La forza dei bisogni e le ragioni della libertà

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MONTEFALCONE STUDIUM FILOSOFIA POLITICA E SCIENZE SOCIALI

Franco Sbarberi è professore ordinario di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università

Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci

di Torino. Tra le sue pubblicazioni sul pensiero politico

La forza dei bisogni e le ragioni della libertà

comunista e liberaldemocratico si ricordano: I comunisti to politico e società nel marxismo di Antonio Labriola (Milano 1986); Gramsci: un socialismo armonico (Milano

Raymond Aron • Hannah Arendt • Norberto Bobbio

1986); Introduzione e cura del volume Ripensare Gramsci

John Dewey • Luigi Einaudi • Piero Gobetti

(Torino 1988); L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo

Jurgen Habermas • Friedrich von Hayek • Hans Kelsen

sociale da Rosselli a Bobbio (Torino 1999); Democrazia e conflitto nella sinistra italiana del Novecento in AA.VV., Le

Arthur Koestler • Claude Lefort • Walter Lippmann

radici storico-filosofiche della democrazia (Torino 2006);

George Orwell • Wilfredo Pareto • Karl Polanyi

Postfazione a N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismi. Scritti

Karl Raimund Popper • Carlo Rosselli • Bertrand Russell

sul berlusconismo (Bari 2008).

Gaetano Salvemini • Joseph Schumpeter • Franco Venturi • Max Weber

La forza dei bisogni e le ragioni della libertà

italiani e lo stato 1929-1945 (Milano 1980); Ordinamen-

Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento

€ 15,00

DIABASIS

A cura di Franco Sbarberi

DIABASIS

La domanda è stata bruciante ed ha accompagnato fin quasi dall’inizio la storia del movimento comunista: che cos’è il comunismo? che cos’è l’URSS? La maggior parte degli autori indagati ha individuato nel comunismo sovietico alcuni tratti distintivi: il marxismoleninismo come “religione secolare” e come ideologia di legittimazione di una nuova oligarchia che proviene spesso dal basso, ma che governa sempre incontrollatamente dall’alto; la concezione della conflittualità sociale come patologia da estirpare e non come forma fisiologica dei moderni processi di industrializzazione e della vita politica delle democrazie rappresentative; il totalitarismo come forma di dominio fondata sul potere di fascinazione del capo, sulla sacralizzazione del partito, sull’universo concentrazionario e sulla regolazione capillare della vita degli individui. Tuttavia, esiste un filone radicale del liberalismo e della democrazia (da Dewey a Polanyi, da Russell ad Arendt, da Habermas a Lefort, da Salvemini a Rosselli, da Venturi a Bobbio) che pur rifiutando la filosofia marxista della storia e la deriva totalitaria dell’URSS si è interrogato anche sui problemi ineludibili che il comunismo moderno ha messo in luce. Per citarne alcuni: la tendenza dell’economia capitalistica a generare la mercificazione universale del lavoro salariato; la debolezza teorica e la smentita pratica delle teorie neoliberiste fondate sull’autoregolamentazione del mercato; la concezione della libertà come “potere di fare”, funzionale all’emancipazione economica, politica e sociale degli oppressi. Una ricostruzione complessiva dell’indagine liberale e democratica sull’universo comunista non era stata finora mai tentata. I saggi raccolti sono in grado di arricchire non solo la nostra conoscenza del comunismo, ma anche, più in generale, la nostra conoscenza del liberalismo, tanto nella versione moderata, quanto nella variante di sinistra.


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Karl Raimund Popper Giancarlo Bosetti

Dei tre «erasmiani» (Popper, Berlin, Aron), secondo l’originale espressione di Ralf Dahrendorf usata per definire gli intellettuali immuni dalle tentazioni totalitarie di destra e di sinistra, Karl Raimund Popper fu tale in massimo grado. La tentazione nazista a lui ebreo «fu risparmiata» perché «era vietata»1 dagli eventi europei, nonostante gli sforzi che il padre aveva compiuto per cristianizzare la storia della famiglia battezzando il piccolo Karl. Quella comunista durò solo alcuni mesi, all’età di diciassette anni. Dunque non varrebbe neanche la pena di parlarne se non fosse perché i racconti che Sir Karl fece di quella stagione mettono deliberatamente in luce qualche elemento interessante: il desiderio di sottolineare il fattore della responsabilità personale, individuale, per le conseguenze delle proprie azioni e anche dei propri pensieri. Interviene qui l’elemento morale nel giudizio, molto evidente e molto forte, che è spesso lasciato in ombra negli studi su Popper e che ritroveremo largamente in quasi tutte le pagine della Società aperta e i suoi nemici2. Il sommario racconto di quei pochi mesi sotto il fascino della Rivoluzione d’Ottobre da parte del giovane viennese e di alcuni suoi amici ed amiche, che poi rimasero comunisti, parla della seduzione che esercitarono le parole di pace pronunciate dai bolscevichi, in sconcertante contrasto con la corrente retorica bellicista, parla di una manifestazione studentesca a Vienna che degenerò provocando alcuni morti tra i giovani negli scontri con la polizia e del fatto che le persone conquistate alla disciplina del Partito rivelarono presto di aver rinunciato alla loro autonomia di giudizio sui fatti3. È possibile – come qualcuno ha sospettato4 – che quei racconti fossero in certa misura fantasiosi e che il maturo, o il vecchio, Popper non fosse in grado di ricordare esattamente i suoi diciassette anni, ma, anche in questo caso, il racconto di cui si serviva in funzione «didattica» un significato ce l’ha, perché trasmette l’orrore per una situazione in cui un gruppo di persone perde di vista la responsabilità di chi agitando idee crea situazioni in cui si muore, e la perdita della libertà di giudizio individuale sui fatti nel nome di una causa politica. In entrambi i


