Dimma Spaggiari, nata a Reggio Emilia, laureata in Lingua e letteratura italiana all’Università di Bologna, ha insegnato per anni nell’Istituto Tecnico Sperimentale “B. Pascal”, di cui ha scritto la storia. Interessata alle tematiche femminili, ha sempre lavorato in associazioni di volontariato sia assistenziali che culturali. È autrice della biografia Lelio Lorenzani. Un pittore un paese (2003). Rina Spagni, nata a Reggio Emilia, laureata in Lingua e letteratura italiana all’Università di Bologna, ha insegnato per anni nei corsi di scuola media statale per lavoratori studenti (150 ore), poi nella scuola media superiore. Si è occupata di problemi sociali e sindacali, e in particolare di educazione permanente. È autrice del racconto In lista per vivere in Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale (2003). Delle stesse autrici: Donne nella moda. Protagoniste reggiane del fashion system (2003) e Tra storia e memoria. La costruzione del welfare reggiano nel racconto delle donne (2004). Le fotografie Dall’alto, da sinistra: Annamaria Marzi, Laura Nocco, Faiza Mahri, Giorgia Iasoni, Catia Iori, Deliana Bertani, Giovanna Fava, Carla Rinaldi, Souad Talha, Liliana Cosi, Rosanna Chiessi, Paola Rondanini, Paola Silvi.
Pellegrino Spaggiari Spagni
REGGIO EMILIA: FEMMINILE PLURALE STORIE DI DONNE CHE FANNO E ORGANIZZANO CHE CREANO E INVENTANO
Deliana Bertani, psicologa e psicoterapeuta, ha diretto il Settore di Psicologia clinica dell’Azienda USL di Reggio Emilia e presiede la struttura di volontariato giovanile “Gancio Originale”. Rosanna Chiessi, fondatrice delle edizioni d’arte “Pari&Dispari”, presidente dell’Associazione Shimamoto per la promozione del movimento Gutai in Europa. Liliana Cosi, étoile di fama internazionale cofondatrice con Marinel Stefanescu dell’Associazione Balletto Classico Centro di Produzione, Compagnia Balletto Classico e Scuola di Balletto con sede a Reggio Emilia.
REGGIO EMILIA: FEMMINILE PLURALE
Mara Pellegrino, nata a Reggio Emilia, laureata in Lingua e letteratura italiana all’Università di Parma, è stata insegnante nella scuola media statale, poi preside per più di un decennio. Oltre che di problemi scolastici, si è occupata di temi femminili su riviste nazionali e provinciali, come dirigente dell’UDI.
Mara Pellegrino Dimma Spaggiari Rina Spagni
Giovanna Fava, avvocata, cofondatrice e consulente legale della Casa delle Donne di Reggio Emilia. Presidente Nazionale del Forum Associazione Donne Giuriste. Giorgia Iasoni, vicepresidente di Ecologia Soluzione Ambiente e presidente del Gruppo Giovani Industriali di Reggio Emilia. Catia Iori, titolare di Pyramix, primo istituto reggiano di ricerche di mercato e comunicazione, attualmente associata a PMS, gruppo leader della comunicazione finanziaria in Italia. Faiza Mahri, originaria del Marocco, laureata in giornalismo, a Reggio Emilia dal 2002, collabora a progetti di integrazione presso l’Assessorato alla Coesione e Sicurezza sociale del Comune. Annamaria Marzi, responsabile del servizio della Casa Madonna dell’Uliveto di Albinea, il primo hospice (centro residenziale di cure palliative) aperto in Emilia-Romagna nel 2000, per iniziativa sua e di Mariagrazia Solimè. Laura Nocco, creatrice di gioielli e collaboratrice di marchi internazionali di alta moda, titolare di una bottega-laboratorio e di due negozi, a Reggio Emilia e a Parma. Carla Rinaldi, presidente di Reggio Children, docente incaricata di Scienze della Formazione primaria presso l’Ateneo di Modena e Reggio.
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STATI DI LUOGO DIABASIS
Paola Rondanini, direttrice del supermercato Conad “Le Vele”, vicepresidente della società “Le Querce”, membro delle commissioni Marketing e Codice etico di Conad Centro Nord. Paola Silvi, titolare della libreria “All’Arco” e membro dell’esecutivo della Camera di Commercio e di altre associazioni di Reggio Emilia.
STATI DI LUOGO DIABASIS
Souad Talha, originaria del Marocco, casalinga, vive da anni a Reggio Emilia con la famiglia, attiva nell’Associazione Volontari Ospedalieri (AVO), partecipa a diversi progetti del Comune finalizzati al volontariato e all’integrazione.
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Il volume è realizzato con il contributo di Fondazione Manodori
Coordinamento editoriale Giuliana Manfredi Redazione Sara Vighi Progetto grafico BosioAssociati, Savigliano (CN) Copertina Pietro Mussini Emanuela Nosari ISBN 978-88-8103-684-4 Š 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it
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Reggio Emilia: femminile plurale Storie di donne che fanno e organizzano, che creano e inventano
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Così si innesca un movimento, dalla storia che viene fatta alla storia che viene raccontata, annotata e che costituisce la memoria scritta, grande necessità dell’umanità che non vuole scomparire; riporta uomini e donne vivi alla storia, e lo storico impedisce loro di morire. Jacques Le Goff
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Reggio Emilia: femminile plurale
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Prefazione, Natalia Maramotti
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Premessa delle autrici Lineamenti di una nuova identità femminile
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«Sul filo di suggestioni e risonanze», Elisa Bussi
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Dalla casa dei matti alla Stanza di Dante Intervista a Deliana Bertani
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«Come parlare d’arte a una lepre morta» Intervista a Rosanna Chiessi
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La casa della danza Intervista a Liliana Cosi
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Una vita da avvocata Intervista a Giovanna Fava
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Una mamma in carriera Intervista a Giorgia Iasoni
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Quando comunicare è un’impresa Intervista a Catia Iori
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La parola “Italia” ha un bel suono Intervista a Faiza Mahri
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L’hospice fra gli ulivi Intervista a Annamaria Marzi
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L’arte rara del gioiello diverso Intervista a Laura Nocco
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Ambasciatrice delle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia Intervista a Carla Rinaldi
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Due lampadari di cristallo blu Intervista a Paola Rondanini
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Il piacere di un caffè in libreria Intervista a Paola Silvi
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Il velo che fa la differenza Intervista a Souad Talha
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Prefazione
Mi piace pensare che un buon metro per misurare il benessere di una comunità sia la condizione della sua componente femminile, il ruolo attivo e determinante che questa si è guadagnata. Non a caso uso questo termine: per le donne, nel campo dei diritti civili e politici, nel corso della storia nulla è regalato, tutto è conquistato. Se applicato su scala nazionale questo metro misurerebbe un grado di benessere insufficiente. In Italia le donne che lavorano fuori dalle mura domestiche sono una percentuale molto inferiore alla media fissata dalla Unione Europea; in compenso le italiane sono quelle che lavorano di più se si sommano le ore di lavoro retribuito con quelle dedicate al lavoro domestico e di cura, da sempre non retribuito. Ciò dipende dal fatto che in Italia i ruoli maschio/femmina non hanno subito ancora una trasformazione adeguata all’evolversi della presenza delle donne nel mercato del lavoro. Anche le politiche che favoriscono la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, tra le quali la realizzazione dei servizi per l’infanzia, sono ancora un privilegio determinato dal luogo in cui si vive: nascere e vivere a Reggio Emilia fa la differenza, come dimostrano i dati del mercato del lavoro femminile reggiano, decisamente superiori a quello nazionale. Questo non significa che nella nostra città siano stati risolti tutti i problemi che ostacolano una piena realizzazione lavorativa delle donne, problemi legati in particolare alla precarietà delle strutture familiari e alla frammentazione delle carriere provocata soprattutto dalla maternità. Anche in questo libro il nodo lavoro-maternità si evidenzia come un vero spartiacque, purtroppo latitante è tuttora la risposta normativa Nella nostra città le donne hanno vissuto in prima persona e contribuito a determinare i grandi mutamenti che, dal dopoguerra agli anni Settanta, l’emancipazionismo prima e il femminismo poi hanno prodotto. Oggi l’esistenza di alcune associazioni di genere sul territorio, ma anche il sentire diffuso tra le donne, che emerge persino da talune delle interviste raccolte nel libro, dimostrano che ormai è entrata a far parte del DNA delle cittadine reggiane la consapevolezza della necessità di liberarsi da condizionamenti e stereotipi, e valorizzare il femminile come visione alternativa delle cose del mondo.
