Nella città dei pani e dei postini

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GIORGIO MESSORI

Finalista Premio Viareggio 2005, sezione Opera Prima Premio Sandro Onofri 2005 per il Reportage narrativo Premio Nazionale di Narrativa Bergamo 2006

QUARTA RISTAMPA

GIORGIO MESSORI

DIABASIS

Giorgio Messori (1955-2006) è nato a Castellarano (Reggio Emilia). Ha esordito come narratore intrecciando racconti suoi e di Beppe Sebaste nel volume L’ultimo buco nell’acqua (Aelia Laelia 1983). Altri racconti sono usciti sulle riviste «Il semplice» (Feltrinelli) e «Riga» (Marcos y Marcos) e nell’antologia curata da Gianni Celati, Narratori delle riserve (Feltrinelli 1992). Ha tradotto il libro di Peter Bichsel Il lettore, il narrare (Marcos y Marcos 1989) e pubblicato saggi sulla letteratura e sull’arte, con particolare riguardo alla fotografia. Tra questi, il volume Atelier Morandi (Palomar 1992), realizzato insieme al fotografo Luigi Ghirri. Nel catalogo Diabasis sono usciti postumi i racconti brevi Storie invisibili e, in collaborazione con il fotografo Vittore Fossati, il Viaggio in un paesaggio terrestre. Ha vissuto a Tashkent (Uzbekistan), e insegnato lingua e letteratura italiana in quella università.

NELLA CITTÀ DEL PANE E DEI POSTINI

«Qui le cose difficilmente riescono a entrare in una cornice. Giusto nelle prospettive degli stradoni a perdita d’occhio s’intravede un disegno, sennò altrove gli spazi si aggrovigliano senza mai riuscire a fissarne i limiti, i contorni. L’immagine che mi viene è quella del sottobosco, il sottobosco di una civiltà che galleggia nella deriva di qualcosa che è stato e l’annuncio di qualcosa che non si sa cosa sarà. Ed è in questa sospensione che la città rivela la sua anima, la sua tragica naturalezza.»

DIABASIS

AL BUON CORSIERO

NELLA CITTÀ DEL PANE E DEI POSTINI

Primo, vero esordio di uno scrittore che ha talento, Nella Città del Pane e dei Postini racconta l’approccio a persone e luoghi all’inizio remoti, estranei, che mano a mano diventano famigliari. Nello scenario di Tashkent, la più grande città dell’Asia centrale, l’autore racconta l’estraniamento iniziale, una storia d’amore, il disagio per una guerra invisibile ma assai vicina. E ogni viaggio in altre città uzbeke come Samarcanda, Bukhara, e poi fra i laghi e le montagne della Kirghisia, diventa un’occasione per guardare e immaginare, e viaggiare anche nello spazio e nel tempo della memoria. Così, in un’oscillazione fra diario intimo e diario di viaggio, con vari salti temporali e stilistici, il libro privilegia comunque la forma del diario, che è la forma a cui si ricorre quando si vogliono seguire quei cambiamenti che ci riguardano più da vicino.

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In copertina: Fotografia di Fabrizio Cicconi, Tashkent, Uzbekistan, 2000. Sul retro di copertina: Fotografia di Vittore Fossati, Lago Issik-Kul, Kirghizistan, 2003.

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 687 5

© 2005 Edizioni Diabasis © 2010 quarta ristampa via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it

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Giorgio Messori

Nella CittĂ del Pane e dei Postini

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Parte prima

Diario di un inizio

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L’arrivo, la casa e il teatro, primo viaggio

Doveva, sì, guardare e saggiare ogni cosa, ma senza lasciarsene avvincere. Franz Kafka, America

10 febbraio. A un buffet all’aeroporto di Francoforte: stanchezza dopo giorni così tirati, la sveglia che stamattina non ha neanche suonato e così mi ha svegliato Augusto che m’era venuto a prendere. Inizio in salita, già con l’affanno. Ieri sera sono stato in ospedale a salutare mio padre che si vergognava della sua commozione. Così l’ho salutato in fretta, come se dovessi tornare il giorno dopo. I giorni tirati dipendevano dalla malattia di mio padre, una brutta bronchite che poi è sfociata in una depressione che lo faceva saltare giù dal letto, di notte, perché diceva che lo prendevano le malinconie. E in mezzo alle sue malinconie c’erano naturalmente anche le mie ansie per il viaggio, i ritardi e le noie burocratiche, i pranzi da mia madre che mi parlava delle sue tristezze e le preoccupazioni per quando mio padre sarebbe tornato a casa. E nell’incertezza della malattia e della mia partenza mia madre mi ha raccontato storie familiari che non conoscevo, come il nonno di mio padre che è morto ubriaco cadendo in un pozzo nero. Mia madre mi ha detto che questo bisnonno aveva messo incinta una nuora e tutti dicevano che era un poco di buono e un prepotente, perciò aveva fatto la fine che si meritava. Ma, chiunque fosse, lui adorava mio padre, l’unico maschio fra tante femmine, così se lo portava in giro da solo in calesse e sulla strada voleva sempre sorpassare tutti per dimostrare che lui era il più forte, il più veloce. Da qui, raccontava mia madre, nascevano forse la voglia di primeggiare e l’insicurezza di mio padre che non ha mai

