n. 23602, in Corr. giur., 2017, 1597 ss.; Cass., ord. 29.8.2017, n. 20525, in Fam. e dir., 2018, 573 ss., con nota di L. Giorgianni; Cass., 22.6.2017, n. 15481, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1473 ss., con nota di A. Vesto e in Foro it., 2017, I, 2259 ss.; Cass., 11.5.2017, n. 11538, in b.d. DeJure. Cfr., nella giurisprudenza di merito, ex plurimis, Trib. Matera, 7.3.2018, ivi; Trib. Bologna, 1.2.2018, ivi; Trib. Forlì, 29.1.2018, ivi; Trib. Roma, 9.1.2018, ivi; App. Milano, 16.11.2017 e Trib. Roma, 26.9.2017, in Giur. it., 2017, 2625 ss., con nota di A. Di Majo; Trib. Venezia, 25.5.2017, in b.d. DeJure; Trib. Milano, ord. 22.5.2017, in Ilcaso.it; Trib. Mantova, 16.5.2017, in b.d. DeJure.

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Giurisprudenza

il medesimo, pur presentando una componente assistenziale, abbia anche una funzione «perequativo-compensativa». Ciò perché i criteri di attribuzione dell’assegno indicati nella prima parte dell’art. 5, co. 6°, l. div. – comparazione delle condizioni economiche delle parti, contributo fornito da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge e di quello comune, ragioni della decisione e durata del matrimonio – essendo attuazione del modello costituzionale di matrimonio delineato dagli artt. 2, 3 e 29 Cost., non possono limitarsi ad incidere sul quantum dell’assegno (come si era fino a quel momento ritenuto sulla base del tenore letterale della disposizione), ma devono venire in considerazione già nell’accertamento sull’esistenza o meno del relativo diritto4. Secondo le Sezioni Unite l’assegno di divorzio non va più parametrato né al tenore di vita matrimoniale né all’auto-sufficienza economica. Piuttosto, esso deve garantire al coniuge richiedente il raggiungimento di un livello reddituale adeguato al contributo dal medesimo fornito alla realizzazione della vita familiare, tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, della durata del matrimonio e dell’età del richiedente medesimo. Dalla lettura della decisione delle Sezioni Unite sono emerse, però, delle incongruenze tra il principio di diritto enunciato nel dispositivo ed il contenuto della motivazione. Precisamente, mentre nel dispositivo è affermato che all’assegno di divorzio «deve attribuirsi una funzione assistenziale ed, in pari misura, compensativa e perequativa», in un passaggio della motivazione è sostenuto, invece, che la funzione compensativo-perequativa dell’assegno prevalga su quella assistenziale5. La giurisprudenza ritiene che, nell’eventualità di un contrasto tra il dispositivo e la motivazione di una sentenza, l’esatto contenuto della decisione vada individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione e facendo quindi prevalere la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione della decisione del giudice6. Solo un contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo, che incida sull’idoneità del provvedimento a rendere conoscibile, nel suo complesso, il contenuto della statuizione giudiziale – contrasto nel caso di specie non sussistente – può portare alla nullità della sentenza7.

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Si mostra critico verso questa parte della decisione L. Balestra, L’assegno divorzile nella nuova prospettiva delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2019, 15 ss., spec. 18, il quale ritiene che le Sezioni Unite, nell’abbandonare la distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno che pur sembra considerata dalla norma, abbiano superato i limiti dell’attività interpretativa e compiuto invece un’operazione di politica del diritto. Si legge, per esempio, nella motivazione che «(Omissis) l’adeguatezza assume un contenuto prevalentemente perequativocompensativo (Omissis)» e ancora che «Il superamento della distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio (Omissis) non comporta la facoltà di fondare il riconoscimento del diritto soltanto su uno degli indicatori contenuti nell’incipit dell’art. 5, comma 6 essendone necessaria una valutazione integrata, incentrata sull’aspetto perequativo-compensativo, fondata sulla comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la situazione attuale di disparità». Cfr. Cass., 7.3.2019, n. 6630, in b.d. Pluris; Cass., ord. 18.10.2017, n. 24600, ivi; Cass., 10.9.2015, n. 17910, ivi. Cfr. Cass., ord. 6.3.2019, n. 6521, in b.d. Pluris; Cass., ord. 17.10.2018, n. 26074, ivi; Cass., 12.3.2018, n. 5939, ivi; Cass., n. 24600/2017,

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Claudia Benanti

In applicazione di questi principi, il Tribunale di Treviso ritiene che la natura giuridica prevalente dell’assegno – fra le tre evidenziate dalla Suprema Corte – possa essere individuata in via interpretativa mediante il ricorso al metodo comparatistico. In proposito lo stesso Tribunale richiama la disciplina dettata in materia di assegno divorzile sia dalla Francia che dalla Germania e i Principi redatti dalla Commission on European Family Law (CEFL). Con riferimento alla Francia, il Collegio trevigiano osserva che «l’art. 270, comma secondo, Code civil, stabilisce che uno dei coniugi può essere obbligato a versare all’altro una prestazione di carattere forfettario di natura compensatoria (Omissis) l’orientamento seguito dal legislatore francese è quello di non riconoscere assegni divorzili a tempo indeterminato, ma di consentire, da un lato, ai coniugi di mantenersi autonomamente o di reinserirsi nel mondo del lavoro e, dall’altro, di configurare tale dazione come una compensazione dei sacrifici sopportati da uno dei due in costanza di matrimonio». Il Tribunale ritiene, quindi, che la «prestation compensatoire» abbia una funzione perequativo-compensativa. Questa interpretazione non sembra, però, del tutto corretta. Difatti, è opinione condivisa, nella dottrina e nella giurisprudenza d’oltralpe, che la «prestation compensatoire» abbia una natura giuridica mista, in parte indennitaria ed in parte alimentare8. Sebbene l’art. 271 code civil disponga che il giudice, nel fissare la «prestation compensatoire», debba tenere conto anche delle conseguenze delle scelte professionali fatte da uno degli sposi durante la vita comune per l’educazione dei figli o per favorire la carriera del coniuge a danno della propria, l’applicazione che la giurisprudenza di legittimità consolidata fa della «prestation compensatorie» porta ad escludere che essa abbia la funzione di compensare quel dislivello – esistente tra le situazioni economiche dei coniugi al momento del divorzio – causato dal concreto funzionamento del rapporto matrimoniale. Basti evidenziare, in questa sede, che la Corte di Cassazione francese ritiene rilevante, ai fini del riconoscimento della prestazione compensatoria, anche la disparità economica tra i coniugi dipendente da fatti antecedenti al matrimonio, come per esempio da una diversità di qualificazione professionale9 e che nulla ha a che vedere con il funzionamento del rapporto matrimoniale.

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cit.; Cass., ord. 27.6.2017, n. 16014, ivi. Cfr., in dottrina, J. Hauser-P. Delmas Saint-Hilaire, Effets du divorce. – Conséquences du divorce pour les époux. Effets d’ordre patrimonial. Prestation compensatoire. Dommages et intérêts, in Jurisclasseur Divorce, fasc. 30 ou Civil Code, Art. 266 à 285-1, 2016 (agg. 2017), 1 ss., spec. 7, in b.d. LexisNexis JurisClasseur on line; V. Égéa, Les solidarités familiales à la suite du divorce, in Dr. fam., 2016, dossier 22. Cfr., in giurisprudenza, Cass. 22.3.2017, n° 16-15.783, JurisData n° 2017-005238, in b.d. LexisNexis JurisClasseur on line; Cass., 15.4.2015, n° 14-11.796, JurisData n° 2015-008392, ivi e in Revue trim. dr. civ., 2015, 595, con nota di J. Hauser; Cass., 18.12.2013, n° 12-18.537, 1492, JurisData n° 2013-029985, in b.d. LexisNexis JurisClasseur on line; Cass., 7.12.2011, n° 10-16.858, 1210, JurisData n° 2011-027661, ivi; Cass., 7.12.2011, n° 10-16.857, 1209, JurisData n° 2011-033604, ivi; Cass., 29.6.2011, n° 10-16.096, 796, JurisData n° 2011-012941, ivi. Cfr. Cass., 3.4.2019, n° 18-13.544, 332, JurisData n° 2019-005294, in b.d. LexisNexis JurisClasseur on line; Cass., 11.4.2018, n° 17-18.375, JurisData n° 2018-005805, in Dr. famille, 2018, comm. 177, con nota di J-R Binet; Cass., 10.10.2012, n° 11-10.444, JurisData n° 2012022828, in Dr. famille, 2012, comm. 180, con nota di V. Larribau-Terneyre; Cass., 18.5.2011, n° 10-17.445, JurisData n° 2011-008860, in

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Giurisprudenza

Pertanto, la disciplina francese non può fornire argomenti utili al fine di affermare la prevalenza, in ambito europeo, della funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio rispetto a quella assistenziale. Con riferimento all’ordinamento tedesco il Tribunale di Treviso, dopo aver osservato che nel medesimo sono centrali il principio di auto-responsabilità10 e la regola degli incrementi patrimoniali, basata sul modello della comunione differita, aggiunge che «…l’assegno divorzile nei limitati casi in cui viene disposto va parametrato, sotto l’aspetto del quantum, agli incrementi patrimoniali che durante il matrimonio il soggetto avrebbe potuto conseguire e ai quali ha invece rinunciato per favorire lo sviluppo professionale e quindi reddituale del coniuge, con la conseguenza che in base a tale regola, la ricchezza viene redistribuita mediante il conguaglio dei rispettivi incrementi economici». Il Tribunale confonde così l’istituto della Zugewinngemeinschaft (Conguaglio degli incrementi) con l’assegno di divorzio. È il primo infatti a prevedere, nel contesto delle regole del regime patrimoniale della famiglia, che la ricchezza prodottasi durante il matrimonio sia divisa tra i coniugi al momento del divorzio. Il secondo, invece, viene corrisposto in determinati casi in cui il coniuge non è in grado di mantenersi da sé, viene parametrato sulle condizioni di vita matrimoniali (cfr. § 1578, co. 1, BGB) ed ha esclusivamente una funzione assistenziale11. Ne consegue che neppure la disciplina tedesca possa fornire argomenti utili al fine di affermare la prevalenza, in ambito europeo, della funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio su quella assistenziale. In ultimo, neanche i Principi CEFL sembrano pertinenti a tal fine. Difatti essi, stabilito il principio della generale autosufficienza del coniuge divorziato – da intendersi come autoresponsabilità, ossia come obbligo di provvedere al proprio sostentamento (v. Principio 2:2) – fondano il diritto di quest’ultimo a ricevere il mantenimento dall’altro sulla sua mancanza di mezzi economici per soddisfare i propri bisogni e, quindi, sul criterio assistenziale (v. Principio 2:3)12. In conclusione, la prevalenza della funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio rispetto a quella assistenziale viene basata dal Tribunale di Treviso su una ricostruzione non condivisibile del quadro comparatistico.

Dr. famille, 2011, comm. 108, con nota di V. Larribau-Terneyre e in Revue trim. dr. civ., 2011, 506 ss., spec. 520, con nota di J. Hauser; Cass., 12.1.2011, n° 09-72.248, JurisData n° 2011-000221, in Dr. famille, 2011, comm. 34, con nota di V. Larribau-Terneyre. 10 Il § 1569 BGB – rubricato «Grundsatz der Egeinverantwortung» – dispone, infatti, che: «Nach der Scheidung obliegt es jedem Ehegatten, selbst für seinen Unterhalt zu sorgen». 11 Cfr., sulla disciplina tedesca relativa all’assegno di divorzio, S. Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?, in questa Rivista, 2017, 411 ss., spec. 416 s. e M. Sesta, L’assegno di divorzio nella prospettiva italiana e in quella tedesca, ivi, 2019, 3 ss. 12 Cfr., per dei cenni ai Principi CEFL, Patti, op. cit., 415.

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Claudia Benanti

3. Il modus procedendi del giudice di merito. Il Tribunale di Treviso, così precisata la natura giuridica dell’assegno divorzile, indica l’iter che il giudice di merito deve seguire nella decisione sulla sua attribuzione, individuando le fasi seguenti. Inizialmente il giudice è tenuto a verificare la sussistenza di un divario rilevante tra le situazioni economiche dei coniugi, al momento del divorzio. Infatti, in assenza di tale presupposto l’assegno non può essere attribuito13. Secondariamente, egli deve accertare quale sia stata la causa del divario stesso. Questo accertamento può avere esiti differenti. Infatti, se lo squilibrio sia dovuto anche ai sacrifici effettuati dal richiedente a vantaggio della famiglia o del patrimonio dell’altro coniuge, il diritto all’assegno di divorzio gli sarà riconosciuto e l’ammontare del medesimo sarà determinato in misura proporzionale al contributo dato. In caso contrario l’assegno di divorzio dovrà essergli negato14. Questa affermazione viene, però, temperata dal Tribunale mediante l’applicazione del criterio assistenziale. In base ad esso, l’assegno dovrà essere comunque attribuito al coniuge che non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive15. Tuttavia, in questo caso l’assegno dovrà essere ricondotto ad un importo alimentare, tale cioè – precisa il Collegio – da soddisfare «le esigenze minime di vita della persona». Il ragionamento del Tribunale di Treviso si segnala, pertanto, sia per la svalutazione del criterio assistenziale sia per la riconduzione di questo criterio ai presupposti dell’obbligazione alimentare. La prevalenza della funzione perequativo-compensativa dell’assegno rispetto a quella assistenziale si trova affermata anche in altre sentenze di merito coeve16. In questo contesto, la decisione in commento si caratterizza sia perché afferma – diversamente dalle Sezioni Unite – che l’applicazione del criterio perequativo-compensativo debba precedere quella del criterio assistenziale sia perché fa coincidere quest’ultimo criterio con quello alimentare.

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Ne segue che, in mancanza di tale disparità, nessuna prestazione compensativa potrebbe essere riconosciuta al coniuge che pur abbia contribuito in modo prevalente alla conduzione della famiglia. Sono di questo avviso anche C.M. Bianca, Le Sezioni Unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 ss., spec. 957 e C. Rimini, La nuova funzione compensativa dell’assegno divorzile, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1693 ss., spec. 1697 s. Contra A. Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito, in questa Rivista, 2018, 527 ss., spec. 534 s. 14 Affermazioni simili si leggono in App. Palermo, 25.3.2019, in b.d. Pluris e App. Palermo 18.2.2019, ivi. 15 Non può dubitarsi del fatto che, in base al decisum delle Sezioni Unite, l’assegno divorzile possa essere riconosciuto, in difetto di ragioni compensative, in base al solo criterio assistenziale. Cfr., da ultimo, Cass., ord. 10.4.2019, n. 10084, in Fam. e dir., 2019, 566 ss., con nota di F. Danovi. 16 Cfr. App. Campania Napoli, 10.1.2019, in b.d. Pluris.

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Giurisprudenza

La tesi che, in difetto di esigenze compensative, operi soltanto la funzione assistenzialealimentare in senso stretto dell’assegno è sostenuta anche da una parte della dottrina17. Tuttavia, il Tribunale di Treviso intende la misura degli alimenti in modo ingiustificatamente restrittivo, limitato alla garanzia dei bisogni minimi di vita dell’alimentando. Piuttosto, gli alimenti devono assicurare all’avente diritto un tenore di vita dignitoso (ridotto ad un livello minimo di vita dignitosa solo se essi sono dovuti tra fratelli e sorelle)18. Una decisione di merito coeva a quella in commento sembra intendere, invece, il criterio alimentare in modo meno restrittivo, ricollegandolo all’autosufficienza economica, da intendersi sì come esistenza libera e dignitosa, ma da valutarsi in base alla «posizione del coniuge richiedente, quanto alle sue condizioni di vita, anche pregresse, alla sua età, ai suoi progetti e alle sue condizioni di salute»19. In effetti, le Sezioni Unite non precisano quale tenore di vita debba essere garantito al coniuge richiedente applicando esclusivamente il criterio assistenziale. A tal fine sembra convincente il richiamo, effettuato da Cass., n. 11504/2017, del parametro dell’autosufficienza economica, da desumersi da indici quali il possesso di redditi e/o di beni mobili o immobili, le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale e la stabile disponibilità di una casa di abitazione. In difetto di ragioni compensative, al coniuge dovrà essere assicurato un «dignitoso mantenimento», ossia un tenore di vita superiore a quello alimentare, anche se non più rapportabile a quello goduto durante il matrimonio20.

4. La decisione del caso concreto. In applicazione dei principi enunciati, il Tribunale di Treviso rileva l’assenza nel caso di specie dei presupposti che avrebbero consentito l’attribuzione dell’assegno di divorzio sia in base alla componente perequativo-compensativa sia in base a quella assistenziale. In virtù del primo criterio, il Collegio osserva che «seppur la decisione della resistente di seguire il marito, in costanza di matrimonio, sia riconducibile ad una scelta comune tra i coniugi, non vi è prova che sia stata condivisa anche la decisione della stessa di dimettersi dalle attività lavorative in cui era impiegata (aspetto su cui diverse sono, infatti, le ricostru-

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Cfr. Rimini, op. cit., 1699; Id., Criteri di determinazione dell’assegno divorzile, in questa Rivista, 2019, 21 ss., spec. 27, il quale ritiene che nel caso di breve durata del matrimonio possa essere attribuito un importo ancora più modesto. Ai redditi sufficienti a garantire un’esistenza libera e dignitosa fanno riferimento anche: E. Al Mureden, L’assegno di mantenimento e l’assegno di divorzio dopo la decisione delle Sezioni Unite, in Fam. e dir., 2018, 1019 ss., spec. 1028 s. e Id., Solidarietà post-coniugale e compensazione del contributo endofamiliare nel nuovo assegno divorzile, in questa Rivista, 2019, 29 ss., spec. 37. 18 V., sul punto, T. Auletta, Diritto di famiglia, Giappichelli, Torino, 4ª ed., 2018, 289. Che l’assegno debba comprendere la somma necessaria per un’esistenza dignitosa (con la conseguenza che nulla spetterà al coniuge che sia già dotato di mezzi sufficienti a questo fine) è sostenuto, dal resto, dagli autori sopra citati nella nota 17. 19 App. Campania Napoli, 10.1.2019, cit. 20 Di questo avviso sembra essere anche Mondini, op. cit., 537 s. il quale propone però di fare riferimento all’indice medio delle retribuzioni di operai ed impiegati, ovvero quadri, eventualmente adattato al costo della vita del luogo di residenza del richiedente.

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zioni delle parti)». Esso aggiunge, inoltre, che «Oltre a tali aspetti, non sono nati figli dalla coppia e il matrimonio ha avuto una durata di circa dieci anni, ma soprattutto non vi è stato alcun apprezzabile sacrificio di A. M. durante la vita coniugale che abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio del ricorrente». La decisione sul punto è condivisibile. Il riconoscimento dell’assegno in funzione perequativo-compensativa si giustifica, infatti, soltanto nei casi in cui le prestazioni del coniuge richiedente abbiano ecceduto quanto necessario per l’adempimento del dovere di contribuzione ovvero questi, per dedicarsi alla famiglia, abbia fatto delle rinunce sui piani della formazione professionale e/o lavorativo, che ne hanno diminuito la capacità reddituale21. Questi presupposti non ricorrevano nel caso di specie. Sul piano probatorio il Tribunale fa corretta applicazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite, in base al quale è il coniuge richiedente l’assegno a dover dare la prova del contributo da lui fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio familiare e di quello dell’altro coniuge, mentre spetta a quest’ultimo dare la prova contraria. Il Tribunale di Treviso verifica, poi, se nel caso concreto sussistano i presupposti – tipici dei crediti alimentari – della carenza di mezzi e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Esso giunge ad una conclusione negativa in ragione del fatto che Caia, anche se attualmente priva di mezzi, appariva in grado di reperire un’occupazione, in ragione dell’età (35 anni), del titolo di studio (laurea in commercio estero) e della conoscenza della lingua spagnola, mentre la sua attuale mancanza di impiego sembrava riconducibile ad una sua inerzia colpevole. Osserva, in particolare, il Collegio che: «Il solo invio di curricula non è sufficiente a provare l’impossibilità di reperire un impiego e, in relazione a ciò, si rileva che la documentazione depositata dalla ricorrente risale tutta al 2018, successiva al deposito del ricorso di divorzio (soltanto un curriculum è stato inviato nel 2014)»22. Sul piano del rilievo dato all’imputabilità dello stato di bisogno, la decisione si espone ad alcune critiche. Difatti, il diritto agli alimenti spetta anche al soggetto che si trovi in stato di bisogno per sua colpa, purché egli non sia in grado, per ragioni oggettive, di sottrarsi a quello stato23. Si considerino i casi del soggetto che, a causa della propria imprudenza o negligenza, è stato vittima di un incidente che lo ha reso inabile al lavoro e del soggetto che ha dilapidato il proprio patrimonio al gioco d’azzardo.

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In questa direzione già C. Benanti, La «nuova» funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1601 ss., spec. 1606. 22 Sebbene il Tribunale discorra, in modo generico, di «documentazione», è presumibile che stia facendo riferimento a quella attestante l’invio di curricula. 23 Auletta, op. loc. cit.

