€ 16,00
A cura di BONORA CERVELLATI
Per una nuova urbanità dopo l’alluvione immobiliarista A cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati
PER UNA NUOVA URBANITà
Nel cd viene presentata una ricerca svolta dal corso di laurea in Scienze Geografiche dell’Università di Bologna sulla frammentazione insediativa e la smania immobiliarista nell’area metropolitana bolognese. Il Bolognese non racconta certamente il peggio, tuttavia consente di cogliere le modalità attraverso cui l’urbanizzazione della campagna si esprime. Anche l’Emilia non ha saputo regolare la diffusione caotica degli insediamenti e la sovraproduzione edilizia, con risultati strutturali e riflessi paesistici che costringono a meditare sulle sorti del territorio. Un caso di studio minuto rispetto alla dimensione internazionale dello sprawl e tuttavia esemplare. Sono stati elaborati dati di tipo quantitativo, ma si è posta molta attenzione anche a parametri qualitativi colti con inchiesta diretta e, non ultimo, alle forme di comunicazione grafica, cartografica e visuale. Un esercizio scientifico in cui curiosità intellettuale e mestiere si coniugano a consapevolezza e proposta civile, che vengono messi a disposizione di cittadini e decisori come base conoscitiva e problematica. Nel cd sono contenute anche le illustrazioni di alcuni saggi.
DIABASIS
I MURI BIANCHI
DIABASIS
La città è cambiata, bisogna prenderne atto. Un mutamento che ne ha stravolto natura e forma, ha interrotto la continuità, creato lacerazioni, porosità. Spezzato il tessuto vivo degli insiemi territoriali e le relazioni umane loro artefici – divenute aleatorie, anodine. La campagna colonizzata dall’immobiliarizzazione, vittima di un moto centrifugo che ha disseminato atopia, anonimato. Una neourbanità dilatata, discontinua, disarmonica, orfana di quei legami di appartenenza e convivialità che danno anima, senso ai luoghi. Quanto in profondità la frammentazione ha intaccato i reticoli sociali e identitari? Che ne è dei sistemi territoriali? Quale il destino dei paesaggi? Come rianimare percorsi di cittadinanza? Come invertire la rotta e indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi? Bisogna pensare una nuova urbanità. Attraverso i contributi di autorevoli studiosi e progettisti, il libro si pone questo obiettivo. Le voci rispecchiano sguardi e campi disciplinari diversi. Ma la finalità comune non è solo quella di decifrare il processo, è più ambiziosa, tratteggia soluzioni. Salta dai piani dell’analisi e della critica alla sfera propositiva delle utopie praticabili, si muove in direzione del progetto, del cambiamento.
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Il volume è stato realizzato grazie alla collaborazione del Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche Università degli Studi di Bologna
In copertina Il green della città policentrica della della Toscana centrale, in A. Magnaghi, “A green core for the polycentric urban region of central Tuscany and the Arno Master Plan”, in «IsoCaRP Review» 02 - Cities between Integration and Disintegration: Opportunities and Challenges, Sitges 2006
Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978 88 8103 655 4
© 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it
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Per una nuova urbanità . Dopo l’alluvione immobiliarista A cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati
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Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista A cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati
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Paola Bonora Interpretare la neourbanità: città de-formata e immobiliarizzazione
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Pier Luigi Cervellati Dal tracollo dell’urbanistica bolognese al progetto di “città di città”
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Giuseppe Dematteis Conurbazione disgregata e sistemi locali territoriali
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Massimo Quaini Del destino della città di Françoise Choay e dell’utopia “rururbana” di Alberto Magnaghi
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Alberto Magnaghi Il progetto della bioregione urbana policentrica
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Angelo Turco Landscaping the city: pratiche urbane, culture visuali, tattiche acquisitive
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Edoardo Salzano Urbs, civitas, polis: le tre facce dell’urbano
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Anna Marson Stereotipi e Archetipi di territorio
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Chiara Sebastiani Per una politica delle cittĂ
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Micaela Deriu Passaggio a nord-ovest. Alla ricerca di radici e ragioni per co-progettare con gli abitanti
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Roberta Borghesi Reinventare la campagna, a cominciare dal paesaggio
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Interpretare la neourbanità: città de-formata e immobiliarizzazione Paola Bonora
È davvero difficile oggi ragionare di urbanizzazione. Da alcuni decenni la natura della città è profondamente mutata. Per millenni ha significato accentramento, concentrazione, verticalità, ora non è più chiaro che cosa sia l’urbano. La città si è de-formata e ha trasferito ad uno spazio dilatato e discontinuo ritmi e stili di vita urbani. Una frantumazione disordinata e disarmonica che non è solo morfologica o dei modelli insediativi, ma ha comportato una modifica radicale dei milieux territoriali. Che non rispecchia urbanità né ruralità. Ma che assorbendo i cittadini in fuga, le loro mentalità, aspettative, consuetudini, esprime semmai una neourbanità confusa e disorganica, orfana di quei collanti di appartenenza e convivialità che danno anima, senso ai sistemi territoriali. Che è urgente ripensare. Una trasformazione frutto del liberismo speculativo che ha dominato la scena economica internazionale e ha indirizzato sull’edilizia molti dei capitali liberati dalla deindustrializzazione. La città de-formata come campo di riconversione e di profitto, loro rappresentazione. I tentativi per denominare questa nuova configurazione diffusa e polverizzata sono innumerevoli, quello che più si è accreditato è il termine sprawl, forse perché a più forte carica simbolica. La città ‘sdraiata’ porta sulla scena Los Angeles, evoca il mito salutista e ginnico californiano, invia suggestioni di una (post)modernità da fiction. La ridondanza delle nomenclature sinora escogitate nasconde un problema serio. Mentre un tempo era (relativamente) più agevole una teoria generale della città1 e l’adesione a un paradigma epistemico, oggi la multiformità di espressioni dell’urbano, la lo-
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ro ambiguità e in molti casi contraddittorietà, sembrano consentire solo sguardi parziali. Da quando, non a caso in coincidenza con l’avvio delle trasformazioni, si è rinunciato alle grandi narrazioni, all’utopia, e si è trovato rifugio nelle visioni caleidoscopiche, si è perso anche il desiderio di progettare il cambiamento. Ci si è accontentati di verità parziali, di superficie, persino di false verità. Si è preso atto con metafore ridondanti ed etichette iperboliche di quanto stava accadendo senza tentare di modificarlo. Benché sia chiaro da tempo che nell’infinita complessità del mondo odierno le cose, la maggior parte delle volte, si mostrino come l’opposto di quello che sono, buttato tutto l’armamentario precedente anche il bambino assieme all’acqua sporca2, la distorsione è stata accettata. I pochi ancora capaci di proporre, costretti al ruolo di irriducibili utopisti. Questo libro, attraverso i contributi di studiosi e progettisti di formazione disciplinare diversa, cerca di fare il punto su alcuni nuclei critici di particolare rilievo. Le voci provengono dal campo della geografia, dell’urbanistica, dell’architettura, della politologia, rispecchiamo sguardi diversi. La finalità comune non è solo quella di decifrare il processo. È più ambiziosa. Vuole suggerire strade per il cambiamento. Lancia ipotesi, tratteggia soluzioni. Salta insomma dal piano necessario della critica alla sfera propositiva delle utopie praticabili. Si muove in direzione del progetto. Uno sbocco che anche i geografi hanno gli strumenti per perseguire. E ai miei studenti, aspiranti geografi, queste pagine sono dedicate, augurandomi che siano la generazione che il mondo ha voglia di cambiarlo.
