Clara dos Anjos

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LIMA BARRETO

CLARA DOS ANJOS PREFAZIONE DI STEFANO ROLANDO

DIABASIS

Romanzo



Al Buon Corsiero 路48路


Opera pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura del Brasile/Fondazione Biblioteca Nazionale

Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto Redazione Anna Bartoli Leandro del Giudice Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-750-6

Š 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: commerciale@diabasis.it www.diabasis.it


Lima Barreto

Clara dos Anjos A cura di

Vincenzo Russo e Roberto Vecchi Prefazione

Stefano Rolando Traduzione

Romina Santini e Franco Gurgone

D I A B A S I S


Nota editoriale Il volume Clara dos Anjos è stato tradotto da Romina Santini e Franco Gurgone. Un'attenta revisione del testo è stata compiuta da Vincenzo Russo. La prefazione al volume è di Stefano Rolando che, oltre a essere un esperto di comunicazione, è un profondo conoscitore del Brasile sin dai tempi della dittatura militare. La postfazione Clara dos Anjos: razza, classe e genere in una periferia chiamata Brasile è curata da Roberto Vecchi.


Prefazione

Perché proporre Clara dos Anjos un secolo dopo, alla sua prima traduzione in lingua italiana? Perché proporre un testo importante della “letteratura degli esclusi” nel Brasile delle immense differenze sociali proprio quando il Brasile, ridotte parzialmente quelle differenze (pur sempre in parte esistenti), organizza la più grande vetrina mondiale del terzo millennio (Olimpiadi, Mondiali, forse Expo) per presentare se stesso come player di prima grandezza? Perché fare luce su una figura femminile di una età senza diritti quando il processo di emancipazione delle donne ha creato una soglia irreversibile in larga parte del mondo, pur se derogata e aggredita quotidianamente? Tenderei a non rispondere a nessuno dei tre quesiti. Perché il lettore che ha in mano la traduzione italiana del romanzo di Lima Barreto ha già risposto correttamente in tutti e tre i casi. È un lettore che non è frenato dalla “moda”, ha sguardo storico e cerca di adattare la realtà del presente alle sue evoluzioni. Un lettore che ama il mondo e che, pur se dentro a inevitabili stereotipi, ha sul Brasile una percezione di complessità che rende appassionante la scommessa del presente a condizione di non avere censure sul percorso di cinque secoli di una ex colonia. Un lettore che sui diritti sa che niente – neanche la Dichia-

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razione universale dei diritti umani – è scolpita nel marmo per sempre e per tutti; e che senza riflettere sulla condizione umana nessun codice mantiene vita, emozione, speranza. La storia del Brasile – come quella di molti paesi in cui la ricchezza ambientale ha prodotto potere e conflitti – è meravigliosa e raccapricciante. Gli storici brasiliani sono di reputazione internazionale. Hanno smesso di “ricavare” la storia dalle storie delle civiltà più antiche. Hanno seguito il paradigma prioritario della formazione di un cosmopolitismo originario con un forte profilo identitario che ha agito come integratore prevalente. Il luogo comune è che il paese nel Novecento abbia maggiormente ridotto il conflitto etnico e razziale (la lei Aurea del 1888 aveva messo in libertà i 723.719 schiavi esistenti in Brasile) rispetto ad altri paesi – come gli Stati Uniti – nei quali tale conflitto ha invece agito con forme di segregazionismo. Si ritiene che tale processo abbia consegnato il paese a una modernizzazione più morbida, più coerente con i luoghi comuni del suo brand: l’allegria, la musica a “bassa tensione”, il carnevale religioso e pagano al tempo stesso, il futebòl che è – noi diremmo “in senso partenopeo” – coralità sacra e passionale. Ma, appunto, si tratta di luoghi comuni. In parte veri, in parte insufficienti a spiegare la realtà. Se per alcune specifiche comunità – come quella italiana o quella tedesca –, integrabili in un sistema storicamente aristocratizzato dai colonialisti, si sono schiuse quasi tutte le porte, altri gruppi etnici hanno convissuto con il paradigma della “morbidezza” ma non hanno avuto tutte le porte aperte. Neri, mulatti e meticci in particolare. Potevi, nel Novecento, diventare ministro. Ma ti dovevi chiamare Pelè. Il Brasile arriva all’appuntamento del Novecento – in cui prende a poco a poco la definizione un po’ propagandistica