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Le donne intervistate in questo libro sono diverse per età, formazione culturale, esperienze esistenziali, ambiti di attività, ma sono tutte accomunate dall’amore per il lavoro che svolgono, sentito non solo come strumento di realizzazione personale ma soprattutto come contributo a migliorare la vita della comunità. Spesso queste donne hanno creato qualcosa che prima non esisteva: l’hospice, la scuola di balletto classico, la libreria innovativa, certi modelli di volontariato giovanile, per citare solo alcuni esempi. Oppure sono state fra le protagoniste delle trasformazioni che hanno cambiato il volto della città: la chiusura del manicomio e la creazione dei servizi psichiatrici territoriali; la realizzazione delle scuole comunali dell’infanzia; la nascita di nuovi tipi di impresa legati alla grande distribuzione, alla comunicazione e all’ecologia; la mediazione culturale e l’attività di volontariato delle donne straniere. A mio parere proprio la presenza delle donne straniere costituisce un importante elemento di novità di questo libro, che vuole fotografare la realtà reggiana contemporanea. I loro racconti narrano di percorsi e di sfide diverse, delineano un primo confronto tra la consapevolezza di sé delle donne reggiane e quelle delle nuove cittadine straniere, e infine si compongono con le altre storie, con i paesaggi che ci sono familiari, in una narrazione corale che evidenzia il contributo insostituibile e originale delle donne alla vita della nostra città. Queste storie si rivolgono a tutti coloro che amano Reggio Emilia, ma mi sembrano destinate particolarmente alle nuove generazioni, perché crescano convinte della necessaria valorizzazione del femminile e del maschile, quali differenze che producano valore anche sociale. Oggi, quando sembra che l’attimo presente debba cancellare qualsiasi prospettiva storica, c’è bisogno di un filo che leghi le generazioni, perché non vada disperso quel patrimonio di memorie che costituisce la vera ricchezza di una comunità, e nessun filo è più tenace della narrazione scritta. Natalia Maramotti Assessore alla Cura della comunità Comune di Reggio Emilia
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Premessa Lineamenti di una nuova identità femminile
Esiste una costante nella storia della società reggiana durante il Novecento: la presenza attiva di un grande numero di donne che con il loro impegno e le loro capacità hanno contribuito in modo determinante a creare una comunità con una forte maturità civile e un elevato grado di coesione sociale e di benessere. Già nella società contadina dei primi decenni del secolo scorso ad alcune donne, pur emarginate politicamente e socialmente, era riconosciuto un ruolo importante e non meramente passivo: era la rezdora il perno e il cuore della famiglia patriarcale, che lei regolava con le sue doti umane e le sue capacità organizzative. La seconda guerra mondiale, che contribuì in modo fondamentale a scardinare quel mondo, accelerò anche il processo di maturazione politica e civile delle italiane, già iniziato nei primi anni del ventesimo secolo ma poi bloccato dal fascismo, che aveva relegato le donne all’interno delle mura domestiche, a generare e allevare i futuri soldati della patria mussoliniana. Questo movimento emancipatorio fu tanto più forte in quelle regioni italiane, come appunto l’Emilia, in cui fu più diffusa e durò più a lungo la Resistenza alla guerra nazifascista. Le donne reggiane, organizzate o no nei Gruppi di difesa della donna, vi parteciparono in numero altissimo, ben superiore a quello riportato nelle statistiche ufficiali, e vi svolsero un ruolo decisivo, sia come partigiane combattenti o staffette, sia dando vita a una resistenza, nascosta ma di fondamentale importanza, di supporto materiale alla lotta armata. Da quella condivisione di rischi e di ideali ricavarono la consapevolezza del loro diritto a partecipare alla costruzione del nuovo Stato: aderirono in massa alle associazioni femminili, l’UDI e il CIF in primo luogo, che si fecero interpreti delle loro rivendicazioni politiche e sociali, ed entrarono massicciamente nel mercato del lavoro. La seconda metà del secolo scorso a nostro parere ha visto soprattutto due ambiti di attività in cui le donne reggiane hanno svolto un ruolo fondamentale: come lavoratrici a domicilio, operaie e imprenditrici hanno creato nei decenni ’50-’80 un nuovo settore economico, quel tessile-abbigliamento che è sfociato nel fenomeno della moda “made in Italy” che caratterizza tuttora l’immagine dell’Italia nel mondo. Come militanti delle organizzazioni femminili e come amministratrici si sono mobilitate per l’occupazione fem-
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minile e hanno ottenuto la creazione di quei servizi sociali che più hanno qualificato il nostro modello di sviluppo, definito “welfare emiliano”. Gli ultimi due decenni del secolo scorso, e soprattutto i primi anni del Duemila, hanno visto però profilarsi i sintomi di una profonda crisi sociale, sia a livello nazionale che locale, per il delinearsi di nuovi fenomeni nel panorama italiano e internazionale. I problemi legati a una rapida e massiccia immigrazione, alla globalizzazione dell’economia e dell’informazione, ma anche la crisi di fiducia diffusa nella società italiana, unita a una crisi produttiva avvertita con sempre maggiore consapevolezza, inducono anche noi reggiani a ripensare la nostra società e il sistema di valori che la sostiene. La recessione economica che sta colpendo l’Italia come tutti gli altri Paesi industrializzati vede la situazione dell’occupazione femminile italiana peggiore rispetto a quella degli altri Paesi dell’Unione Europea: siamo al penultimo posto, seguiti solo da Malta, con un tasso di occupazione del 47%, ben lontano dall’obiettivo europeo auspicato del 60%. In Italia, poi, persiste ancora una cultura arretrata nei confronti della maternità da parte delle aziende, ma anche da parte delle stesse donne lavoratrici e dei mariti o compagni. Dati statistici aggiornati dell’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori) dicono che nel nostro Paese il tasso di abbandono del lavoro, momentaneo o definitivo, dopo il primo figlio è del 13,5%, con picchi fino al 20% nelle regioni del Nord più industrializzate, e le donne che lasciano il lavoro spesso non lo riprendono più. Quando le donne conservano il lavoro e dimostrano le loro capacità manageriali, frutto di impegno e di qualità professionali, anche allora le soddisfazioni sono scarse, se nel nostro Paese solo un’impresa su dieci vede una donna con incarichi di guida e, tra le prime cinquanta società italiane per fatturato, solo nove hanno almeno una donna (spesso una sola) nel Consiglio di Amministrazione. Negli ultimi anni abbiamo poi assistito a una vera campagna sferrata dai mezzi di comunicazione, soprattutto stampa e televisione, per affermare come modello femminile dominante quello della “velina”, ovvero della donna che ha l’unica risorsa del proprio corpo, valorizza poco quello che ha dentro di sé e troppo il lato esteriore. Questo stereotipo femminile viene proposto in maniera martellante da quasi tutte le trasmissioni televisive commerciali come modello vincente su quello molto più reale delle ragazze che studiano e lavorano, cercando di farsi strada solo per merito e per competenza. D’altra parte, quello di sedurre un maschio ricco e potente è stato il consiglio paterno fornito alle giovani generazioni femminili dal capo del Governo in carica. Se dal panorama nazionale passiamo ad analizzare la situazione delle donne della nostra città il quadro non è così negativo, ma certamente presenta, accanto a risultati consolidati, numerosi aspetti problematici.
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Grazie anche all’impegno delle associazioni femminili, e delle amministratrici che si sono succedute dal dopoguerra a oggi, il nostro territorio ha sempre dimostrato una spiccata sensibilità nei confronti delle pari opportunità, che si è concretizzata soprattutto nella creazione di una rete di asili nido e scuole materne a sostegno delle lavoratrici madri che, come si è detto, ha caratterizzato il welfare reggiano. A questo si devono aggiungere, soprattutto negli ultimi anni, il potenziamento dell’assistenza domiciliare agli anziani e la creazione in ogni quartiere di case protette per gli anziani non autosufficienti. Tutto ciò ha consentito l’ingresso massiccio delle donne reggiane nel mondo del lavoro. Secondo l’Osservatorio Economico Provinciale di Reggio Emilia il tasso di occupazione femminile nella nostra provincia nel 2008 è stato del 60,4%, contro una media nazionale del 47,2%, e il tasso di disoccupazione non è andato oltre il 3,5%. Anche in piena crisi economica, al 30 giugno 2009, in provincia di Reggio si registravano 10.220 imprese femminili. L’esperienza reggiana conferma un fenomeno diffuso nelle società europee più avanzate, e cioè che dove le donne hanno ottenuto più diritti per sé hanno chiesto non posizioni privilegiate ma servizi alla famiglia, soprattutto ai bambini e agli anziani, contribuendo in modo determinante alla costruzione di una società più solidale. L’impegno politico e la partecipazione delle reggiane alla vita pubblica è invece drasticamente diminuito negli ultimi decenni, e questo ha provocato un indebolimento delle conquiste sociali delle donne, isolate ciascuna nella solitudine di rivendicazioni individuali dei propri diritti di cittadine e lavoratrici. Questo è avvenuto anche a causa della crisi delle organizzazioni femminili storiche – UDI e CIF – davanti all’impetuoso avanzare del movimento femminista negli anni Settanta, e poi del crollo dei grandi partiti di massa – DC, PCI e PSI – avvenuto nell’ultimo decennio del secolo scorso. Ma il peso della presenza femminile nella vita pubblica non è mai venuto meno. A Reggio abbiamo avuto e abbiamo tuttora figure femminili con ruoli sociali importanti: sono donne l’attuale presidente della Provincia, la presidente dell’Associazione Piccole e Medie Imprese, il direttore generale dell’AUSL, la presidente di Reggio Children, la presidente del Gruppo Giovani Industriali dirigenti a livello medio-alto di grosse cooperative, professioniste affermate, membri di consigli di amministrazione di aziende importanti; una donna è stata sindaco della città per tredici anni, dal 1991 al 2004. In questo quadro esistono tuttavia anche le ombre. In primo luogo la crisi economica ha colpito duramente anche le donne, che sono state espulse in gran numero dal lavoro. Poi ci sono delle cause più strutturali, discriminazioni legate a una mentalità dura a morire, come ha recentemente affermato Cristina Carbognani, la presidente dell’API: «È un dato di fatto che le