Visuali e mappe per il cambiamento La trasformazione urbana è sotto i nostri occhi, nelle nostre vite. La città ha perso compattezza, si è slabbrata nelle campagne. Una neourbanità che non coincide con nuove forme di territorializzazione ma all’opposto in frammentazione, desocializzazione. Un miscuglio incoerente che va ripensato in termini territoriali. Le visuali attraverso cui possiamo analizzare i fenomeni urbani sono molteplici. Sotto il profilo culturale e antropologico ci troviamo di fronte a un universo prismatico, a una moltitudine di singolarità, emozioni, percezioni e alla ricchezza di signifi8
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cati di cui i soggetti sono portatori. Un magma inquieto che si incanala in diramazioni diametrali, da un canto i cittadini consapevoli e attivi che propongono con creatività soluzioni alternative. Dall’altra individualità atomizzate, chiuse ed egoiste, con scarse capacità di identificazione e interazione, facile preda del potere persuasorio e performativo della comunicazione. Che genera atmosfere di simboli e desideri, oggettivati dal consumismo, utili per marcare esteriorizzazioni di personalità altrimenti deboli. L’apparenza, l’ostentazione, la vanità prendono così il posto dei valori sociali ed etici. E promuovono, favoriti dal generale clima di conformismo e popolarismo, aggruppamenti di un consenso futile e strumentale che passa attraverso l’illusione di essere depositari di micro-privilegi. L’idolatria liberista della concorrenza si trasforma così, sul piano delle relazioni interpersonali, in gelosia e invidia del sembiante individuale. Strategie semiotiche di un marketing delle esistenze che dal piano commerciale ha conquistato l’intero spettro della scena sociale fino alla ribalta della politica e delle grandi decisioni. Un artifizio di metafore e immaginazioni che ha prodotto molta eccitazione intellettuale. Un fervore che, negando legittimità al reale per esaltare le rappresentazioni, ha perso la capacità di connettere verità e senso. E così la voglia di praticare il piano civile - troppo realistico e prosaico, faticoso. Accettando alla fine, pur riconoscendola, una modalità di dominazione accattivante e sorniona, ma non per questo meno robusta, giocata sulle suggestioni. Orientata nelle direzioni che più convengono al mercato e alla sua sconfinata libertà d’azione. In questo teatro degli inganni il mercato immobiliare si è mosso su più registri, dal piano delle lusinghe economiche e delle aspettative di profitto, a quello del gusto e delle mode culturali. La città de-formata sussume ed enfatizza questa complessità. È il coacervo dei mille fili che muovono la società, embricati tra loro in matasse difficili da dipanare, ma il cui groviglio bisogna in qualche modo decomplessificare, accettando anche il rischio, comunque inevitabile, di trascurare qualche derivazione. La città postmoderna ha accentuato la propria impenetrabilità dietro un paravento di meraviglie e di paure. La crisi, esplosa non a caso dal settore immobiliare, ne ha messo a nudo il ruolo nella ricon9
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figurazione fondiaria del capitalismo postindustriale. In questa prospettiva analizzare la svolta immobiliarista, come in queste pagine intendo fare, può raccontare molto della città odierna. Un ambito in cui i sogni soggettivi si intersecano alle logiche della valorizzazione. Harvey suggerisce di guardare la città da una posizione distaccata dal brulichio quotidiano delle strade, per “possedere la nostra immaginazione anziché esserne posseduti”, non fermarsi all’apparenza, alle maschere, ribaltare la sudditanza della realtà ai simulacri. Uscire dalla complessità caotica e priva di soluzioni. Non solo vedere, descrivere, ma costruire “mappe cognitive orientate al cambiamento”. La sua critica alla “frettolosa ritirata verso dimensioni di ricerca e azione deboli e relativamente impotenti” mi sembra oggi particolarmente pregnante e condivido la necessità di indagare le relazioni tra la produzione di spazi, le caratteristiche costitutive dei sistemi sociali e di potere, le trasformazioni territoriali3. Una prospettiva di ricerca che deve privilegiare la territorialità, mettere al centro dell’interesse le comunità che animano il magma sociale e arricchiscono di senso il vivere urbano. Jane Jacobs già avvertiva i rischi della desocializzazione e dell’individualismo metropolitano e proponeva le relazioni tra individui come progetto. Il suo sguardo partiva dunque da una visuale opposta, dagli eventi comuni, dalle presenze mobili dei cittadini, dai marciapiedi dove la vita si svolge, le soggettività si incontrano4. Ma buona parte dei nostri guai, mi persuado sempre più di fronte allo scempio delle campagne urbanizzate, deriva dal peccato originale commesso da Robert Venturi. Che trasforma l’architettura nella sua parodia popolarista e spettacolare. Il suo sguardo è sulla highway, o meglio sulle insegne della strip di Las Vegas e la loro sfacciata capacità attrattiva. Propone la visione sfuggente dalla velocità dell’automobile e ne deduce l’esigenza di catalizzatori dell’attenzione, di simboli comunicazionali, “architetture di rappresentazione”, “di comunicazione anziché di spazio”, nei “paesaggi d’asfalto” della metropoli postmoderna5. Profezie che si sono inverate con effetti devastanti nell’architettura e nell’edilizia della quotidianità. Gli insegnamenti di Las Vegas hanno seminato il terreno fertile della deregolazione e rac10
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colto seguaci non solo nelle fantasmagorie degli architetti che giocano con i materiali, ma anche tra i geometri della periferia. Ma mentre gli architetti, suoi irriconoscenti epigoni, si pavoneggiano con arditezze mirabolanti, i veri artefici della città sono i capitali immobiliari a cui sono assoggettati. Visuali diverse, diametrali, tutte indispensabili anche quelle non condivisibili per decifrare un fenomeno oggi totalizzante. Non solo per dati numerici e morfologici ma sotto il profilo culturale, antropologico, ontologico. Le relazioni spaziotemporali soggiogate ad una dimensione dell’urbano che si è fatta universale e non lascia campo a nessun’altra espressione territoriale. Lefebvre da molti anni ha compreso che la città ha un ruolo più importante di quanto la geografia abbia solitamente inteso6. Non si tratta infatti di un evento isolabile dagli altri contesti, ha sempre rappresentato un momento cardine all’interno del processo di produzione dello spazio, evidente anche quando si traduceva in concentrazione, densità e le relazioni con il territorio erano lette come distanza, contrapposizione. Che dire dunque ora che l’urbano si infiltra nella campagna non solo con le sue reti ma la colonizza?
Deindustrializzazione e svolta immobiliarista In queste pagine ho scelto una duplice prospettiva: economica da una parte, rimango infatti persuasa che le cartografie delle logiche economiche siano le più eloquenti, semiotica dall’altra, perché la decifrazione della postmodernità passa anche attraverso la decostruzione dei simboli e dei paradigmi comunicazionali. Il contesto del ragionamento è quello del capitalismo maturo, postindustriale, che ha scelto la città per rigenerarsi usandola come dispositivo per la crescita. Non più dunque la cittàfabbrica funzionale al modello fordista, ma una nuova forma dell’urbano vocata alla valorizzazione della rendita immobiliare. Un travaso di capitali che dal piano produttivo si è riversato sul ‘mattone’. Capitali di natura ed entità diversa se singolarmente considerati, dalla miriade di piccoli investitori che acquistano per abitare o mettere a frutto i risparmi, alla selva di figure, trasparenti o occulte, che nei grandi immobiliaristi hanno trovato i negromanti di profitti straordinari. Incoraggiati da una concezione della finanza che reputa il debito connaturato ai percorsi di va11
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Dal tracollo dell’urbanistica bolognese al progetto di “città di città” Pier Luigi Cervellati
Il declino urbanistico bolognese, iniziato da oltre un quarto di secolo, segue la “grande mutazione” che ha caratterizzato, nello stesso periodo la società (e dunque, la città) italiana. All’insegna dello sviluppo, in questi ultimi anni definito “crescita” (mentre all’inizio, nel secondo dopoguerra, era valutato “progresso”) l’assetto urbano e territoriale si è frantumato, sparpagliato, sbriciolato. La campagna, erosa giorno dopo giorno dalle nuove costruzioni e dalle infrastrutture non sempre indispensabili, è ridotta in brandelli avvelenati dalle culture “industrializzate”. Bologna è stata esemplare (un tempo) nel perseguire il buon governo del territorio, interpretando con criteri innovativi (la partecipazione) l’obsoleta legislazione allora vigente. Adesso è l’alfiere della cosiddetta “perequazione” urbanistica. Il criterio perequativo si attua pagando, oltre agli oneri, un prezzo all’amministrazione comunale in cambio dei metri quadri edificabili. Prima di diventare prassi consolidata (per quanto mai legiferata) la perequazione a Bologna esordisce con il PRG dell’85-’891. La perequazione, in pratica, rifiuta la partecipazione popolare. La domanda e l’offerta di metri quadri si esaurisce nel rapporto fra immobiliare e amministrazione comunale. Il mercato induce i comuni maggiori a non associarsi con quelli minori sia per calamitare maggiori risorse, sia per ottenere maggiori ricavi derivanti dal prezzo più alto degli immobili costruiti nel capoluogo. Non a caso l’elaborazione del piano strutturale a Bologna ha avuto una gestione pluriennale, dal 2001 al 2008, con scenari differenti e quote variabili del territorio urbanizzabile ad ogni presentazione. Il tutto giustificato dal cosiddetto “pianificar facendo”: prima si fa un patto, un “accordo di programma”, 27
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poi lo si inserisce nel Piano Strutturale, da cui invece dovrebbe derivare. Come il PSC dovrebbe approfondire il Piano di coordinamento provinciale a sua volta subordinato alla pianificazione regionale.
