- Non disse più niente: se ne andò. Da qualche minuto la faccia del maresciallo era raggelata nella più minacciosa incredulità: da quando la donna aveva mostrato improvviso sgomento. Quello era, secondo il maresciallo, il momento buono per farglielo crescere, lo sgomento: per farle tanta paura da costringerla a dirlo, quel nome o soprannome: che, quant'è vero Dio, lei ce l'ha stampato in mente ce l'ha. E invece il capitano era diventato anche più gentile del solito. «Ma chi crede di essere, Arsenio Lupin?» pensava il maresciallo, nei suoi lontani ricordi di lettore scambiando per poliziotto un ladro - Cerchi di ricordare quella ingiuria - disse il capitano - e intanto il maresciallo sarà tanto gentile da offrirci un caffè. «Anche il caffè - pensò il maresciallo - che non si posse più dare una strigliata giusta, e va bene: ma il caffè poi..», ma disse soltanto - signorsì. Il capitano cominciò a parlare della Sicilia, più bella la dove e più aspra, più nuda. E dei siciliani che sono intelligenti: un archeologo gli aveva raccontato con quale abilità e alacrità e delicatezza i contadini sanno lavorare negli scavi, meglio degli operai specializzati del nord. E non è vero che i siciliani sono pigri. E non è vero che non hanno iniziativa. Venne il caffè e parlava ancora della Sicilia e dei siciliani. La donna lo prese a piccoli sorsi, con una certa eleganza per essere moglie di un potatore. Sorvolando il panorama letterario siciliano, da Verga al Gattopardo, il capitano era andato a posarsi su quella specie di genere letterario, diceva, che erano i soprannomi, le ingiurie: che spesso, acutamente, esprimevano in una parole un carattere. La donna non capiva molto, e nemmeno il maresciallo: ma certe cose che la mente non intende, il cuore le intende; e nel loro cuore di siciliani le parole del capitano musicalmente stormivano. «Ô bello sentirlo parlare» pensava la donna; e il maresciallo pensava «per parlare, sai parlare: meglio di Terracini», che per lui era, idee a parte si capisce, il più grande parlatore che, in tutti i comizi che per servizio gli toccava di sentire, avesse mai incontrato. - Ci sono ingiurie che colgono i caratteri o i difetti fisici di un individuo - diceva il capitano e altre che invece colgono i caratteri morali; altre ancora che si riferiscono a un particolare avvenimento o episodio. E ci sono poi le ingiurie ereditate, estese a tutta una famiglia; e si trovano anche sulle mappe del catasto... Ma procediamo con ordine: le ingiurie che dicono dei caratteri e dei difetti fisici. Le più banali: l'orbo, lo zoppo, lo sciancato, il mancino... Somigliava a qualcuna di queste l'ingiuria che disse suo marito? - No - disse la donna scuotendo la testa. - Le somiglianze: ad animali, ad alberi, a cose... Per esempio, il gatto: per un uomo che ha gli occhi grigi, o qualcosa che lo fa somigliare a un gatto... Ho conosciuto uno soprannominato lu chiuppu, cioè il pioppo, per la stature e per una specie di tremito che lo muove: così mi hanno spiegato... Le cose: vediamo un po', soprannomi per somiglianza a un qualche oggetto. - Conosco uno soprannominato bottiglione - disse il maresciallo - e ha davvero forma di un bottiglione. - Se permette - disse il carabiniere Sposito, per la sue immobilità divenuto come invisibile in quella stanza - se permette posso dirne qualcuna, di ingiurie che sono nomi di cose: lanterna, uno che ha gli occhi scasati come lanterne; peracotta, uno che è fradicio di non so che malattia; vircuocu, albicocca, non so perché, forse perché di faccia inespressiva; ostia-divina, perché ha la faccia tonda e bianca come un'ostia... Il maresciallo tossì con significato: non ammetteva che si facesse allusione scherzosa a persone o cose che in qualche modo avessero a che fare con la religione. Sposito tacque. Il capitano guardò interrogativamente la donna. Lei fece di no più volte scuotendo la testa. Il maresciallo, con gli occhi che tra le palpebre parevano diventati due acquose fessure,
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