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donne, ancora oggi, facciano fatica a occupare ambiti decisionali pur avendo grandissime potenzialità, che dipendono da valori a noi connaturati, primo fra i quali il senso dell’organizzazione, oltre alla sensibilità che ci caratterizza e grazie alla quale sappiamo relazionarci con l’interlocutore nel giusto modo. Questo è un vantaggio che dobbiamo saper far fruttare.» È certo che lo sviluppo del nostro territorio non può prescindere dal contributo di un lavoro femminile sempre più qualificato e responsabile. Dalle interviste che abbiamo raccolto è emersa la richiesta che la politica sgombri il campo dai principali ostacoli che impediscono una realizzazione piena e soddisfacente delle donne nel mondo del lavoro garantendo loro, a parità di merito, pari opportunità di carriera rispetto agli uomini, e riconoscendo il valore sociale della maternità e del lavoro di cura familiare di cui le donne lavoratrici si fanno carico. In particolare chiedono di essere tutelate le lavoratrici più giovani, legate spesso a contratti di lavoro precario, per le quali la nascita di un figlio non solo si configura come il principale ostacolo a una soddisfacente carriera lavorativa, ma spesso costituisce la principale causa di perdita del lavoro stesso. Per completare il quadro di questa realtà complessa occorre aggiungere due fenomeni, diffusi a livello nazionale ma che hanno assunto importanza anche a Reggio Emilia. Il primo riguarda la violenza sulle donne, testimoniato da denunce sempre più numerose e culminato nel tragico episodio dell’ottobre 2007, quando Clirim Fejzo uccise la moglie e il fratello di lei e ne ferì l’avvocata. Anche nella nostra città gli atti di violenza sono perpetrati soprattutto da uomini, italiani o stranieri, legati da vincoli di familiarità o di relazione con le vittime, e sono trasversali a tutte le classi sociali, come documentano i dati diffusi dall’Associazione Nondasola, che di questo problema si occupa dal 1997. Ci sono poi nuove forme di violenza, portate dalla impetuosa immigrazione degli ultimi due decenni e che si traducono in forme mascherate di schiavitù: la prostituzione forzata di ragazze straniere, spesso giovanissime; la segregazione domestica di donne fatte venire dal loro Paese per ricongiungimento familiare e private della protezione della famiglia d’origine; lo sfruttamento del lavoro nero, soprattutto di colf e badanti immigrate. Il secondo fenomeno riguarda la presenza di un forte numero, sempre crescente, di donne straniere emigrate a Reggio da Paesi assai diversi, per ricongiungimento familiare o in cerca di lavoro. Secondo i dati diffusi dall’Ufficio Statistica del Comune al 31 dicembre 2008, su una popolazione censita di 24.401 migranti, le donne erano circa la metà: 11.992, pari al 7,52% dell’intera popolazione del Comune capoluogo. Di queste, circa un quarto ha un diploma o una laurea, un dato molto più alto del corrispondente maschile, ma per quasi tutte quelle che lavorano non
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c’è corrispondenza fra il titolo di studio e la mansione svolta. Qualunque sia il loro livello di studi o la competenza professionale acquisita nel loro Paese d’origine, queste donne difficilmente escono dall’isolamento domestico, o perché sono effettivamente casalinghe o perché trovano impiego quasi esclusivamente come badanti e colf. Al pari degli emigranti uomini le loro competenze professionali e le loro capacità intellettuali – sono tutte persone nel pieno della vita lavorativa – vengono disconosciute e sottoutilizzate, relegandole ai margini della comunità cittadina. Ma le donne vengono anche private di quella visibilità sociale e di quella possibilità di integrazione che derivano dal lavorare in fabbrica o nei cantieri assieme a lavoratori italiani. Da questa breve analisi emergono la complessità e l’importanza dei problemi che anche la nostra città si trova a dover affrontare in questi anni, senza però avere la coesione sociale e la forte identità politica che la caratterizzavano nel secolo scorso. Occorre perciò fare una nuova riflessione sui valori che stanno alla base della nostra comunità, produrre quei cambiamenti di mentalità che il nostro tempo ci impone, discutere tutti insieme, a cominciare dai più giovani, quale sarà il nuovo volto della città. Questo libro, composto di una serie di interviste a donne reggiane, vuole essere il nostro contributo a tale riflessione. Fra le donne intervistate mancano le rappresentanti del mondo politico e sindacale. Non si tratta di un’esclusione per motivi di demerito, perché anzi in questo settore ci sono figure che svolgono con grande competenza e dedizione il loro lavoro, ma in ruoli in un certo senso “tradizionali”, codificati da una storia che nella nostra città ha toccato punte di assoluta eccellenza: basti citare per tutte il nome di Nilde Iotti. Volendo però osservare i cambiamenti che stanno trasformando la comunità reggiana, abbiamo preferito rivolgere la nostra attenzione alla “società civile”, cercando figure di donne che presentino caratteristiche esemplari (nel senso filologico del termine exemplum: “modello scelto tra elementi omogenei con evidenti qualità comuni”, come dice il dizionario). Dunque non abbiamo cercato delle eccezionalità, per stilare una sorta di graduatoria di merito, ma alcuni profili femminili da proporre come esempi di realizzazione personale, con una importante ricaduta in ambito sociale. Ogni scelta, per definizione, comporta una selezione, pertanto è sempre parziale e può essere discutibile. Le tredici donne che compaiono nel nostro libro sono rappresentative di un più ampio universo femminile: sono tredici ma potrebbero essere centinaia. Le intervistate, pur diverse tra loro per età, carattere, formazione e ruolo professionale, hanno molte caratteristiche comuni. Per tutte loro la realizzazione personale avviene soprattutto nel lavoro, nel fare qualcosa per mi-
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gliorare la vita della comunità. Tutte dicono di amare la loro attività, che svolgono in assoluta autonomia rispetto alle figure maschili di eventuali mariti e compagni, e il lavoro le spinge a superare lo stretto ambito provinciale, le proietta verso il futuro in una dimensione a volte internazionale. Anche le due donne di origine straniera sono esemplari, se pure ancora in modo parziale: rappresentano infatti quelle “donne d’altrove” che non stanno più chiuse in casa all’ombra di mariti autoritari – secondo uno stereotipo dominante – o per osservanza di un costume che non condividono più, ma si integrano nella nostra società senza rinunciare alla propria identità storica e culturale. Un’altra caratteristica comune alle tredici donne è la modestia. Si dice solitamente che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, ma possiamo tranquillamente dire che non è altrettanto vero il contrario, anche se spesso le donne che hanno realizzato grandi cose sono generose nel riconoscere meriti agli uomini che le hanno aiutate o affiancate. Tra le nostre intervistate, alcune si sono mosse nel solco tracciato da un parente o da un leader, ma nella maggior parte hanno disegnato e percorso in modo del tutto autonomo la propria strada. Nessuna, però, si sofferma troppo sui propri meriti personali e, anzi, molte si interrogano su quali figure familiari possono averle ispirate o aiutate, e su quanto devono a circostanze fortunate. Attraverso le interviste a donne così diverse per caratteristiche individuali e ruoli sociali emerge uno spaccato di storia reggiana, dal dopoguerra ai giorni nostri. Alcune delle intervistate, vere testimoni dei tempi, hanno attraversato tutto questo periodo e ne parlano attraverso i loro ricordi; altre hanno vissuto il periodo che dagli anni Sessanta in poi ha visto le maggiori trasformazioni della città; altre ancora non hanno memoria storica, perché troppo giovani o troppo nuove alla nostra particolare realtà: dalle loro storie individuali emerge la realtà complessa e multiforme della città del Duemila. Le narrazioni sono tutte vivaci, come lo è di solito il racconto autobiografico, e questo le rende particolarmente accattivanti, di piacevole lettura anche per i più giovani. Questo libro è dedicato soprattutto a loro, in particolare alle studentesse e agli studenti che si stanno interrogando sul proprio futuro professionale. Leggendolo noteranno che le donne che si raccontano trasmettono una comune concezione della vita come “intrapresa”, come progetto che per riuscire richiede competenza professionale, fatica costante e coraggio. Il loro esempio concreto può rompere l’incantesimo negativo degli stereotipi del facile successo – affidato prevalentemente alla bellezza fisica e alle “relazioni che contano” – proposti quotidianamente, con molteplici forme e suggestioni, dai mezzi di comunicazione di massa, come già si è detto all’inizio. Le autrici
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La casa della danza Intervista a Liliana Cosi
Un filo d’acciaio che vibra: è la prima impressione. Liliana Cosi si muove leggera e sottile, da quella grande ballerina che è stata; ma il gestire elegante, il busto eretto, i passi rapidi emanano energia e determinazione, mai fragilità o evanescenza. Ci mostra con comprensibile orgoglio la sede dell’Associazione Balletto Classico, che guida da più di trent’anni assieme a Marinel Stefanescu. Nell’edificio si trovano il Centro di Produzione con i suoi atelier di scenografia e sartoria, la Compagnia Balletto Classico con le sue grandi sale prova, la Scuola di Balletto con sale prova più piccole, gli uffici. Liliana passa veloce da un ambiente all’altro, soffermandosi, in particolare, nella sartoria e nei locali annessi, dove su lunghi stendini stanno appesi centinaia di costumi multicolori. Li sfiora con delicatezza, quasi con affetto, e cita date, titoli, luoghi: i tanti spettacoli prodotti dalla Compagnia. Negli spogliatoi deserti si ferma un attimo, appende un accappatoio rimasto sul pavimento, dà un’occhiata in giro: Questi ragazzi, più sono grandi più sono disordinati. Più che un rimprovero è un sospiro quasi materno. Quando ci sediamo intorno al tavolo della sala riunioni ci fissa con i suoi occhi scuri e vivaci e inizia a raccontare con la precisione di chi ha a lungo riflettuto sulla sua vita e ha già riordinato i suoi ricordi.
