Generazioni ribelle - i quaderni ritrovati

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GENERAZIONE RIBELLE QUADERNI RITROVATI

GENERAZIONE RIBELLE. QUADERNI RITROVATI

Roberto Speciale

€ 12,00

STATI DI LUOGO DIABASIS

Roberto Speciale è nato a Chiavari (Genova). È stato protagonista negli anni Sessanta delle Associazioni universitarie e del Movimento studentesco. Ha svolto il ruolo di segretario del PSIUP di Genova ed è stato eletto nel comitato centrale di quella organizzazione. Successivamente consigliere comunale di Genova e consigliere regionale della Liguria, è stato segretario provinciale e regionale del PCI dalla fine del 1980 al 1989 entrando nella Direzione nazionale. È stato eletto al Parlamento Europeo per due legislature fino al 1999. In seguito ha dato vita al Centro In Europa e alla Fondazione Casa America – organizzazioni culturali di cui è presidente – che si occupano di Europa e di America Latina, realizzando eventi, ricerche e pubblicazioni, fra le quali «In Europa» e «Quaderni di Casa America». Ha scritto numerosi articoli e saggi per questi periodici e per diversi quotidiani e riviste. Ha curato la redazione di due libri sull’Europa – Europa in chiaro e L’Europa in corso – con prefazioni di Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi.

Roberto Speciale

Tre quaderni di appunti, ritrovati per caso, raccontano un passato recente, una storia individuale e collettiva in una Liguria che sembra antica ma è vera, viva. Forse ribelli si nasce e gradualmente ci si forma una visione del mondo, si impara a camminare con determinazione scoprendo l’umanità che ci circonda, il piacere della cultura e della politica ma anche la quotidianità, gli affetti, il divertimento, l’ironia. Una generazione trova se stessa nel Movimento studentesco e nell’impegno politico, vissuto con passione e generosità. E ora? C’è il rischio di rimanere prigionieri nel labirinto nel quale si è costretti perché si è spezzato il filo di Arianna, cioè la ragione necessaria per uscirne. Sembra a volte che un vento di sabbia sommerga molte cose: volgarità e corruzione si diffondono. Guida dell’azione diventa sempre più la vanità, l’arroganza, il solipsismo. Rimane solo la fuga o c’è ancora bisogno di ribellione?

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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

In copertina Mark Kostabi, Liquid Fantasy, 2004, collezione privata

ISBN 978-88-8103-670-7 Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it


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Ringraziamenti A Gabriella, interlocutrice paziente A mia figlia Monica Ai miei fratelli A Luciano De Angelis, Stefano Zara, Ennio Remondino e Carlo Rognoni, lettori attenti e consiglieri A Carlotta Gualco per la sua attiva collaborazione A tutti coloro che leggeranno e che vorranno esprimere la loro opinione: roberto.speciale@centroineuropa.it info@casamerica.it


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Incipit

Ho riscoperto dei miei quaderni di appunti scritti nel passato. Li ho riletti e rivisitati. Ho deciso infine di pubblicarli come testimonianza di un pezzo di vita, tracce lasciate nel corso degli anni. Quella storia parla di molti, non di uno solo. Contiene riflessioni che mi appartengono ma anche avvenimenti, episodi, atmosfere che forse hanno ancora qualche cosa da dire ad altri. La buona politica c’era ed io ho avuto la fortuna di incontrarla più volte. Ce n’è ancora o siamo invasi in modo irrimediabile dalla cattiva politica? Ripercorro le persone che ho incontrato e le guardo con affetto, mentre rivivo le azioni che descrivo con un certo distacco. È una contraddizione solo apparente: ciò che rimane, alla fine, è il calore dell’uomo, non la sua dinamica che dura un attimo. Le incursioni nei tempi più recenti sono rade e brevi per impedire alla passione o, peggio, alla polemica, di prendere troppo spazio e di occupare la scena. Mi hanno spinto a questa scelta anche alcuni amici con i quali mi sono consigliato. In particolare però devo questa decisione ad uno sconosciuto che ha ritrovato quei quaderni e li ha conservati. È diventato anche lui un amico, forse il più convinto, il più appassionato. Non ci conoscevamo ed invece è diventato per me – ed io per lui – una specie di alter ego. Un suggeritore ma anche, sempre più, una sfaccettatura del cristallo che ci definisce e ci completa. 5


