Terrorismo umanitario - Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza

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Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 645 5

Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it


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Se confrontata con il nichilismo di un ordine centralizzato, che prevale servendosi dei moderni mezzi di distruzione di massa, l’anarchia può apparire all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rimedio efficace. Carl Schmitt, Der Nomos der Erde, 1950. Le terroriste est en fait un terrorisé. Yadh Ben Achour, Le rôle des civilisations dans le système international, 2003. Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello sollevato dal vento vada a finire negli ingranaggi e ne arresti il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, 1979.


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Terrorismo umanitario Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza

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Introduzione 1. Il terrorismo umanitario delle nuove guerre Quale pacifismo dopo la replica terroristica dell’11 settembre 2001? La guerra universalistico-umanitaria contro l’“asse del male” Il modello della guerra globale: dalla guerra del Golfo alla guerra di aggressione contro l’Iraq La riabilitazione terroristica della guerra Militarismo umanitario Perché il global terrorism è così diffuso e potente? La distruzione del Libano e il “modello Hiroshima” I frutti avvelenati della “guerra umanitaria”e il nuovo interventismo umanitario del presidente Barack Obama

2. La giustizia penale internazionale al servizio delle grandi potenze Luci e ombre della International Criminal Court Accanimento imperiale Processare il nemico sconfitto La pacificazione dei popoli attraverso la giustizia penale internazionale? Carla Del Ponte e la “sindrome di Norimberga” Il processo contro Saddam Hussein: fucilazione o impiccagione?


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La guerra in Libano e il diritto internazionale L’impiccagione di Saddam Hussein per volontà di George Bush Moreno Ocampo: un procuratore bifronte

3. Il terrorismo sionista e il supplizio del popolo palestinese Edward Said: il terrorismo sionista Sionismo, antisionismo e antisemitismo Una sentenza non basta per abbattere il muro di Sharon Per una riconsiderazione storico-politica del terrorismo suicida in Medio Oriente Hamas e il terrorismo in Palestina L’etnocidio del popolo palestinese continua L’etnocidio continua ancora Gli Stati Uniti dishonest broker Due Stati per due popoli? Gaza: lo splendore del supplizio

4. Dulce bellum inexpertis: sulle orme della guerra globale In Afghanistan In Palestina In Colombia In Corea del Nord

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Bibliografia

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Indice dei nomi


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Introduzione

Presento in questo volume una serie di saggi dedicati a tre temi diversi ma strettamente connessi fra loro. Mi occupo anzitutto delle “nuove guerre”, decise nell’ultimo ventennio dalle potenze occidentali dopo il crollo dell’impero sovietico e il rapido sviluppo dei processi di globalizzazione e dell’economia di mercato. In secondo luogo analizzo criticamente la funzione di pacificazione del mondo che le Nazioni Unite hanno inteso attribuire alla giustizia penale internazionale, in particolare ai Tribunali ad hoc e alla Corte penale internazionale. Infine, dedico un’amara riflessione alla “questione palestinese”, che si trascina tragicamente da decenni, a partire dalla auto-proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e sino alla recente strage di Gaza. Si tratta di temi di teoria del diritto e delle istituzioni internazionali che ho tentato di affrontare con obiettività e rigore analitico, senza però rinunciare ai miei “pregiudizi” politici. La certezza di non essere depositario di alcuna verità mi stimola alla riflessione autocritica e nello stesso tempo, nella scia di Norberto Bobbio, mi tiene lontano dal formalismo accademico e dall’indifferenza degli accademici di fronte alle tragedie del mondo. L’ultimo capitolo che raccoglie quattro brevi racconti di viaggio – in Afghanistan, Palestina, Colombia, Corea del Nord – pretende di essere una modesto attestato di questa lontananza. Il titolo del volume – Terrorismo umanitario – può sembrare una formula ermetica o una intollerabile provocazione politica. In realtà il mio intento è di proporre una nozione di