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Giancarlo Bosetti

casi vediamo affacciarsi la condanna, sulla base dei principi etici tipicamente kantiani, per l’uso di altre persone come mezzi da piegare secondo i nostri disegni e per la scelta di un pensiero eterodiretto. Il comunismo, con gli «ordini da Mosca», appariva a Popper fin dal principio come una violazione del motto dell’Illuminismo: «abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza»5. E in questo peccato egli vedeva cadere per lo più ogni genere di «militanza» che rifiutasse di sottoporsi alla smentita dei fatti. I tre erasmiani di cui parla Dahrendorf – Popper, Berlin e Aron – avevano in comune un altro carattere, oltre a quello di essere ebrei e di aver fatto di Marx un tema centrale della loro vita e ricerca: «amavano giocare con la loro ambivalenza» nei confronti di tesi politiche che di solito dividono l’opinione pubblica in partiti presi, in schemi cari alla pubblicistica corrente di tutti i tempi: pro o contro il libero mercato, pro o contro il laissez faire, l’interventismo statale, il socialismo, il liberalismo conservatore, la destra e la sinistra. Questa mobilità rispetto agli schemi di chi intendeva fare uso di loro – e che di solito finisce per lasciare perplessi coloro che adottano un punto di vista «partigiano» quale che sia – è formidabile in Popper, che si è divertito, lungo la sua esistenza, a sottrarsi ogni volta alla presa, assumendo posizioni politiche sorprendenti, come è avvenuto nelle discussioni degli anni Settanta sulle nazionalizzazioni (perorò anche la proprietà dello Stato al 51%), o negli anni Ottanta sulla Thatcher (appoggiò il suo anticomunismo e anti-collettivismo, in una parola il suo individualismo), negli anni Novanta sulla televisione (la ben nota «cattiva maestra»6) o sulla guerra nei Balcani (fece una campagna perché si bombardasse la Serbia di Milosevic). Situazioni in cui emergeva la capacità di divincolarsi da ogni «gioco di squadra» e la forza di pensare in solitudine, di correre tutti i rischi dell’isolamento: si può sbagliare da soli ma non è ammissibile che si perda la testa in gruppo. Se dunque affrontiamo il tema del «comunismo» nel pensiero di Karl Popper dobbiamo in primo luogo dire che egli lo combattè in quanto ideologia politica che ha dato vita a ordinamenti totalitari nefasti e in quanto sistema politico iniquo, inefficiente e sistematicamente tirannico. Ma dobbiamo fare attenzione, nel formulare questi giudizi, che per l’autore della Società aperta non sono le essenze a portare le colpe, ma individui che agiscono, pensano e che, facendo uso delle loro facoltà e della loro libertà, determinano delle conseguenze. In un certo senso parlare delle colpe o dei crimini «del comunismo» sa-


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Carlo Rosselli e Giustizia e Libertà di fronte all’«esperienza russa» Antonio Bechelloni

Premessa Tracciare un profilo della collocazione che trova la Rivoluzione d’Ottobre e l’esperienza sovietica nel pensiero di Carlo Rosselli è impresa particolarmente ardua. Allusioni a quell’esperienza sono infatti reperibili fin dai primi scritti giovanili del 1921-1922 e si prolungano lungo l’arco di un quindicennio fino alle prese di posizione più o meno diffusamente esplicitate nelle settimane che precedono la sua morte. Nel corso del periodo, che si conclude, emblematicamente, pochi mesi prima del ventesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, l’approccio di Carlo Rosselli al comunismo russo ha conosciuto successivamente accenti diversi. Individuare lungo questo percorso alcune costanti e isolarle rispetto a considerazioni più contingenti legate alle servitù e agli impulsi del Rosselli uomo d’azione non so se è più una tentazione, alla quale molti studiosi e uomini politici si sono sentiti obbligati di cedere o un’aspirazione legittima. Una cosa è comunque certa: personalmente trovo delle difficoltà a realizzare quest’ultima. In questa sede sono queste difficoltà che cercherò di analizzare, con l’obiettivo di discutere le prospettive a partire dalle quali l’analisi del pensiero di Rosselli si rivela più feconda ed essendo beninteso disposto ad ammettere altri approcci possibili. I. In Socialismo liberale che, scritto come è noto, nel 1929, nel confino di Lipari e pubblicato per la prima volta in francese nel 1930, rappresenta al tempo stesso il punto d’approdo di dieci anni di lotta politica in Italia e una carta da visita da spendere sulla scena politico-intellettuale francese, Rosselli condensa in una pagina di grande efficacia il suo giudizio sull’esperienza russa: Dopo la esperienza russa non è più permesso a un socialista di considerare la razionalizzazione socialista con gli occhi ingenui ed utopisti di un tempo [...] Il piano quinquennale russo è dominato dal criterio tutto politico di favorire l’industria, e con l’industria lo sviluppo del proletariato, nerbo del regime, a danno