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Gli sono riconoscente perché ha conservato con intelligenza e con curiosità ciò che non era suo, per il coraggio che ha dimostrato supplendo a quello che io non avevo e a quello che non avrei avuto, forse, al suo posto. La sua storia dimostra che è facile per ognuno di noi varcare quella linea sottile che divide una persona da una personalità. La condizione per effettuare questo passaggio è perseguire un obiettivo con sensibilità, onestà e determinazione. La sua storia è lui stesso a raccontarla con una lunga lettera, alla fine della quale saranno chiari i sentieri percorsi per ricongiungerci. È bene che la lettera apra questo libro nella sua integralità, così come io l’ho ricevuta. R. S. Caro signor Roberto, le scrivo, come mi è stato suggerito, sperando che lei sia la persona che cerco e che mi possa quindi aiutare a dare una risposta a quella che ormai per me è una vera e propria ossessione, e cioè dare un nome all’autore dei quaderni che ho ritrovato. Le spiego tutto dall’inizio. Ho trascorso una vita banale, fino a quel giorno. Per molti anni ho fatto il muratore poi, dopo l’incidente, mi sono dovuto reinventare un lavoro. Mi è andata ancora bene, perché ho avuto l’occasione, assieme ad uno più giovane di me, di acquistare un camioncino. Ci chiamavano per svuotare di tutti gli arredi le case che dovevano essere abbandonate, ristrutturate o vendute. Lavoravamo soprattutto nelle zone di campagna e nell’entroterra perché le residenze più pregiate facevano parte di un altro giro. Sì, qualche volta ci chiamava qualcuno di questi più privilegiati, in odore di antiquari, ma per portare via solo le cose senza valore. In tutti i casi il nostro lavoro era quello di smaltire mobili,oggetti, carte ritenuti inutili. Solo qualche cosa poteva essere rivenduto o riutilizzato; il più delle volte dovevamo portarle, di nascosto, in qualche discarica o bruciarle in un piccolo terreno di mia proprietà nel basso Piemonte. 6


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Io mi chiamo Robiano Deale. Non mi sono mai sposato, troppa fatica, e non ho figli. Sono vissuto tra Liguria e Piemonte, essendo nato a Cremolino 53 anni fa. Quel giorno però siamo stati chiamati, per la prima volta e in rapida successione, a svuotare tre case a Genova. Lo ricordo nitidamente. In Salita alla Spianata di Castelletto dovevamo sgomberare alcuni piccoli appartamenti. Era un lavoro duro perché non si poteva arrivare con l’auto fin sotto il portone. Facemmo grande fatica. Forse per questo non mi piaceva l’idea di bruciare o distruggere tutto senza neppure guardare ciò che era capitato tra le mie mani. In Vico Cinque Lampadi, vicino alla Cattedrale, fu anche peggio: molte scale ripide, senza ascensore ovviamente, e il camioncino doveva restare in Piazza Scuole Pie. Finimmo a tarda sera, avendo iniziato la mattina presto. In via dei Sansone, in Carignano, la situazione era molto simile ma la residenza era più grande, più elegante e conteneva molti più oggetti. Insomma, non mi piace girare intorno al lume, non sono abituato a far perdere tempo alle persone. In poche parole, da quel momento, sono un po’ cambiato ed ho inteso il mio lavoro in modo diverso dal passato. Non mi bastava più trasferire le cose e distruggerle, ora volevo guardarci dentro, capirle e ricostruire la loro storia. Sarà stata la fatica, sarà stata la magia degli oggetti che maneggiavo, sarà stato che da tempo era in corso un processo di cambiamento nella mia testa, sta di fatto che quella volta non bruciai né distrussi nulla. Portai tutto nel mio piccolo terreno e passai mesi a studiare ogni mobile, ogni oggetto e soprattutto ogni carta. Ho fatto tante scoperte incredibili, sulle quali ancora sto riflettendo. Voglio parlare di una sola questione, e cioè del ritrovamento, nei tre diversi indirizzi, di tre quaderni di appunti. Uno di questi ha la copertina nera, i fogli a righe e il filo delle pagine esterne ha una bordatura arancione, quasi rossa. Il secondo ha 7