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Giurisprudenza

Questo principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con riferimento ad un caso in cui successivamente al divorzio l’ex-coniuge si era ridotto, per sua colpa, in stato di indigenza24. Il comportamento del coniuge che durante il periodo di convivenza matrimoniale si sia dimesso dal lavoro, confidando nel fatto che l’altro coniuge l’avrebbe mantenuto, pur valutabile negativamente sul piano dell’adempimento del dovere di contribuzione, non appare dissimile da quello riscontrabile nei casi sopra considerati e dev’essere, quindi, regolato in modo analogo. L’imputabilità dello stato di bisogno del coniuge a comportamenti da lui tenuti durante il periodo della convivenza matrimoniale non può valere, quindi, ad escluderne il diritto all’assegno divorzile. Al fine dell’attribuzione dell’assegno in funzione assistenziale resta centrale la situazione di impossibilità oggettiva di sottrarsi allo stato di bisogno, nella quale il coniuge si trovi. Condivisibile è il rilievo dato dal Tribunale al comportamento passivo di Caia, che si era attivata per cercare un lavoro soltanto dopo la presentazione della domanda di divorzio, mentre avrebbe dovuto farlo già durante la separazione, in base al principio di autoresponsabilità. In ragione della propria inerzia, Caia non è riuscita a dimostrare l’impossibilità oggettiva di un superamento dello stato di bisogno. Tuttavia, sarebbe stato opportuno che la valutazione del Tribunale fosse stata anche supportata da dati statistici riguardanti la situazione occupazionale di soggetti simili a Caia, per titolo di studio ed età, in un’area comprendente il luogo di residenza di quest’ultima. In base alle regole vigenti nel nostro ordinamento, Caia potrà comunque presentare in futuro una nuova domanda di assegno divorzile, allegando specificamente e provando le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative25.

5. Considerazioni conclusive: la correlazione tra modello familiare e assegno divorzile.

La sentenza in commento va considerata nel contesto più ampio della giurisprudenza di merito che ha fatto applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel luglio del 2018. In quest’ambito la posizione del Tribunale di Treviso non è isolata.

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Cass., 12.2.2013, n. 3398, in Foro it., 2013, I, 1464 ss. Cfr., nel senso che, se il bisogno si manifesta dopo la sentenza di divorzio, la domanda di assegno possa essere ripresentata, Cass., n. 3398/2013, cit.

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Claudia Benanti

Si riscontrano, infatti, una serie di sentenze che, a fronte di matrimoni di durata non molto lunga (con un periodo di convivenza matrimoniale pari in media a circa 5-10 anni), hanno negato l’assegno di divorzio al coniuge economicamente più debole poiché non era provato che avesse compiuto dei sacrifici a vantaggio dell’altro coniuge o del suo patrimonio (per esempio, perché non era provato che la sua mancanza di attività lavorativa fosse andata a vantaggio dell’altro) né che, in ragione dell’età e delle condizioni di salute, non fosse in grado di reperire un impiego o ancora che si fosse attivato a questo fine26. Nella maggior parte dei casi si trattava di coppie che non avevano avuto figli. La casistica si presenta abbastanza varia, poiché in alcuni casi il coniuge economicamente più debole era dotato di un patrimonio e/o di redditi, seppur limitati27 o comunque nettamente inferiori a quelli dell’altro coniuge28, mentre in altri casi, come in quello deciso dal Tribunale di Treviso, se ne trovava del tutto sprovvisto29. A fronte delle decisioni già citate, si riscontrano altre pronunce, le quali, con riferimento a matrimoni di durata medio-lunga, nei quali la moglie si era dedicata alla cura della casa e dei figli, mentre il marito aveva svolto attività esterna, hanno ritenuto implicita, in difetto di contestazione, la condivisione delle scelte di vita da parte dei coniugi, così riconoscendo alla moglie, in base al criterio assistenziale-compensativo, un assegno ben più alto di quello che le sarebbe spettato in applicazione del criterio dell’autosufficienza economica adottato da Cass., n. 11054/201730. Si conferma, quindi, quella correlazione tra modello familiare concretamente adottato e riconoscimento dell’assegno di divorzio in funzione perequativo-compensativa, enunciata dalle Sezioni Unite31. Claudia Benanti

26

Cfr. App. Campobasso, 26.3.2019, in b.d. Pluris; App. Campania Napoli, 10.1.2019, ivi. Cfr. App. Palermo, 25.3.2019, cit. e App. Palermo, 18.2.2019, cit. 28 Trib. Parma, 12.11.2018, in b.d. Pluris; App. Campania Napoli, 10.1.2019, cit. 29 Cfr. App. Campobasso, 26.3.2019, cit. (criticabile laddove ha ritenuto che un coniuge di 53 anni, privo di mezzi e che non aveva mai lavorato fosse comunque in condizioni di trovare un impiego) e App. Cagliari, 23.10.2018, in b.d. Pluris. 30 V., da ultimo, App. L’Aquila, 30.1.2019, in b.d. Pluris, che ha riconosciuto al coniuge, in base al criterio assistenziale-compensativo, un assegno ben più alto di quello che gli era stato riconosciuto in primo grado applicando il criterio dell’indipendenza economica; Trib. Pistoia, 17.1.2019, ivi; App. L’Aquila, 10.1.2019, ivi, che si segnala per aver ricondotto al contributo di uno dei coniugi anche i miglioramenti nella situazione professionale dell’altro verificatisi durante il periodo di separazione; Trib. Parma, 27.11.2018, ivi; Trib. Nuoro, 23.8.2018, ivi, con riferimento ad un caso nel quale però era stato provato il contributo dato dal coniuge economicamente più debole all’acquisto della casa familiare. 31 Cass., sez. un., n. 18287/2018, cit. Questa parte della decisione è criticata da M. Fortino, L’assegno di divorzio come strumento per realizzare ex post il principio di uguaglianza tra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1704 ss., spec. 1712 s., in quanto la funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio presuppone un modello di matrimonio, ormai superato, fondato sulla disparità di ruoli in base al genere. Si tratta, però, di un modello familiare che, anche se in via di superamento, è tuttora esistente. 27

635



Giurisprudenza Cass. civ., sez. VI, ord., 15 giugno 2018, n. 15919; D’Ascola Presidente – Criscuolo Relatore Transazione – Azione di riduzione – Azione di simulazione – Rinunzia – Divieto di patti successori – Patto successorio rinunziativo – Nullità È nulla, per contrasto con il divieto di cui agli artt. 458 e 557 c.c., la transazione conclusa da uno dei futuri eredi, allorquando, ancora in vita il de cuius, la concessione consti di una rinunzia a diritti successori futuri, vantati proprio sulla successione non ancora apertasi, anche quale legittimario, ivi incluso il diritto a far accertare la natura simulata degli atti di alienazione posti in essere dall’ereditando, poiché idonei a dissimulare una donazione, e il diritto all’azione di riduzione.

mente la G. con atto del 31 gennaio 2003 aveva

(Omissis) Svolgimento

del processo

– Motivi

della deci-

alienato la propria quota successoria al figlio V.

L.M.A. conveniva dinanzi al Tribunale di

Nel 2004 L.M.A. aveva intrapreso un giudizio

Brescia il fratello L.V. al fine di accertare la na-

di scioglimento della comunione, ma che nel cor-

tura simulata, in quanto dissimulante una dona-

so del medesimo, le parti concludevano in data

zione immobiliare, dell’atto di cessione di quota

30 gennaio 2008 una transazione per l’effetto del-

intercorso tra il convenuto e la madre in data 31

la quale l’attrice otteneva una somma di denaro

gennaio 2003, con la conseguente lesione della

ed il riconoscimento della proprietà esclusiva di

propria quota di riserva, in relazione alla succes-

alcuni immobili.

sione.

sione materna.

Ad avviso dei giudici di appello l’affermazio-

Per l’effetto previa riduzione della donazione,

ne nella transazione circa la proprietà comune

fino all’ammontare della quota di legittima pari

dei beni tra i due germani, nella consapevolezza

ad 1/3, chiedeva altresì poi procedersi allo scio-

della già intervenuta cessione di quote da parte

glimento della comunione.

della madre, unitamente alla dichiarazione conte-

Si costituiva il convenuto che si opponeva al-

nuta nell’atto, con la quale si manifestava l’inten-

la domanda ed evidenziava che in un separato

to di rinunciare ad ogni diritto o azione per qual-

giudizio aveva chiesto la condanna dell’attrice al

siasi titolo o causa anche indirettamente collegata

rimborso pro quota delle spese funerarie soste-

con i rapporti dedotti in giudizio, consentivano

nute in relazione al decesso della comune geni-

di affermare che vi era stata anche una rinunzia

trice.

all’azione di riduzione.

Disposta la riunione delle cause, il Tribunale

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto

con la sentenza n. 3099 del 4 ottobre 2013, ri-

ricorso L.M.A. sulla base di tre motivi.

gettava la domanda attorea ed accoglieva quella

L.V. ha resistito con controricorso.

separatamente proposta dal convenuto. A seguito di gravame interposto dalla L.M.A, la Corte d’Appello di Brescia confermava la decisione impugnata.

Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 458 e 557 c.c. Si evidenzia che i giudici di merito, nel rav-

Osservava che a seguito del decesso di L.M.,

visare una volontà di rinunciare anche ai diritti

avvenuto nell’ottobre del 1975, i germani L. e la

vantati dalla ricorrente quale legittimaria rispetto

madre G.G. erano divenuti ognuno titolare di una

alla successione materna, non hanno colto il dato

quota di 1/3 dell’asse ereditario e che successiva-

fondamentale, costituito dal fatto che la transa-

637


Giurisprudenza

zione è stata conclusa in data 30/1/2008, e cioè

za di questa Corte ha affermato che (Cass. n.

ben prima del decesso della genitrice, verificatosi

1913/1962) l’art. 557 c.c., comma 2, vieta la ri-

solo in data 15/9/2008.

nuncia da parte del coerede al diritto a che la

Ne consegue che la rinuncia a diritti di natura

donazione effettuata dal de cuius all’altro coe-

successoria è quindi avvenuta in epoca anteriore

rede sia sottoposta alla riunione fittizia ed alla

all’apertura della successione, così che l’accordo,

eventuale successiva riduzione in caso di lesione

anche a volerne ravvisare la natura abdicativa, è

di legittima, finché viva il donante. Peraltro, tale

stato raggiunto in evidente violazione delle pre-

rinuncia è convenzionalmente possibile dopo la

visioni di cui agli artt. 458 e 557 c.c.

morte del donante medesimo, giacché i coeredi

Il motivo è evidentemente fondato.

possono concordemente, in sede di sistemazione

Va osservato che la lite che le parti han-

dei rapporti derivanti dalla successione e di ter-

no inteso definire con l’accordo transattivo del

minazione delle varie quote legittime e disponi-

30/01/2008 era quella derivante dall’apertura del-

bili, sottrarre una donazione alla riunione fittizia

la successione paterna, la quale era stata influen-

ed alle sue conseguenze, alla stessa guisa che il

zata, quanto all’individuazione delle quote vanta-

legittimario, dopo la morte del donante, ben può

te dagli originari condividenti, dalla cessione di

rinunciare a chiedere giudizialmente la riunione

quota effettuata dalla madre in favore del figlio V.

fittizia e la riduzione delle donazioni (conf. Cass.

È poi pacifico che alla data della transazione

n. 2327/1963, secondo cui la dichiarazione del

la genitrice era ancora in vita, sicché, alla luce dei

legittimario, fatta in vita del donante, di essere

pacifici principi in materia successoria, in base ai

stato soddisfatto della sua quota di riserva, sia

quali la sussistenza dei diritti del legittimario può

che la si consideri come disposizione di diritti

essere determinata solo al momento dell’apertura

a successione non ancora aperta o rinuncia ai

della successione, coincidendo tale evento anche

medesimi, sia che la si configuri come rinuncia

con quello a partire dal quale è dato far valere

preventiva all’esperimento delle azioni di ridu-

le pretese alla quota di riserva, la ricorrente non

zione della donazione e delle disposizioni lesive

aveva alcuna legittimazione a denunziare la pre-

della porzione di legittima, impinge nel divieto

tesa natura liberale dell’atto di cessione di quote,

posto rispettivamente dagli artt. 458 e 557 c.c.,

il quale, in relazione al contenzioso all’epoca in

in quanto la determinazione del valore dei beni

atto, rivestiva indubbiamente natura vincolante.

ereditari e di quelli di cui sia stato disposto a ti-

La dichiarazione abdicativa contenuta nella

tolo di donazione, ai fini dell’accertamento della

transazione non può quindi che riferirsi alla con-

quota spettante al legittimario e della entità della

troversia scaturente dalla successione paterna,

eventuale lesione, va riferita in ogni caso al tem-

mentre ove si intenda che la stessa si estenda an-

po dell’apertura della successione).

che alle pretese vantate dalla attrice relativamen-

Tali principi sono stati poi ribaditi anche in

te alla successione materna, ed in particolare,

tempi più recenti da Cass. n. 24450/2009 che ha

così come opinato dai giudici di merito, ai diritti

appunto ravvisato un patto successorio, e non

vantati quale erede necessaria sulla successione

una transazione, nella scrittura privata con la

della G., che era ancora in vita alla data della

quale una sorella aveva consentito al trasferimen-

transazione, l’accordo non può che incorrere nel-

to in favore dei fratelli della proprietà di immo-

la nullità di cui al combinato disposto degli artt.

bili appartenenti al padre, a fronte dell’impegno,

458 e 557 c.c.

assunto dai medesimi, di versarle una somma di

In

638

tal

senso

la

costante

giurispruden-

denaro, da considerare, in relazione allo specifi-


Marco Ramuschi

co contesto, come una tacitazione dei suoi diritti

cui agli artt. 458 e 557 c.c., la transazione conclu-

di erede legittimario.

sa da uno dei futuri eredi, allorquando è ancora

Né appare possibile sostenere, come dedotto

in vita il de cuius, con la quale si rinunci ai di-

dal controricorrente nella memoria, che con la

ritti vantati, anche quale legittimario, sulla futura

transazione de qua si sarebbe inteso rinunciare

successione, ivi incluso il diritto a far accertare la

solo all’accertamento della simulazione, occor-

natura simulata degli atti di alienazione posti in

rendo a tal fine rilevare che, in relazione ad atti

essere dall’ereditando, in quanto idonei a dissi-

posti in essere dalla madre, la ricorrente ha ac-

mulare in realtà una donazione.

quistato il diritto ed il concreto interesse all’accertamento della loro natura simulata solo per effetto della morte della genitrice, ed in evidente funzione strumentale all’esercizio dell’azione di riduzione, la cui insorgenza del pari si colloca dopo la morte della genitrice, essendo del tutto carente di legittimazione a far valere la simulazione degli atti dispositivi, fin quando la madre sia rimasta in vita, il che esclude anche che potesse disporre allora di un diritto che ancora non le competeva. Ne consegue che, attesa la pacifica esistenza in vita della madre al momento della transazione, la consapevolezza da parte della ricorrente dell’intervenuta cessione non appare in alcun modo idonea a giustificare la validità di una ri-

Alla luce di tale principio il giudice del rinvio dovrà quindi valutare la portata dell’accordo transattivo del 30/1/2008, e quindi procedere alla disamina della domanda di riduzione proposta dall’attrice. L’accoglimento del primo motivo determina peraltro l’assorbimento degli altri due motivi che a vario titolo censurano la medesima affermazione dei giudici di appello in punto di validità della rinunzia ai diritti alla quota di riserva, evidenziando, sebbene sulla base della ormai abrogata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non applicabile alla fattispecie ratione temporis, che i giudici di merito avrebbero reso sul punto una motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria.

nuncia ad un diritto, quale quello al recupero

Il giudice del rinvio che si designa in altra

della propria quota di riserva sulla successione

sezione della Corte d’Appello di Brescia, prov-

materna, al momento ancora non esistente, e la

vederà anche sulle spese del presente giudizio.

cui disposizione è appunto vietata dalle norme

P.Q.M.

richiamate nella rubrica del motivo in esame.

Accoglie il primo motivo di ricorso, ed assor-

Il motivo deve quindi essere accolto e la sen-

biti i restanti, cassa la sentenza impugnata con

tenza impugnata deve essere cassata, dovendo il

rinvio anche per le spese del presente giudizio, a

giudice del rinvio attenersi al seguente principio

diversa Sezione della Corte d’Appello di Brescia.

di diritto: è nulla per contrasto con il divieto di

(Omissis).

639


Giurisprudenza

Contratto di transazione e patto successorio rinunziativo* Sommario: 1. Il caso. – 2. Il sillogismo giuridico formulato dalla Suprema Corte e i relativi corollari. – 3. Principio di conservazione del negozio giuridico, parte essenziale e sinallagma genetico: nullità totale, nullità parziale o conversione del contratto?

The Court, with its judgment, rightly declares that the waiver to successor rights, included as an obligation in a broader convention, such a transaction contract, cause the invalidity of the contract, due to the prohibition of the inheritance agreement prescribed by the article 458 civil Code. In this case, by virtue of the general conservation principle of the legal transaction, and especially because of the inheritance agreement is included in a broader convention, we have tried to reach the possible residual effect of the transaction contract, considering, in particular, the genetic bilaterality of that type of contract, its material part, its cause and the direction of the legal system.

1. Il caso. La Corte di Cassazione, per il tramite della vicenda che si va descrivendo, ha avuto modo di pronunziarsi su una questione giuridica che oramai, da lungo tempo, si palesa come risolta in un unico senso dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, mediante l’applicazione concreta delle limpide disposizioni normative sul punto (specificamente, gli artt. 458 e 577 c.c.), non lascia all’interprete dubbio alcuno circa la soluzione di casi analoghi. Il quid decisum, nonostante origini da un caso che di primo acchito non pare generare nessuna riserva circa la propria esegesi, ha determinato, nel Tribunale di Brescia prima, e nella Corte d’Appello poi, una palese svista denotante una soluzione che, come statuito dalla Cassazione, non può essere accolta. In particolare, Tizia, convenendo in giudizio dinanzi al Tribunale di Brescia il proprio fratello Caio, esperì, anzitutto, azione di accertamento circa la natura simulata1 dell’aliena-

* 1

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. La ricorrente Tizia, difatti, ritenne che la cessione di quota (rectius: del diritto), tra la propria madre Sempronia ed il proprio fratello Caio, integrasse un’alienazione dissimulante una donazione immobiliare. Sul punto, v. almeno: C. Giannattasio, Delle successioni. Divisione - Donazione, in Comm. cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro II, t. III, Torino, 1964, 341 s.; F. Messineo, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, vol. XXI, t. 2, Milano, 1972, 435 ss.; V. Barba, Azione di simulazione proposta dai legittimari, in Fam. pers. succ., 2010, 6, 435 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, Milano, 2015, V ed., 229 ss. Più in generale, v., di recente, R. Lenzi, La simulazione. Artt. 1414-1417, in Cod. Civ. Comm., fondato è già diretto da P. Schlesinger,

640


Marco Ramuschi

zione della quota (rectius: del diritto2) – derivante da una comunione ereditaria – effettuata in data 31 gennaio 2003, dalla madre Sempronia (dipartita in data 15 settembre 2008) in favore del fratello Caio, e, conseguentemente, azione di riduzione della predetta liberalità lesiva della propria quota di riserva. Il Tribunale, tuttavia, rigettò il ricorso. All’esito di ciò, la parte attrice, per gli stessi motivi testé accennati, provvide a proporre ricorso in Corte d’Appello, la quale, nel confermare la pronunzia del Tribunale di Brescia, fondò la propria decisione sull’accertata esistenza di un accordo transattivo3 – che ineriva però alla sola successione paterna4 – posto in essere tra le parti in data 30 gennaio 2008, accordo che prevedeva reciproche concessioni tra Tizia ed il fratello Caio: più precisamente, a fronte della rinunzia5 di Tizia ad «ogni diritto o azione per qualsiasi titolo o causa