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Antonio Bechelloni dell’agricoltura e della immensa maggioranza della popolazione [...] Dalla esperienza russa – esperienza comunque fondamentale per la storia del socialismo – sgorga una grande lezione che nessuno può contestare: e cioè che una rivoluzione violenta e uno sconvolgimento subitaneo dell’intero sistema produttivo [...] porta [...] una tremenda crisi, tanto più tremenda quanto più sviluppato e perfezionato è il meccanismo finanziario e industriale, che impone sacrifici e sofferenze senza nome alla generazione rivoluzionaria. Il Paradiso è vietato alla generazione rivoluzionaria. Essa lavorerà e si sacrificherà per i figli. Ma – e qui sta il punto cruciale – la massa proletaria in Russia è andata incontro ai sacrifici coscientemente? Quando gli operai conquistarono le officine intuivano che cosa li avrebbe attesi? E se lo avessero intuito, se avessero avuto dinanzi ai loro occhi – come hanno invece oggi gli altri proletariati dopo la loro esperienza – il quadro inenarrabile delle sofferenze avvenire avrebbero sostenuto attivamente il movimento rivoluzionario, il partito della socializzazione integrale e subitanea? Per rispondere sì, bisogna ammettere che la classe operaia russa fosse dotata di una sublime forza morale, di una eroica volontà di immolazione [...] avesse insomma aderito ad una concezione della vita risolutamente antitetica a quella che instilla il marxismo1.

Da quest’ultima considerazione si arguisce che, inserita nel suo plaidoyer per un socialismo di ispirazione etica sul piano dei principi e gradualistico sul piano delle realizzazioni economiche, è l’idea che già fu di Gobetti e di Gramsci di una rivoluzione attuata contro il Capitale di K. Marx che riaffiora qui. Idea, tuttavia, che va messa a confronto con altri brani dello stesso scritto del 1929 perché si possa misurare fino a che punto alla vigilia del suo esilio francese, per Rosselli, l’esperienza sovietica ha un valore «fondamentale» soprattutto come «maestro negativo». Essa mostra, cioè, al movimento socialista, e segnatamente al socialismo riformista e «evoluto» all’interno del quale Rosselli deliberatamente si colloca, tutto quanto questo deve cercare di evitare. Valga per tutte la seguente considerazione: Ma il più grande ammonimento [in materia di difesa del metodo democratico e di rinuncia alla violenza] è venuto ai socialisti dall’esperienza comunista. Il sorgere alla loro estrema sinistra, di un movimento che nega ogni diritto di espressione e di vita alle forze socialiste in nome della dittatura, e la persecuzione che i socialisti hanno subito in Russia, ha dimostrato loro froebelianamente il valore essenziale, intrinseco, non solo come strumento, ma come clima, della libertà e delle istituzioni democratiche. Trotsky, dal suo forzato esilio turco, che impreca contro la tirannia di Stalin e la dittatura di un pugno di burocrati, dopo aver irriso per tanti anni le libertà «borghesi» e i metodi democratici, non è forse la più consolante riprova della vitalità insopprimibile della esigenza liberale2?


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Bertrand Russell, egualitario o liberale? Ermanno Vitale

1. Introduzione Com’è noto, Russell è stato un pensatore dal multiforme ingegno, dote che applicò, attraverso un lavoro instancabile che ha dato luogo ad una vastissima eterogenea bibliografia, tanto in numerosi campi della scienza e della filosofia quanto in battaglie culturali e politiche – prima tra tutte, quella contro la guerra in tutte le sue forme, accompagnata dalla rigorosa denuncia dei crimini ad essa connaturati1. Dentro questa caleidoscopica produzione di Russell si riconoscono indubbiamente alcune idee-guida – o forse meglio, un’idea-forza, che riassumerei nella costante rivisitazione, più o meno esplicita, della tradizione empiristico-razionalistica inglese, a partire da Hobbes –, ma altrettanto indubbiamente si resta colpiti dalla differenza di rigore metodologico tra i saggi di matematica, di logica, di epistemologia, di filosofia del linguaggio e, seppur già in minor misura, di (meta)etica e quelli invece dedicati alla teoria politica e alla storia delle idee. Una differenza di rigore metodologico che, sia chiaro, non si risolve semplicemente nella distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito. Se confrontato con la sua opera strettamente scientifica, il metodo con cui Russell affronta lo studio delle idee politiche e definisce le sue posizioni, e in particolare le sue posizioni circa il comunismo, può apparire – ed in certa misura è – dilettantistico. Ad esempio, nella prefazione a Un’etica per la politica, Russell si dichiara convinto di essersi già occupato, in altri libri, «dei vari aspetti della teoria politica», assumendo implicitamente quest’ultima come una sorta di contenitore indifferenziato che comprende tanto le questioni epistemologiche quanto l’impegno civile e le scelte ideologiche2. In La visione scientifica del mondo adombra il pericolo del governo degli scienziati e dei tecnocrati, limitandosi però ad un appello morale affinché «l’aumento di sapere si accompagni ad un aumento di saggezza»3. Allo stesso modo, la Storia delle idee del XIX secolo è una congerie di fatti e osservazioni disparate di cui è difficile cogliere un vero senso unitario, così come trovare dei numerosi «ismi» che vi compaiono una qualche plausibile definizione. Si potrebbe aggiungere che, nonostante si tratti dell’Ottocento,