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“terrorismo” che vada oltre gli stereotipi oggi in uso in Occidente. La nozione a cui penso dovrebbe rovesciare la strategia intellettuale di chi applica l’attributo “terrorista” soltanto ai nemici dell’Occidente con riferimento quasi esclusivo alla tragedia dell’11 settembre 2001 e al mondo islamico. Nel mio lessico teorico “terrorismo” assume un significato per molti aspetti diverso e più ampio, come cercherò di chiarire con un certo rigore nel paragrafo conclusivo. Anticipo qui che, dal mio punto di vista, “terrorista” è anzitutto, anche se non esclusivamente, chi scatena guerre di aggressione usando armi di distruzione di massa e fa strage in modo inevitabile, e quindi consapevolmente – spesso di proposito –, di migliaia di persone innocenti, terrorizzando e devastando interi paesi. In questo senso il terrorismo contemporaneo, nelle sue modalità principali, si è sviluppato all’ombra delle “guerre umanitarie” volute dagli Stati Uniti e dai loro alleati a partire dalla guerra del Golfo del 1991 e dalle guerre balcaniche in Bosnia-Erzegovina e in Serbia. Molto probabilmente questa strategia terroristica sta raggiungendo il suo culmine con l’imponente operazione militare “Colpo di spada”, che sta impegnando 4.000 marines nel profondo sud-ovest dell’Afghanistan con l’obiettivo di annientare il movimento Taliban. L’operazione, che si è aggiunta al recente invio di oltre 10.000 soldati statunitensi, è stata decisa e realizzata con eccezionale tempestività ai primi di luglio del 2009 dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. La sua linea di politica estera non sembra per ora allontanarsi da quella del suo predecessore, George Bush. Nonostante il nuovo stile comunicativo e le molte speranze che la sua apertura al mondo islamico ha suscitato, resta il fatto che Barack Obama si dichiara convinto che sarà la forza delle armi a riportare la pace in Afghanistan e nell’intera area mediorientale. Forse è più realistico pensare che questa sia la strada che porta verso nuovi conflitti di ampie proporzioni, destinati a coinvolgere le potenze regionali emergenti nel mondo asiatico se non direttamente alla terza guerra mondiale.

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Il terrorismo di matrice islamica ha ferocemente e tragicamente risposto alle “guerre umanitarie” con l’arma nichilista e disperata del martirio suicida e omicida, cosicché si può sostenere che oggi il terrorismo è di fatto il nuovo tipo di guerra, è il cuore della “guerra globale” che è stata scatenata dal mondo occidentale e ha provocato la replica dei militanti islamici. E il terrorismo che viene dall’est è una delle ragioni profonde del diffondersi nel mondo occidentale dell’insicurezza e della paura, mentre una deriva di frustrazione e di solitudine alimenta una crescente richiesta di protezione e di incolumità individuale, con conseguenze politiche tutt’altro che positive.

1. Il terrorismo degli aggressori A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso si è affermato in Occidente un processo di normalizzazione delle nuove guerre. L’industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi da guerra è del tutto sottratto al controllo della cosiddetta “comunità internazionale”. E l’uso delle armi dipende sempre più dalla decisioni che le grandi potenze prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche. Sentenze di morte collettiva vengono emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. E nel mercato della morte il valore di scambio della vita umana è sempre più diversificato fra le persone ricche e civilizzate, è cioè in massima parte occidentali, e le persone povere e non civilizzate che vivono nel sottosuolo del mondo1. In questi anni le stragi hanno colpito soprattutto civili inermi e indifesi, come è ormai la caratteristica delle nuove guerre, ma hanno anche spento la vita di migliaia di giovani in divisa, impegnati a difendere il proprio paese dall’aggressione straniera. Si è trattato di guerre di aggressione “ineguali”, per usare l’espressione proposta da Alessandro Colombo2, nelle

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1. Il terrorismo umanitario delle nuove guerre