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(ma ora qualche conto torna) di Paìs do futuro – avendo regolato il suo profilo costituzionale, ma dovendo fare quasi tutto rispetto ai modelli sociali ed economici dell’Occidente1. È la casta militare – di cultura neopositivista, ma politicamente poco sperimentata – a gestire i cambiamenti. Nel 1889 il maresciallo Manuel Deodoro proclama la Repubblica e diventa primo presidente (rinuncerà due anni dopo – con la nuova Costituzione – a favore di Floriano Peixoto, comandante dell’esercito di Rio, che nel ‘95 chiuderà nel sangue la rivolta federalista di Rio Grande do Sul e passerà alla storia per la sorgente città di Florianópolis). In mezzo a tensioni, rivolte domate (da Chibata a Contestado), nuove regole sociali (sulla schiavitù si mantiene il punto, distruggendo nel 1891 la traccia burocratica degli archivi che avevano registrato gli schiavi), il Brasile – non molto popolato – assiste tra il 1870 e il 1907 a una grande ondata migratoria: 56.000 tedeschi, 288.000 spagnoli, 1.208.000 italiani, 520.000 portoghesi, 55.000 russi e 200.000 di altre provenienze (in totale 2 milioni e 328 mila immigrati che raddoppieranno nella prima parte del Novecento lasciando il primato agli italiani con oltre un milione e mezzo di immigrati che oggi costituiscono con la loro discendenza la – stimata – più grande comunità etnica del paese). Il Brasile era attraversato, nel cambio di secolo, dal conflitto tra Chiesa e Massoneria (a cui apparteneva la classe militare), e anche da una questione militare (nel senso che ai militari era proibito occuparsi di politica, con un principio destinato a essere perennemente infranto). Il conflitto di base diventa quello tra democrazia e golpismo – per dirla in parole povere – come modalità per regolare il corso della storia. Il Novecento riprodurrà lo schema in Brasile e in tutta l’America latina. Tra poveri, immigrati, un quadro di rapidissima urba-

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nizzazione, prima formazione di una economia industriale, arretratezza delle condizioni di lavoro nelle campagne, tutta l’iconografia del cambio di secolo ci consegna immagini che una certa pittura sociale italiana – da Carlo Levi a Lorenzo Viani – ci ha mostrato con non molta differenza. La canzone popolare della nuova immigrazione italiana diceva così: Na América onde chegamos Não encontramos nem palha nem feno Dormíamos no châo, ao sereno Come as bestas irracionais E com o engenho dos nossos italianos E esforço de nossos paisanos Com o passar dos anos Construimos paises e arraiais2

Appunto, con il passar dos anos. Intanto è dura per tutti. Per i nuovi arrivati, per gli emarginati di sempre (indigeni e meticci, molti gravati da una storia di schiavitù appena chiusa formalmente), per una società che arriva da schemi verticali rigidi povera di una borghesia intermedia, lo sviluppo ha regole naturalmente violente. Lenite da alcune nuove missioni cattoliche che seguono in parte l’immigrazione e agiscono sul fronte educativo, ma che devono tener conto di una cultura della rappresentanza che chiede tempo per incidere socialmente. Con approssimazione è questo il contesto in cui Alfonso de Lima Barreto, nato il 13 maggio del 1881 a Rio dove morirà nel 1922, figlio di genitori che avevano conosciuto personalmente o di famiglia la schiavitù, considerato il maggior escritor libertário del Brasile, ha adattato i suoi temi narrativi. Dal 1902, studente, prese a scrivere sulla stampa. Sul

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«Correio de Manhã» dedicò una serie di reportages alla demolizione del Morro do Castelo, il quartiere storico di Rio fondato nel Seicento e cancellato dalla riforma urbanistica. Prima di essere travolto dall’alcool, la sua produzione giornalistica e narrativa fu rilevante. La bussola è in parte autobiografica, in parte di guerra culturale all’ipocrisia sociale. Fu osteggiato dalla cultura ufficiale per un uso troppo colloquiale della lingua, ma in definitiva per un suo filo rosso, che partendo da sentimenti anarchici lo portò a preferire la stampa di orientamento socialista. Bernardo de Mendonça ha riunito alcuni suoi scritti (Um longo Sonho do Futuro, 1993) che ricompongono il suo difficile tratto autobiografico, attraversato da intuito, reattività, originalità, depressione. Un brasiliano moderno, testimone fondamentale per riscrivere quella che gli storici brasiliani chiamano l’età delle iniquidades sociais na historia brasileira. Clara dos Anjos è del 1922, pubblicato postumo solo nel 1948. Il cambiamento e la complessità della città si sentono molto3. Clara è una mulatta carioca, ben educata ma esposta ai rischi della vita, che fanno emergere la sua fragilità in un racconto mirabile del contesto sociale. Nell’ultima riga del testo, la sintesi dei mesti sentimenti della protagonista. Per gli scrittori si ricordano abitualmente i premi letterari. Per Lima Barreto si deve ricordare che la Scuola di Samba GRES-Unidos da Tijuca lo ha homenageado nel 1982 nel Carnaval Carioca con un samba-enredo dal titolo Lima Barreto, mulatto povero ma libero.