Di crisi in crisi la ricetta rimane immutata: continuare a costruire Il PRG ’85-’89 è appena approvato dalla Regione quando in Italia si manifesta la crisi politica ed economica dei primi anni Novanta. Il piano è bloccato. Nessuno costruisce. L’inserimento di aree già pubbliche all’interno dei comparti, aree che pur rimanendo tali dovranno essere acquisite dai privati imprenditori, sono considerate un vero e proprio impaccio. C’è la crisi. La riforma del Titolo V eliminerà sudditanze e lacci burocratici. Gli imprenditori accettano il principio dell’acquisto dei metri quadri di area pubblica (oltre al pagamento degli oneri) ma pretendono un ulteriore aumento delle già cospicue volumetrie inserite nel PRG. È l’avvio della ripresa economica e del principio della perequazione urbanistica. Tutto il settore compreso (a nord) dalla ferrovia alla Fiera è in fermento. Per aumentare il prezzo di vendita dei metri quadri edificabili si progettano linee metropolitane, tranvie e people mover. (Inoltre: aumento delle corsie nelle autostrade della tangenziale e in seguito anche un “passante nord”, tangenziale alla tangenziale). L’ondata costruttiva è inversamente proporzionale alla diminuzione di popolazione. I comuni limitrofi seguono il capoluogo e così gli altri comuni, dall’Appennino alla Bassa pianura. Un calcolo delle potenzialità edificatorie presenti nella Provincia di Bologna – fra residui di vecchi PRG e nuove quote individuate nei vari PSC (ovvero, ciò che si identifica come “gli Stati Generali della pianificazione”) non risulta sia stato mai fatto. La precedente espansione dell’urbanizzato, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni della “ricostruzione postbellica”, era in funzione della crescita demografica e delle nuove attività produttive. Si bloccò anch’essa nei primi anni Settanta (guerra del Kippur) e si risolse incrementando con risorse pubbliche la produzione di alloggi “economici e popolari” spacciati come edilizia pubblica anche se di edilizia sovvenzionata (pubblica) c’era poco e nulla. Sarà questa tipologia edile, nel decennio successivo, a in28
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crementare la richiesta di un nuovo modo di abitare. Il passaggio dall’alloggio in affitto al condominio (economico e popolare/cooperativo) in proprietà, rappresentò un profondo miglioramento sociale e culturale. Il transitare dal condominio alla villetta, a schiera, isolata o accorpata, mono o bi-familiare, alla palazzina in campagna o nei rilievi appenninici (seconda casa) fu facilitato dalla vendita (o affitto agli studenti) dell’alloggio in condominio. La seconda ripresa espansiva dell’urbanizzato si arena, come detto, nei primi anni del Novecento, quando si accentuano il decremento e l’invecchiamento della popolazione. Si accorciano gli intervalli fra una crisi e l’altra. Il ciclo edilizio si riprende nell’ultimo decennio, avvio del terzo millennio; quando trionfa quella che sarà definita la “bolla edilizia americana”. L’ultima ripresa (a Bologna come altrove, in Italia), però è diversa. Anche qui ci sono state villotte e villette, case a schiere e alloggi in villaggi e villagetti, acquisiti con mutuo, ma l’ultimo “ciclo” espansivo ha avuto sostegni più forti.
Il modello dell’ultima ripresa In sintesi, il riferimento è quello della “cartolarizzazione”. Lo Stato per aumentare le entrate, per denunciare minore indebitamento, “cartolarizza”, vende demanio pubblico. Non poche aziende private fanno altrettanto. Si vendono anche le proprie sedi come lo Stato vende i propri ministeri. L’acquirente, in genere un’immobiliare, una “estate” come si usa inglesizzare, le affitta al venditore. Con l’affitto paga la rata del mutuo pattuito con una banca per l’acquisto. La banca ha tutto l’interesse a gestire, a far proprio, il capitale delle stesse immobiliari, specie se quotate in borsa. L’aumento di valore delle azioni (della banca o dell’immobiliare o del faccendiere) permette di acquisire nuovo capitale da investire, ancora in edilizia, per ottenere − in una specie di catena di Sant’Antonio − altro capitale, ulteriore rialzo del valore delle azioni, altri mutui… in un crescendo in cui anche le amministrazioni comunali credono di arricchirsi o, quanto meno, di mantenere il bilancio in pareggio. Concessioni edilizie, perequazioni urbanistiche, ICI, seconde case e oneri monetizzati, alimentano le casse comunali e il libero mercato. Non è necessario che i fabbricati siano occupati o 29
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venduti o che il costo di gestione dell’urbanizzato diventi insostenibile, l’importante è aver trasformato il piano da strumento regolatore dell’assetto urbano e territoriale a promotore di uno sviluppo economico basato sull’edilizia. Alla rendita fondiaria (speculazione edilizia) si somma la rendita finanziaria.
L’orgia pantagruelica di occupare/cementificare il territorio Urbanizzare tutto il territorio, agricolo o dismesso, mentre si proclama lo sviluppo sostenibile e la crescita qualificata, l’etica del mercato e l’estetica del paesaggio, equivale a privatizzare il territorio stesso e fa dimenticare il reale significato delle parole. Impedisce di affrontare le conseguenze e le incidenze negative (anche e soprattutto economiche) di questo furor costruttivo. Altera il senso della “pianificazione”. È forse opportuno ricordare i fondamenti disciplinari, la ricerca dell’ormai dimenticato biologo e pianificatore Patrick Geddes che dimostrò come “progresso/sviluppo/crescita” non sono il sinonimo di “evoluzione”. Anzi. Questi termini si contrappongono. “Sviluppo” equivale “all’incremento nella quantità della ricchezza e nell’aumento della popolazione” mentre “evoluzione” è da intendere il “miglioramento della qualità media individuale”. Senza questo miglioramento qualitativo la crescita della ricchezza si può tradurre, certo, in aumento della popolazione, ma sempre secondo Geddes provoca una rapida “degenerazione dei mezzi di sussistenza”. La moltiplicazione dei mezzi materiali “tende solo ad una maggiore produzione di una crescita di povertà”2. Non è smentito Geddes, neppure un secolo dopo: c’è una “connessione essenziale della povertà con lo sviluppo”. Il progresso verso la povertà è una corsa verso la rovina. Geddes esemplificava: “estrarre carbone, far funzionare macchine, per produrre cotone a poco prezzo, per vestire gente mal pagata, che poi estragga altro carbone, per far funzionare altre macchine e così via allo scopo di espandere i mercati, non può essere un ciclo infinito”3. Non migliora la qualità media individuale e accentua la sperequazione sociale. Se si sostituisce l’estrazione di carbone con la costruzione di fabbricati, mediante la vendita da parte delle amministrazioni comunali di metri cubi edificabili nei terreni ancora liberi, oltre 30
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alla distruzione del territorio, oltre a impoverire le casse comunali, bisogna chiedersi: chi ci guadagna? I profitti della vendita di metri quadri edificabili, non pareggiano le spese di gestione che aumentano con l’espandersi dell’urbanizzato, fino a diventare insostenibili. Non si fa più manutenzione e il degrado aumenta. La continua urbanizzazione non può essere un ciclo perpetuo. La rendita finanziaria diventa virtuale, disancorata dalla stessa produzione edilizia o dalle reali capacità di investimento, finisce per tradursi in un fallimento generale irreversibile. La città e il suo territorio negli ultimi decenni sono diventati la scena di una dissipazione collettiva di risorse pubbliche e private. L’idea dello sviluppo rimane così tenacemente perseguito perché è spacciato, al pari delle auto e delle relative infrastrutture viarie, come pilastro della modernità e non come produzione di entropia. Nei momenti di crisi invece di indagare sulle cause, si attende la ripresa della stessa economia che ha determinato la crisi. Si spera che tutto ritorni come prima. Pur sapendo che la terra non è un bene riproducibile; pur sapendo che non ci sarà aumento di popolazione; pur conoscendo le cifre dell’invenduto e dello sfitto, si continua a urbanizzare, a costruire. Magari virtualmente. Il mito dell’edilizia produttrice di ricchezza e benessere contagia tutti. A Bologna (purtroppo, lo si ripete) come altrove. Il “piano casa” indicato dal Governo nell’aprile 2009 è stato tradotto dalle Regioni con un serie di norme che in apparenza dovrebbero stabilire le modalità per ampliare e/o riconvertire l’edilizia esistente all’insegna del risparmio energetico, in realtà consentono nuove costruzioni su terreno libero con un premio di cubatura superiore in alcuni alcune Regioni casi del 60/65% rispetto all’esistente.
