La Somalia non è un'isola dei caraibi

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Mohamed Aden Sheikh, chirurgo somalo laureato e specializzato in Italia, più volte ministro, è stato uno dei principali dirigenti politici somali nel corso degli anni Settanta, quando il regime di Siad Barre tentò una trasformazione radicale della società pastorale somala in nome del “socialismo scientifico”. Finito in prigione una prima volta nel 1975, per ragioni politiche, fu fatto arrestare di nuovo dal dittatore nel 1982 e tenuto nel più totale isolamento, per sei anni, nel carcere speciale di Labatan Girow. È tornato in libertà nel 1989. Nel 1994 ha pubblicato con Pietro Petrucci Arrivederci a Mogadiscio Somalia: l’indipendenza smarrita.

Mohamed Aden Sheikh

«Come quasi tutti i dirigenti somali di oggi io sono nato in boscaglia, figlio di una società nomade di cammellieri e pecorai. E lì sono rimasto per i primi otto anni della mia vita.» Così comincia questo memoriale in cui si intrecciano la vertiginosa vicenda umana di Mohamed Aden Sheikh (pastore, medico, ministro, perseguitato politico) e la storia recente della Somalia, uno dei Paesi più sventurati dell’Africa contemporanea. Una testimonianza appassionata e un’analisi di grande rigore intellettuale per capire gli effetti del colonialismo italiano in Africa, gli orrori commessi dai padri dell’indipendenza somala, il regime ventennale del generale Mohamed Siad Barre, naufragato nel sangue e nell’anarchia (Ioan M. Lewis). In questo libro troviamo gli antefatti riguardanti tutti i principali personaggi della Somalia di oggi, dagli irriducibili signori della guerra di Mogadiscio ai molti ras, civili e militari, che regnano sul mosaico di regioni, fazioni e clan cui il Paese è ridotto.

LA SOMALIA NON È UN’ISOLA DEI CARAIBI

I MURI BIANCHI

Mohamed Aden Sheikh

LA SOMALIA NON È UN’ISOLA DEI CARAIBI MEMORIE DI UN PASTORE SOMALO IN ITALIA

DIABASIS

€ 19,00

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I muri bianchi


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In copertina Mohamed Aden Sheikh con i tre figli. Da sinistra Kaha, Idil, Koshin. UniversitĂ di Mogadiscio

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-706-3

Š 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it


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Mohamed Aden Sheikh

La Somalia non è un’isola dei Caraibi Memorie di un pastore somalo in Italia A cura di Pietro Petrucci

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Dedico questo libro a mia moglie, compagna di vita combattiva e tenace, e ai nostri figli rispettivi, calorosi testimoni della nostra unione e membri della nostra “famiglia allargata”. Le sue figlie “italiane” ci hanno offerto la loro generosità e una presenza costante. I miei figli “somali” – insieme ai miei tanti fratelli e nipoti ormai sparsi per il mondo – ci hanno sostenuto tenendo ferma la barra del timone familiare nel corso dell’interminabile tempesta che da vent’anni scuote il nostro paese. Troppo lunga sarebbe la lista degli amici che mi hanno dato sostegno e coraggio anche nei momenti più difficili della mia esistenza. Sono gli stessi che non hanno mai perduto la speranza di rivedere una Somalia prospera e pacifica. Ma debbo una gratitudine speciale a Maria e Paolo Sannella e all’editore Alessandro Scansani, per aver creduto in questo libro senza esitazioni. E a Pietro Petrucci, amico di sempre, senza le cui qualità – intelligenza, cultura e dedizione – il libro non avrebbe mai visto la luce.


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Mohamed Aden Sheikh

La Somalia non è un’isola dei Caraibi Memorie di un pastore somalo in Italia A cura di Pietro Petrucci

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Prefazione, Pietro Marcenaro

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Nota del curatore, Pietro Petrucci

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Capitolo primo

A dieci anni ero un pastore nomade La notte in cui svenni e mi risvegliai studente − L’Amministrazione Fiduciaria Italiana e la Lega dei Giovani Somali − Padri e figli somali si amano in silenzio 40

Capitolo secondo

Alla scoperta degli «italiani d’Italia» Ero un extracomunitario prima che nascesse la Comunità Europea − Nessuno sapeva dove fosse la Somalia − In tribunale a Treviso scortato da Ignazio Silone − Marx ci interessava più ancora del Partito Comunista Italiano 56

Capitolo terzo

La democrazia s’inceppa e lo Stato cade fra le braccia dei militari Nessuno trovava il primo ministro. Era a Las Vegas con William Holden − Più utile fare il medico o il ministro della Sanità? − A noi la Somalia non sembrava un paese povero − L’alleanza con Mosca, una scelta obbligata 78

Capitolo quarto

Dittatori non sempre si nasce ma si diventa Un gruppo di giovani professionisti incaricati di trasformare il paese − Civili e militari separati in casa − Addormentarsi ministro e svegliarsi prigioniero politico − «Presidente, siamo liberi cittadini o detenuti?»


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Capitolo quinto

Il giorno in cui furono fucilati gli ulema Un Presidente dalla doppia personalità − Evitare a tutti i costi i golpe a ripetizione − Una polizia segreta che agiva fuori di ogni controllo 108

Capitolo sesto

La trappola dell’Ogaden L’Unione Sovietica teneva il piede in due staffe − Fidel Castro a Mogadiscio per forzare la mano a Siad Barre − L’Ogaden tornò ad essere somalo ma soltanto per nove mesi 124

Capitolo settimo

Tribù piccola patria e qualche altro tabù Clan minoritari o caste inferiori? − L’emancipazione femminile, un boomerang per il regime − La lunga battaglia contro le mutilazioni genitali femminili 138

Capitolo ottavo

L’ultima visita del topo al gatto Quando i miei amici pensavano che fossi già in prigione − Abbandonare il campo poteva essere un gesto di opportunismo − L’irresistibile ascesa del generale-ambasciatore che millantò l’appoggio della Casa Bianca alla guerra dell’Ogaden 151

Capitolo nono

Sepolto vivo Primo obiettivo, sopravvivere − Aspettai qualche anno per avere i miei due libri − «Sono il comandante del carcere e mi chiamo Dirie, soprannominato Omicidio» − Il lungo martirio del vecchio saggio Warsame Giuguf 178

Capitolo decimo

La farsa del processo: capire tutto significa perdonare tutto? Ricevo capi d’accusa per i quali rischio la pena di morte − Sono complice dei sovietici o degli italiani? − Davanti alla Corte per la Sicurezzza Nazionale nella ex Casa del Fascio − Prosciolto dai giudici ma condannato dal partito agli arresti domiciliari − Forse i dittatori non meritano di essere odiati − Il mio destino cambiò ancora nel 1989


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Capitolo undicesimo

La mia seconda vita in un’Italia irriconoscibile Perché Lucio Colletti è morto berlusconiano? − Medico in Piemonte, in una struttura sanitaria dove convivono 15 nazionalità − Consigliere comunale torinese, feci scandalo quando citai in arabo l’invito del Corano a rispettare gli animali − I profughi somali in Italia andrebbero volentieri in un altro paese − La doppia identità ricorda la bigamia 222

Capitolo dodicesimo

I miei figli somali, cittadini involontari dell’Unione Europea L’Italia e la «generazione Balotelli» − Pesano sui figli le decisioni dei genitori 232

Capitolo tredicesimo

Autoritratto di una nazione senza più Stato e inventario delle sue risorse Alla conferenza di pace un panorama umano desolante come il deserto − Le donne somale e il caso internazionale di Ayan Hirsi Magan, la ragazza mogadisciana diventata deputata olandese − Tutto è perduto fuorché la nostra lingua 249

Capitolo quattordicesimo

Dalla grande razzia dei signori della guerra alla costituzione federale Un improbabile Giulio Cesare africano che distribusce le terre ai suoi legionari − La sedicesima conferenza di riconciliazione: miracolo o miraggio? − I grandi predoni imparano a fare politica − Un federalismo ispirato soprattutto dalla diffidenza politica 267

Capitolo quindicesimo

Ci sono voluti i pirati perché il mondo si ricordasse della Somalia Nuova filibusta o banditismo sociale? − Il miraggio della soluzione africana − Un processo di riconciliazione reso possibile dall’Europa e un’occasione perduta per l’Italia − Anche Mogadiscio spera in Obama


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Capitolo sedicesimo

L’ombra dell’Islam sul futuro dell’Italia e della Somalia Un nuovo spettro si aggira per l’Europa − Manca all’Islam una cultura della minoranza simile a quella sviluppata dagli ebrei − I musulmani e l’Olocausto 292

Capitolo diciassettesimo

L’Islam, la vita, la morte e le frontiere della scienza Un tempo pensatori e scienziati musulmani erano fra i più liberi del pianeta − Viviamo in un mondo che né il Profeta né il Corano avevano immaginato − L’Islam di fronte alle questioni di bioetica 301

Capitolo diciottesimo

L’inatteso destino integralista della Somalia Il lungo lavoro dei missionari wahabiti − Meglio le Corti Islamiche che i signori della guerra − Sheikh Sherif Sheikh Ahmed, l’uomo nuovo che ha cancellato gli ultimi epigoni di Siad Barre 317