2

3

4 5

continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2017, nonché A. Cataudella, I contratti. Parte generale, Torino, 2019, V ed., 355-365. È, invero, del diritto stricto sensu inteso che il comunista dispone, e non già della quota, la quale rappresenta solamente la misura del godimento e della disposizione del diritto medesimo (arg. ex art. 1103, co. 1, c.c.), oltreché la parte del diritto di ciascun comunista nella futura divisione. Ci sia consentito rinviare, sul punto, a M. Ramuschi, Legato di usufrutto su cosa parzialmente altrui, comunione indivisa e rilevanza della volontà testamentaria, nota a Trib. Brescia, 1 marzo 2018, n. 635, in questa Rivista, 2019, 1, 109 (nt. 76, ove riferimenti bibliografici in merito). Accordo transattivo, si badi bene, sorto, durante le more del giudizio di scioglimento della comunione ereditaria formatasi a séguito del decesso del padre, tra «i germani» Tizia e Caio, nonché la madre Sempronia. Giova porre mente, al riguardo, come la transazione sia, in una delle sue due applicazioni generali, e segnatamente com’è avvenuto nel caso de quo, un contratto mediante il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già in essere (cfr. art. 1965 c.c.). Sul punto, si veda quanto lumeggiato da F. Carresi, La natura giuridica della transazione, in Arch. giur. Serafini, 1947, 1, 142. Di contrario avviso, rispetto al Carresi, fu E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XXXVII, t. 2, Milano, 1986, II ed., 208. Si vedano, per una profusa discettazione della materia: F. Carresi, La transazione, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. IX, t. III, fasc. II, Torino, 1954; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. V, Milano, 1972, IX ed., 226-234; F. Santoro - Passarelli, La transazione, Napoli, 1975, II ed.; E. del Prato, La transazione, Milano, 1992; M. Franzoni, La transazione, Padova, 2001; F. Arangio, La transazione, Torino, 2004, 61; C. Cicero, La transazione, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, I singoli contratti, vol. 9, Torino, 2014. Adde: E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 813 ss.; A. Palazzo, voce Transazione, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XIX, Torino, 1998, 386 ss. Vedasi altresì A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, I, Delle transazioni, Torino, 1933. Per un’analisi storica, in ispecie nel diritto romano, v. M.E. Peterlongo, La transazione nel diritto romano, Milano, 1936, cui adde A. Schiavone, voce Transazione (diritto romano), in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 478-481. Così, la pronunzia in epigrafe. Sulla natura negoziale della rinunzia, v. almeno: S. Pugliatti, Istituzioni di diritto civile, III, L’attività giuridica, Milano, 1935, II ed., 82; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, s. l., ma Napoli, s. d., 136; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. XV, t. II, Torino, 1955, II rist. corretta della II ed., 299; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, Introduzione - Parte preliminare - Parte generale - Diritti delle personalità - Diritto di famiglia - Diritti reali, Torino, VI ed., 1965, 340; A. Bozzi, voce Rinunzia (Diritto pubblico e privato), in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1145; P. Perlingieri, Appunti sulla rinunzia, in Riv. not., 1968, 368; F. Macioce, voce Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 926; Id., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, t. I, Parte generale, Napoli, 1992, 92; G. Sicchiero, voce Rinuncia, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XVII, Torino, 1998, 654. Per una completa disamina sulla rinunzia ai diritti futuri, v. la profonda trattazione di C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, Milano, 2005. A modo di completezza, per quanto attiene alla funzione della rinunzia, si rinvia all’autorevole disamina di P. Perlingieri, op. cit., 345 ss., spec. 348 («L’effetto essenziale e costante che caratterizza la rinunzia è la perdita del diritto da parte del soggetto rinunziante, mentre l’estinzione dello stesso è effetto secondario, riflesso, eventuale. Rinunziare non vuol dire estinguere il diritto, anche se, normalmente, il diritto in occasione della dismissione si estingue: rinunziare vuol dire solo dismettere il diritto, escluderlo dal proprio patrimonio. La rinunzia, insomma, si caratterizza per l’effetto dismissivo della situazione giuridica soggettiva e non per l’estinzione di quest’ultima, tanto meno per l’estinzione del rapporto di cui fa parte la situazione giuridica in questione»). Per quanto concerne la natura, considerata da un mero punto di vista strutturale, di tale negozio giuridico, a nostro avviso esso è – come generale principio – da ritenersi un negozio giuridico unilaterale. L’atto di rinunzia, difatti, regola gli interessi di una sola parte; solo mediatamente e, per così dire, di riflesso può dar vita ad altri diritti o posizioni giuridiche soggettive nei confronti di altri soggetti, i quali, dunque, sono da considerarsi come soggetti terzi rispetto alla vicenda rinunziata. Sull’unilateralità del negozio di rinunzia, v. anche: F. Atzeri (Vacca), Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1910, 36; S. Pugliatti, op. cit., 182; L. Cariota Ferrara, Il negozio

641


Giurisprudenza

anche indirettamente collegata con i rapporti dedotti in giudizio [il quale, si ripete, ineriva

giuridico nel diritto privato italiano, cit., 137-144; L. Ferri, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960, 2; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 341; A. Bozzi, op. cit., 1146; P. Perlingieri, op. cit., 342 ss. (passim), spec. 367 s.; F. Macioce, voce Rinuncia (dir. priv.), cit., 934; Id., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, cit., 157; G. Sicchiero, op. cit., 654. Adde E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 301 (nt. 11) e, più in generale, 310 ss. Seppur en passant, v. altresì – anche per una differenza tra le finalità della transazione e quelle della rinunzia – G. Sciancalepore, Della transazione. Artt. 1965-1976, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2018, 56, cui adde E. del Prato, La transazione, cit., 9 e 10. Giova ora sottolineare, nonostante l’asserita unilateralità dell’atto di rinunzia, che allorquando l’attività rinunziativa sia posta in essere attraverso un negozio giuridico bilaterale, vale a dire inserita in un contratto (come nel nostro caso), allora tale rinunzia, individuabile in una delle prestazioni del contratto, assume un connotato “bilaterale”, poiché essa trova senz’altro la propria ragion d’essere nel sinallagma che funge da trait d’union tra i paciscenti (cfr. anche L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 145 e 146; G. Sicchiero, op. cit., 654). Contra P. Perlingieri, op. cit., 364, il quale, a modo di esempio, richiama proprio il contratto di transazione: «la rinunzia inserita in un contratto di transazione, o comunque in un contratto corrispettivo, non è più una dichiarazione meramente dismissiva e, quindi, non è rinunzia; solo formalmente sembra un negozio, in realtà non ha uno scopo pratico autonomo, una causa (dismissiva) che la individui e caratterizzi; essa assume un significato nello scambio reciproco, nel contratto di cui non è parte autonoma ed indipendente […]. Rinunzia e transazione, in tale ipotesi, non sono negozi distinti, ma ciascuno è uno degli aspetti in cui si sostanzia la transazione medesima». L’A. (ivi, 366) conclude: «L’affermazione che l’effetto cd. rinunziativo possa far parte di un negozio bilaterale non deve spingere a ritenere che la rinunzia possa essere bilaterale e corrispettiva perché l’effetto cd. rinunziativo, che si ha nel contratto, non è tale, ma è strumentalmente e funzionalmente rivolto verso la produzione di un altro effetto, e quindi non è fine a se stesso»; F. Macioce, voce Rinuncia (dir. priv.), cit., 935, il quale anch’esso esclude la natura bilaterale della rinunzia allorquando essa trovi collocazione in seno ad un contratto: «[…] l’esame teleologico del contratto in cui è inserita la rinuncia e comunque la previsione di un corrispettivo [o, come nel nostro caso, di una controprestazione differente da un mero corrispettivo], inducono ad escludere che si sia in presenza di una rinuncia, giacché questa non si presenta con un’autonoma causa dismissiva, ma trova la sua giustificazione nel contratto, ove perde rilievo autonomo per fondersi in un diverso negozio avente una sua propria funzione». Lo stesso A. (ivi, 935 s.), come il Perlingieri, prefigurò l’inclusione di una rinunzia entro il perimetro di un accordo transattivo, affermando come in siffatto caso l’attività rinunziativa non abbia rilievo autonomo, ma si presenti «come componente di una più complessa volontà diretta non allo scopo limitato di dismettere il diritto, ma all’altro, ben più ampio, diretto […] a transigere […]»; Id., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, cit., 159 ss, spec. 164 s., ove l’A., prospettando la possibilità d’inserire una rinunzia in seno ad un contratto di transazione, afferma come in tal caso non vi sia «vera e propria rinuncia». Interessante, inoltre, è quanto formulato da V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, 133 (ma v. anche 136), il quale, movendo dalla natura abdicativa degli atti successori rinunziativi, e profilandone la necessaria struttura unilaterale avente carattere gratuito e con effetto dismissivo, giunge (ivi, 134, nt. 260) ad affermare come il connotato unilaterale della rinunzia, in genere, ne escluda dal proprio àmbito tutti quegli atti che pur essendo ad essa consimili, o «avendone impropriamente il nomen», sono comunque atti diversi. Da ciò, l’A. arguisce come siano da «tagliar fuori quegli atti che, stipulativamente», sono «false rinunzie», ovverosia «quelle apparenti rinunzie che, per ragioni strutturali o effettuali, debbono considerarsi prive del carattere schiettamente unilaterale. Per ragioni strutturali, perché non sono unilaterali e uni-soggettive. Per ragioni effettuali, perché, prevedendo un corrispettivo, per definizione, non possono essere unilaterali, reclamando un carattere almeno bilaterale». L’A. dunque, in definitiva, afferma (movendo da un’ipotesi consimile alla nostra, vale a dire una rinunzia inserita in un negozio più complesso) come l’unilateralità consenta, per di più, «di risolvere il problema della rinunzie sì unilaterali e uni-soggettive, le quali, però, s’inseriscano in un più ampio e complesso programma negoziale, rispetto al quale le medesime costituiscono soltanto un frammento o la mera attuazione di una più complessa operazione economica». Adde M. Calogero, Disposizioni generali sulle successioni. Artt. 456-461, in Cod. civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 163 (nt. 153). Nonostante queste ultime teorie siano senz’altro pregne d’interessanti spunti e ragionamenti giuridici, noi non intendiamo avvalorarle pienamente, poiché, allorquando la rinunzia venga inserita in un contratto bilaterale, è sì vero ch’essa abbia sicuramente una “causa” diversa, come ben ha osservato il Perlingieri, ma, ciò nondimeno, a nostro parere rimane comunque una “rinunzia vera e propria”, dacché, traslando l’angolo visuale non sulla causa, ma sugli effetti – che sono quelli che, in definitiva, trovano rispondenza nella realtà giuridica –, essa, pur perdendo, se così vogliamo dire, la sua natura unilaterale, mantiene tuttavia il suo tipico effetto dismissivo (cfr. L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 272 s. (ma v. anche 136 s.): «la rinunzia […] produce la dismissione pura e semplice, e quindi l’estinzione del diritto soggettivo» (qui, come ben ha osservato il Perlingieri, a cui si rinvia – v. poco sopra, sempre in questa nota –, riteniamo però di dissentire ove l’A. discorre di «estinzione»); G. Sicchiero, op. cit., 654; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2012, IX ed., rist., 218). Rinunzia, beninteso, che nella fattispecie ha valore contrattuale. Cfr. G. Capozzi, Successioni e donazioni, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, t. I, Milano, 2015, IV ed., 42, per il quale (ivi, 556), altresì, una rinunzia di tal fatta non potrebbe dirsi attuale, «potendo, prima della morte del de cuius, il legittimario vantare solo un’aspettativa di fatto non tutelata». In questi ultimi termini, v. anche G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2016, VIII ed., 195.

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la successione paterna]», e quindi, ad avviso della Corte d’Appello6, anche all’azione di riduzione, Caio le corrispondeva una certa somma di danaro e provvedeva a riconoscerle, sempre in suo favore, la proprietà esclusiva di taluni immobili. Successivamente, Tizia, adducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 458 e 577 c.c., propose ricorso per Cassazione.

2. Il sillogismo giuridico formulato dalla Suprema Corte e i relativi corollari.

L’oggetto della pronunzia in commento, come già s’è avuto modo d’indicare, consente al Giudice di legittimità di consolidare, sempre più, un principio oramai ampiamente affermato, sia in dottrina sia in giurisprudenza, in materia di patti successori7. Difatti, lo svolgimento della fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte permette, così come interpretato dai giudici del merito, di applicare il principio che affiora dal noto combinato disposto tra gli artt. 458 e 557 c.c.8. In particolare, essendo poco terso il motivo per cui nei due gradi di giudizio di merito

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Si potrebbe dunque affermare come la Corte d’Appello abbia individuato, nell’accordo transattivo, una così detta transazione mista (o complessa, che dir si voglia), prevista dall’art. 1965, co. 2, c.c. Cfr. anche: F. Carresi, Concetto e natura giuridica della transazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 410, 411 e 417; Id., voce Transazione (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 495; M. Segni, Natura della transazione e disciplina dell’errore e della risoluzione, in Riv. dir. civ., 1982, 1, 273-275; E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 220; E. del Prato, La transazione, cit., 30 s.; C. Cicero, voce Transazione, in Dig. Dis. Priv., Sez. Civ., Agg. *******, Torino, 2012, 1059; L. Ruggeri, La transazione, in L. Ruggeri - E. Minervini, Contratti transattivi e negozi di accertamento, in Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2016, 18; G. Sciancalepore, op. cit., 48 s. Per una particolare lettura, v. Fr. Vassalli, Composizione della lite e tutela dei creditori, I, La transazione, Milano, 1980, 138 s., 156 e 157. Dissente, patentemente, dalla nozione di “transazione mista”, G. Gitti, L’oggetto della transazione, Milano, 1999, 170 ss. Per amor di completezza, e per una visione storica sul concetto di “patto”, v. almeno G. Melillo, voce Patto (storia), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 479 ss. Per uno studio del patto successorio rinunziativo ai tempi del diritto romano, v., esemplarmente, G. Vismara, Storia dei patti successori, Milano, 1986, 146 ss., cui adde, seppur in termini più concisi, M. d’Amelio, Dell’apertura della successione, della delazione e dell’acquisto dell’eredità, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. D’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 31 s. A guisa di completezza, per un’eventuale revisione dell’istituto dei patti successori (e, sopra tutto, per il patto successorio rinunziativo), v.: R. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Riv. not., 1988, 6, 1209 ss.; A. Palazzo, Declino del divieto dei patti successori, alternative testamentarie e centralità del testamento, in Jus, 1997, 3, 289 ss.; C. Caccavale - F. Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv. dir. priv., 1997, 1, 92 ss.; M.A. Iannicelli, Il divieto dei patti successori: prospettive di revisione legislativa, in Fam. pers. succ., 2008, 4, 361 ss.; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 146 ss.; G. Bonilini, Attualità del «divieto di patti successorî»?, in Dir. succ. e fam., 2015, 2, 343 ss., spec. 353 (ma, sopra tutto, 359, ove ficcanti conclusioni); M. Ieva, Appunti per un’ipotesi di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not., 2018, 1, 1 ss., spec. 4 s. Cfr. pure: A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, 184; F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. D’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 317; A. Cicu, Le successioni. Parte generale - Successione legittima e dei legittimari - Testamento, Milano, 1947, 273; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, in Comm. cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro II, t. I, Torino, 1959, 329 s.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, Milano, 1962, IX ed., 354.

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non si sia tenuto conto, ora della lite a cui si riferiva l’accordo transattivo tra Tizia e Caio, ora della data di conclusione della transazione, ora dell’apertura della successione della madre Sempronia, è evidente che il ragionamento giuridico della Suprema Corte non possa che avallarsi9. Come ha avuto modo di evidenziare la Cassazione10, la lite11, a cui le parti, mediante l’accordo transattivo del 30 gennaio 2008, hanno inteso porre fine, ineriva solamente alla successione del loro padre, e non già a quella della madre Sempronia, la quale, all’epoca, si ripete, era ancora in vita. La Corte d’Appello, pertanto, erra nel momento in cui, a sostegno della propria decisione, adduce come la «concessione» contenuta nell’accordo transattivo12, rappresentata dalla rinunzia13 ad ogni diritto successorio, e quindi anche all’azione di riduzione, sia da riferirsi, altresì, alla successione della madre Sempronia14. Invero, dal momento ch’ella era ancora in vita quando venne concluso il contratto di transazione, seguendo un’interpretazione di tal fatta non può revocarsi in dubbio la violazione sia dell’art. 458 c.c., essendo vietata, al soggetto, la rinunzia a qualsiasi diritto che possa spettargli su una successione non ancora apertasi15, sia dell’art. 557, co. 2, c.c., là dove esso prevede come la rinunzia all’azione di riduzione, delle donazioni lesive della propria quota di legittima, non possa porsi in essere, né espressamente con dichiarazione, né implicitamente mediante assenso alla donazione, fintantoché vive il donante (nella specie, appunto, Sempronia)16. Il (futu-

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D’altra parte, non tutti i diritti eventuali, quali sono quelli oggetto della rinunzia posta in essere da Tizia nell’accordo transattivo, possono essere oggetto del contratto; devono essere esclusi da tale facoltà tutti quei diritti rispetto ai quali la legge, espressamente, ne vieta la rinunzia anticipata, com’è a dirsi, giustappunto, nel nostro caso. Cfr. F. Atzeri (Vacca), op. cit., 321, il quale, proprio a sostegno di quanto or ora esposto, addusse l’art. 1118 del Codice civile del 1865, “rispecchiante” il nostro art. 458 c.c. 10 La quale, a ragione, scrive: «La dichiarazione abdicativa contenuta nella transazione non può […] che riferirsi alla controversia scaturente dalla successione paterna, mentre ove si intenda che la stessa si estenda anche alle pretese vantate dalla attrice relativamente alla successione materna, ed in particolare, così come opinato dai giudici di merito, ai diritti vantati quale erede necessaria sulla successione della G. [madre], che era ancora in vita alla data della transazione, l’accordo non può che incorrere nella nullità di cui al combinato disposto degli artt. 458 e 557 c.c.». 11 La lite «che può sorgere» (o, aggiungiamo, che è già sórta) rappresenta, giusta l’art. 1965, co. 1, c.c., il «presupposto minimo della transazione»: così, E. del Prato, La transazione, cit., 11. V. anche F. Carnelutti, Sulla causa della transazione, nota a App. Venezia, 28 maggio 1914, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obb., 1914, XII, 576. In giurisprudenza v. almeno, più di recente, Trib. Roma, 19 ottobre 2017, n. 19708, in Banca dati DeJure. 12 In tal caso, dunque, la rinunzia è inserita in un negozio bilaterale. Cfr. anche F. Macioce, voce Rinuncia (dir. priv.), cit., 934. 13 Rinunzia, dunque, che in siffatto caso ha rappresentato, oltreché la “concessione” di una parte, anche il “corrispettivo” del contratto (cfr. S. Piras, La rinunzia nel diritto privato, Napoli, 1940, 135). 14 Nella fattispecie in commento s’è posta in essere una “rinunzia contrattuale”, il cui effetto di dismettere un diritto facente parte del proprio patrimonio (si badi bene: non è questo, ripetiamo, il nostro caso) potrà realizzarsi solamente là dove si addivenga ad un accordo con l’altro paciscente. Per il caso di un contratto di transazione, ove una concessione di una parte consti di una mera rinunzia, affinché essa possa sortire il proprio effetto dismissivo è necessario che l’altra parte, a sua volta, ponga in essere una concessione (v. F. Atzeri (Vacca), op. cit., 36 s.). Questo, a nostro parere, consente di avvalorare quanto affermato supra, in nt. 5, vale a dire la differenza tra l’atto di rinunzia stricto sensu inteso, il quale realizza la sua funzione mediante la semplice, unilaterale, volontà del rinunziante, e la rinunzia contenuta in un contratto, il quale realizza la sua funzione solamente con l’accordo di entrambi i paciscenti. Cfr., nuovamente, Id., op. cit., 36. 15 M.V. De Giorgi, voce Patto successorio, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 545; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 133, che tersamente definisce gli atti successori rinunziativi come quegli «atti con i quali taluno rinunzia ai diritti che gli possono spettare su una successione non ancóra aperta». 16 A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni,

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ro) legittimario Tizia, per vero, sarebbe divenuta titolare dei diritti successori e del diritto all’azione di riduzione solamente al momento di apertura della successione (ovverosia alla morte di Sempronia), e non già anteriormente alla stessa17. In altri termini, se è vero che la rinunzia rappresenta un atto di esercizio di un diritto, è altrettanto vero che solo i diritti attualmente presenti nel proprio patrimonio possono es-

cit., 184; W. d’Avanzo, Delle successioni, tomo II, (Parte speciale), Firenze, 1941, 498; F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, cit., 317; A. Cicu, op. cit., 273; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, I, Parte generale, t. III, Napoli, 1961, 46-48; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 329; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 352; F.S. Azzariti - G. Martinez - G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1963, IV ed., 236; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, Obbligazioni e contratti. Successioni per causa di morte, Torino, 1965, VI ed., 1030; V.R. Casulli, voce Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1059; L. Ferri, Successioni in generale. Art. 456-511, in Comm. cod. civ., a cura di V. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, rist. I ed., 1972, 87; A. Burdese, in G. Grosso - A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. XII, t. I, Torino, 1977, 99; L. Ferri, Dei legittimari. Art. 536-564, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1981, II ed., 213; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, Padova, 1982, 294; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XLIII, t. 2, Milano, 1984, II ed., 339; C. Caccavale, Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. I, Padova, 1994, 32; Id., Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 57; V.E. Cantelmo, L’attuazione della tutela, in AA.VV., Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. I, Padova, 1994, 539 s.; Id., L’attuazione della tutela, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 604; G. Azzariti, Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi, in Giur. sist. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1994, III ed. aggiornata anche da A. Iannacone, 289; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 5, Successioni, t. I, Torino, 1997, II ed., 460; C. Caccavale - F. Tassinari, op. cit., 87; V. Carbone, voce Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XVII, Torino, 1998, 619; A. Palazzo, Le successioni, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, t. I, Milano, 2000, II ed., 572; C. Cecere, voce Patto successorio, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., Agg. **, t. II, Torino, 2003, 1003; M. Calogero, op. cit., 162; M. Ieva, La successione necessaria, in AA.VV., Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. II, Successioni, donazioni, beni, I, Le successioni e le donazioni, Milano, 2009, 79; L. Balestra - M. Martino, Il divieto dei patti successorî, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 133; G. Marinaro, La successione necessaria, in Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del Notariato, VIII, 3, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2009, 288 s.; A. Bucelli, Dei legittimari. Artt. 536-564, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2012, 585-588; A. Tullio, La successione necessaria, in Nuova giur. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, diretta da G. Alpa - G. Bonilini - U. Breccia - O. Cagnasso - F. Carinci - M. Confortini - G. Cottino - A. Jannarelli - M. Sesta, Torino, 2012, 328; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 134-140, ove interessanti considerazioni; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 212; G. Capozzi, op. cit., t. I, 43 e 556, il quale, nondimeno, rileva come l’art. 557, co. 2, c.c., sia superfluo, dacché «il divieto era già compreso nell’art. 458» c.c.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 195 e 204. V. pure L. Coviello, Successione legittima e testamentaria, Milano, 1937, 365. 17 Sul punto, assorbenti sono le acute osservazioni di L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, I, Parte generale, t. III, cit., 46 s., le quali non possono mancare di essere ricordate: «La rinuncia ha per oggetto “diritti che possono spettare (al rinunciante) su di una successione non ancora aperta” così statuisce la legge (art. 458 c.c.); ma la verità è che, nel momento in cui si compie la rinuncia, il rinunciante non ha ancora alcun diritto sui beni, sibbene quella particolare aspettativa che si configura in vista di successione futura o una semplice aspettativa. La rinuncia ha, quindi, per oggetto diritti futuri […] come tali considerati, cioè destinati in seguito a nascere e ad entrare nel patrimonio del rinunciante: frattanto, essi, non solo non appartengono al rinunciante, ma non esistono neppure nel mondo giuridico […]», giacché, ancora, non s’è aperta la successione; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 352. Adde C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 212, che, giustamente, afferma come l’azione di riduzione sia rinunziabile (solamente) dopo l’apertura della successione, poiché è in questo momento che è rinunziabile il diritto alla legittima.

