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Il volume è realizzato per conto della Istituzione Biblioteche del Comune di Parma

Questo volume raccoglie gli Atti del Convegno di studi Luigi Malerba. La letteratura e il cinema svoltosi a Parma presso l’Istituzione Casa della Musica nei giorni 8 e 9 ottobre 2009, organizzato dal Dipartimento di Italianistica e dal Dipartimento di Beni culturali e dello Spettacolo dell’Università di Parma, e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma Comitato scientifico del convegno Paolo Briganti Roberto Campari Nicola Catelli Michele Guerra Anna Malerba Rinaldo Rinaldi Gabriella Ronchi Giovanni Ronchini Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto In copertina Fotografia di Luigi Malerba (per gentile concessione di Anna Malerba)

ISBN 978 88 8103 791 9

© 2013 Istituzione Biblioteche del Comune di Parma © 2013 Edizioni Diabasis Il volume è realizzato da Edizioni Diabasis - Diaroads srl vicolo del Vescovado 12 43121 Parma Italy telefono 0039.0521.207547 commerciale@diabasis.it www.diabasis.it


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Simmetrie naturali Luigi Malerba tra letteratura e cinema a cura di Nicola Catelli

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Ringrazio, anche a nome del Comitato scientifico, Anna Malerba e Giovanna Bonardi, che con generosità hanno confortato e favorito l’iniziativa e contribuito a creare insieme agli studiosi intervenuti le migliori condizioni di lavoro e di dialogo, nonché l’Istituzione Biblioteche, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma e l’editore Diabasis, che con la loro disponibilità e competenza hanno voluto e saputo sostenere questa pubblicazione. Un mio personale ringraziamento è dovuto a Michele Guerra e Giovanni Ronchini, co-ideatori del convegno e della pubblicazione antologica della rivista «Sequenze», i quali non hanno fatto mancare consigli e indicazioni anche durante la realizzazione degli Atti. Questo volume si dedica alla memoria di Alessandro Scansani, editore e intellettuale.

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Simmetrie naturali Luigi Malerba tra letteratura e cinema A cura di Nicola Catelli

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Presentazione, Luigi Allegri, Gabriella Ronchi

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Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo, Walter Pedullà

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Il narratore diviso, ovvero i salti mortali della scrittura, Francesco Muzzioli

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«Un commerciante di francobolli può essere tutto». I centomila volti del personaggio laico di Malerba, Giovanni Ronchini

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Luigi Malerba e il suo lettore, Dominique Budor

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Dalla tana al lager. Per una scrittura di interni, Rinaldo Rinaldi

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Malerba novelliere, Romano Luperini

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Lo scrittore con gli stivali: Malerba e la narrativa per ragazzi, Paola Cosentino

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Alla ricerca di un filo conduttore nella narrativa di Malerba, Renato Barilli

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Malerba, storia e geografia, Paolo Mauri

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In un “fuori campo” in realtà è il mondo. I viaggi nel “vuoto” di Luigi Malerba, Ambra Meda

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Robinson e le parole abbandonate, Enzo Golino

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Sceneggiatori da corsa, Fabio Carpi

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Malerba sceneggiatore, Gian Piero Brunetta

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Donne e soldati, Roberto Campari

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Archeologie malerbiane: la critica cinematografica, Michele Guerra

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L’arte del parossismo. La scrittura di Luigi Malerba dal cinema alla televisione Pier Paolo De Sanctis

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Le radici ritrovate, Giovanna Bonardi

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Postfazione, Nicola Catelli

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Gli autori

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Indice dei nomi e delle opere


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Presentazione

Il Convegno di studi Luigi Malerba. La letteratura e il cinema (Parma, 8-9 ottobre 2009), organizzato dai Dipartimenti di Italianistica e di Beni culturali e dello Spettacolo dell’Università di Parma, ora uniti nel Dipartimento di Lettere, arti, storia e società, e dal Comune di Parma, si inserisce all’interno di una serie di iniziative – fra cui altri due convegni, a Chicago e a Roma, e la pubblicazione antologica della rivista «Sequenze», fondata e diretta da Malerba – volte a considerare nel suo complesso l’intensa produzione dello scrittore, a un anno dalla sua scomparsa. Il convegno parmense, in particolare, ha inteso indagare alcuni gangli dell’attività di Malerba nella prospettiva del rapporto simbiotico fra letteratura, cinema e televisione, fra scrittura e immagine. Grazie al contributo degli studiosi coinvolti, le giornate del convegno hanno rimarcato e ulteriormente illuminato alcune delle più solide acquisizioni sull’opera malerbiana, avanzando al contempo – anche attraverso il proficuo incontro di metodi e approcci differenti – nuovi sguardi critici. Non ultimo, il convegno è stato l’occasione per “riportare” Malerba a Parma, città nella quale lo scrittore è nato e si è inizialmente formato – negli anni fondamentali dell’adolescenza, a cavallo del secondo conflitto mondiale – e dove ha cominciato a sviluppare i propri interessi letterari e cinematografici. Questo volume di Atti raccoglie con cura la traccia delle stimolanti giornate del convegno, che, si auspica, potranno fornire anche l’impulso per futuri approfondimenti critici. Luigi Allegri Gabriella Ronchi