Conclusione

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Somalia. Cronologia


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Prefazione

Quale sarà l’evoluzione della situazione politica somala nel prossimo futuro è naturalmente ben difficile da prevedere. Ma ciò che sembra oggi molto ragionevole è che, se in fondo al tunnel nel quale quel paese è entrato da ormai vent’anni si può intravedere una qualche luce, essa è legata in larga parte al ruolo che sapranno svolgere quelle forze islamiche «moderate» che oggi si riuniscono intorno al presidente Sheikh Sherif. L’esito del conflitto tra queste forze e i gruppi dell’islamismo più radicale influenzerà profondamente il futuro della Somalia. A questa conclusione sono ormai approdate anche la comunità internazionale e gli stessi Stati Uniti. È su questa base infatti che essi hanno assecondato, all’inizio del 2009, l’ascesa alla presidenza della Somalia del leader delle Corti Islamiche, che appare l’unico oggi in grado di dare alla crisi somala una risposta che abbia – pur nel quadro di un progetto di repubblica islamica – il respiro e la prospettiva di una vera e propria soluzione nazionale. Mohamed Aden Sheikh a questa conclusione era giunto quattro anni prima, quando le Corti Islamiche, prendendo Mogadiscio, vi avevano restaurato le minime condizioni di sicurezza e di legalità dopo vent’anni di «razzia permanente» da parte dei signori della guerra, e avevano anche per questo considerevolmente ampliato il loro consenso tra la popolazione. Ricordo i tentativi, dei quali sono anche stato personal9


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mente vettore nella mia qualità di deputato della Commissione Esteri, di fare comprendere al governo italiano e, per il suo tramite, alla comunità internazionale, che le Corti Islamiche avrebbero potuto essere i partner di un processo di riconciliazione e di pacificazione. Senza di esso il fragile compromesso e la contraddittoria architettura istituzionale usciti dalla Conferenza di Nairobi erano destinati a crollare. E ricordo la nettezza con la quale Aden – in sintonia con tutta la diaspora somala internazionale – reagì alla fine del 2006 all’intervento etiopico, negando che da lì, nonostante l’apparente facilità con la quale la campagna militare sembrava svilupparsi nelle prime settimane dell’invasione, potesse venire qualsiasi contributo positivo alla soluzione della crisi della Somalia. Quell’analisi e quelle indicazioni non furono tenute in conto, e anche l’Italia, in particolare, come Aden ricorda, per il ruolo svolto da Mario Raffaelli, rappresentante speciale italiano per la Somalia, scelse di adeguarsi acriticamente alla strategia sostenuta dal governo americano dell’epoca, e di schierarsi senza riserve con l’intervento etiopico e a sostegno della presidenza di Abdullahi Yussuf. Salvo essere costretti a prendere atto – dopo anni sprecati, nuove vittime e nuove distruzioni, in condizioni ulteriormente deteriorate – dell’impraticabilità di quella soluzione. Alla base delle convinzioni e delle scelte di Aden c’è una straordinaria conoscenza della Somalia, della sua società, delle sue classi dirigenti, delle contraddizioni e dei conflitti che le attraversano. Nel libro è questa la prima cosa che il lettore può trovare: un’analisi ampia e particolareggiata della Somalia e della sua storia negli ultimi sessant’anni, che permette di comprendere e analizzare una crisi che, in mancanza di tali informazioni, appare invece incomprensibile. 10


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Su questa conoscenza, e su valutazioni che non assumono mai il senso di prese di posizione ideologiche, si fonda il realismo politico di Aden nel corso della sua lunga storia politica. È impressionante come la cifra di questo realismo non cambi sostanzialmente nel tempo e appaia come un filo rosso che lega il punto di vista del giovane studente partecipe dell’epopea dell’indipendenza africana, le scelte dell’uomo di governo e del dirigente politico impegnato nella costruzione della Somalia indipendente, i giudizi del prigioniero isolato per anni nelle carceri di Siad Barre e, infine, l’esponente della diaspora che partecipa alla Conferenza di Nairobi e che oggi contribuisce con le sue opinioni al dibattito sul futuro del suo paese. Mi ha sempre colpito, nei lunghi anni dell’amicizia con Aden e anche nella lettura di questo libro, come il suo realismo integrale, nel quale la domanda: «che cosa è giusto, che cosa è sbagliato» si accompagna sempre all’altra: «che cosa è possibile, che cosa è utile fare, che cosa posso fare io», non dia mai luogo a posizioni equivoche o ambigue, a quei rischi di opportunismo che spesso il realismo porta con sé. Sarà forse che nell’Africa in generale, e nella Somalia in particolare, attraversate e lacerate dai conflitti più aspri e sanguinosi, il valore della moderazione e la differenza tra moderazione e moderatismo sono più facili da capire di quanto non sia nelle nostre società europee. Sarà perché in quel contesto la politica, con tutto il suo corredo, appare ben più che da noi un bene di prima necessità. Sarà perché, dopo oltre mezzo secolo, le speranze, i valori e gli obiettivi della lotta anticoloniale sono rimasti l’ago della bussola che ha continuato a guidare la vita e i pensieri delle persone come Aden. Sarà perché Aden è al tempo stesso un militante africano e un intellettuale europeo di straordinaria cultura, e questo gli ha offerto strumenti in più di elaborazione della propria esperienza. Sarà perché vive da lungo tempo con 11


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una donna così generosa da contagiare e migliorare chiunque le stia accanto. Non è un discorso apologetico il mio: dalla lettura del libro emergono tante domande difficili, scelte controverse e discutibili. Quella di Aden è la biografia di un uomo che per affermare le proprie convinzioni e i propri obiettivi ha condiviso per un periodo significativo le responsabilità del regime dispotico del quale poi è diventato vittima. Eppure, come si può vedere leggendo il libro, non c’è mai sulle cose più complicate, il ricorso alla rimozione. Il lettore le troverà tutte davanti a sé e lo aiuteranno a capire come la moralità possa affermarsi solo nella responsabilità della scelta, anche quando a posteriori questa può essere riconosciuta come sbagliata. C’è in Aden una grandezza che gli errori commessi in una lunga vita politica non diminuiscono. È una grandezza che si può ritrovare e riconoscere solo in quelle persone che la vita ha messo davvero alla prova e che per questo diventano portatori di un messaggio universale e assurgono al rango di testimoni: e questo è il libro di un grande testimone del nostro tempo. Pietro Marcenaro

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Nota del curatore

Ho conosciuto Mohamed Aden a Mogadiscio nel 1970, durante un reportage per il quotidiano romano «Paese Sera». Aden era allora ministro somalo della Sanità, ma era soprattutto il capofila di un gruppo di giovani professionisti di sinistra cui la giunta militare presieduta dal generale Mohamed Siad Barre – al potere da qualche mese – aveva fatto appello per mettere in cantiere la modernizzazione a tappe forzate del paese. Ne era nata un’esperienza che si autodefiniva laica e socialista, che ricordava insieme i Giovani Turchi di Kemal Ataturk e il «socialismo arabo» del Rais egiziano Gamal Abdel Nasser. Il medico-intellettuale Mohamed Aden e i suoi compagni-ministri – ingegneri, economisti, giuristi, agronomi – realizzarono all’ombra dei militari progressisti, riforme mai viste in Africa prima di allora. Nel campo della sanità, dell’istruzione, dell’edilizia pubblica, dell’emancipazione femminile. Nei primi anni Settanta giornalisti, intellettuali e artisti del mondo intero visitarono quel «laboratorio socialista somalo» che suscitava curiosità e ottimismo: star del giornalismo americano come Arnaud de Borchgrave; sociologi d’avanguardia come l’egiziano Samir Amin; storici dell’Africa e del post-colonialismo come l’inglese Basil Davidson e il francese Jean Lacouture; artisti famosi come Ugo Attardi (che dipinse un grande affresco nella hall del Parlamento Nazionale); «rivoluzionari di professione» come Régis Debray. L’Unesco segnalò come due iniziative-modello, da imitare, la 13


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scrittura della lingua somala, che consentì l’alfabetizzazione di massa, e la creazione dell’Università Nazionale Somala, un politecnico italofono, nato da un visionario accordo di cooperazione con l’Italia. Nel 1973, incoraggiato da Mohamed Aden, decisi di trasferirmi in Somalia per consolidare la mia esperienza di cronista di cose africane. Rimasi a Mogadiscio, quasi tre anni, fino alla rottura dell’alleanza fra militari e civili, che avrebbe trasformato il regime di Siad Barre in una dittatura come tante altre. Mi riportò in Italia anche la nascita nel gennaio del 1976 del quotidiano «la Repubblica», che mi consentì tuttavia di continuare, in qualità di «inviato africano», di raccontare la lenta marcia della Somalia verso il disastro. E di frequentare il mio amico Aden. La biblica siccità che aveva investito il Corno d’Africa nel 1974 era stata come il segno premonitore, di cattivo augurio, di una crisi del regime che sarebbe esplosa più tardi, quando i civili, Aden in testa, si illusero nel ’76 di ridimensionare il potere dei militari sottoponendoli all’egemonia di un nuovo partito unico (il «Partito socialista rivoluzionario somalo») nella cui leadership gli uomini in divisa avrebbero dovuto contare quanto quelli in abiti civili. Generali e colonnelli reagirono esautorando e in qualche caso arrestando i dirigenti civili più prestigiosi. L’idillio era finito e con esso la «rivoluzione». Aden conobbe una prima volta la prigionia politica per qualche mese. Tornato in libertà, si ritrovò ai margini di un regime di cui era stato uno dei principali ispiratori. Nel 1977 Siad Barre e i suoi generali, ormai liberi da qualsiasi condizionamento interno, presero la sciagurata decisione di approfittare delle difficoltà in cui si dibatteva la vicina Etiopia – nemico secolare della Somalia – per invadere e «redimere» l’Ogaden, un pezzo di terra somala che le grandi cancellerie occidentali avevano lasciato sotto il tallone del14


