Pàflasmos

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AL BUON CORSIERO

«A mano a mano che saliamo la stradina che dalla baia di Blefùti ci porta al paese, i nostri pensieri si separano. − Perché sospiri? A che cosa stai pensando? − mi fa Giovanna. − Ti sembrerà sciocco, ma, lasciando questo paradiso, sto pensando alla differenza tra “galìni” e “paflasmós”... − Non capisco dove vuoi arrivare. A parte il fatto che non so che cosa significhi “paflasmós”... − Prova a ripeterlo, scandendo le tre sillabe senza però staccarle: “pa-flas-smós”. Quale immagine ti suscita? − “Pa-flas-smós”? Non saprei, forse il “paf” e il “flas” riproducono il rumore dell’acqua che si riversa sulla riva... − Appunto, quell’onda leggera e sottile che spegne i suoi bisillabi sulla battigia e sulle fiancate delle barche... Come sta facendo ora, che ci sta parlando.»

CESARE PADOVANI

DIABASIS

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CESARE PADOVANI

€ 12,00

Paflasmós è un vocabolo onomatopeico che restituisce lo sciabordio del mare: accompagna il lettore tra odori, rumori, visioni e anfratti di sapienza della Grecia meno conosciuta, per scorgerne il tragico vigore antico, ma anche il pigro dormiveglia delle attese. Paflasmós rinvia all’andimámalo, parola magica nella lingua greca moderna, per raffigurare l’andirivieni dolce delle onde che si spengono sulla battigia e subito tornano verso il mare. Questo movimento rappresenta bene la metafora con cui l’autore culla la sua scrittura tra l’esterno e l’interno, tra i paesaggi che va ad incontrare e le riflessioni che gli fanno eco, tra il battito dell’attuale cuore greco presente e le voci di figure arcaiche che irrompono nell’attualità del loro mito. Una rapsodia di paesaggi raccolti e ricuciti da un taccuino di viaggio: una passerella di volti, suoni, sapori e personaggi inattesi, sorpresi attraverso una finestra su un mondo che sta scomparendo e che, al tempo stesso, mostra realtà immaginarie che potrebbero esistere.

PAFLASMÓS

IL BATTITO DEL MAR EGEO Viaggio nell’anima della Grecia

PR IM A 20 RIS 10 TA M PA

Cesare Padovani, settantenne, afferma di essere greco, anche se, per l’anagrafe, risulta veneto, trasferitosi ancora adolescente in Romagna. Dopo essersi laureato in Lettere e Filosofia e aver esercitato la docenza negli Istituti superiori, nonché nell’Università di Urbino e di Padova, ora, con questo testo, si dedica a ricostruire la sua memoria arcaica colmando i vuoti dell’amnesia sulle sue origini, come volesse ripescare un’identità dimenticata. Tra le sue pubblicazioni: La speranza handicappata, Handicap e sesso, omissis; e di recente A partire da Ippocrate. Assieme a Maria Giovanna Milani ha pubblicato Aforismi visivi e Facce di marmo.

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In copertina Particolare da Claude Monet, Etretat, 1883, olio su tela. Lascito di William Church Osborn, 1951

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 526 7 Prima ristampa Š 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it


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Cesare Padovani

Paflasmós Il battito del Mar Egeo Viaggio nell’anima della Grecia

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a Maria Giovanna amorosa complice lungo comuni sentieri


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Per un’opera mai letta* Frammenti epistolari di Pier Paolo Pasolini

...come ad un antico me stesso miracolosamente nuovo... ...stiamo percorrendo la stessa strada... ...anch’io avevo cominciato a scrivere versi prestissimo, a sette anni: la mia malattia non era fisica [come la tua dovuta ad una paresi], né nervosa, ma psicologica... ...Bada che la tua posizione è pericolosissima: non c’è niente di peggio che diventare «merce»**. Se tu dipingi e scrivi poesie sul serio, per una ragione profonda e non per consolarti delle tue disavventure fisiche (o magari, come dicono, per ragioni terapeutiche...), sii geloso di quello che fai, abbine assoluto pudore... ...continua a lavorare con lena e con fiducia, come hai fatto finora... ...Credo di capire che in te prevarrà la vocazione critica su quella poetica: forse per quel tanto di coatto distacco dalla vita che la tua vita ti impone (non considerare crudele questa sincerità da traumatizzato a traumatizzato)... ...Son molto pochi [quelli] che scrivono come scrivi tu, lo so per amara e scoraggiante esperienza. Ricorda comunque che non c’è niente di meglio che lottare contro le difficoltà, e che la facilità, in generale, è la peggior nemica della poesia e anche della buona letteratura... Verrà il momento in cui avrò un po’ di requie, e allora ti scriverò più a lungo: ma tu intanto, senza scoraggiarti, mandami qualcosa di tuo da leggere...