Partecipare per conoscere. Conoscere per pianificare il territorio come bene comune La crisi genera lamenti. Il lamento si traduce a volte in denuncia che scivola in sterili polemiche fra presunti sviluppisti e nostalgici conservatori. L’esigenza e l’urgenza di contribuire a progettare un futuro alternativo per Bologna, con un particolare riguardo alla “geografia” della società e alle sue trasformazioni, ai cambiamenti insediativi e culturali, al perseguimento di 31
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quel “miglioramento della qualità media individuale”, specchio di una comunità in evoluzione, ignorato dagli ultimi strumenti urbanistici, può diventare riflessione per una disciplina – la pianificazione – in disfacimento4. Il ritorno ad una prassi in cui “conoscenza e partecipazione” forma un supporto insostituibile nella costruzione di una prospettiva progettuale di assetto urbano e territoriale. A Bologna, conoscenza e partecipazione, sono diventate azioni sconosciute. Gli ultimi strumenti urbanistici sono miopi in quanto coscritti ai confini comunali e gonfi di ulteriore espansione. Non valutano, non verificano i risultati che si otterranno se e in quanto attuati e senza aver studiato ciò che finora è stato realizzato con il PRG ’85-’89. Conoscenza e partecipazione richiedono non solo trasparenza e capacità di ascolto (per dialogare, per poter partecipare) impongono di considerare l’urbano, la ex città, quale “bene pubblico”, appartenente alla collettività. Come dovrebbero essere l’acqua, l’aria e la terra (e in particolare l’energia). Bene, in quanto pubblico, non monetizzabile. Non appartenente all’economia del libero mercato. Per la prima volta (e forse non solo a Bologna) si è indagato dentro lo sprawl – il disastro – causato dall’attuazione dei PRG degli anni Ottanta (non solo quello di Bologna, ma anche i piani dei comuni limitrofi). Cercando di capire come lo vive chi ci abita, come incide la crisi sulle persone costrette a pagare un mutuo per un bene (la casa) il cui valore è inferiore rispetto al momento della sua stipula. Come ci si aggrega in un territorio dove i servizi primari sono insufficienti e molte costruzioni sono vuote o semivuote. Come si sopporta il pendolarismo o, peggio, la disoccupazione incombente in rapporto a programmi di produzione edilizia e/o infrastrutturale crescente. Come si abita in località marginali scelte per risparmiare sul prezzo degli alloggi pur dovendo collegarsi con mezzi propri al posto di lavoro o alle strutture pubbliche o ai tanti supermercati diventati veri e propri centri di consumo, anche nel consumo del senso di collettività. Supermercati che contribuiscono a giustificare lo sparpagliamento degli insediamenti e a imporre sempre più l’uso della propria auto, mentre il Servizio Ferroviario Metropolitano sta diventando progetto/oggetto di antiquariato. 32
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La ricerca di soluzioni concrete, realizzabili se e in quanto partecipate, diventa occasione per riaprire un dibattito soffocato fin dall’inizio; occasione per tentare di limitare un disastro traducibile in una accentuata disgregazione sociale e in un totale annullamento dei rapporti di convivenza civile. Crescente processo di atomizzazione della società, sviluppo dell’urbanizzato e del motorizzato individuale, (causa ed effetto dello sprawl) mono cultura del mattone e del cemento, (infrastrutture soprattutto strdali che favoriscono la motorizzazione privata, su gomma, quindi congestione e inquinamento) mentre la popolazione invecchia e diminuisce. Fenomeni che possono coincidere con la fine della polis e della civitas. Il passaggio da una pianificazione condivisa in quanto partecipata − con scelte che privilegiano il cosiddetto genius loci (l’identità) al pari dei servizi sociali pubblici e il ruolo proprio della città; con un preciso quadro di riferimento comprensoriale, originato da uno dei primi piani intercomunali elaborati in Italia − a un Piano Strutturale “sviluppista” e accentratore, molto sceneggiato e pochissimo supportato da idee progettuali, isolato dal territorio circostante, privo di obiettivi se non quelli appunto di realizzare costruzioni anche negli spazi “interstiziali” salvaguardati nei decenni precedenti. Bologna aveva una popolazione di poco inferiore alla metà di quella provinciale. L’esodo verso i comuni limitrofi è già avviato e il nuovo piano regolatore, contestato all’inizio dalla Regione, ma approvato nel fatidico ’89, dimostrerà in pieno il suo fallimento progettuale proprio con la mancata attuazione del Trasporto Metropolitano Ferroviario e con la costante perdita di popolazione. La popolazione di Bologna si è ridotta a quasi un terzo rispetto a quella provinciale, mentre è più che raddoppiata la superficie urbanizzata5.
Il buon governo del territorio Per governare il territorio la questione del rinnovamento istituzionale va rimessa al centro di ogni progetto. Vanno ri-configurate le fisionomie – politiche e funzionali – degli enti territoriali. Si impone la questione del ruolo di Bologna. “Capoluogo”, epicentro della regione o “città” della “città regione”? Nell’una 33
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Conurbazione disgregata e sistemi locali territoriali Giuseppe Dematteis
Una mutazione epocale Credo che per reinterpretare la città occorra fare un passo indietro, chiedendoci come si è venuta formando la città che abbiamo sotto gli occhi. Si tratta di una specie di anamnesi, che dovrebbe permetterci di capire se la città odierna è veramente malata come sembra e, se così è, quali sono le sue patologie e quali le possibili cure. Adotterò a tal scopo una sequenza che parte dall’osservazione geografica tradizionale del paesaggio (una “fotografia”) per chiedersi che cosa sta sotto queste forme visibili (una “radiografia”), fin a considerare più piani di osservazione, corrispondenti a diverse scale (una “tomografia”). Concludendo nel 1961 la sua opera fondamentale Megalopolis. The Urbanized Northeastern Seabord of the United States1, Jean Gottmann, con riferimento al Nord America e all’Europa occidentale e mediterranea, scriveva: La struttura a nebulosa delle regioni urbane sta diventando frequente e lascia intravvedere una nuova ridistribuzione di funzioni all’interno di esse. L’uso residenziale del suolo sta guadagnando spazio in tutte le direzioni attorno ai vecchi nuclei congestionati. I nuclei più densamente agglomerati non si specializzano più come prima nell’industria manifatturiera e nell’amministrazione. Le attività produttive spesso si spostano verso la periferia della città e oltre, in spazi che fin a poco fa erano considerati rurali o interurbani. (p. 776)
L’interesse di questa citazione deriva dal fatto che, studiando negli anni Cinquanta la dinamica in atto nella grande regione urbana degli Stati Uniti di N-E, Gottmann aveva visto sul nascere la più grande mutazione che la forma urbana ha subito a partire dalle sue origini. Quella che nei decenni successivi verrà poi riconosciuta in contesti geografici diversi e chiamata in vario mo44
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do: urban sprawl, periurbanizzazione, città diffusa, métapolis, ville eparpillée, edge cities ecc2. Si tratta di una mutazione epocale perché fin verso la metà del secolo scorso la città, pur avendo perduto la recinzione muraria, che era stata una sua caratteristica fin al XIX secolo, e avendo conosciuto successivamente le metamorfosi nella Coketown e nei Suburbia descritti da Lewis Mumford3, aveva conservato la forma compatta, di uno spazio edificato continuo. Le sue dimensioni erano certamente cresciute, ma, anche in casi limite come quello della Grande Londra, si manteneva nel raggio di una ventina di km dal centro. Inoltre pressoché dappertutto era rimasta la struttura monocentrica, con una netta distinzione tra il centro dei servizi e degli affari e una più o meno vasta periferia gravitante su di esso. Invece nella Megalopoli di Gottmann , che prefigura la “città diffusa”, il tessuto urbano non è più compatto né continuo (addirittura i boschi occupano il 48% degli spazi rurali che intervallano l’edificato). Esso è formato da una nebulosa di centri piccoli e grandi e di edifici dispersi in nastri e piccoli nuclei lungo le strade. Tuttavia egli ci dimostra che tutta la grande regione che va da Boston a Washington passando per New York, già negli anni Cinquanta presenta “una maglia intrecciata di relazioni tra i diversi, separati centri urbani”, che nel suo insieme riproduce, in uno spazio da 50 a 100 volte più esteso, la composizione funzionale che prima si poteva riscontrare in una singola grande città. Di qui il termine “megalopoli”, che è una delle principali chiavi di lettura dell’urbanizzazione recente, ma che purtroppo non è penetrato se non superficialmente nella nostra cultura. Infatti nei media viene sovente usato in modo improprio (al posto di “megacittà”) per indicare le grandi agglomerazioni monocentriche come Città del Messico. Al contrario, per usare ancora una vivace espressione di Gottmann, la megalopoli è una “metropoli esplosa”. Negli Stati Uniti di N-E questa struttura occupa un fronte costiero di 500 miglia e penetra per altre 200 miglia nell’interno. E questa esplosione figurata del vecchio modello metropolitano monocentrico non riguarda solo le grandi periferie suburbane, ma anche il centro, le cui funzioni terziarie e “quaternarie” si trovano ora distribuite tra più centri urbani, costituenti l’armatura della megalopoli: grande città senza più un unico centro, ma dotata di una rete di centri con diverse funzioni. 45