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voluto perdere, neanche a carte, così adesso si ritrova pieno di paure e manie depressive (le malinconie, come le chiama lui). Finalmente a questo buffet, sorseggiando una birra, fra i tanti viaggiatori di quest’aeroporto enorme ho trovato un piccolo spazio d’intimità che mi ha permesso di buttar giù queste righe, di riprendere alcune sensazioni di queste giornate così difficili e intense. Adesso sono in viaggio, ma non ho ancora lasciato niente alle spalle. Sento solo il sollievo d’esser tornato a scrivere qualcosa dopo così tanti giorni. Peccato solo che la birra sia già finita. Un’altra birra, dopo aver fatto a una macchinetta 4 fototessere che m’ero dimenticato di fare a Reggio, come mi aveva consigliato Adriana. Nelle foto ho fatto un bel sorriso a denti stretti per mascherare un po’ la faccia stanca e tirata. Forse ho una faccia troppo sorridente per andare su dei documenti. Mi accorgo comunque di avere bisogno di piccoli gesti (foto, birre, note sul taccuino, gironzolare nei duty-free a guardar cravatte, profumi e liquori) tanti piccoli gesti per ammazzare il tempo e lenire quella punta d’angoscia che mi accompagna. D’altronde scrittura e birre e sigarette sono da tempo un complemento necessario al trascorrere della mia vita, una sorta di protezione. Come un sospiro, in mezzo a tanti affanni. E poi c’è anche la stanchezza, che serve a calmare l’ansia. * 11 febbraio. Prime impressioni a neanche 24 ore dall’arrivo a Tashkent. Dall’aereo la visione di una grande città, ma poco illuminata. E di notte, già sull’aereo e dopo anche in macchina, con Adriana, mi ha colpito questa penombra e la monocromia dell’insieme (ciò che normalmente si qualifica come “grigio”, non tanto per designare un colore quanto piuttosto una tonalità). Comunque l’impressione notturna contrastava parecchio con l’immagine sfavillante delle notti occidentali. Poi sono arrivato nel grande appartamento che per il momento mi ospita, l’appartamento di un ambasciatore ch’era stato in Africa da dove s’è portato soprammobili e trofei con cui ha riempito la casa. «Una specie di piazza d’armi molto kitsch, tipica degli apparatcˇik», mi ha spiegato Adriana che parla piuttosto bene il russo ed è qui già da un po’ mentre anni prima era stata a inse-

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gnare anche a Leningrado, avendo così modo di far pratica delle usanze “sovietiche”. Dalle mie finestre si vedrebbe la Casa del Presidente ma una grande barriera di metallo ne impedisce la vista. Sopra hanno appeso cartelli di propaganda, forse per mascherare una protezione messa su perché non gli sparino addosso, al Presidente. E così posso solo vedere, in cima alla casa presidenziale, la bandiera dell’Uzbekistan che sventola sbucando dalla sommità di quest’enorme barriera. Di mattina il primo incontro con gli studenti nella scalcinata e maleodorante Università delle Lingue Mondiali, come viene chiamato il posto dove andrò a lavorare. Mi ha colpito l’altera bellezza di una studentessa coreana, la simpatia degli studenti, la loro aria partecipe e svagata. * 12 febbraio. Con l’idea di sistemarmi altrove ho visitato le prime case nelle mahallà, i quartieri con le casette e i giardini nascosti che sorgono dietro gli stradoni che percorrono in lungo e in largo la città. Ma ho visto fin troppe case da non riuscire quasi a ricordarmene nessuna, oppure confondevo gli spazi di una con quelli di un’altra. E poi c’è ancora lo stordimento di un mondo nuovo e sconosciuto, di due lingue, il russo e l’uzbeko, di cui non capisco una parola, se non spasìba e dasvidànija con cui salutare e ringraziare Vladik, l’autista russo di Adriana, o le due ragazze bionde, altissime e magre, che ci hanno portato in giro a proporre le case e sorridevano spesso con aria compunta, sgranando occhioni da cerbiatte. Di mattina la prima visita a un grande bazar dove vendono un po’ tutto quel che c’è da mangiare. Molta mercanzia stava dentro grandi sacchi di iuta e dappertutto un frastuono di colori, voci, odori. L’odore più forte era però il tanfo acre di alcune piante che delle donne bruciavano su dei pentolini, dicendo che servivano a scongiurare il malocchio e combattere le malattie. E quest’odore si diffondeva dappertutto, copriva in parte anche l’aroma delle spezie. Al mercato ho comunque comprato delle albicocche secche buonissime, che mi sono mangiato mentre giravamo in macchina con Vladik a vedere le case. Verso sera con Adriana a un recital di una cantante con un