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...Ricorda che non avrai più tanto desiderio di sapere e di amare come in questi anni e devi selvaggiamente approfittarne, leggere e imparare come un pazzo... ...Sono veramente felice e orgoglioso di avere sentito in te la “buona qualità” culturale in un momento della tua vita in cui bisognava essere un po’ profeti per farlo... ...Ti ho lasciato ragazzo, e ti ritrovo giovane uomo, con tutta la ricchezza della gioventù... Tuo Pier Paolo Pasolini

* Frammenti tratti da lettere inviate da Pier Paolo Pasolini a Cesare Padovani nel decennio 1953-65, ora raccolte in Lettere 1940-1975, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986-88). ** Si riferisce ad un patetico articolo letto su «Oggi», dove si mescolavano, strumentalmente, le capacità letterarie dell’allora quindicenne Cesare Padovani con il suo handicap fisico (paraplegia laterale destra), per costruire uno scoop compassionevole. Già dal titolo − Dipingendo e scrivendo poesie ha vinto la paralisi − si capiscono i toni del contenuto.

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Paflasmós

Paflasmós: subito, appena l’ho udito, mi è piaciuto il suono di questa parola greca, con le sue tre sillabe così combinate e dove la terza è colta da un accento tonico smorzato. Riesce a riempirmi l’orecchio di quel rumore fresco che fanno le onde minute quando si spengono sul bagnasciuga, inciampando tra loro ripetutamente. Anapèsto sarebbe definito se fosse considerato il piede di un verso poetico, perché “battuto al rovescio” rispetto al dàttilo: le prime due sillabe di paflasmós son brevi mentre la terza è lunga, resa ancor più lunga dalla sonorità di quella insostituibile esse finale. Ma la coincidenza che più mi sorprende si trova in una circostanza simbolica che sembra voglia introdurmi alle regole prefiguratrici del mito: mentre percorro con una certa cadenza il paesaggio greco che mi si schiude davanti, con altra andatura rifletto il vissuto che mi è dentro. È siffatto piede interiore, infatti, il corrispondente speculare di quel passo ritmico che si trova frequente negli esametri dell’epica omerica, del dàttilo appunto, che, come le tre “falangi di un dito”, ha la prima sillaba lunga seguita da due brevi, ed è il più adatto alle cadenze del raccontare: Càntami o dìva del pélide Achìlle...

Così l’anapèsto, come un piede esitante al terzo passo, che accenna ad una sosta, e ne capovolge gli accenti quasi fosse una voce interiore riflessa nell’acqua, e a chi canta concede di riscaldare qualche sua emozione sommersa. Se parole come ròtola..., ascòltami... o càntami... aprono le porte a qualcosa che fa spettacolo, che procede incalzante, che dipana gli avveni-

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menti lungo il corso del tempo, e dove lo stupore dell’accaduto riesce a “prender fiato” ogni volta che un dàttilo emerge, per lasciarsi poi alle spalle quella storia e rincorrere la successiva; altre voci, invece, come appunto paflasmós..., o come nostalghìa..., solo a pronunciarle, con quella loro finale prolungata ed accogliente come una mano còncava, dànno la sensazione di pause narrative: gusci predisposti a raccogliere le sensazioni disseminate tra i paesaggi dell’anima, per trattenerle, per assaporarle, senza nemmeno gli occhi dell’immaginario. È proprio questa la mia Odissea, questo è il mio Viaggio attraverso la grecità. Fin d’ora posso avvertire i segni premonitori del “piede” del mio andare, che nel rispecchiarsi di sosta in sosta saprà trasfigurare quei luoghi e saprà trasfigurarmi, e io così mi ritroverò, via via riconoscendomi. Paflasmós è questo mio piede deviante e senza metro, che, grecamente, mi rallenta il procedere: mi capovolge il ritmo e la logica del tempo, per farmi ritornare ad un me stesso sempre più remoto, con ali ai piedi come un Hermes sempre in procinto di partire. E qui, nelle cadenze da cui affiora il mio vissuto a ritroso, ad ogni paesaggio incontrato, riconosco il dolce passo inciampante di questo animo mio ramingo, e riconosco la Grecia.