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l’imperatore Haile Selassie dopo la Seconda Guerra. Condannato dalle Nazioni Unite, isolato sulla scena internazionale, Siad Barre subì nel marzo del 1978 l’umiliazione di vedere il suo esercito scacciato dall’Ogaden ad opera delle truppe russe e cubane intervenute a fianco dell’Etiopia. La rotta dell’Ogaden innescò le prime rivolte armate, a base tribale, contro la dittatura, che reagì con una repressione cieca. Nel 1982, mentre si registravano i primi massacri ai danni delle popolazioni civili del centro e del nord della Somalia, Siad Barre fece incarcerare senza spiegazione una mezza dozzina di dissidenti, fra cui Mohamed Aden, che rimasero «sepolti vivi» per sei anni, in isolamento, nel gulag equatoriale somalo. Ci volle una lunga e martellante campagna internazionale (nel 1984 Amnesty International proclamò Aden «prigioniero politico dell’anno») per strappare alla dittatura nel 1988 un breve processo-farsa che vide quattro imputati, fra i quali Aden, prosciolti, ma costretti senza spiegazione agli arresti domiciliari sine die. Solo nel maggio del 1989 Mohamed Aden, male in arnese per via della prigionia, ottenne il permesso di trascorrere in Italia, in mano ai medici, qualche settimana di «vacanza». Nessuno poteva immaginare che per via della guerra civile non sarebbe mai più tornato a Mogadiscio né che la sua «vacanza», che dura ormai da vent’anni, sarebbe diventata la sua seconda vita. Nel 1989 ero fra quelli che aspettavano Mohamed a Roma. Avevamo così tante cose da raccontarci che decidemmo un giorno, di comune accordo, di continuare a parlare davanti a un registratore. Così nacque Arrivederci a Mogadiscio, uscito nel 1991, il cui titolo esprimeva non già la speranza ma la certezza che Mohamed nutriva ancora di tornare nel suo paese nonché alla politica attiva. Vent’anni dopo l’uscita di quel libro, Mohamed ed io ab15


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biamo ripreso il registratore per raccontare il resto della sua vita e ragionare sulla sua avventura di «italiano nero». «Piemontese nero», sarebbe il caso di chiamarlo, visto che dei torinesi ha preso persino l’accento e che della città sabauda é diventato un personaggio pubblico, che si é speso su molti fronti: la direzione sanitaria di una struttura per anziani e disabili mentali, il Consiglio comunale, un Centro di studi africani, l’associazione «Soomaaliya», una onlus che manda aiuti in alcune delle aree più disastrate della Somalia e che assiste gli immigrati somali. Ha anche partecipato, in giro per l’Africa, ad alcune fasi essenziali del processo di riconciliazione nazionale che dovrebbe prima o poi restituire alla Somalia e ai somali uno Stato. Nell’estate del 2009 il nostro secondo libro-conversazione, dedicato alla «seconda vita» di Aden era pronto. Ma uno degli amici a cui l’avevamo mandato in lettura ci disse:«Io credo che l’insieme di queste due vite sarebbe ancora più interessante se a raccontare e riflettere fosse una voce sola, quella del suo protagonista». E così un giorno, guardando i tetti di Torino dal terrazzo di casa Aden, proposi al mio amico: «Se per gioco tu indossassi i panni dell’imperatore Adriano e ti accontentassi di me, come la tua Marguerite Yourcenar, potrei provare a trasformare i nostri dialoghi nelle tue memorie». Così è nato questo libro. Pietro Petrucci Bruxelles, febbraio 2010

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Capitolo quindicesimo

Ci sono voluti i pirati perché il mondo si ricordasse della Somalia

È destino che il mondo si interessi della Somalia solo quando la percepisce come un pericolo. Dimenticata per anni, la crisi somala non sarebbe ritornata ad essere una priorità della grande diplomazia, quella che occupa le grandi cancellerie e i vertici delle Nazioni Unite, se non fosse apparso verso la fine del 2008 nel Golfo di Aden il fenomeno dei «pirati somali» che sequestrano navi sempre più grandi ed estorcono milioni di dollari ad armatori del mondo intero. Episodi di pirateria si sono registrati lungo le coste somale fin dai primi anni della guerra civile, ma non hanno mai avuto grande eco fino a quando i pirati non hanno compiuto un salto di qualità, nel corso del 2007, quando un fenomeno fino allora locale, «artigiano» è diventato un grande business internazionale. Finanziati da capitali della diaspora somala provenienti dai paesi del Golfo Arabo, teleguidati da «talpe» dislocate a Londra e Rotterdam, dotati di barche veloci, armi micidiali e tecnologie sofisticate, i corsari somali si sono fatti sempre più audaci ed esosi. C’è voluta l’insicurezza creata dalla pirateria su una delle principali arterie del commercio internazionale per ricordare al mondo che la Somalia costituisce un minaccioso «buco nero» nel tessuto della legalità e della sicurezza internazionali, un luogo di possibile incubazione per tutte le patologie. La NATO e l’Unione Europea si sono mobilitati per «restaurare la legalità e la sicurezza nel Golfo di Aden». La Somalia non ha ancora finito di stupire il mondo. 267


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Ma il mondo, devo aggiungere, continua ad avere della Somalia e delle sue vicende una visione e una percezione assai «semplificate», spesso caricaturali. E questa storia della pirateria lo conferma. Né le grandi cancellerie né i grandi media, si direbbe, hanno talora il tempo e le energie necessari per studiare e capire i problemi di cui pure sono chiamati ad occuparsi. Le radici storiche di questa pirateria somala che tutti stigmatizzano va ricercata nella grande carestia che mise in ginocchio il nostro paese nel 1974, rendendo desertiche intere regioni e sterminando il bestiame, principale risorsa economica dell’economia pastorale. Una piaga biblica. Nel volgere di pochi mesi il governo di Mogadiscio si trovò sulle braccia oltre 700.000 persone ridotte alla miseria e alla fame. Quasi la metà di questa popolazione fu trasferita, con l’aiuto di alcuni paesi amici, dalle zone ormai aride del nordest verso le regioni fertili del sud (la «Mesopotamia somala», tra i fiumi Giuba e Scebeli) e verso la costa. Perché potessero ricostruirsi una vita come agricoltori e pescatori. Paradossalmente, mentre la riconversione dei nomadi in contadini fu un fiasco (e molti emigrarono o tornarono al nord alla spicciolata, con le prime piogge) le comunità nomadi trapiantate sulla costa, pur non avendo mai visto il mare, impararono in fretta a navigare e a pescare. L’unica spiegazione plausibile è che la vita sul mare, con i suoi spazi e i suoi rischi, costituiva per il pastore-cacciatore nomade una variante della vita nella boscaglia, una riedizione della lotta quotidiana e talvolta eroica per la sopravvivenza che è la dimensione atavica della nostra gente, celebrata da tanti poeti e cantastorie. Niente a che vedere con la vita sedentaria, ingrata, monotona dell’agricoltore, disdegnata dai pastori. Così si sono costituite nuove comunità di pescatori in un paese che possiede oltre 3500 chilometri di coste. Gente che ha dovuto cambiare radicalmente il proprio modello di vita 268


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per ritrovare finalmente l’autosufficienza economica e una nuova identità sociale. Come mai questa stessa gente ha imboccato a un certo punto la strada senza futuro della pirateria? Farebbe bene a chiederselo la NATO, che temo si illuda di neutralizzare intere collettività ridotte alla disperazione solo con i suoi piani militari. Qualcuno dovrebbe spiegare agli ammiragli della NATO che i pescatori somali e i loro villaggi sono stati doppiamente colpiti dalla catastrofe della guerra civile. Da una parte hanno assistito impotenti all’invasione delle acque somale e al saccheggio delle risorse ittiche nazionali da parte di flotte da pesca provenienti dal mondo intero. E se le loro barchette infastidiscono i mastodontici bastimenti asiatici o europei venuti a fare man bassa del loro pesce, i pescatori somali vengono scacciati a forza di bidoni di acqua bollente. Purtroppo nessuna telecamera è mai andata a intervistare gli ustionati, reduci di queste «battaglie navali». Come non bastasse, subiscono le scorrerie di armatori senza scrupoli che si fanno pagare per usare le acque territoriali somale come una grande pattumiera, che riempiono di scorie industriali, materiali inquinanti, probabilmente anche scorie nucleari. «Lo attestano», come ha scritto l’ex alto funzionario della cooperazione europea Giovanni Livi, «le malattie che hanno colpito i pescatori e le loro famiglie, specie dopo lo tsunami del 2005, che ha fatto affiorare molti dei fusti velenosi». Nuova filibusta o banditismo sociale? C’è forse da meravigliarsi se nel 2006 sono comparse le prime flottiglie di pescatori somali dediti a sequestrare e taglieggiare le navi di passaggio? Delinquere o morire di fame, questo è il dilemma. È un fenomeno che agli italiani potrebbe ricordare il «banditismo sociale» sorto nelle regioni più povere dell’Italia postborbonica all’indomani dell’indipendenza. 269