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Del destino della città di Françoise Choay e dell’utopia “rururbana” di Alberto Magnaghi Massimo Quaini
Alberto Magnaghi mi ha mandato l’ultimo libro che ha curato – l’antologia di scritti di Françoise Choay1 – con la raccomandazione di parlarne al fine di consolidare “ulteriormente le interconnessioni teoriche e operative fra i nostri ambiti e le nostre pratiche di lavoro scientifico”. Approfitto di questa occasione per prendere sul serio la proposta. Mi sembra importante, in questo momento, riflettere sulla rilevanza che l’originale mappa scientifica delineata nel volume assume nella costruzione di una concezione allargata e più efficace della pianificazione territoriale e paesistica, che da parte mia cercherò di vedere in relazione al rapporto città-campagna o meglio, per rifarmi al linguaggio della Choay, al rapporto urbanità-ruralità (piuttosto che urbano-rurale). Per cominciare, devo riconoscere che la formula impiegata da Magnaghi ha per me un significato particolare, che intendo sottolineare, in quanto rende più visibile uno degli assi generatori della mappa: la convergenza fra geografia e urbanistica. Se c’è una caratteristica che Choay e Magnaghi, che geografi non sono, hanno in comune sul piano dell’interdisciplina (e perché no? dell’indisciplina), questa sta nel valore riconosciuto all’approccio geografico, tanto che nella Presentazione del volume Magnaghi può parlare legittimamente di “urbanisti-geografi”. Come geografo dovrei per reciprocità parlare della figura del “geografo-urbanista”, se non fosse che questa figura, ben presente e riconosciuta in Francia, non è molto frequente nell’ambiente italiano, dove è spesso rifiutata. In proposito voglio citare l’esempio della Facoltà di architettura di Genova, che se ha avuto il merito di attribuire alla Choay la laurea honoris causa nel 2001, dopo la scomparsa di Adalberto Vallega ha reso sempre più difficile la convergenza fra geografia e discipline architettoniche e urbani60
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stiche, tanto da arrivare al punto di eliminare la geografia umana dall’offerta didattica, ritenendo di poter sostituire il geografo con il geologo e il sociologo. Assumendo un’ottica meno provinciale di questa, mi pare interessante verificare in quale contesto Magnaghi, facendo uso dell’espressione “urbanista-geografo”, ammette questa ibridazione. Essa emerge a proposito della costruzione di scenari strategici e in particolare dell’uso di “rappresentazioni disegnate dei paesaggi futuri” a cui deve tendere il progetto di territorio: è anche per questa via infatti che si recuperano le competenze di un sapere cartografico da sempre legato alla pratica della geografia e non sostituito dalla pratica dei GIS. Allargando la prospettiva potrei ricordare che già con Le metafore della terra − la più innovativa definizione di geografia proposta in Italia negli anni Ottanta − Giuseppe Dematteis ci invitava a costruire rappresentazioni territoriali del presente-futuro2. Dell’ibridazione geografia-urbanistica voglio anche rivendicare una dimensione che vedo trascurata, ma che non è meno essenziale e si realizza nel dare spessore storico alle figure professionali alle quali intendiamo ricollegarci, riscrivendo, se necessario, la storia delle nostre discipline e andando controcorrente. Solo a prima vista può stupire che la Choay, con una radicale revisione storiografica, veda nel prefetto Haussmann, se non il prototipo della figura del geografo-urbanista, certo l’anticipatore di un metodo che, lungi dall’esaurirsi nell’approccio globale e sistematico ai problemi posti dalla città, si realizza soprattutto “nella relazione complessa che il prefetto si impone di instaurare tra lo spazio locale (ambiente naturale e costruito) e il tempo” (p. 186). Infatti, Haussmann, come mostrano le sue Memorie, “è un virtuoso di quella contestualizzazione, oggi caduta in disgrazia e in progressiva scomparsa, che spiega in parte i limiti e gli insuccessi delle politiche urbane attuali” (p. 188). In proposito, potrei aggiungere che non è un caso se, secondo la ricostruzione della Choay, Haussmann, ovunque si trovi: nel dipartimento del Var o a Parigi, “comincia rilevando lo stato dei luoghi; solca i dipartimenti, svolge egli stesso indagini direttamente sul campo; ogni elemento è oggetto della stessa attenzione: natura e irregolarità del suolo, idrografia, flora, stabilimenti 61
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Il progetto della bioregione urbana policentrica Alberto Magnaghi
Dopo le conclusioni sul che fare di Giuseppe Dematteis e l’analisi sui testi di Choay e miei svolta da Massimo Quaini, ritengo importante considerare i recenti sviluppi delle “mappe di comunità” che, nate dalle parish-maps inglesi-scozzesi, si sono sviluppate in Italia all’interno dell’esperienza degli ecomusei e rappresentano una forma interessante di auto-rappresentazione dei valori patrimoniali da parte di una comunità locale; una forma di geografia connessa alle pratiche territoriali, che stiamo ad esempio applicando in molti comuni come strumento di crescita della “coscienza di luogo” nel Piano paesaggistico territoriale della Regione Puglia. Per l’altro tema richiamato da Quaini sugli scenari strategici disegnati e sul loro ruolo nei processi partecipativi, rimando al volume da me curato sull’argomento1. Riferirò più specificamente il mio contributo al tema che Quaini stesso ha posto sul rapporto tra urbanistica e agricoltura attraverso l’argomento che mi è stato attribuito sul progetto della bio-regione urbana policentrica. Vorrei porre una questione a premessa: concordo con Dematteis quando legge il territorio aspaziale di flussi e di reti nel quale i nodi della rete non sono più identificabili attraverso descrizioni geo-grafiche, e di conseguenza è necessaria una sorta di radiografia o tomo-grafia; in altri termini nel mondo del ciberspazio la lettura morfotipologica non riesce più a interpretare la realtà complessa di funzioni e relazioni globali di cui ogni luogo è crocevia. Quindi dobbiamo leggere anche in questo modo il territorio. Tuttavia vorrei riaffermare una banalità “terrigna”, cioè che la terra ha sempre la stessa dimensione, la regione padana non si è espansa geograficamente nei secoli mentre l’urbanizzazione contemporanea, frutto di questa liberazione globale dai vincoli territo72
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riali di reti e flussi senza confini, ha sviluppato un’occupazione di suolo senza precedenti nella storia che ha sconvolto tutti gli equilibri possibili fra insediamento umano e ambiente: equilibri riproduttivi delle risorse ambientali, alimentari, equilibri sociali e relazionali, distruggendo il concetto stesso di città, di urbanità. Nonostante possiamo oggi parlare di cittadini del mondo, in realtà la terra rischia di venire soffocata da questa conurbazione nominata con diversi ossimori, da alcuni subiti, da altri esaltati: “città de-formata”, “città diffusa”, “ville éparpillée”, “agglomerazione urbana”, “conurbazione urbana”, “rururbanizzazione”, “ville éclatée”, “sprawl urbano”, “città di mezzo”, “città infinita”, “città illegale”, “città-mondo” ecc. Ho aggiunto fra gli ossimori “città de-formata”, che è stata introdotta da Paola Bonora. Procedendo da questa definizione ho fatto una forte semplificazione tra città storica e urbanizzazione contemporanea perché nella mia lettura l’urbanizzazione contemporanea non è più città. Quaini, riprendendo Choay, ci parla di “mort de la ville”; percorso che Choay2 connota con una serie di privazioni: de-differenziazione, de-corporeizzazione, de-memorizzazione, de-complessificazione, de-contestualizzazione, de-localizzazione e, aggiungo io, de-territorializzazione. Dunque questi cittadini del mondo, pur attraversati da milioni di reti e flussi, rischiano, cosi anomizzati da tutti questi de, di stare molto peggio dei cittadini del villaggio o della città storica. È per questo che dobbiamo sviluppare anche uno sguardo critico proprio sulle nuove morfotipologie territoriali posturbane, che seppelliscono luoghi di vita e culture materiali, identità locali. L’ipotesi su cui siamo stati invitati a riflettere in questa occasione è: dalla città deformata alla neourbanità, all’alleanza di città. Voglio proporre una precondizione per la realizzazione di questo difficile e utopico passaggio dalla città deformata alla neourbanità, all’alleanza di città che, riassunta in uno slogan, potrebbe suonare: senza neo-ruralità niente neo-urbanità. Senza neo-ruralità niente neo-urbanità. Cosa intendo dire? Che se pensiamo di risolvere il problema della ricomposizione urbana o della ricostruzione dell’urbanità (dal momento che molti di noi sostengono che “occorre ritornare ad una forma di città” o almeno allo “spirito pubblico”, allo 73