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IV. Atene è lontana

Parmenide, Talete, Democrito, Eraclito... Lo sospettavo fin dal liceo che il filosofo antico scrivesse in versi. Non poteva essere altrimenti. Poetare, o proferire poeticamente, è quel dire originario che ha la capacità di rivelare le cose indirettamente, a chi l’ascolta, perché la verità del messaggio che si sta per dire si trova già raccolta nel ritmo della voce con cui la si va pronunciando. Come un arco teso, che mentre sta per scoccare la freccia ne annuncia la direzione, il senso. A volte bastano tre parole cadenzate in tre piedi, per schiudere una saggezza che rimane per secoli come un tesoro sempre da riscoprire; ma senza quei tre piedi, così uno di seguito all’altro e così cadenzati, le tre parole si appassirebbero come si consumano le sentenze. Âthos anthrõpõ dáimõn, è uno dei frammenti di Eraclito dove la forza architettonica della sua parola riesce − nel mentre che lo si pronuncia − a costruirci il fonosimbolo di un arco (ánthrõpos) teso tra due estremità: tra quella dell’‰thos, del “comportamento originario”, e quella del dáimõn, ovvero della “genialità”. Tre piedi, dunque, al cui centro si trova la curva esistenziale dell’uomo (dell’ánthrõpo), la quale si nutre dentro alla tensione tra la mobilità delle abitudini e dei comportamenti (il pánta rhéi dell’‰thos) e la unicità della sua matrice, del suo gene (del dáimõn: ovvero di quel “fuoco” sempre uguale a se stesso). Diventa difficile, anche nella traduzione più attenta, portare alla luce questa forte trama nascosta. Forse perché lasciare le dimore della Notte per scorgere il perché si esiste è compito di un dire unico in quella sua forma e in quel suo

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suono: questa Necessità, questa nostra anànk‰, sempre presente in penombra come una Grande Madre. Atene è lontana Superato lo stretto di Kòrinthos, sentivo già l’aria di Atene, e dialogavo tra me e me con quei filosofi-poeti che precedettero l’arte del filosofare. Dialogavo a frammenti, come i sobbalzi del mio triciclo a motore. Il mio Sulky traballava più del solito sotto il sole ancora prepotente, e alla prima fontana sulla destra mi accostai il più possibile. Tòltami in fretta la maglietta, mi sedetti sul muretto basso a mangiarmi l’ultima pesca; mi allungai poi puntando con forza il braccio contro il muro e mi trattenni più che potei, testa e busto, sotto quell’acqua di fonte... Brutta sorpresa: così a testa in giù, vidi che la ruota davanti era a terra! In momenti simili ti subentrano nell’animo due “correnti” contrarie: l’una di scoraggiamento (porca miseria, proprio adesso doveva capitare!) e l’altra di ricerca, sì appunto di ricerca, perché esplori con gli occhi tutt’intorno spinto a trovare un indizio, un suggerimento, un’idea, o forse un semplice segno, uno di quei “segni” che poi ti aprirebbero le porte. Ma quali porte ti potrebbero aprire in questo luogo ancora indecifrabile? Le cicale stridevano così compatte e uniformi che fermavano il tempo. Al sole mancavano ancora due palmi per toccare l’orizzonte, ma rimaneva lì immobile incastonato a quel suo cielo, e la calura faceva ondeggiare l’asfalto. Che cosa significa, dunque, il tempo? Che senso ha il suo trascorrere? Krónos evirò Urano «Pànta rhei...» dice Eraclito: tutto scorre...; ma quale significato può avere un’attesa di qualcosa che accada in un punto infinitesimo dell’Universo, che senso ha questa mia attesa? Se tutto scorre, allora scorro anch’io con il Tutto, e rispetto all’universo la mia attesa perde significato... O forse che, attendere, non sia un porsi di fronte al tempo come per misurarne la potenza, la corda tesa del suo arco? In