Stefano Rolando

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Note 1. Sulla percezione del “futuro” di questo paese, non solo tra i brasiliani ma anche tra i suoi più autorevoli conoscitori, resta il magnifico riferimento del testo (pur impostato nella lettura del passato) di Stefan Zweig, Brasile. Terra del futuro, ora in edizione italiana (Elliot, 2013). 2. In America dove arriviamo / non troviamo paglia o fieno / dormiamo per terra, all’aperto / come bestie irrazionali / e con l’ingegno dei nostro italiano / e l’impegno dei nostri paesani / Col passar degli anni / costruiamo paesi e villaggi. 3. La prefazione all’edizione brasiliana di Clara dos Anjos era stata scritta da un monumento culturale dell’approccio all’identità brasiliana, Sergio Buarque de Holanda, che tra l’altro scrive: «L’opera di questo scrittore è, in gran parte, una dissimulata confessione, con l’intima amarezza dei risentimenti e dei fallimenti personali, ma che nei suoi momenti migliori lui sa trasfigurare in arte».

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Clara dos Anjos



Capitolo primo

Il postino Joaquim dos Anjos non era uomo da serenate e canzoni; amava però la chitarra e le modinhas1. Suonava il flauto, strumento molto apprezzato un tempo e oggi non più come allora. I vecchi di Rio de Janeiro, ancora adesso, ricordano il famoso Calado2 e le sue polche, una delle quali – Ahimè, cugina mia! – è un ricordo emozionante per i carioca che vanno per i settanta. Da un po’ di tempo a questa parte, tuttavia, il flauto ha perso d’importanza, e solo un flautista dei nostri giorni è riuscito, per qualche breve periodo, a riabilitare quel melodioso strumento, delizia dei nostri padri e dei nostri nonni. Ovvero Patápio Silva3. Con la sua morte il flauto tornò a occupare un posto secondario come strumento musicale, al quale i maestri di musica, esecutori o critici eruditi, non danno alcuna importanza. Tornò a essere uno strumento plebeo. Eppure nella semplicità dei suoi natali, della sua origine e della sua condizione, Joaquim dos Anjos si riteneva un musicista di un certo livello, ché oltre a suonare il flauto componeva valzer, tanghi e accompagnamenti per modinhas. Una delle sue polche – Granchio senza chele – e uno dei suoi valzer – Pene del cuore – ebbero un certo successo, al punto che egli vendette la proprietà di ognuna, per 50.000 réis4, a un negozio di musica e pianoforti di Rua do Ouvidor. La sua conoscenza musicale era scarsa; più che applicare, intuiva le nozioni teoriche che aveva studiato.

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Aveva imparato l’abbecedario della musica nella sua terra d’origine, nei dintorni di Diamantina, dove nelle feste di chiesa il suo flauto si era distinto, ed era considerato da molti il miglior flautista del luogo. Nonostante godesse di questa incoraggiante fama, non volle mai ampliare le sue conoscenze musicali. Era rimasto all’abbecedario di Francisco Manuel, che sapeva a memoria; ma non si era mosso da lì, per andare oltre. Poco ambizioso nella musica, lo era anche nelle altre manifestazioni della sua vita. Disgustato dall’esistenza mediocre vissuta nella sua piccola città natale, un bel giorno, intorno ai ventidue anni, aveva accettato l’invito di un ingegnere inglese che, da quelle parti, andava esplorando terre e terreni diamantiferi. Almeno era quello che tutti credevano che il tal mister facesse. La verità, tuttavia, era che il saggio inglese faceva studi disinteressati. Stava conducendo pure e platoniche ricerche geologiche e mineralogiche. Il diamante non era il fine dei suoi lavori; ma il popolo, che si ostinava a vedere, nei dintorni della città, il ventre della terra pieno di diamanti, non poteva ammettere che un inglese che cercava pietre, dalla mattina alla sera, prendendo appunti e con rudi strumenti, non stesse cercando diamanti. Non c’era modo per il mister di convincere la gente sempliciotta del luogo che non ne voleva sapere nulla di diamanti; e non c’era giorno in cui il suddito di Sua Graziosa Maestà non ricevesse una proposta di vendita di terreni, nei quali doveva per forza esistere un’abbondanza di pietre preziose, secondo gli indizi sicuri, di un “cercatore di diamanti” esperto. Subito, all’arrivo del geologo, Joaquim s’offrì come paggio, guida, incassatore, servitore etc., e fu talmente obbediente e servì così bene il saggio, che questi, considerate concluse le sue ricerche, lo invitò ad accompagnarlo a Rio de Janeiro, incaricandolo di trasportare il suo ciottoloso o pietroso