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Landscaping the city: pratiche urbane, culture visuali, tattiche acquisitive Angelo Turco
Qu’est-ce qu’aimer une ville ? Pierre Sansot, Poétique de la ville
Incollando un post-it giallo Provo a parlare di uno spazio identitario chiamato città, tentando di ragionare sulle condizioni culturali che ne assicurano la costituzione, la coerenza e la durata. Provo a parlare, insieme, di qualcosa che ha a che fare con una globalizzazione ricondotta ai suoi termini elementari di intensificazione di flussi, ponendo l’attenzione sui processi di simbolizzazione attraverso i quali questi flussi si fanno luoghi, e particolarmente vengono convertiti in luoghi urbani. E però trattandosi di città, ed essendo molto consapevole di non essere in grado di costruire nessun discorso compiuto su di essa, val la pena registrare qualche rapida premessa da cui muovono queste riflessioni. E non tanto per richiamare “fondamenti logici”, fonti di ispirazione o altro, ma piuttosto per evocare sentimenti, sensazioni e forse frammenti d’intuizione che andranno poi a proiettarsi, nelle pagine che seguono, in un post- it giallo da appiccicare al frigorifero. Da riprendere, magari, e forse da sviluppare. L’Aquila anzitutto, ferita dal terremoto del 6 aprile 2009. Di là da ogni impatto emotivo, e ben oltre le retoriche che insopportabilmente si intrecciano a tutti i livelli attorno a questo evento, resta la sconcertante povertà di idee sul che fare e, ciò che più conta, sul come farlo. Come evitare che il malessere tellurico, una patologia ben nota all’Aquila, un dato costitutivo della geografia abruzzese, diventi una lacerazione mortale per la territorialità urbana e regionale? E che dire del dilemma, una volta evitate le new towns, posto che ci si riesca: ri-costruire oppure riconfigurare? E se si provasse a pensare la ri-costruzione per una nuova configurazione territoriale ? Intendo: se la ricostruzione, 87
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che potrebbe anche essere la copia esatta di ciò che era e di ciò che gli aquilani, i nostri studenti che hanno pagato un tributo così doloroso, e noi stessi abbiamo amato, se la ricostruzione, dicevo, aprisse le porte a una nuova territorialità? E quindi, per introdurre qualcosa su cui dovremo discutere in appresso, un vecchio territorio diventasse la scena familiare di un paesaggio nuovo e tutto da inventare? Viriamo con un pò di immaginazione verso un altro orizzonte. Una piccola terra ovest-africana, il Gurma; un piccolo popolo, i Gurmancé1. Che non vivono l’esperienza urbana, perlomeno non al modo in cui noi la viviamo, ma proprio per questo consentono di praticare quel distanziamento a volte necessario per vedere la foresta e riappropriarsi dell’idea che essa non è solo un assembramento di alberi. I Gurmancé dunque, che “fanno cose” e le depositano al suolo in un qualche ordine spaziale: è questo che importa qui, non tanto gli artefatti (poiemata), materiali o simbolici che siano, quanto piuttosto l’agire territoriale che li ha prodotti (poiesis). Ebbene questo popolo non possiede una cultura visuale di tale potenza da egemonizzare le altre culture con cui si concepisce e si rappresenta il mondo. È perciò che, per capire la loro territorialità, occorre spostare il fuoco dell’attenzione dalle ragioni della visione a quelle della parola. Lo spazio si ri-costruisce secondo itinerari che invertono, in qualche modo, i procedimenti ermeneutici. L’opsis, ciò che si vede, può essere un punto di partenza. E però esso non è autoconsistente e seppure orienti l’interpretazione, non conduce a nessuna comprensione di qualche spessore. Piuttosto, l’opsis è strumentale rispetto al logos, il pensiero che ha concepito ed ha creato, con ciò, le condizioni di possibilità dell’agire territoriale. Nel gioco ermeneutico, è cruciale pensare fin dall’inizio l’esistenza di questo nesso tra opsis e logos, immaginare quest’ultimo come costitutivo della prima, e ricostruire la poiesis, l’atto territoriale, come qualcosa in certa misura indipendente dai poiemata e, talora, perfino assai lontano da essi.
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Urbs, civitas, polis: le tre facce dell’urbano Edoardo Salzano
Per cominciare Siamo tutti convinti che il modo in cui oggi viene trattato (non voglio dire governato) il territorio nel nostro paese è orribile: distruttivo e inumano sono due attributi che mi sembrano sintetizzare abbastanza bene la sensazione che proviamo. Ci domandiamo che cosa è possibile fare, quali siano i punti di partenza su cui basarsi per uscire positivamente dalla crisi: dalla crisi del territorio, che è un aspetto di una crisi più generale sulla quale dobbiamo interrogarci. Ricordando che “crisi” non significa necessariamente sconfitta, regressione, arretramento, catastrofe, ma semplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile. Rottura, quindi, che può preludere a una regressione o a un progresso, a un passaggio verso una situazione peggiore o migliore. Visto che ho adoperato questa parola, “migliore”, vorrei dichiarare subito che non sono né sono mai stato un “migliorista”. Non ritengo sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare, mitigare meccanismi in sé perversi, e sono convinto che la svolta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto (della cultura, dell’economia, della società) nettamente diverso e alternativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gradualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascuno dei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o alle quali si concorre. E poiché sono convinto anche dell’intrinseca positività dell’uomo (del maschio e soprattutto della femmina) ho anche fiducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un possibile futuro, possiamo già scorgerli nel presente se guardiamo con sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Naturalmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, che ci 106
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Stereotipi e Archetipi di territorio Anna Marson
Superare gli stereotipi, riscoprire gli archetipi La maggior parte dei processi di urbanizzazione contemporanea1 produce esiti di elevata uniformità, per ciò che attiene alle strutture e ai caratteri degli insediamenti, in modo indipendente dai luoghi fisici, dalle culture sociali, dai patrimoni storici che ne configurano il contesto. Il contesto, per l’appunto, non è considerato una dimensione significativa alla quale rapportarsi nell’introdurre nuove trasformazioni, le quali sono costituite da “modelli” in serie, si tratti della villetta unifamiliare, del condominio a tre piani piuttosto che del grattacielo ultimamente così in voga2. A differenza del tipo edilizio storico, che pur definito dalla presenza di caratteri comuni a più edifici, è “per sua stessa natura variante, tanto da dipendere strettamente dal tempo e dal luogo”3. La questione parossistica è che i manufatti contemporanei, così indifferenti ai luoghi, non presentano neppure i vantaggi che altrove, in altri campi come ad esempio quello della produzione automobilistica, la produzione in serie ha nel tempo garantito relativamente al rapporto qualità-prezzo e all’innovazione tecnologica. Il “modello” in questo caso non corrisponde a una semplificazione essenziale per ottimizzare con procedure industriali le tecnologie produttive e la qualità del prodotto finale, tant’è che la produzione edilizia è ancora basata su una struttura di piccole e piccolissime imprese, spesso altresì non del tutto in regola con le normative fiscali e della sicurezza, ma innanzitutto a una crescente ignoranza relativa ai tipi edilizi di luogo in luogo più adatti a costruire tessuti urbani. L’innovazione consapevole dei tipi edilizi e quindi urbanistici tradizionalmente utilizzati è sostituita dall’assunzione di stereotipi 124