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Ermanno Vitale

tra i tanti «ismi» neppure un capitolo è espressamente dedicato al liberalismo4. Anche il celebre scritto Perché non sono cristiano non presenta in realtà alcuna argomentazione innovativa dal punto di vista filosofico5. Nel migliore dei casi, si può parlare nell’insieme di una efficace opera divulgativa, accompagnata anche in Italia, nel clima degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, da un buon successo editoriale. A ulteriore conferma potrei aggiungere, facendo un moderato uso del principio d’autorità, che – almeno a mia conoscenza – le uniche citazioni significative di Russell che compaiono nei lavori scientifici di Bobbio riguardavano la definizione di potere come «l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti», mentre il filosofo inglese veniva ricordato solo en passant quando lo stesso Bobbio affrontava il tema del liberalsocialismo6. In altri termini, la riflessione etico-politica di Russell appare segnata più dall’impegno civile che dal rigore metodologico: sui momenti di analisi teorica sono prevalenti aneddotica, autobiografia, osservazioni di buon senso e dichiarati intenti ideologico-programmatici. A proposito di questi ultimi, mi limito a ricordare che Russell propose fin dal 1918, confermandola nel tempo, una singolare – e forse neppure del tutto perspicua – variante di ghildismo, all’intersezione tra socialismo, anarchismo e sindacalismo. La scelta degli elementi migliori di ciascuna di queste dottrine consentirebbe di costruire quel tipo di società socialista capace di coniugare nella giusta misura i valori della libertà e dell’eguaglianza. Peraltro, mentre queste tre dottrine sono considerate le stelle polari della sua riflessione, a proposito di liberalismo e democrazia rappresentativa Russell condivise invece molte (non tutte) tra le critiche di matrice anarchica e marxista. Se le cose stanno così, ci si potrebbe chiedere qual è la ragione per occuparsi ancora del suo pensiero politico, sia in generale, sia, e a maggior ragione, dalla particolare prospettiva suggerita dal tema della ricerca, «Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento». Credo si possa rispondere che proprio in quanto outsider, dilettante della teoria politica e della storia delle idee, Russell, nonostante le apparenti ingenuità o forse proprio grazie alle apparenti ingenuità, sa giungere direttamente al cuore di alcuni grandi problemi storici e teorici del movimento socialista, sfrondandoli dall’erudizione, dalle superfetazioni scolastiche e dall’autoreferenzialità di molti studiosi e protagonisti del dibattito. Di fatto, talune sue osservazioni liquidano, in parte ante litteram, intere biblioteche dedicate alla


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Salvemini e il comunismo Sergio Bucchi

A differenza di altri intellettuali suoi contemporanei, Salvemini non subì mai il fascino della Rivoluzione d’Ottobre. Riferendosi a quell’evento, in un articolo dell’«Unità» dell’agosto 1920 denunciava come «assurda e rovinosa l’utopia massimalista, che sogna di potere far tabula rasa di tutta la organizzazione economica preesistente, e creare tirannicamente tutto un nuovo funzionamento, spaventosamente accentrato, della produzione e degli scambi»1. Quando scrisse queste parole Salvemini aveva lasciato da circa un decennio il Partito socialista e da ancor più tempo aveva metabolizzato il suo marxismo giovanile. Se il materialismo storico aveva esercitato un’influenza salutare nella messa a punto della sua concezione storiografica, la teoria marxista che vedeva nel comunismo l’approdo immancabile della crisi del capitalismo gli apparve sempre più come una forma di teologia della storia, erede di quella filosofia idealistica tedesca cui guardò sempre con profonda avversione, sotto qualunque veste – di destra o di sinistra – si presentasse. «Determinare fin d’ora quale debba essere il sistema economico del domani è una fantasia di sognatori»2. È possibile cogliere i sintomi di decadenza e di trasformazione in atto in una determinata forma di vita economica; definire quale sarà la costituzione economica destinata a succederle è un’operazione del tutto impropria. Soltanto nell’età nostra, precisava, «si è creduto di poter prevedere e determinare, anche nei suoi particolari, la costituzione economica che subentrerà al tramonto del capitalismo»3. Credere che la realtà futura possa corrispondere alle costruzioni ideali del «credo marxista» è un esercizio di mera speculazione e «soltanto una mentalità infantile e malata può credere di riuscire a realizzarle con un semplice atto di volontà». Se c’era bisogno di una prova, gli sviluppi della Rivoluzione d’Ottobre stavano lì a dimostrarlo. Nella stessa Russia, dove pur si è potuto far piazza pulita del vecchio regime, e dove il più rigido ed il più semplicista dei marxisti ha instaurato la più ferrea dittatura che ricordi la storia, la costituzione economica che si viene delineando fuori dal caos della rivoluzione è qualcosa di sostanzialmente diverso dallo schema, che avevano aprioristicamente costruito i teorici del comunismo4.


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Sergio Bucchi

La condanna senza appello del leninismo e della dittatura del proletariato e il rifiuto della «dottrina filosofica ed economica apocalittica di Marx», secondo l’espressione di una nota lettera a Piero Gobetti di quegli stessi anni5, non impedirono tuttavia a Salvemini di continuare a guardare con simpatia al movimento politico dei lavoratori, diretto «non solo ad un miglioramento delle loro condizioni materiali», ma soprattutto a «una trasformazione dei rapporti di produzione»6. Nel momento in cui denunciava il «grave pericolo della statolatria, che si manifesta in quasi tutte le scuole socialiste»7, l’ispirazione alla giustizia sociale restava ben viva in Salvemini. La chiave è in quel «quasi tutte», che continuava ad animare la ricerca di un socialismo diverso, aperto alle istanze del liberalismo e della democrazia. Noi non siamo ancora arrivati a convincerci che i socialisti siano condannati in eterno a non vedere la opposizione tra il socialismo democratico e il socialismo burocratico, noi non disperiamo ancora che, alla fine, i lavoratori si avvedano che il socialismo di Stato, o socialismo burocratico, tende ad asservire il movimento proletario al dispotismo di una classe sociale parassitaria – la burocrazia – infinitamente peggiore della borghesia 8.

