Autorità - una questione aperta

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Giuseppe Tognon, già allievo e perfezionando della Scuola Normale Superiore di Pisa, è professore ordinario di Storia dell’educazione presso l’Università LUMSA di Roma dove coordina il dottorato in Teorie, storia e metodi dell’educazione.

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A CURA DI BIANCU TOGNON

«Fare i conti con la questione dell’autorità significa fare i conti con una umanità irriducibile a schemi troppo facili e troppo comodi. L’autorità non è semplicemente la caratteristica di alcune persone (maestri, genitori, uomini di Stato o della Chiesa) o di alcuni testi, ma è piuttosto il risultato di una particolare relazione simbolica con il mondo all’interno della quale quelle persone e quei testi si inseriscono e ci inseriscono. La crisi dell’autorità non è tanto il frutto di una rivolta contro i valori del passato, ma piuttosto il segno della sfida moderna alla verità».

AUTORITÀ. UNA QUESTIONE APERTA

Stefano Biancu, dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane, è ricercatore di etica all’Università di Losanna e docente a contratto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano.

DIABASIS

I MURI BIANCHI

AUTORITÀ UNA QUESTIONE APERTA A cura di Stefano Biancu e Giuseppe Tognon

Nessuna altra epoca ha mai avvertito la necessità di sottoporre la nozione di autorità a un lavoro di indagine così vasto e profondo come quello che si è registrato nel Ventesimo secolo. Se ne sono in vario modo occupate la filosofia, la pedagogia, la psicologia e la psicanalisi, le teorie del diritto e della politica, soprattutto la sociologia, ma anche la teologia. Nonostante questo immenso lavoro, l’esperienza dell’autorità coincide per molti versi ancora oggi, a livello di senso comune, con l’esperienza di un oggetto esterno che sta costantemente dinnanzi a noi come qualcosa di assolutamente impenetrabile e di estraneo. Per un verso ne intuiamo la ricchezza, sebbene essa non sembri più appartenerci. Per altro verso non possiamo che sentirci disturbati da un rapporto con l’autorità che avvertiamo ambiguo e soprattutto incarnato in forme gerarchiche che rifiutiamo per principio. Temiamo che attraverso l’esercizio dell’autorità possa essere messa in discussione la nostra libertà, senza capire che quest’ultima esiste nella misura in cui l’autorità la invoca. Viviamo soggettività e socialità che hanno l’autorità come loro condizione di possibilità, ma facciamo sempre esperienza di autorità mancanti o deludenti; con l’aggravante che non siamo in grado di dire cosa realmente ci manchi o ci deluda. Accogliendo saggi di studiosi di varia estrazione disciplinare, questo volume vorrebbe contribuire efficacemente a chiarire alcune questioni in campo e ad arricchire un dibattito che ci sembra destinato ad accompagnare i nostri sforzi ancora a lungo.

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Il volume è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione “Persona, Comunità, Democrazia”

In copertina Bruno Olivi, senza titolo, 1989, acrilico su carta Progetto grafico BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-675-2 © 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it info@diabasis.it

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AutoritĂ Una questione aperta A cura di Stefano Biancu e Giuseppe Tognon

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Autorità Una questione aperta A cura di Stefano Biancu e Giuseppe Tognon

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Premessa

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La questione dell’autorità Stefano Biancu

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Autorità e bene comune nella società del pluralismo Francesco Viola

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L’autorità in democrazia Nicolò Lipari

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Autorità religiosa e autorità politica: la dialettica e la libertà Michele Nicoletti

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Le due spade e il problema della verità Stefano Semplici

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L’autorità nella Chiesa. Uno sguardo da Oriente Ioan Sauca

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Cittadinanza e autorità. La libertà immediata e la ‘Judenfrage’ Andrea Grillo

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La questione dell’autorità nell’islam Girolamo Pugliesi

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Autorità e figure parentali Pierre-Yves Brandt

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Dall’educazione all’autorità Giuseppe Tognon