Quale pacifismo dopo la replica terroristica dell’11 settembre 2001? 1. Nelle sue Lettere contro la guerra Terzani scrive che l’11 settembre 2001 è stato per lui una sorta di improvvisa illuminazione morale, una vera e propria epifania: ha capito che è giunto il momento di reagire, di dire no alla barbarie, all’intolleranza, all’ipocrisia, al conformismo, all’indifferenza1. L’11 settembre il mondo è radicalmente cambiato: nulla è più come prima e nulla può ormai essere considerato “normale”. E dunque – ecco l’impellente raccomandazione morale che ne deriva –, dobbiamo cambiare anche noi: fermarci, riflettere, prendere coscienza, provare vergogna per le nostre “vite normali”, divenire operatori di pace. Terzani ha ragione? Il suo pacifismo etico va preso sul serio? La via che sta indicando è, se non la via della pace, almeno una delle vie che possono ragionevolmente portare verso la pace? È sostenibile che la prima condizione della pacificazione del mondo e della sconfitta del terrorismo è la nostra personale conversione alla non-violenza? È proprio vero, come Terzani pretende, che “ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità”? Se vogliamo la pace, dobbiamo dunque liberarci dalle passioni, abbracciando la filosofia della “rinuncia” dei sanyasin indiani? Oppure, al contrario, è giustificato il dubbio che l’appello morale di Terzani non sia molto utile, che esso sia una riproposizione di tematiche gandhiane, riesumate in tempi e in luo-

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ghi tutt’altro che propizi per il profetismo pacifista? La predicazione pacifista finirà per confermare che la filosofia della non-violenza è tanto nobile quanto velleitaria, estranea com’è a qualsiasi possibile iniziativa politica? La “rinuncia” non è forse una scelta esistenziale del tutto incompatibile con la nostra cultura occidentale, oggi più che mai fabbrile, acquisitiva e competitiva? 2. Ci si può chiedere, anzitutto, se è proprio vero che con l’11 settembre il mondo è radicalmente cambiato. È agevole obiettare che c’è un aspetto importante per il quale ciò che è accaduto l’11 settembre si presenta come una conseguenza, largamente prevedibile, di fenomeni internazionali in atto da un decennio: a partire, cioè, dalla fine della guerra fredda, dal crollo dell’impero sovietico e dall’affermazione degli Stati Uniti d’America come la sola, assoluta superpotenza planetaria. L’ultimo decennio del secolo ha visto le potenze occidentali, sotto la guida degli Stati Uniti, impegnate in una politica di potenza che è stata percepita dai paesi non occidentali – soprattutto nel mondo islamico e nell’Asia orientale – come una sfida crescente nei confronti della loro integrità territoriale, della loro indipendenza politica e della loro stessa identità collettiva. In altre parole, è stata percepita come una strategia terroristica di egemonia mondiale. L’intera serie degli interventi armati decisi dagli Stati Uniti a partire dalla guerra del Golfo hanno messo in evidenza il divario crescente fra il potenziale bellico (e quindi economico, scientifico, tecnologico, informatico) di cui dispone la superpotenza americana e quello del resto del mondo. Forse mai nella storia dell’umanità la potenza di un singolo paese è apparsa così soverchiante sul piano politico e così invincibile su quello militare. La “guerra umanitaria” della NATO contro la Federazione Jugoslava, in particolare, ha provocato in paesi come la Russia, l’India e la Cina, rappresentanti quasi i due terzi della popolazione mondiale, un’ondata di allarme e, assieme, un profondo rancore e un desiderio di rivincita nei

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3. Il terrorismo sionista e il supplizio del popolo palestinese