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un altro frammento Eraclito predice che all’uomo è geniale il suo modo di comportarsi, ma se si potesse rappresentare il suo aforisma («‰thos ànthropú dàimon») come un disegno, quell’ ànthropú, quell’uomo, diventa costui la corda tesa tra i due estremi dell’arco: tra la mutevolezza del suo essere così com’è e la stabiilità del suo démone. Se dunque Krónos evirò Urano, il dio del Tempo inchiodò suo padre, il Cielo, all’immutabilità, e così lo fermò quale scenario ripetibile in eterno alle vicende degli dèi e a quelle degli uomini. Ma nel mito, come nella realtà, c’è sempre però uno scarto, anche infinitesimo, ma tale che non fa mai combaciare tutte le cose con il Tutto; uno scarto che muta la forma, che non chiude, tale che non conclude, per rimanere in attesa di scoccare la freccia. Come nelle geometrie di Escher: pure gli intervalli minimi tra figura e figura hanno un senso, diventano altre figure. Infatti, i testicoli di Urano precipitando nel Mare, ventre fluido della Madre Terra, fecondarono Gaia, e da questa “divina spuma” marina nacque Afrodite, la dea dell’amore. Pensate, anche da questo imprevisto, da questo scarto del mito può ricostruirsi una forza, una nuova vita. E che vita! L’imprevisto: l’agrotikòn Le ombre del crepuscolo fanno zittire d’un colpo le cicale e danno il via al concerto dei grilli. C’è nell’aria una miscela di profumi, uno dei quali sovrasta gli altri: è quello dell’arrosto. Al calar del sole, gli odori della sera si orientano verso i cibi conviviali, verso i piaceri della chiacchiera, dello star assieme, del riposo. Non posso fare che pochi passi sgangherati: impossibile raggiungere una trattoria... Rifletto ancora sul senso di questo mio aspettare; e cerco di capire in questo “spazio d’attesa” quale potrebbe essere la non-perdita, la figura di sfondo ricavata che emerge come nuovo valore, oppure quale “creatura” potrebbe nascere dall’accidente della ruota bucata, dalla mia impossibilità di proseguire a piedi verso il villaggio più vicino,

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dal mio silenzio. Non certo in quei momenti, ma solo più tardi capìi che, come milioni di uomini del mondo e come miliardi di uomini che mi hanno preceduto nella storia, stavo facendo i conti col Destino, con la Sorte, con l’imperscrutabile Necessità, con l’anànkê, la strada che non può non essere percorsa. E non potevo capire, allora, cosa stava accadendo: perché − come canta un inno di Orfeo − soltanto la Mòira, occhio perfetto di Zeus, guarda dentro alla vita. Il rumore di un trattore agricolo mi distoglie dai miei pensieri: l’agrotikòn si ferma alla fontana. Il conduttore − un greco a vedersi rude e autentico, di quelli che ballano il sirtàki e mangiano l’agnello con le mani − capì d’un botto il mio problema, e, chiestomi solo da dove venissi, mi disse secco senza alcuna flessione interrogativa: Italòs isse? (sei Italiano?)... Pame, pìsso, pros Argos (vieni con me, indietro, ad Argo). Dietro front, ancora verso Kòrinthos e quindi ad Argo, trainato con una corda che teneva sollevata da terra qualche centimetro la ruota davanti del mio Sulchy. In quella posizione, intravedevo dalle fessure dell’agrotikòn, pecore, capre e montoni che probabilmente andavano al macello; così non ci vollero grandi capacità associative a ricordarsi del mito del Vello d’Oro mentre alla mia destra si stagliava scura contro il cielo l’antica acropoli di Kòrinthos. Là, Medea, sacerdotessa del Sacro Animale, seguì il suo Giasone dalla lontana Kòlkide fino a questa città: per un atto d’amore, tradì il suo popolo, tradì il suo tempio, aiutò l’amante a trafugare il prezioso bottino, e qui fu a sua volta tradita dallo stesso Giasone. Avrebbe benissimo potuto mettere ancora in moto le sue arti di maga, ma a questo punto preferì essere donna fino in fondo, ed usare le armi della donna: la sua fragilità, la sua disperazione, il suo modo atroce di vendicarsi. Si uccise con i suoi due figli, mentre Giasone urlava dalla reggia i suoi perché l’hai fatto?. Euripide avrebbe messo in bocca a Medea questa risposta: così tu non potrai più ridere di me...