La tensione politica di cui testimoniano gli scritti cui si è fatto riferimento è accompagnata, come di consueto il Salvemini, da un capillare lavoro sotterraneo di riflessione storica, volta in questa occasione a ricostruire le coordinate entro cui inquadrare la contrapposizione tra comunismo e socialismo democratico. Si tratta di riflessioni consegnate a una serie di note, appunti, schemi di lezioni e conferenze dedicate a Mazzini, in particolare al rapporto tra Mazzini e il socialismo: un tema non nuovo nella lunga consuetudine degli studi mazziniani di Salvemini, ma affrontato ora con spunti d’attualità, come ebbe modo di rilevare Alessandro Galante Garrone pubblicando quegli inediti9. Si può aggiungere soltanto che uno dei più interessanti di questi scritti era con buona evidenza lo schema di una conferenza che Salvemini avrebbe tenuto nella sede dell’Università proletaria di Milano nel marzo 1922 e il cui resoconto fu pubblicato dall’«Avanti!»10. In essa Salvemini appare interessato soprattutto a sottolineare le analogie tra la concezione mazziniana della democrazia e le teorie del socialismo ottocentesco. Analoga è l’analisi secondo cui la ricchezza è il frutto del lavoro e lo sfruttamento sta nell’appropriazione da parte dei capitalisti del lavoro accumulato delle classi lavoratrici. «Specificamente socialista» poi è anche il rimedio proposto da Mazzini. Ma questo rimedio, precisava Salvemini, non coincide con quella forma di socia-


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Joseph Schumpeter Alessandro Roncaglia1

I. Prima di considerare l’atteggiamento di Schumpeter nei confronti del comunismo, occorre fare due premesse. La prima è che Schumpeter, piuttosto che come liberale o come democratico, va classificato come conservatore o addirittura reazionario. La seconda è che Schumpeter era un economista, che traspone nel campo della politica la sua visione del funzionamento del sistema economico. Queste premesse sono non solo importanti, ma anche contrarie a una diffusa tendenza a considerare il lavoro in cui Schumpeter parla di Capitalismo, socialismo e democrazia separatamente dalla sua produzione nel campo della teoria economica, e ad interpretarlo come se, prefigurando la transizione dal capitalismo al socialismo, Schumpeter la considerasse positivamente. Converrà quindi soffermarci su questi punti, richiamando alcuni aspetti della biografia dell’economista austriaco e poi, sia pure sinteticamente, la sua «visione» del funzionamento del sistema economico; solo a questo punto si potrà entrare nel merito delle sue idee in tema di capitalismo e socialismo. Si vedrà allora che la sua tesi della inevitabile transizione dal capitalismo al socialismo differisce da quella di Marx non solo per la spiegazione di questo processo (che ha molto a che fare con le tesi di Weber sulla tendenza alla burocratizzazione del capitalismo), ma anche per la sua valutazione: quello di Schumpeter è in effetti un grido di allarme, da parte di chi considerava semmai come forma preferibile di organizzazione della vita economica un corporativismo come quello sostenuto all’epoca in un’enciclica papale. II. Joseph Alois Schumpeter nasce a Triesh, in Moravia, allora parte dell’impero austro-ungarico, nel 1883. Il padre, piccolo industriale tessile, muore quando Joseph ha quattro anni. La madre, rimasta vedova a ventisei anni, si risposa nel 1893 con un alto ufficiale dell’esercito austriaco, già in pensione e di trentatré anni più anziano di lei; il matrimonio si conclude con un di-