Edward Said: il terrorismo sionista 1. Ho riletto La questione palestinese di Edward W. Said. È un libro molto bello, non meno di Orientalismo, l’opera che lo ha reso celebre1. La questione palestinese è un libro colto, ricco di dati, frutto di una ricerca di prima mano, appassionato. Ma è soprattutto un libro utile: è una delle pochissime “interpretazioni palestinesi” della storia della Palestina di cui la cultura occidentale disponga. Sebbene sia stato scritto circa vent’anni fa – o forse proprio per questo –, il libro offre elementi di riflessione di grande rilievo e di una sorprendente attualità. Ci aiuta a cogliere in profondità le ragioni storiche di ciò che oggi sta accadendo in Palestina: il definitivo fallimento degli accordi di Oslo e della “mediazione” statunitense, l’esplosione della nuova Intifada che ha ormai come obiettivo l’indipendenza di tutto il popolo palestinese, la devastazione di ciò che resta di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme-est dopo trentacinque anni di occupazione militare, lo smantellamento dell’Autorità nazionale palestinese, la strage senza fine di ebrei e di palestinesi innocenti. Capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, anche perché i grandi mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, non ci aiutano. Ignorano o rimuovono deliberatamente le complesse radici del conflitto in atto, affidandosi esclusivamente alle cronache degli inviati speciali o alle dubbie competenze di “esperti” politici o militari, che danno spesso l’impressione di non aver mai messo piede in Palestina.

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Per di più, il riferimento emotivo al tema dell’antisemitismo e dell’Olocausto e una latente ostilità nei confronti del mondo islamico impediscono a molti europei una valutazione razionale delle responsabilità politiche degli attori coinvolti: gli Stati Uniti, Israele, i paesi arabi, le organizzazioni palestinesi. Ciò che a mio parere rende prezioso il contributo di Said è il suo tentativo di ricostruire la “questione palestinese” da un punto di vista palestinese – non genericamente arabo o islamico – e di farlo a partire dagli inizi dell’intera vicenda: la nascita del movimento sionista, l’affermazione della sua ideologia nel contesto della cultura colonialista europea degli ultimi decenni dell’Ottocento, l’avvio del fenomeno migratorio verso la Palestina. E in parallelo Said traccia la storia del popolo palestinese e ne presenta un accurato profilo demografico e sociologico. È da questi elementi che bisogna partire, sostiene Said, se si vuole “capire” la questione palestinese. “Capire”, se si accoglie questo suggerimento metodologico, significa rintracciare la linea di continuità storica e ideologica che lega fra loro una lunga serie di eventi: le prime ondate dell’emigrazione sionista in Palestina, la costituzione dello Stato di Israele, la sua progressiva espansione territoriale, la dispersione terroristica del popolo palestinese, la negazione (non solo israeliana, ma anche araba) della sua identità collettiva, l’occupazione militare di tutte le sue terre, la prima e la seconda Intifada, il terrorismo suicida praticato dal nazionalismo palestinese estremo. 2. C’è un tema cruciale sul quale Said insiste, accumulando un’ampia documentazione e interpretandola con estrema cura filologica. Nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, periodo nel quale le potenze europee, in primis l’Inghilterra, decidevano le sorti della Palestina e incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era un deserto. Era, al contrario, un paese dove viveva una comunità politica e civile composta di oltre seicentomila persone, che dava nome al territorio e che lo occupava legittimamente da secoli.

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4. Dulce bellum inexpertis: sulle orme della guerra globale

In Afghanistan Kabul, ottobre 2004. Communication Officer: con questa qualifica formale, attestata da una carta di identificazione e da un nastro sgargiante che ho tenuto perennemente appeso al collo, Emergency mi ha protetto dai pericoli di un lungo viaggio in Afghanistan. La protezione di Emergency è stata una condizione di sopravvivenza nelle regioni esterne alla capitale, poco urbanizzate e non controllate dalle forze militari degli Stati Uniti e della NATO. In queste regioni gli occidentali sono guardati con un misto di stupore antropologico e di ostilità. I più giovani accorrono a frotte per osservare da vicino le fattezze dello straniero, ridono rumorosamente e a volte tirano sassi. Lo scorso anno le strade del nord e del sud sono state dichiarate “insicure” dopo l’uccisione di un funzionario delle Nazioni Unite e, nel giugno di quest’anno, l’assassinio di cinque membri di Médecins sans Frontières. Accade così che mentre i Land Cruiser di Emergency si muovono in queste aree con relativa tranquillità, tutelati dall’universale rispetto di cui gode l’organizzazione italiana, evanescente è la presenza delle Ong “umanitarie”. Altrettanto si può dire per la Croce Rossa internazionale e per i funzionari delle Nazioni Unite. In compagnia di Gino Strada e di Carlo Garbagnati, vicepresidente di Emergency, ho attraversato il paese dal nord al sud, a partire dalla valle del Panchir, in prossimità del Tajikistan e della Cina, dove svettano i primi contrafforti del Karakorum e dell’Himalaya. Qui, nel villaggio di Anabah, è sta-