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Il problema potrà essere risolto solo il giorno in cui la Somalia avrà di nuovo un governo legittimo e uno Stato degno di questo nome, dotato di forze di sicurezza capaci di presidiare le nostre acque territoriali e proteggere i nostri pescatori. Ma non sarebbe male se, nel frattempo, le varie marine militari che incrociano le nostre acque per intercettare i battelli dei pirati somali cominciassero a fare anche questo lavoro di protezione dei somali contro le navi dei predoni di risorse ittiche e dei trafficanti di veleni. Conservo un ritaglio del quotidiano londinese in arabo Sharq Al Awsat del 5 ottobre 2009 in cui si riferisce di una brillante operazione militare con cui una nave da pesca spagnola impegnata a pescare – illegalmente – in acque territoriali somale, viene sottratta a un tentativo di sequestro da parte di pirati somali. In altri termini: messi di fronte al conflitto fra predatori (perché non pirati?) spagnoli e pirati somali, i «giustizieri» della NATO proteggono i primi e sparano sui secondi. Quando si parla di pirateria i somali non possono fare a meno di constatare almeno due paradossi: che i milioni di dollari usati per pagare le navi da guerra in funzione antipirati figurano come «aiuti alla popolazione somala»; e che mentre la stampa internazionale celebra le gesta eroiche compiute contro i filibustieri non risulta un solo intervento umanitario da parte di queste navi da guerra a favore delle migliaia di profughi somali che ogni giorno prendono il mare per sfuggire alla fame e alla violenza e spesso finiscono annegati. Pretendere di stroncare la pirateria senza risolvere la crisi somala è tanto assurdo quanto cercare di eliminare i sintomi più fastidiosi di una malattia senza eliminare la causa scatenante della malattia. Quel che dico sulla pirateria non passi per il solito piagnisteo autoassolutorio che cerca di nascondere colpe e responsabilità dell’Africa addebitando tutti i suoi guai all’egoismo e al cinismo del Nord del mondo. Non ho alcuna 270


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difficoltà ad ammettere che, ben prima dell’emergenza pirateria, sono stati soprattutto l’intrattabilità, l’inaffidabilità, la cecità e l’egoismo dei principali attori politici somali a rendere la crisi somala sempre più «indigesta» per la comunità internazionale. Al punto che si è fatta strada nel mondo l’idea che la Somalia sia un caso disperato, un paese cui si possa soltanto destinare qualche aiuto umanitario. Il miraggio della soluzione africana Purtroppo alle colpe di noi somali si sono aggiunti due decenni di errori e superficialità da parte degli attori internazionali intervenuti in Somalia. Una catena di abbagli e di equivoci (di cui altri prima di me hanno già compiuto ricostruzioni dettagliate) fu inaugurata nel 1992 da Bush Senior con l’operazione americana Restore Hope, il cui fallimento fu ereditato dall’ONU e si compì sotto le sue bandiere. A partire da quel momento si è applicata al caso somalo la recente dottrina diplomatica secondo cui «le crisi africane vanno affidate agli Africani» e di preferenza alle organizzazioni regionali africane competenti. In virtù di questa dottrina, poiché la Somalia fa parte del Corno d’Africa (siamo «il Corno del Corno») parve naturale affidare la crisi somala all’IGAD (Inter Governmental Authority on Development). Ma l’IGAD, come dice il suo acronimo, è un organismo tecnico, creato nel 1986 per fronteggiare le varie emergenze legate a una devastatrice invasione di cavallette e alle siccità cicliche che flagellano la regione. Solo nel 1996 si cercò di trasformare questo «comitato antiemergenza» in una delle organizzazioni regionali africane che dovrebbero facilitare il dialogo e la cooperazione fra il nostro continente e il resto del mondo. Peccato che la famiglia dei sette Stati che compongo l’IGAD (Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Uganda e Kenya) sia la più disomogenea e litigiosa fra le comunità 271


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africane, dove coabitano paesi in stato di guerra latente (come Etiopia-Eritrea e Sudan-Uganda), o separati da conflitti secolari (come Etiopia e Somalia), o divisi da tensioni nate con le rispettive indipendenze (come Somalia e Kenya). Affidare la gestione della crisi somala all’IGAD significava affidarla in primo luogo all’Etiopia, paese che la diplomazia internazionale considera il partner più affidabile e il «socio di riferimento» dell’IGAD. E infatti per anni il governo di Addis Abeba è stato il protagonista della gestione africana della crisi somala, fino a ricevere il mandato di occupare militarmente e presidiare Mogadiscio. Un disastro nel disastro, tanto è vero che è stata la stessa diplomazia internazionale a esigere il ritiro delle truppe etiopiche dalla Somalia alla fine del 2008. Perché l’Etiopia non è stata né poteva essere l’honest broker di cui c’era bisogno in Somalia? Chi conosce il Corno d’Africa e la sua storia non si è mai illuso che potesse pacificare la Somalia proprio l’Etiopia, paese condizionato da una diffidenza storica e reciproca nei confronti del suo vicino. Primo requisito di ogni buon mediatore deve essere la sua accertata imparzialità. E non è questo il caso degli attuali governanti di Addis Abeba, convinti (è una costante della loro storia patria) che da una Somalia che ritornasse ad essere un attore forte e stabile nella regione del Corno l’Etiopia non potrebbe aspettarsi nulla di buono. Al contrario. Il migliore degli scenari, per Addis, è sempre stato quello di avere come vicino un governo somalo alleato-vassallo. Sembrò a un certo punto corrispondere a questo disegno il governo somalo di transizione presieduto dal colonnello Abdullahi Yussuf, gravato com’era da una duplice ipoteca: da un canto la carta costituzionale federale, discutibile politicamente e insostenibile finanziariamente e una transizione inopinatamente lunga (cinque anni sono un’eternità). Abdullahi Yusuf era per gli etiopici più di un alleato, era piuttosto un loro «cliente» se non addirittura un loro gendarme. Egli faceva so272


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lo quello che i suoi principali fornitori di armi e di legittimità politico-diplomatica gli lasciavano fare. Ivi compresa la «riconquista» di Mogadiscio, in mano alle Corti Islamiche, a cannonate. Come se non sapesse che nessun somalo potrà mai accettare di vivere sotto protettorato etiopico. I ruoli degli attori africani nel processo di riconciliazione somalo si sono rimescolati a partire dalla decisione di Addis Abeba di ritirare le sue truppe alla fine del 2008. Mentre l’Etiopia ha ridotto nettamente la sua influenza, ha conservato il suo ruolo positivo il Kenya che, malgrado il permanere di qualche contenzioso bilaterale, trarrebbe solo vantaggi dal ritorno di un governo forte e stabile a Mogadiscio. Il Kenya è stato e rimane una retrovia essenziale per tutti gli attori politici somali e ospita centinaia di migliaia di profughi somali. E Nairobi resta la principale fra le «capitali in esilio» della Somalia. Altri due partner dell’IGAD, Gibuti ed Eritrea, hanno assunto con il tempo un ruolo decisivo nella gestione della crisi somala. L’Eritrea, guidata dalla sua bussola antietiopica ma anche ispirata da una vecchia amicizia e alleanza con la Somalia, è stata la prima – come si è detto – a offrire una tribuna e un ruolo internazionale a quel nuovo soggetto politico somalo che è l’«Islam moderato» incarnato dal presidente Sheikh Sherif Sheikh Ahmed. Il che ha rilanciato un processo di riconciliazione che sembrava al punto morto. Quanto a Gibuti, non è solo un nostro vicino che non ha mire sulla Somalia. È un paese per noi fratello, la cui popolazione è in maggioranza somala. Anche per questo il governo di Gibuti è stato pronto ad assumere l’onere di ospitare il grande circo itinerante dell’ennesima conferenza di riconciliazione nel 2008. In più a Gibuti sono di casa, per una ragione o per un’altra, anche potenze occidentali come Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e molti Stati arabi. Né va dimenticato che il nuovo assetto del processo di pa273


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ce somalo va oltre il perimetro dell’IGAD e ha la benedizione dell’Unione Africana, sotto le cui bandiere agiscono le truppe africane, soprattutto burundesi e ugandesi, che presidiano come possono Mogadiscio e il governo di transizione. Un processo di riconciliazione reso possibile dall’Europa e un’occasione perduta per l’Italia La fase finale del processo di pacificazione non sarebbe mai approdata ad alcun risultato concreto se non fosse stato sostenuta per quasi vent’anni dalla buona volontà e dai mezzi materiali messi a disposizione dall’Unione Europea, dall’l’Italia e da qualche altra capitale del Vecchio Continente. Durante tutta la lunghissima conferenza in Kenya capitava che decisioni fondamentali venissero prese, talora dettate, come accade nella vita, da coloro che pagavano il conto. E tutti sapevano che il processo di riconciliazione si sarebbe fatalmente arenato se i partner occidentali non avessero continuato, tappa dopo tappa, a finanziarne la continuazione. Tutti sapevano per esempio che l’ambasciatore kenyano Bethuel A. Kiplagat, vero regista della conferenza fin dal momento in cui questa si trasferì da Eldoret a Nairobi, correva a Bruxelles ogni volta che si trovava al verde, e lì restava fino a quando non otteneva (grazie all’interessamento di Roma, Londra o dei paesi scandinavi) i fondi necessari a finanziare la continuazione delle trattative. All’Italia l’ultima fase del processo di pacificazione somalo ha offerto una buona occasione per acquistare peso internazionale. Un’occasione meno costosa e meno rischiosa rispetto all’Irak e all’Afghanistan, che la diplomazia italiana ha saputo gestire con abilità, almeno fino a quando non decise di sostenere a fondo, a braccetto con l’Etiopia, le ambizioni presidenziali del warlord Abdullahi Yusuf. Roma si illuse di ridurre i tempi della pacificazione facendo ricorso a un «uo274