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Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo Walter Pedullà

Essendosi fatte da parte degli organizzatori sempre più legittimamente insistenti le richieste di un titolo per la relazione, ho dato il più generico fra quelli che mi vennero in mente con la convinzione che, come tutte le strade conducono a Roma, così tutte le questioni della contemporaneità conducono a Malerba, a partire da quella sulla, come dire, centralità del riso nel Novecento. Questo scrittore ha attraversato la letteratura italiana dalla fine del neorealismo al post-moderno per collocarsi al vertice della narrativa che si muove per esperimenti radicali quali sono quelli dell’avanguardia – nella fattispecie chiamata neoavanguardia – di cui è nota l’inclinazione a raccontare la vita nella fase attuale della nostra storia dalla parte della comicità. Malerba ha riso – si fa per dire, lui faceva ridere gli altri, ma non partecipava – solo per vent’anni del suo mezzo secolo di attività, dagli anni Sessanta agli Ottanta, considerando fra l’altro che Testa d’argento riunisce anche racconti precedenti agli anni Ottanta. Dopo ha fatto quasi soltanto (tranne cioè che nei racconti di Ti saluto filosofia) la tragedia con risultati memorabili, specialmente col romanzo Il fuoco greco, quello in cui i cortigiani uccidono con le parole, confermando quanto gli sperimentalisti vanno dicendo da cento anni e cioè che la parola viene prima della cosa. Con le parole si fanno giochi che sono una fabbrica del riso, più quello assoluto che non quello voltairiano. Il titolo l’ho ricavato dal saggio di Baudelaire sull’essenza del riso, dove il poeta francese distinse quello significativo, la satira voltairiana, dal riso assoluto o metafisico di cui per lui era esempio sublime l’italiana commedia dell’arte. Per non ingolfare il discorso con troppe citazioni, mi libero subito di quelle che tutti conoscono a memoria ma che più o meno direttamente coinvolgono il problema del riso in Malerba. Salto l’opinione di Freud, secondo il quale il riso nasce dal sentimento di superiorità rispetto a una persona o una situazione di cui sinora uno abbia avuto paura (gli anni Sessanta sono un decennio di benessere dopo la miseria degli anni Cinquanta, ma allora se è tornata di moda la tragedia negli ultimi vent’anni significa che abbiamo di nuovo paura?), mi lascio alle spalle la formula di Bontempelli, che nella maturità preferisce il comico che è anche tragico (nessuno più ama il comico che è solo comico? Che malattia culturale è questa che risolve tutte le alternative con il compromesso? È forse questo il postmoderno?), e mi soffermo su queste idee:


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1) Il riso è un ottimo avvio per la dialettica, dice Benjamin. A Malerba un mondo siffatto non piaceva e provò ad annegarlo nelle risate, in attesa che qualcuno lo costruisse nuovo, secondo un’irresistibile speranza che ora pare destinata al ridicolo. Il timore più diffuso è ora che non c’è nulla che possa riavviare la dialettica. Quando questa si blocca, nessuno chiede il mutamento. Stavolta si ignora dove esso porterebbe e ci si sente più sicuri nell’immobilità. È in queste situazioni che resuscitano il riso assoluto, la commedia dell’arte, le maschere televisive, la loro comicità demenziale? 2) I comici profondi non ridono mai, secondo Max Jacob. Notoriamente Malerba non ha mai riso, almeno in pubblico. In cambio ha fatto ridere quanto prima di lui aveva fatto solo Campanile, l’inventore dell’assurdo e della “farsificazione globale”. Cosa succede nelle zone profonde dei comici perché non ridano? 3) Nelle corti solo i buffoni dicevano la verità. Questo lo sostiene Brancati. Proviamo cioè a vedere se sapremo la verità raccontando storie buffe: sono tanto vere quanto più sembrano impossibili. Ce n’è una nel romanzo Il serpente che indirizza alla verità impossibile di Malerba: la scoperta del canto mentale, col quale è stata ottenuta un’arte, udite udite, che non ha né significato né significante. Questa buffa invenzione potrebbe guidarci verso la verità che Malerba ha sinora gelosamente nascosto? Non è la sola, l’autore del Serpente ha inventato – come Ezra Pound ordina agli scrittori d’avanguardia – anche l’amore con accompagnamento e spinta musicale. 4) Che il riso profuma di morte lo dice Bergson. Lo sperimentalismo, ossessionato dall’urgenza di cambiare linguaggi e idee, produce arte con una vitalità scatenata che si destina al suicidio. Dopo aver infatti distrutto ogni cosa con l’irrisione più feroce devi rivolgere contro te stesso la tua arma, cioè il linguaggio che pretende e pratica il mutamento a ogni costo. Quando morì, fu uccisa o si suicidò la neoavanguardia, Malerba riformulò il proprio codice e ne scrisse diversi, ancorché coerenti con la sua storia; prima meccanismi sperimentali che vengono interpretati da uomini, poi uomini che nascondono i meccanismi, che comunque sono, se non rotti, allentati per fare sorprese comiche quanto una caduta in scena. Comunque se con il riso ci si dà alla pazza gioia – “fuoco divino” lo definì Max Jacob – non ci si deve vergognare, come spesso succede dopo che è passata la festa che è l’avanguardia, e la neoavanguardia. Secondo Savinio da vecchio, il comico è deperibile, solo il tragico è perenne. Palazzeschi insiste nella sua tesi che oggi bisogna ridere di Amleto, Edipo, Alcesti ecc. E si rida a ogni funerale, a cominciare da quello delle tragedie in cui abbonda la cartapesta. Deperibile è però la satira, non il riso assoluto di Malerba, che resta la più feconda macchina di comicità capace di sopravvivere al collasso dell’idea e del tema. Se sull’argomento si chiede di dire la sua a Hölderlin, la risposta è: se ridi sempre e di ogni cosa e non sai fare altro che ridere, ebbene questo significa essere disperati. Malerba da giovane ha fatto il libertino, ma poi ha sposato il riso


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con la disperazione. Sono nati racconti e romanzi in cui si va dalla comicità assoluta a quella voltairiana, dall’assurdo alle tragedie della storia, cioè quei romanzi storici finali in cui si raccontano come drammi vicende che nell’attualità mostrano la sfrenata dissennatezza per la quale ci facciamo un mucchio di matte risate. E qui vi evito la citazione da Socrate per il quale il comico e il tragico sono due facce della stessa moneta. Il Novecento però ha difeso le ragioni del comico anche contro molte teorie del comico. E non si dica che non sappia vivere da single: La scoperta dell’alfabeto e Testa d’argento non si vergognano di frequentare il riso che sull’altra faccia della moneta non la fa tragica. Conclusione provvisoria: sia da giovane che da vecchio preferisco il Malerba che racconta la tragedia come insensata commedia. Non solo i racconti delle suddette raccolte ma anche i romanzi come Il serpente, Salto mortale e Il protagonista non finiranno mai di rendere ridicoli comportamenti, idee, discorsi che si siano sublimati in verità con le quali sono stati istupiditi i creduloni, che poi saremmo noi stessi quando aderiamo a una cultura dimenticando che presto essa dirà quasi sempre delle losche sciocchezze. Su un testo di Malerba non cresce nessuna idea o parola che non sappia meritarsi la sopravvivenza con l’autoderisione. Ciò che non è ridicolo, è tragedia. Le tragedie di Malerba iniziano quando ha smesso di ridere con un linguaggio per cui deve lasciare ogni speranza qualunque cosa seria entri in un suo romanzo o racconto degli anni Sessanta e Settanta. Possiamo dire che gli argomenti di cui lui parla non ci interessano più, ma non appena mettiamo in funzione la sua prosa narrativa precipitiamo come in un frullatore di parole esilaranti. Malerba sarà pur sempre il narratore che sa raccontare con grande felicità la vita come una tragedia da ridere. Se si ripete, come disse un pensatore indimenticabile, è una farsa. Malerba non condivide l’idea circolata nella neoavanguardia secondo la quale la poetica può essere poesia in virtù del linguaggio moderno che fa coincidere tali alternative tradizionali. Per talento naturale o progetto che sia, questo scrittore che sa trasformare tutto quello che tocca con la mente in racconto ha preso la teoria e l’ha trasformata in narrativa. Meglio ancora, la teoria Malerba la trova bell’e pronta in natura, che ovviamente è insieme cultura, come con formula eccitante disse Gadda («Anche il caffè-cicoria è caffè»). L’autore della Scoperta dell’alfabeto ha inventato lo sperimentalismo spontaneo degli uomini elementari che si fanno carico delle questioni basilari, cioè fondamentali, come il mangiare, il defecare, nonché l’amare (ovviamente se uno ha mangiato: i contadini del Pataffio, poiché non mangiano, non defecano e non fanno l’amore). Non meno impellente è il desiderio di ascoltare un bel racconto, che da quando viveva in caverna l’uomo non s’è fatto mai mancare, talvolta privandosi del cibo e della donna pur di fantasticare, cioè andare altrove con la mente. Provò ad andare col corpo in America e insieme a vedere il mare (desiderio che notoriamente invano coltivò Hölderlin), ma il corpo non è infallibile come il pensiero: viaggiò in stiva e lavorò in miniera, luoghi profondi da dove però