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in copertina l’immagine di Alice nel Paese delle meraviglie (sono corso a leggere questo libro e ne sono stato stupefatto) e di nuovo dei fogli a righe all’interno. Il terzo non ha propriamente la forma di un quaderno. È un insieme di fogli bianchi con una grafia che scende dall’alto al basso, tenuti assieme da una fascetta incollata. In questo caso, pur non essendo io uno psicologo, il modo di scrivere mi sembra più tormentato, rivela forse irrequietezza. I diversi quaderni hanno un elemento in comune: sono scritti in prima persona sotto forma di racconto, quasi dei diari. Ne sono stato colpito, sia perché sono così diversi dalla vita che io ho vissuto, sia perché contengono osservazioni che personalmente non immaginavo. Mi sono immedesimato in quelle tre vite, in quei racconti, in quelle personalità sino a dimenticare la mia e forse ad annullarla. Ho preso quelle tre persone e le sto facendo mie per compensare una vita banale. I quaderni non sono stati firmati o intestati e la gran parte delle persone è citata solo per nome. Di nessuno dei tre sono riuscito finora a sapere il nome dell’autore e quindi il resto della storia, quella non raccontata. E poi sono frutto di fantasia o corrispondono alla realtà? Qualche volta vorrei, lo confesso, indossare quegli abiti ed adattarli a me. Anzi ho pensato seriamente che, con l’aiuto di qualche taglio e di qualche cucitura apocrifa, (ho letto che si dice così), potrei mettere assieme i tre quaderni e farne un unico racconto di vita, la mia. Ormai ho rotto tutti i rapporti con il mio collega di lavoro, che mi guarda e mi parla come si farebbe con uno fuori di testa. Gli ho regalato la mia parte di camioncino a condizione che mi lasci in pace, si dimentichi di me. Ho altro da fare adesso ed io mi sono già dimenticato di lui. Ho continuato le ricerche per individuare l’autore o gli autori dei tre quaderni. Dopo molte interviste senza esito ho incontrato alcune persone che sembravano sapere. Erano però stranamente vaghe, reticenti. 8


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Di fronte alle mie insistenze qualcuna di loro mi ha indirizzato a un libraio antiquario di Roma, avvertendomi che forse lui poteva avere le notizie che cercavo. Così sono andato a trovarlo nel suo piccolo negozio, ingombro di libri, di carte e di oggetti curiosi. Si è dimostrato una persona simpatica, aperta, ironica. Ha qualche anno più di me, è alto, calvo e con un imponente paio di baffi rossicci. Parla un ottimo italiano, all’occasione anche il dialetto, ma dal suo nome – Max – e da altri particolari, ho intuito una sua origine straniera, forse inglese (o irlandese, o scozzese). Lui ha glissato elegantemente sulla sua identità originaria e mi ha detto di essere e di sentirsi genovese. Gli ho spiegato tutto. Mi ha ascoltato con attenzione e, con un sorriso, mi ha detto che crede di sapere chi sia la persona che cerco. In effetti lui conosce bene, dai tempi dell’università, chi ha abitato presso quegli indirizzi che ho ricordato. Ha continuato a sentirsi e a vedersi con quella persona. Non sa nulla però dei quaderni che io ho trovato e anzi mi è sembrato molto stupito della loro esistenza. Ha fatto una lunga telefonata dal suo cellulare, uscendo all’aperto, fuori dal negozio, e dopo mi ha fornito il suo nome ed indirizzo. Mi ha chiesto di scriverle, di spiegarle tutto, di mandarle copia dei quaderni. Mi ha invitato al riserbo. Così ho fatto, scrivendole subito. Mi dica, la prego, se è veramente lei la persona che cerco e che cosa devo fare. Robiano Deale

Così ho risposto a quella lettera, dopo pochi giorni: Caro R. D., la ringrazio molto della sua lettera e dei quaderni. Le confermo che sono proprio io l’autore di quegli scritti e che quella è parte della mia vita. 9