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bagaglio, fino a bordo. Il saggio s’impegnava a pagargli la permanenza a Rio, cosa che fece, fino al suo imbarco per l’Europa. Gli diede del denaro per il ritorno, un cappello di sughero, dei gambali, una pipa e una scatola di tabacco Navy Cut; Joaquim si era già ambientato a Rio de Janeiro, nel mese o poco più in cui vi stette, al servizio del signor John Herbert Brown, della Reale Società di Londra; e decise di non tornare a Diamantina. Vendette i gambali e il cappello di sughero a un rigattiere e si mise a fumare il suo delizioso tabacco inglese nella pipa che gli era stata regalata, passeggiando per Rio, fintanto che ebbe denaro. Quando il denaro finì cercò i conoscenti che già aveva, e nel giro di poco tempo iniziò a lavorare come impiegato nello studio di un grande avvocato, un suo conterraneo, un mineiro5. «Non riceverai da me alcun compenso – gli disse subito il dottore – ma qui fare conoscenze utili per trovare qualcosa di meglio più avanti». Vide bene che il “dottore” gli diceva la verità, e tutta la sua ambizione si ridusse a ottenere un piccolo impiego pubblico che gli desse diritto a una pensione e alle garanzie integrative per la famiglia che avrebbe formato. Alla fine di due anni di lavoro, aveva ottenuto la qualifica di postino, e da ben quattro lustri era molto contento e soddisfatto della sua vita, tanto più che si era meritato successive promozioni. Si era sposato qualche mese dopo la nomina e, essendo morta sua madre, a Diamantina, come figlio unico, ereditava la casa e qualche terra a Inhaí, una circoscrizione di quella città mineira. Vendette la modesta eredità, e trattò l’acquisto di quella casetta in periferia in cui ancora viveva e che diventò sua. Il prezzo era stato modico ma, pur così, il denaro dell’eredità non era bastato, e aveva pagato il resto a rate. Adesso però, e ormai da diversi anni, era in pieno possesso del suo “buco”, come lui chiamava la sua umile casuccia. Era

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semplice. Aveva due stanze; una che dava nel salotto e l’altra nella sala da pranzo, una rimaneva alla destra, l’altra alla sinistra di chi vi entrava. Al salotto, seguiva immediatamente la sala da pranzo. In fondo vi era un prolungamento, corrispondente a poco più di un terzo della larghezza totale della casa, formato dalla cucina e da un minuscolo ripostiglio. Il prolungamento comunicava con la sala da pranzo tramite una porta; e il ripostiglio, a sinistra, lo riduceva come a un breve corridoio, fino alla cucina, che si estendeva per tutta la sua larghezza. La porta comunicante con la sala da pranzo era molto vicina a quella da cui si accedeva all’orto. Era così la pianta della proprietà di Joaquim dos Anjos. Esterna al corpo della casa, vi era una baracca con bagno, vasca, etc., e nell’orto, di discrete dimensioni, vi crescevano alberi di guave, due o tre alberi di arancio, uno di limone galiziano, alberi di papaia e una grande pianta di tamarindo frondoso, proprio in fondo. La strada in cui era la casa si sviluppava in piano e quando pioveva s’allagava e diventava peggio di un pantano. Tuttavia era una strada popolata ed era un percorso obbligato per chi che andava dai margini della stazione centrale verso la distante e affollata circoscrizione di Inhaúma. Grossi carri, auto, camionette che, quasi giornalmente, passavano da quelle parti per approvvigionare i negozianti che i grossisti fornivano; la percorrevano dall’inizio alla fine, mostravano che tale via pubblica avrebbe dovuto meritare più attenzione dall’autorità municipale. Era una strada tranquilla e interamente, o quasi, edificata secondo l’antico gusto della periferia, il gusto dello chalet. Era abitata ed edificata quasi interamente, da un lato e dall’altro. Da lì, s’intravedeva un bel panorama di montagne dai colori cangianti, a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni del tempo. Le montagne erano molto distanti ma sembravano

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attorniarla, e la strada sembrava essere l’asse di quell’arena di monti che, durante tutto il giorno, parevano essere illuminati da proiezioni luminose, rivestendosi di tutta la gamma del verde e dei toni azzurri e, verso il crepuscolo, venivano ricoperte d’oro e di porpora. Al di là dei classici chalets suburbani, s’incontravano altri tipi di case. Alcune relativamente recenti, con certi fronzoli e decorazioni moderne, per nascondere la mancanza di confort e giustificare l’esagerazione degli affitti. C’era però una casa degna d’essere vista. Si ergeva quasi al centro di un grande podere ed era la caratteristica casa delle vecchie tenute d’altri tempi: lunga facciata, poca profondità, soffitto basso, rivestita di maioliche fino a metà del piedritto. Un tantino brutta, è vero, così com’era, senza eleganza, ma si sposava perfettamente con gli alberi di mango, con le robuste piante di jaqueira6 e con le impertinenti palme da cocco e con tutti quei grandi e piccoli alberi invecchiati, che coloro che li piantarono, forse, non li avevano mai visti fruttificare. Tra questi alberi, dove si potevano ravvisare resti dell’antico giardino, vi erano statuette di ceramica portoghese con iscrizioni azzurre. Una era la Primavera; un’altra era l’Aurora; quasi tutte, però, erano mutilate; alcune, in un braccio; altre non avevano la testa, e altre ancora giacevano sul terreno, cadute dai loro rozzi piedistalli. I muri che circondavano la casa, a ragionevole distanza, compreso il muro al quale si appoggiava l’inferriata davanti all’immobile, erano ricoperti di edera, che li aggrovigliava in tutto o in parte, non come un sudario, ma come un austero, cerimonioso e vivo manto d’altre epoche e d’altre genti, provocando nostalgie e evocazioni, animando la rovina. Oggi è raro a vedersi a Rio de Janeiro un muro ricoperto di edera; eppure trent’anni fa a Laranjeiras, in Rua Conde de Bonfim, a Rio Comprido, nell’Andaraí, nell’En-