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di provenienza incerta, la cui propaganda sembra essere stata affidata a serial televisivi globalizzati (prodotti in Brasile e venduti in Europa e Stati Uniti, piuttosto che prodotti negli Stati Uniti e venduti in Sud America, e così via), spot pubblicitari, rotocalchi scandalistici: case unifamiliari improbabili, con tettucci vari a definire portichetti in stile tailandese, abbaini tirolesi e vetrate new England, il tutto ovviamente combinato nello stesso edificio, oppure grattacieli che imitano i loro omologhi di Manhattan o Singapore sullo sfondo o addirittura all’interno delle nostre città storiche. Se consideriamo l’etimologia di stereotipo, piastra di metallo su cui veniva impressa un’immagine o un elemento tipografico originale, in modo da permetterne la duplicazione su carta, e il suo sinonimo cliché, termine derivato dal suono prodotto durante il processo di stereotipizzazione, quando la matrice colpiva il metallo fuso, ci rendiamo conto di come gli stereotipi dell’urbanizzazione contemporanea rappresentino gli esiti d’un processo innanzitutto mentale, nel quale una serie d’idee (ideologie) ripetute identicamente, in massa, con modifiche minime, finiscono col forgiare il senso prevalente degli attori che partecipano alle decisioni di trasformazione. Una volta assunti come standard, questi stereotipi finiscono con l’influenzare anche materialmente, ad esempio attraverso la componentistica edilizia di produzione industriale, ciò che può facilmente essere costruito senza lunghe ricerche dell’unico artigiano in grado di produrre lavori specifici su misura. Ciò richiederebbe un’analisi più approfondita del rapporto tra mercato e bisogni espressi dai consumatori, ovvero del fatto che il mercato risponda effettivamente ai bisogni espressi dai consumatori, o non contribuisca piuttosto a omologarli a quando viene già prodotto o è compatibile con la filiera produttiva già in essere4. Gli stereotipi rinvenibili al lavoro nei processi di urbanizzazione contemporanea sono innanzitutto quelli della città infinita, dell’utile assenza di confini, della molteplicità (scomposizione funzionale) e irriconoscibilità dei centri, della mobilità privata come libertà irrinunciabile (salvo per i migranti), della proprietà privata come valore da difendere dall’intrusione anziché come bene da valorizzare attraverso la prossimità di usi collettivi e pubblici, dell’importanza del segno, o della firma, rappre125
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inducono a condividere il “pensiero unico” e ad accettare quello che esiste per il semplice fatto che esiste, e utilizzando invece le lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle convinzioni che liberamente ci siamo formati.
Critica ai miei colleghi, gli urbanisti Vorrei partire da una critica ai miei colleghi urbanisti, poiché mi sembra che nei decenni più vicini la maggior parte di loro abbia perso una convinzione, che alimentava il meglio della cultura urbanistica non solo italiana. Mi riferisco al titolo di questo mio intervento, cioè alla consapevolezza profonda del fatto che la città, l’oggetto della nostra operazione di urbanisti, è costituita dall’insieme dei tre elementi rintracciabili nella sua stessa denominazione: la città come struttura fisica, la città come società, la città come governo. Dimenticare la necessità di un continuo intreccio tra questi tre elementi, occuparsi della città (e più largamente del mondo urbano) solo sul versante della sua architettura, o solo su quello della società che la abita, o solo su quello della politica è causa di necessari fallimenti e non conduce a nessun risultato positivo. Può solo fornire contributi parziali (e perciò di necessità viziati) a chi tenta di fare una sintesi. Da questo punto di vista vorrei citare un brano molto bello, scritto da uno storico ed economista francese, membro dell’Assemblea legislativa alla fine del XVIII secolo, che ho trovato molti anni fa citato nella Miseria della filosofia di Karl Marx. Il suo nome è Pierre-Edouard Lemontay: Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce1.
Penso che oggi il campo di ciascuno di noi non possa allargarsi per diventare grande come i campi che già Lemontay, due secoli fa, rimpiangeva. Dobbiamo perciò cercare di ragionare insieme, di costruire poco per volta quell’”intellettuale collettivo” che è necessario per comprendere il mondo di oggi. Perciò sono parti107
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spettica di calle delle Furlane20 evidenzia i camini come elemento che modula la parete formata dalle facciate, accompagnando e proteggendo il passaggio dallo spazio pubblico della calle al privato dell’ingresso all’abitazione.
Esattamente il contrario della lottizzazione di villette unifamiliari che non solo interviene sul territorio con l’indifferenza di una missione militare (vedasi l’espressiva immagine riportata a seguire21), ma afferma come assioma l’antisocialità, l’isolamento
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Per una politica delle città Chiara Sebastiani
La dimensione politica della città: da recuperare Esiste una teoria politica della neourbanità? Le scienze politiche sono in grado di offrire a quanti si occupano di città da diversi punti di vista – quello dell’architettura e dell’urbanistica, delle scienze geografiche e del territorio, delle scienze umane e sociali – un’ulteriore prospettiva da integrare nello studio della città? 1 La risposta alla prima domanda è largamente negativa: in effetti non disponiamo oggi di una vera e propria teoria politica della città, che si innesti sulla scia degli studi di Max Weber2 dedicati alla città occidentale come soggetto politico, o che raccolga suggestioni come quelle di Angelo Pichierri3 sulle analogie tra il “modello anseatico” e il ruolo politico delle città nell’odierno contesto dell’Unione Europea e in quello più generale della globalizzazione. E tuttavia qualcosa ha incominciato a muoversi, negli ultimi anni in questo campo: il fatto che ormai si parli correntemente di una “politica estera” delle città, che si studino le “strategie internazionali” delle città D’Albergo e Lefèvre ne costituisce una delle principali evidenze4. Da qui la risposta largamente positiva che merita la seconda domanda: non soltanto la teoria politica può aiutare a esplorare la condizione urbana odierna ma la stessa dimensione politica della città rappresenta una prospettiva da recuperare, tanto per interpretare i fenomeni urbani contemporanei quanto per governarli. È in questo senso che parliamo di “politica delle città”, mettendo l’accento su un contenuto diverso da quello incorporato in espressioni apparentemente sinonime, quali “politica della città” (quella che i francesi chiamano la politique de la ville), o “politiche urbane”. Nella prima espressione infatti la città si configura come oggetto di politiche pubbliche elaborate da una fon145
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te di autorità esterna (prevalentemente dallo stato o da livelli di governo substatali di rango regionale). Nella seconda espressione tali politiche si intendono prevalentemente focalizzate sul fatto urbano come “assetto del territorio”: esse tendono così a trascurare le relazioni sociali, i rapporti di potere e le progettualità che plasmano le forme urbane e ne sono a loro volta plasmati. Con l’espressione “politica delle città” vogliamo invece intendere l’agire di un soggetto, o meglio l’agire di una pluralità differenziata di soggetti politici, quali sono oggi – nuovamente – le città dopo che il loro status politico era pressoché scomparso con l’avvento del moderno sistema degli stati. Ricordiamo che al soggetto politico per eccellenza della modernità – lo stato – vengono attribuite tre dimensioni costitutive (tre elementi “definitori”): quella del territorio, quella della popolazione e quella della sovranità. Ebbene, possiamo oggi concettualizzare l’idea di città a partire dalle medesime dimensioni. Le città infatti, in tutta Europa e in buona parte del mondo, intrattengono con il proprio territorio una relazione politica (non meramente amministrativa) basata sulla rappresentanza elettiva; hanno il potere di conferire alla propria popolazione degli statuti di cittadinanza di tenore politico (in particolare in materia di partecipazione); dispongono infine – se non della “sovranità” – quantomeno della capacità di configurarsi come attore politico unitario in una serie di relazioni orizzontali e verticali di cooperazione e competizione con altre istituzioni e altri soggetti politici. Ma la teoria politica individua altresì, accanto alla dimensione strutturale del politico, una dimensione dell’agire politico. Questa viene intesa in primo luogo – e oggi prevalentemente – come modalità di esercizio del potere e in particolare dell’azione di governo. L’attenzione per questa dimensione, non riducibile alla pura impalcatura delle architetture istituzionali formali, è resa evidente dalla recente importazione (e dal successo finanche eccessivo) del concetto anglosassone di governance per analizzare e interpretare il governo delle città5. Per quanto infatti il concetto di governance indichi l’azione di governo in generale, è stato proprio in riferimento al governo urbano che il termine ha trovato la sua maggiore diffusione. È opportuno tuttavia ricordare che l’agire politico è stato anche inteso, nella Grecia classica rap146