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Alessandro Roncaglia

vorzio, tredici anni dopo. Tuttavia, nel frattempo il patrigno ha un’influenza decisiva sulla formazione del giovane Joseph, al quale viene fatto frequentare il Theresianum di Vienna, la scuola dei giovani aristocratici. Secondo alcuni suoi allievi (Richard Goodwin, Hyman Minsky, Paolo Sylos Labini2), Schumpeter, che non era nobile di nascita, deve avere assimilato in quegli anni il fascino di un sentimento di innata superiorità rispetto alla «gente comune», come traspare anche da alcuni incisi nei suoi scritti. Dopo la laurea in giurisprudenza all’università di Vienna nel 1906, Schumpeter sposa la figlia di un ecclesiastico anglicano conosciuta durante un viaggio in Inghilterra: un matrimonio che durerà pochi anni. Si trasferisce al Cairo, dove si guadagna da vivere come avvocato e gestendo il patrimonio di una principessa egiziana. Ammalatosi di febbre maltese, è costretto a rientrare a Vienna, dove ottiene la libera docenza con il suo primo volume, L’essenza e i principi dell’economia teorica (1908), un «mattone» in cui espone (in modo talvolta impreciso) la teoria marginalista dell’equilibrio statico e solo nelle pagine finali accenna in modo originale a problemi di metodo e di dinamica. Con la libera docenza (e grazie all’appoggio del suo maestro BöhmBawerk) viene nominato professore di economia all’università di Czernowitz, agli estremi confini orientali dell’impero (oggi Cernovcy in Ucraina): Schumpeter ne ricorderà anni dopo le notti tiepide e le belle donne, ma appena può si fa trasferire vicino alla capitale, all’università di Graz, dove resta fino al 1921. Nel 1912 pubblica la sua opera principale, la Teoria dello sviluppo economico (oggi comunemente letta nella versione inglese del 1934, drasticamente rivista e accorciata – di oltre la metà – rispetto all’edizione originaria); tra gli scritti di quel periodo vi è anche un lungo saggio, Epoche di storia delle dottrine e dei metodi (1914), che costituisce l’intelaiatura della Storia dell’analisi economica a cui lavorerà negli ultimi anni della sua vita. Nel 1913-1919 visita gli Stati Uniti e tiene lezioni e seminari presso la Columbia University di New York, che gli conferisce, ancora trentenne, una laurea honoris causa. Durante la prima guerra mondiale sembra aver nutrito sentimenti filooccidentali e aver partecipato, nel 1916, a un tentativo dell’aristocrazia austriaca di giungere a una pace separata con le potenze occidentali, isolando la Germania. Dopo la guerra, nonostante le sue ben note opinioni conservatrici, partecipa a una commissione presieduta da Kautsky per organizzare la nazionalizzazione delle imprese private; la sua giustificazione è una battuta di spirito, «Se qualcuno vuole suicidarsi, è bene che un medico sia presente»3.


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Franco Venturi e il comunismo Edoardo Tortarolo

La vita di Franco Venturi (1914-1994) coincise con la parabola storica del comunismo realizzato. Di questa quasi perfetta sovrapposizione tra esistenza individuale e vicissitudini politiche possiamo ritenere due immagini che all’inizio e al culmine della sua attività intellettuale indicano sia il profondo e costante suo interesse per l’esperimento comunista sia gli spostamenti di prospettiva in cui egli si pose nei confronti della politica realizzata dai partiti comunisti, quello sovietico in primo luogo. Nel gennaio del 1937 Venturi giunse a San Pietroburgo (allora Leningrado). Registrò nella corrispondenza per la rivista «Giustizia e Libertà» la sua attrazione per la folla, per «il fiume umano» nel quale si manifestava non tanto la linea attuale del Partito [...] quanto la nuova società, cultura, vita nate ormai dalla Rivoluzione [...] un popolo che questa idea [rivoluzionaria] ha già assorbita e trasformata, [...] una società diversa che si tratta di vedere e di intendere al di fuori di ogni ortodossia. Ciò che conta, in Russia come dappertutto, è il popolo russo e non l’ultima manovra politica del governo1.

Più di quarant’anni dopo, nel 1979, Venturi partecipò a Torino a un incontro organizzato dal Club Turati, nel quadro delle iniziative culminate a Venezia nella Biennale sul dissenso nei paesi del blocco comunista. Al tavolo degli oratori Venturi sedette, con la moglie Gigliola, accanto al generale Petro Grigorenko, che da generale dell’Armata rossa era diventato negli anni Sessanta e Settanta un critico della politica sovietica e dell’invasione della Cecoslovacchia, difensore dei diritti umani e vittima della repressione sino all’internamento in un ospedale psichiatrico e la privazione della cittadinanza. Venturi parlò da critico dell’esperimento sovietico in Russia e della politica dei partiti comunisti in generale e reclamò con energia la creazione di forme di libertà politica e intellettuale nell’Europa orientale2. Tra questi due momenti si dipanò una lunga e sempre intensa attività di ricerca storica, d’impegno civile e di riflessione politica di cui si è iniziato a delineare i caratteri complessi3. A sentire un interesse profondo per il comunismo e le sue realizzazioni stori-


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Edoardo Tortarolo

che Venturi non fu né solo né isolato. Tuttavia, a nutrire e dare sostanza e originalità alla sua visione del comunismo come ideologia e pratica di governo e riorganizzazione della società furono almeno due elementi che misero Venturi in una posizione del tutto particolare, se non unica. Il primo si può indicare nella conoscenza diretta e approfondita della realtà del comunismo sovietico degli anni Cinquanta, che conferì alla sua prospettiva una concretezza e una ricchezza di motivi di comprensione dall’interno dei meccanismi politici ed economici sovietici con pochi paralleli in Italia e in Europa (un caso analogo, pur nella diversità dei punti di partenza teorici, fu Isaiah Berlin4). Il secondo elemento è da individuare nella prospettiva di lungo periodo che Venturi applicò all’analisi del comunismo in quanto ideologia e in quanto pratica politica: l’interesse specifico dello storico allargò la visuale necessariamente ristretta del politico interessato innanzitutto al «che fare oggi?» e spinse Venturi a trovare un quadro di riferimenti più ampio, sfumato e complesso di quello che può essere utile al politico d’azione e, ancor meno, al commentatore delle vicende politiche subordinato alle logiche di partito. Questa specificità distinse la posizione di Venturi in misura notevole anche negli anni nei quali all’attività mai veramente interrotta di ricerca e riflessione storica affiancò a Parigi da fuoriuscito, poi da comandante partigiano e infine da direttore dell’edizione torinese di «Giustizia e Libertà», quella di organizzatore e coordinatore di una formazione di resistenza alla dittatura e di superamento della transizione verso una nuova democrazia. Il combinarsi in equilibri mai definitivi dell’interesse politico-operativo con quello storico-comprensivo diede una nota particolare, talvolta enigmatica, alla riflessione di Venturi sul comunismo, nella quale si avverte agli inizi della sua riflessione sia l’attrazione per una ricerca dell’alternativa assoluta alla società esistente sia la consapevolezza dell’insufficienza gravissima e irrimediabile delle realizzazioni pratiche seguite alla Rivoluzione d’Ottobre. La posizione finale di Venturi, che fu percepita come un deciso anticomunismo, riassunse un lungo itinerario sostenuto innanzitutto da una costante volontà di capire la natura del comunismo e da una conoscenza profonda dei suoi testi ispiratori e delle circostanze di affermazione politica. Né è plausibile che un duraturo ed energico impegno a conoscere e capire potesse essere separato alla radice dall’attrazione per una visione di emancipazione drastica dalla povertà, dall’ingiustizia e dall’oppressione che il comunismo promise sin dalle sue prime manifestazioni.