L’ambiente milanese Da piccola ho avuto due fortune. Prima di tutto un contesto familiare solido e semplice: valori sani, affetti veri, grande solidarietà familiare, non troppi soldi. Lo stipendio a casa lo portava solo mio padre, però c’era tanta creatività da parte della mamma: una casalinga non frustrata, che si realizzava nell’amore per i suoi cari e nel lavoro per la famiglia, col quale, penso, raddoppiava lo stipendio del marito. Tanto che, pur con i pochi soldi che avevamo, i miei genitori ci permettevano di fare due mesi di vacanza al mare. Per la nostra salute, ovviamente, perché vivevamo a Milano, città inquinata anche allora. Poiché in famiglia eravamo in cinque l’albergo non ce lo potevamo permettere. Allora mia madre, da vera imprenditrice familiare, in primavera prendeva il treno e andava in Liguria a cercare una casetta da prendere in affitto per l’estate.
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D’inverno, poiché mio padre era un fanatico della montagna, scalatore e sciatore, era obbligatorio passare quindici giorni in montagna. Erano vacanze molto sobrie anche lì: aria buona, sport, vita in mezzo alla natura. Nessuno in casa aveva contatti con ambienti artistici o sensibilità particolare per l’arte. Quando hanno visto, per caso, che avevo questa predisposizione per la danza – unica in famiglia, perché anche mia sorella ci ha provato ed era un disastro, mentre a me tutto riusciva naturale – mi hanno iscritto alla scuola di danza della Scala. Lo hanno fatto semplicemente perché allora era gratuita. La Scala è stato il secondo elemento fondamentale per la mia formazione perché, nonostante l’ambiente fosse estremamente competitivo, da un punto di vista professionale era quanto di meglio poteva offrire l’Italia. Alla Scala la selezione è stata fortissima: all’ammissione ai corsi eravamo 350 bambine, siamo state ammesse in ventotto, ci siamo diplomate in cinque. Il terzo elemento importante per la carriera di Liliana Cosi fu una circostanza fortunata. Dopo il diploma, ottenuto all’ottavo anno di corso, quando non aveva ancora compiuto diciott’anni, era stata assunta nel corpo di ballo della Scala; tre anni dopo iniziarono gli scambi culturali fra il teatro milanese e il Bolšoj di Mosca. Il grande teatro russo era interessato a perfezionare i suoi cantanti lirici mandandoli nella patria del belcanto, e offriva in cambio l’insegnamento dei suoi straordinari maestri di danza. Superando i mille ostacoli creati dalla guerra fredda, nel 1963 cinque giovani cantanti russi giunsero alla Scala e cinque ballerine andarono al Bolšoj. Anche Luciana Savignano era fra le cinque giovanissime promesse della danza, e Liliana era la capogruppo.
Nel tempio della danza Quel viaggio mi spalancò un orizzonte importantissimo a livello professionale, e altissimo a livello artistico. Allora già cominciavo ad aprirmi al mondo dell’arte, cercavo delle figure ideali da imitare, ma mi sembrava che alla Scala non ci fossero dei modelli abbastanza alti. Avrei voluto essere come Margot Fontaine, come Galina Ulanova, ma le conoscevo solo di fama. Non le avevo mai viste ballare perché allora in Italia le grandi compagnie internazionali facevano pochissimi spettacoli, e la televisione era appena agli inizi. Al Bolšoj, invece, ho conosciuto i grandi ballerini da vicino, potevo andare tutte le sere in uno dei tanti teatri di Mosca a vedere balletti, avevo maestri professionalmente bravissimi: vivevo dentro la danza. Ero incantata da un mondo che fino a quel momento non ero riuscita neanche a immaginare, provavo emozioni impensabili. Al Cremlino c’era un teatro immenso, con un boccascena di venti metri: era il Palazzo dei Congressi, cosiddetto perché vi si svolgevano i congressi del PCUS. Seimila posti. Sempre strapieno. Era un pubblico spesso molto semplice, che però si emozionava ed entusiasmava davanti a quegli spettacoli di così alto livello artistico. Lì mi è apparso evidente come l’arte fosse un
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mezzo per elevare le persone, un’idea che in Italia non era così chiara, perché da noi a teatro emergevano aspetti più superficiali, più divistici. Quella intuizione mi piacque moltissimo. La famiglia, la Scala, il Bolšoj; a completare la sua formazione umana e professionale si aggiunge, a vent’anni, l’incontro con l’importante movimento cattolico dei Focolari. Quella per me è stata una luce che ha illuminato e potenziato la mia vita in tutti i suoi aspetti. Tutto quello che interessava a me, non solo interessava a Dio, ma interessava all’umanità: io potevo influire sull’umanità vivendo questa comunione con Dio. Un impegno fortissimo che ha nutrito la mia carica umana e spirituale.
Il lago dei cigni Questa profonda spiritualità guiderà Liliana in tutta la sua attività artistica, che proprio in quegli anni ha una improvvisa accelerazione. Nel marzo del 1965 ritorna infatti a Mosca con un altro scambio e si immerge nuovamente in quell’ambiente, cercando di coglierne gli ideali artistici più profondi. Stavolta però è guidata anche da una motivazione diversa, come si coglie da una pagina del suo diario moscovita: Non devo ballare per Gesù, ma deve essere Gesù in me che balla, dunque lo devo fare perfettamente. Farà talmente tanti progressi che la direzione del Bolšoj decide di farla debuttare come protagonista: sarebbe stata Odile e Odette nel Lago dei cigni. Il sogno di tutte le ballerine si avverava per lei a soli ventitré anni, e in una cornice grandiosa: il Palazzo dei Congressi del Cremlino. A livello professionale è stato fondamentale l’insegnamento di Irina Tichomirnova, la maestra che mi ha preparata al debutto. Allora ero molto giovane, avrò avuto anche delle qualità tecniche, delle potenzialità, ma per arrivare a reggere il ruolo della prima ballerina nel Lago dei cigni al Bolšoj, dove si balla “in un certo modo” o non si balla affatto, ce ne correva. La Tichomirnova ha cercato di tirarmi fuori tutto quello che avevo dentro, con un rigore inflessibile, quasi feroce. Non mi perdonava niente. Ma quella severità è stata la mia fortuna, perché un maestro è come uno scultore: scolpisce il suo allievo, e meno sbavature gli lascia più quello brilla. Da giovane io avevo questa qualità: non solo ricordavo quello che la maestra mi diceva, ma ci credevo. Credevo all’amore della maestra per me, pensavo che quello che diceva lo diceva per il mio bene, tanto che anche adesso, quando faccio certi esercizi, risento ancora la sua voce e i consigli che mi dava. Sono stata al Bolšoj quattro anni e ho avuto vari maestri, tutti molto bravi, ma lei mi è stata accanto in modo unico. Il mio debutto è stato un esame per lei e per me. Se andava male, andava male per tutte e due. Grazie a Dio è andato bene. In realtà andò benissimo: i seimila spettatori la applaudirono entusiasti, le autorità del Bolšoj si congratularono con lei, e la divina Maja Plisetskaja
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interruppe le prove di un suo balletto per andarla a vedere e complimentarsi. Dopo sessantaquattro anni una prima ballerina italiana danzava di nuovo in un teatro russo.
Un’étoile deve rispettare il suo pubblico Liliana Cosi è diventata étoile giovanissima, a ventitré anni. Però nel pieno delle sue forze, alla metà degli anni Settanta, ha abbandonato la Scala per creare una sua Compagnia di balletto e poi una Scuola a livello professionale. Che cosa l’ha spinta a questo passo: forse l’esempio dei suoi grandi maestri, o l’assenza in Italia di una Compagnia e di una scuola autonoma dai teatri? L’idea che nel mio futuro ci sarebbe stata una scuola penso sia nata il primo giorno che ho messo piede al Bolšoj e ho visto come si insegnava lì. Mi sono detta: ho incontrato questo metodo a ventun anni, ma se io cominciassi a insegnarlo a ragazzi di dieci/undici anni gli effetti sarebbero diversi. Mi è sembrato logico pensare: quando sarò vecchia aprirò una scuola e insegnerò come si fa qui. Poi ho accantonato l’idea, anche perché, quando ne parlavo con qualcuno dei miei maestri russi, loro mi dicevano: «Per adesso balla, prima devi ballare e ancora ballare». Andando poi avanti con la carriera ho scoperto che anche in campo artistico c’era una certa ripetitività: ero diventata “étoile”, ero invitata da impresari in tanti teatri di diverse parti del mondo, interpretavo i balletti del grande repertorio. Tutto secondo copione. Negli anni Settanta iniziarono le sperimentazioni nella danza. Lì ho avuto le prime delusioni. La Scala invitava dei coreografi, io ero la prima ballerina e quindi spesso montavano il balletto su di me. Alcune esperienze sono state interessanti, con George Skibin per esempio, ma altre erano di una banalità tremenda. Io non volevo prestarmi a queste sciocchezze per fare gli interessi di un teatro che si considerava essenzialmente un ente lirico. Mi ero resa conto, infatti, che la Scala a volte accoglieva dei coreografi di altri teatri semplicemente per poter realizzare lo scambio vero, quello che a lei interessava: per esempio un direttore d’orchestra. Ma io non volevo prestarmi a spettacoli banali e così, secondo i miei principi, mancare di rispetto al pubblico che mi amava. Cercavo allora di sottrarmi in modo garbato, per esempio dicevo che non stavo bene, che avevo male a un piede, cosa che in realtà spesso corrispondeva alla verità.