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genho Novo, insomma, in tutti i quartieri che furono una volta stazioni di riposo e di piacere, s’incontravano a ogni passo lunghi muri ricoperti di edera che esalavano malinconia ed evocavano ricordi. Joaquim dos Anjos aveva conosciuto la “tenuta” ancora abitata dai rispettivi proprietari; recentemente però, erano andati via e avevano affittato ai “luterani”. I loro inni al sabato (era il loro giorno della settimana consacrato al riposo), intonati quasi di ora in ora, riempivano le vicinanze e infondevano in chi li ascoltava una cupa ombra di misticismo. Il popolo non li vedeva con ostilità, alcuni umili uomini e povere giovinette dei dintorni li frequentavano addirittura, perché vi trovavano un segno di superiorità intellettuale rispetto ai propri simili e per cercare, in un'altra casa religiosa che non fosse quella tradizionale, un sollievo per le loro anime afflitte, al di là di tutti i dolori che perseguitano qualsiasi esistenza umana. Alcuni, tra i quali João Pintor, giustificavano la frequentazione dei “luterani”, perché – diceva lui – non erano come i preti, che per ogni cosa vogliono soldi. Il tal João Pintor lavorava nelle officine dell’Engenho de Dentro con la funzione di pittore, da cui derivava appunto il suo nomignolo. Era un negro scuro, aveva grosse labbra, zigomi sporgenti, fronte bassa, denti ben fatti e molto chiari, lunghe braccia, mani enormi, lunghe gambe e dei piedi tali che in nessun negozio di scarpe esisteva una calzatura adatta a essi. Se le faceva fabbricare su misura; e nonostante ciò, per il dolore, riusciva a malapena a metterle un giorno, e quello seguente doveva già tagliuzzarle col coltello se voleva fare qualche passo e zoppicare almeno fino alla fiera di Mafuá. Diceva “Turuna”, un fedele del padre Sodré, cappellano del santuario di Nostra Signora di Lourdes, che João Pintor si era messo con i “luterani”, perché questi gli avevano

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dato una stanza nella tenuta, dove egli poteva vivere gratis in cambio di certi piccoli doveri da adempiere. João Pintor contestava con veemenza; la cosa certa, tuttavia, era che egli abitava nella “tenuta”. Era a capo dei protestanti un americano, Mr. Quick Shays, uomo tenace e intriso di biblica eloquenza, che doveva essere magnifica in inglese, ma che nel suo portoghese stentato risultava semplicemente pittoresca. Shays Quick o Quick Shays apparteneva a quella curiosa razza di yankees fondatori di nuove sette cristiane. Di tanto in tanto un cittadino protestante di questa razza che desidera la felicità di noialtri, in cielo e in terra, alla luce di una sua interpretazione di uno o più versetti della Bibbia, fonda una nuovissima setta, si mette a propagarla e subito trova ferventi devoti, i quali non sanno molto bene perché si siano dati alla nuovissima religione né quale sia la differenza tra questa e quella dalla quale provengono. Nella loro terra, come qui, questi piccoli Lutero fanno proseliti; là, più che qui. Mr. Shays conquistava, nelle vicinanze del postino Joaquim dos Anjos, non proseliti ma molti ascoltatori, dei quali una quinta parte alla fine si convertiva. Quando si trattava di iniziare un gruppo, i novizi dormivano in baracche di campagna erette intorno alla casa negli spazi esistenti tra i vecchi alberi della tenuta, maltrattata e disprezzata. Le cerimonie preparatorie all’iniziazione, nella religione di Mr. Quick Shays, duravano una settimana, piene di digiuni e di inni religiosi, piene di unzioni e di appelli contriti a Dio, Nostro Padre; e la vecchia proprietà, da luogo di svago, con le tende militari e le litanie continue, acquistava un aspetto strano e imprevisto: un convento all’aria aperta, nascosto dietro la facciata burbera da accampamento guerriero. Lo si sarebbe detto un distaccamento di un ordine di cavalleria monastico-guerrie-