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Max Weber e il comunismo Francesco Tuccari

I. In un volume dedicato alla riflessione liberale e democratica novecentesca sul comunismo, un saggio sulla figura e l’opera di Max Weber può risultare in qualche modo fuori luogo, per due diverse e importanti ragioni. La prima, di natura per così dire «anagrafica», è che Weber, com’è noto, morì prematuramente il 14 giugno 1920 – dunque ben prima del definitivo consolidamento del bolscevismo al potere – senza rendersi conto e anzi dubitando fortemente che la Rivoluzione d’Ottobre potesse avere un qualche futuro o, addirittura, segnare una svolta epocale nella storia del XX secolo. La seconda, di natura più propriamente «interpretativa», è che non è affatto scontato (anche se chi scrive ne è convinto) che Weber possa essere considerato come un autore in qualche modo «classico» o quanto meno rappresentativo della tradizione del pensiero liberale e democratico novecentesco. Il più autorevole studioso del suo pensiero politico – Wolfgang J. Mommsen – era decisamente scettico in proposito. Egli riteneva, infatti, che Weber avesse reso in qualche modo «meno resistibile» l’avvento del nazismo al potere in Germania1. Il che non può certo considerarsi come una patente di nobiltà nel pantheon della tradizione liberaldemocratica. E in effetti, anche al di là delle conclusioni di Mommsen, l’aspro nazionalismo di Weber, la sua ferma convinzione che la Germania dovesse assolutamente intraprendere una «politica di potenza mondiale», la sua visione disincantata e scettica dei miti della sovranità e della volontà popolare, la sua concezione «funzionalistica» delle istituzioni parlamentari, la sua idea della «democrazia plebiscitaria», la sua tarda opzione per un Reichspräsident plebiscitario e, ancora, la sua teoria del capo carismatico (non a caso utilizzata, ad esempio da Robert Michels, per spiegare, giustificare e legittimare il fascismo italiano) sono, in questo quadro, elementi di natura fortemente problematica. E sicuramente in profonda tensione – come è stato più volte ribadito da prospettive e con sfumature diverse – con la tradizionale «tavola dei valori» del moderno pensiero liberale e democratico. Se dunque si prende alla lettera il tema del nostro volume – la riflessione


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Francesco Tuccari

sul comunismo sovietico nella cultura liberale e democratica del Novecento – ci troviamo di fronte a un autore a dir poco «sospetto» che riflette in modo del tutto marginale e frammentario sui primi confusi inizi della parabola del comunismo al potere. A un autore, insomma, che può dirci molto poco sia sull’oggetto sia sulla specifica tradizione politica che ci interessano in questa sede. Se tuttavia, invece di concentrarci esclusivamente sulle specifiche e scarne osservazioni di Weber sul bolscevismo e sui primi incerti passi della Rivoluzione d’Ottobre, allarghiamo lo sguardo alla riflessione più generale che egli svolse sul tema del socialismo e al suo rapporto con Marx e il marxismo della sua epoca, i suoi giudizi diventano assai più pregnanti. Essi, infatti, culminano in una potente e articolata «visione» del carattere burocratico e autoritario del socialismo realizzato, la quale ha senza dubbio fissato prima del tempo alcuni aspetti cruciali di quello che doveva poi essere il senso della vicenda storica del comunismo, ponendo contemporaneamente alcune importanti premesse della successiva riflessione liberale e democratica novecentesca su di esso. In questa prospettiva più ampia si devono sottolineare fin dal principio due dati fondamentali. Il primo dato è che questa «visione» non costituisce affatto un elemento marginale della riflessione politica e sociologica di Weber. Essa, al contrario, rappresenta una parte essenziale di quello che si può senz’altro considerare come il «problema fondamentale» della sua teoria della politica moderna e, per certi aspetti, della sua opera tout court: il problema del ruolo crescente e sempre più irresistibile dei moderni apparati burocratici nel governo della vita associata degli individui, nel quadro di un processo onnipervadente di «burocratizzazione universale» che costituiva, a suo giudizio, uno degli effetti più dirompenti – e più pericolosi – del particolare «sviluppo del razionalismo occidentale»2. Il secondo dato è che proprio e soprattutto in questa «visione», e nel «problema fondamentale» di cui essa è parte, si possono cogliere in modo molto chiaro l’impianto e le preoccupazioni tipicamente «liberali» del pensiero politico e sociale di Weber. Nel suo schema, infatti, la crescente e irreversibile potenza della moderna burocrazia – già dotata di immense risorse di potere nell’epoca del capitalismo maturo, ma fatalmente destinata a esercitare un dominio semplicemente assoluto e privo di qualsiasi possibilità di controllo in una ipotetica società socialista – costituiva il veicolo e la leva di una nuova e probabilmente insuperabile «illibertà» dei moderni. Una illibertà,