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non si vede né il cielo, né il mare, mentre della terra che hai zappato non sai più che fartene. Ha un sogno che è impossibile realizzare anche Malerba. Lo arguiamo dall’invenzione del canto mentale, che però è muto. Il desiderio fa bene a non dire cosa vuole, lo diceva pure Lacan, che negli anni Sessanta dominò sulle culture bagnate dall’Atlantico, su entrambe le sponde. Malerba andò anche oltre Lacan, che vedeva sempre slittare il significato sotto il significante, e tolse tutt’e due nel canto mentale. In quel decennio argomenti molto dibattuti erano il divorzio della parola dalla cosa, il ruolo del narratore, il fine dell’arte, la struttura del racconto, la questione della lingua fra dialetto e italiano. Ebbene, nei racconti malerbiani della Scoperta dell’alfabeto elevate questioni spirituali sono state portate fra la povera gente che non mangia, ma che al racconto non sa rinunciare. Non gli parlate di morte dell’arte, infatti per l’arte i contadini che fondamentalmente sono sempre gli uomini possono sacrificare un coniglio, quello che il narratore pretende in cambio del racconto. Non sono marxisti, sono materialisti, ma questi contadini, per poter sentire un racconto, sono capaci di digiunare. Al pasto non rinuncia invece il narratore, che con la sua arte certo non mangia, tanto più se insiste sull’incomunicabilità e sull’informale, come facevano i più estremisti e i più illeggibili dello sperimentalismo, specie neoavanguardia. Intorno al coniglio e al racconto per contadini o per le masse sarebbe possibile avviare un dibattito sia estetico che sociologico, cui non fatico a rinunciare. Sul problema della priorità di parola e cosa, e su quello dell’esistenza concreta della realtà oggettiva – che per Malerba non esiste –, narra una storia delle sue il nostro autore nel racconto del contadino suicidatosi per un amore fra i più folli. In parole povere, essendosi il figlio pazzamente innamorato di una bella giovanotta che continua a respingerlo, la madre, figura che se appare è indimenticabile, specialmente dopo Freud, disse: tu perderai la testa dietro quella ragazza. Ostinandosi costei a rifiutarsi, il giovane, non tollerando il dolore, combinò efficacemente le lame dell’aratro e si ghigliottinò. È una insensatezza di cui ridi follemente, come succede in tutti i racconti della Scoperta dell’alfabeto, fai presto a dimenticare che anche in questo caso la parola anticipa, prevede e profetizza l’evento, non ti passa dalla mente che una madre nel passato più remoto ha generato Edipo, e prendi atto di quello che il racconto del contadino autoghigliottinatosi manda a dire, o meglio suggerisce: l’amore può essere un sentimento così forte che per soffocarlo puoi arrivare a ucciderti, puoi sganasciarti sopra questo sentimento ridicolo, ma omnia vincit amor anche da prima dei latini. Malerba ride con tutti i sentimenti, o meglio fa ridere gli altri. Ne ridi, ma arriva la malinconia a tenere compagnia al riso, che intanto è diventato umorismo di marca pirandelliana. Con il sentimento del contrario solidarizziamo coi fratelli che si rendono ridicoli con smodate passioni, che saranno scemenze ma senza le quali non c’è vita. Dal profondo invece esplode il riso, che può far saltare la motivazione più