L’incontro con Marinel Stefanescu Poi ci fu un fatto importante, la classica circostanza casuale che ti cambia la vita. Nel 1975 Liliana Cosi fu contattata da un direttore di Raitre, che voleva organizzare un festival a Martina Franca per il settembre di quell’anno. Le affidò la preparazione di tutto quanto riguardava la danza e le diede carta bianca. Alla Cosi la proposta sembrò bellissima e ne parlò con un collega con cui aveva stretto una certa amicizia in quegli anni: Marinel Stefanescu.
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Lo avevo conosciuto nel 1972. Non ho mai avuto un partner fisso e Marinel era uno dei tanti bravi ballerini con cui avevo ballato. La differenza che avevo subito notato in lui era questo suo amore non per la carriera, ma per la danza, la musica, la creatività. È una qualità rara in campo artistico, perché il virus della carriera, dell’impresario, dei soldi, prima o poi contagia tutti. Marinel aveva già creato dei balletti nel suo Paese d’origine, la Romania, ed era allora primo ballerino al teatro dell’Opera di Zurigo. Mi sono rivolta a lui chiedendogli di montare qualcosa per questo festival. Ne fu entusiasta. Per la prima volta potei apprezzare la creatività di Stefanescu. Creò un balletto ispirato alla Patetica di Cˇ ajkovskij. In quella musica suggestiva scoprì tre motivi, che divennero tre personaggi: la vita, l’amore, il destino. Alla fine del balletto la vita muore, ma poiché muore per amore in realtà non muore mai, perché l’amore vive in eterno. Queste erano le sue idee e a me piacevano. Perché una cosa bella che mi avevano spiegato i maestri russi era che tu non devi ballare per raggiungere l’effetto, per strappare l’applauso, ma per arrivare al cuore del pubblico. Questa esigenza di dare un senso al gesto della danza era molto forte in Marinel, e su questo è nata la nostra sintonia. Poi c’è stato un secondo anno, con un secondo festival, dove abbiamo presentato altri balletti di sua creazione. Anche quella volta abbiamo ballato insieme, creando una nostra Compagnia per poche settimane.
Addio alla Scala Intanto la carriera per me non era facile: alla Scala i balletti erano pochi e dovevo dividerli con le altre prime ballerine. Per fortuna andavo spesso all’estero, ma non era facile avere i permessi. Il teatro milanese non aveva una vera direzione ballettistica; di tutti i problemi riguardo al balletto, delle idee che avevo, alla Scala non potevo parlare con nessuno che fosse in grado di capirmi e fare qualcosa. A quell’epoca il direttore artistico era Claudio Abbado, bravissimo direttore d’orchestra, colto e sensibile ai problemi della musica, ma privo di competenze specifiche nel campo della danza. Ero nel pieno della mia maturità artistica, mi sentivo pronta a un cambiamento e allora mi sono detta: «Cosa sto qui a morire in un sepolcro d’oro (tale mi sembrava la Scala)? Perché devo delegare la mia carriera alla direzione di un ente lirico?» Ho sentito che dovevo prendere in mano il mio destino, e che ormai avevo tutti gli elementi per poter dare al mondo qualcosa. Questo non voleva dire non ballare più per la Scala: per lei ho fatto ancora degli spettacoli, anche all’estero, però volevo creare le condizioni per dire al pubblico qualcosa di veramente mio. Sapevo che Il lago dei cigni l’avrei ballato tutta la vita, e l’ho ballato ancora, e così Giselle: sono dei valori immensi. Ma potere anche dire qualcosa di proprio è bello, anzi è necessario.
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A questa decisione seguì un periodo di intensi contatti con Paolo Grassi, allora sovrintendente del teatro milanese, con personaggi politici, con il Ministero dello Spettacolo, con amministratori locali. A tutti Liliana Cosi spiegava il suo progetto: creare una compagnia autonoma, con una gestione e una programmazione agile, che fosse in grado di portare gli spettacoli a un pubblico vasto, diffondendo così in Italia i valori della danza classica e l’amore per essa, ma le risposte erano evasive. L’incontro con Stefanescu mi ha dato coraggio, perché anche lui condivideva il progetto e voleva realizzarlo senza calcolare le conseguenze per la sua carriera. E poi nel ’76 si era sposato con una ballerina inglese, e doveva mettere radici. La situazione parve sbloccarsi quando presi dei contatti a Modena con i dirigenti dell’ATER, l’Associazione Teatri Emilia-Romagna, che volevano costituire, parallelamente all’orchestra, anche una compagnia di balletto regionale. Dopo l’incontro con me e Stefanescu pensarono di affidarne a noi la direzione artistica. Non avevano ancora deciso dove fissare la sede e ci chiesero di andare a vedere tre teatri: Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Dopo averli visitati non abbiamo avuto dubbi che quello di Reggio fosse il più adatto. Intanto era in ristrutturazione, per cui si potevano fare gli interventi opportuni; poi abbiamo scoperto all’ultimo piano la sala delle scenografie, che si poteva trasformare facilmente in sala prove, assieme ad altre sale laterali. Eravamo felici: il nostro sogno si avverava. Marinel, assieme alla moglie si è trasferito a Reggio; io facevo la pendolare fra Milano e qui, abbiamo cominciato a lavorare per i primi sei mesi. È stato un periodo breve, dopo il quale noi e gli amministratori locali ci siamo divisi, perché eravamo ideologicamente troppo diversi; però quel progetto è stato il motivo concreto per cui ho trovato il coraggio di licenziarmi dalla Scala.
Un progetto di breve durata La collaborazione con l’ATER si interruppe dopo solo sei mesi. Come mai? Liliana sorride. Ovviamente io vedo i fatti nella mia ottica, i dirigenti di allora avranno certamente delle valutazioni diverse. Proprio l’altro giorno ho avuto un incontro con Giuseppe Gherpelli, che adesso è vicepresidente della Fondazione dei Teatri. Abbiamo parlato di quel progetto lontano e di quella riunione che ne decise la fine. Allora, trentadue anni fa, vi partecipava come assessore alla Cultura della Provincia di Reggio e assieme a lui c’erano molti altri amministratori locali. Dopo tutte le nostre esperienze, in Italia e all’estero, a livelli mondiali, Marinel e io avevamo le idee chiarissime su come partire per costruire una compagnia di ballo regionale, ma che doveva servire alla diffusione del balletto in tutta l’Italia. Stavamo per esporle quando ci siamo resi conto che quegli uomini che sede-
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vano di fronte a noi avevano già i loro piani: volevano dirigere l’organizzazione e la programmazione della compagnia, non solo sotto il profilo economico, come era loro precisa competenza, ma anche da un punto di vista artistico. Questo è stato il motivo vero della rottura: non i soldi, non il genere. Perché allora non c’era una netta distinzione fra il classico e il contemporaneo, e poi anche i coreografi più classici si stavano orientando verso un ripensamento della tradizione. Anch’io mi rendevo conto che non potevamo fare il Lago dei cigni: ci volevano troppi soldi. E noi non potevamo essere in concorrenza con un ente lirico, ma non volevamo neanche. Il nostro balletto doveva essere una cosa più agile, doveva essere una compagnia di giro e conquistare pubblico. In Italia c’era una penuria tremenda di balletti; anche a Roma e Napoli non c’erano più di sei spettacoli all’anno e noi eravamo due artisti nel pieno della carriera, che volevano ballare per portare la danza e la sua bellezza alla gente, perché l’artista è di per sé educatore del pubblico. Per la scuola era troppo presto; allora non pensavamo di creare una scuola.