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sere rinunziati18, dacché, diversamente, tale rinunzia integrerebbe l’esercizio di un diritto19 di cui il disponente non ne è ancora titolare20. Nel caso di specie, dunque, Tizia avrebbe rinunziato a diritti che, di necessità, erano diritti futuri21, i quali, pertanto, non erano ancora presenti, al momento dell’accordo transattivo, nel proprio patrimonio22. Alfine, dunque, ove si avallasse l’interpretazione posta in essere dalla Corte d’Appello, verrebbe senz’altro integrato un patto successorio rinunziativo23 – si può dire, nel caso della rinunzia all’azio-

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Al riguardo, v. A. Bozzi, op. cit., 1142, il quale ebbe a ritenere che il «Concepire la rinunzia a diritti futuri come rinunzia anticipata, come rinunzia ora per allora, per il momento in cui il diritto sarà entrato nel patrimonio dell’agente, non sembra possibile, poiché il soggetto ha o acquista la legittimazione alla rinunzia di un diritto solo se ne è titolare o dal momento in cui lo acquista». Ci permettiamo sommessamente di dissentire con quanto ebbe a scrivere A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 253, secondo il quale, nella transazione, possono finanche essere dedotti diritti futuri. Adde, più in generale, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 342. 19 Un diritto è tale nel momento in cui viene ad esistenza, vale a dire allorché esso si connoti del requisito dell’attualità. Nel nostro caso, a noi pare, ci si trova dinanzi ad una rinunzia riguardante una mera aspettativa, e come tale, dunque, non rinunziabile, poiché fattispecie incompleta, che attende la venuta ad esistenza di un ulteriore elemento costitutivo: v. S. Piras, op. cit., 107 e 109 (nt. 81). 20 A. Bozzi, op. cit., 1141 e 1142; F. Macioce, voce Rinuncia (dir. priv.), cit., 941 (ma anche 943, ove discorre di «titolarità della situazione rinunciata»), il quale, cogliendo il vero, fu ad affermare come la ragione principale del divieto di rinunzia a diritti futuri stia «nell’impossibilità del prodursi dell’effetto abdicativo con riferimento ad un diritto non esistente nel patrimonio del soggetto al momento della rinuncia [com’è a dirsi nel nostro caso] ovvero esistente ma in un patrimonio altrui; il prodursi di tale effetto dovrebbe essere impedito dalla carenza dei presupposti indispensabili per il compimento dell’atto […]», tra cui l’A., giustamente, indica la «disponibilità del diritto»; Id., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, cit., 188 e 190 (qui, però, l’A. pare virare opinione rispetto a quanto sostenuto in precedenza); G. Sicchiero, op. cit., 659 (lo stesso A., invero, adduce, a sostegno dell’impossibilità della rinunzia a diritti futuri, anche gli artt. 458 e 557, co. 2, c.c.). Adde, al riguardo, anche A. Tullio, L’azione di riduzione. L’imputazione ex se, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, III, La successione legittima, Milano, 2009, 562, il quale, giustamente, sottolinea come il legittimario diventerà «titolare del diritto all’esercizio della riduzione soltanto al momento dell’apertura della successione, sicché, in epoca anteriore, non è possibile rinunziarvi»; per giunta, soggiunge l’A. (ibidem), «tale atto abdicativo integra un patto commissorio [sic!, sicuramente per un mero refuso] rinunziativo, come tale sanzionato con la nullità dal disposto dell’art. 458 cod. civ.»; Id., La successione necessaria, cit., 328. La stessa Corte, difatti, è a dire che, «attesa la pacifica esistenza in vita della madre al momento della transazione, la consapevolezza da parte della ricorrente dell’intervenuta cessione non appare in alcun modo idonea a giustificare la validità di una rinuncia ad un diritto, quale quello al recupero della propria quota di riserva sulla successione materna, al momento non ancora esistente». Ritenne invece possibile – seppur non per i diritti successori, stante il perentorio divieto che anche sotto l’egida del Codice del 1865 vigeva – una transazione su «beni futuri, e quindi anche sui diritti eventuali [cioè, anch’essi futuri]», A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 254. V. inoltre F. Atzeri (Vacca), op. cit., 40, il quale ammise la possibilità di talune «Rinunzie preventive». 21 P. Schlesinger, voce Successioni (Diritto civile): parte generale, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 753. 22 Utile, sul punto, è la conclusione a cui addivenne S. Piras, op. cit., 152 (ma v. anche – seguendo dunque il percorso logico che ha portato l’A. ad addivenire a siffatta conclusione – 147 ss.), per il quale il negozio rinunziativo ha, come proprio presupposto necessario, la titolarità, in capo al soggetto che pone in essere la rinunzia, «del lato attivo di un rapporto giuridico patrimoniale privato oppure in genere di una determinata situazione». In tema, per una lettura sistematica, v., ad esempio, gli artt. 806, 1956, co. 2, e 2937, co. 1 e co. 2, c.c. 23 E. Pacifici-Mazzoni, Il codice civile italiano commentato con la legge romana, le sentenze dei dottori e la giurisprudenza, vol. V, Trattato delle successioni, I, Torino, 1928, VI, VII e VIII ed. riveduta e corredata della nuova giurisprudenza da G. Venzi, 71 e 73; R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, vol. II, Diritti di obbligazione – Diritti di famiglia – Diritto ereditario, Messina, 1930, V ed., 795; N. Coviello, Delle successioni. Parte generale, Napoli, 1932, III ed. rifatta da L. Coviello, 75, 76 e 81; N. Stolfi, Diritto civile, vol. VI, Il diritto delle successioni, Torino, 1934, 89 e 98; G. Greco, I patti successorii di rinunzia, in Il nuovo diritto, 1939, 1, 181 (sotto l’egida del Codice Pisanelli, v. art. 1118); A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 12; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 46; M. d’Amelio, op. cit., 30; A. Cicu, op. cit., 273; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 312; R. de Ruggiero - F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, Introduzione e parte generale - Diritto delle persone - Diritti di famiglia - Diritto ereditario - Diritti reali, Milano-Messina, 1955, VIII ed., 379; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 872; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 20, 21 e 329 s.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 105; F.S. Azzariti - G. Martinez - G. Azzariti, op. cit., 10; P. Schlesinger, op. cit., 752 s.; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 98 e 99; L. Ferri, Dei legittimari, cit., 213 s.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, cit., 10; M.V. De Giorgi, op. cit., 533

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ne di riduzione, dei propri diritti di riserva24 – vietato dal nostro ordinamento, giusta l’art. 458 c.c.25. Dal che, la Suprema Corte, cassando, come anticipato, la decisione impugnata, esorta «il giudice del rinvio» a «valutare [nuovamente] la portata dell’accordo transattivo» del 30 gennaio 2008, «e quindi procedere alla disamina della domanda di riduzione proposta

e 545; C. Caccavale, Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Successioni e donazioni, cit., 32 e 39 ss.; Id., Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, cit., 26 e 35; L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni. Art. 456-511, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1997, III ed., 99 s. e 106; A. Liserre, L’apertura della successione, la delazione e l’acquisto dell’eredità, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 5, Successioni, t. I, Torino, 1997, II ed., 41; C. Caccavale - F. Tassinari, op. cit., 87 ss.; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 213; C. Cecere, op. cit., 1002-1004; C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 173 ss., spec. 176 (ma v. anche 121); Id., I soggetti legittimati alla rinunzia, in G. Bonilini - V. Barba - C. Coppola, La rinunzia all’eredità e al legato, in Nuova giur. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, diretta da G. Alpa - G. Bonilini - U. Breccia - O. Cagnasso - F. Carinci M. Confortini - G. Cottino - A. Jannarelli - M. Sesta, Torino, 2012, 86 (nt. 171); M. Calogero, op. cit., 161 ss.; G. Marinaro, op. cit., 288; S.T. Masucci, Le successioni mortis causa in generale, in AA.VV., Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. II, Successioni, donazioni, beni, I, Le successioni e le donazioni, Milano, 2009, 12; F. Pene Vidari, La successione legittima e necessaria, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, 4, Le successioni, Torino, 2009, 100; G. Vidiri, I difficili rapporti tra patti di famiglia e patti successori, in Giust. civ., 2010, 9, 1906, nota a Cass., 12 febbraio 2010, n. 3345 (anche in Foro it., 2011, 7-8, 2160) e Cass., 19 novembre 2009, n. 24450, 1905 s. (anche in Fam. pers. succ., 2010, 7, 511 con nota di M.P. Pignalosa, Sul divieto per i legittimari di rinunciare all’azione di riduzione durante la vita del donante; in Giur. it., 2010, 7, 1553, con nota di G. Rispoli, Riflessioni in tema di patti successori; in Nuova giur. civ. comm., 2010, 5, 556, con nota di A. Todeschini Premuda, Patti successori obbligatori e conversione del negozio nullo); A. Tullio, La successione necessaria, cit., 328; R. Calvo, I patti successori, in AA.VV., Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, Napoli, 2013, II ed., 67; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 13 e, per un’esemplare disamina del rapporto tra gli artt. 458 e 557, co. 2, c.c., 128 ss. (spec. 135-139); C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 32; G. Capozzi, op. cit., t. I, 42-44; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit. 22 e 24; M. Ieva, Appunti per un’ipotesi di revisione del divieto dei patti successori, cit., 2. V. anche, en passant, G. Melillo, op. cit., 491 e L. Ruggeri, op. cit., 85. Patto successorio rinunziativo che, nel caso di specie, presenta natura contrattuale (cfr.: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 105; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 99; M.V. De Giorgi, op. cit., 545: «I patti di rinuncia […] rientrano tra i negozi inter vivos aventi per oggetto beni futuri [nel nostro caso, un diritto futuro], con la particolarità che i diritti dovrebbero acquistarsi mortis causa dal disponente»; L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, cit., 107; A. Liserre, op. cit., 42; L. Balestra - M. Martino, op. cit., 133). Lo stesso art. 458 c.c. discorre di “convenzione”, la quale, com’è noto, dev’essere intesa come contratto. Al riguardo, v.: S. Pugliatti, op. cit., 188; F. Messineo, voce Convenzione (dir. priv.), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 510: «il termine “convenzione” […] è, di solito (ad esempio, art. 458 […] c.c.) adoperato come equivalente di contratto»; soggiunge, inoltre, l’A. (ivi, 510 s.), come «tale equivalenza» sia «del tutto corretta», ma, si badi bene (ivi, 511), entro l’ordinamento giuridico italiano un’equivalenza di tal fatta vale solo per quelle convenzioni aventi natura patrimoniale. Talché, per dirla ancora col Messineo (ivi, 511), «la convenzione si presenta come una sottospecie del negozio giuridico bilaterale e, per questo tramite strutturale, si apparenta e si coordina col contratto (unilaterale o bilaterale): l’una e l’altro racchiudendo un elemento volontario, che è costituito dal consenso e che, quanto al contratto, la legge italiana chiama accordo». Sulla natura contrattuale dei patti successori, v. anche: A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 12, il quale, tersamente e sinteticamente, ebbe ad osservare che «Per patti successori s’intendono i contratti conclusi sulla eredità di un vivente»; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 105; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 87; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 99 s.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, cit., 11; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 214; G. Capozzi, op. cit., t. I, 42; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 25. Sulla nullità degli atti che costituiscono esecuzione del patto successorio v., almeno, C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 34. Per sgombrare il campo da qualsivoglia ipotesi di dubbio, giova richiamare le icastiche parole di C. Caccavale - F. Tassinari, op. cit., 89: «la ratio del divieto in esame impone di sostenere che esso sia senz’altro diretto a comprendere ogni concepibile ipotesi di anticipata rinunzia ai diritti successori, indipendentemente dalla struttura negoziale con la quale la rinuncia possa realizzarsi». 24 G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 195, ad avviso del quale, «quella rinunzia determinerebbe, in sostanza, una rinunzia, in tutto o in parte, ai diritti di riserva, e comporterebbe, ove posta in essere prima dell’apertura della successione, una violazione del divieto posto dall’art. 458». In consimili termini, v. già G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, cit., 294. Sull’esperimento dell’azione di riduzione da parte di Tizia, vedasi la precisazione effettuata, infra, alla nt. 27. 25 Cfr. anche F. Arangio, op. cit., 61.

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dall’attrice [Tizia]». In ogni caso, Tizia manterrà il diritto all’azione di riduzione; difatti, sia che la Corte d’Appello persista a ritenere che la rinunzia presente nel contratto di transazione debba riferirsi anche alla successione materna (determinando, pertanto, la nullità26 del contratto di transazione27), sia ch’essa ritenga, mutando orientamento, che l’accordo transattivo debba riferirsi alla sola successione paterna (facendo salva, perciò, la transazione), in entrambi i casi il diritto all’azione di riduzione non può disconoscersi. Nel primo caso, si avrebbe palese nullità della rinunzia per violazione degli artt. 458 e 557 c.c., mentre, nel secondo caso, la rinunzia varrebbe solamente per la successione del padre, e non anche per quella della madre. In definitiva, movendo ora l’attenzione alla volta di un’ottica prettamente esegetica, ben si può affermare come nel caso di specie ci si trovi dinanzi ad una dichiarazione con la quale si rinunzia preventivamente ad ogni futura pretesa originante dalla situazione oggetto della lite28. Talché, l’attività che dovrà porre in essere il giudice del rinvio29 consterà nell’accertare30 se codesta rinunzia sia da limitarsi alla res litigiosa31, che è oggetto

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F. Messineo, Il contratto in genere, t. 2, cit., 195 e 240. F. Carresi, La transazione, cit., 198. Riteniamo doveroso effettuare una laconica specificazione: il diritto di Tizia all’azione di riduzione, si badi, deve intendersi in linea generale. Difatti, per poter effettivamente esperire codesta azione, deve, poi, sussistere la specifica condizione incastonata nell’art. 564, co. 1, c.c., ovverosia la necessaria accettazione dell’eredità col beneficio d’inventario. Eccezione a tale prescrizione, cioè a dire all’accettazione col beneficio, si ha nel caso in cui il legittimario sia pretermesso, dacché esso non potrà accettare in nessun modo – né puramente e semplicemente, né col beneficio d’inventario –, non essendovi attualità della delazione ereditaria; altra eccezione – attesa la ratio della norma testé citata, vale a dire quella di consentire, mediante la compilazione dell’inventario, ai donatari non coeredi e ai legatari d’individuare l’effettiva consistenza del patrimonio ereditario e indi capire se, effettivamente, quanto ricevuto possa essere soggetto a riduzione – sorge allorché l’azione di riduzione venga esperita nei confronti di un donatario coerede (com’è a dirsi nel caso in commento). In questi termini, con icastiche e vibranti parole, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 197. Adde A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 193. In giurisprudenza, v. almeno: Cass., 3 luglio 2013, n. 16635, in Giust. civ., 2013, 9, 1691; Cass., 29 maggio 2007, n. 12496, in Banca dati DeJure; Cass., 15 giugno 2006, n. 13804, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., 9 dicembre 1995, n. 12632, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., 1 dicembre 1993, n. 11873, in Banca dati Leggi d’Italia.” 28 E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 844. Giova qui rimarcare, a guisa di completezza, come i requisiti che l’oggetto della transazione deve possedere – quale che sia l’interpretazione che se ne dia dell’oggetto medesimo – siano tutti quelli scolpiti entro la cornice dell’art. 1346 c.c. Cfr. anche E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 310; C. Cicero, voce Transazione, cit., 1067; 29 È noto, invero, come l’accertamento della volontà delle parti, in merito al contenuto di un contratto, rappresenti l’attività tipica del giudice del merito, «il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il limite della inadeguatezza della motivazione e della violazione delle regole codicistiche di interpretazione»: così, Cass., 8 febbraio 2016, n. 2413, in Banca dati DeJure. V. inoltre, sul punto: Cass., 19 marzo 2018, n. 6675, in Banca dati DeJure; Cass., 22 ottobre 2014, n. 22343, in Corr. giur., 2015, 11, 1375, con nota di M. D’Auria, Causa in concreto, operazione economica e procedimento ermeneutico contrattuale: spunti di riflessione; Cass., 7 settembre 2005, n. 17817, in Lav. nella giur., 2006, 2, 139, con nota di P. Dui, Clausola di durata minima del rapporto a favore del datore di lavoro; Cass., 21 aprile 2005, n. 8296, in Banca dati DeJure; Cass., 17 marzo 2005, n. 5788, in Banca dati DeJure, ad avviso della quale, è sì vero che «l’interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una quaestio facti devoluta al giudice di merito e generalmente insindacabile in cassazione», ma è altrettanto vero, al riguardo, come siffatta insindacabilità trovi «il suo limite» allorquando l’attività interpretativa del giudice «si svolga in spregio evidente dei criteri ermeneutici, quando cioè il vizio della motivazione si risolve in errori giuridici»; Cass., 22 ottobre 2004, n. 20593, in Banca dati DeJure; Cass., 2 marzo 2004, n. 4261, in Banca dati DeJure. 30 Accertamento, codesto, da svolgersi attraverso un’attenta attività interpretativa dell’accordo transattivo, avendo riguardo non solo alle espressioni letterali usate dalle parti, ma anche alla lite che le parti hanno inteso risolvere mediante concessioni reciproche. Sul punto, v. almeno Cass., 1 giugno 1988, n. 3714, in Banca dati DeJure. 31 Intesa, si badi bene, come «la cosa o il comportamento su cui vertono la pretesa e la contestazione delle parti, le quali, per comporre la 27

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(immediato)32 della transazione, oppure debba trascenderne l’àmbito; le parti, per vero, potrebbero aver voluto ampliare il perimetro della transazione33. Al riguardo, si può comunque notare come in assenza di una manifesta volontà delle parti34, ed essendo la lite «il supporto della transazione»35, il giudice non può comunque supporre che le parti abbiano voluto estendere, di là della controversia, l’effetto preclusivo, o, per meglio dire, rinunziativo, derivante dal contratto di transazione36. Alfine, riteniamo doveroso effettuare una concisa, ma nondimeno necessaria, riflessione sull’affermazione della Corte, per la quale rappresenta principio generale il fatto che l’azione di simulazione potrà essere esperita dal legittimario37 (Tizia) dell’alienante simulato (Sempronia) solo seguentemente alla di lui morte, ché tale azione, in un caso di tal fatta, è «in evidente funzione strumentale all’esercizio dell’azione di riduzione, la cui insorgenza del pari si colloca dopo la morte della genitrice»38. Ora, in quest’ordine d’idee, la Cassazione è sempre stata lineare39. A nostro parere, ed in linea generale40, la considerazione della

lite, dettano un regolamento impegnativo dei loro interessi relativi a quella cosa o a quel comportamento»: così, F. Santoro - Passarelli, La transazione, cit., 115. Densa di significato è altresì la definizione prospettata da F. Carresi, voce Transazione (diritto vigente), cit., 491: «oggetto della transazione non è il rapporto litigioso, sibbene la pretesa e la contestazione delle parti rispetto alle quali il rapporto, che dà materia alla lite, costituisce l’oggetto. Quindi, perché si abbia transazione, occorre anzitutto che vi siano una pretesa e una contestazione cioè, in sintesi, una lite e, solo subordinatamente, che questa pretesa e questa contestazione vertano su un rapporto che sia giuridicamente esistente, lecito e non sottratto alla disponibilità delle parti». Sul punto, v. anche E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 842. 32 M. Franzoni, op. cit., 132. Di diverso avviso, invece, è G. Gitti, op. cit., 162. Cfr. anche l’art. 1350, n. 12, c.c. V. infra, nt. 107. Si leggano almeno, in giurisprudenza: Cass., 9 ottobre 2017, n. 23482, in Banca dati DeJure; Cass., 15 maggio 2001, n. 6662, in Foro pad., 1, 317, con nota di A. Maniaci, Transazione e suoi elementi costitutivi; Cass., 6 ottobre 1999, n. 11117, in Contratti, 2000, 1, 71; Cass., 8 luglio 1994, n. 6444, in Banca dati DeJure. 33 E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 844. 34 Il contratto di transazione, difatti, comprende solo le cose o i diritti su cui le parti hanno inteso transigere, e che quindi sono stati espressamente indicati nel contratto o, beninteso, risultino come necessaria conseguenza di quanto è stato espresso nel regolamento contrattuale (v. N. Stolfi, Diritto civile, vol. IV, I contratti speciali, Torino, 1934, 404). 35 G. Sciancalepore, op. cit., 16. 36 Così, brillantemente, E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 844, il quale, per giunta, richiama al riguardo l’art. 1364 c.c., che prevede come, «Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto», esso non comprenda «che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare». 37 F. Messineo, Il contratto in genere, , t. 2, cit., 523. 38 Così, la Corte nella pronunzia in epigrafe. 39 Cfr. Cass., 30 luglio 2004, n. 14562, in Banca dati DeJure e in Contratti, 2005, 3, 262, nonché Cass., 6 novembre 1986, n. 6493, in Banca dati DeJure e in Vita not., 1986, 6, 1103, con nota di R. Cenicola, Osservazioni in tema di prescrizione della c.d. azione di simulazione relativa. Successivamente all’inserimento del quarto comma in seno all’art. 563 c.c. – da parte dell’art. 2, co. 4-novies, lett. a), n. 2, del Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modifiche, dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80, e successivamente modificato dall’art. 3, co. 1, lett. a), della Legge 28 dicembre 2005, n. 263 –, v. Cass., 21 febbraio 2007, n. 4021, in Banca dati DeJure e Cass., 9 maggio 2013, n. 11012, in Banca dati DeJure. 40 Tale inciso, rileviamo, è necessario al lume della novella (su cui v., almeno: P. Criscuoli, Prime riflessioni sulla riforma degli artt. 561 e 563 c.c., in Riv. not., 2005, 6, 1499 ss.; M. Ieva, La novella degli articoli 561 e 563 c.c.: brevissime note sugli scenari teorico-applicativi, in Riv. not., 2005, 5, 943 ss., spec. 946; V. Mariconda, L’inutile riforma degli artt. 561 e 563 c.c., in Corr. giur., 2005, 8, 1174 ss.; A. Busani, L’atto di “opposizione” alla donazione (art. 563, comma 4, cod. civ.), in Riv. dir. civ., 2006, 1, 13 ss.; M. Campisi, Azione di riduzione e tutela del terzo acquirente alla luce della L. 14 maggio 2005, n. 80 e 28 dicembre 2005, n. 263, in Riv. not., 2006, 5, 1269 ss.) citata in nota precedente, la quale ha senza meno suscitato, in dottrina e in giurisprudenza, talune correnti interpretative non sempre convergenti. Invero, taluni discorrono circa la possibilità, da parte del legittimario del soggetto simulante, di esperire anticipatamente – ovverosia prima della morte

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Giurisprudenza

Corte dev’essere avvalorata, giacché l’art. 1415, co. 2, c.c. (rispetto al quale l’interprete, nel nostro caso, non può rifuggire, nemmeno per coerenza di sistema) nello specificare che i terzi (com’è, nel nostro caso, la figlia Tizia), rispetto al contratto simulato, possono far valere la simulazione solamente allorquando essa pregiudichi «i loro diritti», sgombra il campo da qualsivoglia ipotesi interpretativa contraria: il “pregiudizio” consiste sì nell’impedire, o nel rendere incerto o più difficile, il conseguimento o l’esercizio di un diritto41, ma, giova sottolinearlo, di un diritto comunque esistente; il diritto alla propria quota di riserva, com’è noto, sorge solamente alla data di apertura della successione, e non già antecedentemente alla stessa.