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Gli autori


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Premessa

Nessuna altra epoca ha mai avvertito la necessità di sottoporre la nozione di autorità a un lavoro di indagine così vasto e profondo come quello che si è registrato a partire dalle prime decadi del XX secolo a oggi. Se ne sono in vario modo occupate la filosofia, la pedagogia, la psicologia e la psicanalisi, le teorie del diritto e della politica, soprattutto la sociologia, ma anche la teologia. Nonostante questo immenso lavoro, l’esperienza dell’autorità coincide per molti versi ancora oggi, a livello di senso comune, con l’esperienza di un oggetto esterno che sta costantemente dinnanzi a noi come qualcosa di assolutamente impenetrabile e di estraneo. Per un verso ne intuiamo il valore, sebbene essa non sembri (più) appartenerci. Per altro verso non possiamo che sentirci disturbati da un rapporto con l’autorità che avvertiamo ambiguo e soprattutto incarnato in forme gerarchiche che rifiutiamo per principio. Temiamo che attraverso l’esercizio dell’autorità possa essere messa in discussione la nostra libertà, senza capire che quest’ultima esiste nella misura in cui l’autorità la invoca. Restiamo anche diffidenti verso la riproposizione del nesso tra autorità, tradizione e religione che consideriamo una triade imbarazzante. Eppure l’autorità è insieme creatrice del nuovo e garante dell’antico. L’autorità ci appare insomma come qualcosa che cerchiamo e dal quale sempre fuggiamo, di modo che viviamo la paradossale condizione di chi non può non cercare l’autorità e al contempo non può non fuggire da essa. Viviamo soggettività e socialità che hanno l’autorità come loro condizione di possibilità, ma facciamo sempre esperienza di autorità mancanti o deludenti; con l’aggravante che non siamo in grado di dire cosa realmente ci manchi o ci deluda. Di che cosa siamo alla ricerca.

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Nel pensare l’autorità – nelle sue forme sostanziali o procedurali, in quelle personali o impersonali – ci accorgiamo così di essere in grave difetto di categorie e di riferimenti. Studiando la questione scopriamo poi che disponiamo di molte teorie sul potere o sulla sovranità ma di poche teorie serie sull’autorità. Accogliendo saggi di studiosi di varia estrazione disciplinare, culturale e geografica (con l’esclusione di un approccio sociologico, motivata dall’abbondanza di studi in questo settore così importante) questo volume vorrebbe contribuire efficacemente a chiarire alcune questioni in campo e ad arricchire un dibattito che ci sembra destinato ad accompagnare i nostri sforzi ancora a lungo. I curatori

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La questione dell’autorità Stefano Biancu

Una volta ho letto la storia di un gruppo di uomini che salivano su una torre sconosciuta. La prima generazione arrivò al quinto piano, la seconda al settimo, la terza al decimo. Col tempo, i discendenti arrivarono sino al centesimo piano, ma lì giunti la scala sprofondò. Gli uomini si stabilirono così a quel piano. Col tempo, dimenticarono che i loro antenati avevano vissuto ai piani inferiori e scordarono come essi erano giunti sino al centesimo piano. Vedevano il mondo e se stessi dalla prospettiva del centesimo piano senza sapere come gli uomini fossero giunti fin lì. Sì, essi ritenevano che le idee che si erano fatti da quella prospettiva fossero le idee comuni a tutti gli uomini…1

L’autorità e la sua crisi Che occuparsi di autorità significhi inevitabilmente partire dalla fine e affrontare la questione dalla prospettiva della sua crisi, è ormai un dato di senso comune: ben più che un semplice tic intellettuale. Si potrebbe dire che nessuna altra epoca abbia mai avvertito la necessità di sottoporre la nozione di autorità a un lavoro di problematizzazione così vasto e così profondo come quello che si è registrato a partire dalle prime decadi del XX secolo fino ad oggi: dalla filosofia alla sociologia, dalla pedagogia alla psicologia, fino alle teorie del diritto e della politica2. Eppure, a riguardo dell’autorità, nessuna affermazione va (più) da sé e occuparsene significa necessariamente partire dal vuoto: dalla comune esperienza di una assenza. Non che si sia persa l’esperienza dell’autorità: semplicemente essa sembra essere divenuta, a livello di senso comune, l’esperienza di una mancanza, di un oggetto che sta costantemente dinanzi a noi come qualcosa di assolutamente impenetrabile. L’esperienza che ne abbiamo somiglia molto alla percezione tattile e visiva di una superficie convessa e impermeabile che non consente alcun attraversamento: una superficie che però intuiamo celare un lato concavo e pieno. Essa racchiude un contenuto, una pienezza, ma una pienezza a noi inaccessibile e preclusa. Ogni nostro discorso de auctoritate sembra dunque un discorso dall’esterno, un discorso da stranieri che non sanno cosa significhi abitare l’autorità. Ne intuiamo la ricchezza, ma essa non sembra (più) appartenerci.