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mo forte»? Oscure rimangono per me le motivazioni di questa scelta. Poiché l’Italia di Berlusconi, come peraltro quella precedente, di centrosinistra, non ha una sua politica africana, bisogna dedurne che l’artefice principale della politica somala di Roma è da considerare il rappresentante speciale italiano per la Somalia, Mario Raffaelli, già sottosegretario per l’Africa dal 1983 al 1989, con Craxi e Andreotti, nominato nel 2002 da Berlusconi e rimasto in carica fino alla fine del 2008. Sei anni di mandato non sono pochi, soprattutto per gli standard italiani, e tuttavia il bilancio di tanto lavoro appare ai miei occhi assai deludente. Cerco di spiegare perché. Quando si giunse finalmente alla fase decisiva della conferenza kenyana e dell’intero processo di pace, gli obiettivi prioritari apparivano due: consolidare e sviluppare lo spirito di riconciliazione di tutta la famiglia somala; ricostruire con il consenso di tutti un nuovo sistema istituzionale capace di ridare alla Somalia uno Stato nazionale e una carta costituzionale funzionanti. Rimandando a una fase successive la scelta degli uomini cui affidare la guida di tali istituzioni. Ma quest’ottica fu inopinatamente rovesciata quando alcuni attori somali e alcuni partner internazionali del processo – Italia in testa – ritennero fosse prioritario trovare «uomini forti» da mettere alla testa del processo e scelsero Abdullhai Yusuf come il candidato più adatto a quest’impresa, da insediare al più presto al vertice delle istituzioni di transizione. Raffaelli si dette da fare più di chiunque altro per istituzionalizzare il ruolo di Abdullahi Yusuf, forzando la mano agli altri partner occidentali e ignorando le riserve provenienti dall’interno della stessa Farnesina. Lo dico con cognizione di causa essendomi io dato molto da fare per mettere in guardia Raffaelli contro i rischi e le conseguenze che questa scelta comportava. La linea di Realpolitik difesa da Raffaelli consisteva nel di275


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re: poiché i signori della guerra sono quelli che controllano il territorio, che fanno il bello e il cattivo tempo, è dal riconoscimento del loro ruolo che deve partire il negoziato in vista della riconciliazione e della ricostruzione dello Stato. Ma non ci fu vero negoziato. Dall’idea originaria, che era quella di affidare la rinascita dell’amministrazione pubblica somala alla società civile e di «includere» i warlords in questo processo per non spaventarli e antagonizzarli, si passò a una sorta di consegna del potere a un «consorzio» di signori della guerra. Lasciando la società civile, di fatto, ai margini del processo. La situazione appariva tanto più fumosa in quanto l’Italia, come altri attori occidentali, non rivendicava apertamente la paternità di questo piano. Dissimulava il suo ruolo di decision-maker affermando che la sua diplomazia non faceva altro che appoggiare «le soluzioni scelte dagli attori africani del processo». Il gioco diventò assai più chiaro il giorno in cui, in perfetta sintonia con l’Etiopia, Raffaelli cercò di pilotare gli eventi verso uno sbocco inatteso. Convocò a Roma una Conferenza dei donatori dove, facendosi garante nei confronti dell’Unione Europea, dichiarò che l’Italia avrebbe reperito i fondi per la costituzione in Somalia di una trusteeship internazionale affidata a una Commissione ad hoc, che avrebbe dovuto essere presieduta da Raffaelli stesso. Si intravedeva insomma, dietro la grande diplomazia, la manovra di due uomini che cercavano di realizzare le loro personali ambizioni: Abdullahi Yusuf cercava di blindare la sua presidenza con una cauzione internazionale e Raffaelli puntava a ricevere dalla comunità internazionale la carica e il ruolo di «ricostruttore della Somalia». Le cose, come si sa, andarono diversamente e il potere di Abdullahi Yusuf si sciolse come neve al sole. Da qui quello che considero un fallimento della politica e della diplomazia italiana, che ha fatto perdere quattro anni di tempo alla Somalia. 276


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Dopo l’offuscamento, speriamo temporaneo, del ruolo dell’Italia, è continuato l’impegno e il ruolo assai positivo dei paesi scandinavi e della Gran Bretagna, sempre disponibili diplomaticamente e in termini di aiuti materiali verso tutte le iniziative tendenti alla ricostruzione. L’Unione Europea in quanto tale non ha mai cessato di assistere regioni, forze e singole organizzazioni impegnate nell’alleviare le sofferenze della popolazione e consolidare «isole di pace». E non ha cessato nemmeno di monitorare il processo politico di riconciliazione tramite la presenza di emissari anche di rango, come il belga Louis Michel, Commissario belga allo sviluppo e agli aiuti umanitari fino alla primavera del 2009. Un ruolo assai utile, anche se meno visibile, hanno giocato i paesi scandinavi (Svezia, Norvegia e Danimarca) d’intesa con le Nazioni Unite, finanziando la commissione incaricata di vegliare all’embargo sull’importazione delle armi allora decretato in Somalia. Era il modo migliore di fare pressione sui signori della guerra, tagliando loro le unghie in via preventiva. Un esercizio purtroppo di efficacia limitata, data la lunghezza e dunque la permeabilità delle frontiere terrestri con l’Etiopia e di quelle marittime. Per chiudere queste frontiere bisognava fare pressione direttamente ed energicamente sulle autorità di Etiopia e Yemen. Ne avevano e ne hanno i mezzi gli Stati Uniti e le ex potenze coloniali che oggi fanno parte dell’Unione Europea. Forse lo hanno anche fatto, ma non con la sufficiente energia. Anche Mogadiscio spera in Obama Altri attori, naturalmente, oltre a quelli africani ed europei, hanno agito ed agiscono sulla scena della crisi somala. Attori che appaiono e scompaiono in funzione di un contesto che cambia in continuazione. Due timori, molto diversi fra loro, possono oggi spingere paesi che contano a interessarsi di 277


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Somalia e di Corno d’Africa: la paura dell’«internazionale terrorista» e la paura dell’espansionismo cinese. Cui si è aggiunto, da qualche tempo, il fenomeno già citato della pirateria. Il primo timore, apparso già sul finire degli anni Novanta, è diventato psicosi dopo gli attentati contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar Es Salaam e dopo l’11 settembre, quando hanno cominciato a circolare voci ricorrenti sulla possibilitá che uomini e gruppi riconducibili ad Al Qaida, e addirittura lo stesso Bin Laden, trovassero rifugio fra le pieghe di una società somala disintegrata. Il fatto è che a un certo punto l’amministrazione statunitense, senza aspettare la resurrezione dello Stato somalo, ha affrontato la questione delegando al Pentagono e ai servizi segreti il compito di gestire il «rischio Somalia» e prendere unilateralmente tutte le contromisure necessarie. Da quel momento generali e agenti segreti americani non hanno avuto difficoltà a comprare presso questo o quel signore della guerra i «lasciapassare» necessari a intervenire direttamente in Somalia, a Mogadiscio, Giohar, Baidoa oppure nel Bari – con navi, elicotteri e commandos USA, per catturare terroristi veri e presunti e portarseli via. In qualche caso l’esecuzione senza processo di somali sospetti è addirittura avvenuta con il lancio di missili direttamente dal mare. Così è stato ucciso a Guri El, sperduto villaggio prossimo a Dusa Mareb, Ayro, uno dei più noti capi religiosi islamisti. Molto più di recente, nell’agosto del 2009, una squadriglia di elicotteri USA proveniente dall’Oceano Indiano ha attaccato un convoglio di miliziani «Shaabab» in viaggio fra Bur Acaba e Baidoa, a nord di Mogadiscio. Secondo le autorità americane, unica fonte di informazione sull’operazione, si è trattato di un blitz contro «terroristi non somali legati ad Al Qaida». Ci sarebbero stati tre morti, un ferito e un numero imprecisato di prigionieri, portati via dagli elicotteri. Gli americani non possono non aver a lungo pensato che il 278


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giorno in cui in Somalia ritornassero un’amministrazione, delle autorità legittime e uno Stato di diritto mai più essi avrebbero le mani così libere. Proprio questo tipo di considerazioni ha provocato, credo, un prolungato raffreddamento dell’impegno degli Stati Uniti, che pure sono stati fra i promotori della conferenza di riconciliazione nazionale in Kenya. In una prima fase, 2001-2002, Washington mandò alla conferenza un suo rappresentante speciale assai attivo, il cui messaggio principale, finché partecipò alla conferenza, consisteva nel dire che non bisognava affidare ai soli signori della guerra le redini del futuro governo somalo. Una volta richiamato questo inviato speciale, Washington lasciò la sua sedia vuota per oltre un anno. Solo nella fase conclusiva della conferenza fu nominato un nuovo rappresentante, un diplomatico che aveva trascorso in Europa la maggior parte della sua carriera. Ma il ruolo degli Stati Uniti rimase abbastanza discreto e non interamente decifrabile, salvo una apparente riserva, una certa freddezza, nei confronti di Abdullahi Yusuf. Dico apparente perché, se ci fosse stato un veto americano, mai l’Etiopia, principale sponsor del colonnello, sarebbe riuscita a imporlo alla presidenza. Una certa ambiguità americana si spiega probabilmente con il fatto che il principale obiettivo di Washington in Somalia è rimasto quello di contrastare la crescita e la «messa in orbita» di personaggi direttamente o indirettamente legati alla galassia fondamentalista. L’America porta ancora i segni del trauma militare e politico subito ad opera di Aidid nel 1993. Una ferita così profonda, tanti anni dopo, da indurre Bill Clinton a includere fra i principali rimorsi delle sue memorie quello di avere «supinamente accettato l’invio dei soldati americani in Somalia». Le cose sono cambiate con l’amministrazione di Barack Obama. Un segno ai miei occhi positivo, di realismo, è stato il beneplacito concesso da Washington alla costituzione del nuovo esecutivo presieduto da Sheikh Sherif, che è pur sem279


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pre un ex dirigente delle Corti Islamiche. Il ritorno della diplomazia statunitense a un ruolo attivo e costruttivo verso la crisi somala – dopo tanto esitare fra stabilizzazione e destabilizzazione del nostro paese – accresce le speranze di avere un governo più autorevole, dotato delle prerogative e dei mezzi necessari a guidare il ritorno alla normalità. Del grande attivismo cinese in Africa, di cui tanto si parla, non ci sono per il momento tracce visibili in Somalia. E si può capire. La Cina non è più quella di Mao e Zhou En-lai degli anni Cinquanta e Sessanta, che in cambio dei suoi aiuti, talvolta importanti, cercava in Africa soprattutto un tornaconto politico-ideologico «rivoluzionario» da spendere nella sua competizione con Mosca e nella sua battaglia per recuperare il proprio ruolo alle Nazioni Unite e ridimensionare quello della Cina nazionalista. Oggi la Cina rivaleggia in Africa con le potenze occidentali, con la loro corsa per accaparrarsi le risorse naturali del continente. Nel medio-lungo termine scopriremo forse che ha preso più di quanto non abbia dato, ma per il momento questa concorrenza Cina-Occidente offre agli africani spazi e opportunità. Suscita intanto timore lo sforzo poderoso che questo grandissimo paese sta compiendo per assumere sulla scena internazionale il ruolo politico ed economico che gli spetta. La Cina nuova potenza mondiale cerca spazi ben oltre l’Asia, in tutti i continenti, Africa compresa. Tanto più se l’Occidente continua a trattare questo continente come una sorta di riserva strategica, da presidiare senza però assumere troppi costi, né troppi rischi.