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Il comunismo nell’interpretazione tecno-manageriale del liberalismo americano Giovanni Borgognone

Non sempre la storiografia ha riconosciuto adeguatamente il significato della fascinazione esercitata dal comunismo sulla costruzione e l’evoluzione dell’ideologia democratica e liberal americana negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. L’esperimento sovietico, in realtà, venne visto da molti intellettuali d’oltreoceano come la variante russa di una modernizzazione politico-sociale da realizzare anche negli Stati Uniti, incentrata sull’espansione delle attività governative e sulla «razionalizzazione» della società e dell’economia. Si trattava, per certi versi, di un ideale propugnato già dal progressismo americano di primo Novecento e rielaborato dai liberal negli anni del New Deal. In tale prospettiva, pertanto, l’interpretazione della natura sociale dell’Urss risultò fortemente condizionata, in particolare, dal progetto di una trasformazione «manageriale» del sistema politico-economico statunitense. Questa tendenza interpretativa non scomparve neppure dopo la seconda guerra mondiale: pur nel mutato scenario del confronto geopolitico e ideologico bipolare, infatti, come si vedrà, molti esponenti dell’American liberalism continuarono a discutere l’ipotesi di una possibile «convergenza» strutturale fra l’evoluzione corporativa americana e il managerialismo-«capitalismo di Stato» sovietico. 1. Un liberalismo tecnocratico Fu il presidente Franklin D. Roosevelt, attento comunicatore, a contribuire in modo decisivo alla diffusione nel linguaggio politico statunitense dell’aggettivo liberal; lo adoperò negli interventi radiofonici, in sostituzione di progressive, per descrivere se stesso e la sua amministrazione, richiamandosi chiaramente a uno dei fondamentali «valori» del discorso pubblico americano, la libertà. Trasformò così liberalism, «da sinonimo di governo debole e di economia del laissez-faire, nella fede in uno Stato interventista e socialmente impegnato»1. A ben vedere, però, questo era stato già il nucleo programmatico essenziale del precedente progressivism, da cui il liberalismo rooseveltiano e il New Deal, in buona misura, discesero. Riteniamo pertanto op-


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portuno mettere in luce, innanzitutto, tali premesse nel vivace scenario statunitense di inizio Novecento. I progressisti americani si connotarono essenzialmente come degli intellettuali «ottimisti e razionalisti», convinti che la società fosse «infinitamente malleabile» e che un governo guidato da uomini illuminati e competenti avrebbe operato per promuovere il «bene pubblico»2. Fucina della politica progressista furono le amministrazioni di Theodore Roosevelt (1901-1909) e di Woodrow Wilson (1913-1921). Il vivace movimento politico e culturale sorto e sviluppatosi in quegli anni ebbe come obiettivo fondamentale una profonda «riforma» della società e della politica statunitensi. Su tali basi si manifestò anche un’aggiornata versione di «nazionalismo», di cui possono rivelarsi emblematiche le posizioni «interventiste» di buona parte degli intellettuali progressisti al tempo della Prima guerra mondiale. Il conflitto contro l’autocrazia tedesca venne infatti presentato, sostanzialmente, come una grande occasione per riformare la nazione grazie al rafforzamento del potere federale e all’esportazione internazionale della democrazia americana. Fu questa la posizione, ad esempio, di giornalisti come Walter Lippmann ed Herbert Croly, del maggior leader sindacale Samuel Gompers, delle principali esponenti riformatrici e femministe Jane Addams, Florence Kelley e Charlotte Perkins Gillman e del più influente filosofo dell’epoca, John Dewey. L’America – affermava in particolare quest’ultimo – non aveva ancora del tutto trovato un proprio «spirito nazionale»; la guerra contro la Germania non avrebbe certamente posto fine alle esitazioni in tal senso, ma l’eventuale costruzione di un nuovo ordine mondiale al termine del conflitto avrebbe potuto fare in modo che in esso gli statunitensi potessero riconoscere se stessi e la propria volontà. La guerra aveva peraltro già mostrato, secondo Dewey, che gli americani non erano più in alcun senso europei, bensì costituivano «un nuovo corpo e un nuovo spirito nel mondo»3. Anche Lippmann salutò l’opportunità dell’intervento americano nel conflitto come il momento in cui gli Stati Uniti avrebbero potuto promuovere il proprio modello politico sulla scena internazionale. Nel frangente risultava preziosa, inoltre, la presenza di una leadership forte e intellettualmente illuminata come quella di Wilson. L’amministrazione presidenziale, poi, coinvolse in effetti Lippmann e diversi altri intellettuali progressisti nella costituzione del gruppo The Inquiry, che si sarebbe dovuto occupare del programma statunitense per la pace (e proprio dal lavoro del gruppo derivarono i famosi Quattordici Punti del presidente4).


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Quasi un dizionario degli autori maggiori liberali e democratici del Novecento che hanno letto la dura lezione illiberale del comunismo e le sue sfide questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nell’ottobre dell’anno duemila otto

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