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ro che si preparava a combattere il turco o il moro infedele, in Palestina o in Marocco. Del vicinato, non erano molti i seguaci ortodossi all’indottrinamento religioso di Mr. Shays; tuttavia, oltre alle specie già alluse, vi erano quelli che assistevano alle sue prediche per pura curiosità o per deliziarsi con l’oratoria del pastore americano. Il tempio era sempre pieno nei suoi giorni solenni. I frequentatori, che appartenessero all’una o all’altra categoria, vi si recavano senza alcun ritegno, tant’è tipico del nostro popolino fare uno stravagante amalgama di religioni e credenze di ogni sorta, e ricorrervi a seconda delle circostanze e delle momentanee difficoltà della propria esistenza. Se si tratta di superare gli ostacoli della vita ci si appella alla stregoneria; se si tratta di curare una malattia ostica e pervicace si cerca lo spiritista; ma non dite alla nostra umile gente di non far battezzare il proprio figlio da un sacerdote cattolico perché non c’è, tra di essi, chi non se ne risentirebbe: “Ma sei matto! Mio figlio un pagano! Dio me ne scampi e liberi!”. Joaquim dos Anjos non frequentava Mr. Shays né il reverendo padre Sodré del santuario di Nostra Signora di Lourdes poiché, nonostante fosse nato in una città imbalsamata d’incenso e ricca di echi sonori, di litanie e il continuo rintoccare di campane a festa, non era animato da grande fervore religioso. Sua moglie, Dona Engrácia, al contrario lo era fino all’eccesso, sebbene andasse poco in chiesa a causa dei suoi impegni domestici. Entrambi erano, comunque, d’accordo su un punto della religione cattolico-romana: battezzare quanto prima i figli nella Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Fu così che fecero, non soltanto con Clara, l’unica figlia sopravvissuta, ma anche con gli altri che erano morti. Erano sposati da quasi vent’anni e Clara, essendo la secondogenita della coppia, andava per i diciassette anni. I genitori si occupavano di lei con molta premura e affetto e, al

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di fuori del padre o della madre, Clara usciva soltanto con Dona Margarida, una serissima vedova che abitava nelle vicinanze e che le insegnava il ricamo e il cucito. Per di più, ma era raro e succedeva soltanto la domenica, Clara lasciava a volte la casa paterna per andare al cinema del Méier o dell’Engenho de Dentro, solo quando la sua insegnante di cucito si offriva di accompagnarla, poiché Joaquim non era mai disponibile e non amava uscire la domenica, giorno prescelto per dedicarsi al suo passatempo preferito, il solo giocato a carte con i compagni abituali; e sua moglie non amava uscir do casa di domenica, così come in qualunque altro giorno della settimana. Era sedentaria e casalinga. I compagni con cui Joaquim giocava a solo7 erano quasi sempre gli stessi: il Signor Antônio da Silva Marramaque, suo compare, padrino dell’ unica figlia; e il Signor Eduardo Lafões. Non cambiavano mai. Tutte le domeniche, intorno alle nove, bussavano al cancello della casa del “postale”; non entravano in casa ma, attraverso il corridoio in comune con la vicina, si dirigevano verso la grande pianta di tamarindo in fondo all’orto, sotto la quale era montato il tavolo con i segnapunti, dei chicchi di lentisco rossi e neri come le pupille, il loro mazzo di carte, i loro piattini, un calice e un litro di acquavite, al centro, rozzo e sfrontato quasi a sfidare in maniera superba e cinica le convenienze formali. Joaquim dos Anjos li aspettava, leggendo il suo giornale preferito. Non appena arrivavano, scambiavano qualche parola, si sedevano, “si bagnavano la bocca” con il litro di acquavite e si mettevano a giocare. Ogni fiches, venti réis. Ore e ore così, in attesa della merenda serale che quasi sempre arrivava in tavola all’ora abituale della cena, si abbandonavano al gioco, sorseggiando acquavite, senza dare uno sguardo sopra le montagne circostanti, nude e rocciose, che disegnavano l’alto orizzonte. Di tanto in tanto,

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ma senza grandi intervalli, Joaquim gridava verso la cucina: «Clara! Engrácia! Caffè!». Di là rispondevano con tono seccato: «Arriva!». È che le due donne, per preparare il caffè, dovevano togliere da uno dei due fornellini a carbone vegetale la pentola con cui stavano preparando, in modo da poter scaldare il caffè richiesto; il che ritardava la cena. Mentre aspettavano il caffè, i tre sospendevano il gioco e chiacchieravano un po’. Marramaque era e sempre era stato più o meno politicizzato, a modo suo. Nonostante al momento fosse un semplice usciere del ministero, dove peraltro non svolgeva il servizio assegnato né nessun altro a causa dello stato invalidità, in quanto semi-storpio e semi-paralitico dal lato sinistro, era tuttavia appartenuto a una modesta cerchia di letterati e poeti bohémiens nella quale, alla pari della poesia e della letteratura, si discuteva molto anche di politica, abitudine che gli rimase. Con la rivolta del 18938, la cerchia si sciolse. Alcuni si schierarono con l’ammiraglio Custódio, altri con il maresciallo Floriano9. Marramaque fu uno di questi e ottenne persino i gradi di alfiere dell’Esercito. Fu allora che ebbe la prima congestione, cioè verso la fine del governo del maresciallo, nel 1894. La sua cerchia non aveva nessun nome di rilievo, vi erano però alcuni uomini notevoli. Persino membri di altre cerchie più quotate cercavano la sua. Quando narrava episodi di questa parte della sua vita aveva un grande garbo e mostrava orgoglio nel dire che aveva conosciuto Paula Nei10 e che frequentava Luís Murat11. Non mentiva, pur non confessando a tutti il ruolo che aveva avuto nel gruppo di letterati. Coloro che lo conoscevano, sin da quei tempi, non nascondevano l'incarico che gli dava l'onore di esser membro di un cenacolo poetico. Aveva tentato di comporre versi, ma il suo buon senso e