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gruppo che suonava strumenti tradizionali: una specie di tamburello, un violino, qualcosa che somigliava a uno xilofono, poi strumenti a corda, pizzicati, che somigliavano a banjo, mandolini, sitar. Ma mi accorgo, e forse è inevitabile, che in questo posto mi manca quasi completamente la nomenclatura per descrivere quello che vedo. Ad ogni modo la cantante aveva una voce bellissima e cantava litanie struggenti (canti d’amore?) con una voce tutta di testa, che ogni tanto faceva vibrare avvicinandosi al volto un piattino di porcellana. E alla fine di ogni canzone saliva sempre qualcuno sul palcoscenico a portare mazzi di fiori. Poi, con l’ultima canzone, alcune donne si sono alzate dalla platea e hanno cominciato a ballare: donne non più giovani e grassocce, che si divertivano come bambine. * 15 febbraio. Di mattina pioggia continua dopo il tanto sole dei giorni scorsi, e al pomeriggio ha cominciato a scendere la neve. Non ho ancora capito com’è fatta questa città, l’ho girata in lungo e in largo in macchina per i suoi stradoni sconnessi e ogni tanto riappariva qualcosa che avevo già visto, ma senza riuscire a collocarlo in una topografia precisa. Dima, l’autista russo che mi è stato assegnato, mi ha detto in un inglese incerto che la città ha un diametro di 40 chilometri, e prima del terremoto del ‘66 era molto più piccola. Poi l’hanno costruita con questi stradoni da parate venendo da tutte le repubbliche sovietiche, ed è successo che molti di loro sono rimasti creando sobborghi di russi, azeri, georgiani, armeni, tagiki, che magari sono andati ad abitare nelle casette che sorgono dietro i casermoni, le casette coi giardini segreti che sono andato a vedere con Adriana e le cerbiatte sorridenti. Io naturalmente non capivo niente di questi quartieri, ma ci devono essere pure delle differenze se Adriana, mentre vedevamo una casa enorme, con perfino due leoni in legno al portale d’ingresso, mi ha detto che dei padroni c’era probabilmente da fidarsi perché erano azeri. Oggi all’università, mentre facevo lezione, è entrata una donna corpulenta vestita da contadina, col fazzoletto in testa, per fa-

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re un’ispezione e controllare se i registri erano a posto. Poi si è raccomandata che gli uomini portino sempre la cravatta, com’è prescritto da non so quale regolamento. Quand’è uscita ho chiesto agli studenti chi fosse e loro mi hanno detto che era l’insegnante di tedesco. Davvero strane queste prescrizioni, soprattutto in questa università così scalcinata, che già alla mattina presto si sente odor di fritto e puzza di piscio. Ma ho l’impressione che mi capiterà spesso d’assistere a queste pantomime, come quella recitata dall’improbabile (almeno ai miei occhi) insegnante di tedesco. Una sensazione frequente, in questi primi giorni: l’idea di assistere a una recita di cui però ignoro completamente il copione. Alla sera sono poi andato al Teatro dell’Opera con Adriana, invitati da una sua amica russa che insegna al conservatorio. Davano Sansone e Dalila di Saint-Saëns. Il teatro era mezzo vuoto, e la signora che ci aveva invitato diceva che forse c’era poca gente per via della neve. Comunque lo spettacolo era ricco di coristi, ballerini, cantanti, tanto che c’era quasi più gente sul palcoscenico che in platea. Mi è piaciuta la recitazione enfatica della cantante, le sue pose da sciantosa per sedurre Sansone, i gesti non sempre sincronizzati del coro. E poi i costumi variopinti, le monumentali scenografie di cartapesta e soprattutto la sontuosità sbiadita di questo teatro per l’opera e la danza, il più grande dell’intero paese, che Adriana mi diceva esser stato costruito dai prigionieri di guerra giapponesi. È strano come mi trovi ad amare il teatro, da queste parti, mentre a casa per lo più non lo sopporto ed evito d’andarci. Qui ci andrei tutte le sere, anche se naturalmente continuo a non capire la lingua e molte cose per forza mi sfuggono. Ma mi piace la grandiosità un po’ sfatta di queste sale “sovietiche”, e l’idea di percepire comunque una struttura, che nella vita di fuori continua completamente a sfuggirmi. Un ultimo ricordo di oggi: quando dopo pranzo sono stato al supermercato con Dima, l’autista, a comprare una biro rossa e della carta igienica, ho visto che molti commessi e soprattutto commesse avevano una mascherina bianca sul volto a coprire naso e bocca. Pensavo stupidamente a un’usanza islamica, mentre