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Me ne ero dimenticato, o forse volevo dimenticarmene. È materia della quale mi sono spogliato, che guardo, si può dire, dall’esterno. Proprio per questo credo che sia possibile pubblicarli e forse potrebbero essere di qualche utilità. La ringrazio moltissimo per il suo lavoro di conservazione, che dimostra curiosità e passione, qualità sempre più rare. Comprendo che abbia, ad un certo punto, desiderato identificarsi con quella descrizione di vita perché in effetti lei, in un certo qual modo, le ha dato nuova vita. Me ne sono andato per non assistere al declino irreversibile delle coscienze. Non c’è quasi più nessuno che si oppone. Non mi fraintenda. Non parlo di opposizione a uomini, partiti, governi, ma a valori, comportamenti, atteggiamenti che distruggono una società, una nazione ed ancor più un’umanità che è, o era, in molti di noi. Ho avvertito il respiro della barbarie insinuarsi tra di noi, ho percepito un vento di sabbia che sommerge ogni cosa. Secondo me si è spezzato il filo di Arianna che è la logica, la razionalità che permette di non perderci e da allora restiamo necessariamente imprigionati nel labirinto. Per questo sono andato via, per non condividere il labirinto. Non per salvarmi, perché nella solitudine che ho scelto non c’è salvezza. C’è solo distanza. Sono andato via per non perdere la ragione. Forse, inconsciamente, con questo atto ho avvertito altri: non perdete la ragione e se proprio volete fermarvi nel labirinto, dedicatevi a ricucire il filo spezzato. Ho lasciato gran parte della mia biblioteca alla persona che lei ha conosciuto, Max, perché la custodisca per un po’ di tempo, scaduto il quale potrà utilizzarla come meglio crede. Gli ho consegnato anche due quaderni di appunti scritti recentemente e che riguardano la vita e le attività svolte negli ultimi anni. La prego, se lei è d’accordo, di rimanere in rapporto con quel mio amico e di contribuire alle decisioni sull’utilizzo della mia biblioteca e degli appunti che ho lasciato. Rimanga in contatto con me, se anche lei lo desidera, perché penso di aver trovato un nuovo amico. R. S. 10


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Primo quaderno

Forse ribelli si nasce. Per quanto mi riguarda il periodo contò molto: gli ultimi anni della guerra quando, per molti, diventava ormai insopportabile la violenza e la dittatura e nasceva il movimento partigiano. Non che io, ovviamente, ne sapessi o ne capissi qualche cosa, allora, ma si respirava nell’aria. Lo dicono anche i miei primi ricordi. Per un certo periodo ho pensato che fossero innestati, cioè impressi nella mia memoria dai racconti degli altri, ma no, non è possibile, sono troppo nitidi e forti per essere presi in prestito. Sono con la mia famiglia a Pozzuolo di San Terenzo, nella casa dei miei nonni materni. Vicino c’è la Baia blu, anzi la Spiaggia dei morti, come veniva chiamata allora e per lungo tempo dopo perché il gioco delle correnti aveva trascinato diversi cadaveri fin lì. Dalla collina dopo si estende il porto della Spezia, allora militare, lungo tutto il golfo. Il porto era un obiettivo sensibile ed era oggetto ripetuto di bombardamenti. Sono tornato in età adulta su quella spiaggia, quando aveva cambiato nome: mi è sembrata meno affascinante, aveva perso l’alone di mistero e di tragedia. Suonano improvvisamente le sirene di allarme che annunciano l’arrivo di aerei “nemici”. Ci precipitiamo verso un bunker che è a due passi dal cancello di casa, dall’altra parte della strada. Non so se c’è ancora. Da molti anni non compio una visita ai luoghi della memoria ma quel bunker lo ricordo bene perché è rimasto intatto per tantissimo tempo. Mia madre, mia nonna, mio fratello più grande ed io (forse mia zia), carichi di materassi e cuscini per collocarli alle fe11