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seria. Non è privo di collegamenti con la superficie, un piccolo quoziente satirico forse ce l’ha sempre, ma questo è il riso assoluto, che fa ridere per l’attrito di elementi non riducibili alla ragione. Émile Zola rise fino alle lacrime e credette di impazzire ascoltando al circo un clown. Sapremo mai cosa succede là sotto? Qualcosa continua ad essere nascosto sotto l’io, che da tempo, come tutti sanno da un secolo e mezzo, è anche l’Altro. C’è dunque qualcosa sotto il canto mentale che registra il pensiero di un uomo solo che non può far coro né comunicare singolarmente con alcuno. C’entra sempre la lingua ma non nella suddetta vicenda, dove non è ammesso dir parola. La questione della lingua invece provoca una tragedia nel contadino che facendo il militare ha imparato a parlare in italiano. Quando torna al paese e gli amici lo irridono perché parla una lingua diversa dal dialetto, lui si arrabbia e ne uccide uno. Lo inseguono i carabinieri, ma, sentendoli dare in bell’italiano l’ordine di arrendersi, il contadino, che ama questa lingua non meno di D’Annunzio, Landolfi, Bilenchi e Calvino messi insieme, corre loro incontro come se avesse ritrovato un amico, ma muore colpito a morte. Morale della favola: per fare il proprio dovere di cittadini in pace e in guerra tocca insistere sull’italiano, ma sarà una tragedia la battaglia per sradicare il dialetto. Lo stesso Malerba espresse nostalgia per il dialetto nel saggio Le parole abbandonate, ma si arrese all’italiano che illumina le prose del Diario di un sognatore, dove Malerba non sogna mai in dialetto emiliano. Col dialetto si possono dire cose che pochissimi corregionali possono capire, forse le capisce il solo autore, come più in là si constaterà nella vicenda del Protagonista, che oscenamente si riduce a cercare nel fondo di se stesso. Non c’è però salvezza nemmeno nell’italiano, rischi di essere impallinato da chi ti vuole imporre una lingua burocratica, da bollettino ufficiale: questo lo diceva Gadda, colui che scriveva parole con le gobbe, mentre Malerba scriverà quasi sempre (tranne che nel macaronico pseudomedievale del Pataffio) un italiano a pareti lisce, nel quale l’espressività è delegata alla fantasia: una fantasia imbizzarrita che va dove la porta il pensiero di chi, in Salto mortale, ha nella fronte il suo tallone di Achille. Piacciono di più ai contadini e al popolo e alle masse i racconti realistici, quelli dove il prima viene prima del poi e ne determina il corso e il senso. Nel racconto in questione il narratore orale, che si è stancato di raccontare le solite storie nel solito modo, anche se non ha letto Šklovskij o Sterne, che negli anni Sessanta furoreggiavano, si è convinto che si possono mischiare il reale e l’immaginario, il racconto può andare avanti o indietro, dove lo guida il capriccio, il caso che obbliga, insomma il desiderio, forse l’inconscio, qualcosa che dal di dentro spinge per moventi ignoti in una direzione o in un’altra. Pure il narratore scrive per il piacere di raccontare, anche se ha necessità del coniglio promesso. Che non è molto, se alle proteste degli ascoltatori realisti reagisce col det-


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to da allora memorabile: «Ma cosa pretendete per un coniglio?»1. Per un coniglio, per mangiare, un narratore non può sacrificare il linguaggio con cui può avvicinarsi al segreto che si è nascosto dietro il pensiero. Ci sono fasi in cui l’avanguardia ha una funzione insostituibile, ma magari prende più conigli quando diventa post-avanguardia e scrive romanzi di maggior consumo, che tuttavia possono essere opere d’arte che mangi con gli occhi. Sono così ben fatti Le maschere, Le pietre volanti, La superficie di Eliane o meglio ancora quel Fuoco greco in cui le parole possono ammazzare non simbolicamente i cortigiani: qui la lingua ha il pugnale, contrariamente alla differenza dei ruoli assegnati in Rigoletto. Torniamo ai romanzi che non hanno capo né coda ma che sono capolavori della narrativa del secondo Novecento. Salto mortale è il romanzo di un idiota i cui discorsi precipitano dalla testa per andare a confondere il tema più elevato con quello più banale. Facile in una mente fare il vuoto non solo di ciò che pensa lui, bensì di ciò che pensano tutti, venendo essi coinvolti attraverso i modi di dire nei quali si condensa la saggezza popolare e la demenza della cultura di massa che un giorno fu cultura alta. Qui entrano in funzione sia la comicità voltairiana che lo “sciocchezzaio” di Flaubert. Qualunque cosa viene detta e pensata è destinata ad essere una idiozia non diversamente che in Campanile, la cui “farsificazione globale” è la madre ignota della contestazione totale irrisa da Malerba come “demoscazione totale”. Cadono come le mosche sotto l’azione del DDT le idee, i modi di parlare e i comportamenti delle masse, degli intellettuali e dei sacerdoti. Non c’è più religione, non si salva niente e nessuno dal massacro comico che l’autore di Salto mortale conduce attraverso il mentecatto che ne è protagonista come il Molloy di Beckett: l’idiozia come via rapida alla sapienza. Svuotare come sradicare, strappare dal terreno che calpestiamo ogni frutto avvelenato dalla famigerata civiltà del benessere. Si chiamò allora desemantizzazione, nel senso di togliere il significato alle parole per lasciare il guscio vuoto sul quale galleggiamo nel naufragio, o deriva, di ieri e di oggi. Voltaire o i satirici svuotano per sostituire i vecchi significati con quelli nuovi, ma non si può pretendere tanto dagli idioti che finiscono per essere tutti gli uomini che ignorano cosa fanno e perché lo fanno. Se non torna la ragione, non c’è spazio per Voltaire e per la satira capace di nutrire, ormai solo per così dire, una rivoluzione. Se non l’Illuminismo, almeno uno spiraglio di luce. Si fa il deserto per costruire un mondo nuovo? Ora è idiota pensarlo, ma allora, cioè negli anni Sessanta, molti lo pensavano, anzi credevano che fosse stato già fondato, essendo nata quella civiltà del benessere che è stata una delle religioni del nostro tempo. Tutto quel rumore però non convince Giuseppe detto Giuseppe, che se ne infischia dell’avvenire. Per caso, come succede per le grandi scoperte, di colpo Giuseppe detto Giuseppe si sente arrivare in testa l’idea che ci riconduce al canto mentale: «ma allora si può sapere che cosa voglio?»2. Dunque non era questo quello che volevano, la contestazione, come pur poteva sembrare all’interpretazione degli anni Sessanta, la desemantizzazione, come