La grande avventura Nonostante il fallimento del progetto di collaborazione con l’ente locale Marinel e Liliana si fermarono a Reggio Emilia: lui ormai abitava con la moglie in una casa del centro storico vicinissima al teatro; lei si era trasferita da Milano, prima presso un’amica ospitale, poi in un’abitazione propria. Affittarono una sala prove a Mantova, perché a Reggio non avevano trovato niente di adatto; Stefanescu fece venire dei ballerini da Bucarest; contattarono un impresario che organizzò la loro prima tournée italiana. I giornali ne parlarono con titoli importanti: Reggio Emilia capitale della danza. La Cosi puntualizza, cortese ma inflessibile: Perché c’eravamo noi che lavoravamo a Reggio. Avevano cominciato in modo un po’ informale, ma già nel ’77, assieme ad alcuni amici, Liliana, Marinel e sua moglie fondarono l’Associazione Balletto Classico, che aveva un suo statuto ben codificato. Ci siamo resi conto subito che anche solo per firmare un contratto con l’impresario non potevamo agire come singoli, dovevamo associarci. Eravamo in cerca di una sede; Marinel ha scoperto questo stabile, fatto per una ditta che montava cucine. Era molto grande, perché prevedeva vasti spazi per la lavorazione e la mostra dei mobili. In più aveva al secondo piano quattro appartamenti. È stato lo stabile, con le sue caratteristiche, a suggerirci l’idea della scuola. Dopo averlo visto Stefanescu mi disse: «Ho trovato due possibili sedi: una con un piccolo capannone che potrebbe diventare una sala prove per la compagnia, e poi ce n’è uno più grande (che era poi questo). Se si riuscisse a prendere quello più grande, allora lì ci sarebbero anche gli spazi per fare una scuola. Qui in Italia ci sono sempre ballerini stranieri perché non riuscite a istruirne a sufficienza. Tu sei italia-
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na, sarebbe anche giusto che tu lasciassi qualcosa all’Italia, visto che l’Italia ti ha dato una formazione, ti ha mandato all’estero». Per lui questo era un assioma indiscutibile. Era anche nei miei desideri, anche se pensavo che l’avrei fatto più avanti e non in piena carriera. Ma ormai le cose si erano messe in quel modo, e allora abbiamo aperto la scuola, nel settembre del 1978. L’edificio era costoso e noi eravamo senza una lira, ma d’altra parte non avremmo potuto prenderlo in affitto, perché era un capannone industriale vuoto e avremmo dovuto spendere troppo per fare tutti gli interventi necessari per trasformarlo in una scuola di danza. I primi quaranta milioni, come dico sempre, ci sono arrivati attraverso un intervento della Divina Provvidenza sotto forma di un’inaspettata donazione, e poi il Credito Emiliano ci ha dato fiducia. In seguito ci ha aiutato tanta gente: mio fratello ingegnere, mio padre, che si trasferì temporaneamente a Reggio proprio per questo, ma anche persone che non avevamo mai conosciuto prima, per esempio l’architetto che ci ha fatto i disegni gratis, e tanti reggiani, perché capivano che la nostra era un’impresa nuova, una cosa bella. Invece i rapporti con gli Enti locali furono sempre problematici, anche se la Cosi si sforza di analizzarli senza punte polemiche, distinguendo le responsabilità. La relazione con l’Amministrazione comunale non si è mai rotta completamente. L’Aterballetto è nato e ha acquistato la sua fisionomia attraverso il lavoro dei vari coreografi cui veniva affidato, però noi convivevamo assieme a lui e tutti gli anni facevamo vari spettacoli al Municipale. Guido Zannoni, il direttore del teatro, ci ha sempre lasciato spazi e occasioni. Tutte le nostre grosse produzioni, tutta la creatività di Stefanescu si è realizzata al Valli. Il direttore ci dava gratuitamente il teatro per una settimana per poter provare e montare i nostri spettacoli, e di questo io sono molto riconoscente a lui e al Comune, che ci dava anche un contributo annuo. Questo per i primi dieci anni. Le cose sono cambiate quando Aterballetto è divenuto Centro Regionale della Danza e poi Fondazione Regionale. Quando ne ho letto lo statuto ho pensato che anche noi avremmo potuto esserne partner, costituire un’alternativa e un’apertura verso il privato, anche perché un Comune deve poter sfruttare le risorse del suo territorio. Invece in questo caso c’è stata una chiusura ermetica. Ho l’impressione che la Fondazione vedesse in noi una concorrenza anziché una sinergia, e ne avesse paura. Invece i diversi non si fanno concorrenza, semplicemente arricchiscono la creatività di una città. Inoltre offrono più possibilità di accontentare i molteplici gusti del pubblico. Abbiamo fatto tanti colloqui e incontri con i diversi sindaci, assessori, dirigenti che si sono alternati: è stato difficile, ed è difficile anche adesso. È un peccato, perché si tolgono al pubblico delle occasioni di maggior confronto culturale. Perciò adesso facciamo raramente degli spettacoli in teatro a Reggio. Ne abbiamo fatto uno in occasione del trentennale della compagnia, ma non è stato
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semplice, e ci siamo riusciti grazie anche a una sponsorizzazione dal Credito Emiliano. Però ho fiducia che la situazione si modifichi, sarebbe solo un vantaggio per la città.
Gli amici di Reggio Emilia L’incontro con la cultura del territorio reggiano, molto pragmatica e concreta, non deve essere stato facile neanche sul piano delle relazioni individuali. I reggiani amano la disciplina e il lavoro fatto bene, ma certo negli anni Settanta doveva esserci una grande differenza fra la mentalità di una popolazione ancora legata alle sue tradizioni contadine e quella cosmopolita di due artisti internazionali. Di questa terra ho apprezzato la concretezza, perché anche noi siamo dei lavoratori: lavoriamo dal mattino alla sera. Facciamo tutto quello di cui c’è bisogno, compreso l’aiutare a scaricare il camion, anche prima dello spettacolo, come ha fatto spesso Stefanescu. I reggiani vedevano in noi degli imprenditori che stavano impiantando un’impresa, un’azienda del tutto nuova per giunta, perché noi siamo stati la prima compagnia di giro in Italia. Nella sua autobiografia Liliana scrive che quando ha debuttato a Mosca nel Lago dei cigni aveva intorno tante persone per aiutarla, e una sarta a sua completa disposizione. Ci deve essere voluto un bel coraggio a lasciare i grandi teatri per affrontare i rischi di una compagnia autonoma. Quando glielo facciamo notare si mette a ridere. Sì, ce n’è voluto, ma il mio obiettivo non era la mia persona, era quello che io potevo dare agli altri. Inoltre venivo da una famiglia molto semplice, l’atteggiamento della diva non faceva per me. Si ferma un attimo, quasi a misurare il cammino fatto. Organizzare i camion, portare in giro gli spettacoli, cercare i contratti… All’inizio è stata un’impresa pazzesca. Gli amici, quelli che mi hanno ospitata, quelli che ho conosciuto dopo, partecipavano, vedevano il nostro impegno e la nostra fatica. Dopo venivano anche a vedere i nostri spettacoli, e magari li apprezzavano, ma prima avevano misurato il nostro impegno concreto, perciò ci hanno aiutato. Questo edificio della scuola è sacro perché è anche frutto dell’amore di tantissime persone, che non hanno voluto la targhetta o il nome dello sponsor, però hanno sentito che dovevano incoraggiarci, concretamente e finanziariamente. Anche nel convitto ci sono dei volontari che ci aiutano: abbiamo allieve che vengono da tutta Italia, e l’inserimento in una nuova scuola, alle medie inferiori o anche nei primi anni delle superiori, è sempre traumatico, perché la scuola reggiana è abbastanza esigente. Questi amici generosi danno ripetizioni ai nostri allievi in difficoltà. C’è anche chi ogni tanto ci prepara la cena per il convitto, quello di via Sant’Agostino o quello, per le allieve più grandi, di via Filippo Ferrari. C’è sta-
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to un periodo che avevamo delle bambine molto piccole: ci aiutavano ad accompagnarle in autobus dei volontari. D’estate le portavano fuori a prendere un gelato, oppure le aiutavano a fare i compiti. Anche adesso qualcuno ospita delle ragazze più grandi, perché hanno bisogno e magari non c’è posto nel convitto. Se non avessimo avuto tanti amici e persone che volontariamente hanno messo a disposizione il loro tempo per noi non avremmo potuto reggere.
L’allievo al centro di tutto L’apertura della scuola, nel ’78, ha creato un giro nazionale: solo pochi allievi, circa un 20%, vengono da Reggio Emilia e dal suo territorio. I ragazzi, dai dieci ai diciotto anni, vengono da tutta Italia, si iscrivono, fanno un esame di ammissione, attitudinale e medico. Alla selezione non si presentano in tanti perché questa è una scuola professionale, che richiede un rigoroso impegno quotidiano, come alla Scala e al Bolšoj. L’età ideale per iniziare è verso i dieci-undici anni. Tutti i corsi sono compatibili con la frequenza della scuola statale e coincidono con l’anno scolastico: da metà settembre a metà giugno, più un corso estivo di cinque settimane. Vacanze che durano tutta l’estate segnerebbero un distacco troppo lungo. Uno dei principi pedagogici che ci differenzia rispetto alla Scala nasce dalla mia convinzione che tutto deve girare attorno al ragazzo, non alla danza. Il ragazzo deve crescere imparando il balletto al massimo livello, ma non a detrimento della sua personalità e della sua cultura. Perciò gli orari dei nostri corsi sono fissati in modo che l’allievo possa frequentare anche tutte le lezioni della scuola statale. L’anno scorso abbiamo avuto otto ragazzi che hanno superato l’esame di maturità, quest’anno ne abbiamo cinque. Teniamo dei rapporti molto stretti con le scuole; c’è stato un periodo in cui avevamo delle difficoltà con alcuni ragazzi, e ci facevamo mandare un pagellino mensile, con il quale controllavamo, oltre al loro rendimento scolastico, anche la frequenza, perché i nostri allievi non hanno nessun motivo di fare assenze a scuola per frequentare i corsi di ballo. Noi diciamo loro che non si balla con le gambe ma con la testa, che la cultura è indispensabile per la creatività e per la formazione di un artista. Questo è un discorso che convince le famiglie e anche gli insegnanti. A Reggio i primi anni i presidi e gli insegnanti erano diffidenti, ci rimproveravano di stressare gli allievi impegnandoli due-tre ore tutti i pomeriggi: non avrebbero più potuto studiare. Ma quando hanno visto i risultati si sono resi conto che erano ragazzi motivati, che stavano più attenti degli altri studenti, perché il balletto classico ti abitua alla concentrazione su te stesso, e quindi anche a prestare attenzione alla lezione. Capisci più alla svelta, fai i compiti più in fretta, quindi adesso se li contendono nelle classi. Quest’anno nella scuola ci sono settanta allievi; i maschi sono solo sei… proprio pochi.