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to costruito nel 1999 il primo ospedale di Emergency. Negli anni ottanta questa valle è stata il teatro di scontri sanguinosissimi fra i russi e i mujaheddin tagichi. Il fondovalle è invaso da centinaia di carcasse di carri armati, di mezzi blindati e di armi pesanti di ogni tipo. Gli scontri si sono riprodotti, violentissimi, nella guerra civile fra i mujaheddin, guidati dal “leone del Panchir”, Ahmad Shah Massud, e i Taliban, dopo il ritiro definitivo delle truppe sovietiche nel 1989. Lo scempio di vite umane si è concluso con le stragi provocate, a partire dall’ottobre 2001, dai bombardamenti degli Stati Uniti, che hanno usato bombe sino a sette tonnellate di peso, come la micidiale daisy-cutter, ‘taglia-margherite’. Senza dimenticare le cluster bombs e i proiettili all’uranio impoverito. Il mio viaggio si è concluso nel sud estremo, oltre Kandahar, nella regione dell’Helmand, delimitata dal confine pakistano e da quello iraniano. Qui si concentra l’etnia Pashtun e qui il movimento dei Taliban è tuttora ben radicato. È attribuibile a milizie talibane il gran numero di razzi che nei giorni precedenti le elezioni politiche del 9 ottobre sono piovuti sia nella regione di Kandahar, sia nella capitale. Uno di questi razzi ha centrato l’ambasciata degli Stati Uniti, dove è asserragliato l’ambasciatore Zalmay Khalilzad, a due passi dall’ospedale di Emergency e dalla residenza del suo personale. Sullo sfondo è sempre presente l’ombra del fondamentalismo islamico e del terrorismo. Sarebbe grave ingenuità trascurare che qui, fra deserti rocciosi e alture desolate e impenetrabili, si è sviluppato Al Kaeda e si è annidato Osama Bin Laden. Le pareti di molte trattorie di Kandahar sono pavesate dall’immagine di Manhattan, con al centro le torri gemelle, allusivamente presentate com’erano prima dell’11 settembre. E circolano scatole di caramelle “Super Osama Bin Laden”, con l’effigie del leader terrorista che campeggia sull’involucro esterno. In questa regione, al centro di una vasta area desertica, percorribile solo su piste di sabbia e di sassi, sorge l’oasi cittadina di Lashkar-Gha. Qui, il 12 ottobre, alla presenza di autorità centrali e locali, protette da massicci schieramenti di polizia,