3. Principio di conservazione del negozio giuridico, parte essenziale e sinallagma genetico: nullità totale, nullità parziale o conversione del contratto?

Ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., «il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative»42. Con particolare riferimento al caso di specie (là dove si segua l’interpretazio-

del de cuius – l’azione di simulazione nei confronti della donazione (dissimulata) posta in essere, appunto, dal simulante. Può essere, come ben affermò F. Messineo, Il contratto in genere, t. 2, cit., 520, un danno (scilicet: un pericolo di danno), ancorché potenziale, o un mancato lucro attuale. L’A. (ivi, 521, nt. 269) tersamente specificò: «per “far valere la simulazione”, non è necessario un danno, nel senso rigoroso di perdita patrimoniale in atto, ma basta, anche, quel minus, che consiste nel rendere impossibile, o meno agevole, all’interessato, il conseguimento, o l’esercizio, di un suo diritto. Pertanto, il legislatore ha voluto, non tanto accennare genericamente a un interesse a far valere la simulazione, quanto esprimere concretamente che anche la mera difficoltà di esercitare un diritto, cui l’alienazione simulata di un bene, o la costituzione simulata di un diritto, dà luogo, è da considerare titolo sufficiente per far valere la simulazione». V. anche, seppur en passant, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 426 (si badi bene: l’A. fece riferimento all’art. 1416, co. 2, c.c.: noi riteniamo, tuttavia, che sul punto via sia stato un mero refuso, per cui l’A. abbia inteso, in verità, riferirsi al capoverso dell’art. 1415 c.c.). 42 Più in generale, ben può ritenersi nullo quel negozio giuridico il quale, per la mancanza o l’anomalia (come nel nostro caso) di taluni suoi elementi costitutivi, non produce gli effetti tipici che vengono ad esso rannodati dalla disposizione normativa entro la quale il negozio è previsto: così, R. Tommasini, voce Nullità (dir. priv.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 868. Si potrebbe dunque dire, al riguardo, che v’ha una difformità tra fattispecie (integrata, in tal caso, dal negozio giuridico) e schema legale tipico; in altri termini, la nullità rappresenta agile strumento per disconoscere quelle manifestazioni di volontà le quali integrano un contrasto con lo schema legale: cfr. Id., ibidem, il quale soggiunge (ivi, 870 e 875) come «la nullità vada prospettata come uno strumento di controllo normativo, utilizzato insieme ad altri, per non ammettere alla tutela giuridica interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema»; donde, la nullità è da annoverarsi nel più ampio perimetro dell’invalidità negoziale. La contrarietà a norme imperative è dunque prevista come causa di nullità, poiché l’ordinamento tende sovente a reprimere quegli assetti d’interessi che, per loro natura, differiscono dai valori fondamentali consacrati nell’ordinamento stesso. Il Tommasini (ivi, 876), a ragione, profilò l’idea che «le programmazioni [alias: gli assetti d’interessi] vengono tutelate e garantite se conformi al sistema dei valori della comunità e soltanto nei limiti di questa conformità». Si può quindi affermare, in definitiva, come la nullità sia utilizzata dal legislatore come mezzo (strumento) rispetto al fine (la salvaguardia, talvolta, degli interessi dei paciscenti, talvolta, e sopra tutto, degli interessi generali dell’intero ordinamento). Cfr. anche Id., ivi, 876. Sulla tipicità delle cause di nullità v., di nuovo, Id., op. cit., 878; Per amor di completezza, e per un approccio storico al tema della nullità, v. almeno A. Masi, voce Nullità (storia), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 859 ss. V. anche: G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, 61; F. Messineo, Dottrina generale del contratto. Artt. 1321-1469 cod. civ., Milano, 1948, III ed., 270; Id., Il contratto in genere, t. 2, cit., 173-175; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., a cura di magistrati e docenti, Libro IV, t. II, Torino, 1958, 379; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, 41

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ne del contratto43 datane dalla Corte d’Appello), è dunque intuitivo come non possa porsi in discussione, anche ad avviso della Cassazione, la nullità44 del contratto di transazione45

II ed., 383; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2002, II ed., 267 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, II ed., 700. 43 Vedasi, almeno, F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 341 ss. L’A., a noi pare, colse nel segno ove (ivi, 341) affermò come nell’interpretare un contratto l’interprete debba «anche assodare quale è la concreta volontà delle parti». V. pure la chiara e autorevole disamina di A. Cataudella, op. cit., 176 ss. (ove, a pagina 176, esordisce con tali parole: «Il discorso sull’interpretazione del contratto è strettamente collegato con quello sul contenuto perché, se il contenuto è costituito dal complesso di regole che le parti dettano per dare assetto ai propri interessi, lo strumento per individuare tali regole è la comprensione del senso dell’accordo». L’A., peraltro, soggiunge (ivi, 177), a corollario, come «Allorché ci si pone il problema dell’interpretazione di un’espressione, di qualsivoglia natura, ci si pone un problema di linguaggio e di intendimento dello stesso. Si prospetta, pertanto, la necessità di utilizzare determinate chiavi di lettura ed è, all’uopo, importante conoscere chi si esprime, chi riceve il messaggio, ed appurare in che modo un determinato tipo di messaggio si intende in un certo contesto, in un certo ambiente». 44 Nullità, e non già inesistenza (come, sotto l’egida del Codice del 1865, ritenne G. Greco, op. cit., 185: «Qualsiasi patto [successorio rinunziativo] […] deve considerarsi e ritenersi nullo di pieno diritto e, quindi, inesistente [sic!] dal punto di vista giuridico»). Giova, seppur en passant, rilevare come F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 433 (nt. 2, alla quale si rimanda) escluse recisamente la distinzione tra nullità e inesistenza, dacché, in entrambi i casi, «il risultato pratico è il medesimo» (v. pure Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, Milano, 1957, IX ed., 614 e Id., Il contratto in genere, t. 2, cit., 172 s. e 184 ss.). Adde altresì: G. Stolfi, op. cit., 60 (nt. 1) e 61; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 491; A. Fedele, La invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, s. d., ma 1983, 18 ss. (a tale opera rinviamo anche per ulteriori e originali osservazioni sulla nullità. In particolare, a quanto ritenuto dall’A. – ivi, 105 ss. – in tema di nullità parziale). V. anche l’interessante contribuito di S. Ferrari, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 514 ss. Sul punto, seppur brevemente, riteniamo di dover sommessamente dissentire con le teorie testé accennate, poiché parificare nullità ed inesistenza potrebbe essere, a nostro sommesso credere, alquanto fuorviante, giacché nel caso d’inesistenza giuridica non potranno applicarsi al negozio talune disposizioni, quali, ad esempio, l’art. 1424 c.c. oppure l’art. 1419, co. 2, c.c., disposizioni, codeste, rispecchianti a pieno il noto principio di conservazione del negozio giuridico. Come noi, tengono a ragione distinte nullità ed inesistenza anche L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, Napoli, 1947, 338 ss., spec. 347 (ma v. anche 349 e 354 ss., ove l’A., però, pare “contraddirsi” – spec. alle pagine 347, 358 e 361 – allorquando ammise la conversione di un negozio inesistente); L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 335 ss., spec. 337; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 473; G. Mirabelli, op. cit., 372 e 373; R. Scognamiglio, op. cit., 329 ss.; F. Carresi, Il contratto, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XXI, t. 2, Milano, 1987, 615 ss., spec. 618 s.; G. Gandolfi, Il principio di conversione dell’atto invalido: fra continenza ‘sostanziale’ e volontà ‘ipotetica’, in Riv. dir. civ., 1990, 2, 198 s.; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, II ed., 633; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 277 e 278; V. Roppo, op. cit., 710 e 809. Per una particolare e ficcante lettura, v., nuovamente, R. Scognamiglio, op. cit., 333 ss., spec. 339 s., 343, 348 e 394 s. Giova inoltre notare che lo stesso Stolfi (op. cit., 61, ma v. anche 64) ebbe a rilevare come l’interprete, nel parlare indifferentemente di nullità ed inesistenza, sia tenuto a vestirsi d’idonea cautela, ché l’atto nullo ha comunque «un’esistenza materiale che non si può disconoscere anche se esso è inutile quaod jus, ma anche perché esso può avere effetti giuridici, e talvolta rilevanti, sebbene siano diversi da quelli cui il negozio era diretto»). Quest’ultima affermazione, a noi pare, consente di corroborare quanto testé abbiamo ritenuto, per tenere su due piani differenti la nullità e l’inesistenza. V. pure: S. Pugliatti, op. cit., 205 ss. (che alla pagina 212 parrebbe escludere la differenza tra nullità ed inesistenza); L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, I, Parte generale, t. III, cit., 47; V. Roppo, op. cit., 709 s., il quale adduce, a sostegno della differenza tra inesistenza e nullità, il caso del contratto di lavoro nullo (non, però, illecito), che è efficace per il periodo durante il quale il rapporto lavorativo ha avuto esecuzione, attribuendo inoltre al lavoratore il diritto alla retribuzione (v. art. 2126 c.c.). Giova rilevare, inoltre, come nel nostro caso ci si trovi di fronte ad una nullità contestuale alla formazione del contratto (v. G. Stolfi, op. cit., 63). 45 E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 312 (ma anche 319), il quale, dopo aver ritenuto invalida una transazione avente a oggetto diritti (futuri) inerenti ad una successione non ancora apertasi (stante, come già da noi lumeggiato, il perentorio divieto di cui all’art. 458 c.c.), rilevò come, «Se così non fosse, per diversa via acquisterebbe efficacia il patto successorio, che la legge mostra di volere severamente reprimere». Adde M. Franzoni, op. cit., 425.

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Giurisprudenza

per violazione della norma imperativa46 racchiusa nell’art. 458 c.c.47 (e, sempre seguendo l’esegesi della Corte d’Appello, anche dell’art. 557 c.c.)48. Nel nostro caso, difatti, il contratto di transazione è stato posto in essere dalle parti per conseguire non solo lo scopo in esso connaturato, come previsto dal dettato normativo (composizione o prevenzione di una lite), ma anche per realizzare un ulteriore proposito, il quale è, come detto, contrario a norme imperative49. Dunque, la causa tipica del contratto rimane sì ferma, ma le parti si sono valse del contratto per conseguire uno scopo ulteriore (rinunzia a diritti successori futuri), che la legge (giusta l’art. 458 c.c.50), appunto, non consente51. Traslando ora l’attenzione su questioni squisitamente esegetiche52, feconde di significato, l’interprete potrebbe chiedersi se, nei confronti di codesto contratto, possa trovare

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Cfr. R. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, cit., 1217. L’art. 458 c.c., ad opinione di V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 110 (nt. 214), è espressione di un principio di ordine pubblico. Talché, l’A. autorevolmente conclude: «Mi sembra, allora, anche in ragione della tecnicalità sottesa al meccanismo di conversione, che sia opportuno distinguere quale sia la causa del negozio ed escludere che si possa dare conversione quando la nullità dipenda da illiceità. Quando, cioè, esiste un particolare giudizio di disvalore del nostro ordinamento rispetto al contratto, perché il vizio non è meramente strutturale, ma coinvolge una lesione di princípî, espressivi di valori normativi, la realizzazione dei quali corrisponde a un superiore interesse della comunità»). Del resto, è noto, infatti, che una norma di carattere imperativo può anche essere di ordine pubblico (sul punto, v. Cass., 15 marzo 1984, n. 2215, in Riv. not., 1986, 1, 149, con nota di L.P. Comoglio, Ordine pubblico interno ed internazionale: concetti in crisi di identità e G. Baralis, Brevi note in tema di ordine pubblico, norme imperativa, « nullità ambulatoria », con una digressione finale sulla distinzione: norme imperative-ordinative e sulla responsabilità notarile). Adde Corte cost., 2 febbraio 1982, n. 18, in Banca dati DeJure e in Giust. civ., 1982, 3, 570 ss. Di diverso avviso, rispetto a Vincenzo Barba, è R. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, cit., 1217. Chiare, sul punto, sono anche le parole di E. Russo, L’interpretazione dei testi normativi comunitari, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2008, 154, che definisce la norma imperativa come una norma «inderogabile ed indisponibile dalla autonomia privata e provoca la nullità assoluta dell’atto di autonomia […]. La violazione della norma imperativa pone l’atto negoziale sul piano dell’illecito: il negozio, il contratto vengono considerati contra ius». L’A., inoltre, giunge ad affermare come la norma imperativa sia costituita da un «plus», estraneo alla norma cogente. Tale plus è costituito anche dal concetto di ordine pubblico, concetto che dunque attribuisce alle norme inderogabili il carattere d’imperatività. Difatti, afferma l’A., «Norma imperativa è […] quella norma la cui prescrizione inderogabile è fondata sulla esigenza di tutela dell’ordine pubblico […]». La violazione di un principio di ordine pubblico, dunque, trasmigra l’atto di autonomia privata sul piano dell’illecito, sì da costituire la ratio della norma imperativa stessa. 47 Norma, la quale integra una chiara ipotesi di così detta nullità testuale (ex art. 1418, co. 3, c.c.). Cfr. anche V. Roppo, op. cit., 694, ad opinione del quale, giustamente, «Le fattispecie del c. 1 [dell’art. 1418 c.c.] possono sovrapporsi a quelle del c. 3: tutte le volte che un contratto sia contrario a una norma imperativa (c. 1), e al tempo stesso questa [nel nostro caso, l’art. 458 c.c.] disponga testualmente la nullità del contratto che la violi (c. 3)», e V. Franceschelli, Nullità del contratto, in Cod. civ. Comm., fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2015, 128. 48 Cfr. anche E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 377. 49 F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 269. 50 F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 271. 51 F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 269: «la contrarietà a norme imperative, caratteristica ed esclusiva del contratto illegale, è quella che si risolve in contrarietà dello scopo economico-pratico (causa) del contratto a norme imperative, ossia risiede nel fatto che le parti perseguono uno scopo, cioè una causa contrattuale, che l’ordinamento giuridico non consente sia conseguito e che, appunto mediante norme imperative (di carattere proibitivo) [com’è a dirsi per l’art. 458 c.c., da leggersi, nel caso di specie, in combinato disposto con l’art. 557, co. 2, c.c.], esso vieta esplicitamente [458 c.c.] o per implicito [557, co. 2, c.c.]». 52 Valutazioni (riguardanti l’interpretazione del contratto) che, nel caso di specie, giova rimarcarlo (v. supra, nt. 29), sono esclusiva attività del giudice del merito, e non già della giurisprudenza di legittimità. Cfr., almeno, R. Sgroi, sub art. 1362 c.c., in C. Ruperto, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, Libro IV, Delle obbligazioni, t. I, Artt. 1173-1469-bis, a cura di U. Bellini - C. Caianello - V. Carbone - F. Hinna Danesi - G. Marziale - P. Polito R. Sgroi - G. Stella Richter, con il coordinamento di S. Ruperto, Milano, 2009, 707.

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Marco Ramuschi

astratta e concreta applicazione53 l’art. 1424 c.c.54, vale a dire la norma che prevede la possibile conversione di un contratto nullo55, realizzando56, così, il generale principio di conservazione del negozio giuridico, che permea il nostro intero ordinamento57 (il quale,

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Sulla rilevabilità ex officio della conversione – stante, ci preme sottolinearlo, il principio dispositivo del processo –, rispetto alla quale noi conveniamo, v.: G. Gandolfi, Ancora sulla conversione del contratto invalido (e a proposito di una recente monografia), cit., 438; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 634; G. Giaimo, Conversione del contratto nullo. Art. 1424, in Cod. civ. Comm., fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2012, 115 ss.; M. Angelone, La conversione d’ufficio del contratto nullo tra (interpretazione di) buona fede e «giusto rimedio», in Rass. dir. civ., 2014, 4, 1008 ss.; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, cit., 108 (nt. 212). In giurisprudenza: Cass., 24 agosto 1991, n. 9102, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., 23 giugno 1987, n. 5513, in Giust. civ., 1987, 3, 745, con nota di S. Menchini, Mutamento del titolo del licenziamento; Cass., 30 luglio 1987, n. 6632, in Notiz. giur. lav., 1988, 1, 67. Contra, Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242, in Foro it., 2015, 3, 862. 54 Per una profusa discettazione della materia, s’invita il lettore a consultare L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit. Più asciuttamente, v. pure, nella manualistica, A. Cataudella, op. cit., 420. 55 G. Stolfi, op. cit., 71 e 72; F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 442 e 443 (ove affermò, per taluni motivi ai quali ivi si rimanda, come l’art. 1424 c.c. «non abbia a trovare molte applicazioni nella materia del contratto»); Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 617; Id., Il contratto in genere, t. 2, cit., 171; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 362 e 508 ss.; R. Tommasini, op. cit., 894 e 895; A. De Cupis, Lineamenti essenziali della conversione del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 2, 431 e 436; G. Gandolfi, Ancora sulla conversione del contratto invalido (e a proposito di una recente monografia), in Riv. dir. civ., 1996, 432 (ma v. anche 434 e 435), il quale (ivi, 430 s.) criticò la concezione, sull’art. 1424 c.c., del Messineo (che peraltro, a nostro avviso, pare essere la migliore lettura della disposizione) e del Betti; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 348; R. Sacco, Le invalidità, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 10, Obbligazioni e contratti, t. II, Torino, 2002, III ed., 616; Id., Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, Torino, 2016, IV ed., 1515; G. Giaimo, op. cit., spec. 17 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 252, ad avviso del quale, la conversione opera allorquando il negozio, «essendo nullo per la funzione cui siasi indirizzata l’autonomia privata e quindi in relazione al tipo legale da questa prescelto [nel caso, appunto, la transazione]», abbia nondimeno «i requisiti di sostanza e di forma [cfr. art. 1424 c.c.] per adempiere a una funzione diversa, ma più ristretta, che la legge consente al negozio di esplicare». Per una trattazione in punto di novità (con cenni comparatistici), intorno ai primi anni duemila, sulla conversione del contratto nullo, v. G. Gandolfi, La conversione del contratto nullo: novità rilevanti in Italia (e in Europa), in Riv. dir. civ., 2004, 189 ss. 56 L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 365, 376 e 395; F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, III ed., 334 s.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 362 e 508; Id., voce Conversione del negozio giurido (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 811; G. Criscuoli, La nullità parziale del negozio giuridico. Teoria generale, Milano, 1959, 104 e 281; L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 530 e 535; G. Stella Richter, Il principio di conservazione del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, 412; R. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, cit., 1224; V. Franceschelli, Conversione del negozio nullo, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., IV, Torino, IV ed., 1989, 378; F. Carresi, Dell’interpretazione del contratto. Art. 1362-1371, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1992, 111; P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1993, X ed., rist., 714; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 633; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 348 s.; M. Pennasilico, L’operatività del principio di conservazione in materia negoziale, in Rass. dir. civ., 2003, 3, 702 ss., spec. 703 (nt. 5) e 704 (spec. nt. 7); V. Roppo, op. cit., 814; G. Giaimo, op. cit., 5 s.; F. SantoroPassarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 252; A. Cataudella, op. cit., 420. Nella giurisprudenza, v. almeno Cass., 11 ottobre 2006, n. 21737, in Banca dati DeJure e in Contratti, 2007, 5, 443, nonché Cass., 18 aprile 1953, n. 1036, in Riv. dir. comm. dir. gen. obb., 1954, 253. Sul punto, è necessario richiamare R. Sacco, Le invalidità, in AA.VV., Tratt. dir. priv., cit., 616, il quale pare escludere il rannodarsi dell’art. 1424 c.c. al generale principio di conservazione del negozio giuridico (v. anche V. Roppo, op. cit., 807). Noi non riteniamo di avvalorare tale orientamento, poiché, a nostro sommesso parere, consentendo al contratto di «produrre gli effetti di un contratto diverso [il corsivo è nostro]», l’art. 1424 c.c. ben può ricomprendersi in senso al perimetro del più ampio principio di conservazione. In altri termini: è sì vero che l’art. 1424 c.c. interviene allorquando il contratto sia già stato dichiarato nullo, ma è altrettanto vero, però, che nonostante la nullità il contratto potrà comunque produrre effetti, sì di un contratto diverso, ma pur sempre effetti giuridici. Escluse, come il Sacco, il germe del principio di conservazione entro il perimetro dell’art. 1424 c.c., anche F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 442. 57 C. Grassetti, voce Conservazione (principio di), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 173; Id., L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1983, rist. anastatica, 27 (nt. 46) e 162; M. Pennasilico, L’operatività del principio di conservazione in materia negoziale, cit., 702 ss., cui adde, per un’analisi in ottica europea, Id., La regola ermeneutica di conservazione nei «Princípi di diritto europeo dei contratti», in Rass. dir. civ., 2003, 1-2, 268 ss. Sotto l’egida del Codice civile del 1865, individuò la ratio della conversione in un «giusto criterio di economia», S. Pugliatti, op. cit., 214.