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ritoie e alla porta d’ingresso. C’è un pianto di bambino. Non sono io che anzi mi sento tranquillo, forse un po’ eccitato, sicuramente poco consapevole. È mio fratello: è caduto dalla scala per la quale si accede al rifugio e si è fatto male. E in una incredibile sarabanda di suoni vicini e lontani, in un’eccitazione che pervade mia madre che non sa se preoccuparsi di più della caduta di suo figlio o delle sirene che continuano a suonare, entriamo finalmente tutti aspettando che passi il bombardamento, senza danni. Tutti? No, mio nonno non c’è. È rimasto a casa, come sempre, dicono con sguardi obliqui e sospiri di compatimento le donne di casa. Lui aspetta l’urto, non se ne preoccupa. C’è una sfida al pericolo ma anche l’idea che qualcuno deve rimanere a presidiare la casa, la proprietà. Questi sentimenti sono più forti della paura, che è immancabile. C’è un racconto che lo riguarda, ed è fatto solo di sguardi: è una sequenza cinematografica. I nazisti (immagino dopo il settembre del ’43) avevano occupato la casa dei miei nonni ed avevano piazzato le mitragliatrici alle finestre. La posizione di quell’abitazione era strategica, proprio sulla strada, alla curva, e quella era l’unica strada tra Lerici e La Spezia. Da lì la vista sul golfo era completa e il controllo, sui possibili movimenti, totale. Non rimasero molto tempo, credo, ma sufficiente a creare tensione e fortissima preoccupazione. Ad un certo punto un tedesco prende una bicicletta per requisirla ed in cambio porge un biglietto scritto nella sua lingua, di nessun valore ovviamente, e forse è una presa in giro. L’azione si svolge al piano terra della villetta dove, tra le altre cose, erano riposti tutti gli attrezzi di lavoro. Ci sono i miei nonni e il tedesco che afferra la bicicletta. Tutto si svolge in silenzio. Mio nonno, nel momento in cui il tedesco si impossessa della bicicletta, alza lo sguardo alla parete dove è appesa una roncola – e lì è rimasta a lungo anche dopo –, e misura la distanza, lo spazio e il tempo. Il tedesco è di fronte a lui, beffardo prima e poi serio, attento: segue lo sguardo di mio nonno. Mia nonna 12


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indirizza degli occhi di ghiaccio, di terrore, verso mio nonno per dissuaderlo. Dissolvenza, la scena finisce, ognuno ritorna alle proprie posizioni senza conseguenze, ma in quella stanza sono rimasti gli sguardi appesi ai muri o almeno io credo di averli ritrovati. Un uomo grande, robusto, mio nonno. Di famiglia romana ma da sempre alla Spezia. Qui ha incontrato (alla spiaggia: conservo foto d’epoca!) e poi sposato, mia nonna, nata alla Spezia, ma di famiglia emiliana. Un duro, all’apparenza, in verità burbero ma dal cuore tenero. Mi è apparso chiarissimo la prima volta, alla lettura dell’immancabile letterina di Natale dedicata a lui: piangeva come una vite tagliata. E di vite se ne intendeva. Coltivava intorno alla casa un po’ di tutto e allevava animali di piccola taglia. Un operaio-contadino, si potrebbe dire. Macchinista sulle navi mercantili, poi ferroviere, poi proprietario di una piccola officina di cromatura. È il cromo, credo, e i suo veleni che l’hanno portato via relativamente presto. Ho saputo della sua morte, a Genova. Avevo 11 anni, facevo sforzi giganteschi per non piangere. Mia madre se ne è accorta e allora mi ha preso in braccio ed io, in modo inusuale, non ho fatto resistenza. Mi ero già dato una regola: quella di non piangere per quanto grande fosse il dolore. Non credo di averla rispettata sempre. Sicuramente non l’ho fatto per mia madre, per la mia amica-parente Kucchi (complice anche un po’ di alcol per sopportare la notizia), recentemente per il mio grande cane bianco York (ma si sa! Con il passare degli anni il cuore si intenerisce). Mio nonno sì che era un ribelle, normalizzato poi, come tutti i ribelli. Quando si parlava del suo passato (e anche del presente, a dire il vero), si abbassava la voce, gli sguardi si incrociavano, non bisognava far sentire alle “creature”. L’unica cosa che ero riuscito a carpire è che era stato espulso da tutte le scuole del Regno, così si diceva allora. Il perché non è mai stato detto, non l’ho mai saputo e non lo so ancora adesso. Un’infrazione grave, certo, per quei tempi. Una precocità sessuale? 13