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In realtà, come si vedrà nel corso di queste pagine, anche noi abitatori della tarda modernità rimaniamo in qualche modo abitatori dell’autorità, alla quale ci legano necessariamente alcune condizioni fondamentali della nostra soggettività e della nostra socialità di donne e uomini. Ciò che è divenuto problematico è piuttosto la possibilità di comprendere questo nostro rapporto, per certi versi paradossalmente ambiguo e fusionale, con l’autorità. Sia perché siamo in difetto di categorie, dato che l’assetto intellettuale della modernità occidentale fatica a pensare insieme libertà e legame, autonomia e autorità. Sia perché siamo ad un tempo troppo vicini e troppo lontani dall’autorità: viviamo una soggettività e una socialità essenzialmente improntate ad una struttura di autorità, ma l’esperienza di questa autorità rischia di configurarsi sempre come la frustrante esperienza di un vuoto, di qualcosa che si dà soltanto nei modi della mancanza o della delusione (giacché, anche quando si presenta, l’autorità risulta quasi sempre insoddisfacente). Essa appare come qualcosa che cerchiamo e dal quale sempre fuggiamo, di modo che viviamo la paradossale condizione di chi non può non cercare l’autorità e al contempo non può non fuggire da ogni autorità. Per maggiore chiarezza, mi pare che la questione debba essere articolata perlomeno su tre differenti livelli. Il primo è quello che in termini filosofici si direbbe trascendentale, ovvero di una struttura di autorità che è in qualche misura essenziale alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità. Il secondo livello è quello del riempimento contenutistico e contingente di questa struttura di autorità, che è sempre storicamente e culturalmente determinato: è il livello delle concretizzazioni, ma anche delle incarnazioni, dell’autorità. Il terzo livello, infine, riguarda la capacità di rendere conto di questa esperienza di autorità: è dunque il livello dei concetti e delle categorie, delle parole di cui disponiamo per raccontare e comprendere il nostro rapporto con l’autorità. La crisi mi pare nasca oggi dal fatto che i tre livelli non si corrispondono più: in particolare il primo livello non trova più riscontro negli altri due. Alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità è ancora essenziale una struttura di autorità (primo livello), ma si è in grave difetto di contenuti e di incarnazioni dell’autorità (secondo livello) e di categorie che

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consentano di renderne conto (terzo livello). La crisi dell’autorità è dunque data dal fatto che viviamo soggettività e socialità che hanno l’autorità come loro condizione di possibilità, ma facciamo sempre esperienza di autorità mancanti o deludenti; con l’aggravante che non siamo in grado di dire cosa realmente ci manchi o ci deluda: di cosa siamo alla ricerca. Tutto questo spiega certamente la vera e propria esplosione di studi sull’autorità che ha impegnato alcune tra le menti migliori del XX e di questo inizio di XXI secolo e che ha reso a tutti gli effetti l’autorità un problema epocale: «wir leben im Zeitalter der Autorität», viviamo nell’epoca dell’autorità, sosteneva non a caso, il filosofo di impostazione analitica Joseph M. Boche–ski3. Quali sarebbero dunque le origini intellettuali e sociali di questa crisi? Due tra i maggiori pensatori che, nel corso del XX secolo, si sono applicati a pensare la questione dell’autorità – Hannah Arendt e il nostro Giuseppe Capograssi – ne hanno rinvenuto le radici negli stessi fondamenti intellettuali e politicosociali della modernità occidentale. La crisi dell’autorità sarebbe dunque strettamente connessa al passaggio alla modernità.