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All’ultimo esame di ammissione, che abbiamo fatto pochi giorni fa, si sono presentati tre maschietti: due italiani e un albanese. Speriamo che decidano di frequentare. Il problema dei ragazzi è che a scuola vengono derisi dai compagni: se fai calcio va bene, se fai il balletto classico pensano che diventi una ragazzina. Ma pensare che la danza classica si fa con la grazia è uno stupido pregiudizio molto diffuso in Italia; in Francia o in Germania non è così. La danza classica è eleganza, coordinamento, ma ci vuole una potenza incredibile per coordinare il corpo. Sotto questo profilo è una disciplina molto più maschile, e infatti i ragazzi fanno dei progressi più veloci che le ragazze, perché appunto sono più forti. Al di là di questi errori di mentalità le giovani generazioni, così poco autodisciplinate ed eterodisciplinate, ancora sono attirate dalla danza, che è così rigorosa, che richiede fatica e sacrificio? Una scuola professionale come la nostra non prevede folle di allievi, perché la società non ha bisogno di moltissime figure in questo ruolo. Da un punto di vista educativo, però, frequentare i corsi per due o tre anni farebbe molto bene a tutti, perché la danza è una scuola di vita. Una scuola tanto esigente, con un obiettivo così preciso come quello di insegnare a dare tutto, non per vincere un premio ma per esprimere il meglio di sé, piace ai giovani, anche perché capiscono che vediamo in loro delle qualità e che cerchiamo di svilupparle. Io non ho preclusioni verso i giovani d’oggi, non penso che siano sfaticati o irresponsabili; dipende da noi adulti, da cosa gli mostriamo, da come li affasciniamo. Non è vero, infatti, che i ragazzi di oggi non amano l’impegno, è che non vedono l’obiettivo finale dei loro sforzi. Se tu glielo mostri, e gli mostri i passaggi intermedi da compiere, loro li superano anche se sono faticosi. Da noi gli allievi vedono concretamente i risultati delle loro fatiche perché possono entrare in sala prove quando Stefanescu monta degli spettacoli per la compagnia. Così i ragazzi vedono cosa riusciranno a fare alla fine dei corsi, anche se non sono per ora in grado di arrivarci. Poi vanno a vedere gli spettacoli e ne traggono delle emozioni forti, perché associano il successo dello spettacolo al lavoro dei ballerini che hanno visto faticare tutti i giorni. Perciò vengono a lezione anche se hanno una linea di febbre, perché si accorgono che se non frequentano una settimana regrediscono di un mese, se si fermano peggiorano, e la meta si allontana sempre di più. Nel balletto non vale la fortuna: se sei bravo bene, altrimenti non c’è niente da fare. Nella musica puoi dire che il tuo strumento è accordato male. Nel balletto lo strumento sei tu, e per arrivare a fare del proprio corpo uno strumento efficace, che non stecca, devi fare leva sulla psiche, la forza di volontà, la motivazione, tante cose. Quindi insegnando a un allievo tu incidi su tutta la sua persona, lo formi come uomo o come donna. È una soddisfazione incomparabile, che non avrei mai immaginato.
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Ballare con l’anima Evidentemente a Liliana Cosi piace molto insegnare, si vede dall’entusiasmo con cui parla. Viene istintivo chiedersi se l’essere ballerina e donna abbia un peso nel suo insegnamento. Ha un attimo di esitazione, come se non si fosse mai posta la domanda. Spero di sì. Potrei dire che una caratteristica femminile è proprio questo amore per la persona intera dell’allievo. Riesci a far sbocciare i giovani a tutto tondo, perché riesci a scoprire tutti i talenti di tuo figlio, perché ogni allievo è come un figlio. Allora le inventi tutte perché è l’amore che ti spinge; non è solo l’abilità professionale, il salto, la tecnica, che tu persegui, anche se certo è lì che bisogna arrivare, ma l’amore ti fa apprezzare tante altre qualità che vedi in un ragazzo, e te ne prendi cura. Dico sempre ai miei allievi: quando sali su un palcoscenico troverai sempre uno che salta un po’ più di te, che ruota un po’ meglio di te, che è un po’ più alto di te, ma di te ce n’è uno solo. Quindi, per esempio, quando balli il tuo sorriso deve essere vero, non tirato: questo è difficile. Di arabesque ce ne sono migliaia, ma a me interessa come lo fai tu. Sotto questo profilo anche Stefanescu è d’accordo con me, perché l’artista non è un ginnasta e tipica dell’artista è la sua unicità, la sua interpretazione. Certo che prima devi dare al tuo allievo i mezzi adeguati: le tecniche, le conoscenze, la muscolatura. La Tichomirnova, la maestra russa che mi ha preparato per Il lago dei cigni, era severissima e non lasciava niente al caso; si sarebbe potuto dire che aveva annullato la mia personalità e che io ero diventata come lei: sembravo spontanea ma ero un computer. A venti giorni dallo spettacolo, però, quando ha capito che possedevo perfettamente tutta la parte tecnica, mi ha detto: «Adesso dimentica tutto quello che ti ho insegnato e balla con la tua anima italiana». Se i suoi allievi sono un po’ suoi figli c’è anche un aspetto generativo, materno, nel suo lavoro. Assolutamente sì. Mi ricordo una volta che stavo insegnando a una ragazza una figura eminentemente tecnica: il piquet in primo arabesque, dove bisogna ruotare su una nota musicale e finire il movimento su una punta, la gamba indietro e il braccio in avanti. È un movimento bellissimo, che dà un senso di infinito mentre lo fai, ma richiede una grande concentrazione su te stessa. Questa ragazza non riusciva molto bene: arrivava a pezzi, con il braccio e non con la gamba, dopo la musica, prima della musica, però si sforzava di riuscire a raggiungere questo coordinamento di tutta la persona: polso, braccia, gambe, testa. Mentre le insegnavo a un certo punto ho capito che non guidavo la punta, la gamba, il polpaccio, ma un motore dentro, un centro della persona, e questa ragazza pian piano non pensava più alla testa, al polso, alla gamba, al ginocchio, ma prendeva il movimento da questo centro interiore. È stata una sensazione che ho avvertito chiaramente, e anche la ragazza ha colto questa relazione profonda. È importan-
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te fare capire che c’è un centro dentro di noi, perché il bravo maestro deve mettere l’allievo sulle sue gambe; guai a creare un rapporto di eterna dipendenza.
La diffusione sul territorio Quanti allievi sono andati per il mondo sulle loro gambe? Molti, anche se non ne abbiamo diplomato tantissimi, ma abbiamo un primo ballerino a Glasgow, un’altra a Dresda, poi in Svizzera, in Spagna, alla Scala. Alcuni hanno aperto delle scuole e insegnano. Altri hanno smesso e si sono sposati, però ci sono molto grati per la formazione umana che gli abbiamo dato. Perché la vita non ti offre tutto su un piatto d’argento, te la devi guadagnare la vita. E qui loro imparano che ogni piccolo progresso ha un costo. La scuola Cosi-Stefanescu ha quindi dato il via a molte altre scuole, di carattere amatoriale, tenute da ex allievi, che spesso inviano alla scuola madre i ragazzi migliori perché si presentino alla selezione. Anche a Reggio Emilia, in trent’anni, il terreno è stato dissodato. Abbiamo diversi ex allievi che hanno aperto scuole, da Castelnuovo Monti alla città, ma anche fino a Parma. Speriamo che lo facciano con lo stesso spirito con cui l’abbiamo fatto noi: non sfruttare il ragazzo, ma farlo crescere bene, anche se non hanno le strutture adatte per dargli una preparazione professionale. Il livello amatoriale, però, è importante proprio perché è educativo, e comunque queste scuole diffondono una sensibilità e una cultura, per cui moltissimi giovani vanno poi a teatro ad assistere agli spettacoli di balletto. Se l’amore per la danza adesso è così diffuso è anche per merito nostro. Si pensi anche a quanti spettacoli abbiamo fatto per le scuole di Reggio. Ogni volta sono migliaia di ragazzi che vengono a teatro. Mi ricordo l’anno che abbiamo danzato per loro Il risveglio dell’umanità, che mi sembrava un balletto un po’ impegnativo per i ragazzi delle scuole. Alla fine dello spettacolo si è chiuso il sipario: silenzio. Poi una ragazza dal fondo ha gridato: «Grazie. Ci avete fatto sognare!» Mi sono detta: «Basterebbe questo.» Oppure mi ricordo un altro spettacolo che finiva con un balletto sulla seconda rapsodia di Listz, e i ragazzi che uscivano allegri, canticchiando quella bella musica così piena di vita. Sì, abbiamo seminato tanto. La collaborazione con le scuole reggiane avviene attraverso l’Associazione culturale “5T”, un’agenzia collegata con il teatro Valli che si occupa di organizzare gli spettacoli per gli studenti. Tutti gli anni la compagnia Cosi-Stefanescu fa tre spettacoli per le scuole al teatro Ariosto. Quest’anno è iniziata anche una collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune per un’attività motoria per le scuole elementari finalizzata alla danza. Inoltre qualche scuola chiede degli interventi specifici. La collaborazione con le scuole è fondamentale, perché in televisione la danza classica, come la musica classica, non esiste, e ciò che non esiste in televisione non trova spazio nella società.