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Giurisprudenza

per il caso dei contratti, si ritrova manifestamente scolpito nell’art. 1367 c.c.58). Una prima soluzione a codesto quesito, e segnatamente circa l’applicabilità in astratto dell’art. 1424 c.c., è rinvenibile nella qualificazione giuridica di contratto59, che il legislato-

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Cfr.: F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 361 e 362; Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 608; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 395; F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, cit., 335; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 362 e 508; Id., voce Conversione del negozio giuridico, cit., 811; L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 530; Id., L’interpretazione del contratto. Artt. 1362-1371, in Cod. Civ. Comm., diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, 287 ss.; C. Grassetti, voce Interpretazione dei negozi giuridici “inter vivos” (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., VIII, 1962, 906; G. Stella Richter, op. cit., 411; M. Casella, voce Negozio giuridico (interpretazione), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 20; E. Zerella, La nullità parziale, in Giust. civ., 1985, 7-8, 385; G. Fonsi, Il principio di conservazione del contratto (art. 1367 c.c.), in Vita not., 1995, 2, 1041; R. Sacco, L’interpretazione del contratto, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 10, Obbligazioni e contratti, t. II, Torino, 1995, II ed., 518; V. Roppo, op. cit., 453; G. Giaimo, op. cit., 5; V. Franceschelli, Nullità del contratto, cit., 159 s.; A. Cataudella, op. cit., 194 e 195. Sotto l’egida del Codice civile del 1865, v. il già citato C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., 161. Pare non rannodare l’art. 1367 c.c. al principio di conservazione, F. Carresi, Dell’interpretazione del contratto, cit., 111 ss. (v. ancora – forse, in questo caso, con una sfumatura più temperata – Id., Il contratto, t. 2, cit., 530-534). In giurisprudenza, v. almeno Cass., 23 luglio 2018, n. 19493, in Banca dati DeJure; Cass., 8 ottobre 2008, n. 24866, in Banca dati DeJure e in Foro. it., 2008, 11, 3072. 59 E. Gropallo, La natura giuridica della transazione, in Riv. dir. civ., 1931, 321 ss. (passim), spec. 350; A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 11; N. Stolfi, Diritto civile, vol. IV, I contratti speciali, cit., 400; F. Carresi, La natura giuridica della transazione, cit., 141; C. Furno, Intorno alla natura della transazione, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obb., 1950, 11-12, 456 [con riferimento al Furno, per onestà, non possiamo non rilevare come – a nostro sommesso parere – tale contributo, se non confutabile da un punto di vista dell’intento scientifico dell’A., sia tuttavia criticabile duramente per il tono eccessivamente polemico, presuntuoso e “quasi” canzonatorio rivolto alle idee del Valsecchi. Ci permettiamo di aprire questa piccola parentesi, che è sì avulsa dal contesto, ma utile per sottolineare come in campo scientifico, noi riteniamo, possa sì capitare di non essere assenzienti con le opinioni di altra dottrina, ma, non per questo, niente – e ripetiamo, niente! – può permette a qualsivoglia autore di utilizzare un tono come quello assunto dal Furno nel contributo testé citato, al quale rinviamo per rendere edotto il lettore di quanto or ora abbiamo affermato]; E. Valsecchi, Ancora sulla natura della transazione, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obb., 1950, 11-12, 475 [L’A., rispondendo con assoluto garbo al Furno (v. il contributo testé citato), afferma cosa giusta, là dove ebbe a ritenere: «Metodo [del Furno] questo che ognuno è libero di preferire, ma certamente rinunciando a pretendere quella cordialità che, per conto mio, considero come un dovere verso coloro che compiono lo stesso lavoro, quali che siano le opinioni da essi professate, e la loro fortuna» (il corsivo è nostro)]; Id., Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 225; F. Carresi, Concetto e natura giuridica della transazione, cit., 362; Id., voce Transazione (diritto vigente), cit., 483; R. Miccio, Dei singoli contratti e delle altre fonti delle obbligazioni, in Comm. cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro IV, t. IV, Torino, 1959, 454 ss., spec. 459 s.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 691; P. D’Onofrio, Della transazione, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro quarto. Delle obbligazioni. Art. 1960-1991, Bologna-Roma, 1974, II ed., 221 ss. (passim); E. del Prato, La transazione, cit., 1992, 1; C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 113; A. Palazzo, La transazione, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 13, Obbligazioni e contratti, t. V, Torino, 2007, II ed., 381; C. Cicero, voce Transazione, cit., 1058 s.; G. Sciancalepore, op. cit., 7. Si badi bene, inoltre, di come siffatto contratto, stante la reciprocità dei sacrifici, abbia carattere oneroso; v., per tutti: A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 54; N. Stolfi, Diritto civile, vol. IV, I contratti speciali, cit., 400, il quale, stante il noto brocardo aliquo dato, aliquo retento, addivenne alla ragionevole affermazione per cui «Il contratto di transazione è a titolo oneroso […]: ogni contraente cioè dà, promette o ritiene qualche cosa, e queste reciproche concessioni rappresentano i corrispettivi contrattuali»; S. Piras, op. cit., 136. Di recente v., en passant, C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 114. La natura contrattuale della transazione venne invece esclusa da F. Carnelutti, La transazione è un contratto?, in Riv. dir. proc., 1953, 3, 185 ss., il quale (ivi, 189) addivenne alla conclusione per cui «la transazione è […] non già un contratto, e tanto meno un contratto bilaterale, ma la combinazione di due negozi reciprocamente condizionati, dei quali uno è in ogni caso la rinuncia totale o parziale alla pretesa accampata nella lite, che essa compone, o il riconoscimento totale o parziale della pretesa medesima». A nostro modo di credere, tale opinione, nonostante colga senz’altro l’attenzione dell’interprete, non può essere avallata, giacché limpido è il dettato normativo contenuto entro la cornice dell’art. 1965, co. 1, c.c., rispetto al quale l’interprete non può rifuggire. In particolare, riteniamo di dover dissentire col Carnelutti ove affermò come la transazione sia «la combinazione di due negozi»: sul punto, essendo la transazione un contratto bilaterale, richiamiamo il principio per cui un negozio bilaterale non è affatto la somma di due negozi unilaterali, ma l’unione di due atti di volontà, ognuno dei quali non rappresenta già un negozio unilaterale, ma un mero elemento fondante del consenso (che è, dunque, una volontà comune), consenso che rappresenta sì il cuore del negozio bilaterale (v., limpidamente, S. Pugliatti, op. cit., 183).

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Marco Ramuschi

re ha espressamente attribuito alla transazione, giusta l’art. 1965, co. 1, c.c.; da ciò, ne discende come nei confronti della transazione possano trovare astratta applicazione le norme generali (in particolare, nel caso di specie, in tema di nullità60) previste per i contratti61. Per quanto attiene, invece, all’applicazione concreta dell’art. 1424 c.c.62, essa pare sia da escludersi. Invero, là dove si ammettesse la conversione di codesto contratto in un contratto diverso, verrebbe ad ammettersi la conversione di un negozio (illecito)63, quale è quello di specie, violante una norma imperativa (l’art. 458 c.c.)64. Difatti, come s’è già avuto modo di rammentare sopra, Tizia, con la preventiva rinunzia a diritti successori futuri, ha rinunziato (mediante una “concessione”) a diritti che, per loro natura, all’epoca erano indisponibili65, in quanto non ancora sórti66; talché, «la indisponibilità del diritto fondata

Per di più, il fatto di considerare la transazione come il collegamento di due negozi reciprocamente condizionati, impingerebbe avverso la «natura di prestazioni interdipendenti al datum ed al retentum» (così, a ragione, C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 113 s.). 60 L. Ferri, Successioni in generale, cit., 87; F. Carresi, voce Transazione (diritto vigente), cit., 498; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 99 s.; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 214; M. Franzoni, op. cit., 309; L. Balestra - M. Martino, op. cit., 137; G. Vidiri, op. cit., 1906; G. Capozzi, op. cit., t. I, 51; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 24; 61 Il contratto di transazione, dunque, nonostante origini da una controversia inerente un titolo lecito, nel caso in cui realizzi un «assetto d’interessi vietato dalla legge», è da ritenersi nullo: E. del Prato, La transazione, cit., 83. 62 Giova, seppur en passant, rilevare come anche dall’art. 1424 c.c., al pari dell’art. 1419, co. 1, c.c. (su cui v. infra nel testo), affiori la rilevanza della volontà ipotetica dei paciscenti (A. Fedele, op. cit., 22 s.; A. Cataudella, op. cit., 420). Nondimeno, tale volontà ipotetica dev’essere “sfumata”, ovverosia, l’interprete non dovrà affatto enucleare una volontà che non s’è formata, ma dovrà valutare se l’assetto diverso, realizzato con la conversione del contratto, si confaccia all’assetto d’interessi perseguito dalle parti (A. Cataudella, op. cit., 420 s.). Per un’interessante lettura, seppur dissimile rispetto a quanto abbiamo or ora affermato, v. G. Gandolfi, Il principio di conversione dell’atto invalido: fra continenza ‘sostanziale’ e volontà ‘ipotetica’, 197 ss. 63 L’art. 1424 c.c., per vero, affinché possa essere applicato, richiede l’«idoneità dello scopo alla tutela giuridica»: così, Auricchio, In tema di conversione del negozio illecito, nota a Cass., 18 aprile 1953, n. 1036, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obb., 1954, 261. La stessa Cass., 18 aprile 1953, n. 1036, cit., commentata dall’Auricchio, ritenne come «Il negozio che tenda a perseguire uno scopo vietato dall’ordinamento giuridico […] non è suscettibile di conversione, perché la nullità è inerente non già allo strumento scelto dalle parti, bensì all’intento pratico da queste avuto di mira. Se le parti tendevano a raggiungere uno scopo illecito, non può la legge, dopo aver dichiarato la nullità del negozio, favorire parimenti il raggiungimento di quello scopo». V. inoltre: L. Bigliazzi - Geri, Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 536, secondo la quale, «L’applicazione dell’art. 1424 c.c. è connessa alla valutazione positiva dello scopo pratico perseguito dai soggetti, e tale valutazione non è possibile quando il negozio sia illecito»; V. Franceschelli, Conversione del negozio nullo, cit., 377; G. Giaimo, op. cit., 27; A. Cataudella, op. cit., 421. Merita attenzione, sul punto, l’opinione di R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1517, il quale scrive: «Non sempre l’illiceità investirà quegli elementi che l’art. 1424 battezza con l’espressione “scopo perseguito dalle parti”. Potrà darsi che investa lo specifico contenuto di una prestazione, e potrà darsi che tale contenuto possa essere sostituito senza sacrificare l’interesse delle parti». Tale affermazione, nonostante possa ingenerare nell’interprete una qualsivoglia parvenza di “attrazione”, a nostro parere non è pienamente condivisibile: per vero, nel caso in cui l’illiceità colpisca, come afferma l’A., una parte soltanto del contratto o una sua clausola, potrà, eventualmente, trovare una più agevole applicazione l’art. 1419 c.c., e non già l’art. 1424 c.c. L’A. discorre di «specifico contenuto di una prestazione» colpito da illiceità, contenuto che potrebbe essere sostituito (v. anche infra, nt. 72) «senza sacrificare l’interesse delle parti»: a nostro avviso tale affermazione si confà, eventualmente, all’art. 1419, co. 2, c.c., e non all’art. 1424 c.c., il quale prende in considerazione il contratto nella sua unitarietà, e non singole clausole o parti di esso. Se così fosse, cioè a dire se si ammettesse una sostituzione del contenuto colpito da illiceità, non si tratterebbe più di conversione, ma della costituzione di un nuovo contratto (cfr. anche L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 537 s., la quale perspicuamente, nonché giustamente, ebbe ad osservare come l’art. 1419 c.c. non rappresenti affatto un’ipotesi di conversione, dacché per il caso di nullità parziale «l’essenza tipica del negozio resta immutata: riducendone il contenuto o sostituendone una clausola, non si modifica la qualificazione giuridica della fattispecie, la quale, anche se eventualmente con contenuto ed effetti più limitati, resta sostanzialmente la medesima»). 64 G. Capozzi, op. cit., t. I, 51. V. anche A. Barba, La nullità del contratto per violazione di norma imperativa, in AA.VV., Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. III, Obbligazioni, II, Il contratto in generale, Milano, 2009, 985. 65 D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 695; E. del Prato, La transazione, cit., 71 ss. 66 Cfr. A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 253.

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Giurisprudenza

su una norma imperativa [l’art. 458 c.c.] preclude che preventivamente di questo il titolare disponga [o rinunzi, come nel caso di specie]»67. Si può affermare, dunque, come il contratto, il quale contrasti con una norma imperativa, com’è a dirsi nel caso di specie per la transazione de qua, non possa essere convertito68. Volendo ancor di più corroborare quanto affermato, possiamo persino giungere ad affermare come nel nostro caso perda vigore la differenza, che tempo addietro soleva porre in essere la giurisprudenza di legittimità69, tra illiceità dello scopo che le parti intendono raggiungere e difetto oggettivo inerente la struttura del contratto70. Nel nostro caso, lo scopo che le parti intendono realizzare, se analizzato da un mero punto di vista d’intento obiettivo (causale) perseguito, potrebbe, eventualmente, anche considerarsi lecito: esse hanno inteso concludere un accordo transattivo, in guisa da porre fine ad una lite. Tuttavia, nonostante la nullità colpisca la struttura del contratto, vale a dire una concessione71

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Così, M. Franzoni, op. cit., 426. È necessario sottolineare, sul punto, come l’“equiparazione” della rinunzia alla disposizione sia da ricondursi, sopra tutto, a L. Ferri, Successioni in generale, cit., 86, il quale, a ragione, ritenne come i patti successori rinunziativi possano «considerarsi formare un sottotipo dei patti dispositivi, in quanto anche la rinuncia entra qui in gioco come atto di disposizione di un’eredità futura». Nondimeno, soggiunse l’A. (ibidem), la differenza col patto dispositivo strettamente inteso può essere individuata nel fatto «che il beneficiario, nel patto rinunciativo, dovrà essere persona chiamata all’eredità in luogo del rinunciante, o persona che, per effetto della rinuncia, vedrebbe accrescere la sua quota». V. anche Id., Disposizioni generali sulle successioni, cit., 106. 68 Come ebbe modo di affermare R. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, cit., 1224, «ciò che la conversione salva è il fine e non il mezzo: il princìpio di conservazione va infatti riferito all’auto-regolamento d’interessi e non all’atto; ciò è tanto vero che, mentre quest’ultimo cambia, ciò che rimane fisso è il risultato voluto dalle parti». Dal che, soggiunge l’A. (ibidem), se ne desume come sia evidente che se siffatto principio di conservazione «è un mezzo di tutela dell’attività privata, è altrettanto evidente, anche se implicito, che l’ordinamento tutela solo ciò che non è contrastante con esso, sì che l’art. 1424 c.c. non può essere applicato laddove esso sarebbe un mezzo per favorire uno scopo valutato negativamente». In questo senso, v. già Auricchio, op. cit., passim, spec. 260, il quale, aderendo alla pronunzia della Cassazione, ebbe modo di affermare che «poiché l’interesse dei contraenti costituisce la ragione della tutela legale prevista dall’art. 1424, evidente presupposto per l’applicazione di questa norma è la valutazione positiva da parte dell’ordinamento di tale interesse; ove invece la valutazione sia negativa, come indubbiamente avviene nel negozio illecito in generale […], questo presupposto vien meno e manca così la stessa ragion d’essere della conversione». Ancora, soggiunse l’A (ivi, 260 s.), «accertato che l’istituto della conversione è un mezzo di sanatoria dello strumento negoziale, non si può ammettere la possibilità di convertire un contratto, in cui lo strumento è perfetto mentre ne è proibito solamente il risultato. È questo a mio avviso il caso del negozio illecito; in esso son presenti tutti i requisiti di sostanza e di forma, la cui mancanza nel negozio è prescritta dall’articolo 1424: manca solo la possibilità di realizzare gli effetti voluti dalle parti, in quanto esiste una norma proibitiva [nel nostro caso, l’art. 458 e 557 c.c.] che li elimina». Adde C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 634; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 252 (nt. 1). In giurisprudenza, v. almeno Cass., 19 novembre 2009, 24450, in Banca dati DeJure. Favorevoli, invece, alla conversione di un contratto nullo per contrasto con una norma imperativa, furono L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 365 e G. Gandolfi, Ancora sulla conversione del contratto invalido (e a proposito di una recente monografia), cit., 433, il quale ebbe ad affermare come non sia coincidente con la ragione dell’art. 1424 c.c. il rifiuto, da parte dell’interprete, dell’applicazione della conversione ad un negozio illecito (quindi, quand’anche esso contrasti con una norma imperativa). 69 Cass., 18 aprile 1953, n. 1036, cit. 70 Rimandiamo, per esigenze di economia espositiva, alla ricostruzione del percorso giurisprudenziale effettuata, con attenzione, da G. Giaimo, op. cit., 21 ss. 71 Ovverosia, una prestazione. Si badi: è questa che può essere passibile di illiceità, e non già una cosa (a sua volta oggetto della prestazione) in sé e per sé considerata (A. Cataudella, op. cit., 38). Sul punto, giova richiamare il terso esempio proposto dallo stesso A. (ivi, 38 s.): «nel contratto di vendita di un’automobile il contenuto è rappresentato dalla regola che dispone lo scambio tra la proprietà dell’automobile ed il prezzo: l’oggetto del contratto dalle due prestazione corrispettive, consistenti nel trasferimento della proprietà dell’automobile e nel pagamento del prezzo; l’oggetto delle prestazioni, rispettivamente, dall’automobile e dalla somma di danaro». L’A., a noi pare perfezioni la già ottima teoria formulata da G. Osti, voce Contratto, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 503 e 504, in tema di oggetto “immediato” e oggetto “mediato” del contratto (distinzione già attentamente lumeggiata, sotto l’egida del Codice Pisanelli, da G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, vol. III, Fonti delle obbligazioni – Contratti, Firenze, 1907, VII ed., 379