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Capitolo sedicesimo

L’ombra dell’Islam sul futuro dell’Italia e della Somalia

Mi trovai un giorno a Torino a discutere con una signora marocchina musulmana praticante, senza velo né ciador ma coperta dalla testa ai piedi. Una donna che definirei moderna e aperta, docente all’università. Ragionavamo insieme sulle questioni sociali più urgenti legate all’immigrazione e sui partiti politici italiani più o meno sensibili verso tali problemi. E lei mi disse: «A me piacciono le cose che dicono quelli di Rifondazione Comunista, ma mi trovo di fronte a un dilemma: come faccio a votare o suggerire di votare per dei non credenti, per degli atei?». E precisò subito come le fosse altrettanto chiaro che, qualora avesse voluto orientare il voto degli elettori musulmani verso politici italiani «credenti», correva il rischio di portare la sua comunità in braccio al centro-destra, cioè lontano dalle aspettative dei musulmani italiani. Mi sforzai di imbastire un discorso convincente sulla separazione fra cosa pubblica e religione. Spiegai che il potere politico-amministrativo è una funzione istituzionale, che appartiene alla comunità delle persone che vivono su un territorio ed è al loro servizio, ma che è estraneo alle diverse affiliazioni religiose, individuali o di gruppo. Che la nostra società è disposta per cerchi concentrici: con al centro una zona comune a tutti di valori, di giustizia, di regolamenti, di codici di comportamento; e con un cerchio esterno che include la nostra casa, dove facciamo come crediamo e il nostro luogo di culto – chiesa, sinagoga, moschea – dove pra281


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tichiamo le nostre rispettive fedi. E conclusi dicendo che la migliore lezione in proposito ci viene dagli Ebrei, che da secoli, se non da millenni, hanno imparato a conciliare le esigenze della vita pubblica e di quella privata. Per un verso fanno parte integrante del paese in cui vivono – Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia – tanto da assumervi posti e ruoli di primo piano in ogni campo, senza rinunciare a dividersi politicamente in conservatori e progressisti. Senza per questo rinunciare, in privato, alla loro fede religiosa e al rispetto scrupoloso dei riti previsti, nei giorni e nei luoghi deputati. Non convinsi, temo, la mia interlocutrice di allora, né credo che l’insieme dei musulmani presenti oggi in Italia si sia fatto un’idea della separazione fra Stato e religione. Come potrebbero d’altra parte? Dove sono i maestri, i teorici che potrebbero illustrare questo caposaldo della cultura istituzionale europea? I musulmani che vivono oggi in Italia sono in genere persone approdate qui in modo fortuito e talora fortunoso, assillate dalla ricerca costante di un lavoro, dotate di mezzi materiali e culturali assai rudimentali. Che altro possono fare, per sapere come comportarsi, se non pendere dalle labbra dei teologi della scuola egiziana di Al Azhar, massima istituzione dell’Islam sunnita, o di altre scuole islamiche famose? Da queste autorità religiose si levano peraltro voci ragionevoli, come quella del rettore di Al Azhar, Tantawi, che è intervenuto nell’interminabile dibattito – un vero psicodramma – europeo sul tema del velo (ammetterlo o proibirlo?) ricordando semplicemente che nessuna norma islamica prescrive alle donne di nascondere il volto quando sono in pubblico. Sono comunità, le nostre, che non hanno ancora una vitalità culturale propria, indipendente. Ecco perché sono convinto che le collettività musulmane che si vanno costituendo in Europa hanno – e manterranno a lungo – un ruolo fondamentalmente conservatore. Penso esattamente l’opposto di coloro che già si strappa282


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no i capelli pensando all’Europa cristiana «in via di islamizzazione», prossima a una rivoluzione islamica che metterà fine alla civiltà del Vecchio Continente. Un nuovo spettro si aggira per l’Europa Poiché ho una certa dimestichezza sia con il Corano sia con i testi sacri, se posso dire così, del marxismo, dedico agli europei ossessionati dall’Islam una piccola provocazione che consiste nel rileggere il famoso preambolo del «Manifesto del Partito Comunista» di Carlo Marx sostituendo all’ormai obsoleto «spettro del comunismo» l’attualissimo «spettro dell’Islam». Basta rimpiazzare le parole Comunismo e comunisti con Islam e islamici per leggere: «Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dell’Islam. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa caccia spietata a questo spettro. L’Islam è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ormai tempo che gli islamici espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze...». Quando contesto l’esistenza di un «complotto islamico» su scala mondiale, o anche soltanto europea, non nego di certo l’esistenza di pericolosi gruppuscoli di esaltati farneticanti. A Torino, Milano e altre città italiane compaiono leader religiosi locali, sbrigativamente presentati dai media come «teologi fondamentalisti», che propugnano la violenza, organizzano cellule estremiste, reclutano giovani da mandare alla Jihad, potenziali kamikaze. Che bisogna fare? Bisognerebbe, tanto per cominciare, chiamare le cose con il loro nome e quindi negare a questi personaggi la qualifica di teologi. Nessun musulmano dotato di buon senso e di un minimo di conoscenza della cultura islamica può scambiarli per «dottori della legge». Si assiste in Italia, con la crescita delle comunità di religione islamica, alla proliferazione di 283


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mini-moschee create alla bell’e meglio in locali di fortuna, spesso fatiscenti. Delle «moschee-garage», direi. Luoghi di riunione e di preghiera, certo, ma voluti e retti a volte da piccoli avventurieri tanto ambiziosi quanto incolti, a caccia di popolarità, di prestigio, di benessere materiale. Queste moschee-garage esprimono di solito imam-garagisti di modesta levatura dottrinale, chiamati a risolvere le piccole questioni religiose quotidiane sollevate dai «fedeli» in materia alimentare, famigliare, rituale. Altra cosa è il possibile coinvolgimento di questi personaggi e dei loro seguaci in pericolose trame eversive e/o terroristiche. Si prenda il caso paradigmatico dell’«imam milanese» Abu Omar, sequestrato dalla CIA in Italia, deportato in Egitto e alla fine rilasciato senza che qualcuno sia riuscito a dimostrare in un qualche tribunale una qualche sua colpa. Io non conosco quest’uomo e non lo difendo, ma la tragedia che ravviso dietro il suo caso è che perfino gli USA, non trovando elementi sufficienti per spedirlo a Guantanamo, non hanno esitato a consegnarlo al suo paese di origine, l’Egitto, perché lì avvenisse un «lavoro sporco», illegale e contrario ai diritti umani, che alla fine non ha dato risultati. E non si tratta di un caso isolato, visto che risulta anche di cittadini yemeniti ed etiopici illegalmente catturati in giro per l’Europa e trasferiti in centri di detenzione nei loro paesi di provenienza. Il panorama dell’Islam italiano, così povero teologicamente, non è molto diverso da quello del resto d’Europa, compresi i paesi dove le comunità musulmane esistono da più tempo, come in Inghilterra e Francia. Non vedo da nessuna parte esponenti musulmani dotati della necessaria caratura culturale. E per raggiungere spessore culturale, secondo me, non basta una conoscenza, anche vasta, dell’Islam. Ci vuole una formazione aperta, onnicomprensiva, comparativa, che aiuti i musulmani a vivere l’Islam nel contesto storico e sociale dell’Europa di oggi, anziché ri284


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mandarli ottusamente all’Islam vissuto nel loro paese d’origine o addirittura a quello mitico «delle origini», idealizzato dai fondamentalisti. Insomma, così come cambia l’angolazione dell’ago della bussola – quando per pregare cerco la Mecca a partire da Mogadiscio o da Stoccolma – allo stesso modo devo adattare tutta la mia vita quotidiana al contesto sociale in cui mi trovo. Devo confrontarmi con la società che mi ospita. Ma è inutile cercare traccia di queste riflessioni nei discorsi degli imam che officiano nelle «moschee-garage»: è gente capace solo di ripetere ossessivamente quanto sterilmente la lista delle lagnanze e delle rivendicazioni «islamiche». Manca all’Islam una cultura della minoranza simile a quella sviluppata dagli ebrei Una volta venne a trovarmi un signore che si presentò, con le dovute cautele, come un rappresentante dei servizi segreti italiani. Voi somali aumentate, mi disse, siete ormai una comunità. Se avete problemi fra di voi o nei vostri rapporti con gli altri è meglio se ci avvertite tempestivamente. Potremo aiutarvi meglio. Io gli risposi che i somali, come tanti altri, hanno o creano problemi solo se hanno fame. Evitate dunque che abbiano fame, ribattei, ed eviterete i problemi. Allora il mio visitatore fece un esplicito riferimento a una piccola moschea del quartiere torinese di San Salvario, che appariva – disse – «problematica». Gli chiesi perché mai le autorità italiane non favorissero la costruzione di moschee grandi, dove vanno tutti, legalmente strutturate nel loro funzionamento, trasparenti insomma. Come succede a Roma, dove le moschee-garage non hanno preso piede perché la comunità musulmana dispone a Forte Antenne di una monumentale moschea, una sorta di «San Pietro». E il mio interlocutore mi spiegò che sbagliavo, che loro – i servizi di sicurezza – ritengono di controllare me285