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l’integrità del suo carattere gli fecero capire che non era portato per la cosa. Lasciò perdere, coltivando rompicapi, rebus etc. Divenne un abile enigmista e, come tale, figurava quasi sempre come redattore o collaboratore dei giornali che i suoi compagni e amici della bohème letteraria, poeti e letterati, improvvisavano da capo a piedi, quasi sempre senza denaro, neppure per comprarsi un completo nuovo. Invecchiato e ormai invalido, dopo due attacchi apoplettici, fu costretto ad accettare quell’umile posto di usciere, per tirare avanti. I suoi meriti e il suo sapere, tuttavia, non erano molto superiori al suo incarico. Aveva imparato molte cose per sentito dire e, per sentito dire, parlava di molte cose. Aveva avuto, da giovane, buone relazioni sociali. Era questo il segreto della sua fama. Marramaque, nonostante tutto, al di là del suo stato di salute e della sua difficoltà a spostarsi, non abbandonava l’innocua mania della politica e andava sempre a votare, anche col rischio di vedersi coinvolto nel tumulto del suffragio universale, incitato a fare a coltellate, a dare calci, testate, colpi di pistola e altre eloquenti manifestazioni elettorali dalle quali, in virtù del suo precario stato delle gambe, non avrebbe potuto fuggire con abilità e la necessaria rapidità. Avendo vissuto in cerchie di un certo livello – come abbiamo già visto – e non per fortuna, ma per l’educazione e l’istruzione ricevute, avendo sognato un altro destino, diverso da quello che aveva avuto e in più con la sua invalidità, Marramaque era per istinto acido e oppositore. Quella domenica il suo carattere lo aveva portato a parlare male del dottor Saulo de Clapin: «Vedrete: Clapin è ormai cotto, in politica è finito. Ha avuto la sfacciataggine di andare contro la corrente popolare, si è dato la zappa sui piedi. Chi ha vinto è il barbuto Melo Brandão, quell’ebreo meticcio. È un mascalzone, ma è un maestro in politica».

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Joaquim non era più di tanto interessato a questa storia di politica, ma Lafões se ne mostrava appassionato e aggiunse: «Macché! Pensi davvero, Marramaque, che un uomo intelligente, così superiore, come il dottor Clapin, si lasci imbrogliare da un truffatore di leggi e cose peggiori come Melo Brandão! Macché! Inoltre, la classe operaia…» «Cosa ha fatto per la classe operaia?», chiede Marramaque. «Molto». Lafões non era operaio, come si potrebbe pensare. Era ispettore dei lavori pubblici. Portoghese di nascita, era venuto da piccolo in Brasile più di quarant’anni fa; ben presto era entrato all’Ufficio delle acque della città, facendosi notare dai suoi superiori per il rigore della sua condotta e, a poco a poco, l’avevano fatto arrivare fino all’Ispettorato di vigilanza delle condutture e dei rubinetti, che perdevano nei lavatoi delle case private. Era talmente contento della sua posizione, della nomina, della sua lettera di naturalizzazione che, probabilmente, non lo sarebbe stato neanche se si fosse arricchito con centinaia di migliaia di réis. Che fosse contento della sua posizione tutto lo faceva credere: dall’importanza del campagnolo che diventa qualcuno nello Stato, alla solennità delle maniere con cui attraversava quelle virtuali strade di periferia. Portava sempre la divisa verde militare e il berretto con le iniziali dell’Ufficio; un ombrello col manico che, quando non lo teneva aperto per proteggersi dai raggi del sole, maneggiava come un bastone da vicario di un villaggio portoghese, bucherellando il terreno e alzandolo per poi posarlo di nuovo man mano che avanzava con le sue lunghe falcate. Lafões rispose così a Marramaque: «Ha fatto molto. In tutte le commissioni per le quali il dottor Clapin è passato, ha sempre cercato di dare lavoro al maggior numero di operai»

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«Bel servizio! Manda all’aria i fondi; nel giro di due o tre mesi, ne licenzia più della metà… Questo non si chiama proteggere; si chiama imbrogliare» «Sarà, ma almeno ci prova, e gli altri? Non fanno niente. Del resto, è un democratico. Da tempo si batte per l’uguaglianza tra i servitori della nazione. Non vuole distinzione tra funzionari pubblici e lavoratori alla giornata. Chi serve la nazione, qualunque servizio svolga, è un funzionario pubblico» «Aria fritta! Non ci si riempie la pancia con questo! Perché non si adopera per diminuire la povertà e gli affitti delle case?» «Capperi, Marramaque! Non hai letto il suo progetto sulla costruzione di case per famiglie povere e modeste? Non lo hai letto tu, Joaquim?». Il postino, che aveva ascoltato la conversazione senza dare opinioni, alla domanda di Lafões, intervenne: «Sì, l’ho letto, ma ho letto anche che aveva aumentato del quaranta per cento gli affitti delle sue innumerevoli case» «Ecco! – si affrettò a aggiungere Marramaque – Clapin è molto generoso con i soldi degli altri, dello Stato. Con i suoi è di una taccagneria da ebreo e di una voracità da usuraio. Gesuita!». Per fortuna Clara era arrivata con il caffè. L’accesa conversazione terminava e i due ospiti di Joaquim ricevevano i saluti della ragazza: «Mi benedica, padrino mio; buongiorno, seo Lafões». Rispondevano e si mettevano a scherzare con Clara. Diceva Marramaque: «Allora, figlioccia mia, quando ti sposi?» «Ancora non ci penso», rispondeva lei facendo un sorrisino beffardo. «Figurati! – osserva Lafões – La ragazza ha già qualcuno sott’occhio. Facciamo così, per il giorno del suo compleanno… Vero, Joaquim, organizziamo una cosa».