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Marco Ramuschi

di una parte (oggetto mediato), non si può consentire la conversione del contratto, giacché, nonostante esso possa, in generale, sì rispettare il necessario rapporto di continenza72, contenendo tutti i requisiti di sostanza (tra cui l’oggetto: ebbene, per amor del vero, affermiamo come non vi sia alcun strumento contrattuale, nel nostro ordinamento, che possa contenere, come oggetto, la rinunzia ad un diritto successorio futuro)73 e di forma di un altro contratto74, ciò, comunque, non purificherebbe l’illiceità del contratto, la quale

ss., n. 283 ss.). Prende spunto dalla teoria dell’Osti, Cass., 9 novembre 2012, n. 19509, in Corr. giur., 2013, 4, 463, con nota adesiva di E. Gabrielli, Vendita di opera d’arte, violazione dell’impegno traslativo e nullità del contratto per illiceità del suo oggetto. Sull’oggetto del contratto, per una breve, ma esaustiva, spigolatura di talune dottrine, v. A. Cataudella, op. cit., 37. 72 V. Franceschelli, Conversione del negozio nullo, cit., 378. V. anche Cass., 23 luglio 2010, n. 17279, cit.; Cass. 5 marzo 2008, n. 6004, cit. 73 Conversione che nel caso in cui la nullità, per contrasto con una norma imperativa, colpisca la «prestazione concordata», sarebbe, secondo V. Roppo, op. cit., 809, da ammettersi, poiché, scrive l’A., si potrebbe dedurre in seno al contratto una «prestazione rimodellata, che sia al tempo stesso consentita dalla legge e idonea a realizzare l’originario programma contrattuale» (cfr. altresì L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 377). Orbene, posto che la conversione di un contratto illecito non è per noi ammissibile, a nostro sommesso parere l’affermazione del Roppo genera qualche riserva, atteso che deve sussistere, per il caso di conversione, il rapporto di continenza tra il contratto da convertire (scilicet: il contratto nullo) e il “nuovo” contratto. Più precisamente, dovendo essere eguali i requisiti di sostanza (oltreché di forma) che i due contratti debbono possedere, è altresì, in linea generale, uguale l’oggetto di entrambi i contratti (G. Mirabelli, op. cit., 396; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, XIX ed., 1005). In seno all’oggetto del contratto, nonostante le varie opinioni divergenti (per la cui spigolatura v. A. Cataudella, op. cit., 36 e 37), noi riteniamo si debba comprendere anche il contenuto che le parti hanno inteso inserire nel contratto, ché escludere il contenuto dal novero dei requisiti di siffatto negozio giuridico è una scelta assai azzardata, atteso che un contratto privo di contenuto non è affatto configurabile (A. Cataudella, op. cit., 36 s.). Con la conversione sostanziale del contratto, dunque, agendo essa sul piano strutturale, e dovendo avere i due contratti, si ripete, i medesimi requisiti di sostanza (quindi, come testé detto, anche lo stesso oggetto e indi lo stesso contenuto), a nostro parere il nuovo contratto non viene “depurato” di alcunché: semplicemente, si dovrà ricercare un «diverso» contratto che possa contenere, senza sfociare nell’invalidità, quanto inserito nel primo negozio, di modo da poter raggiungere lo scopo perseguito dalle parti (là dove i paciscenti avrebbero voluto quel diverso contratto, nel caso in cui fossero stati a conoscenza della nullità: cfr. almeno Cass., 23 luglio 2010, n. 17279, in Foro it., 2011, 12, 3402; Cass., 5 marzo 2008, n. 6004, in Foro pad., 2010, 1, 21, con nota di L.F. Mancuso, Conversione del negozio nullo ed elemento soggettivo). I due negozi, quindi, devono essere funzionalmente omogenei, dovendo essi mirare alla realizzazione degli stessi interessi, sempre, chiaramente, tenendo conto dello scopo che le parti hanno inteso perseguire. Per migliore intelligenza, si pensi, ad esempio, alla conversione di un contratto di edizione a termine in un contratto di edizione per edizione: ci sarà conversione solo col necessario rapporto di continenza tra i due contratti, per cui, nella specie, il contratto di edizione a termine dovrà contenere gli elementi richiesti per il contratto di edizione per edizione, come, ad esempio, giusta l’art. 122, co. 3, Legge 22 aprile 1941, n. 633, l’indicazione del numero delle edizioni e il numero degli esemplari di ogni edizione. Se così è, la conversione non incide affatto sul contenuto contrattuale, ma rileva unicamente sul piano esterno, strutturale: in altri, e forse più semplici, termini, noi riteniamo che la conversione permetta in generale (fatto salvo il caso, appunto, d’illiceità) di realizzare lo scopo voluto dalle parti anche nel caso in cui il contratto originariamente stipulato sia nullo (carente dei requisiti, o con taluni di questi colpiti da vizio, previsti dal modello legale stabilito, a monte, dal legislatore). Se, ritornando ad esempio al contratto di edizione a termine, le parti non abbiano indicato il numero minimo di esemplari per ogni edizione, il contratto, giusta l’art. 122, co. 5, L. n. 633/1941, è nullo. Tuttavia, come rilevato anche da Cass., 23 luglio 2010, n. 17279, cit., l’assenza del numero minimo di esemplari per ogni edizione non è prevista per il contratto di edizione per edizione, per cui, sempre tenendo conto dello scopo perseguito dalle parti, potrebbe ammettersi la conversione del contratto per edizione a termine in un contrato di edizione per edizione, nel quale, aggiungiamo noi, potrà essere ricompreso il regolamento contrattuale già stabilito dalle parti nel precedente contratto nullo. Per concludere – con la speranza di non essere risultati eccessivamente prolissi, ma di essere stati, invece, quantomeno chiari circa il nostro punto di vista, di primo acchito forse non d’immediato intelletto – possiamo dunque affermare come il “rimodellamento” della prestazione debba essere inteso come una traslazione del contenuto del contratto nullo in un diverso contratto che, attesi i princìpi posti alla sua base e stante le sue caratteristiche previste dallo schema legale tipico, non sia passibile di nullità (invero, la mancata indicazione del numero minimo di esemplari comporta la nullità del contratto di edizione a termine, ma non già del contratto di edizione per edizione: ciò, a dimostrazione di una regola più generale, secondo la quale non ogni regolamento contrattuale è inseribile in seno a qualsivoglia schema negoziale: la conversione, dunque, interviene sì per rimodellare, ma, a noi pare, solamente lo schema negoziale, entro il quale potrà validamente essere inserito il contenuto stabilito ab origine dalle parti). 74 L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 238 ss. e 319 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 508.

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Giurisprudenza

“trasmuterebbe” in quello «diverso»75. In seno al diverso contratto, in altre parole, verrebbe a trovarsi la prestazione76 colpita da nullità, determinando, dunque, un’ulteriore nullità contrattuale77. Là dove, poi, si propendesse per la conversione non in un contratto, bensì in un atto unilaterale (escludendo, quindi, solo la prestazione colpita da nullità78), si urterebbe contro il muro del dettato normativo: l’art. 1424 c.c., infatti, prevede solamente la conversione in un altro contratto (quindi, negozio bilaterale79), e non anche in un negozio unilaterale80. Affermato ciò, riteniamo necessario effettuare una breve digressione in merito ad una ulteriore e maggiormente condivisibile ipotesi interpretativa (la quale, beninteso, ci permetta sempre di anelare al suddetto principio di conservazione), che si distingue nettamente dalla conversione del contratto81: l’applicazione82 dell’art. 141983, co. 1., c.c.84, il

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Cfr. L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 242. Nel nostro caso, l’oggetto mediato della transazione. Cfr. pure G. Mirabelli, op. cit., 127. Si veda L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 239, che, nei requisiti di sostanza (richiesti dall’art. 1424 c.c.), giustamente ebbe a collocarvi anche l’oggetto (v. anche supra, nt. 73). Già G. Osti, op. cit., 504, discorrendo di “oggetto illecito” (come “oggetto mediato” illecito, con riferimento alla prestazione) richiamò, quale esempio, la rinunzia, dedotta in un contratto, ai diritti che potranno derivare da una successione non ancora apertasi, atteso il disposto dell’art. 458 c.c. 77 Cfr. V. Franceschelli, Conversione del negozio nullo, cit., 377. V. anche L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 536 che esclude la conversione ove l’illiceità riguardi l’oggetto (nel nostro caso, mediato) del contratto. 78 Si scruti, per un’eventuale ipotesi in tal senso, R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1517. 79 S. Pugliatti, op. cit., 191. 80 Esprime dubbi su questa possibilità, da noi comunque sostenuta, V. Roppo, op. cit., 808. In giurisprudenza, nel nostro stesso senso, v. Cass., 29 novembre 1986, in Foro it., 1987, I, 805 ss. (e anche in Giur. it., 1987, 1, 1828; in Riv. not., 1987, 4-5, 836); Cass., 15 luglio 1983, n. 4827, in Riv. not., 1, 245; Cass., 11 ottobre 1980, n. 5451, in Giust. civ., 1982, 7, 1893, con nota di M. Nuzzo, Note sulla conversione dei negozi giuridici. 81 La conversione, difatti, operando prettamente dall’esterno, prevede la sostituzione di un nuovo contratto (con identico oggetto al contratto sostituito) con quello colpito da nullità. La nullità parziale, invece, non sostituisce affatto tutto il negozio, ma chirurgicamente ne amputa solo una parte, ossia quella colpita da nullità, lasciando quindi in vita la parte sana del contratto. Con ciò, dunque, non si sostituisce nessun nuovo contratto a quello precedente (così come avviene, invece, per l’ipotesi di conversione sostanziale pura). In questi termini, v. anche L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 275. Adde G. Criscuoli, op. cit., 280-286. Non si conviene, dunque, con quanto sostenuto da G. Gandolfi, Nullità parziale e dimensione ontologica del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 4, 1065, in tema di art. 1424 c.c. 82 C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 27 e 330; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 88 ss.; Id., Disposizioni generali sulle successioni, cit., 108; R. Tommasini, op. cit., 901. V. inoltre: G. Stolfi, op. cit., 62; F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 438; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 615; R. Sacco, voce Nullità e annullabilità, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XII, Torino, 1995, 300 e 301; Id., Le invalidità, in AA.VV., Tratt. dir. priv., cit., 614 e 615; V. Franceschelli, Nullità del contratto, cit., 81 e 83 Per una magistrale trattazione della disposizione in commento, rinviamo a G. Criscuoli, op. cit. L’A. (ivi, 113) rilevò, limpidamente, come la previsione della validità parziale del negozio giuridico si armonizzi «perfettamente con i principi generali del negozio giuridico stesso ed in particolare con quelli dell’autonomia privata, dei suoi limiti, delle sanzioni che li tutelano e della particolare funzione dell’ordine giuridico rivolta alla valutazione della rilevanza sociale delle fattispecie negoziali ed al loro riconoscimento come precetti normativi vincolanti». Terse ed essenziali sono le parole di G. Mirabelli, op. cit., 383 s.: «Nel caso di nullità parziale […] il contenuto viene, quasi materialisticamente, diviso, sì da poterne discernere le parti colpite da nullità e quelle che rimangono valide». 84 Anche l’art. 1419 c.c. è manifestazione del più ampio principio di conservazione del negozio giuridico, permeante, come supra affermato, il nostro intero ordinamento. Cfr.: L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 269; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 395; G. Mirabelli, op. cit., 383; G. Criscuoli, op. cit., 66, 103-115 e 281; F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 270 s. e 438; Id., Il contratto in genere, t. 2, cit., 175; L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 537; E. Zerella, op. cit., 384 e 385; F. Carresi, Dell’interpretazione del contratto, cit., 111; P. Rescigno, op. cit., 362 e 713; F. Galgano, sub art. 1419, in AA.VV., Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Della simulazione. Della nullità del 76

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quale, prevedendo la possibile nullità parziale85 del contratto, ci consentirebbe, eventualmente86, di far sopravvivere la concessione effettuata dal fratello Caio87. Il patto successorio, difatti, potrebbe in questo caso essere inteso come contenuto in una più ampia convenzione88 (l’accordo di transazione), dimodoché la corresponsione della somma di danaro, nonché il riconoscimento di talune proprietà immobiliari in favore di Tizia, potrebbero essere fatti salvi89. A tal riguardo, si rileva che per stabilire se venga meno la sola parte90 colpita da nullità oppure l’intero contratto91, sarà giocoforza individuare la volontà92 dei paciscenti, al fine di stabilire se, nella loro intenzione, il patto successorio rappresentasse una condicio sine qua non della stipulazione del contratto; solo in ipotesi affermativa, di poi, sarà possibile pronunziare la nullità dell’intero contratto transattivo93.

contratto. Dell’annullabilità del contratto. Art. 1414-1446, Bologna-Roma, 1998, 144; Id., Il negozio giuridico, cit., 351; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 639; R. Sacco, Le invalidità, in AA.VV., Tratt. dir. priv., cit., 615; Id., Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1510 e 1512; P.M. Putti, Le nullità contrattuali, in AA.VV., Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. III, Obbligazioni, II, Il contratto in generale, Milano, 2009, 932 ss. V. inoltre: S. Pugliatti, op. cit., 217 s.; E. Betti, voce Conversione del negozio giuridico, cit., 811; A. Fedele, op. cit., 105 (ma anche 109 s.), i quali, a ragione, rannodarono la nullità parziale al principio utile per inutile non vitiatur (v. anche infra, nt. 126). Nella giurisprudenza di merito, cfr. almeno: Trib. Bari, 17 maggio 2016, n. 2714, in Banca dati DeJure; Trib. Roma, 4 gennaio 2012, n. 157, in Banca dati DeJure. In quella di legittimità, Cass., 21 novembre 2011, n. 24476, in Banca dati DeJure, nonché Cass., 21 maggio 2007, n. 11673, in Banca dati DeJure e in Contratti, 2007, 8-9, 791 ss.; Cass., 22 febbraio 1947, n. 252, in Giur. Cass. civ., 1947, 10. 85 V. almeno, limpidamente, L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 364 ss., spec. 369; F. Messineo, Il contratto in genere, t. 2, cit., 175 ss.; A. Cataudella, op. cit., 406-409. 86 La nullità di una singola parte del contratto, invero, «altera l’equilibrio» dello stesso, giacché i sacrifici ed i vantaggi non sono più ripartiti, tra i paciscenti, come in origine essi avevano programmato: V. Roppo, op. cit., 812. 87 Cfr., en passant, L. Mosco, La conversione del negozio giuridico, cit., 271. 88 L. Ferri, Successioni in generale, cit., 88; Id., Disposizioni generali sulle successioni, cit., 108. Cfr. altresì: C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 27; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 100; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 214. 89 Sul punto, potrebbe giovare il richiamo, benché sintetico, alla differenza tra clausole principali e clausole accessorie del contratto (si badi: noi riteniamo di convenire con G. Criscuoli, op. cit., 60 s., ove afferma come non vi sia differenza fra la nullità parziale del contratto e la nullità di singole clausole, poiché la nullità di singole clausole importa anch’essa nullità parziale, essendo pur sempre la clausola una parte del negozio; contra A. Cataudella, op. cit., 406, nt. 52). Le prime possono essere individuate in quelle clausole da cui affiora «l’interesse fondamentale programmato dalle parti», mentre le seconde sogliono individuarsi in quelle da cui emergono interessi ulteriori, nonché coordinati, con quelli fondamentali: R. Tommasini, op. cit., 902. È comunque intuitivo, al riguardo, come non sia sempre agevole individuare la natura dell’una o dell’altra clausola, giacché nell’insieme dell’assetto negoziale posto in essere dalle parti gli interessi sono spesso collegati in modo tale da non consentirne una rapida e chiara separazione, al fine d’individuare l’eventuale sopravvivenza di alcune clausole, oppure di altre (cfr. anche Id., ibidem). 90 Vale a dire una porzione del contenuto negoziale (G. Criscuoli, op. cit., 184). 91 Cfr. F. Messineo, Dottrina generale del contratto, cit., 438. 92 In tal caso, subentrerebbero i generali princìpi d’interpretazione del contratto (v., a ragione, A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 385 e G. Criscuoli, op. cit., 67 e 231 ss.). Sul punto, inoltre, v. almeno: G. Stolfi, op. cit., 223 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 729 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 329 ss.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 466-471; A. Burdese, Manuale di diritto privato italiano, Torino, 1974, 422 ss.; F. Carresi, Il contratto, t. 2, cit., 499 ss.; Id., Dell’interpretazione del contratto, cit.; M. Costanza, voce Interpretazione dei negozi di diritto privato, in Enc. dir., X, Milano, 1993, 25 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 467 ss.; V. Roppo, op. cit., 439 ss. Adde C. Grassetti, voce Interpretazione dei negozi giuridici “inter vivos” (diritto civile), cit., 906. V. anche, in generale, S. Pugliatti, op. cit., 230 ss. Per un’esemplare disamina dei princìpi d’interpretazione dei negozi giuridici, rimandiamo all’opera di L. Mosco, Principi sulla interpretazione dei negozi, Napoli, 1952, spec. 89 ss. 93 L. Ferri, Successioni in generale, cit., 88 s.; Id., Disposizioni generali sulle successioni, cit., 108. V. anche: G. Stolfi, op. cit., 62 s.; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 27; R. Tommasini, op. cit., 903. La valutazione della volontà delle parti, beninteso, deve effettuarsi con riferimento al momento della conclusione del contratto, e non già al momento d’instaurazione del giudizio. Vedasi, al riguardo, R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1510. V. altresì V. Franceschelli, Nullità del contratto, cit., 164 ss.

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Giurisprudenza

A parere di chi scrive, quest’ultima ipotesi esegetica, con riferimento al caso di specie, genera più di qualche riserva, ché, attesa la natura sinallagmatica94 del contratto di transazione, col venir meno, a causa della propria invalidità, di una concessione95 fatta da una parte, anche il necessario (cfr. l’art. 1976, il quale discorre di «Risoluzione della transazione per inadempimento») rapporto sinallagmatico96 tra le reciproche concessioni97, di conseguenza, cesserebbe d’esistere98. È noto, per vero, come le reciproche concessioni99 fatte dalle parti, in seno ad un contratto di transazione, rappresentino un elemento causale100

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Sulla corrispettività, o, per meglio dire, sul sinallagma del contratto di transazione, vedasi anzitutto – seppur sotto l’egida del Codice civile del 1865, ma è fuor di dubbio che quanto affermato dall’A. valga anche per la transazione oggidì prevista dal vigente Codice civile – A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 11, 16, 23 e 46, ad avviso del quale, «la transazione è un contratto sinallagmatico perfetto […]»; N. Stolfi, Diritto civile, vol. IV, I contratti speciali, cit., 400. V. inoltre: R. de Ruggiero - F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. II, Diritti di obbligazione e contratti. Tutela dei diritti, Milano-Messina, 1955, VIII ed., 444; P. D’Onofrio, op. cit., 222 e 223, che, in modo secco, affermò: «senza le reciproche concessioni non vi è transazione»; F. Santoro - Passarelli, La transazione, cit., 204, ivi, 206 ss.; E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 824; A. Palazzo, voce Transazione, cit., 389 s.; M. Franzoni, op. cit., 111 ss., il quale, giova notarlo, ragionevolmente afferma (ivi, 113) come nonostante sia noto l’altro requisito della transazione, ossia l’onerosità, una delle reciproche concessioni potrebbe comunque consistere in una mera rinunzia (come, appunto, nel caso di specie); E. del Prato, La transazione, cit., 27; F. Arangio, op. cit., 7 e 8; C. Cicero, La transazione, cit., 24 ss., il quale, limpidamente, afferma (ivi, 26) come le reciproche concessioni debbano essere intese «come due attribuzioni patrimoniali […] legate da nesso di causalità e riferibili a diritti dei quali le parti si sono attribuite reciprocamente, mediante l’accordo transattivo, la facoltà di disporre»; G. Sciancalepore, op. cit., 6. Adde: R. Miccio, op. cit., 454; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 691; A. Burdese, Manuale di diritto privato italiano, cit., 557 (ma anche 558), che, seccamente, affermò come il contratto di transazione sia un «contratto a prestazioni corrispettive […] in funzione delle concessioni reciproche tra le parti». Escluse, recisamente, la corrispettività della transazione, F. Carresi, Concetto e natura giuridica della transazione, cit., 413 s., 415 e 417; Id., voce Transazione (diritto vigente), cit., 485. In giurisprudenza v., ex plurimis, Cass., 27 giugno 1990, n. 6546, in Banca dati DeJure e in Vita not., 1990, 1, 533. 95 Già tempo addietro vi fu chi rilevò come la clausola (più propriamente, nel nostro caso, la parte) del contratto colpita da nullità (nella specie, la concessione) infici, a sua volta, l’intero contratto, allorquando essa si riferisca ad un elemento cardine del negozio giuridico dentro al quale la clausola (parte) è inserita, o quando vi sia, tra la clausola (parte) e le altre pattuizioni inserite nel negozio, una connessione tale per cui non possano considerarsi le une senza le altre: così, tersamente, C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 27 s. (ma v. anche 330: «la nullità della clausola non si comunica all’intero atto se la rinunzia non ha valore essenziale e determinante nella formazione del consenso»). Quanto affermato, a ben vedere, si confà al nostro caso, giacché, come già riferito, non è integrabile un contratto di transazione senza reciproche concessioni (cfr. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. V, cit., 227). 96 A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 46. Più in generale, v. anche G. Osti, op. cit., 491. Cfr. eziandío F. Delfini, Autonomia privata e contratto. Tra sinallagma genetico e sinallagma funzionale, Torino, 2019, III ed., 9. 97 A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 46 e 51, il quale (ben) osservò come l’entità dei reciproci sacrifici che i paciscenti sono disposti a sostenere non debba essere, necessariamente, di «eguale importanza o valore», dacché «riesce impossibile proporzionare i vantaggi ottenuti dall’uno con quelli conseguiti dall’altro […]». Adde C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 109 s.; Ruggeri, op. cit., 19. Coglie il vero P. D’Onofrio, op. cit., 228, allorquando affermò come «Ove si cancelli il requisito in parola [alias: le reciproche concessioni], la transazione perde il suo carattere autonomo e viene meno il fondamento e la ragione di essere di molte altre norme che la regolano, senza alcun vantaggio per la vita pratica del diritto». Per una profusa, attenta e ficcante discettazione sulle reciproche concessioni, v. E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 214 ss. 98 Nella fattispecie, ove si aderisca alla nullità parziale del contratto di transazione, ben si potrà sostenere come la nullità, in tal caso, «investa lo specifico contenuto di una prestazione [alias: di una concessione]»: così, R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1517. 99 La mutua concessione, come elemento caratteristico della transazione, è «riconosciuto ed ammesso dalla scienza, dalla storia e dalla legislazione»: così, seccamente e tersamente, A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 49 (ma v. anche 48). 100 Sul concetto di causa, in generale, v. almeno quanto scritto da P. Rescigno, op. cit., 333 ss. e F. Santoro - Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 127 e 172.