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Dima mi ha spiegato che era solo una protezione contro l’influenza che sta girando da queste parti. * 16 febbraio. Oggi ho incontrato l’ambasciatrice, che anche se è donna si deve chiamare ambasciatore (l’ambasciatrice è solo la moglie dell’ambasciatore: e allora come si può chiamare il marito di una donna ambasciatore?). Comunque l’ambasciatore, una donna alta e magra che presto si trasferirà a Kiev, parlava di questo paese già con nostalgia, rimpiangendo la dolcezza “orientale” della gente, gli spettacoli teatrali a cui amava andare e le piacevano tutti, dall’opera ai concerti ai mimi, perché diceva che erano così lontani dalle trasgressioni nevrotiche occidentali. Adorava ad esempio la cantante sciantosa che faceva Dalila nell’opera di Saint-Saëns, diceva che era una sua cara amica. Nell’ambiente dell’ambasciata che ho dovuto frequentare in questi giorni, soprattutto fra i funzionari più alti, c’è sempre questo parlare in punta di forchetta che mi mette un po’ in imbarazzo; buone maniere studiate, mi pare, soprattutto per valutare l’interlocutore, come un finto tono confidenziale per irretirti in chissà quale inganno. Ma forse, in questa estrema periferia del mondo, un certo languore nell’approccio personale è dovuto anche a una sorta di svagatezza che ci si concede volentieri fuori dal mondo degli affari e della politica che conta. Il vice-ambasciatore, ad esempio, che è arrivato solo pochi giorni prima di me, mi confessava che per l’Uzbekistan non ci sono grandi prospettive di sviluppo, almeno per i prossimi dieci anni: impianti industriali obsoleti, come in tante parti dell’ex-impero sovietico, e poi il cotone che hanno in gran quantità ma riescono a venderlo solo grezzo, per due lire, il gas e il petrolio che non riescono a dar via perché il tanto propagandato oleodotto e gasdotto è ancora di là da venire, nel libro dei sogni da mettere per il momento nel cassetto. L’importante, mi diceva, è che almeno la gente abbia da mangiare, e per fortuna l’agricoltura che c’è pare garantire che la gente non crepi di fame. E poi chissà, si aspetta, sperando non venga il peggio. Oggi ho comunque trovato probabilmente la casa dove andrò. La tratteranno le due cerbiatte sorridenti, sulla base di un’offerta che ho fatto. Purtroppo ci sono alcune cose da fare, e anche se

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la trattativa andrà in porto dovrò rassegnarmi a stare ancora per un po’ in questo grande appartamento dell’apparatcˇik, fra tappeti orientali, statuette cinesi e soprammobili africani in legno ed alabastro. * 17 febbraio. Giornata quasi primaverile, la neve ormai s’è squagliata. Splende il sole sulle barriere davanti alla casa presidenziale, sulle spianate e il vialone di questa zona centrale così desertica, ipercontrollata dalla polizia (ci sono posti di blocco dappertutto). Appena tornato dall’università dove ho conosciuto quelli che fanno francese come prima lingua: sono solo in sei. A lezione ho parlato soprattutto con uno studente che ama tutto quello che c’entra con l’Italia, dalla politica all’arte, dal cinema alla musica. Le sue preferenze vanno da Toto Cotugno a Giorgione, e ha anche una particolare predilezione per l’attrice Simona Cavallari, che aveva visto in uno sceneggiato sulla mafia. È un tagiko di Bukhara, che però non è mai stato in Tagikistan perché dice che là c’è ancora la guerra come in tutte le regioni attaccate all’Afghanistan, dove comandano i talebani e si traffica parecchio con l’eroina. A scorrazzarmi per la città c’è sempre Dima, che ho scoperto che mentre mi aspetta in macchina si studia su un librino alcune parole d’inglese per riuscire a scambiare due parole. Così ogni tanto mi illustra quel che si vede dal finestrino: lo stadio, il teatro di prosa, un museo. Però continuo a conoscere questa città solo dai finestrini di una macchina, mi manca un po’ il piacere di vagabondare per una città. Ma qui sembra non ci sia neanche un centro. Una città acefala, come forse si è voluta costruire nella pianificazione sovietica. * 18 febbraio. Giornata intensa all’università dove sono stato invitato a pranzo dal Rettore, un tipo grosso piuttosto gioviale che ha voluto spiegarmi il grande interesse che c’è per la lingua italiana alla sua università. Mangiato il plov, il piatto nazionale fatto con del riso speziato e pezzi di montone. Una cosa fin troppo unta, che così mi si è piantata sullo stomaco. Per digerire sono poi andato in giro col Decano, uno che

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quando cammina pare pattinare rasentando i muri con aria distratta e assente. Adriana mi diceva che tutti sanno che prende mazzette dagli studenti per farli passare, e comunque con me era gentile e mi ha portato in giro per mostrarmi le aule dove si insegnano altre lingue (l’arabo, il cinese, il giapponese, l’inglese) per dimostrarmi come fossero meglio attrezzate dell’aula d’italiano. Un modo per chiedere se l’ambasciata fosse disposta a metterci qualche altro libro, magari un computer, una fotocopiatrice, visto fra l’altro che il mese prossimo l’ambasciatore inaugurerà l’aula con tutte le autorità. Dopo questa giornata d’incontri ufficiali e lezioni con gli studenti son stato a una mostra di giovani artisti uzbeki, discepoli di un maestro d’origine greca, nato in Georgia e poi trapiantato in Uzbekistan a seguito di una deportazione etnica voluta da Stalin. Io e Adriana, che continua a farmi da balia per questi primi giorni, eravamo stati invitati da una sua amica, una giovane pittrice di nome Inna che sta con un americano più vecchio di lei che insegna in una scuola internazionale. La mostra era in una di quelle casette coi giardini segreti che stanno dietro gli stradoni coi casermoni tutti uguali. Alcuni quadri non erano male, specie quelli coi colori meno sgargianti. Ma il ricordo più bello è di quando sono uscito a fumare una sigaretta nel piccolo giardino e c’era la luna splendente, l’aria tersa e una scala in legno appoggiata a un albero che sembrava arrivare alla luna e dietro, a circondare il giardino, un muro tutto scrostato che lasciava trapelare il fango e i sassi con cui l’avevano tirato su. Non so perché ma mi è sembrata una visione bellissima, commovente. Queste notti stellate e questi giardini aumentano naturalmente la mia voglia di casa, di starmene in pace a guardare il cielo, dietro un muretto. Ma pare debba ancora aspettare, forse non va in porto la trattativa avviata con le cerbiatte. Di sera poi un party da Arrigo, un italiano che lavora alla Banca Mondiale. A un certo punto sono entrati anche due ballerini del teatro che si sono esibiti su una musica di Ciaikovskji. Hanno danzato per qualche minuto volteggiando in punta di piedi sul tappeto del salone dove c’era la festa, ed io mi sono sentito in imbarazzo per loro. Mi sembravano animali ammaestrati in tutù, calzamaglia, mentre tutti gli altri continuavano a ingoiare tartine e bere vino bianco.