Hannah Arendt: la crisi della forma romana dell’autorità Quando nel 1956 lavora alla prima versione di quello che, nel 1961, sarebbe diventato il suo saggio What is Authority?, la Arendt è già molto nota per il volume The Origins of Totalitarianism del 19514, nel quale la Germania di Hitler e la Russia di Stalin erano interpretate sotto la comune categoria di «totalitarismo». Proprio questo accostamento aveva reso il libro una icona della guerra fredda, probabilmente contro le stesse intenzioni dell’autrice. La categoria di «totalitarismo» si era infatti rivelata particolarmente funzionale ai fini della individuazione di un nemico della libertà occidentale e si presentava dunque come il naturale polo polemico di quell’«autoritarismo» nel quale Adorno vedeva al contrario uno sviluppo necessario dell’Occidente, da Omero al moderno capitalismo5. Parlando di «personalità autoritaria», Adorno mostrava infatti come molti dei tratti caratterizzanti di quest’ultima fossero presenti anche presso cittadini di società libere, conclusione che rendeva pro11


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Dall’educazione all’autorità Giuseppe Tognon

La discussione del problema dell’autorità in educazione ha impegnato i filosofi e i pedagogisti per molti secoli, almeno fino a quando la relazione educativa tra maestro e allievo è stata considerata la «relazione» per eccellenza, la più profonda di tutte le possibili forme di relazione tra gli esseri umani, la più «sostanziale», l’unica che potesse abbracciare sia Dio sia l’uomo. La filosofia greca e quella cristiana – Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso e i loro discepoli – concordano nel considerare a) l’esistenza di un «Autore» il fattore generativo dell’autorità b) l’efficacia della sua «Azione » il fattore per misurarne la qualità c) l’instaurarsi di una gerarchia tra colui che la esercita e colui che la subisce la condizione imprescindibile per il suo esercizio d) la trasmissione, la cura e la difesa di un bene, il fine1. La cultura antica aveva una visione positiva della gerarchie e attribuiva all’autorità il compito di renderle non soltanto efficaci e produttive, ma buone. L’autorità era l’elemento indispensabile affinché un ordine potesse durare nel tempo e favorire il bene comune. Ma per la difficoltà incontrata nel rendere conto di tutte le possibili forme gerarchiche e soprattutto nella definizione di che cosa si dovesse intendere, a priori, per bene comune, la cultura occidentale ha articolato il discorso sull’autorità con molta prudenza e malgrado la grande abbondanza di termini e di concetti, l’ha lentamente spogliata di molti riferimenti. Distinguendola dal potere e dalla forza, all’autorità viene da un lato offerta la possibilità di diventare una qualità associabile a molte relazioni umane, ma dall’altro le viene tolto gran parte del carattere sostanziale, salvo quello morale. Non è difficile pertanto comprendere perché il tema dell’autorità abbia trovato nell’ambito educativo una risonanza che nell’ambito giuridico e politico le veniva meno. Nel corso dell’evo-

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luzione storica delle concezioni giuridiche e politiche sulla libertà, all’autorità è stato affidato un compito difficile, di legittimazione di tutte quelle forme speciali ed evolute di potere (per usare l’espressione della Arendt delle forme ex generatione), non fondate cioè sulla violenza o soltanto sulla persuasione, tra cui le più evidenti sono quelle genitoriali e quelle educative2. Il problema storico di fondo è che il progressivo crescere dell’interesse per la famiglia, per l’educazione e per l’istruzione non ha comportato un parallelo crescere dell’interesse per l’autorità educativa che, anzi, nelle trasformazioni sociali e nella ridefinizione dei paradigmi culturali ha trovato ostacoli quasi insormontabili.

Teorie del potere, teorie dell’autorità Si sono costruite più teorie del potere che teorie dell’autorità. Alexandre Kojève, scrivendo nel 1942 su La notion de l’autorité, ha definito «cosa curiosa il fatto che la nozione e il problema dell’autorità fossero stati molto poco studiati e che le teorie sull’autorità fossero rare»3. Egli ritenne pertanto di colmare la lacuna evidenziandone almeno quattro «esclusive», cioè incompatibili tra loro, e precisamente: quella teologica e teocratica, per la quale l’autorità appartiene solo a Dio; quella platonica per cui essa discende dalla giustizia e dall’uguaglianza; la teoria aristotelica che giustifica l’autorità con la saggezza e ne fa la capacità di anticipare il futuro o di trascendere l’immediato; infine la teoria hegeliana che riduce l’autorità allo schema del Servo Padrone o del Vincitore e del Vinto, entro il quale l’uno opera per farsi riconoscere e l’altro accetta di sottomettersi per non morire4. Lo schematismo rigido di Kojève merita di essere ricordato perché è esemplare nel mostrare che non è mai stato facile enucleare una tipologia specifica di autorità educativa e che tutte le tesi dominanti al riguardo non sono altro che l’applicazione più o meno riuscita di teorie valide per altri ambiti dell’agire umano. Con una eccezione, che è quella di non poter concepire per l’autorità educativa una concezione formalistica, come avviene per spiegare altre figure della comunità o del corpo sociale. L’educazione può essere formale solo metodologicamente, nel modo di porsi e di rispettare ogni soggetto ed ogni idea, ma non può abdicare, pena l’inconsistenza, a presentarsi come qualche 206