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(da un angolo visuale meramente funzionale)101 caratteristico102 dello stesso contratto103, elemento che, allorquando una delle concessioni, come nel caso de quo, venga colpita da nullità, verrebbe, perciò, a mancare104. Ora, in questo ordine d’idee, è d’uopo domandarsi se la mancanza di tale elemento possa comunque determinare una nullità parziale del contratto di transazione, ex art. 1419 c.c., oppure la sua definitiva nullità105. Sul punto, potrebbe essere facile confondere il presupposto delle reciproche concessioni, necessario per integrare la vera e propria causa transattiva106, con le prestazioni di cui si compongono le medesime107. Il presupposto e le prestazioni, giova notare, sono comunque posti in un rapporto di necessaria interdipendenza, dacché, nel caso di nullità di una concessione (come nella fattispecie), verrebbe, indi, a difettare anche la reciprocità

Seccamente, rannodò le reciproche concessioni allo schema causale del negozio transattivo R. Miccio, op. cit., 458. La causa del negozio transattivo (che è, a ben vedere, un contratto nominato) può bensì essere individuata nella funzione del negozio stesso, vale a dire nella composizione della lite mediante reciproche concessioni. In questo senso v., in dottrina: F. Carnelutti, Sulla causa della transazione, cit., 575 («la causa della transazione può definirsi come la composizione della lite mediante una parziale [ed eventualmente, perché no, totale] rinunzia alle reciproche pretese»), 576 e 583; Id., La transazione è un contratto?, cit., 185 e 186; A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 23; F. Carresi, La natura giuridica della transazione, cit., 158; F. Santoro - Passarelli, La transazione, cit., 91 e 201 ss.; E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 228; E. del Prato, La transazione, cit., 2; M. Franzoni, op. cit., passim; C. Cicero, voce Transazione, cit., 1061; I. Riva, La transazione invalida, Padova, 2012, 26. Adde: E. Gropallo, La natura giuridica della transazione, cit., 373; P. D’Onofrio, op. cit., 227 e 228; Fr. Vassalli, op. cit., 156; e, per una veduta d’insieme, G. Sciancalepore, op. cit., 11. V., nella giurisprudenza di legittimità: Cass., 24 gennaio 1979, n. 536, in Rass. giur. Enel, 1979, 3, 614 ss., nonché Cass., 11 febbraio 1978, n. 624, in Vita not., 1978, 1, 481 ss.; nella giurisprudenza di merito v., più di recente, Trib. Arezzo, 6 marzo 2018, n. 266, in Banca dati DeJure. S’espresse in modo differente (peraltro, con tono eccessivamente ruvido; v. supra, nt. 59) C. Furno, op. cit., 462. 101 E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 228. 102 Sul punto, mutuando le accorte parole di A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 51, ben si può affermare come il nostro codificatore – circa la reciprocità delle concessioni, stante il terso dato normativo di cui all’art. 1965, co. 1, c.c. – sia stato «categorico e formale». 103 E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 228; E. del Prato, La transazione, cit., 28; Id., La transazione, cit., 28 e 75 (ove l’A. scolpisce la differenza, nell’àmbito delle prestazioni corrispettive, tra funzione e contenuto del contratto di transazione); M. Franzoni, op. cit., 24; A. Palazzo, La transazione, cit., 387 s.; G. Sciancalepore, op. cit., 20. 104 Sulla necessaria reciprocità delle concessioni, si veda, fra le altre, Cass., 25 ottobre 2013, n. 24169, in Banca dati DeJure e in Giur. it., 2014, 1, 34, con nota di I. Riva, Sui presupposti per una valida transazione. In dottrina, v. almeno, più di recente, L. Ruggeri, op. cit., 21. 105 Cfr. F. Carresi, La transazione, cit., 198, ad avviso del quale, «La transazione può essere nulla per vizi afferenti alla causa […]». 106 Cfr. C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, cit., 114. 107 È dunque da ritenersi preferibile quanto formulato, in maniera ficcante, da M. Franzoni, op. cit., 132 ss., spec. 132 s., il quale provvede a distinguere fra «oggetto immediato della transazione», rinvenibile nella «res litigiosa, intesa come cosa o comportamento conflittuale su cui le parti disporranno», e «oggetto mediato», il quale è rappresentato dalle prestazioni di cui si compongono le reciproche concessioni. L’A. muove da quanto sostenuto, come già evidenziato supra in nt. 71, da G. Osti, op. cit., 503 e 504 e da G. Giorgi, op. cit., 379 ss., n. 283 ss.). V. inoltre F. Carresi, voce Transazione (diritto vigente), cit., 495, il quale provvide a distinguere l’oggetto del contratto, costituito dal rapporto originario, vale a dire la res litigiosa, dal contenuto dello stesso, costituito «da ciò che le parti statuiscono al fine di accertare tale situazione e metterla, come si suol dire, “fuori contestazione”». V. altresì Id., La transazione, cit., 137. Rispetto al linguaggio utilizzato dal Carresi, solleva qualche dubbio M. Franzoni, op. cit., 133 (nt. 175). Altrettanto avvalorabile, per gli stessi motivi, è quanto avvertito da E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), cit., 842, ad opinione del quale, una nota omogenea, «idonea a ricomprendere l’aspetto oggettivo tanto nella transazione pura quanto di quella cosiddetta complessa o mista», è individuabile «nelle prestazioni in cui consistono le reciproche concessioni, cioè nei diritti di cui si dispone» (i quali, dunque, rappresentano l’oggetto della transazione). V. di nuovo, sempre in questi identici termini, Id., La transazione, cit., 75. V. inoltre: D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 685; E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, cit., 309, il quale provvide a differenziare l’oggetto della transazione, a seconda ch’essa sia semplice o complessa. Per un’oculata visione d’insieme, si consulti G. Sciancalepore, op. cit., 10-13.

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Giurisprudenza

predetta; dunque, a rigore e in punto di diritto, potrebbe affermarsi che anche la causa del negozio verrebbe meno, sì da determinare la nullità dell’intero contratto di transazione108. È da rilevare, altresì, come nei contratti a prestazioni corrispettive109 il venir meno del sinallagma genetico generi la caducazione dell’intero contratto110. Occorre evidenziare, inoltre, come taluni potrebbero comunque essere intenzionati a qualificare diversamente il contratto, dacché non si può a priori escludere che le parti, mediante siffatto contratto, abbiano costituito un vincolo giuridico contrattuale di altra natura111. In particolare, col venir meno di una parte del negozio (alias: di una concessione), il contratto è sì parzialmente nullo, ma potrebbe essere qualificato in altro modo112, là dove si dimostri che le parti, anche in assenza della concessione di Tizia, avrebbero113 comunque voluto114 stipulare il contratto (si argomenta, a contrario, dall’art. 1419, co. 1, c.c., e si dà rilievo, dunque, alla così detta volontà ipotetica115), il quale, si ripete, dovrebbe però “ri-qualificarsi”116. Più precisamente, nel caso in cui, in seno al contratto di transazione, emerga l’insussistenza delle reciproche concessioni, codesto negozio non potrà più ritenersi integrante una transazione, essendo esso, a rigore, nullo per difetto di causa117; tuttavia, il contratto che manchi di tale causa potrebbe, secondo taluno118, essere ricondotto ad altro genere.

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«Quando manca la causa, la transazione, come ogni altro contratto, è senza effetto»: così, A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 25. V. anche F. Santoro - Passarelli, La transazione, cit., 308 s. Adde Id., Dottrine generali del diritto civile, cit., 245. 109 A. Cataudella, op. cit., 216. 110 Cass., 28 agosto 1993, n. 9125, in Banca dati DeJure. In dottrina, più in generale, sulla dicotomia fra sinallagma genetico e sinallagma funzionale, v. almeno, di recente, F. Delfini, op. cit., 3-11 s. 111 F. Santoro - Passarelli, La transazione, cit., 117. V. anche M. Franzoni, op. cit., 24 e I. Riva, La transazione invalida, cit., 21 (nt. 36). In giurisprudenza v., per tutte, Cass., 29 marzo 1985, n. 2207, in Giust. civ., Mass., 1985, I, 688. 112 «Difettando […] qualcuno dei requisiti essenziali, il negozio cambia stile e natura. Così se si toglie […] la reciprocità delle concessioni, l’atto perde la fisonomia di transazione, e diviene donazione o altro contratto affine»: così, A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 47 (ma v. anche 53), il quale (ivi, 48) ebbe a sottolineare nuovamente l’importante concetto: «In difetto di una reciproca concessione, il negozio, più che transazione, è conferma o ratifica di un atto, rimessione di un debito, donazione e via». V. anche N. Stolfi, Diritto civile, vol. IV, I contratti speciali, cit., 402 e, più di recente, L. Ruggeri, op. cit., 21. 113 La volontà ipotetica dei contraenti dev’essere valutata nel momento di stipulazione del contratto (cfr. G. Criscuoli, op. cit., 68). 114 Sul punto, ci sia consentita una breve valutazione. L’art. 1419 c.c. discorre di «contraenti», lasciando dunque presupporre che la volontà ipotetica debba necessariamente sussistere per entrambi i paciscenti. Ora, se valutati attentamente i princìpi fondanti la materia contrattuale, si può certamente convenire col fatto che il contratto, giusta l’art. 1325 c.c., debba necessariamente contenere l’accordo delle parti, che «è un quid complesso, risultante dalla combinazione di due distinte manifestazioni di volontà, emananti da due diversi centri di interessi, che si integrano vicendevolmente»: così, G. Criscuoli, op. cit., 118 s. Talché, affermiamo, affinché vi sia la sussistenza dell’accordo, è necessario assolutamente che vi sia la volontà di entrambe le parti: la mancanza della volontà di una parte leva valore giuridico alla volontà dell’altra parte, che, dunque, è priva di rilevanza giuridica. Premesso tutto ciò, affermiamo, come ebbe a dire G. Criscuoli, op. cit., 118 e 120 (ove si rimanda alle brevi considerazioni fatte in materia di legittimo affidamento), che la nullità totale sorge ogniqualvolta venga accertato che il negozio non sarebbe stato concluso, anche da un solo contraente, senza quella parte colpita da nullità. 115 V. Roppo, op. cit., 813; A. Cataudella, op. cit., 407. 116 Cfr. A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 53: «Il difetto di sacrificî reciproci esclude la transazione pur lasciando in vita il negozio, ma con altro nome e con altra funzione e regole che lo governano»; G. Sciancalepore, op. cit., 20. 117 In mancanza delle reciproche concessioni, e, segnatamente, con la presenza di una o più concessioni provenienti da un solo paciscente, verrebbe integrata una transazione unilaterale, la quale, è sin ovvio rilevare, non è ammessa nel nostro ordinamento. Cfr., sul punto, anche M. Franzoni, op. cit., 111. 118 M. Franzoni, op. cit., 120.

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Nel caso in cui vi sia, come nella specie, il riconoscimento di un diritto in favore di una delle parti, il contratto potrebbe essere rannodato al mero riconoscimento di diritto altrui119. È beninteso, inoltre, che, ove si propendesse per l’intera nullità del contratto120, quanto è stato corrisposto in adempimento del contratto di transazione, o, per meglio dire, del patto rinunziativo121, dovrà essere restituito, giusta l’art. 2033 c.c.122. In definitiva, quindi, tenendo conto anche della seconda ipotesi interpretativa123 – la quale, si ripete, a parere di chi scrive sembra essere meno acconcia al caso in commento124 –, toccherà all’interprete valutare se considerare il contratto totalmente nullo oppure solamente parzialmente nullo, anche alla luce del noto principio, già rammentato sopra, per cui la regola è la conservazione del negozio giuridico, attraverso un «processo di riduzione del suo contenuto», e non già la nullità totale125, che, pertanto, rappresenta l’eccezione126.

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In questi interessanti termini v. Cass., 29 marzo 1985, n. 2207, cit., nonché M. Franzoni, op. cit., 120. Vi potrebbe essere, in tal caso, tutt’al più, un negozio di mero accertamento, e non già una transazione (v., almeno, F. Carresi, Concetto e natura giuridica della transazione, cit., 416 s.). Sul negozio di accertamento: E. Minervini, Il negozio di accertamento, in L. Ruggeri - E. Minervini, Contratti transattivi e negozi di accertamento, in Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2016, 185 ss.; Id. Il negozio di accertamento e la transazione, in Riv. not., 2016, 2, 241 ss. Adde R. Miccio, op. cit., 456-458. 120 Giova, a modo di completezza, porre in rilievo come A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, cit., 253, dopo aver ammesso, come già summentovato (v. nt 18), la possibilità di dedurre in transazione diritti futuri, ebbe tuttavia ad escludere la possibilità di transigere su diritti di una successione non ancora apertasi, stante la portata dell’allora vigente art. 1118, co. 2, c.c. del 1865 (speculare, quanto alla rinunzia, al nostro art. 458 c.c.). Qui, tuttavia, l’A. seccamente affermò come la transazione relativa ad una successione futura debba essere considerata inesistente. Noi riteniamo di dissentire, dacché l’inesistenza giuridica presuppone, dogmaticamente, la mancanza di qualsivoglia elemento necessario per far sì che, nel nostro caso, la transazione possa essere definita come tale. Nella fattispecie, invece, la transazione è perfetta, giacché risulta composta da tutti i suoi elementi necessari; semplicemente, è passibile di nullità, stante il contrasto con l’art. 458 (ed, eventualmente, l’art. 557, co. 2, c.c.). 121 In siffatti termini, si vedano: L. Ferri, Successioni in generale, cit., 88; A. Burdese, Le successioni. Parte generale, cit., 100; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 214; G. Capozzi, op. cit., t. I, 43. Contra, L. Balestra - M. Martino, op. cit., 138, i quali ritengono «esclusa, per contrarietà al buon costume, la ripetizione di quanto adempiuto in esecuzione del patto». In giurisprudenza si veda, almeno, Cass., 26 agosto 2002, n. 12474, in Banca dati DeJure (e in Giur. it., 2003, 8-9, 1580 ss., con nota di M. D’Auria, Nullità della donazione privativa della legittima e prescrizione dell’azione di ripetizione: effetti sulla formazione e tutela della quota di riserva), nella quale si desume come dalla nullità di un contratto contenente un patto successorio rinunziativo derivi il diritto, delle parti, di ottenere quanto corrisposto al rinunziante in esecuzione del patto, giusta i princìpi in materia di «indebito oggettivo», atteso che non si può a priori riconoscere, a tali attribuzioni, natura liberale, essendo necessario indagare con precisione da quali elementi è desumibile l’animus donandi, nonché verificare il rispetto dei «requisiti di forma previsti per un atto di liberalità». 122 V. Franceschelli, Nullità del contratto, cit., 58. Non si conviene, al riguardo, con l’interpretazione dell’art. 2033 c.c. che prospettò G. Stolfi, op. cit., 69. A noi pare che l’art. 2033 c.c. trovi pacifica applicazione anche allorquando vi sia un rapporto, specifico, tra colui che ha pagato e colui che ha indebitamente ricevuto, giacché il tenore letterale della norma non respinge affatto siffatta possibilità. In altri termini, anche allorquando vi sia un rapporto tra le parti, per esempio un contratto, come nel nostro caso, non è da escludersi l’eventuale indebito: basti pensare all’art. 1463 c.c., in cui l’impossibilità sopravvenuta di una prestazione obbliga la parte, nei cui confronti è sórta tale impossibilità, a restituire quanto abbia già ricevuto (ex art. 2033 c.c.). Qui il sinallagma sussiste, ma l’impossibilità sopravvenuta, come detto, genera la ripetizione di quanto (indebitamente) ottenuto. 123 Affiorante, si ripete, da quanto sostenuto da L. Ferri, Successioni in generale, cit., 88 ss. 124 Per i motivi che diremo a breve, infra. 125 Così, L. Bigliazzi - Geri, voce Conversione, I, Conversione dell’atto giuridico, cit., 537. 126 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 486; G. Criscuoli, op. cit., 120; F. Galgano, sub art. 1419, cit., 146; Id., Il negozio giuridico, cit., 353; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 246; V. Franceschelli, Nullità del contratto, cit., 159 ss.; R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1512. Nella giurisprudenza, fra le altre, si vedano, nel senso dell’eccezionalità della nullità totale: Cass., 19 luglio 2002, n. 10536, in Banca dati DeJure; Cass., 29 maggio 1995, n. 6036, in Banca dati DeJure e in Vita not., 1996, 1, 215; Cass., 3 febbraio 1995, n. 1306, in Banca dati DeJure e in Giur. it., 1996, 1, 252. È la rilevanza, in seno al nostro ordinamento, dell’utile per inutile non vitiatur, ovverosia il riflesso del noto principio di conservazione del negozio giuridico. V. almeno G. Gandolfi, Nullità parziale e dimensione ontologica del contratto, cit., 1057, il quale, anch’egli, afferma

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Giurisprudenza

Quest’ultima regola, di cui noi, si badi bene, siamo comunque fervidi sostenitori, a nostro parere non può trovare concreta applicazione nel caso di specie, poiché la nullità è relativa ad un elemento essenziale del negozio, vale a dire la concessione di una parte, legata all’altra concessione da un necessario rapporto d’interdipendenza e inscindibilità127. In altri termini, la deduzione, nel contratto di specie, del patto successorio, rappresenta non già una parte negoziale secondaria, ma un elemento principale dell’oggetto (mediato) del negozio transattivo. Sia la parte colpita da nullità, sia la parte valida, concorrono alla realizzazione di un tutt’uno inscindibile: la composizione della lite mediante reciproche concessioni. Talché, la parte nulla, atteso il suo carattere essenziale relativamente alla fisiologia del contratto transattivo (geneticamente sinallagmatico), trascina necessariamente con sé anche la parte valida, la quale, sola, non potrebbe, dunque, sopravvivere128. V’ha, pertanto, da escludere, a nostro avviso, che la parte colpita da nullità rappresenti una prestazione secondaria, o comunque non essenziale per l’economia dell’intero contratto129. Volgendo lo sguardo, poi, al sistema ordinamentale, non sempre il principio di conservazione può trovare piena attuazione. Nel nostro caso, infatti, l’ordinamento ritiene senz’altro prevalente la disciplina legislativa (rispecchiante il divieto dei patti successori)130, rispetto a quella di fonte meramente privata (ovverosia, la eventuale possibilità di una nullità parziale, e, dunque, della conservazione di parte del negozio)131. È chiaro, nondimeno, che allorquando la volontà132 di entrambe le parti viri manifestamente nel senso di mantenere in vita il contratto parzialmente nullo, che sarà certo da qualificarsi in altro

come siffatto principio debba assurgere a «regola, ossia come soluzione che prevale in mancanza di elementi che facciano propendere per la soluzione opposta», ed E. Zerella, op. cit., 385. Adde S. Pugliatti, op. cit., 214. Tale principio, occorre notare, trova persino applicazione in sede di provvedimenti amministrativi: cfr. Cons. Stato, 8 marzo 2017, n. 1100, in Banca dati DeJure; T.a.r. Potenza, 18 ottobre 2012, n. 468, in Banca dati DeJure. In dottrina, v. almeno A. Pace, I limiti dell’interpretazione adeguatrice, nota a Corte cost., 4 luglio 1963, n. 117, in Giur. cost., 1963, 1071. Nella giurisprudenza di legittimità, v. almeno: Cass., 10 novembre 2014, n. 23950, in Banca dati DeJure; Cass., 11 luglio 2011, n. 15214, in Banca dati DeJure e in Contratti, 2011, 10, 910; Cass., 26 giugno 1987, n. 5675, in Banca dati DeJure e in Foro. it., 1988, 1, 170. 127 Cfr. G. Criscuoli, op. cit., 207 e R. Sacco, Le invalidità, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, cit., 1512. Nella giurisprudenza di legittimità: Cass., 26 maggio 2008, n. 13561, in Banca dati DeJure e in Imm. & propr., 2008, 10, 659; Cass., 20 maggio 2005, n. 10690, in Banca dati DeJure; Cass., 19 luglio 2002, n. 10536, cit.; Cass., 29 maggio 1995, n. 6036, cit. Adde: Cass., 22 febbraio 1947, n. 252, cit.; Cass., 12 febbraio 1947, n. 180, in Giur. it., 1947, 1, 42. Nella giurisprudenza di merito: Trib. Torino, 13 novembre 2018, n. 1650, in Banca dati DeJure; Trib. Roma, 4 gennaio 2012, n. 157, cit. 128 G. Criscuoli, op. cit., 207. Nel nostro caso, invero, siamo in presenza di una rapporto d’interdipendenza tra la parte negoziale colpita da nullità e la parte negoziale valida. In giurisprudenza: Cass., 21 maggio 2007, n. 11673 (ma anche Trib. Roma, 4 gennaio 2012, n. 157, cit.). 129 G. Criscuoli, op. cit., 74 s. (nt. 39) e 86 (qui, l’A. giustamente affermò come le norme così dette «limitative», tra cui l’art. 458 c.c., abbiano come regola generale quella di «ricollegare […] la nullità al precetto negoziale contrario ai limiti. Se, pertanto, tali limiti risulteranno violati dall’intero contenuto precettivo negoziale, tutto il negozio sarà nullo, mentre se sarà invalida una sola parte accessoria o secondaria di esso, il negozio sarà nullo solo per questa parte». Le norme limitative, dunque, «non presentano alcun interesse particolare verso l’una [nullità totale] o l’altra [nullità parziale] delle due soluzioni»). V. anche, ivi, 207 s. 130 Arg. art. 458 c.c.: «È […] nullo ogni atto col quale taluno […] rinunzia […]» (il corsivo è nostro). 131 M. Pennasilico, L’operatività del principio di conservazione in materia negoziale, cit., 708 (nt. 17). 132 G. Criscuoli, op. cit., 230.

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modo, questo, per quanto concerne la concessione effettuata da Tizio, rimarrà in vita133. È altrettanto evidente, però, che sia la ragione sia la natura dello stesso contratto di transazione escluderebbero, presumibilmente, una diversa volontà delle parti. Le reciproche concessioni, difatti, sono state poste in essere per forre fine ad una lite: è quindi sin ovvio rilevare che, senza la transazione, la lite non verrebbe meno, e, a nostro avviso, non v’è altro strumento contrattuale, in punto di diritto, che possa realizzare uno scopo di tal fatta. Sicché, lo scopo, che le parti hanno inteso realizzare con la conclusione del contratto transattivo affetto da nullità, potrà essere ottenuto, semplicemente, con il compimento di un nuovo negozio – con funzione transattiva –, distinto ed indipendente da quello nullo134. Marco Ramuschi

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Cass., 10 novembre 2014, n. 23950, cit. Riteniamo doveroso effettuare una breve, ma essenziale, precisazione: rilevò, a ragione, G. Criscuoli, op. cit., 231, che dinanzi al negozio parzialmente nullo l’esistenza di una volontà comune dei contraenti, diretta alla conservazione del contratto, vale a dire ch’essi l’avrebbero concluso anche senza la parte colpita da nullità, «gode della presunzione della legge»: l’interprete, dunque, non dovrà ricercare la predetta volontà, ma solamente rilevare, eventualmente, la volontà contraria. 134 D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 493.

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