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glio i focolai di estremismo nelle piccole moschee. Non so chi di noi abbia ragione. Nel frattempo quelli della Lega, imitati da alcune amministrazioni di sinistra, tanto per non sbagliare, hanno imboccato la strada assai pericolosa che si riassume nello slogan «Basta nuove moschee». Io resto favorevole alle moschee grandi perché sono più «visibili» e più difficili da manipolare, da conquistare all’estremismo. E continuo a suggerire alle autorità italiane, quando me lo chiedono, di proteggere le città dalla proliferazione delle piccole e incontrollabili mini-moschee seguendo l’esempio di Roma. Bisogna aiutare i musulmani a scoprire quella «cultura della minoranza», cui mi riferivo prima, che gli ebrei praticano da millenni ma che è quasi sconosciuta nelle società islamiche. Tutto questo è possibile, ovviamente, nel contesto di uno Stato di diritto, fra i cui fondamenti figuri la separazione fra Stato e religione. E qui viene il difficile, perché rarissimi sono gli immigrati musulmani in Italia, e più generalmente in Europa, che abbiano conosciuto la condizione di «minoranza» nel proprio paese d’origine. E altrettanto, se non più rari ancora, sono gli immigrati che abbiano conosciuto a casa loro lo Stato di diritto. Chi si sente troppo chiuso da quella gabbia, o irretito dalla cultura dell’«altro», si fa cristiano e magari si fa anche chiamare Cristiano. Un amico mi ha chiesto se nasceranno, prima o poi, in Italia o altrove, partiti politici ispirati all’Islam, più o meno apertamente confessionali, destinati a rappresentare le comunità immigrate. Se guardiamo ai paesi europei dove l’immigrazione, non solo musulmana, ha una storia più consolidata, constatiamo l’assenza di partiti politici, confessionali o di matrice etnica. Cresce invece il numero di cittadini europei di origine asiatica o africana che, affiliati ai partiti politici già esistenti, siedono nelle assemblee locali, nei parlamenti nazionali o financo nei governi. Il che non impedisce loro di 286


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difendere gli interessi e le rivendicazioni delle diverse comunità immigrate da cui provengono. Io credo insomma che, come si suol dire, «i musulmani pregano sempre rivolti verso la Mecca»: hanno una bussola che li orienta in qualsiasi luogo e situazione. E credo che così sarà anche in Italia, dove quasi tutti i partiti – così come i sindacati e associazioni di ogni genere – cominciano ad aprire le porte agli immigrati. Le cose vanno a rilento in Italia perché le comunità musulmane incontrano, nel loro cammino verso la piena emancipazione civile e politica, diversi ostacoli. Mentre manca, ad esempio, un nucleo di «borghesia islamica/italiana» in grado di definire e promuovere gli interessi comunitari, le collettività musulmane si confrontano con due paternalismi: quello espresso dalle proprie autorità consolari, che con la scusa di assistere i propri cittadini (penso ai marocchini di Torino) ne controllano in realtà le attività; e quello espresso dallo Stato italiano attraverso la recente invenzione degli «organismi consultivi», destinati soprattutto a promuovere il consolidamento di un «Islam moderato» (che nessuno sa bene cosa sia). Posso naturalmente sbagliarmi, ma ritengo che l’azione dei governi dei paesi d’origine e quella del governo italiano rischiano di frenare e manipolare il naturale processo di emancipazione politica in seno alle comunità immigrate. Verranno prima o poi momenti, credo, in cui moderati e radicali, fautori dell’integrazione e fautori del «separatismo» troveranno obiettivi comuni da perseguire, senza mediazione alcuna. Già che parlo dei paesi islamici e delle loro classi dirigenti, sarà forse opportuno segnalare che raramente tali classi dirigenti appaiono composte da musulmani ferventi e praticanti. Basta salire su un aereo che da qualsiasi capitale islamica, anche la più tradizionalista e bigotta, come Riyadh, vola verso l’Occidente, per assistere a una scena che a me è sempre parsa molto eloquente. La scena è quella di signore e signorine, non solo giovanissime, che senza alcun imba287


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razzo si liberano dei veli e delle palandrane in cui devono infagottarsi nei loro paesi, predisponendosi all’immersione nel contesto occidentale e alla mimetizzazione con esso. Sono donne presumibilmente agiate, verosimilmente irreprensibili, che tuttavia si sentono più libere di quanto non prevedano i codici di comportamento dei paesi nei quali vivono. I dirigenti dei paesi islamici sono spesso come queste donne. Percepiscono e vivono il rispetto delle norme islamiche più come un’ipocrisia necessaria per governare, e mantenere l’ordine, che non come l’applicazione di precetti dettati dalla fede. Vai, a titolo privato, a casa di un ministro, anche in Arabia Saudita o ad Abu Dhabi, e ti saranno offerte quasi con civetteria tutte le bevande alcoliche, dal whisky alla birra, bandite da eventi e banchetti ufficiali. Dilaga insomma un permissivismo che le autorità non possono certo ignorare, prova del fatto che si rispetta formalmente l’Islam in omaggio a un «sentire popolare» che è bene non perturbare ma al quale quasi nessuno più è disposto a concedere la propria anima e la propria esistenza, e nemmeno a uniformare il proprio stile privato di vita. Anche la paura di perdere il potere ha un peso nel perpetuare questa fedeltà formale all’Islam, soprattutto presso le monarchie più tradizionaliste, che tuttavia continuano a mandare sistematicamente in Occidente i loro rampolli e i loro capitali. La stragrande maggioranza dei regimi islamici contemporanei, monarchici e repubblicani, vive sotto il ricatto permanente dei movimenti integralisti islamici, forti di un appoggio popolare di cui nessun potere costituito dispone. Questa paura dei fondamentalisti non fa che accrescere l’antagonismo fra gli obiettivi politici dell’integralismo e quelli dei figli dell’establishment i quali prima o poi tornano, con le loro ambizioni, dall’Occidente nei loro paesi d’origine. Imam e sceicchi che vivono immersi nelle loro disquisizioni teologiche, voltando sdegnosamente le spalle alla 288


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modernità, appaiono tanto più perniciosi alle nuove generazioni più emancipate in quanto usurpano e stravolgono il «messaggio divino». Ma il Corano, lungi dal chiedere agli uomini di rinchiudersi nelle scuole di teologia, li spinge a espandersi, a viaggiare, a conoscere il mondo, i popoli e le culture. E suggerisce ai musulmani di rispettare gli «altri» e le loro culture perché solo così può sperare di essere rispettato e risparmiato a sua volta. Non si può escludere, c’è anzi da sperare, che fra questi dirigenti islamici «illuminati» ce ne sia almeno qualcuno che si richiami all’Islam aperto e creativo del Medio Evo, attento al mondo esterno, spesso all’avanguardia nel campo della scienza e della cultura. Il punto è che mentre i gruppi dirigenti più o meno illuminati, più o meno riformisti, cercano il loro cammino, i predicatori del fondamentalismo riescono qualche volta a impadronirsi del potere e addirittura a vincere delle elezioni democratiche. I poteri costituiti insomma rischiano ad ogni momento, anche quando cercano di laicizzarsi «a porte chiuse». Sanno di poter essere scalzati un giorno dai fautori dello Stato teocratico. E per di più a furor di popolo. Come fa a funzionare un sistema democratico quando si accorge che il rispetto delle sue regole rischia di consegnare il potere a chi vuole abolire la democrazia stessa? I musulmani e l’Olocausto La sfida dei modernisti è tanto più difficile in quanto ci sono dirigenti integralisti capaci di intercettare il consenso popolare non soltanto sui temi della religione, ma anche promettendo «ordine e giustizia» in seno alla società oppure toccando corde sensibilissime come quelle del nazionalismo. Si prenda il tanto esecrato presidente iraniano Ahmadinejad. Se è semplicemente inaccettabile quello che dice sull’Olocau289