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ritenevano di dover fare gli sperimentalisti della neoavanguardia, la farsificazione totale, come piace pensare a chi crede con Falstaff che tutto nel mondo è burla. Si dice totale, ma più esattamente si direbbe globale, nel senso che il mondo sembra girare sempre così, segno senza significato. Non volevamo quella similrivoluzione, non volevamo questo deserto sgradevole anche per gli eremiti. Pensiero di Giuseppe detto Giuseppe, un voltairiano dissennato: «aprite la Bibbia a caso e leggete una pagina, c’è sempre qualcosa da imparare, io piuttosto pedalo sotto il Sole»3. Si mise a correre dietro le parole, Giuseppe detto Giuseppe, e andò a infilarsi in un flusso di coscienza, meglio si direbbe, nel suo caso, di incoscienza, in un monologo interiore da cui gli vennero un sacco di guai che lo portarono a constatare d’essere lui l’autore del delitto sul quale indaga scriteriatamente per tutto il romanzo: proprio come il narratore orale che sulle orme dell’Ariosto andava avanti e indietro, a sinistra e a destra, per associazione semantica o fonica, avvicinando cose e fatti remoti e incompatibili e così ridere di tutti a crepapelle. A ogni svolta un’idea insensata che tuttavia è più acuta di tante espresse da pensatori cui si riconosce saggezza. Si può ridere tranquillamente a ogni frase o parola; magari non tranquillamente, a conferma di quanto aveva detto Baudelaire, e cioè che il saggio ride tremando. Malerba produce comicità anche se il suo linguaggio non fa follie, e forse lui solo sa perché. Nel Serpente, che è un romanzo apparentemente tradizionale, troviamo il prima che viene prima del poi, l’intreccio, l’ambiente, i personaggi a tutto tondo, proprio come piacevano al contadino che aveva protestato contro le storie che non hanno né capo né coda. Per risparmiare, evitiamo il problema del conflitto fra la narrativa realistica e figurativa e la narrativa informale e creativa dell’avanguardia. Nel Serpente ci sarebbero tutte le premesse perché la cosa venisse prima della parola, tuttavia questa c’è, ma quella, la cosa, non c’è e non c’è la persona. In qualsiasi modo agisci perdi la testa lo stesso, anche se tua madre non te lo ricorda più come quando eri un contadino innamorato. Se Roma è una città, cioè in realtà non esiste più, come fai a cambiarla realmente? Si fa sempre tanto rumore per nulla, ragion per cui preferisci in ogni modo il silenzio, nel quale ti rifugi col canto mentale, che dà sempre un infinito piacere. Qualcosa di importante esiste, anche se non si tocca e non si sente. L’abbiamo nominato più volte per aumentare col mistero la tensione, ma una novità eccezionale non s’era mai vista in azione. Allora cominciamo col dire che è stata inventata dal mitomane venditore di francobolli usati: che come lavoro è il nulla fondato sul nulla, che come attività concreta corrisponde a quella di un artista nella fase avanzata del capitalismo. Andato a scuola di canto, un giorno casualmente si accorse che assai meglio del canto ad alta voce, singola o in coro, gli riusciva il canto muto o mentale. Gli acuti più lunghi, i gorgheggi più sofisticati, il fraseggio più complicato, insomma tutto è possibile alla mente che non sia ostacolata dalla voce. Al contrario i coristi erano sempre più sfiatati, cioè stonavano:


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insomma, meglio il canto mentale con cui puoi esprimere il più profondo te stesso. Per campare, per farsi regalare un coniglio, un artista scrive anche cose sfiatate e stonate, ma il suo segreto è chiuso a doppia mandata nel canto mentale. Forma artistica priva di significato e di significante, il canto mentale è una cosa mai sentita, espressione muta che più assoluta non potrebbe essere. Apparentemente autoreferenziale, è in effetti fedele al pensiero, un pensiero che va salvaguardato dalla voce. Non vi dico la felicità del venditore di francobolli usati. Si sente realizzato, se si potesse parlare di realtà in riferimento a qualsiasi cosa fa, pensa e dice. Nessun personaggio di Malerba è mai stato così felice come questo ora che ha fatto tacere la propria voce. D’altronde è lo stesso personaggio che possiede Miriam seguendo i tempi di una sinfonia. C’è qualcosa in comune nelle due situazioni: nella prima il personaggio non ha la voce, nella seconda non ha la donna, perché Miriam non esiste. Siamo infelici a causa della voce umana che stona e perché esiste la donna in carne e ossa? «Gli strumenti a fiato sono portati a calare»4 e le donne sono fatte in modo che ti vien voglia di mangiartele, da cannibale mentale, quando come nel Serpente non c’è il loro corpo. Sembrano idee prive di significati ma non sono insignificanti. Non possiamo fare a meno delle donne, ma non importa molto che esse esistano realmente. D’altronde è un suo pensiero profondo, anche se più emerso in superficie, che nulla esiste nella realtà, già di suo inesistente. Il protagonista del Protagonista non ha ricavato piacere da nessuna donna più o meno giovane, un po’ di più da una mummia e da un termosifone color carne. Resta il desiderio troppo elevato di possedere il cavallo, collocato sul Gianicolo, di Garibaldi, che qui e altrove sta a rappresentare il massimo di realtà auspicabile per via dei Mille, che hanno provato addirittura a cambiare il destino dell’Italia. La realtà però ora è questa: poiché nulla di ciò che è reale dimostra di essere desiderabile, il protagonista prova a rientrare in se stesso dal didietro e quindi di chiudere il cerchio mettendo il fermaglio al proprio corpo. Non insistiamo sulla metamorfosi del cerchio nel quale si suole iscrivere la narrativa di Malerba e limitiamoci a confermare la tesi di Balint secondo cui l’amore primario dell’uomo è se stesso singolarmente preso. Il protagonista tuttavia non riesce a prendersi perché lo impedisce la natura, sia pure per pochi centimetri. Insomma saremmo felici solo se potessimo rientrare in noi stessi, in modo non identico ma analogo a quello tenuto nel Pasticciaccio di Gadda dal brigadiere Pestalozzi, quando sognò di rientrare nel grembo materno. Ebbene, potrebbe essere stata una felicità paragonabile a quella del venditore di francobolli usati che si abbandona al canto mentale: questa non cala e non stona come gli strumenti a fiato che sono gli altri uomini. A questo punto si apre la questione criticamente più eloquente: qual è il messaggio del canto mentale. Non è il profondo, è il pensiero, del quale Freud e Pizzuto hanno detto quanto può essere inconscio. Di sicuro la superficie, territorio


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Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo