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Poi hanno cominciato a ballare anche diversi invitati su delle canzoni moderne. Ha ballato anche l’“ambasciatora”, che poi se n’è andata un po’ prima degli altri seguita dal suo cane, un levriero agile e obbediente. Io come al solito non ho ballato e ho invece chiacchierato con Vincenzo, l’archivista dell’ambasciata, e un tale che lavora come tecnico agli impianti del gas ed era l’unico oltre a me che fumava sigarette. Prima di andar via una delle invitate mi ha anche chiesto se volevo ballare. Alla mia risposta negativa mi ha domandato allora se giocavo a tennis, ed è rimasta stupita che non giocavo nemmeno a tennis. * 19 febbraio. Svegliato tardi ma non ho voglia di uscire. A uscir di casa, per dove sto, mi sembra di essere subito sotto il controllo della polizia. Allora preferisco non andare fuori e occupare invece quei pochi spazi che mi sono ritagliato nel grande appartamento dell’ex-ambasciatore in Africa. Sto rileggendo lentamente America di Kafka, che quasi non mi ricordavo più visto che l’avevo letto più di vent’anni fa. L’ho scelto prima di partire soprattutto per come aveva pensato d’intitolarlo Kafka, cioè Il disperso, che mi sembrava consono all’esperienza che andavo a fare. E in effetti ci sono momenti in cui mi riconosco, come quando Karl Rossmann all’arrivo a New York viene preso sotto tutela dallo zio senatore, che lo sottrae dai guai in cui si stava cacciando e lo ospita nella sua bella casa. Nel mio caso lo zio è Adriana, che mi organizza le giornate e mi evita i fastidi maggiori. «Lo zio gli veniva incontro affabilmente in ogni piccolezza, e a Karl non toccò mai trarre insegnamento dalle esperienze penose che tanto amareggiano la vita i primi tempi in un paese straniero», scrive Kafka verso l’inizio. Che è un po’ quello che mi sta capitando da quando sono arrivato: autista, donna che mi viene a fare le pulizie e mi prepara quasi sempre il borsˇcˇ , il minestrone russo con le rape, e mi porta pure il kefir per disintossicarmi. E poi i giri organizzati per cercare la casa, gli inviti a feste, teatro, mostre, di cui a volte farei anche a meno ma che m’impediscono di stare comunque troppo solo e rintanato nella cuccia.

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Di pomeriggio con Adriana a vedere mobili antichi e tappeti per preparare la mostra da fare in Italia sull’artigianato uzbeko. Prima siamo stati da un antiquario raffinato, uno col foulard al collo che parlava un buon inglese, e poi a casa di un certo Arkadin, un omosessuale grasso che si chiamava come quel personaggio di Orson Welles che incarica un avventuriero d’indagare su di lui perché vuole che gli sveli il suo passato, avvolto in un’enigmatica amnesia. Questo Arkadin, quello che abbiamo realmente incontrato, voleva vendere ciò che negli anni aveva raccolto per andarsene a stare in Olanda. Ci ha ricevuto nella sua casa di famiglia, coi genitori anziani e una bella ragazza, forse la sorella, che se ne stava immobile su un divano a guardare dei video musicali. Per tutto il tempo che siamo stati lì non si è mai mossa, avvolta in una vestaglia di seta e inespressiva e triste come una bambola. Poi c’è stato l’incontro con Elisabeth, che qui dirige il Goethe Institut e abita in una bella casa con un grande scalone da film americano. Si è sposata con Oreste, un grafico argentino molto simpatico con cui poi sono andato a bere qualche birra in un localino jazz dove non c’era praticamente nessuno e i suonatori suonavano senza mai guardarsi in faccia, gli occhi sempre fissi su un televisore acceso. E qui Oreste mi ha parlato della bellezza del paesaggio che s’incontra andando verso Samarcanda, Bukhara, Khiva, e naturalmente della bellezza di queste antiche città. Però mi ha anche detto della difficoltà di capire la cultura visiva degli uzbeki, il loro modo di organizzare le forme nello spazio, e anche della difficoltà di delineare un percorso di sviluppo artistico, almeno per come si è abituati a considerarlo nella cultura occidentale. Perché neanche a visitare i musei c’è da capire granché, in quanto sono ancora organizzati con pedanteria “sovietica”, come se si fosse rinunciato quasi del tutto a un’elaborazione intellettuale a favore di una più semplice e “democratica” documentazione. Comunque Oreste, questo grafico argentino, ha promesso di mostrarmi alcuni libri e cataloghi da cui mi attendo molto, forse una prima chiave per cominciare a capire qualcosa del posto in cui mi trovo. * 20 febbraio. Stamattina avvisaglie di dissenteria (ho l’impressione sia stato il kefir). Poi ho parlato al telefono con mio padre,