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O, in modo più verosimile, un atto di insubordinazione all’autorità? Che aveva sicuramente una soglia di tolleranza molto bassa. Sta di fatto che, forse anche per questo, stimavo ed amavo mio nonno. Pensavo che fosse stato vittima di un’ingiustizia e che avesse dovuto soffrire molto per quella decisione. È stato il primo che mi ha introdotto, senza volere, alla politica. L’ho sentito parlare con altri di elezioni. Discutevano su quale simbolo votare e l’ho visto con decisione indicare uno strano cerchio con falce e martello. I riferimenti al presente mi sembravano più ambigui, meno eroici, ma mi astenevo dal giudicarli. Nel bisbigliare ovattato della casa, comparivano delle figure femminili. Ed una volta ne ebbi la certezza quando la nonna paterna, in occasione di una visita a casa sua nel centro della città, nello stesso palazzo del cinema-teatro Monteverdi (che era della sua famiglia, e quindi un poco anche mio) lo apostrofò irosamente pronunciando le parole proibite. “Stia zitto lei, che è un puttaniere!”. Mio nonno, senza dire una parola, se ne andò a testa bassa, umiliato più che adirato, e tutti noi dietro. Mia nonna aveva perdonato il marito perché in età adulta le sentii dire, quasi fra sé, che in effetti la colpa era sua, in un periodo nel quale i sistemi anticoncezionali erano ridotti praticamente ad una sola metodologia: astenersi! Se ci si riusciva. Volevo bene anche a mia nonna paterna. Era affettuosa, sempre composta, con una certa eleganza. Offriva il Marsala all’uovo, sempre e solo quello. Era nata a Montevideo da famiglia spezzina ed ancora le scappavano frasi in castigliano. Aveva sposato un ufficiale di Marina di Napoli che era venuto, assieme ad altri, a far decollare il porto della Spezia e la sua ambizione militare. Il secondo ricordo che conservo è più bucolico. Sono a Cogorno, sopra a Chiavari, “sfollati” come si diceva. Mio padre, ufficiale di Marina di carriera, come tutta la sua, e nostra, ascendenza, era tornato dalla Grecia ed era stato assegnato o stava per esserlo, alla Capitaneria di porto di Genova. A volte sorprende la circolarità della vita e delle relazioni tra gli uomini. Un po’ di anni fa ho conosciuto a Bruxelles 14


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Emanuele Gazzo e ho frequentato la sua famiglia, le figlie, e Marina in particolare, che lavorava con il padre. Emanuele, che era di Genova, e qui aveva esercitato la professione di giornalista, ancora giovane era andato all’estero, prima in Lussemburgo e poi in Belgio, e aveva fondato e diretto, per moltissimi anni, un’agenzia giornalistica europea. L’Agence Europe era uno strumento indispensabile per tutti i frequentatori delle istituzioni comunitarie. Mi disse un giorno, e per me fu una rivelazione, che conosceva mio padre e che avevano lavorato assieme, al porto di Genova, alla Capitaneria. Se ne ricordava bene. Non potei dirlo a mio padre, perché era già mancato e questo mi dispiacque molto. A Cogorno ricordo solo mia madre e me. Sono all’aperto e sono di fronte alla porta di una modesta casetta. Ho in mano un cucchiaio e un piatto di alluminio, vuoto ormai. Conteneva, penso, una minestra, Vicino a me ci sono un fiasco di vino e un signore anziano, seduto, che se la ride sotto i baffi. La leggenda vuole che io, finita la minestra, mi servissi dal fiasco. Chissà se era vero! La sequenza temporale tra i due ricordi non mi è chiara. Forse questa è precedente perché io sono nato a Chiavari e Cogorno è proprio lì sopra. In ogni caso non ne sono certo. Sono certo invece che quei primi anni hanno determinato per lo meno una parte dei miei gusti alimentari: il minestrone appunto, il castagnaccio sicuramente, forse anche la polenta e perché no?, può darsi anche il vino. La farinata e lo stoccafisso sono venute dopo e le cose più raffinate molto dopo. D’altra parte mi sembra proprio così, se vogliamo dar credito ad Alexis de Toqueville che, nei primi capitoli del suo La democrazia in America, inizia in questo modo: “L’uomo è per così dire tutto intero nelle fasce” ed aggiunge: “qualcosa di analogo avviene per le nazioni”. Vale anche per il carattere? Si nasce ribelli, inquieti, o al contrario, docili, conformisti, prudenti? John Steinbeck dice una cosa in parte diversa, ma collegabile, e cioè “Per me l’A15