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cosa di sostanziale, che nella trasmissione o nell’esempio mette in gioco qualche cosa di decisivo o di importante, in qualche misura di precostituito e di, appunto, autoritativo. La riflessione sul carattere formale, forse solo possibile, o invece sostanziale, del tutto evidente, dell’azione educativa comporterebbe una lunga e dettagliata analisi che dovrebbe entrare nel cuore delle teorie pedagogiche: per il nostro fine è sufficiente rivelare che la maggior parte di queste ultime accetta l’assunto che, almeno a livello di principio, gli educatori debbano essere anche i più capaci, i più competenti, i più saggi, i più esperti della comunità. Ciò non esclude né che tutti possano essere educatori né che effettivamente lo siano anche coloro che non vorrebbe esserlo o non corrispondono a criteri di merito. Per porre il problema in relazione al tempo presente e per rendere ragione di quando verrò scrivendo, basta riflettere sul fatto che l’educazione può benissimo essere democratica e del regime democratico farsi paladina, senza per ciò stesso essere egualitaria, cioè senza accettare l’idea che la funzione educativa possa essere assunta o affidata a caso o per semplice via procedurale. L’assaggio di un approccio sistematico, che è tra i meno adatti per ragionare sui fenomeni educativi, irriducibili ad ogni teorizzazione astratta, ci consente almeno in via preliminare di valorizzare, per differenza, il fatto che, anche in assenza di una trasparenza teorica, la questione educativa è rimasta una questione aperta almeno quanto quella dell’autorità, in qualche modo sovrapposte. Quando nel XIX e nel XX secolo altre scienze, in particolare la sociologia, hanno preteso di ridurre l’autorità a semplice «funzione», non sono riuscite a fare altrettanto con l’educazione, al punto che la questione educativa, per quanto ricompresa da gran parte dei sociologi tra le necessità architettoniche dei sistemi sociali, è riemersa continuamente, anche oggi, a testimoniare l’irriducibilità del prepolitico, in particolare della famiglia e della scuola, alle logiche di sistema tipiche della ragione strumentale e procedurale. La trasformazione avvenuta in età moderna di tutte le categorie sul potere e sulla sovranità ha posto l’autorità come «nuda» davanti al problema del fondamento. Una volta secolarizzato il principio di sovranità e di legalità, l’unico ambito in cui all’autorità fu ancora consentito di non rispettare «le leggi e i regola-

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Gli autori

Stefano Biancu, dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane, è ricercatore di Etica all’Università di Losanna e docente a contratto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano e presso l’Università di Sassari. Ha pubblicato il volume La poesia e le cose. Su Leopardi (Milano 2006) e vari saggi su riviste italiane, francesi, svizzere e tedesche. Insieme ad altri ha recentemente curato i volumi Il Corpo (Assisi 2009) e Culpabilité et rétribution: essais de philosophie pénale (Basilea 2010). Pierre-Yves Brandt, svizzero, è dottore di ricerca in Psicologia (1988) e in Teologia (2001). Dal 1999 è professore di Psicologia della religione nelle Università di Losanna e di Ginevra. Si è occupato dell’antropologia soggiacente al Vangelo di Marco (ovvero della concezione antica della personalità), dello spazio della dimensione religiosa nella costruzione personale (nei racconti di vita e nelle persone che soffrono di schizofrenia), delle rappresentazioni di Dio nell’infanzia. Attualmente è preside della Facoltà di Teologia e di Scienze delle Religioni dell’Università di Losanna. Andrea Grillo è professore ordinario di Teologia presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo in Roma. Insegna inoltre Liturgia presso l’ILP dell’Abbazia di Santa Giustina in Padova, presso la Pontificia Università Gregoriana e presso il Marianum. Si occupa di filosofia della religione e di antropologia. Tra le sue ultime pubblicazioni: La nascita della liturgia nel XX secolo. Saggio sul rapporto tra Movimento Liturgico e (post) Modernità, Assisi 2003; Oltre Pio V. La riforma liturgica nel conflitto di interpretazioni, Brescia 2007; Grazia visibile, grazia vivibile, Padova 2008. Nicolò Lipari è professore ordinario di Istituzioni di diritto privato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma. È stato senatore della Repubblica nella IX e della X Legislatura. Si è occupato di varie tematiche attinenti al diritto civile con una produzione di oltre duecento titoli. Tra le opere più recenti si segnalano un Trattato di diritto privato europeo (Padova 2003) in quattro volumi, un volume sulle Fonti del diritto (Milano 2008) e un Manuale di diritto civile in dieci volumi (Milano 2009). Michele Nicoletti è professore ordinario di Filosofia politica presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Trento, dove insegna anche alla Scuola di studi internazionali. Vincitore nel 2007 della Cattedra Fulbright presso la