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del naturalismo, non basta più: vogliamo andare sempre più a fondo, come la psicanalisi, o come i raggi X. Sia quella che questi registrano smacchi scoraggianti: per esempio, alla radiografia non risulta il tradimento di Miriam, mentre alla psicanalisi Malerba ha lasciato qualche prospettiva scrivendo Il diario di un sognatore nonché il saggio, critico nei confronti di Freud, sulle composizioni del sogno. Ignoriamo quanto vale l’interpretazione psicanalitica che suggerisce la presenza nel narratore di un complesso di frustrazione. Pure questo segreto è rinchiuso nel canto mentale, che è inafferrabile. In effetti forse esiste solo perché non è reale. Quanti tesori sono nascosti nel cervello degli uomini più silenziosi! Nessuna certezza dunque, sono ammesse solo congetture; si procede, insomma, per analogia. La chirurgia offrì uno sbocco quando, dopo un incidente quasi mortale, il cranio di un uomo venne sostituito da una calotta d’argento, quella per cui si intitola Testa d’argento una raccolta di bellissimi racconti che splendono nella narrativa degli anni Ottanta. Dimenticate il cranio che, secondo Svevo, fu scoperchiato in Joyce e, secondo noi, nell’informale di Salto mortale. La calotta, che mette il coperchio sopra ogni terremoto formale, ha due punti di vista: quello della parte convessa che guarda all’esterno, sulle follie degli uomini del nostro tempo benestante, e quello della parte concava, nella quale si specchia la nostra mente, ovviamente senza che questa possa registrare il canto mentale. È possibile vedere cosa succede nel cervello del personaggio? Sia la parte convessa che la concava, essendo curve, deformano gli oggetti e magari, nella fattispecie, pure i pensieri. Anche la calotta insomma mantiene il segreto di Malerba, che è pur sempre uno scrittore felice di vivere nel silenzio, se non fosse irresistibile in ogni uomo il desiderio di dar voce ai propri pensieri. Che perciò stonano: non saranno mai perfetti come nel canto mentale. Non sapremo mai cosa pensiamo realmente finché non avremo dato voce a quel canto muto, che isola dal mondo sia quello che è da ridere sia quello che è da piangere. Tertium non datur? Ebbene, la terza via è il silenzio con il quale fai suonare il mondo come ti piace. Nell’ultima scena del Serpente il venditore di francobolli usati, in manicomio, chiede soltanto che si faccia silenzio: Sono stanco. Vorrei che questi campanelli smettessero di squillare e in ogni caso non sentirli se squillano. Vorrei non pensare a niente per non stancarmi perché sono già stanco. Ogni mossa ogni voce ogni rumore si ripercuote e risuona come in un’immensa cassa armonica. Tutte queste antenne, qui in cima a Monte Mario (che poi non è un monte ma una collina), raccolgono le vibrazioni da ogni parte e me le trasmettono. Non sto mai fermo, non ho un minuto di riposo, vibro dalla testa ai piedi. Per stare tranquilli bisognerebbe tenere sotto controllo tutto, in tutto il mondo, ma come si fa con questa grande stanchezza? Vorrei stare al buio, nel silenzio, in un luogo ben riparato. Che non ci fossero rumori e se ci sono non sentirli, che non succedesse niente. Vorrei restare fermo, immobile, in posizione orizzontale, con gli occhi chiusi, senza tirare il fiato, senza sentire voci e campanelli, senza parlare. Al buio. Non avere nessun desiderio, nessuno che parla e nessuno che ascolta, così al buio, con gli occhi chiusi5.


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Questo silenzio è forse il canto mentale? No, questo è il silenzio che prelude alla morte. Il canto mentale è muto, è come il silenzio, è desiderio, fondamento e fucina e locomotiva della vita. Tocca lavorare ad avvicinarsi per tappe. È tesi approssimativa, ma la reazione più vicina alla felicità del canto mentale è il riso. Quello voltairiano è pesante, dà un piacere passeggero, mentre è il riso assoluto ad essere leggero come il pensiero. Come dietro il pensiero fedele al canto mentale c’è qualcosa che lo ispira, così dietro il riso assoluto c’è l’inconscio che lo scatena. Il canto mentale segnala la distanza massima tra l’assoluto e il relativo. Uno scrive perché desidera esprimere il mistero racchiuso nel canto mentale. Ti dà piacere il riso voltairiano con cui investi il mondo, ma la vita come la vorresti in assoluto, ebbene, la vita dà il meglio di sé in un canto che non arriva all’orecchio di nessun ascoltatore. Note 1

L. Malerba, Le ruote della civiltà, in Id., La scoperta dell’alfabeto, Mup, Parma 2003, p. 131. Id., Salto mortale, Mondadori, Milano 2002, p. 48; e cfr. p. 129. 3 Ibidem, p. 81. 4 Id., Il serpente, Mondadori, Milano 1999, p. 16. 5 Ibidem, p. 171. 2


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Raccolta di studi sul libero esperimento di dissacrata realtĂ e sogno incarnato di Luigi Malerba questo libro è stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di L.E.G.O. Spa - Lavis (TN) per conto di Diabasis nel giugno dell’anno duemila tredici

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Carte di lavoro Collana della Istituzione Biblioteche del Comune di Parma Ugo Dotti, Petrarca a Parma (2006) Giovanni Greci, Il giro del mondo in 2300 storie. Per ragazze e ragazzi dai 6 agli 11 anni (2007) Salvatore Adorno, Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in etĂ giolittiana (2007) Giuseppe Massari e Mario Rinaldi (a cura), Vento del Nord (2008) Sergio Giliotti, La seconda Julia nella Resistenza. La piĂš bianca delle brigate partigiane (2010)

Fuori collana Roberto Montali e Fiorenzo Sicuri (a cura), Storia di ieri. Parma dal regime fascista alla Liberazione. 1927-1945, Catalogo della mostra documentaria (2011)


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