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Emergency ha inaugurato un nuovo ospedale. È il terzo in terra afghana ed è stato dedicato alla memoria di Tiziano Terzani. L’ospedale è un autentico miracolo di efficienza, di solidarietà umana e di coraggio. Non può che suscitare un sentimento di profonda ammirazione. Al salam alekkum: la pace sia con te. È il saluto che gli afghani si scambiano con frequenza, portandosi la mano destra al petto. Anch’io ho imparato a usare questo saluto. Non c’è nulla di più essenziale che si possa augurare ad un uomo o a una donna afghana. Negli ultimi vent’anni circa due milioni di afghani sono morti sotto le bombe, smembrati dalle mine, uccisi dal freddo o dalla fame. Il territorio dell’Afghanistan ospita circa otto milioni di mine antiuomo: i “pappagalli verdi”, come li chiamano i vecchi afghani. Una parte di queste mine sono di produzione italiana: famigerata è la “Valmara 69”, che per anni è stata prodotta, a due passi da Brescia, dall’impresa Valsella, associata alla Fiat. Negli ospedali di Emergency quasi tutti i giorni, ancora oggi, arrivano bambini straziati da mine russe o italiane. Mi è capitato di vederne alcuni, con gli arti inferiori maciullati, i testicoli devastati, spesso con il volto sfigurato e gli occhi spenti. Non c’è emozione più forte per chi conservi un minimo rispetto per la vita e l’innocenza. Una emozione non minore ho provato nel vedere bambini mutilati chiedere l’elemosina accovacciati al centro delle strade più trafficate di Kabul, costantemente esposti ad essere travolti dalle macchine che li sfiorano ad alta velocità. Circa due milioni di afghani sono invalidi e oltre quattro milioni si sono rifugiati in Iran o in Pakistan. Chi è riuscito a rientrare dopo la caduta del regime talibano vive in condizioni di estrema povertà. L’aspettativa di vita degli afghani è una delle più basse del mondo: 47 anni per i maschi, 46 per le donne. Negli indici dello “sviluppo umano”, curati dalle Nazioni Unite, l’Afghanistan è sempre stato nelle ultimissime posizioni. Basta attraversare il centro e la periferia di Kabul per cogliere la tragedia del popolo afghano. Kabul è una città grigia

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e tristissima, coperta da una miscela di polvere e di smog, dovuto alla pessima qualità dei carburanti e alla decrepitezza dei motori. Quello che un tempo era stato il centro della città, circondato da colline e da prati in fiore, oggi offre uno spettacolo cimiteriale. Interi quartieri, demoliti dai bombardamenti, si alternano a immensi cimiteri. Le macerie, se consentono ancora un minimo riparo, sono abitate. I cimiteri sono in realtà zone aride e sassose dove le tombe non sono altro che piccole pietre informi, infisse nel terreno. La città dei sopravvissuti e la città dei morti convivono in stretta contiguità. Kabul è triste anche per la pesantissima discriminazione femminile. Con l’eccezione di qualche migliaio di donne appartenenti ad una ristretta fascia sociale di Kabul, tutte le donne afghane portano il burqa. La favola della liberazione delle donne afghane dall’infamia del burqa, grazie all’intervento della armate occidentali, è pura volgarità e arroganza. Gino Strada sostiene che il burqa non è l’indice più significativo della subordinazione della donna afghana al potere patriarcale. E aggiunge che è sbagliato accanirsi contro un abbigliamento che è radicatissimo nella cultura popolare. Ciò di cui le donne afghane hanno anzitutto bisogno è l’istruzione e il lavoro: esse sono analfabete e disoccupate in percentuali che superano il 90%. Penso che Gino Strada abbia ragione e confesso che ho constatato l’universale presenza del burqa con una sorta di amara soddisfazione. Io penso che la liberazione delle donne afghane da una condizione di subordinazione patriarcale che non ha eguali nel mondo islamico si realizzerà – se e quando si realizzerà – secondo logiche molto lontane da quelle suggerite dal “fondamentalismo umanitario” occidentale, maschilista o femminista che sia. Si realizzerà grazie a dinamiche endogene, nel contesto di profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche che è augurabile non mettano il segno di eguaglianza fra il riscatto della dignità femminile e l’occidentalizzazione forzata del mondo islamico, secondo l’infausto modello kemalista.