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University of Notre Dame, Indiana, è stato coordinatore scientifico nazionale del PRIN “Etica, politica, religione” e coordinatore scientifico del progetto europeo “Euroethos”. Studioso di S. Kierkegaard, A. Rosmini, C. Schmitt, R. Guardini, E. Boeckenfoerde, di cui ha curato la pubblicazione italiana di importanti testi (Cristianesimo, libertà, democrazia, Brescia 2007), si è occupato del rapporto tra teologia e politica, di religione civile e più in generale della natura e degli effetti dei processi di secolarizzazione. Girolamo Pugliesi è ricercatore junior di Etica presso l’Università di Losanna. Si occupa di interculturalità, con particolare attenzione al mondo arabo-islamico. Sta conseguendo il dottorato di ricerca in Discipline filosofiche, artistiche e teatrali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ioan Sauca, rumeno, ha conseguito un dottorato in Missiologia all’Università di Birmingham e ha insegnato alla Facoltà di Teologia di Sibiu (Romania). È stato portavoce del Patriarcato Ortodosso Rumeno. Attualmente è direttore dell’Istituto Ecumenico di Bossey (Ginevra), centro di formazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, presso il quale insegna Teologia sistematica. Sposato e padre di due figli, è prete della Chiesa ortodossa rumena. Stefano Semplici è professore ordinario di Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata. È membro del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco e direttore della rivista «Archivio di filosofia-Archives of Philosophy» e del Collegio “Lamaro Pozzani”. Fra le sue pubblicazioni più recenti i due volumi pubblicati per la casa editrice Morcelliana: Bioetica. Le domande, i conflitti, le leggi (Brescia 2007) e Undici tesi di bioetica (Brescia 2009). Giuseppe Tognon, allievo e perfezionando della Scuola Normale Superiore di Pisa, è professore ordinario di Storia dell’educazione presso l’Università Lumsa di Roma, dove coordina il Dottorato in Teorie, storia e metodi dell’educazione. Ha insegnato Storia della filosofia moderna all’Università di Venezia e Pedagogia generale all’Università di Pisa. Da anni si occupa anche del problema della trasmissione del sapere e delle politiche della formazione. È presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi. Recentemente ha curato, con G. Capano, il volume La crisi del potere accademico in Italia. Proposte per il governo delle università (Bologna 2009). Francesco Viola è professore ordinario di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. È autore di monografie e saggi riguardanti il pensiero politico di Hobbes, il concetto giuridico di autorità, i diritti umani, il multiculturalismo, il rapporto tra diritto e morale, l’ermeneutica giuridica. Insieme a G. Zaccaria ha pubblicato Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto (Roma-Bari, 6 ed., 2009) e Le ragioni del diritto (Bologna 2003). Ha curato il volume Forme della cooperazione. Pratiche, regole, valori (Bologna 2004) e, insieme a I. Trujillo, Identità, diritti, ragione pubblica in Europa (Bologna 2007).

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Bene architettato per gettare qualche luce nuova sulla sfuggente per il nostro tempo categoria di autorità e arricchire il campo di un dibattito dove le risposte non sono definite l’accelerazione tecnologica complica l’auctoritas e l’interrogazione erompe questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel mese di gennaio dell’anno duemila dieci

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