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sto e la storia d’Europa, molto meno cervellotica appare – almeno a me – la sua «rivendicazione nucleare». Mettetevi nei panni di un qualsiasi iraniano, figlio di una nazione che ha una storia millenaria, cittadino di un paese grande e dotato di grandi risorse naturali, fronteggiato da un Irak con cui è stato a lungo in guerra e per di più circondato da vicini che hanno già quasi tutti – Russia, India, Pakistan, Israele – la bomba atomica. Ma perché mai dovrebbe scegliere la condizione di unico «denuclearizzato»? E perché mai un paese con la storia e il peso dell’Iran, che aveva costruito un impero molto prima che l’America venisse «scoperta» dagli Europei, che dispone oggi di risorse umane e materiali importanti, dovrebbe sottostare ai dettami del giovane impero americano? Ahmadinejad sa di dare voce a un rifiuto dell’egemonia statunitense che va ben oltre i confini persiani. Stiamo attenti a non coltivare l’illusione che tutti i dirigenti fondamentalisti s’interessino esclusivamente di teologia e non sappiano fare politica. Che ha fatto l’Occidente per aiutare concretamente il riformista Khatami nella sua sfida all’integralista Ahmadinejad? So bene che la pessima reputazione di cui Ahmadinejad, rieletto nel giugno del 2009, gode in Occidente è legata anche al suo proclamato desiderio di «cancellare Israele dalla carta geografica» e alla sua reiterata negazione dell’Olocausto. E so che gli europei si chiedono: ma i dirigenti islamici rimangono indifferenti di fronte alle provocazioni di Ahmadinejad perché sono negazionisti o perché seguono il proverbio arabo secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Non vedo molti dirigenti o intellettuali arabo-islamici negare la realtà storica dell’Olocausto. Ciò che rende l’Olocausto «sospetto», presso l’opinione arabo-musulmana, è il fatto che proprio il popolo che ha subito ieri l’Olocausto conculchi oggi i diritti di un altro popolo. E che questo popolo e i suoi alleati invochino l’«eredità della Shoah» – così 290


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sembra ai palestinesi e ai loro alleati – come una sorta di passe-partout etico-politico per rendere accettabile l’inaccettabile: l’occupazione militare, la colonizzazione, tutte le asprezze della repressione. Che altro è la nascita di ogni nuova «colonia» israeliana nei territori occupati se non la cancellazione di un pezzetto di terra palestinese dalla carta geografica? Posso sbagliarmi, ma credo che se Ahmadinejad ha dissotterrato l’ascia del «rifiuto totale di Israele» – con la rozzezza intellettuale che gli appartiene – è per cogliere di sorpresa i governi arabi, ai suoi occhi sempre più concilianti verso Israele, sempre meno interessati alla sorte della Palestina, e proporsi come «guida» morale e politica dell’intero mondo musulmano. E non si tratta di un’ambizione insensata, visto che l’Islam non si è mai identificato con questo o quel gruppo etnico e nel corso della storia ha affidato il suo governo a dirigenti musulmani di origine diversa: ai «fondatori» arabi hanno fatto seguito gli egiziani, i persiani, i turchi. L’attuale gruppo dirigente iraniano si candida alla leadership ritenendo che, per ragioni diverse, tutte le altre «grandi nazioni» che hanno fatto la storia islamica – come gli arabi e i turchi – abbiano abbandonato il progetto stesso di porsi alla guida di un «unico popolo islamico» compatto e forte, la Umma, per dargli un ruolo di primo piano sulla scena politica mondiale. Umma di cui l’Iran fa parte allo stesso titolo della Palestina e dell’Iraq, dell’Afghanistan e del Pakistan. Il limite di un simile disegno lo si trova semmai nei giochi e nei conflitti interni all’Islam, per esempio fra Sunniti e Sciiti.

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Somalia. Cronologia 1860 La Francia occupa la «Côte Française des Somalis», attuale

Gibuti.

1887 La Gran Bretagna instaura il Protettorato del Somaliland. 1889 L’Italia crea nel Benadir un Protettorato che diventerà la So-

malia «italiana».

1936 L’Italia invade l’Etiopia e crea l’Africa Orientale Italiana (Etio-

pia, Somalia, Eritrea). 1941 Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna occupa la Soma-

lia italiana. 1950 L’ONU instaura l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in So-

malia (AFIS) dandole un mandato decennale per «preparare la Somalia all’indipendenza».

1956 Prime elezioni somale e creazione di un esecutivo che gestisce

l’autonomia interna del territorio. 1960 La Somalia ex-italiana e il British Somaliland acquistano l’indi-

pendenza e si fondono nella Repubblica Somala, presieduta da Aden Abdullah Osman. 1964 Guerra di frontiera fra Somalia ed Etiopia. 1967 Abdirashid Ali Shermarke è eletto Presidente della Repubblica. 1969 Shermarke è assassinato e le forze armate prendono il potere sot-

to la guida del Capo di Stato Maggiore, Mohamed Siad Barre. 1970 Siad Barre proclama il «socialismo scientifico» e si allea con Mosca. 1974 La Somalia aderisce alla Lega Araba. 1975 La Somalia è colpita da una gravissima siccità che porta deser-

tificazione e carestia. 1977 La Somalia invade la regione etiopica dell’Ogaden, abitata da

somali. 1978 Consiglieri sovietici e truppe cubane aiutano l’Etiopia a ricon-

quistare l’Ogaden. Siad Barre rompe con l’URSS. 1981 Costituzione su base tribale dei primi movimenti armati contro

il regime di Siad Barre.

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1991 Gennaio: bande armate entrano a Mogadiscio e costringono

Siad Barre a fuggire nel sud. Maggio: la Repubblica indipendente del Somaliland viene proclamata nell’ex-protettorato britannico. A Mogadiscio si scontrano i «signori della guerra». 1992 L’amministrazione americana Bush (senior) invia un corpo di

spedizione a Mogadiscio per riportare la pace e distribuire aiuti umanitari. 1994 Le truppe USA, tenute in scacco dai miliziani del warlord

Mohamed Aidid, lasciano Mogadiscio e passano la mano alla missione «Unisom» dell’ONU. 1995 Le truppe ONU lasciano la Somalia. 1996 Il «generale» Aidid muore dopo un attentato ad opera dei suoi

rivali tribali.

1998 La regione nord-orientale del Puntland proclama la sua auto-

nomia politica e amministrativa. 2000 Conferenza a Gibuti tra le fazioni armate e i capi tribali. Abdika-

sim Salad, eletto Presidente provvisorio della Somalia e Ali Khalif Ghelaydh, primo ministro, si insediano a Mogadiscio. 2001 Una coalizione di signori della guerra appoggiati dall’Etiopia sfi-

da il governo provvisorio. L’ONU lancia un appello per aiutare mezzo milione di Somali minacciati dalla siccità nel sud. 2004 Una nuova conferenza di riconciliazione riunita in Kenya dà vi-

ta, dopo quasi due anni di negoziati, a un «parlamento provvisorio» che elegge il warlord Abdullahi Yusuf (leader del Puntland) nuovo «Presidente provvisorio».

2006 Il Parlamento provvisorio si insedia a Baidoa in febbraio. In

giugno-luglio le milizie integraliste agli ordini delle «Corti Islamiche» espugnano Mogadiscio e riaprono porto e aeroporto, chiusi dal 1995.

2006 Dicembre: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adotta una risolu-

zione che approva la costituzione di una «forza di pace africana» ad opera dei paesi confinanti. Le forze armate etiopiche e quelle del governo provvisorio di Abdullahi Yusuf riconquistano e occupano Mogadiscio, scacciando le Corti Islamiche.

2007 Febbraio-maggio: una forza di pace dell’Unione Africana arriva

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a Mogadiscio dove infuriano i combattimenti tra il corpo di spedizione etiopico (spalleggiato da Abdullahi Yusuf) e le milizie islamiche. Nuovi massacri ed esodo di civili. 2007 Ricompaiono le bande di pirati al largo della Somalia, si molti-

plicano i sequestri di mercantili. 2007 Settembre: l’Eritrea ospita ad Asmara una conferenza che sanci-

sce l’alleanza tra gli oppositori parlamentari del Governo di Transizione (tenuto in piedi dall’Etiopia) e i principali gruppi islamici. I combattimenti si intensificano a Mogadiscio e nel sud. 2008 Giugno: la cosiddetta «Alleanza per la Ri-Liberazione della So-

malia», costituitasi in Eritrea, firma con il Governo di transizione un accordo che prevede un cessate il fuoco immediato e il ritiro, entro l’anno, delle truppe etiopiche dalla Somalia. Respingono questo accordo le milizie estremiste «Shabab» e la frazione più radicale delle Corti Islamiche, guidata da Hassan Dayr Aweys.

2008 Ottobre: la NATO organizza il pattugliamento internazionale al

largo della Somalia per contrastare la pirateria. 2009 Gennaio: l’Etiopia completa il ritiro delle sue truppe. A Gibuti

il Parlamento di transizione coopta 149 rappresentanti dei movimenti islamici «moderati» ed elegge l’ex-numero due delle Corti Islamiche, Sheikh Sherif Sheikh Ahmed, Presidente provvisorio per due anni. Primo ministro diventa l’ex-diplomatico Omar Abdirashid Ali Shermarke, nazionalista laico e figlio del Presidente della Repubblica ucciso nel 1969. 2009 Maggio-dicembre: le milizie «Shabab» attaccano a Mogadiscio,

conquistano Kisimayo e proclamano la loro alleanza con Al Qaida.

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Eritrea

Golfo di Aden

Gibuti Sudan

Issa

Alula

Issak Bosaso

Hafun

Las Khorey Erigavo

Berbera

Somaliland

Gadabursi

Hargheisa

Etiopia

Garoe

an

d

Burao Las Anod

Pu

ntl

Dolbohanta Warsangeli

Marrehan

Migiurtini

Galcayo

Dighil Mirifle

Dusa Mareb

Obbia

Belet Weyn Alto Giuba

Hawiye

Baidoa

Medio Giuba

Basso Giuba

ba Giu

Kenya

Oltre Giuba

Bardere

Merca beli She

Brava

Giamama Kisimayo

Ogaden Migiurtini

Mogadiscio

Somalia


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Autobiografia di un uomo impegnato nel destino del suo Paese fino al carcere e all’esilio e di una nazione infelice nella sua marcia verso il disastro questo libro di Mohamed Aden Sheikh che dà ragione anche delle non felici mutazioni del nostro Paese nell’ultimo ventennio viene stampato nel carattere Simoncini Garamond dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia nel maggio dell’anno duemila dieci


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