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che ieri è tornato dall’ospedale dove non gli hanno trovato niente di serio. Sembrava più affabile del solito, mi ha anche ringraziato più volte, voleva sapere cosa mangiavo, come mi trovavo. E pochi minuti dopo mi ha chiamato mia sorella Daniela, a cui ho spiegato più dettagliatamente la vita comoda che fin qui ho fatto. In effetti fin qui non ho avuto molte grane. Anzi, a volte mi prende quasi una letargìa, un’indolenza che mi spinge a uscire solo per l’università e le cose che mi organizza Adriana. Certo non sono stato ancora cacciato dallo zio, com’è capitato a Karl Rossmann, che per una piccola disobbedienza ha dovuto cominciare a cavarsela da solo nell’intricato e spesso spietato mondo americano. La mia America è senz’altro più confortevole, anche meno avventurosa perché si limita per ora al grande appartamento con cineserie e trofei africani, alle visioni della città dai finestrini della macchina di Dima o Vladik, alle case dove sono invitato o vado a visitare per cercare di sistemarmi. E il lavoro, per ora, è soprattutto far due chiacchiere con gli studenti. Di pomeriggio sono poi stato, sempre con Adriana, a trovare un pittore, un certo Lekim Ibraghimov che ha proposto di affittarmi la sua casa, una bella casa a due piani che ha tirato su con le sue mani. Ma il prezzo è un po’ troppo alto e la casa fin troppo grande per una persona sola. Lekim Ibraghimov ci ha poi portato nel suo atelier, uno stanzone dentro un vecchio edificio annegato fra gli alberi e costruito ai tempi di Stalin per ospitare i pittori dell’Accademia degli Artisti. E qui ci ha raccontato la sua storia: che è nato in Kazakistan, studiato ad Almaty e poi a Tashkent, e che per un po’ ha girato, negli anni del suo apprendistato, per alcune città dell’Unione Sovietica (soprattutto Mosca e Vilnius) dove ha potuto confrontarsi con quello che facevano gli altri pittori. La sua pittura ha però subito una radicale trasformazione una decina d’anni fa, quando ha riscoperto le sue origini, la sua appartenenza all’antica popolazione degli Uyghuri, un popolo che dallo Xinjiang, nella Cina nordoccidentale, si è poi sparso per tutta l’Asia centrale. Questo ritorno alle radici lo ha portato a una maggior spiritualità e soprattutto a un deciso abbandono del realismo per andare verso forme più astratte, o perlomeno stilizzate. Lekim Ibraghimov ha un carattere allegro, esuberante, e ci ha spiegato che lui per dipingere aspetta parecchio, si mette davan-

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ti alla tela e si scola un po’ di vodka per trovare l’ispirazione. Poi solo quando sente di avere l’energia giusta comincia a dipingere, e il quadro lo finisce in poco tempo, preso da un intenso fervore creativo. E quando ha finito è naturalmente esausto, e in genere non ritocca più niente di quel che ha fatto. Tornando a casa sua, Ibraghimov mi ha poi mostrato un librino di sue poesie tradotte in tedesco da uno slavista svizzero. Le poesie sono semplici: parlano di angeli e anime vaganti, e delle steppe che sono vaste come l’oceano. In tedesco il libro s’intitola, prendendo un verso di una poesia, Sono nato 5000 anni fa, credo per indicare l’origine plurimillenaria della sua discendenza “uyghura”. * 21 febbraio. Ci deve essere qualcosa che mi sfugge nel funzionamento dei telefoni e delle comunicazioni fra la gente di qua. Oggi pomeriggio, appena tornato a casa, mi ha telefonato Galina, quella delle due cerbiatte che parla inglese, perché voleva darmi un appuntamento per vedere una casa. Allora ho telefonato a Dima, l’autista, per dirgli di passarmi a prendere, ma mi ha risposto una voce di donna che parlava solo russo e non ci siamo capiti. Eppure Dima ha un telefonino che porta sempre con sé, in macchina, e il suo numero lo avevamo appena controllato assieme. Così ho riprovato ma c’era sempre la stessa voce di donna e il risultato è stato lo stesso: impossibile comunicare. Allora ho cercato Adriana, mia guida e interprete, ma al suo telefonino non rispondeva nessuno e all’ambasciata, dove doveva essere in quel momento lì, c’era sempre occupato. Perciò, dopo innumerevoli tentativi, ho provato sul numero di Vincenzo (non so se telefonino oppure numero di casa) ma anche lì mi ha risposto una voce di donna russa (o uzbeka) che al nome di Vincenzo non ha reagito minimamente e anzi ha subito riattaccato. Così, preso dallo sconforto, ho telefonato a Galina per rimandare l’appuntamento, ma anche al suo numero naturalmente non mi ha risposto Galina ma un’altra donna, che ovviamente non parlava inglese o altre lingue che conoscevo. La cosa più strana è che però, più o meno all’ora dell’appuntamento, quando ormai avevo perso ogni speranza si è presentato a casa mia Dima, dicendo che aveva sentito per telefono Gali-