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Il postino mise giù la tazzina e domandò: «Cosa?» «Volevo chiederti il permesso di invitare per il compleanno della ragazza, un maestro di chitarra e di modinha. Clara non si trattenne e chiese subito: «Chi è?» Lafões rispose: «È Cassi. La ragazza…». L’ispettore dei lavori pubblici non poté finire la frase. Marramaque lo interruppe furioso: «Tu frequenti una simile “pustola“? È un soggetto che non può entrare nella casa di nessuna famiglia. Nella mia, per lo meno…» «Perché?», indagò il padrone di casa. «Lo dirò subito, lo dirò io il perché», fece sconvolto Marramaque. Finirono di prendere il caffè. Clara si allontanò con il vassoio e le tazzine, colma di una grande, tenace e malsana curiosità: «E chi sarebbe questo Cassi?».

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Note 1. Canto popolare con accompagnamento di chitarra. 2. Compositore e flautista brasiliano molto noto del XIX secolo. 3. Compositore e flautista nato a Itaocara nel 1880, morto a soli ventisette anni, era considerato un virtuoso del suo strumento musicale. 4. Plurale di real, l’antica unità monetaria portoghese e brasiliana. Successivamente in Brasile fu assunto a unità monetaria il mil-réis (mille reis), più tardi denominato cruzeiro. 5. Dello stato di Minas Gerais. 6. Pianta delle moracee il cui frutto commestibile, jaca, è conosciuto come “albero del pane”. 7. Consiste nel giocare da solo contro due come in certi giochi a carte, la calabresella e simili. 8. Nota come Revolta da Armada, provocata dalla Marina per timore che la neonata República Velha non indicesse nuove elezioni, repressa nel sangue dall’esercito repubblicano. 9. Floriano Peixoto, secondo presidente della República Velha, soprannominato “maresciallo di ferro” per il modo energico di esercitare il potere. La rivolta del 1893, poco prima menzionata, vide appunto contrapposti l’Esercito con a capo Floriano e la Marina capeggiata dall’ammiraglio Custódio de Melo. 10. Si tratta di Francisco de Paula Nei, figura conosciuta negli ambienti letterari della Rio de Janeiro della Belle Époque. 11. Altro appartenente alla vita bohémienne della Rio de Janeiro dei primi del Novecento.

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Lima Barreto Clara dos Anjos

5

Prefazione, Stefano Rolando

13

Capitolo primo

28

Capitolo secondo

47

Capitolo terzo

60

Capitolo quarto

73

Capitolo quinto

88

Capitolo sesto

103

Capitolo settimo

129

Capitolo ottavo

150

Capitolo nono

173

Capitolo decimo

185

Capitolo undicesimo

201

Postfazione, Roberto Vecchi



Storia di Clara di un Paese gravido e fragile non più ai margini di Lima Barreto escritor libertário in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN) per conto di Diabasis nell’ottobre dell’anno duemila tredici



Collana «Al Buon Corsiero»

Silvio D’Arzo, Casa d’altri: tre redazioni Helder Macedo, Da qualche parte in Africa Antonio Bassarelli, Per questi motivi Rocco Brindisi, Il bambino che viveva nello specchio Josè Maria Eça Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes. Memorie note Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema Pepetela, La generazione dell’utopia Ludovico Ariosto, Lettere dalla Garfagnana Giorgio Prodi, L’opera narrativa Angela Giannitrapani, Parigi, una breve estate Nicolas Bouvier, La polvere del mondo Luan Starova, Il tempo delle capre Evgenij Borisovic Rejn, Balcone e altre poesie Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell’esilio mentale Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore: carteggio con la corte di Praga, 1351-1364 Cesare Padovani, Paflasmòs il battito del Mar Egeo. Viaggio nell'anima della Grecia Aleksandar Gatalica, Secolo. Cento e una storia di un secolo Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti



AL BUON CORSIERO

«Non vogliamo più una letteratura contemplativa... ma una letteratura militante per una gloria maggiore della nostra specie sulla terra e anche in Cielo». Lima Barreto, Rio de Janeiro, 31 agosto 1916

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