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Le Grandi Madri Le Grandi Madri mediterranee hanno dato le loro forti impronte a queste civiltà, creando e distruggendo, portando alla luce e occultando. Ogniqualvolta si sentiranno “tradite” dai loro avventurosi Odyssei, la loro vendetta non avrà vie di mezzo, sarà sempre estrema: e chissà quante volte anche in un rito familiare, in un semplice gesto del quotidiano, per un ritardo nel rientrare a casa, si rinnovano questi sospetti, queste paure di abbandono, questi possessi divoratori. Perché le nostre Madri ci hanno divorato e ci stanno divorando da più di 3500 anni, naturalmente, nelle silenziose tragedie dei quotidiani, nelle prolungate convalescenze delle loro ali protettrici, sorridenti, sospiranti, rassicuranti, materne come sanno essere materne le madri. Proprio perché sono le Grandi Madri appunto; e noi, figli o padri o mariti, sani o deboli, cacciatori o bibliotecari, noi siamo indistintamente i loro figli amatissimi, nati da loro per essere da loro “salvaguardati”. «Scotoi» siamo definiti fin da quando Achille, per evitare la guerra, fu “nascosto” da Teti sotto le sue sottane: fragili Peter Pan ante litteram che fanno qualche veloce scappatina ma subito, al calar della sera, “volano” tra le braccia della donna-madre... Le Teti mediterranee diventano metamorfiche: ora Medee ora Arianne ora Penelopi ora Giocaste, madri-spose di quegli Edipi che perpetuano i melodrammi del ritorno. Ma da quale parte si trova la via dei nostri ritorni? Lo scotos (il nascosto) è appunto quell’inavvertita condizione ombelicale che appanna le lenti della propria identità: è un “venir raccolti tra l’ombra del bosco” affinché questo “essere sottratti e protetti” porti meglio alla luce la propria ìndole; anche se questo modo di “sottrarre per evidenziare” trattiene in sé il pericolo di prolungare le dipendenze da chi si prende cura di noi, dalle nostre madri naturali, dalle nostre madri sociali, dalle nostre Grandi Madri culturali. Ma è anche grazie a questo modo di essere “salvaguardati” e “divorati” insieme che ora siamo quel che siamo: civili, occidentali, razionali e consapevoli del buio che ci avvolge.

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Lasciando le dimore della Notte Avevo la sensazione, fastidiosa a pensarci bene, che Atene si allontanasse dalla mia mèta, come se quella corda che mi trainava rappresentasse un bàndolo del “filo” intricatissimo tramite il quale avrei percorso l’intero Peloponneso a zig zag come un enorme labirinto. Argo, la lucente Argo, mi accolse con la mitica ospitalità di un tempo remoto, quando le Supplici, fuggite dall’Egitto assieme al padre Dànao, trovarono qui rifugio. Diverse per razza, cultura e costumi, le Dànai furono dapprima guardate con sospetto e con curiosità, poi il Re si consultò e rifletté a lungo prima di spalancare le porte: Occorre frugare nell’abisso: calarsi sul fondo, scandagliare il pensiero, perché laggiù è il rimedio, gli farà dire Eschilo..., e finalmente il benvenuto. C’è sempre una faticosa soglia d’attesa nell’incontro con l’altro, tanto più se l’altro si mostra diverso: può durare anche pochi secondi, ma c’è, esiste comunque ad ogni latitudine del pensiero. E l’altro porta sempre qualcosa di nuovo, è comunque portatore di doni anche se suscita sospetto: le Dànai, quale ringraziamento, portarono un’arte sconosciuta a quei luoghi, quella di saper raccogliere le acque sotterranee, irrigare e bonificare quelle terre. Anch’io, forse, come loro avrei portato il mio dono? me l’hanno fatto capire quando, all’alba del mattino seguente, ho trovato, sul motorino, dell’origano e due fiasche d’olio. E ripartii così verso Atene girando più volte la testa all’indietro per rispondere ai saluti. Il giorno stava per offrirsi in tutta la sua pienezza, e non mi rendevo conto chi di noi due si stesse venendo incontro. Certamente, come accade tra gli esseri umani, è un incontrarsi reciproco, un andarsi incontro scoprendosi via via, togliendo un dopo l’altro i veli dei sospetti, delle resistenze. Così come mi cantano i primi versi del Poema sulla Natura di Parmenide di Elea:

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Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere, mi conducono con la loro guida alla via dispensatrice di molte conoscenze che appartiene al Nume, via che porta per tutte le città l’uomo iniziato alla conoscenza; là tendevo: da quella parte infatti le cavalle suscitatrici di molti pensieri mi portano, mentre le Fanciulle figlie del Sole indicano il percorso. L’asse nei mozzi strideva ed era tutto ardente (infatti alle due estremità era mosso rapidamente dai cerchi rotanti) ogni volta che le Divine Fanciulle si affrettavano a guidarmi alla Luce, lasciando le dimore della Notte, e allontanando dal capo i veli con le mani. Galoppavo ancora, ma il mio desiderio sotteso e inespresso era sempre lì attorno a me, negli interstizi dei miei pensieri: volevo ritornare al Museo Archeologico di Atene per rivedere le Tavolette di Pilo, un sillabario miceneo che mi avrebbe sicuramente svelato quel cuore greco che andavo inseguendo.

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Cesare Padovani

Paflasmós

Per un’opera mai letta: frammenti epistolari di Pier Paolo Pasolini

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Paflasmós

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Kalò taxìdi

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La lettera scritta a mano

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I. Verso un mito II. Perché l’isola di Leros?

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III. Quel fattaccio bello

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IV. Atene è lontana V. Mytilene, un’isola tutta al femminile

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VI. Kos: l’isola del vento

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VII. «Galìni», la tregua in cui non siamo

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VIII. Ripensando Filottete...

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IX. Atene invisibile

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X. Coabitazioni

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XI. Lune

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XII. Verso Itaca

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Lo spazio adriatico

Fabio Fiori, Un mare. Orizzonte adriatico Adriatico risorsa d’Europa, a cura di Rosario Pavia, introduzione di Predrag Matvejevic´ Progettare la costa. Temi ed esperienze per l’ecoregione adriatica, a cura di Matteo di Venosa Giacomo Scotti, L’arcipelago di luce. Viaggio nelle isole della Dalmazia centrale, introduzione di Predrag Matvejevic´ Fulvio Tomizza, Adriatico e altre rotte. Viaggi e reportages, a cura di Marta Moretto Biagio Marin, Le due rive. Reportages adriatici in prosa e in versi, a cura di Marco Giovanetti Fabio Fiori, L’abbecedario adriatico


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Al Buon Corsiero

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, L’impero degli odori Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Carlo Frabetti, I giardini cifrati Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Il libro (a cura di Andrea e Paolo Briganti) Andrea Briganti, Ramblas e altri racconti iberici Foscolo Focardi, L’anglista sentimentale Stefano Scansani, Orapronòbis Roberto Amato, Le cucine celesti Manlio Cancogni, Gli scervellati Stefano Scansani, L’Amor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Nicolas Bouvier, La polvere del mondo (di prossima nuova edizione) Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio Roberto Amato, L’agenzia di viaggi Salimbene de Adam, Cronaca (traduzione di Giuseppe Tonna) Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra Manlio Cancogni, Caro Tonino Racconti dalla Bosnia, a cura di Giacomo Scotti Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore (a cura di Ugo Dotti) Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Aleksandar Gatalica, Secolo Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini


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Ritmo intenso e dolce come lo sciacquìo del mare Egeo in cui l’autore ha posto e rinnova le sue radici Paflasmós viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel marzo dell’anno duemila dieci


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