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na che gli aveva detto dell’appuntamento per la casa. E poi, mentre ero in macchina, sul telefonino di Dima mi ha chiamato pure Adriana, per sapere se tutto andava bene e c’erano novità. * 22 febbraio. Oggi all’università ho rivisto il Decano svagato e untuoso che pare prenda mance dagli studenti. L’ho rivisto perché il Rettore, quand’eravamo a pranzo da lui, mi aveva pregato di portare al più presto un paio di foto dell’ambasciatore italiano e darle appunto al Decano. Per far cosa non me lo aveva detto, ma quando ho portato le foto al Decano gliel’ho chiesto, e lui mi ha dato una risposta che subito non ho capito. Allora per spiegarmelo ha aperto un armadietto, dove c’era un vaso piuttosto voluminoso e incartato alla bell’e meglio, e raffigurato sul vaso c’era il volto di un signore che non conoscevo. Allora ho capito che per l’inaugurazione dell’aula d’italiano vogliono omaggiare l’Ambasciatora di un vaso che abbia sopra la sua faccia. In compenso i banchi e le seggiole nuove che avevano promesso non sono ancora arrivati. Nel pomeriggio ho avuto anche l’incontro col Prorettore del conservatorio, un omone tutto scuro di capelli e le sopracciglia foltissime alla Brezˇnev. Aveva modi molto calorosi e ogni tanto mi squadrava fisso in faccia, con un largo sorriso, mentre mi parlava in una lingua che non capivo. All’incontro c’erano anche due signore che hanno tenuto corsi d’italiano ma certo non lo padroneggiano, e Adriana che fungeva da interprete e organizzatrice: bisognava discutere sul mio prossimo impegno d’insegnamento. Ero un po’ in imbarazzo per le due signore, perché mi sembrava d’invadere un loro territorio e anche prenderle in castagna per la loro evidente scarsa conoscenza dell’italiano. Almeno mi è sembrato di cogliere questo timore in una delle due, una signora grassoccia con gli occhiali spessi. L’altra, magrissima, era quella che ci aveva invitato a teatro al Sansone e Dalila e aveva la stessa aria serafica e apprensiva di quella sera, come di chi è sempre invaso da un’emotività che difficilmente riesce a controllare. Devo dire che l’ambiente del conservatorio mi è piaciuto: l’edificio è grande e molto più vecchio di quello dell’università, che sembra più che altro un casa abusiva costruita malamente. Il conservatorio, anche se piuttosto malmesso, dà un’idea di maggior

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solidità, quella solidità un po’ sordida e polverosa che ci si può immaginare nei palazzi giudiziari descritti da Kafka, oppure vedere in qualche vecchio film del dopoguerra. Insomma si respirava un’aria molto più letteraria, suggestiva. Dopo l’accordo raggiunto (ogni mercoledì a partire dalla prossima settimana) mi hanno portato a visitare la biblioteca dove c’erano accatastati alcuni libri italiani messi a casaccio: manuali e grammatiche, un libro di critica letteraria di Ezio Raimondi, gli atti di un convegno sulla traduzione, pubblicazioni sul teatro musicale e i compositori d’opera. Ogni tanto, consultando questi volumi, giungevano accordi di strumenti, gorgheggi di cantanti. Alla fine mi son preso quattro libri, a nome dell’insegnante grassoccia perché a me non potevano ancora prestarli. Le ho promesso che naturalmente non li avrei persi. Poi mi hanno accompagnato, lei e il prorettore, alla stanza riservata agli insegnanti di lingue, che qui chiamano “cattedra”. Era una specie di portineria piuttosto stretta dove c’era una signora che stava parlando con due ragazzi e in faccia portava quella mascherina che avevo già visto al supermercato; in un angolo un’altra donna, pallidissima e immobile come la morte. La signora con la mascherina come mi ha visto se l’è tolta, dicendomi che era l’insegnante di tedesco, immediatamente felice che lo sapessi parlare anch’io, almeno per scambiare due chiacchiere. Mi ha raccontato che la famiglia viene dall’Ucraina, ma ormai è qui da un sacco di tempo, da prima della guerra. Era davvero contenta di avere un nuovo collega, e ha tenuto a sottolinearmi che bisogna aiutarsi a vicenda, felice di venire incontro a ogni mia richiesta. Quando sono uscito mi ha accompagnato fuori il prorettore, che prima di congedarsi mi ha stretto ripetutamente la mano. * 23 febbraio. Da quando sono qua mi trovo spesso immerso in qualche cerimoniale, come se il mio compito principale fosse sorridere e stringere mani. Oggi ad esempio sono stato alla celebrazione dell’amicizia fra Egitto e Uzbekistan, su invito del rettore dell’università. Fortuna sono arrivato con quasi un’ora di ritardo, così mi sono perso buona parte dei discorsi introduttivi, tenuti alternativamente in arabo e uzbeko. Appena arrivato, nono-