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merica è la prova che i luoghi segnano chi vi nasce, non solo nella parlata, ma anche nell’aspetto” e per dare forza a questa idea, racconta il seguente episodio: “ Una volta… un ragazzo alto e allampanato dell’Oklaoma, mi ha detto: ‘Tu sei californiano’ ‘Come lo sai?’ ho domandato sorpreso. ‘Hai la faccia da californiano’ ha detto e io non avevo la minima idea che i californiani avessero una ‘faccia’.” Che strano! Dopo questi primi ricordi non ne ho più fino all’età della scuola, a Genova. È come se, per un certo periodo di tempo, avessi vissuto sospeso. Forse quei flash hanno impresso la pellicola della memoria in modo così folgorante che, per un po’ di tempo, non c’è stata la possibilità di incidere altro. O più semplicemente la memoria era in attesa di eventi che meritassero attenzione. Come si forma una personalità o, per dirla in tono più basso, un carattere? So bene che ci sono manuali, intere biblioteche che ne parlano, ma andiamo al sodo. È vero che ognuno di noi è la conseguenza dell’ambiente e di chi ha frequentato? E cioè la famiglia, gli amici, i conoscenti, la scuola ecc.? È difficile negare che ci possa essere una certa influenza di questi fattori, ma se si forza questo concetto si cade dritti nel determinismo. E allora, ognuno di noi è ciò che mangia, come potrebbero sostenere dei macrobiotici estremi? Credo, al contrario, che si mangia e si fa quello che si è. Anche le frequentazioni influenzano, ma sono influenzate a loro volta, e non c’è nulla di meccanico. Insomma, ognuno è già, in gran parte, ciò che è nelle fasce. Quando dico (o meglio dicevo: ora sono più prudente) “Sono quel che sono” so che attorno a me si scatena un putiferio. Ecco un bell’alibi per non cambiare e per giustificare tutto quello che fai. Capisco, ma non è così. Voglio solo dire che il mio carattere è delineato, preciso, si può smussare ma non capovolgere e forse non lo si vuole neppure se si è abbastanza soddisfatti di sé. Questo non vuol dire che gli altri debbano inchinarsi a te ed anche a quelli che considerano difetti, e che magari tu stesso classifichi in quel modo. Voglio solo di16


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re che l’uomo non è una gelatina, un pongo che si può plasmare in continuazione a seconda delle circostanze. Si può cambiare, ma non molto. Si possono modificare abitudini, atteggiamenti, e a me è capitato. Sono vissuto a lungo come cittadino, razza metropolitana. I palazzi, l’asfalto, i rumori mi hanno sempre accompagnato e li ho vissuti con piacere. Ad un certo punto mia moglie mi olia bene e mi convince a scegliere la libertà, ad andare a vivere nel verde, in campagna, via dalla “rumenta” del centro storico e dalle centinaia di scalini necessari a guadagnarci il paradiso di casa. “Mah, proviamo”, mi dico. Scopro una nuova dimensione, inaspettata. Forse riemerge un’eredità antica e un’esperienza fanciullesca. Sta di fatto che mi adatto quasi subito. In effetti è tutto diverso, nel bene e nel male. Non ci sono più i rumori che salgono dai vicoli e dalla vicina via San Lorenzo, non ci sono più i piccioni che tubano sui davanzali e sul terrazzo al mattino presto e a tutte le ore, non ci sono soprattutto le campane della Cattedrale che entrano con prepotenza in camera. È sparito il napoletano che dalla finestra davanti nei giorni di festa metteva a tutto volume il suo repertorio musicale dialettale al completo. Come scrive Mario Soldati in America primo amore, ospite a New York per un giorno di una famiglia italo-americana mentre suona il campanello: “… si preparavano a riceverlo ricaricando col vecchio grammofono la vecchia atmosfera italiana: di quella Italia anglo-americana di Sole mio e Torna a Surriento che non ci lasciava, che ci dava stu turmiento appena fuori d’Italia”. D’inverno, nella nuova locazione, non c’è un rumore, c’è quasi da aver paura. D’estate qualche falciatrice, qualche motosega e molte cicale, grilli, qualche civetta o altri uccelli notturni. È un’altra vita. Scalini ce ne sono ancora, ma molti meno. La posizione è un po’ isolata, ideale per i ladri, e infatti ci visitano senza essere invitati. È una violazione violenta, non entrano solo in casa, ma in te stesso, portano via oggetti che sono un pezzo anche piccolo della tua vita. 17


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Roberto Speciale

Generazione ribelle Quaderni ritrovati

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Incipit

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Primo quaderno

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Secondo quaderno

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Terzo quaderno

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Singolo uomo e vicenda collettiva di una generazione ribelle divenuta protagonista del Paese (la buona politica c’era e fu una fortuna incontrarla) questi ritrovati quaderni vedono la luce di stampa nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni nel lavoro della tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Edizioni Diabasis nel novembre dell’anno duemila nove


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