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Passaggio a nord-ovest. Alla ricerca di radici e ragioni per co-progettare con gli abitanti Micaela Deriu
Ancora una volta mi sento periferica come quei quartieri aldilà del finestrino spaesati. Oltre i luoghi di me che dico miei nell’uniformità di strade mi perdo. […]1 Raffaella Faggioli
Avete mai chiesto a un pianificatore interattivo “come va?” Le risposte che rischiereste di sentire potrebbero trasmettervi senso di frustrazione, insoddisfazione, senso di inutilità e fatica. Eppure il nostro pianificatore continua ad attivarsi tra laboratori partecipativi, forum, outrech o mille altre attività che lo vedono coinvolto direttamente nel lavoro con gli abitanti. Se insisterete con la curiosità sul suo operato potrebbe anche arrivare il giorno in cui vi dirà che di partecipazione non “ne voglio più sapere”. Eppure non sarà così. Una curiosità legittima anima il modesto intento di questo capitolo nel cercare di intuirne i perché. Se avete frequentato i convegni in cui si discutono le esperienze di partecipazione, avrete forse condiviso alcune delle sensazioni e delle perplessità che ritornano nell’umore complicato del pianificatore interattivo di cui sopra. Se si va oltre alle retoriche e all’enfasi comunicativa, in particolare quando i singoli casi sono presentati dalla pubblica amministrazione, gli esiti concreti raggiunti possono apparire spesso poca cosa se messi in relazione con le energie e l’impegno dispiegati. Ma l’intento di avviare nuove esperienze è comune e, fortunatamente, caparbio. Ancora quindi pare legittimo interrogarsi sui perché di questa insistenza. 166
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Nel frattempo la letteratura accademica che pone al centro delle proprie riflessioni il coinvolgimento degli abitanti nella progettazione della città e del territorio ha prodotto importanti teorie, nutrite argomentazioni e significative implicazioni grazie alle riflessioni di innumerevoli autori. Tutti2 colpevoli nel ricordare al pianificatore interattivo che bisogna lavorarci con gli abitanti. È necessario, indispensabile. Allora cercheremo di intuire i perché. Sperando di non scoprire alla fine di essere anche noi dentro al set di Truman Show. Attraverso una scelta orientata e parziale, e con il solo obiettivo di tratteggiare le linee di fondo di un quadro d’insieme ben più ampio, ci apprestiamo ad estrapolare dalla letteratura disciplinare riferimenti teorici, autori e pratiche di pianificazione dando voce ad approfondimenti e visioni anche differenziate. Non ci si aspetti dunque una “topografia disciplinare”, quanto piuttosto un caleidoscopio di suggestioni dinamiche, a volte persistenti e a tratti sfuggenti, con brevi incursioni in aeree extradisciplinari dalle quali attingere spunti fecondi e attuali nel trattamento dei temi e delle questioni interconnesse alla progettazione partecipata. Nell’assumere come dato di contesto lo stato di crisi di efficacia delle pratiche disciplinari nel trattamento delle questioni urbane territoriali complesse e nella produzione di politiche capaci di rispondere ai bisogni dei destinatari3, si è preferito utilizzare quale chiave di lettura la dimensione delle pratiche con l’intento di riprendere alcune suggestioni dai pionieri del passato utili a rinnovare il discorso comune sul tema del coinvolgimento degli abitanti nella progettazione. Lo sguardo rivolto alla concretezza delle pratiche assume il concetto di multidimensionalità della pianificazione quale insieme interconnesso di pratiche sociali di diversa natura, i cui confini vanno definendosi all’interno di un campo debolmente strutturato nella relazione tra pratiche diverse4. È a partire quindi dalla debolezza di strutturazione entro cui si riconoscono pluralità di azioni, saperi e soggetti che assume rilevanza la dimensione processuale attraverso la quale si articolano e strutturano le pratiche la cui ridefinizione di senso e confini avviene tramite il processo stesso. “Infatti − come ricorda Pasqui − non esistono pratiche pure. L’aspetto tecnico della pianificazione è sempre sociale, e viceversa. 167
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Reinventare la campagna, a cominciare dal paesaggio Roberta Borghesi
Il paesaggio è un concetto polisemico, capace di comunicare la complessità del reale in una rappresentazione intuitiva, accessibile attraverso i sensi, benché non univoca. Se questo è sempre vero in generale per le rappresentazioni territoriali, quando si parla di paesaggio l’influenza del soggetto è forse ancora maggiore, poiché si entra nel mondo della percezione. Volendosi occupare di paesaggio agrario e di territorio rurale, quindi, con l’intento di osservare i processi di territorializzazione, è inevitabile affrontare l’argomento da un punto di vista epistemologico. Il tema del paesaggio è centrale nella tradizione degli studi geografici e, più di recente, è diventato il campo specifico di nuove discipline che se ne occupano in maniera specifica, come l’architettura e l’ecologia del paesaggio, così come la pianificazione territoriale1. Anche l’Unione Europea, inoltre ha evidenziato l’importanza del tema, attraverso la Convenzione Europea sul Paesaggio, recepita in Italia dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio2. La prospettiva che qui presentiamo si muove nella cornice dell’approccio territorialista, che considera il territorio come “sistema vivente ad alta complessità”, come risultato di un processo storico di coevoluzione tra ambiente e società insediata. Il compito del ricercatore, in quest’ottica, è quello di individuare le caratteristiche del territorio che ne garantiscono l’equilibrio, in termini ecologici, sociali ed economici (“invarianti strutturali”)3. Prima di affrontare il tema dell’agricoltura e del paesaggio rurale, dunque, tracciamo un percorso attraverso l’ampia letteratura di riferimento, per arrivare a proporre un’interpretazione di paesaggio capace di immaginare nuovi scenari per il contesto rurale4.
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Origine del concetto di paesaggio Il concetto di paesaggio è relativamente recente, compare intorno al Cinquecento, frutto della mentalità rinascimentale e del pensiero moderno. Non esiste, infatti, una concezione di paesaggio nelle culture strettamente interconnesse con i cicli naturali, com’era anche la società europea fino al Medioevo, ma questa si afferma insieme con una visione dell’essere umano e della società più indipendente dal mondo naturale. La filosofia e le arti del Rinascimento esprimono una rappresentazione dell’essere umano come soggetto autonomo rispetto alla natura, in grado di osservarla in modo distaccato e gestirla attraverso la tecnica, come testimonia anche la nascita, proprio in questo periodo, della prospettiva lineare. Nel caso specifico dell’Italia, Piero Camporesi, associa la nascita del paesaggio non alla contemplazione dei viaggiatori, intellettuali e artisti dell’Ottocento, ma all’attività manuale degli artigiani che per secoli l’hanno costruito sapientemente con il loro lavoro. L’autore ricorda come i primi sguardi sul paese affondino le radici nella sua composizione materica, nelle rocce, nei minerali, nell’arte del ferro e degli scalpellini, nei lavori per gestire l’idrografia, in un’epoca in cui gli stessi pittori erano profondi conoscitori di terre, pigmenti e minerali, in uno stretto legame con la materia, con la terra5. Camporesi descrive un quadro ricco di particolari in cui prende vita tutta una schiera rumorosa di uomini industriosi, un ambiente vivo e pulsante in cui la materia si trasforma costantemente, come in un grande laboratorio all’aria aperta: Sembra che lo Stivale apparisse, più che un “Bel Paese”, una grande officina di industriosi artigiani, una terra di mastri, di artieri, di mercanti, di banchieri, di marinai, di ingegneri, di architetti, di zappatori, di ortolani, piena di laboratori, filande, mulini d’ogni genere, ferriere, miniere, di campi ben coltivati, di orti e giardini ammirevoli: più che un paese di artisti dediti al culto del bello, un grande cantiere di “macchine”, di gnomi operosi6.
La concezione estetica del paesaggio, secondo l’autore, appare secondaria rispetto a uno sguardo sui luoghi di carattere prettamente pratico, capace di valutare le risorse utili ai fini della sopravvivenza. 191
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Confronto a più voci disciplinari per leggere l’orribile sprowl della postmodernità urbana e per tracciare percorsi di progettuale rigenerazione “umana” di comunità e di paesaggio questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nell’ottobre dell’anno duemila nove
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