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Mi sembra però che la scuola recentemente abbia aperto un po’ gli occhi sull’educazione alle arti, che è così importante e formativa, sviluppa la creatività del ragazzo, gli dà maggiore sicurezza di sé.
Danza classica, danza contemporanea Nella scuola Cosi-Stefanescu viene privilegiata la danza classica, ma c’è un rapporto anche con la danza contemporanea? La domanda deve toccare una qualche corda profonda perché Liliana risponde d’impeto. La nostra si chiama Associazione Balletto Classico, perché la danza classica è la nostra professione e da lì viene la nostra formazione. Il balletto classico è la base di tutto quello che va sotto il nome di danza per qualsiasi ballerino, e tutte le compagnie di danza contemporanea, soprattutto se sono compagnie importanti, preparano e allenano il loro corpo di ballo con le lezioni di balletto classico, perché è l’allenamento più completo. Facciamo un parallelo con la musica: come la musica colta contemporanea non può ignorare la grande musica del Settecento e dell’Ottocento così accade per la danza. Nella storia c’è un momento in cui il genio umano ha toccato la perfezione sia nella musica sinfonica che nel balletto classico, e da quello non si può prescindere. La danza classica vuole mandare un messaggio di armonia, ma l’armonia la si può raggiungere anche con la danza contemporanea, anche perché spesso il confine fra danza classica e contemporanea è molto labile. Già trent’anni fa, quando Stefanescu ha montato il balletto sulla Patetica di Ciajkovskij, nell’ultima parte io entravo a piedi scalzi. Era un momento drammatico e i miei gesti, che pure derivavano dal balletto classico, si spezzavano, diventavano più espressivi, meno legati ai codici tradizionali. Dunque c’è massima libertà, ma non si può prescindere dalla base classica. Nella scuola di balletto classico, poi, si insegnano altre materie: la danza di carattere, le danze popolari, la varietà infinita dei ritmi europei che nel Seicento furono alle origini di questa arte. È una grande cultura e perciò non possiamo preparare un ballerino come un manichino che alza una gamba, a destra o a sinistra a caso, come quelli che vediamo in televisione. Quella non è arte, ma un semplice sfruttamento delle doti del corpo. Nella danza contemporanea bisogna poi fare delle distinzioni, perché il risultato dipende dal coreografo: se vuole solo spogliare in palcoscenico un bel ragazzo o una bella ragazza per fare uno scoop per i giornalisti, o se vuole esprimere la parte migliore di se stesso. Noi non balliamo solo su musica classica, anche se crediamo nella musica classica; abbiamo ballato su musica di Adrian Enescu, un contemporaneo, o su musica antichissima, dipende da cosa ispira il coreografo. Fa una pausa brevissima.
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Ormai vado poco in giro, ma a volte vedi la gente che esce dal teatro perplessa e dice: «Mah, non ho capito». Vuol dire che l’artista non si è fatto capire, perché l’arte è un linguaggio e l’artista deve usarlo per comunicare con chiarezza al pubblico delle emozioni, scegliendo quelle che valgono. L’arte è questa incredibile capacità dell’uomo di comunicare la sua sensibilità alta, i suoi sogni, i suoi ideali, attraverso le cose che fa. Per esempio, Stefanescu, che pure non è una persona senza difetti, riesce a mettere nelle sue coreografie, qualsiasi argomento affronti, la tensione verso la bellezza e l’armonia. Mi ricordo uno dei primi balletti che ha montato, nel ’78, su un a solo suonato da un flauto di Pan, una musica antichissima. C’era una madre che ricordava il figlio perduto: una donna interiormente ricca che soffriva un dolore grandissimo e ricordava momenti lieti o tristi della vita di questo figlio. Per me questa è vera danza contemporanea. Perché l’arte non è stranezza, l’arte è vita, e nella vita ci sono dei sentimenti veri. Perché non portare in palcoscenico dei sentimenti veri?
Fare mille cose Abbiamo parlato a lungo del passato, ma una combattente indomita come lei ha certamente dei progetti per il futuro. Vorrei consolidare i rapporti con il territorio. Sinceramente mi piacerebbe avere maggiore feeling con gli amministratori della città, e spero di cuore che questo avvenga. Riguardo alla compagnia, invece, vorrei avere la possibilità di arricchirla con nuovi elementi, per esempio con allievi che terminano la scuola, in modo da allargare il corpo di ballo, che per adesso è composto da tredici elementi, metà provenienti dalla scuola, metà presi da fuori. Abbiamo poi tanti progetti di lavoro, anche all’estero, e soprattutto vorremmo realizzare dei nuovi spettacoli. Con coreografie sue? Non mi sono mai sentita spinta a creare delle coreografie. Quando mi chiedono, a volte anche sull’autobus che spesso prendo per venire qui a scuola: «Cos’è che fa lei?» Rispondo: «Ma sa che non lo so». Cos’è che fa una mamma in una famiglia? Fa mille cose, è il cuore, è l’anima, tiene in piedi tutto, crea le condizioni perché tutto possa esistere. Dal punto di vista finanziario bisogna trovare le risorse, e per tantissimi anni, quando ancora ballavo, il mio obiettivo non era ballare bene: era trovare gli stipendi a fine mese. Altro che artista. E questo è il ruolo della madre: dar da mangiare ai suoi figli. Per cui appena cambia il ministro bisogna prendere dei contatti, perché abbiamo anche delle sovvenzioni ministeriali; e poi c’è l’assessore, questo e quell’altro funzionario, e così via. Poi devi trovare scritture, e in Italia non è facile. Abbiamo chi se ne occupa, ovviamente, ma io non delego, seguo tutto. Da due anni non insegno più, perché ho capito che insegnavo solo ai quindici ragazzi della mia classe, non ai settanta allievi della scuola, cosa impossibile. Alla fine dell’anno i genitori mi dicevano: «Speriamo che l’anno prossimo mia
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figlia sia con lei.» Allora mi dicevo che non era giusto: questa è la mia scuola, e devo amare tutti i ragazzi in modo uguale, non posso preferirne quindici su settanta. Tutti devono avermi, e perciò non devo essere di nessuno. Così ogni giorno, quando sono a Reggio, vado nelle classi e osservo tutti i nostri allievi. Questa supervisione è importantissima, anche perché mi permette di aiutare molto più da vicino gli insegnanti, e per me seguire gli insegnanti è fondamentale. Sono nostri ex allievi, quindi conoscono il mio metodo, però formare un insegnante è una cosa complessa, occorre un’opera costante di affiancamento e guida.
Il potere della bellezza Alla conclusione dell’intervista Liliana Cosi conferma la prima impressione, quella di essere una figura singolare e forse unica nel panorama artistico italiano. Nel nostro Paese non esistono scuole di danza come quella da lei fondata assieme a Stefanescu, anche perché, come lei afferma con decisione: È stata guidata da due artisti di primo piano, che non hanno guardato alla loro carriera e hanno considerato la danza come un servizio per far crescere gli altri: ballerini della compagnia, allievi, pubblico. Ma lei, un’étoile amata dal pubblico, che poteva ballare nei più importanti teatri del mondo, si è realizzata completamente in questa sua avventura, o ha dovuto rinunciare ad aspetti importanti della sua vita artistica e personale? Si guarda intorno e sorride serena, con i suoi luminosi occhi scuri. Ho realizzato molto di più di quello che avrei potuto sognare. Essere riusciti a creare con le nostre mani tutto questo non ha prezzo. Se poi guardo ai numeri della compagnia: tanti spettacoli, tante creazioni nuove grazie al talento di Stefanescu… Adesso che non ballo più e guardo i nostri spettacoli dalla platea vedo la gente arrivare a teatro seria, trafelata, stanca dopo una giornata di lavoro. Poi lo spettacolo inizia, la tensione si scioglie, e alla fine dello spettacolo la gente dice grazie, applaude, è felice. Se fossi rimasta alla Scala avrei continuato a girare il mondo con la mia valigia, avrei avuto molti più soldi di adesso, ma poi… avrebbero sfruttato il mio nome, non sarei stata libera di esprimermi. L’artista è uno che dà, e io qui ho avuto il mezzo per poter dare un sacco di cose: al pubblico e ai giovani che amano la danza. Mi ha scritto una signora una volta: dopo aver visto il suo balletto ho avuto più pazienza con mio marito e i miei figli. Mi sono chiesta: «Cosa c’entra? Mica ho fatto una predica, ho fatto un balletto». Poi ho capito: vedere l’armonia e la bellezza fa venir voglia di mettere più armonia nella propria vita. Io cito sempre un proverbio cinese che dice: «Quando c’è buio non gridare al buio, accendi un fiammifero». Se ognuno accende un fiammifero e illumina le cose positive della vita, la situazione migliorerà. È come un mandato, una vocazione. Tutti abbiamo una vocazione, e le donne forse sono più inclini a esserle fedeli fino in fondo, senza rimpianti.
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Omaggio alle protagoniste di una Reggio Emilia femminile inventiva operosa questo libro che ne racconta le storie e le imprese viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sagi di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel marzo dell’anno duemila dieci
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