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stante il ritardo e la sala strapiena mi hanno fatto sedere in seconda fila, come si fa con gli ospiti di riguardo. Naturalmente non capivo quasi neanche una parola: le uniche che ogni tanto coglievo, anche perché ripetute spesso, erano i nomi del Rettore, che sedeva in prima fila e tutti evidentemente ringraziavano, e anche quello del Presidente dell’Uzbekistan, il cui ritratto faceva gran vista di sé a lato del palcoscenico dove si tenevano le celebrazioni. Dall’altro lato c’era il ritratto del presidente egiziano, anch’egli nominato di tanto in tanto seppur con minor frequenza (almeno così mi è parso). Comunque in questo gioco incrociato di lingue, per me incomprensibili entrambe, a un certo punto ho capito che l’interprete uzbeko, mentre traduceva un discorso tenuto in arabo, deve aver erroneamente scambiato il nome del Rettore con quello di qualcun altro, perché in sala c’è stato un mormorio così vasto che l’interprete se n’è subito accorto e si è prontamente corretto pronunciando il nome del Rettore. Dopo tutti questi discorsi ci sono state le esibizioni artistiche: un gruppo di bambine ballerine che ancheggiavano e sculettavano come danzatrici del ventre, una vera danzatrice, anche molto bella, che si è esibita un paio di volte, con due costumi diversi, e poi cantanti e cori, dove ho riconosciuto anche un mio studente. Verso la fine c’è stato anche uno sketch piuttosto suggestivo, credo la parodia di una lezione di arabo, con l’insegnante e tre studenti che ripetevano svogliatamente alcune parole finché a un bel momento non sono stati bruscamente interrotti da uno speaker, che al microfono ha detto qualcosa che naturalmente non ho capito, e così i quattro attori, con ogni probabilità universitari uzbeki del corso di arabo, si sono istantaneamente bloccati nelle posizioni in cui erano: i tre che facevano gli studenti con le mani sospese nel gesto di applaudire, l’insegnante immobilizzato in un’enfatica posa oratoria. Quando poi lo speaker ha finito (il discorso sarà durato un paio di minuti) gli attori dello sketch sono tornati indietro compiendo all’incontrario i medesimi gesti che avevano appena eseguito, come potrebbe succedere quando si riavvolge una videocassetta, uscendo perciò dal palcoscenico camminando all’indietro fra gli applausi convinti del pubblico.

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Giorgio Messori

Nella Città del Pane e dei Postini

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Parte prima

Diario di un inizio 9 48 79

L’arrivo, la casa e il teatro, primo viaggio Il tuo nome sono cinque lettere Parte seconda

La Città del Pane e dei Postini 81 139

La Città del Pane e dei Postini Parte terza

Il giardino 141 197

Il giardino Parte quarta

Una settimana nel giro del mondo 199

Una settimana nel giro del mondo (Viaggio in Kirghisia)

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Viaggio in terre lontane e sospese nel “cielo più grande” così da sconfinare nella prossimità del cuore e di una casa condivisa il racconto in forma di diario conosce la sua quarta ristampa nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel gennaio dell’anno duemila dieci

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Al Buon Corsiero

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, L’impero degli odori Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Carlo Frabetti, I giardini cifrati Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio D’Arzo, Casa d’altri Andrea Briganti, Ramblas e altri racconti iberici Foscolo Focardi, L’anglista sentimentale Stefano Scansani, Orapronòbis Roberto Amato, Le cucine celesti Manlio Cancogni, Gli scervellati Stefano Scansani, L’Amor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Nicolas Bouvier, La polvere del mondo, traduzione e cura di Maria Teresa Giaveri, prefazione di J. Starobinski Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio Roberto Amato, L’agenzia di viaggi Salimbene de Adam, Cronaca, introduzione di Mario Lavagetto Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra Manlio Cancogni, Caro Tonino Racconti dalla Bosnia, a cura di Giacomo Scotti Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore, a cura di Ugo Dotti


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Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Antonio Bassarelli, La trovatura Aleksandar Gatalica, Secolo Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini Cesare Padovani, Paflasmòs. Il battito del Mar Egeo Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti, a cura di Gino Ruozzi Eça de Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes. Memorie e note, a cura di Roberto Vecchi e Vincenzo Russo Evgénij Rejn, “Balcone e altre poesie”, a cura di Alessandro Niero, introduzione di Iósif Bródskij Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema Giorgio Prodi, L’opera narrativa, introduzione di Elvio Guagnini Luan Starova, Il tempo delle capre, a cura di Maria Teresa Giaveri Friedrich Hebbel, Diari, a cura di Lorenza Rega, prefazione di Claudio Magris Angela Giannitrapani, Parigi, una breve estate, a cura di Maria Teresa Giaveri Rocco Brindisi, Il bambino che guardava nello specchio Pepetela, La generazione dell’utopia Ludovico Ariosto, Lettere dalla Garfagnana, a cura di Vittorio Gatto Ferruccio Masini, Tutte le poesie, a cura di Mario Specchio Tano Citeroni, Oh fortuna Antonio Bassarelli, Per Questi Motivi


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I libri Diabasis di Giorgio Messori

Giorgio Messori Nella cittĂ del Pane e dei Postini

Giorgio Messori Storie invisibili e altri racconti a cura di Gino Ruozzi

Il senso delle cose. Luigi Ghirri, Giorgio Morandi Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre

A cura di Paola Borgonzoni Ghirri con scritti di Luigi Ghirri, Giorgio Messori e Carlo Zucchini

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