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Detto tutto questo, che senso ha parlare di democrazia e di elezioni democratiche in Afghanistan? Le elezioni del 9 ottobre hanno provato ancora una volta quanto sia falso ogni tentativo di esportare la democrazia e i diritti umani in paesi, come l’Afghanistan, non solo estranei alla cultura occidentale, ma anche poverissimi, poco urbanizzati e afflitti dalla piaga dell’analfabetismo. In Afghanistan il tasso di analfabetismo è fra i più alti del mondo, aggirandosi attorno all’80%, mentre solo il 15% della popolazione è urbanizzato. In realtà la forza militare e la corruzione sono state usate dalle potenze occupanti, con l’acquiescenza delle Nazioni Unite, per rafforzare, con una procedura elettorale farsesca, il governo “collaborazionista” di Hamid Karzai. L’obbiettivo finale è la legittimazione a posteriori sia della guerra scatenata dagli Stati Uniti nel 2001, sia dell’attuale occupazione militare: il tutto nel quadro di un disegno strategico – il Broader Middle East – che intende egemonizzare (“democratizzare”) l’intero mondo islamico, dal Pakistan al Marocco, sotto la copertura della guerra contro il terrorismo. Che le elezioni “democratiche” siano state una parodia è provato da molti elementi: la quantità esorbitante degli iscritti alla procedura elettorale, dovuta a un gran numero di iscrizioni multiple; la farsa della marchiatura degli elettori mediante l’applicazione al momento del voto di una traccia di inchiostro indelebile sull’unghia del pollice: l’inchiostro si è rivelato delebilissimo, come ho potuto personalmente constatare nel corso di una visita al carcere di Polj-Charki; i brogli sistematici, denunciati non solo dai 15 candidati (su 18) che si sono dimessi per protesta, ma anche da Massuda Jalal e Jounus Qanouni. Entrambi questi candidati, pur orientati ad accettare il verdetto delle urne, hanno denunciato le fortissime pressioni subite dagli elettori e le prevedibili manipolazioni dei risultati. Qanouni, leader tagico di grande prestigio, è arrivato a dichiarare di essere certo di avere vinto la competizione, ma che la vittoria andrà comunque al candidato designato dalle potenze occupanti.

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Al di là di questi elementi, resta il quadro politico di un paese che sinora ha rifiutato il modello dello Stato nazionale. L’Afghanistan si basa su una struttura tribale policentrica – pashtun, tagichi, uzbeki, hazara, etc. – molto caratteristica. Ciascun gruppo tribale, come ha mostrato Louis Dupree (Afghanistan, Oxford, 1997), è un network delicato di diritti e di doveri, sorretto da strutture di potere fortemente personalizzate. Uno Stato unitario non dispotico potrebbe riuscire ad affermarsi solo a condizione di assimilare – non di cancellare – le funzioni svolte dalle unità tribali, rispettandone la piena autonomia. Questo progetto è sinora fallito, nonostante che a promuoverlo fosse stato Ahmad Massud. Sarebbe comunque un errore pensare che l’Afghanistan si stia avviando a un graduale processo di nazionalizzazione e di democratizzazione. Si sta al contrario profilando un elemento di grande rilievo: è la convergenza fra pashtun e tagichi nell’organizzare una resistenza militare contro le potenze occupanti. Una loro alleanza contro il governo Karzai, che i brogli elettorali hanno ulteriormente screditato, avrebbe effetti di immediata destabilizzazione e di nuovo ricorso alla violenza su vasta scala. Sullo sfondo si profila la forte ripresa del movimento talibano: secondo fonti attendibili, migliaia di guerriglieri hanno già attraversato i confini che separano il Pakistan dall’Afghanistan meridionale. Si dà per certo che il primo attacco scatterà subito dopo la comunicazione ufficiale dei risultati delle elezioni. Segnali in questo senso sono il sanguinoso attentato terroristico (il primo di un kamikaze) del 23 ottobre e il successivo sequestro di tre funzionari delle Nazioni Unite, entrambi verificatisi nel pieno centro di Kabul. L’Afghanistan potrebbe essere destinato a svolgere in un futuro non lontano quel ruolo di epicentro della “guerra globale” che oggi viene coperto dall’Iraq. [dicembre 2004]

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Frutto di viaggi conoscenza studio e sdegno di teorica riflessione sull’umanità delle guerre dichiarate tali e sulla disumanità delle sue pratiche e malizia degli intenti nell’equivoca categoria di terrorismo internazionale questo libro è stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel settembre dell’anno duemila nove

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